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Don Tito Zeman (1915-1969), salesiano slovacco, visse con radicalità evangelica la sua vocazione sacerdotale fino al martirio. Da bambino sperimentò la prova della malattia e, guarito per intercessione di Maria, maturò la decisione di consacrarsi a Dio tra i Salesiani. Ostacolato da famiglia e circostanze, entrò comunque in congregazione e fu ordinato sacerdote nel 1940. Durante la persecuzione comunista in Cecoslovacchia, rischiò la vita per accompagnare clandestinamente oltre il confine numerosi chierici e sacerdoti affinché potessero continuare la formazione e ricevere l’ordinazione. Tradito e arrestato nel 1951, subì torture e 13 anni di durissima prigionia, vivendo il dolore come offerta d’amore. La sua fede fece rinascere molti compagni di cella e persino alcuni persecutori che, pentiti, chiesero perdono. Beatificato nel 2017, don Tito lascia un messaggio attualissimo: la libertà si custodisce nella fedeltà alla coscienza, la verità si difende con amore e la vocazione si realizza donando la vita per gli altri.
1. Sintetico profilo biografico di don Tito Zeman
1.1. Il limite affidato: Tito dalla malattia alla guarigione
Chi è don Tito Zeman?
Nasce a Vajnory, piccolo sobborgo agricolo alle porte di Bratislava, il 4 gennaio 1915, primo di dieci tra fratelli e sorelle. Spesso malato, nella primavera 1925 viene improvvisamente guarito per intercessione di Maria Santissima, dopo essersi affidato a lei e avere chiesto ai pellegrini diretti al Santuario dell’Addolorata di Šaštin di pregare. Tito aveva promesso a Maria che, se lo avesse guarito, «sarebbe divenuto suo figlio per sempre», includendo in questa semplice formula un fermo proposito di consacrazione. A Šaštin l’anno precedente erano arrivati i figli di don Bosco, e il ragionamento del bambino Tito è: «Mi ha guarito la Madonna venerata a Šaštin. Lì abitano i Salesiani. Dunque la casa di Maria è la casa dei Salesiani. Allora sarò Salesiano anche io».
Don Tito aveva sperimentato il limite (della salute) e l’aveva superato affidandolo (a Maria).
1.2. Il limite abbattuto d’impeto: Tito e la conquista della vocazione
Tito non aveva mai accennato a una possibile vocazione.
Genitori e parroco si oppongono fermamente e lo mettono alla prova per due anni. Quando poi una zia lo accompagna finalmente a Šaštin, addirittura prova ad accordarsi con l’allora direttore dell’opera, don Josef Bokor, perché facesse pressioni sul ragazzino onde farlo cedere. Gli Zeman erano molto poveri, spaventati dall’ingente impegno economico richiesto dagli studi per il sacerdozio.
Don Bokor sfida Tito. Gli ricorda che sarebbe stato il più piccolo. Che il posto sorgeva presso una palude e ci si doveva lavare con l’acqua fredda. Che quando avrebbe avuto voglia di piangere, non ci sarebbe stata la mamma a consolarlo. In quel periodo il piccolo Tito era magrissimo, ancora un po’ gracile. Forse dimostrava meno dei suoi 12 anni. Non proveniva da opere salesiane, non conosceva don Bosco. Per don Bokor era un ragazzino venuto fuori dal nulla.
Tito, però, è irremovibile. A un esterrefatto don Bokor risponde: «Cosa dice? È vero, qui non avrò la mia mamma terrena, ma c’è la Vergine Maria, la Madre della madri»: lei gli avrebbe fatto da mamma. Infine conclude: «Potete farmi quello che volete, ma prendetemi qui!». Ai genitori arriva a dire: «Se fossi morto, certo avreste trovato i soldi per il mio funerale. Prego di usare quei soldi per i miei studi». Tito ha lottato, ha sorpreso tutti e ha vinto: sarà sacerdote salesiano.
Le tappe della sua formazione lo portano a emettere i voti perpetui il 7 marzo 1938 a Roma nella Basilica del Sacro Cuore, e ad essere ordinato prete il 23 giugno 1940 a Torino nella Basilica di Maria Ausiliatrice.
Poco prima della professione perpetua, Tito offre a Dio alcuni anni della propria vita per la mamma, allora molto malata e che dopo l’offerta del figlio avrebbe continuato a vivere, regalandogli peraltro l’ultima sorellina (Františka, nata nel 1939).
Subito dopo l’ordinazione sacerdotale, deve invece lasciare l’Italia e rientrare in patria per il dramma della guerra.
Il 2 agosto 1940, in occasione della prima Messa in patria, alcune focacce vengono trovate bruciate all’interno, come di un rosso sangue: l’evento viene interpretato quale presagio di martirio.
Dapprima studente e poi docente di materie scientifiche, laureato in Chimica e in Scienze Naturali, don Tito insegna. Nel 1946, il direttore comunista dell’istituto fa rimuovere dalle aule il simbolo della croce. Tito, con due altri, riappende i crocifissi (se necessario chiedendo ai Salesiani di privarsi dei propri): è un atto d’amore verso il Signore, ma anche di giustizia verso i credenti, cui la Costituzione in quel momento formalmente ancora garantiva una piena espressione delle libertà religiose. Viene licenziato, ma in tutta la Slovacchia inizia a essere identificato come il «sacerdote che si è messo a difesa della croce di Cristo».
Don Tito aveva sperimentato il limite dell’opposizione e l’aveva risolto affrontandolo.
1.3. Il limite previsto e aggirato: Tito e i passaggi della Morava
Uguale prontezza Tito l’ha quando, nel 1950, dopo la Notte dei Barbari (13-14 aprile), tutti i religiosi dell’allora Cecoslovacchia vengono internati in strutture di concentramento; i superiori separati dalle comunità di appartenenza; i più giovani rinviati a casa o arruolati nei battaglioni tecnici ausiliari; quelli prossimi al sacerdozio impossibilitati a terminare gli studi in teologia per venire ordinati. Tito allora, con don Ernest Macák e don František Reves, appronta una coraggiosa impresa a salvezza delle vocazioni. Don Tito avrebbe accompagnato i chierici salesiani e alcuni sacerdoti diocesani nella parte non sovietica dell’Austria, per spingersi poi con gli studenti di teologia fino a Torino.
Compie allora i passaggi della Morava, che segna il confine tra Slovacchia e Austria:
– tra l’agosto e il settembre 1950 (passaggio del primo gruppo);
– nell’autunno 1950 (quando ritorna solo in patria)
– sempre autunno 1950 (quando accompagna il secondo gruppo)
– nel marzo/aprile 1951 (quando ritorna solo in patria, tra grandi rischi e fatiche) – nell’aprile 1951 (quando viene catturato al confine).
Nel settembre 1950, Tito incontra a Torino l’allora Rettor Maggiore don Pietro Ricaldone: egli raccomanda prudenza, ma benedice l’impresa che Tito sino a quel momento – impossibilitato a chiedere una autorizzazione ai propri superiori slovacchi, rinchiusi nei conventi di concentramento – aveva inteso come obbedienza presuntiva.
Nel gennaio 1951 vive un intenso momento di crisi e conversione, che si rivelerà decisivo.
Nell’aprile 1951, è catturato – quando ormai avrebbe potuto mettersi in salvo – perché aveva deciso di rallentare per aiutare alcuni sacerdoti affaticati, ed era rimasto con i suoi amandoli sino alla fine, Buon Pastore che non fugge all’arrivo del lupo, ma dà la vita.
Don Tito aveva intuito il limite e l’aveva gestito prevenendolo e aggirandolo.
1.4. Il limite che si fa luce e cammino: la “vocazione nella vocazione”
Degno di particolare rilevanza diventa, pertanto, il passaggio non “esteriore”, ma “interiore” del gennaio 1951. In quel momento Tito si trovava bloccato in Austria e sapeva che il regime era sulle sue tracce. Lui, uomo del fare e dell’intraprendenza, ora si sperimenta in balía di situazioni che esulano dalla volontà propria: inverno troppo rigido per tentare di guadare la Morava; globale situazione di allerta; una guida fidata, ingiustamente accusata di furto, ancora in carcere; rinvii continui ed esasperanti.
Scrive allora all’amico Michael Lošonský-Želiar una intensa e drammatica lettera. È il 21 gennaio e nella lettera Tito esprime: disorientamento, paura, dubbio, fatica, peso della tentazione. Addirittura scrive: «e se tu finissi nelle loro mani [domanda Tito a sé stesso], potresti chiedere l’aiuto di Dio, perché tre volte è stato cambiato il piano? Non ti è bastato il triplice avviso e davvero volevi fare di te un eroe, come ti è stato detto dagli altri, e hai pensato che Dio avesse i suoi piani […]?». Tito qui ha dimenticato persino la forza e la grazia dell’obbedienza al Rettor Maggiore; nessuna luce brilla dentro di lui…
Pochi giorni dopo Tito scrive però a Michal una seconda lettera. È completamente diversa. Vi riporta e commenta alcuni passi tratti dalla Liturgia della Parola del giorno, da lui proclamata durante la Santa Messa e divenuta intensa esperienza di conversione: soprattutto le frasi del Vangelo («non temete… voi valete più di molti passeri») e della Prima Lettera di Giovanni circa l’obbligo di impegnare la vita per i fratelli.
Attraverso questo passaggio, particolarmente sofferto, Tito si confronta con il proprio limite (paura, angoscia, dubbio): lo supera nella misura in cui lo affida a un Altro, e lascia che la Sua Parola legga la vita e la converta. Le letture di quel giorno diventano la risposta a tutte le domande di Tito; lo scioglimento dei suoi dubbi; la “voce prevalente” che si impone su tante altre voci (anche di confratelli) secondo cui Tito stava sbagliando. Così, durante la novena a Don Bosco del 1951, Tito – sempre forte – per una volta si era sentito debole anch’egli: aveva compreso che i “limiti” e i “confini” non si varcano mai in solitudine. Lo aspettano, dopo poco: 13 anni nelle carceri dure; la concreta eventualità della condanna a morte e poi la definizione come m.u.k.l. o «uomo destinato all’eliminazione»; quasi 5 anni finali in libertà condizionata, sempre pesantemente controllato, vessato e trattato infine come cavia da esperimento.
Don Tito aveva superato il limite assaporandolo.
1.5. Il limite sconfitto dall’interno: 18 anni di torture e vessazioni
Per tutta la parte centrale della vita adulta (cioè dai 36 ai 54 anni appena compiuti) don Tito si vede sottrarre libertà di movimento e iniziativa. È rinchiuso nelle carceri del Castello di Bratislava, di Leopoldov, di Jáchymov, di Mírov, di Valdice…
Nella terribile “Torre della morte” di Jáchymov tritura manualmente l’uranite, fortemente radioattiva e la cui polvere lo impregna totalmente. Sperimenta la terribile realtà delle celle di isolamento. Viene umiliato e picchiato solo perché «è Zeman». Feroci anche la denutrizione e le torture, che per lui si rinnovano quando è chiamato a testimoniare al processo “Don Bokor e compagni”: proprio lui, don Bokor, il direttore che aveva infine dovuto accettarlo quando, dodicenne, Tito gli aveva fatto capire, a Šaštín, che la sua era una vocazione vera…
Tito in carcere costruisce un personalissimo rosario, dove un semplice filo collega tra loro piccoli grani fatti di mollica. Egli fabbricava un granellino per ciascun periodo di torture: diventeranno 58… In carcere vive una profonda identificazione all’Ecce homo: senza di Lui, ammette Tito, nulla gli sarebbe stato sopportabile. Sperimenta intanto una pesante compromissione cardiaca, neurologica e polmonare, direttamente connessa all’abbreviamento della vita.
Sono 18 anni in cui Tito, unito al suo Signore, impara a sconfiggere il limite dall’interno: vince perché un Altro vince in lui, con lui e per lui. Dice Sant’Agostino dei martiri: «Vinse in essi Colui che visse in essi».
Tito in questi anni comprende che il male può aggredire il fisico, non però frangere l’animo, l’adesione a Cristo, la dedizione alla Chiesa. Così, se la sua resistenza morale e spirituale (che i persecutori tentano invano di sconfiggere, anche attraverso alcune torture particolarmente umilianti) porta il regime a infierire ancora di più, egli sperimenta che si può restare liberi anche quando tutto vuole rendere schiavi; che nulla è perso, se nell’istante presente si ama. Così, ha la morte dentro, ma agli altri riesce a dare gioia.
Vive con alcuni (ortodossi e protestanti) un’intensa esperienza di ecumenismo “di sangue”: «nemmeno un Concilio», dicono queste persone, «sarebbe mai riuscito a riunirci così». Il male del comunismo che dilaga ricompone dunque – nei loro cuori riconciliati – un’unità che altro male aveva dilaniato, nei secoli precedenti. La fedeltà di queste amicizie accompagnerà sempre Tito: egli morirà tra le braccia di un padre Cappuccino che aveva lottato come lui in carcere; ai suoi funerali sarà presente il pastore evangelico dott. Jozef Juráš.
Don Tito aveva superato il limite abitandolo.
1.6. Il limite svuotato e riconciliato: dopo la morte di don Tito
L’8 gennaio 1969, giorno della nascita di don Tito al cielo, c’era però come un ultimo limite da abbattere: il riconoscimento da parte del persecutore del proprio errore. Tito aveva perdonato i suoi persecutori da tempo, mantenendo nei loro confronti un eroico silenzio anche nel periodo di libertà condizionata. Ma loro? A “Primavera di Praga” ormai terminata, l’anno prima con il ritorno delle armate sovietiche, sembrava che don Tito (e gli altri) fossero ormai destinati all’oblio: l’ultima parola sulla sua vita restava così scritta dal persecutore stesso.
Il corso degli eventi, però, diviene a questo punto sorprendente.
Ancora in pieno comunismo, nel medesimo 1969, un processo riconosce una prima parte di errori commessi dal tribunale nella condanna di Tito come “agente segreto / spia del Vaticano” e “traditore”: si ammettono brogli, distorsioni, strumentalizzazioni. L’odium fidei diviene evidente. Nel 1991, dopo la caduta del regime, verrà infine fatto cadere anche l’ulteriore capo d’imputazione per “attraversamento illegale dei confini”. Don Tito dunque era innocente. Era lo stesso regime che l’aveva condannato, a condannare se stesso – già a pochi mesi dalla morte di Tito –.
Restava però aperta come una ferita tra Tito e i persecutori.
Gli atti processuali ora confermavano l’innocenza di “Don Tito e compagni”. Tuttavia permaneva l’opposizione e l’odio di alcuni verso di lui e la realtà (cioè la Chiesa e soprattutto il sacerdozio ministeriale) per cui egli aveva dato la vita.
Accadono allora due fatti particolarissimi.
Il dirigente scolastico che nel 1946 aveva causato il licenziamento di don Tito si converte prima di morire, e muore assistito dai conforti dei sacramenti.
Il giudice che aveva fatto condannare Tito a «25 anni di carcere duro senza condizionale con perdita dei diritti civili» (ma per lui era stata chiesta dal procuratore la pena di morte, poi esclusa «per non creare un martire») si converte anch’egli e, più tardi, in ginocchio a Bratislava, chiede pubblicamente perdono per avere condannato degli innocenti: quella ventina di sacerdoti Salesiani che Tito aveva guidato a rischio della vita.
Anche il limite più ostinato da superarsi, quello della durezza del cuore, viene così come “svuotato dall’interno” – dalla potenza di Dio e dal sacrificio di Tito –: si apre al perdono, alla riconciliazione e alla pace. Don Tito aveva sconfitto il limite vanificandolo.
2. Attualità del messaggio di don Tito Zeman, in dialogo con don Ignazio Stuchlý.
Don Tito ha sacrificato la vita a difesa del sacerdozio. Voleva infatti, come precisano le fonti, assicurare alla Chiesa la generazione apostolica successiva, anche in tempo di persecuzione.
Con la sua vita perseguitata e irrisa, don Tito Zeman pare essere molto lontano da quell’incarnazione gioiosa ed esuberante del carisma salesiano, tipica del modo con cui esso viene normalmente presentato. Questo accomuna Tito a don Ignazio Stuchlý, che ha spesso affrontato condizioni difficili e – nei suoi incarichi di governo – ha sempre vissuto la fatica del servire, arrivando letteralmente a togliersi il pane di bocca per sfamare i propri figli.
Entrambi vivono la dinamica del caetera tolle, una dimensione oblativavittimale che li segna nella dimensione pratica del fare e dell’agire, a loro così confacente: don Stuchlý si vede sottrarre a più riprese le opere che aveva dato la vita per edificare; don Tito invece si vede dolorosamente sottratto alla Congregazione che amava, e per molti anni (essenzialmente: dall’arresto nel 1951 al rilascio in libertà condizionata nel 1964) sperimenta il lacerante senso di colpa di sentirsi responsabile per altri Salesiani catturati con lui nell’ambito del “terzo passaggio” del fiume Morava.
Queste caratteristiche della loro vita – di quei misteri del dolore che entrambi hanno pregato con la propria carne – sembrano inoltre renderli piuttosto lontani dal contesto attuale, che tende a rimuove le esperienze del dolore e della morte e si illude di poter riscrivere i requisiti della vita “degna” quando essa sia prestazionalmente efficace e sana; che soffre per nuove forme di ideologia; che assiste – non per requisizione ma per declino – alla contrazione o alla chiusura di tante opere anche in ambito ecclesiale.
Quale può essere dunque – in dialogo con don Stuchlý – il messaggio del beato don Tito Zeman per l’oggi?
2.1. La fecondità di un’opera non si misura in termini di efficienza, ma di efficacia
Sia don Stuchlý sia don Tito sono vissuti in circostanze storiche penalizzanti. L’obbedienza ha chiamato entrambi a compiere cose grandi quando, a una logica umana, nulla avrebbe dovuto ragionevolmente essere intrapreso.
Tito Zeman prova addirittura a scardinare dall’interno il progetto del regime comunista di abbattere la Chiesa.
Ignazio Stuchlý vive e lavora in condizioni di precarietà cronica, dove alla rapida fioritura delle opere salesiane (dovuta in ampia parte alla sua dedizione incondizionata) si alterna l’imminente crollo di tali opere sotto la pressione di eventi esterni. Egli inoltre, come comprovato dagli Atti processuali, conobbe con ampio anticipo – per «quella luce – come argomenta un testimone – che talvolta si accende nelle anime dei santi» e che è puro dono dello Spirito – che l’opera salesiana ceca sarebbe stata dispersa e che egli sarebbe morto in solitudine. Perciò, non solo lavorò in condizioni estreme, ma lavorò con immutata dedizione e gioia, pur sapendo che incombeva una fine drammatica.
Tito e Ignazio insegnano che le superiori esigenze dell’obbedienza a Dio e alla Chiesa esortano ad agire pur prevedendo che i frutti esteriori di tali opere avranno durata breve, o potranno apparire limitati e precari.
Tito si impegna nei passaggi sapendo che gli sarebbe stato impossibile salvare tutti o molti chierici salesiani: ma solo alcuni (che egli sceglieva in base a resistenza fisica [necessaria per un viaggio a piedi, a nuoto attraverso la Morava, e nelle Alpi austriache e alto-atesine tra temperature rigide] e attitudine allo studio).
Don Stuchlý prevedeva che ad alcuni giovani sarebbe mancata la perseveranza; e riscontrava come i numeri della nascente Congregazione salesiana in Cechia restassero, pur se in alcuni anni promettenti, ciò nondimeno bassi rispetto alle molteplici esigenze della Chiesa locale.
Né Tito né don Stuchlý però se ne sono lasciati scoraggiare.
Per loro, la bontà di un’impresa non coincide con una sua qualificata ricaduta esterna. Come Abramo lascia il proprio paese fidandosi, o i discepoli seguono Gesù senza ancora ben conoscerlo, e solo dopo e in retrospettiva comprendono il perché di quei gesti, in apparenza irragionevoli, così Tito e Stuchlý agiscono in un momento di fatica, di oscurità, di non piena chiarezza: non è vero che la verità di una ricerca appare solo in tempo di luce meridiana e di illuminazioni interiori. Persino Tito, come abbiamo letto, riceve la luce decisiva nel gennaio 1952 (ma si dedicava ai passaggi dall’estate 1951).
Tito e Stuchlý, come la sposa del Cantico dei cantici (significante la Chiesa), si “alzano” ed “escono” a cercare “l’amato del loro cuore” quando ancora è buio, senza attendere l’evidenza della piena luce, perché allora sarebbe stato troppo tardi. E non è questo metodo “preventivo” alla maniera di don Bosco? Un “metodo” preventivo che ha sapore profetico, come profonda capacità di cogliere i segni dei tempi?
Oggi, noi sappiamo che molti dei giovani accompagnati da Tito sono diventati sacerdoti salesiani validi: ma al tempo erano ragazzi, anche un po’ indisciplinati e che lui qualche volta dovette sgridare.
Oggi sappiamo che tra i giovani seguiti da Ignazio a Perosa Argentina si trovavano un futuro cardinale (Trochta) ed altre figure rilevanti per la Chiesa: ma allora erano giovani affastellati in un gruppo che non brillava per esemplarità, tra cui qualcuno scappava dalla casa salesiana senza avvertire, e in cui qualcun altro persino aveva rubato le offerte in chiesa.
L’efficacia di un’opera, così, non necessariamente è correlata alla sua efficienza o alla sua “sostenibilità” immediata.
Tito pronuncia una frase in apparenza bella, in realtà sconvolgente e terribile: «La mia vita non sarà sprecata, se solo uno (se almeno uno) dei ragazzi da me accompagnati diventerà sacerdote». Uno solo: cioè, una sola vita, un solo prete, vale 18 anni di terribili torture fisiche, psichiche, morali e spirituali. E li vale ampiamente.
Siamo noi – consacrati o laici a vario titolo legati alla Famiglia Salesiana – capaci di questo, anche tra gli inevitabili condizionamenti esterni, aspettative e fatiche?
2.2. Farsi accompagnatori dei giovani senza sostituirsi ad essi nella fatica della scelta
Don Tito ha trascorso la maggior parte della propria vita adulta lontano dai giovani: nelle carceri, lottò e soffrì piuttosto insieme a coetanei. Eppure, i suoi pochi anni di accompagnamento della realtà giovanile forniscono preziosi elementi di discernimento su come accompagnare i giovani. Ne richiamo brevemente alcuni.
– I “giovani” incontrati da Tito.
Don Tito è stato accanto ai giovani per pochi anni, ma in una molteplicità di contesti:
– come assistente;
– come docente di materie scientifiche;
– come buon sportivo che li coinvolgeva nella dimensione del gioco (soprattutto a pallavolo o al ping-pong dove era molto bravo);
– come figura di supporto quando i Salesiani giovani erano costretti ai lavori forzati alla diga di Púchov-Nosice;
– nei passaggi della Morava per salvare il loro sacerdozio;
– come fratello, anche se schierato su un fronte opposto della storia rispetto a loro: lui, prete salesiano, in carcere viene torturato soprattutto da agenti giovani o molto giovani;
– come testimone sofferente della fede, negli ultimi anni, quando a Vajnory viveva in casa del fratello ed era costretto a lavorare in fabbrica, divenendo intanto un “secondo padre” per i nipotini.
Egli inoltre ha incontrato persone meno giovani anagraficamente, ma “ridivenute giovani” perché aiutate a ricominciare a vivere. Per esempio:
– i carcerati, spesso criminali imputati di reati gravi o addirittura assassini, incontrati in carcere: a loro egli porta il primo annuncio della fede cristiana. Sono credenti giovani perché mai nessuno aveva loro parlato di Gesù, ma Tito e altri sacerdoti hanno il coraggio di farlo, sfidando le ritorsioni dei carcerieri;
– i suoi stessi persecutori, alcuni dei quali vivono un’intensa conversione e pertanto “rinascono dall’alto”, secondo la parola del Vangelo;
– infine tutti quei prigionieri che egli aiuta ad accostarsi ai sacramenti (nelle carceri la comunione veniva per esempio distribuita clandestinamente in attesa della visita medica, e per concordare le confessioni si ricorreva a stratagemmi come spostare la posizione del berretto o fermarsi a riallacciarsi le scarpe); e tutti quegli altri prigionieri ai quali egli regala le percentuali di margine del proprio lavoro perché ottenessero dei bonus in cibo, così preziosi per la sopravvivenza e capaci quindi di ritardare il declino delle forze.
Rispetto a ciascuna di queste categorie di persone, Tito attua una intensa pastorale in stile salesiano, sia come docente e sacerdote, sia ancora in carcere, quando si trova ultimo tra gli ultimi, come don Bosco mandato tra i carcerati di Torino. Tito è dunque un padre che protegge, custodisce e nutre.
– “Con” i giovani, mai “al posto” dei giovani.
Nella grande diversità di interlocutori giovani, un dato ricorrente contraddistingue l’atteggiamento di Tito: egli ha esposto la propria vita per restare al loro fianco.
Tuttavia mai, nemmeno nelle situazioni più drammatiche, Tito si è sostituito a loro. Il suo appoggio di educatore ne ha risvegliato le coscienze e ne ha allenato la libertà. Mai, però, Tito ha indotto comportamenti facilitanti, né ha illuso i giovani con un atteggiamento buonista. Tito sapeva che una persona viene educata anzitutto mettendola davanti alle conseguenze – talvolta drammatiche – delle proprie azioni.
Così, docente di materie scientifiche, guida i ragazzi nel ragionamento, ma lascia che siano loro a trovare la soluzione.
Come sportivo, non permette loro di “vincere facile”, ma attraverso la dinamica serissima del gioco li sfida perché imparino a essere uomini, perché tirino fuori il carattere.
Come loro supporto quando li raggiunge alla diga di Púchov-Nosice, Tito si presentava in borghese eludendo la vigilanza delle guardie nel superare i controlli: ma non ha mai usato della propria bravura per farli scappare.
Come responsabile dei passaggi segreti attraverso la Morava, Tito non accetta ogni giovane, ma i soli ritenuti idonei: anche se rifiutare una persona significava esporla alla vita durissima sotto il regime. Inoltre Tito informava i chierici sui rischi che correvano – fucilazione immediata compresa – e imponeva loro, individualmente, di riservarsi mezz’ora di riflessione orante prima di confermare la propria partecipazione alle spedizione (che bello, se – come recitando il rosario ci si ricordasse di quei “58 grani” – durante la mezz’ora di meditazione al mattino ognuno pensasse che in quel lasso di tempo alcuni giovani hanno deciso di esporre la propria vita per amore al sacerdozio e alla Chiesa!).
In carcere, Tito è il primo pronto ad aiutare. Tuttavia rinuncia a fornire supporto qualora ciò presupponga scendere a patti con il regime. Per esempio: viene punito per avere aiutato un prigioniero a entrare in possesso di una matita (scrivere in carcere era vietato); però riafferma con coraggio la propria dignità di sacerdote, anche se ciò gli causa trasferimenti o ritorsioni, con conseguente distacco dalle persone per cui era diventato un punto di riferimento.
Don Tito, facendo propria la consapevolezza che era stata di Edith Stein, lei stessa martire di un regime totalitario, ricorda che «non bisogna accettare alcuna verità che sia priva di amore, né alcun amore che sia privo di verità». Perciò, egli difende la verità anche se questo implicava smettere di amare sensibilmente alcune persone, perché separato da loro per punizione.
Ormai in libertà vigilata, rifiutava di stringere la mano a persone colluse con il regime: non le condannava, ma evitava che gesti di apparente amicizia facessero dimenticare il suo disaccordo per la rischiosa ambiguità in cui esse vivevano. Voler bene non è essere dolci o accondiscendenti ad ogni costo!
Tito così, nella misura in cui ha potuto, è sempre rimasto con i giovani e tra i giovani. Tuttavia non ha mai inteso sostituirsi ad essi, né illuderli in alcun modo. Per lui, dare la vita per i giovani era anzitutto aiutare i giovani a diventare protagonisti responsabili della loro vita. Che poi Tito stesso li educasse alla normalità delle persecuzioni nella storia della Chiesa, dimostra come egli li abbia amati senza dissimulare alcun rischio né fatiche.
Oggi molti genitori, professori ed educatori credono di turbare i giovani se li espongono troppo, se ne interpellano la coscienza con domande radicali. Don Tito, con la sua radicalità, ha sempre saputo sfidare i giovani: ma è anche rimasto al loro fianco, perché non si scoraggiassero. E i giovani – contrariamente a quanto oggi molti educatori riterrebbero – hanno compreso Tito e gli sono stati grati.
Ricordate la mezz’ora di meditazione in cui ciascuno, prima di partire per la Morava, doveva decidersi in piena libertà? Ebbene, nessuno ha mai rinunciato. Tutti hanno sempre scelto di rimanere con Tito…
2.3. Avere il coraggio di dire no. Una pastorale vocazionale responsabilizzante
Sia don Tito, martire per la salvezza delle vocazioni, sia don Stuchlý, formatore della prima generazione di Salesiani cechi e in parte slovacchi, sono stati coinvolti nelle sfide, nella bellezza e nelle urgenze della pastorale vocazionale.
C’è un dato che li accomuna. Essi hanno sempre attuato il discernimento e accompagnato nel discernimento privilegiando:
– i fatti rispetto alle parole,
– le azioni rispetto alle intenzioni,
– gli effetti rispetto alle cause
pur se hanno saputo anche:
– valorizzare il sentire interiore del giovane,
– pazientare per lui impaziente,
– riaccoglierlo a braccia aperte quando, avendo sbagliato, riconoscesse il proprio errore.
Tito aveva incontrato don Bokor, maestro nell’aiutarlo subito a fare verità su fatiche, difficoltà e rischi del “sì”. Ignazio era stato messo alla prova da padre Angel Lubojacký.
Le lettere di don Ignazio Stuchlý ai giovani – tratte dalle Fonti Documentali e già commentate – dimostrano inoltre la grande fermezza del servo di Dio a tal proposito: anche un dettaglio che oggi a molti potrebbe apparire irrilevante – la mancata progressione nel rendimento in Latino di un ragazzo intellettivamente dotato – poteva diventare importante. Buone capacità relazionali, desiderio di far proprie le dinamiche oratoriane e “amore” per don Bosco diventavano parole vuote, se intanto si tralasciava un piccolo dovere e si smetteva di essere di esempio ai compagni.
Al contrario, chi faceva fatica e necessitava di più tempo veniva sempre seguito con particolare benevolenza e amore. Le Testimonianze riportano il commuovente caso di Josef Vandík, poi Salesiano sacerdote, allora così scarso in Latino da essere arrivato a disperare del proprio futuro. Don Stuchlý allora lo prese a cuore e nella propria cameretta gli dava ripetizione private, finché divenne tra i migliori della classe. Troviamo scritto:
Ricordo che avevo grande difficoltà a capire il passivo del verbo latino. Quando vide il mio sconforto, mi prese con sé nella sua cameretta; mi spiegò tutto e mi animò a non perdere la fiducia, ma a invocare invece lo Spirito Santo. Ed io, consolato, dopo un mese ero sempre qualche lezione avanti ai compagni.
A Stuchlý non interessava il rendimento in “termini assoluti” (una valutazione su base meramente prestazionale gli era infatti del tutto estranea!): bensì la rettitudine d’animo, la sincerità del cuore e la costanza nell’impegno.
Dunque sia Tito sia Ignazio, paradossalmente, hanno accompagnato qualificate vocazioni perché hanno saputo dire «no» a molti: Tito rifiutandoli per i passaggi, Ignazio, per esempio, rimandandone molti a casa nei delicati anni 1925-1927 a Perosa Argentina.
Anche questo è un dato su cui riflettere, alla luce del Sinodo su I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Ascoltare i giovani è fondamentale: tuttavia tale ascolto non deve degenerare in passività. Il giovane stesso chiede di essere guidato, se necessario con parole ferme e decisioni forti. Solo allora, lui così sfidante, capisce che gli adulti fanno sul serio, che ciò in cui credono e per cui impegnano la vita è degno di fede…: non è un caso che alcuni ragazzi, allontanati dai Salesiani, volentieri venissero riammessi da don Stuchlý perché avevano capito gli errori del passato. Ma era stato necessario mostrare loro tali errori con una certa fermezza.
2.4. Un’applicazione “estrema” del Sistema Preventivo
Sia Tito sia Ignazio, poi, hanno applicato il Sistema Preventivo di don Bosco in modo per così dire “estremo”. Tale sistema consiste nel «mettere – se fosse possibile – il giovane nell’impossibilità stessa di peccare». Quando, nel pieno Novecento, le ideologie rappresentavano esse stesse una struttura di peccato, Tito ha sacrificato la vita per portare i giovani fisicamente lontani dal male in arrivo. Don Stuchlý ha incoraggiato la fedeltà al carisma anche quando veniva irriso e contrastato.
Entrambi, infine, hanno compreso che i giovani – assetati di risposte – non possono vivere in assenza di modelli validi. «Allontanarli dal male» significava allora «proporre loro un bene, anzi ogni Bene, il sommo Bene» (per usare le parole di san Francesco): per questo entrambi danno la vita. Tito in modo più rapido, morendo a soli 54 anni. Don Stuchlý esponendosi all’usura di un’esistenza lunga e operosa, in cui gli era chiesto di mantenere, per il bene dei giovani, il ritmo di un giovane quando era già anziano.
Non devono dunque troppo stupire le parole con cui entrambi sono ricordati al momento della morte.
Don Ignazio Stuchlý viene paragonato a un altro san Giovanni Maria Vianney e al profeta Elia, il cui spirito ora è invocato sui Salesiani. Ai funerali di don Tito, don Andrej Dermek dice:
È possibile dire che tutto ciò che ci fu tra la sua prima Messa e il suo funerale è stato pieno di vita sacerdotale, religiosa e salesiana! […] Penso di poter a tuo nome, caro Tito, proclamare che questo tuo destino non l’hai rifiutato, non hai avuto paura, non ne sei stato scontento! L’hai accettato con sottomissione, in pace e con gioia. Chi sa cosa con la tua prematura morte ci redimi! C’è ancora una cosa che devo dire in questo posto e in questo momento: quello che hai intrapreso non è stata un’avventura, non è stata incoscienza né desiderio di clamore. Solo è stato amore per le anime. Non hai mai tradito il tuo popolo, nemmeno quando sei stato giudicato e condannato. Non aver paura, caro Tito. Il tuo sacerdozio non termina oggi, ma continua nel sacerdozio di quelli, ai quali hai reso possibile diventare sacerdoti. Alcune decine di preti-salesiani ti ringraziano per il loro sacerdozio. Sono dispersi in tutto il mondo. E l’albero deve estinguersi perché fioriscano i germogli […] e quell’albero sei stato tu, Tito.