25 Set 2025, Gio

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Ottavio Ortiz Arrieta Coya, nato a Lima, in Perù, il 19 aprile 1878, è stato il primo salesiano peruviano. Da giovane si formò come falegname, ma il Signore lo chiamò a una missione più alta. Emise la sua prima professione salesiana il 29 gennaio 1900 e fu ordinato sacerdote nel 1908. Nel 1922 fu consacrato vescovo della diocesi di Chachapoyas, incarico che mantenne con dedizione fino alla morte, avvenuta il 1º marzo 1958. Due volte rifiutò la nomina alla più prestigiosa sede di Lima, preferendo restare vicino al suo popolo. Instancabile pastore, percorse tutta la diocesi per conoscere personalmente i fedeli e promosse numerose iniziative pastorali per l’evangelizzazione. Il 12 novembre 1990, sotto il pontificato di San Giovanni Paolo II, fu aperta la sua causa di canonizzazione, e gli fu attribuito il titolo di Servo di Dio. Il 27 febbraio 2017, papa Francesco ne ha riconosciuto le virtù eroiche, dichiarandolo Venerabile.


            Il venerabile Mons. Ottavio Ortiz Arrieta Coya trascorse la prima parte della vita quale oratoriano, studente e quindi diventò egli stesso Salesiano, impegnato nelle opere dei Figli di Don Bosco in Perù. Fu il primo Salesiano formatosi nella prima casa salesiana del Perù, fondata nel Rimac, un quartiere povero, dove imparò a vivere una vita austera di sacrificio. Tra i primi Salesiani che arrivarono in Perù nel 1891, conobbe lo spirito di Don Bosco e il Sistema Preventivo. Come Salesiano della prima generazione apprese che il servizio e il dono di sé sarebbero stati l’orizzonte della sua vita; per questo fin da giovane salesiano assunse importanti responsabilità, come l’apertura di nuove opere e la direzione di altre, con semplicità, sacrificio e totale dedizione ai poveri.
            Visse la seconda parte della vita, dall’inizio degli anni venti, come vescovo di Chachapoyas, diocesi immensa, vacante da anni, in cui le proibitive condizioni del territorio si sommavano a una certa chiusura, soprattutto nei villaggi più sperduti. Qui il campo e le sfide dell’apostolato erano immensi. Ortiz Arrieta era di temperamento vivace, abituato alla vita comunitaria; inoltre delicatissimo d’animo, al punto da venire chiamato “pecadito” nei suoi giovani anni, per la sua esattezza nel rilevare le mancanze e aiutare sé stesso e gli altri a emendarsene. Disponeva inoltre di un innato senso del rigore e del dovere morale. Le condizioni in cui dovette svolgere il ministero episcopale gli si prospettano invece diametralmente opposte: solitudine e sostanziale impossibilità a condividere una vita salesiana e sacerdotale, nonostante le reiterate e quasi supplicanti richieste alla propria Congregazione; necessità di contemperare il proprio rigore morale con una fermezza sempre più docile e quasi disarmata; fine coscienza morale continuamente messa alla prova da grossolanità di scelte e tiepidezza nella sequela, da parte di alcuni collaboratori meno eroici di lui, e di un popolo di Dio che sapeva opporsi al vescovo quando la sua parola diveniva denuncia di ingiustizia e diagnosi dei mali spirituali. Il cammino del venerabile verso la pienezza della santità, nell’esercizio delle virtù, fu pertanto segnato da fatiche, difficoltà e dalla continua necessità di convertire il proprio sguardo e il proprio cuore, sotto l’azione dello Spirito.
            Se senz’altro troviamo nella sua vita episodi definibili come eroici in senso stretto, occorre però evidenziare nel suo cammino virtuoso anche e forse soprattutto quei momenti in cui egli avrebbe potuto agire diversamente, ma non lo fece; cedere all’umana disperazione, mentre rinnovò la speranza; accontentarsi di una carità grande, senza però dare piena disponibilità all’esercizio di quella carità eroica che invece praticò con esemplare fedeltà per diversi decenni. Quando, per due volte, gli venne proposto di cambiare sede, e nel secondo caso gli fu offerta la sede primaziale di Lima, decise di restare tra i suoi poveri, quelli che nessuno voleva, davvero alla periferia del mondo, rimanendo nella diocesi che aveva per sempre sposato e amato così come essa era, impegnandosi con tutto sé stesso a renderla anche solo un poco migliore. Fu pastore “moderno” nel suo stile di presenza e nel ricorso a mezzi di azione come l’associazionismo e la stampa. Uomo di temperamento deciso e di salde convinzioni di fede, Mons. Ortiz Arrieta usò certamente di questo “don de gobierno” nella sua guida, sempre unita però al rispetto e alla carità, espressi con coerenza straordinaria.
            Benché sia vissuto prima del Concilio Vaticano II, tuttavia è attuale il modo in cui egli pianificò e svolse gli incarichi pastorali a lui affidati: dalla pastorale vocazionale al concreto appoggio ai suoi seminaristi e sacerdoti; dalla formazione catechetica e umana dei più giovani a quella pastorale familiare attraverso cui incontra coppie di sposi in crisi o coppie di conviventi restii nel regolarizzare la loro unione. Mons. Ortiz Arrieta del resto non educa solo con la sua concreta azione pastorale, ma con il suo stesso comportamento: con la capacità di discernere per sé stesso, prima di tutto, che cosa significhi e che cosa comporti rinnovare la fedeltà alla strada intrapresa. Egli davvero ha perseverato nella povertà eroica, nella fortezza attraverso le numerose prove della vita e nella radicale fedeltà alla diocesi cui era stato assegnato. Umile, semplice, sempre sereno; tra il serio e il gentile; la dolcezza del suo sguardo faceva trasparire tutta la tranquillità del suo spirito: questo fu il cammino della santità che percorse.
            Le belle caratteristiche che i suoi superiori salesiani riscontrarono in lui prima dell’ordinazione sacerdotale – quando lo definiscono una “perla di salesiano” e ne valorizzano lo spirito di sacrificio – ritornano come una costante in tutta la sua vita, anche episcopale. Davvero si può dire che Ortiz Arrieta si sia «fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22): autorevole con le autorità, semplice con i bambini, povero tra i poveri; mite con chi lo insultava o tentava per rancore di delegittimarlo; sempre pronto a non restituire male per male, ma a vincere il male con il bene (cf Rm 12,21). Tutta la sua vita fu dominata dal primato della salvezza delle anime: una salvezza cui vorrebbe fattivamente dedicati anche i suoi sacerdoti, dei quali prova a contrastare la tentazione di rinserrarsi entro facili sicurezze o trincerarsi dietro incarichi di maggior prestigio, per impegnarli invece nel servizio pastorale. Si può davvero dire che si sia situato in quella misura “alta” della vita cristiana, che ne fa un pastore che incarnò in modo originale la carità pastorale, cercando la comunione nel popolo di Dio, andando verso i più bisognosi e testimoniando una vita evangelica povera.

Da Ángel Card. FERNÁNDEZ ARTIME

Ex Rettor Maggiore dei Salesiani di Don Bosco