Un pergolato di rose (1847)

I sogni di don Bosco sono doni dall’Alto per orientare, avvertire, correggere, incoraggiare. Alcuni di loro sono stati fissati per iscritto e si sono conservati. Uno di questi – fatto all’inizio della missione del santo dei giovani – è quello del pergolato di rose, fatto nel 1847. Lo presentiamo integralmente.

            Nel 1864 una sera dopo le orazioni radunava a conferenza nella sua anticamera, come era solito a fare di quando in quando, coloro che già appartenevano alla sua Congregazione: tra i quali D. Alasonatti Vittorio, D. Michele Rua, D. Cagliero Giovanni, D. Durando Celestino, D. Lazzero, Giuseppe e D. Barberis Giulio. Dopo aver loro parlato del distacco dal mondo e dalle proprie famiglie per seguire l’esempio di N. S. Gesù Cristo, continuò in questi termini:
            Vi ho già raccontato diverse cose in forma di sogno, dalle quali possiamo argomentare quanto la Madonna SS. ci ami e ci aiuti; ma giacché siamo qui noi soli, perché ognuno di noi abbia la sicurezza essere Maria Vergine che vuole la nostra Congregazione e affinché ci animiamo sempre più a lavorare per la maggior gloria di Dio, vi racconterò non già la descrizione di un sogno, ma quello che la stessa Beata Madre si compiacque di farmi vedere. Essa vuole che riponiamo in Lei tutta la nostra fiducia. Io vi parlo in tutta confidenza, ma desidero che quanto io sono per dirvi, non si propali ad altri della Casa, o fuori dell’Oratorio, affinché non si dia appiglio alle critiche dei maligni.

            Un giorno dell’anno 1847 avendo io molto meditato sul modo di far del bene, specialmente a vantaggio della gioventù, mi comparve la Regina del cielo e mi condusse in un giardino incantevole. Ivi era come un rustico, ma bellissimo e vasto porticato, fatto a forma di vestibolo. Piante rampicanti ne ornavano e fasciavano i pilastri e coi rami ricchissimi di foglie e di fiori protendendo in alto le une verso le altre le loro cime ed intrecciandosi vi stendevano sopra un grazioso velario. Questo portico metteva in una bella via, sulla quale a vista d’occhio si prolungava un pergolato incantevole a vedersi, che era fiancheggiato e coperto da meravigliosi rosai in piena fioritura. Il suolo eziandio era tutto coperto di rose. La Beata Vergine mi disse:
            – Togliti le scarpe!
            E poiché me l’ebbi tolte, soggiunse:
            – Va avanti per quel pergolato: è quella la strada che devi percorrere.
            Fui contento di aver deposto i calzari perché mi avrebbe rincresciuto calpestare quelle rose, tanto erano vaghe. E cominciai a camminare; ma subito sentii che quelle rose celavano spine acutissime, cosicché i miei piedi sanguinavano. Quindi, fatti appena pochi passi, fui costretto a fermarmi e poi a ritornare indietro.
            – Qui ci vogliono le scarpe, dissi allora alla mia guida.
            – Certamente, mi rispose: ci vogliono buone scarpe.
            – Mi calzai e mi rimisi sulla via con un certo numero di compagni, i quali erano apparsi in quel momento, chiedendo di camminar meco. Essi mi tennero dietro sotto il pergolato, che era di una vaghezza incredibile; ma avanzandomi quello appariva stretto e basso. Molti rami scendevano dall’alto e rimontavano come festoni; altri pendevano perpendicolari sopra il sentiero. Dai fusti dei rosai altri rami si protendevano di qua e di là ad intervalli, orizzontalmente; altri formando talora una più folta siepe, invadevano una parte della via; altri serpeggiavano a poca altezza da terra. Erano però tutti rivestiti di rose, ed io non vedeva che rose ai lati, rose di sopra, rose innanzi ai miei passi. Io mentre ancora provava vivi dolori nei piedi e alquanto mi contorceva, toccava le rose di qua e di là e sentii che spine ancora più pungenti stavano nascoste sotto di quelle. Tuttavia andai avanti. Le mie gambe si impigliavano nei rami stesi per terra e ne rimanevano ferite; rimoveva un ramo traversale, che mi impediva la via oppure per schivarlo rasentava la spalliera, e mi pungevo e sanguinavo non solo nelle mani, ma in tutta la persona. Al di sopra le rose che pendevano, celavano pure grandissima quantità di spine, che mi si infiggevano nel capo. Ciò non per tanto, incoraggiato dalla Beata. Vergine proseguii il mio cammino. Di quando in quando però mi toccavano eziandio punture più acute e penetranti, che mi cagionavano uno spasimo ancor più doloroso.
            Intanto tutti coloro, ed erano moltissimi, che mi osservavano a camminare per quel pergolato dicevano: Oh! come D. Bosco cammina sempre sulle rose: egli va avanti tranquillissimo; tutto gli va bene. Ma essi non vedevano le spine che laceravano le mie povere membra. Molti chierici, preti e laici da me invitati si erano messi a seguitarmi festanti, allettati dalla bellezza di quei fiori; ma quando si accorsero che si doveva camminare sulle spine pungenti e che queste spuntavano da ogni parte, incominciarono a gridare dicendo: Siamo stati ingannati! Io risposi:
            – Chi vuol camminare deliziosamente sulle rose torni indietro: gli altri mi seguano.
            Non pochi ritornarono indietro. Percorso un bel tratto di via, mi rivolsi per dare uno sguardo ai miei compagni. Ma qual fu il mio dolore quando vidi che una parte di questi era scomparsa, ed un’altra parte mi aveva già voltate le spalle e si allontanava. Tosto ritornai anch’io indietro per richiamarli, ma inutilmente, poiché neppure mi davano ascolto. Allora incominciai a piangere dirottamente ed a querelarmi dicendo:
            – Possibile che debba io solo percorrere tutta questa via così faticosa?
            Ma fui tosto consolato. Vedo avanzarsi verso di me uno stuolo di preti, di chierici e di secolari, i quali mi dissero: Eccoci; siamo tutti suoi, pronti a seguirla. Precedendoli mi rimisi in via. Solo alcuni si perdettero d’animo e si arrestarono, ma una gran parte di essi giunse con me alla meta.
            Percorso in tutta la sua lunghezza il pergolato, mi trovai in un altro amenissimo giardino, ove mi circondarono i miei pochi seguaci, tutti dimagriti, scarmigliati, sanguinanti. Allora si levò un fresco venticello e a quel soffio tutti guarirono. Soffiò un altro vento e come per incanto mi trovai attorniato da un numero immenso di giovani e di chierici, di laici coadiutori ed anche di preti, che si posero a lavorare con me guidando quella gioventù. Parecchi li conobbi, di fisonomia, molti non li conosceva ancora.
            Intanto, essendo io giunto ad un luogo elevato del giardino mi vidi innanzi un edifizio monumentale sorprendente per magnificenza di arte, e varcatane la soglia, entrai in una spaziosissima sala, di tale ricchezza che nessuna reggia al mondo può vantarne una eguale. Era tutta sparsa e adorna di rose freschissime e senza spine dalle quali emanava una soavissima fragranza. Allora la Vergine SS., che era stata la mia guida, mi interrogò:
            – Sai che cosa significa ciò che tu vedi ora, e ciò che hai visto prima?
            – No, risposi: vi prego di spiegarmelo.
            Allora Ella mi disse:
            – Sappi che la via da te percorsa tra le rose e le spine significa la cura che tu hai da prenderti della gioventù: tu vi devi camminare colle scarpe della mortificazione. Le spine per terra rappresentano le affezioni sensibili, le simpatie o antipatie umane che distraggono l’educatore dal vero fine, lo feriscono, lo arrestano nella sua missione, gli impediscono di procedere e raccogliere corone per la vita eterna. Le rose sono simbolo della carità ardente che, deve distinguere te e tutti i tuoi coadiutori. Le altre spine significano gli ostacoli, i patimenti, i dispiaceri che vi toccheranno. Ma non vi perdete di coraggio. Colla carità e colla mortificazione, tutto supererete e giungerete alle rose senza spine.
            Appena la Madre dì Dio ebbe finito di parlare, rinvenni in me e mi trovai nella mia camera.
            D. Bosco, che aveva intesa la qualità del sogno, concludeva affermando che dopo quel tempo vedeva benissimo la strada che doveva percorrere, che le opposizioni e le arti colle quali si tentava di arrestarlo, gli erano già palesi e che sebbene molte dovessero essere le spine tra le quali aveva da camminare, era certo, sicuro della volontà di Dio e del riuscimento della sua grande intrapresa.
            Con questo sogno D. Bosco era avvisato eziandio di non scoraggiarsi per le defezioni che sarebbero avvenute fra coloro che parevano destinati a coadiuvarlo nella sua missione. I primi che si allontanano dal pergolato, sono i preti diocesani ed i secolari, che sul principio si erano consacrati all’Oratorio festivo. Gli altri che sopraggiungono, rappresentano i Salesiani, ai quali è promesso l’aiuto e il conforto divino, figurato dal soffiare del vento. Più tardi D. Bosco manifestò essersi ripetuto questo sogno o visione in anni diversi, cioè nel 1848 e nel 1856, e che ogni volta gli si presentava con. qualche variazione di circostanze. Noi qui le abbiamo collegate in un solo racconto, per non dar luogo a superflue ripetizioni.
(MB III, 32-36)




Don Bosco nelle Isole Salomone

Accompagnati da un salesiano locale, andiamo a conoscere una presenza educativa significativa in Oceania.

            La presenza di Don Bosco ha raggiunto ogni continente del mondo, possiamo dire che manca solo l’Antartide, e anche nelle isole dell’Oceania si sta diffondendo il carisma salesiano, che ben si adatta alle differenti culture e tradizioni.
            Da quasi 30 anni anche nelle Isole Salomone, Paese del Pacifico sudoccidentale che comprende oltre 900 isole, operano i salesiani. Arrivarono il 27 Ottobre 1995, su richiesta dell’arcivescovo emerito Adrian Smith, e iniziarono il lavoro con tre confratelli dal Giappone, i primi pionieri salesiani nel Paese. Inizialmente si trasferirono a Tetere, nella parrocchia di Cristo Re, nella periferia della capitale Honiara, sull’isola di Guadalcanal, e successivamente aprirono un’altra presenza a Honiara, nella zona di Henderson. I salesiani che lavorano nel Paese sono meno di dieci e provengono da diversi Paesi dell’Asia e dell’Oceania: Filippine, India, Korea, Vietnam, Papua Nuova Guinea e Isole Salomone.

            Le Isole Salomone sono un Paese molto povero della regione oceanica della Melanesia, che sin dall’indipendenza del 1978 ha conosciuto tanta instabilità politica e problemi sociali, attraversando conflitti e violenti scontri etnici al suo interno. Sebbene conosciute come le “Isole Felici”, il Paese si sta gradualmente allontanando da questa identità, poiché sta affrontando ogni tipo di sfida e problema che deriva dall’abuso di droghe e alcol, dalla corruzione, dalle gravidanze precoci, dalle famiglie distrutte, dalla mancanza di opportunità di lavoro e di istruzione e così via, ci racconta il salesiano Thomas Bwagaaro che ci accompagna in questo articolo.

            Le Isole Salomone hanno una popolazione stimata di circa 750.000 persone e la maggioranza è costituita da giovani. La popolazione è prevalentemente melanesiana, con alcuni popoli micronesiani, polinesiani e altri. La maggioranza della popolazione è cristiana, ma ci sono anche altre fedi come la Fede Bahai e l’Islam che si stanno gradualmente facendo strada nel Paese. I paesaggi marini paradisiaci e la ricchissima biodiversità rendono queste isole un luogo affascinante e fragile allo stesso tempo. Ci dice Thomas che i giovani sono generalmente docili e sognano un futuro migliore. Tuttavia, con l’aumento della popolazione e la mancanza di servizi e perfino di uno spazio per ricevere un’istruzione superiore, sembra che i giovani di oggi siano generalmente frustrati nei confronti del governo e che molti giovani ricorrano alla criminalità, come lo spaccio di droghe illegali, l’alcol, i borseggi, i furti e così via, soprattutto in città, solo per guadagnarsi un reddito. In questa situazione non semplice, i salesiani si rimboccano le maniche per offrire speranze di futuro.

            Nella comunità di Tetere il lavoro si concentra nella scuola, un centro di formazione professionale che offre corsi di agraria, e nella parrocchia di Cristo Re. Oltre ai corsi formali di istruzione, nella scuola ci sono spazi da gioco per gli studenti, i giovani che frequentano la parrocchia e le comunità che vivono nella stessa zona, e nel fine settimana è aperto l’oratorio. La sfida che la comunità si trova ad affrontare è la distanza da Honiara e la mancanza di risorse necessarie per aiutare la scuola a soddisfare il benessere degli studenti. Per quanto riguarda la parrocchia, la cattiva condizione delle strade che conducono ai villaggi è una delle principali preoccupazioni, che spesso contribuisce a problemi ai veicoli e, quindi, rende più difficile il trasporto.

            La comunità di Honiara-Henderson porta avanti una scuola tecnica professionale che si rivolge ai giovani e alle giovani che hanno abbandonato la scuola e non hanno la possibilità di proseguire gli studi. I corsi tecnici vanno dalla tecnologia elettrica, alla fabbricazione di metalli e alla saldatura, all’amministrazione di uffici commerciali, all’ospitalità e al turismo, alla tecnologia dell’informazione, alla tecnologia automobilistica, alla costruzione di edifici e al corso sull’energia solare.
            Oltre a questo, la comunità sostiene anche un centro di apprendimento che si rivolge principalmente ai bambini e ai ragazzi della discarica di Honiara e delle comunità circostanti la scuola che non hanno la possibilità di frequentare le scuole normali.

Tuttavia, a causa della mancanza di strutture, non tutti possono essere ospitati nel centro, nonostante gli sforzi di tutta la comunità. Seguendo il Sistema Preventivo di Don Bosco, i salesiani non si limitano ad offrire opportunità educative, ma si occupano anche dell’aspetto spirituale degli studenti attraverso vari programmi e attività religiose, per formarli ad essere “buoni cristiani ed onesti cittadini”. Attraverso i suoi programmi, la scuola salesiana trasmette ai ragazzi messaggi positivi e li educa alla disciplina e all’equilibrio, per evitare che cadano nei problemi di abuso di droghe e alcol, molto diffusi tra i giovani. Una sfida che la comunità salesiana si trova ad affrontare per offrire un’educazione di qualità è la formazione del personale, affinché sia sempre professionale e allo stesso tempo condivida i valori carismatici salesiani, con spirito di corresponsabilità educativa. La scuola ha bisogno di missionari laici e di volontari che si impegnino ad aiutare i giovani a realizzare i loro sogni e a diventare una versione migliore di sé stessi.
Anche se la situazione attuale del Paese sarà probabilmente più difficile negli anni a venire, ci racconta Thomas: “credo che i giovani delle Isole Salomone desiderino e sperino in un futuro migliore, desiderino persone che li ispirino a sognare, che li accompagnino, che li ascoltino e li guidino a sperare e a guardare oltre le sfide e i problemi che sperimentano continuamente ogni giorno, soprattutto quando migrano in città”.

            Ma come può nascere la vocazione alla vita consacrata salesiana nelle isole Salomone?
Thomas Bwagaaro è uno degli unici due salesiani provenienti dalle Isole Salomone. “È un privilegio per me lavorare per i giovani nel mio Paese. Come locale, avere a che fare con i giovani e ascoltare le lotte che a volte affrontano mi dà forza e coraggio per essere un buon salesiano.” Il lavoro educativo e la testimonianza personale di vita possono essere fonte di ispirazione per altri giovani che vogliano unirsi alla congregazione salesiana e continuare il sogno di Don Bosco di aiutare i giovani in questa regione, come è accaduto nella storia di Thomas. Il suo percorso per diventare salesiano è iniziato come studente del Don Bosco Tetere nel 2011. Ispirato dal modo in cui i salesiani interagivano con gli studenti, è rimasto affascinato e ricorda i due anni trascorsi lì come la migliore esperienza studentesca, che gli ha donato la speranza e la possibilità di sognare un futuro luminoso, nonostante la situazione difficile e la mancanza di opportunità. Il percorso vocazionale in comunità è iniziato con la partecipazione ai momenti di preghiera dei Salesiani, al mattino e alla sera, con un graduale e crescente senso di condivisione. Così, nel 2013, Thomas è entrato nell’aspirantato salesiano “Savio Haus” a Port Moresby, in Papua Nuova Guinea, frequentando per quattro anni il collegio insieme ad altri compagni. La formazione salesiana di chiaro stampo internazionale è proseguita nelle Filippine, a Cebu, con il prenoviziato e il successivo noviziato, al termine del quale Thomas ha emesso i suoi primi voti come salesiano presso il Santuario di Maria Ausiliatrice a Port Moresby proprio nella solennità di Maria Ausiliatrice, il 24 Maggio 2019. Poi è tornato nelle Filippine per lo studio della filosofia e finalmente è tornato nella visitatoria “PGS”, ovvero la provincia salesiana che comprende Papua Nuova Guinea e Isole Salomone. “Come salesiano locale, sono molto grato alla mia famiglia che mi ha sostenuto con tutto il cuore e ai confratelli che mi hanno dato il buon esempio e che mi hanno accompagnato nel mio cammino di giovane salesiano.” La vita religiosa, accanto ai giovani insieme a tanti laici esemplari, continua ad essere ancora oggi rilevante come lo è stata in passato. “Guardando al futuro, posso dire con sicurezza che le Isole Salomone continueranno ad avere molti giovani e la necessità di Salesiani, volontari salesiani e partner missionari laici per continuare questo meraviglioso apostolato di aiutare i giovani ad essere buoni cristiani e onesti cittadini sarà molto attuale.”

Marco Fulgaro




Intervista a Philippe BAUZIERE, ispettore Brasile Manaus

Abbiamo chiesto a don Philippe BAUZIERE, nuovo ispettore di Brasile Manaus (BMA) che ci risponda a qualche domanda per i lettori del Bollettino Salesiano OnLine.

Don Philippe Bauzière è nato a Tournai, in Belgio, il 2 febbraio 1968. Ha svolto il noviziato salesiano presso la casa di Woluwe-Saint-Lambert (Bruxelles) e ha emesso la prima professione, sempre a Bruxelles, il 9 settembre 1989. Nel 1994 è arrivato per la prima volta in Brasile, a Manaus, dove ha emesso la professione perpetua il 5 agosto dell’anno successivo.
Ha ricevuto l’ordinazione diaconale ad Ananindeua il 15 novembre 1997 e, un anno più tardi, il 28 giugno 1998 è stato ordinato sacerdote presso la cattedrale della sua città natale, Tournai.
I primi anni da sacerdote li ha trascorsi presso la presenza salesiana di Manaus Alvorada (1998-2003). Dal 2004 al 2008 ha vissuto poi a Porto Velho, ricoprendo prima l’incarico di Parroco e poi di Direttore (2007-2008). Negli anni successivi ha vissuto a Belém, São Gabriel de Cachoeira e Ananindeua. Dal 2013-2018 è stato a Manicoré come Parroco e Direttore. Tornato a Manaus, ha vissuto nelle case di Alvorada, Domingos Savio e Aleixo fino al 2022. Quest’anno, 2023, è ad Ananindeua, dove accompagna la “Scuola Salesiana del Lavoro”. Dal 2019 fa parte del Consiglio Ispettoriale, dove ha ricoperto diversi incarichi di responsabilità: dal 2021 è Vicario Ispettoriale e anche Delegato Ispettoriale per la Famiglia Salesiana e per la Formazione.
Don Bauzière succede a don Jefferson Luís da Silva Santos che ha concluso il suo mandato di sei anni come Superiore dell’Ispettoria di Brasile-Manaus.

Può farci una autopresentazione?
            Sono Philippe Bauzière, salesiano di don Bosco, missionario da trent’anni in Brasile e sacerdote da ventisei. Ho capito la mia vocazione, la chiamata del Signore, soprattutto attraverso l’aspetto missionario. Una grande influenza l’ha avuta il parroco del mio villaggio in Belgio: era un Oblato di Maria Immacolata che aveva vissuto per molti anni in Sri Lanka e Haiti, che condivideva la sua esperienza missionaria… Così, all’età di diciott’anni, dopo un discernimento, ho capito che il Signore mi stava chiamando alla vita religiosa e al sacerdozio.
            Una curiosità: sono il maggiore dei miei due fratelli, e all’epoca loro frequentavano una scuola salesiana; io invece frequentavo una scuola diocesana… E sono stato io stesso a scoprire i salesiani! Ed è stato lo spirito salesiano a conquistarmi.
            Nel settembre 1989 ho fatto la mia prima professione religiosa chiedendo di andare nelle missioni. Il Consigliere per le Missioni di allora, don Luciano Odorico, mi inviò nell’Ispettoria Amazzonica (Manaus, Brasile), dove arrivai il 30 giugno 1994.
            Le prime sfide furono quelle dell’adattamento: una nuova lingua, il clima equatoriale, mentalità diverse… Pero tutto è stato controbilanciato di una bella sorpresa, quella dell’accoglienza che ho ricevuto dai miei confratelli e dalla gente.
            Dopo la mia ordinazione, sono stato mandato a lavorare nelle opere sociali e nelle parrocchie, dove ho avuto l’opportunità di incontrare tanti giovani e gente semplice. Come salesiano, sono molto felice di questo contatto, di poter servire il Signore insieme ai giovani e alle famiglie. Mi sento piccolo davanti all’azione del Signore in tanti giovani, e anche all’azione del Signore in me stesso.

Quali sono le difficoltà più grosse che hai incontrato?
            Oggi noi salesiani in Amazzonia sentiamo le potenti sfide che i giovani devono affrontare: la mancanza di opportunità, di formazione e di lavoro; il peso del traffico della droga, delle dipendenze e della violenza; molti giovani che non si sentono amati nelle loro case o famiglie (si sentono più a casa nelle nostre opere salesiane, che non nelle loro case…); i principali problemi di salute mentale (depressione, ansia, alcolismo, suicidio, ecc.); la mancanza di senso della vita tra i giovani; la mancanza di linee guida per un uso corretto delle nuove tecnologie.
Sentiamo anche la sfida di garantire che i gruppi etnici che si trovano in Brasile, non perdano la loro identità culturale, soprattutto i giovani. Di fronte a questo quadro, capiamo che la nostra vita deve essere donata al Signore, al servizio della difesa della VITA di tante persone, soprattutto dei giovani. Che il Signore ci illumini! Che Don Bosco interceda per noi!

Quali sono le necessità locali più urgenti?
            I tempi stanno cambiando rapidamente – come si può capire – e noi dobbiamo rispondere in modo adeguato a questi nuovi tempi. Le nostre opere hanno bisogno di molte risorse finanziarie (soprattutto perché la nostra posizione in Amazzonia comporta costi molto elevati, a causa delle grandi distanze), così come di una formazione adeguata e rinnovata per le nostre risorse umane (salesiani e laici). Le richieste sono tante: abbiamo bisogno di più salesiani! Sarebbe un gran bene se avessimo vocazioni, anche indigene.

Quale posto occupa nella vita Maria Ausiliatrice?
            Credo che, come nella vita di Don Bosco, la Madonna sia la nostra Ausiliatrice; Lei è presente e ci aiuta.




Intervista a don Francisco LEZAMA, ispettore dell’Uruguay

Abbiamo fatto a don Francisco LEZAMA, nuovo ispettore dell’Uruguay (URU), alcune domande per i lettori del Bollettino Salesiano OnLine.

Don Francisco Lezama è nato nella città di Montevideo l’11 settembre 1979. Ha conosciuto i Salesiani nell’opera salesiana di Las Piedras, dove ha partecipato ai gruppi giovanili e alle attività parrocchiali.
I suoi genitori, Luis Carlos Lezama e Graciela Pérez, vivono ancora attualmente nella città di Las Piedras.
Ha svolto tutta la sua formazione iniziale nella città di Montevideo. Ha compiuto il noviziato tra il 1999 e il 2000, ha emesso la professione perpetua il 31 gennaio 2006 a Montevideo, ed è stato ordinato sacerdote, nella sua città natale, l’11 ottobre 2008.
I primi anni di ministero sacerdotale li ha trascorsi nella presenza salesiana dell’Istituto “Juan XXIII” nella città di Montevideo. Poi, dal 2012 al 2015 ha studiato Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma.
Tra il 2018 e il 2020 è stato Direttore e parroco dell’Istituto “Pio IX” di Villa Colón, nonché membro dell’équipe ispettoriale per la Formazione e Delegato per la Pastorale Vocazionale. Nel 2021 ha assunto il servizio di Vicario ispettoriale e Delegato ispettoriale per la Pastorale Giovanile, incarichi mantenuti fino all’ottobre 2022, quando è stato designato come Economo ispettoriale. 
Don Lezama succede nell’incarico di Ispettore di URU a don Alfonso Bauer, che a gennaio 2024 ha concluso il suo sessennio di servizio.

Può farci una autopresentazione?
Sono Francisco Lezama, sacerdote salesiano, 44 anni… Mi appassiona l’educazione dei giovani, mi sento a mio aggio in mezzo a loro. Vengo da una famiglia che mi ha insegnato il valore della giustizia e dell’attenzione per gli altri. La vita mi ha regalato amici con cui posso condividere ciò che sono e che mi aiutano a crescere continuamente. Sogno un mondo in cui tutti e tutte abbiano una casa e un lavoro, e mi impegno – nella misura delle mie forze – per renderlo realtà.

Qual è la storia della tua vocazione?
Fin da bambino mi sono sentito chiamato a mettere la mia vita al servizio degli altri. Ho guardato in molte direzioni: mi sono impegnato nell’attivismo politico e sociale, ho pensato di dedicarmi professionalmente all’educazione come insegnante… Da adolescente mi sono avvicinato alla parrocchia per il mio desiderio di aiutare gli altri. Lì, partecipando all’oratorio, ho scoperto che quello era l’ambiente in cui potevo essere me stesso, in cui potevo dispiegare il mio io più profondo desiderio… e in questo contesto, un salesiano mi ha suggerito far un discernimento alla chiamata per la vita consacrata. Non l’avevo mai presa in considerazione nel modo cosciente, ma in quel momento sentivo una luce nel cuore che mi diceva che era in questa direzione.

Da allora, nella vocazione salesiana, ho sviluppato la mia vita e, anche con le spine in mezzo alle rose, ho scoperto passo a passo che le chiamate di Gesù hanno segnato il mio cammino: la mia professione come religioso, i miei studi universitari in educazione, la mia ordinazione sacerdotale, la mia specializzazione in Sacra Scrittura, e soprattutto ogni missione, ogni giovane con cui Dio mi ha fatto il dono di incontrare, mi permettono di continuare a essere grato e a svolgere la mia vocazione.

Perché salesiano?
Sono appassionato di educazione, mi sento chiamato a realizzare la mia vocazione in questo e credo anche che sia uno strumento per cambiare il mondo, per cambiare le vite. Ho anche scoperto che come salesiano posso dare tutta la mia vita, “fino all’ultimo respiro”, e questo mi rende molto felice.

Come ha reagito la tua famiglia?
Mi hanno sempre accompagnato, così come i miei fratelli, in modo che ognuno trovi la sua strada verso la felicità. Nella mia famiglia paterna ho uno zio e una zia che sono stati anch’essi chiamati alla vita consacrata, ma soprattutto ho nella mia famiglia molti esempi di amore fedele e generoso, a partire dai miei genitori, e ultimamente lo vedo nell’amore di mia sorella e di mio cognato per i loro figli, che mi hanno dato la vocazione di zio e mi aiutano a scoprire nuove sfaccettature dello stesso amore, che viene da Dio.

Chi ti ha raccontato per primo la storia di Gesù?
Ricordo mia nonna e il mio padrino che mi hanno incoraggiato molto a conoscere Gesù… poi nella catechesi parrocchiale ho iniziato a seguire il percorso che mi ha permesso di crescere nella sua amicizia… Infine, con i Salesiani, ho scoperto questo Gesù vicino a me, che si rende presente nella vita di tutti i giorni e mi incoraggia a crescere nella sua amicizia.

Hai studiato la Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma. I giovani di oggi sono interessati della Bibbia? Come avvicinarli?
Ho scoperto che i giovani sono molto interessati alla Bibbia – persino in un centro giovanile universitario di Montevideo, un gruppo mi ha chiesto lezioni di greco per poter approfondire il testo! La realtà è che il testo biblico ci mostra la Parola di Dio sempre in dialogo con le culture, con le sfide del tempo e i giovani sono molto sensibili a queste realtà.

Quali sono state le sfide più grandi che hai incontrato?
Non c’è dubbio che le ingiustizie e le disuguaglianze vissute dalle nostre società siano sfide molto grandi, perché per noi non sono cifre o statistiche, ma hanno un nome e un volto, in cui si riflette il volto sofferente di Cristo.

Quali sono le tue più belle soddisfazioni?
Per me è una gioia immensa vedere Dio all’opera: nei cuori dei giovani, nelle comunità che ascoltano la sua voce, nelle persone che si impegnano ad amare anche di fronte alle difficoltà.

D’altra parte, è una grande gioia condividere il carisma con i fratelli salesiani e con tanti laici che oggi rendono possibile lo sviluppo dell’opera salesiana in Uruguay. Abbiamo fatto passi molto significativi verso la sinodalità, condividendo vita e missione, in uno stile che ci arricchisce e ci permette di lavorare dal profondo della nostra identità.

Quali sono le opere più significative della tua zona?
Ci sono molte opere di grande importanza in Uruguay. Alcune hanno un forte impatto sulla società, come il Movimento Tacurú, nella periferia di Montevideo, che è senza dubbio il progetto sociale più importante dell’intera società uruguaiana. Ci sono altre opere di grande importanza nella loro zona, come l’Istituto Paiva, nel dipartimento di Durazno, che permette agli adolescenti delle zone rurali di accedere all’istruzione secondaria (che altrimenti non sarebbe possibile per loro) e di aprire nuovi orizzonti nella loro vita. Oppure l’Obra Don Bosco, nella città di Salto, che oltre a vari progetti che li accompagnano dalla nascita ai 17 anni, ha un progetto specifico per gli adolescenti in conflitto con la legge, accompagnandoli in vari aspetti della loro vita.

Hai qualche progetto che ti sta particolarmente a cuore?
L’ultimo progetto che abbiamo avviato è una casa di accoglienza per bambini che lo Stato ha preso in custodia, perché i loro diritti venivano violati, e li ha affidati a noi salesiani.  La abbiamo chiamato col nome significativo di “Casa Valdocco”, dove i bambini sono accompagnati e allo stesso tempo cerchiamo di farli rientrare in una realtà familiare che possa aiutarli nel loro sviluppo.

Quale posto occupa nella vita Maria Ausiliatrice?
In Uruguay abbiamo molte chiese e opere dedicate a Maria Ausiliatrice. Infatti, è proprio nella nostra ispettoria che è nata la tradizione della commemorazione mensile, ogni 24 del mese. Pero sono due luoghi che per me sono significativi: uno è il Santuario Nazionale, a Villa Colón, la casa madre dei Salesiani in Uruguay, da cui poi sono partiti i missionari per tutta l’America. L’altro luogo, nel nord del paese, è Corralito, a Salto. Lì la devozione a Maria Ausiliatrice è arrivata prima dei Salesiani, grazie agli ex-allievi che hanno diffuso la loro devozione. Credo che questo sia un segno della vitalità della nostra famiglia e anche di come Lei sia sempre presente, utilizzando mezzi e modi che sempre ci sorprendono e ci meravigliano.




La svolta nella vita di san Francesco di Sales (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

Inizi di una nuova tappa
            A partire da questo momento tutto correrà veloce. Francesco diventava un nuovo uomo: «Lui, prima perplesso, inquieto, malinconico – così A. Ravier –, ora prende delle decisioni senza indugio, non tira più per le lunghe le sue imprese, vi si butta a capofitto».
            Subito, il 10 maggio, veste l’abito ecclesiastico. Il giorno dopo si presenta al vicario della diocesi. Il 12 maggio prende possesso del suo incarico nella cattedrale d’Annecy e fa visita al vescovo, mons. Claude de Granier. Il 13 maggio presiede per la prima volta la recita dell’ufficio divino in cattedrale. Poi sistema i propri affari temporali: abbandona il titolo di signore di Villaroget e i diritti di primogenito; rinuncia alla magistratura cui il padre l’aveva destinato. Dal 18 maggio al 7 giugno, si ritira col suo amico e confessore, Amé Bouvard, al castello di Sales per prepararsi agli ordini. Per un’ultima volta è assalito da dubbi e tentazioni; ne esce vittorioso, convinto che Dio gli si era manifestato «molto misericordioso» durante tali esercizi spirituali. Prepara quindi l’esame canonico in vista dell’ammissione agli ordini.
            Invitato per la prima volta dal vescovo a predicare il giorno di Pentecoste, che quell’anno cadeva il 6 giugno, preparò molto accuratamente la sua prima predica per una festa nella quale «non soltanto gli anziani ma anche i giovani dovrebbero predicare»; ma l’imprevisto arrivo di un altro predicatore gli impedì di pronunciarla. Il 9 giugno, mons. de Granier gli conferisce i quattro ordini minori e due giorni dopo lo promuove a suddiacono.
            Incomincia quindi per lui un’intensa attività pastorale. Il 24 giugno, festa di san Giovanni Battista, predicò per la prima volta in pubblico con grande coraggio, ma non senza aver provato prima una certa tremarella, che lo costrinse a stendersi per qualche istante sul suo letto, prima di salire sul pulpito. Da quel momento in poi, le prediche andranno moltiplicandosi.
            Un’iniziativa ardita per un suddiacono fu la fondazione ad Annecy di un’associazione destinata a riunire non solamente degli ecclesiastici, ma soprattutto dei laici, uomini e donne, sotto il titolo di «Confraternita dei penitenti della Santa Croce». Egli stesso ne redasse gli statuti, che il vescovo confermò e approvò. Costituita il 1° settembre 1593, iniziò le sue attività il giorno 14 dello stesso mese. Gli appartenenti furono, fin dall’inizio, numerosi e, tra i primi iscritti, Francesco ebbe la gioia di annoverare suo padre e qualche tempo dopo il fratello Louis. Gli statuti prevedevano non soltanto celebrazioni, preghiere e processioni, ma anche visite ai malati e ai prigionieri. All’inizio non mancò qualche malcontento specialmente tra i religiosi, ma ci si rese ben presto conto che la testimonianza degli associati era convincente.
Francesco venne ordinato diacono il 18 settembre e prete tre mesi più tardi, il 18 dicembre 1593. Al termine di tre giorni di preparazione spirituale, celebrò la sua prima messa il 21 dicembre e predicò a Natale. Qualche tempo dopo ebbe la gioia di battezzare la sorellina Jeanne, ultima nata della signora di Boisy. Il suo insediamento ufficiale nella cattedrale avvenne sul finire del mese di dicembre.
            Ebbe un grande risalto la sua «arringa» in latino, che impressionò il vescovo e gli altri membri del capitolo, tanto più profondamente in quanto il tema affrontato era scottante: ricuperare l’antica sede della diocesi, che era Ginevra. Tutti si trovarono d’accordo: occorreva riconquistare Ginevra, la città di Calvino che aveva messo fuori legge il cattolicesimo. Si! Ma come? Con quali armi? E prima di tutto qual era la causa di tale deplorevole situazione? La risposta del prevosto non dovette piacere a tutti: «Sono gli esempi dei preti perversi, le azioni, le parole, in sostanza, l’iniquità di tutti, ma in particolare degli ecclesiastici». Seguendo l’esempio dei profeti, Francesco di Sales non analizzava le cause politiche, sociali o ideologiche della riforma protestante; non predicava più la guerra contro gli eretici, ma la conversione di tutti. La fine dell’esilio non si otterrà se non con la penitenza e la preghiera, in una parola, con la carità:

È per mezzo della carità che dobbiamo smantellare le mura di Ginevra, per mezzo della carità invaderla, per mezzo della carità recuperarla. […] Non vi propongo né il ferro, né quella polvere, il cui odore e sapore ricordano la fornace infernale […]. È con la fame e con la sete patite da noi e non dai nostri avversari che dobbiamo sconfiggere il nemico.

            Charles-Auguste afferma che, al termine di questo discorso, Francesco «discese dal suo ambone tra gli applausi di tutta l’assemblea», ma si può supporre che certi canonici rimasero irritati dall’arringa di questo giovane prevosto.
            Questi avrebbe potuto contentarsi di «far regnare la disciplina dei canonici e l’esatta osservanza degli statuti», ed invece si lanciò in un lavoro pastorale sempre più intenso: confessioni, predicazioni ad Annecy e nei paesi, visite ai malati e ai prigionieri. In caso di bisogno, impiegava le sue conoscenze giuridiche a beneficio degli altri, appianava contese e discuteva con gli ugonotti. Dal gennaio 1594 fino all’inizio della sua missione nel Chiablese nel mese di settembre, la sua attività di predicatore dovette conoscere un inizio promettente. Come lo dimostrano le numerose citazioni, le sue fonti sono la Bibbia, i Padri e i teologi, ed anche autori pagani quali Aristotele, Plinio e Virgilio, di cui non temeva di citare il celebre Jovis omnia plena. Suo padre non era abituato a uno zelo cosi travolgente e a predicazioni tanto frequenti. Un giorno – racconterà Francesco all’amico Jean-Pierre Camus – mi prese in disparte e mi disse:

Prevosto, tu predichi troppo spesso. Odo persino nei giorni feriali suonare la campana per la predica e mi dicono: È il prevosto! il prevosto! Ai miei tempi non era così, le prediche erano assai più rare; però, che prediche! Dio la sa, erano dotte, ben studiate; erano ricche di racconti meravigliosi, una sola predica conteneva più citazioni in latino e in greco di dieci delle tue: tutti restavano contenti ed edificati, si correva in massa ad ascoltarle; avreste sentito dire che si andava a raccogliere la manna. Ora tu rendi questa pratica così comune, che non gli facciamo più caso e non si ha più tanta stima di te.

            Francesco non era di questo avviso: per lui, «biasimare un lavoratore o un vignaiolo perché coltiva troppo bene la sua terra, voleva dire fargli dei veri elogi».

Gli inizi dell’amicizia con Antoine Favre
            Gli umanisti avevano il gusto dell’amicizia, spazio propizio per lo scambio epistolare nel quale uno poteva manifestare il proprio affetto con espressioni appropriate, attinte all’antichità classica. Francesco di Sales aveva sicuramente letto il De amicitia di Cicerone. L’espressione con cui Orazio chiamava Virgilio «la metà della mia anima» (Et serves animae dimidium meae) gli ritornava alla memoria.
            Forse ricordava anche l’amicizia che univa Montaigne e Étienne de La Boétie: «Noi eravamo in tutto la metà l’uno dell’altro», scriveva l’autore dei Saggi, «essendo un’anima sola in due corpi, secondo la felice definizione di Aristotele»; «se mi si chiede di spiegare perché l’amavo, mi accorgo che ciò non lo si può esprimere se non rispondendo: Perché era lui e perché ero io». Un vero amico è un tesoro, afferma il proverbio, e Francesco di Sales ha potuto sperimentare che esso rispondeva a verità nel momento in cui la sua vita prendeva un orientamento definitivo, grazie all’amicizia con Antoine Favre.
            Possediamo la prima lettera che il senatore Favre gli indirizzò il 30 luglio 1593 da Chambéry. Con allusioni al «divino Platone» e in un latino elegante e ricercato, gli manifestava il suo desiderio: quello, scriveva, «non solamente di amarvi e di onorarvi, ma anche di contrarre un legame vincolante per sempre». Favre aveva allora trentacinque anni, era senatore da cinque anni, e Francesco aveva dieci anni di meno. Si conoscevano già per sentito dire, e Francesco aveva anche tentato di entrare in contatto con lui. Ricevuta detta lettera, il giovane prevosto di Sales esultò di gioia:

Ho ricevuto, uomo illustrissimo e Senatore integerrimo, la vostra lettera, pegno preziosissimo della vostra benevolenza verso di me, la quale, anche perché non era attesa, m’ha colmato di tanta gioia e ammirazione, che non riesco a esprimere i miei sentimenti.

            Al di là della palese retorica, favorita dall’uso del latino, ciò costituì l’inizio di un’amicizia che durò fino alla morte. Alla «provocazione» dell’«illustrissimo e integerrimo senatore» che assomigliava a una sfida a duello, Francesco rispose con espressioni adatte al caso: se l’amico è sceso per primo nella pacifica arena dell’amicizia, si vedrà chi vi resterà per ultimo, perché io – diceva Francesco – sono «un combattente che, per indole, è ardentissimo in questo genere di lotte». Questo primo scambio epistolare farà nascere tra i due il desiderio di incontrarsi: in effetti, scrive, «che l’ammirazione susciti il desiderio di conoscere, è una massima che s’apprende fin dalle prime pagine della filosofia». Le lettere si susseguiranno rapidamente.
            Alla fine di ottobre del 1593 Francesco gli risponde per ringraziarlo di avergli procurato un’altra amicizia, quella di François Girard. Ha letto e riletto le lettere di Favre «più di dieci volte». Il 30 novembre seguente, Favre insiste perché accetti la dignità di senatore, ma su questo terreno non sarà seguito. All’inizio di dicembre Francesco gli annuncia che la sua «carissima madre» ha dato alla luce la sua tredicesima creatura. Verso la fine di dicembre lo rende partecipe della sua prossima ordinazione sacerdotale, «insigne onore e bene eccellente», che farà di lui un altro uomo, nonostante i sentimenti di timore che prova dentro di sé. La vigilia di Natale del 1593 ebbe luogo un incontro ad Annecy, dove qualche giorno dopo Favre assistette probabilmente all’insediamento del giovane prevosto. All’inizio del 1594, la febbre ha costretto Francesco a mettersi a letto, e l’amico l’ha confortato a tal punto da fargli dire che la tua febbre è divenuta la «nostra» febbre. Nel marzo del 1594 inizia a chiamarlo «fratello», mentre la sposa di Favre sarà per Francesco la «mia dolcissima sorella».
            Tale amicizia si rivela feconda e fruttuosa, perché il 29 maggio 1594 Favre costituì, a sua volta, la confraternita della Santa Croce a Chambéry; e il martedì di Pentecoste i due amici organizzarono un grande pellegrinaggio comune a Aix. Nel mese di giugno Favre con la sua sposa, chiamata da Francesco «mia dolcissima sorella, vostra sposa illustrissima e amatissima», e con i loro «nobili figli» era atteso con impazienza ad Annecy. Antoine Favre aveva allora cinque figli e una figlia. In agosto scriverà una lettera ai figli di Favre per ringraziarli del loro scritto, per incoraggiarli a seguire gli esempi del loro padre e per pregarli di trasmettere alla loro madre i suoi sentimenti di «pietà filiale». Il 2 settembre 1594, in un biglietto scritto in fretta, Favre gli annunciava una prossima visita «il più presto possibile» e terminava con ripetuti saluti non soltanto all’«amato fratello», ma anche «a quelli di Sales e a tutti i salesiani».
            C’è stato chi non si è trattenuto dal criticare queste lettere piuttosto magniloquenti, piene di complimenti esagerati e di periodi latini troppo ricercati. Come il suo corrispondente, il prevosto di Sales, inanellando il suo latino con riferimenti alla Bibbia e ai Padri della Chiesa, si impegnava soprattutto a citare autori dell’antichità classica. Il modello ciceroniano e l’arte epistolare non gli sfuggono mai, e, d’altronde l’amico Favre qualifica le lettere di Francesco non soltanto come «ciceroniane», bensì come «ateniesi». Non stupisce che in una delle proprie lettere a Antoine Favre si trovi la celebre citazione di Terenzio: «Nulla di ciò che è umano ci è estraneo», un adagio divenuto una professione di fede presso gli umanisti.
            In conclusione, Francesco ha considerato questa amicizia come un dono del cielo, descrivendola come un’«amicizia fraterna che la divina Bontà, forgiatrice della natura, ha intessuto in maniera così viva e perfetta tra lui e me, nonostante fossimo diversi per nascita e vocazione, e diseguali quanto a doni e a grazie che io possedevo solo in lui». Durante gli anni difficili che stavano per sopraggiungere, Antoine Favre sarà sempre il suo confidente e il suo migliore sostegno.

Una missione pericolosa
            Nel 1594, il duca di Savoia, Carlo Emanuele I (1580-1630), aveva appena recuperato il Chiablese, regione vicina a Ginevra, situata a sud del lago Lemano, da tempo contesa tra i vicini. La storia politico-religiosa del Chiablese era complicata, come dimostra una lettera scritta in un italiano approssimativo nel febbraio del 1596 e destinata al nunzio di Torino:

Fu occupata dai Bernesi una parte di questa diocesi di Geneva, fa sessant’anni, [e] rimase eretica; la quale essendo ridotta in pieno potere di Sua Altezza Serenissima questi anni passati, per la guerra, [e riunita al] suo antico patrimonio, molti degli [abitanti,] mossi piuttosto dal rimbombo degli archibugi che dalle prediche che ivi si facevano per ordine di Monsignor Vescovo, si ridussero alla fede nel seno della santa madre Chiesa. Ma poi, essendo infestate quelle contrade dalle incursioni dei ginevrini e francesi, ritornarono nel fango.

            Il duca, intenzionato a ricondurre al cattolicesimo quella popolazione di circa venticinquemila anime, si rivolse al vescovo perché facesse quanto era necessario fare. Già nel 1589 questi aveva inviato cinquanta parroci a riprendere possesso delle parrocchie, ma furono tosto cacciati indietro dai calvinisti. Questa volta occorreva procedere in maniera diversa e, precisamente, inviare colà due o tre missionari molto colti e in grado di far fronte alla tempesta che non sarebbe mancata dall’abbattersi sui «papisti». Nel corso di un’assemblea del clero, il vescovo espose il progetto e fece appello a dei volontari. Nessuno fiatava. Allorché egli volse gli occhi verso il prevosto di Sales, questi gli disse: «Monsignore, se crede che sia capace e se me lo comanda, sono pronto a obbedire e vi andrò volentieri».
            Sapeva bene ciò che l’attendeva e che sarebbe stato accolto con «ingiurie sulle labbra o pietre in mano». Per Francesco, l’opposizione di suo padre a tale missione (dannosa per la vita e ancor più per l’onore della famiglia) non appariva più un ostacolo, perché riconosceva nell’ordine del vescovo una volontà superiore. Alle obiezioni paterne riguardanti i pericoli assai reali della missione, rispose con fierezza:

Dio, mio Padre, provvederà: è lui che aiuta i forti; occorre solo avere coraggio. […] E che ne sarebbe se ci inviassero in India o in Inghilterra? Non ci si dovrebbe andare? […] È vero, è un’impresa laboriosa, e nessuno oserebbe negarlo; ma perché portiamo queste vesti se rifuggiamo dal portarne il peso?

            Si preparò alla missione al castello di Sales all’inizio del mese di settembre 1594, in un clima pesante: «Suo padre non volle vederlo, perché era totalmente contrario all’impegno apostolico del figlio e l’aveva ostacolato con tutti gli sforzi immaginabili, senza essere stato in grado di scalfirne la generosa decisione. L’ultima sera, disse addio in segreto alla sua virtuosa madre».
            Il 14 settembre 1594 giungeva nel Chiablese in compagnia del cugino Louis de Sales. Quattro giorni dopo suo padre gli inviò un servitore per comunicargli di ritornare, «ma il santo giovane [in risposta] rimandò indietro il suo valletto Georges Rolland e il proprio cavallo, e persuase anche il cugino a rientrare per tranquillizzare la famiglia. Il cugino gli obbedì, anche se successivamente ritornò a trovarlo. E il nostro santo ha raccontato […] che in tutta la sua vita non aveva mai provato una così grande consolazione interiore, né tanto coraggio nel servizio di Dio e delle anime come quel 18 settembre 1594, giorno in cui si trovò senza compagno, senza valletto, senza equipaggio e costretto a girare qua e là, da solo, povero e a piedi, impegnato a predicare il Regno di Dio».
            Per dissuaderlo dal compiere tale rischiosa missione, suo padre gli tagliò i viveri. Secondo Pierre Magnin, «il signor padre di Francesco, come ebbi modo di apprenderlo dalle labbra del santo uomo, non voleva assisterlo con quella abbondanza che sarebbe stata necessaria, desideroso di distoglierlo dal tale impresa iniziata dal figlio contro il suo parere, ben consapevole del palese pericolo cui esponeva la vita. E una volta lo lasciò partire da Sales per ritornare a Thonon con un solo scudo, sicché [Francesco] fu costretto […] a fare la strada a piedi, sovente mal calzato e mal vestito, esposto a un rigido freddo, al vento, alla pioggia e alla neve insopportabile in questo paese».
            Dopo un’aggressione di cui fu vittima con Georges Rolland, il signore di Boisy tentò di nuovo di distoglierlo dall’impresa, ma anche questa volta senza successo. Francesco tentò di far vibrare le corde dell’orgoglio paterno scrivendogli con encomiabile coraggio queste righe:

Se Rolland fosse vostro figlio, mentre non è che un vostro valletto, non avrebbe avuto così poco coraggio da indietreggiare per uno scontro modesto come quello che gli è toccato, e non ne parlerebbe come d’una grande battaglia. Nessuno può dubitare della cattiva volontà dei nostri avversari; ma voi ci fate un torto quando dubitate del nostro coraggio. […] Vi scongiuro quindi, Padre mio, di non attribuire la mia perseveranza alla disobbedienza e di considerarmi sempre come il vostro figlio rispettosissimo.

            Un illuminante rilievo tramandatoci da Albert de Genève aiuta a comprendere meglio ciò che alla fine convinse il padre a cessare di opporsi al figlio. Il nonno di questo testimone al processo di beatificazione, amico del signor di Boisy, aveva detto un giorno al padre di Francesco che doveva sentirsi «assai fortunato di avere un figlio così caro a Dio, e che lo riteneva troppo saggio e timorato di Dio per opporsi alla santa volontà [del figlio], tesa a realizzare un disegno in cui il santo nome di Dio sarebbe stato molto glorificato, la Chiesa esaltata e il casato di Sales ne avrebbe ricevuto una gloria maggiore di tutti gli altri titoli, per quanto illustri fossero».

Il tempo delle responsabilità
            Prevosto della cattedrale nel 1593 all’età di soli venticinque anni, capo della missione nel Chiablese l’anno successivo, Francesco di Sales poteva contare su una formazione eccezionalmente ricca e armoniosa: educazione familiare curata, formazione morale e religiosa di qualità, studi letterari, filosofici, teologici, scientifici e giuridici di alto livello. È vero, aveva beneficiato di possibilità interdette alla maggioranza dei suoi contemporanei, ma in lui erano fuori dall’ordinario lo sforzo personale, la generosa risposta agli appelli avuti e la tenacia di cui diede prova nel perseguire la sua vocazione, senza parlare della spiccata spiritualità che ispirava il suo comportamento.
            Ormai diventerà un uomo pubblico, con incarichi di responsabilità sempre più ampi, che gli consentiranno di mettere a profitto degli altri i propri doni di natura e di grazia. Preconizzato a divenire vescovo coadiutore di Ginevra già nel 1596, nominato vescovo nel 1599, diventerà vescovo di Ginevra alla morte del predecessore nel 1602. Uomo di Chiesa prima di tutto, ma assai immerso nella vita della società, lo vedremo preoccuparsi non solo dell’amministrazione della diocesi, ma anche della formazione del popolo affidato al suo ministero pastorale.




Intervista a don Alexandre Luís de Oliveira, ispettore dell’Ispettoria Salesiana di San Paolo

Abbiamo fatto a don Alexandre Luís de Oliveira, nuovo ispettore dell’Ispettoria Salesiana di San Paolo (BSP), alcune domande per i lettori del Bollettino Salesiano OnLine.

Don De Oliveira è nato a Campinas, nello Stato di San Paolo, il 18 ottobre 1975. Ha conosciuto i Salesiani proprio nell’opera salesiana di Campinas, dove è stato allievo dell’istituto e ha partecipato ai gruppi giovanili e alle attività parrocchiali.
Sua madre, Tamar A. Da Silva, vive ancora attualmente nella città di Campinas.
Ha svolto il noviziato a Indápolis, presso Dourados, il post-noviziato a Lorena, il tirocinio a San Carlos e Pindamonhangaba e gli studi teologici nella casa di Lapa, a San Paolo. Ha emesso la professione perpetua il 31 gennaio 2004 a San Paolo, ed è stato ordinato sacerdote il 17 dicembre 2005 a Campinas.
Ha trascorso i suoi primi anni da sacerdote nella presenza salesiana di Lorena, presso l’Istituto “San Joaquín” (2006-2008). Dal 2009 al 2011 è stato Direttore e Parroco dell’opera salesiana della città di Americana; nel 2012 è diventato Direttore della Casa Ispettoriale di San Paolo, e al contempo Delegato di Pastorale Giovanile; dal 2013 al 2017 è stato Direttore del Postnoviziato di Lorena e Delegato ispettoriale per la Formazione; dal 2018 al 2022 Direttore e parroco della casa “Maria Ausiliatrice” di Campinas e attualmente è Direttore della casa “San José”, sempre a Campinas. Ha inoltre ricoperto l’incarico di Consigliere Ispettoriale per tre trienni consecutivi, dal 2012 al 2020.
Don De Oliveira succede nell’incarico a don Justo Piccinini, che ha concluso il suo mandato di sei anni come Ispettore.

Può farci una autopresentazione?
Sono don Alexandre Luís de Oliveira, brasiliano, dell’Ispettoria Salesiana di San Paolo (BSP). Ho 49 anni, 25 anni di professione religiosa, 19 anni di ordinazione sacerdotale e attualmente sono ispettore.
Sono della città di Campinas SP. Ho frequentato la casa salesiana da bambino. Sono stato un piccolo corista, un oratoriano e un ex allievo del Centro Professionale Don Bosco presso la Scuola Salesiana di San Giuseppe. Insieme alla mia famiglia, frequentavo anche la cappella della Scuola Salesiana di San Giuseppe e della Parrocchia di Nostra Signora Ausiliatrice. Vivendo con i salesiani e frequentando questi ambienti, mi sono sentito chiamato ad un discernimento vocazionale.

Perché salesiano?
Salesiano, perché mi sento profondamente identificato con il carisma di Don Bosco: l’educazione e l’evangelizzazione dei giovani.

Come ha reagito la tua famiglia?
Fin dall’inizio, la mia famiglia mi ha accompagnato con il suo sostegno e le sue costanti preghiere affinché si compisse la volontà di Dio su di me e che fossi felice del mio progetto di vita.

L’incontro e la persona che più ti hanno colpito
Mi ha sempre colpito la presenza dei salesiani che sono molto vicini ai giovani. Questa facilità di accesso mi riporta sempre alla mente bei ricordi e mi ha anche stimolato nella mia risposta vocazionale.

La gioia più grande?
La mia gioia più grande è la mia consacrazione religiosa e il giorno della mia ordinazione sacerdotale. Essere un sacerdote salesiano mi appaga profondamente.

Quali sono le necessità locali più urgenti e dei giovani?
Credo che il bisogno più urgente dei giovani sia quello di avere riferimenti creativi nel loro processo di formazione/educazione ai valori.

Che cosa si potrebbe fare di più e meglio?
Credo che, come Salesiani di Don Bosco, possiamo essere più vicini ai giovani, possiamo offrire loro maggiori opportunità di contatto con noi consacrati e in questo modo, attraverso la nostra testimonianza, possiamo anche invitarli alle vocazioni.

Programmi per il futuro? Sogni? Iniziative?
Per il presente e per il futuro, possiamo essere segni vivi della presenza di Don Bosco tra i giovani, le nostre comunità possono essere più aperte ad accoglierli e ad offrire loro reali opportunità di crescita spirituale, umana, educativa e professionale.

Ha un messaggio per la Famiglia Salesiana?
Un messaggio di speranza viva, di ritorno alle origini, di ritorno a Don Bosco. Che possiamo sognare il suo sogno e i sogni dei giovani. Che le nostre comunità, le scuole, le opere sociali, le parrocchie e i centri universitari siano una casa per i giovani, un luogo per la loro realizzazione.




La svolta nella vita di san Francesco di Sales (1/2)

 

            Dopo dieci anni di studi a Parigi e tre anni all’Università di Padova, Francesco di Sales ritornò in Savoia poco prima dell’inizio della primavera del 1592. Al cugino Louis confidò che era «sempre più deciso di abbracciare lo stato ecclesiastico, nonostante la resistenza dei suoi signori genitori». Tuttavia, accettò di andare a Chambéry per iscriversi al foro del Senato di Savoia.
            In verità, era in gioco l’intero orientamento della sua vita. Da una parte, infatti, c’era l’autorità del padre che gli comandava, essendo Francesco il figlio maggiore, di prendere in considerazione una carriera nel mondo; dall’altra, c’erano le sue inclinazioni e la crescente consapevolezza di dover seguire una vocazione particolare: «essere di Chiesa». Se è vero che «i padri fanno tutto per il bene dei loro figli», è altrettanto vero che le vedute degli uni e degli altri non sempre coincidono. Suo padre, il signor de Boisy sognava per Francesco una magnifica carriera: senatore del ducato e (perché no?) presidente del sovrano Senato di Savoia. Francesco di Sales scriverà un giorno che i padri «non sono mai soddisfatti e non sanno mai smettere di parlare ai loro figli dei mezzi che li possono rendere più grandi».
            Ora, per lui l’ubbidienza era un imperativo fondamentale e ciò che più tardi dirà a Filotea era una regola di vita che certamente seguiva fin dall’infanzia: «Dovete umilmente obbedire ai vostri superiori ecclesiastici, come il papa e il vescovo, il parroco e i loro rappresentanti; dovete poi obbedire ai vostri superiori politici, cioè il vostro principe e i magistrati da lui istituiti nel vostro paese; dovete infine obbedire ai superiori di casa vostra, cioè vostro padre, vostra madre». Il problema nasceva dall’impossibilità di conciliare le differenti obbedienze. Tra la volontà di suo padre e la propria (che percepiva sempre più essere quella di Dio) l’opposizione diventerà inevitabile. Seguiamo le tappe della maturazione vocazionale di un «dolce ribelle».

Sguardo retrospettivo
            Per comprendere il dramma vissuto da Francesco occorre rivisitare il passato, perché tale dramma segnò l’intera sua giovinezza per giungere a soluzione nel 1593. Dall’età di circa dieci anni, Francesco coltivava in sé un proprio progetto di vita. Ne fanno fede non pochi avvenimenti da lui vissuti o provocati. A undici anni, prima di partire per Parigi, aveva chiesto a suo padre il permesso di ricevere la tonsura. Detta cerimonia, durante la quale il vescovo collocava il candidato sul primo gradino della carriera ecclesiastica, ebbe effettivamente luogo il 20 settembre 1578 Clermont-en-Genevois. Suo padre, che in un primo momento si era opposto, alla fine cedette, perché riteneva si trattasse unicamente di un capriccio infantile. Nel corso dell’esame preliminare, stupito per l’esattezza delle risposte e la modestia del candidato, il vescovo gli avrebbe detto: «Ragazzo mio, coraggio, sarai un buon servitore di Dio». Al momento di sacrificare i suoi biondi capelli, Francesco confessò di aver provato un certo dispiacere. Tuttavia l’impegno preso gli resterà sempre fisso nella memoria. Confiderà, infatti, un giorno a madre Angélique Arnauld: «Da dodici anni in poi, sono stato talmente risoluto di essere di Chiesa, che neppure per un regno avrei cambiato la mia intenzione».
            Quando suo padre, che non era insensibile, decise di inviarlo a Parigi per compiervi gli studi, dovette provare nell’animo sentimenti contradditori, descritti nel Teotimo: «Un padre quando manda il figlio a corte o agli studi – scriveva –, non per questo non piange salutandolo, dimostrando che, benché lo voglia secondo la parte superiore, per il bene del figlio, tuttavia, quella partenza causa dispiacere alla parte inferiore, per cui non vorrebbe lasciarlo partire». Si richiamino alla memoria anche la scelta del collegio dei gesuiti a Parigi, preferito a quello di Navarre, il comportamento di Francesco durante la sua formazione, l’influsso della direzione spirituale del padre Possevino a Padova e tutti gli altri fattori che hanno potuto giocare a favore del consolidarsi della vocazione ecclesiastica.
            Ma davanti a lui si ergeva un roccioso ostacolo: la volontà paterna, cui doveva non soltanto umile sottomissione, secondo il costume dell’epoca, ma anche qualcosa di più e di meglio, perché «l’amore e il rispetto che un figlio porta al padre gli fanno decidere non soltanto di vivere secondo i suoi comandi, ma anche secondo i desideri e le preferenze che esprime». A Parigi, verso la fine del suo soggiorno, fu profondamente impressionato dalla decisione del duca di Joyeuse, antico favorito di Enrico III, che si era fatto cappuccino in seguito alla morte della moglie. Secondo il suo amico Jean Pasquelet, «se non avesse avuto paura di turbare l’animo del signor de Boisy, suo padre, essendone il primogenito, si sarebbe fatto senza fallo cappuccino».
            Studiò per ubbidienza, ma anche per rendersi utile al prossimo. «Ed è ancora vero –ha testimoniato il padre de Quoex – quello che mi ha detto mentre era a Parigi e a Padova, che cioè era interessato non tanto a ciò che stava studiando, ma piuttosto a pensare se un giorno avrebbe potuto servire degnamente Dio e aiutare il prossimo mediante gli studi che stava facendo». Nel 1620 confidò a François de Ronis: «Mentre ero a Padova, studiai il diritto per piacere a mio padre, e per piacere a me stesso studiai teologia». Parimenti, François Bochut dichiarò che «allorché venne inviato a Padova a studiare legge per far cosa grata ai genitori, la sua inclinazione lo portava ad abbracciare lo stato ecclesiastico», e che colà «compì la maggior parte dei suoi studi teologici, dedicandovi la maggior parte del suo tempo». Quest’ultima affermazione pare chiaramente esagerata: Francesco di Sales dovette certamente consacrare la parte più importante del suo tempo e delle sue forze agli studi giuridici che rientravano nel suo «dovere di stato». Quanto a suo padre, Jean-Pierre Camus riferisce questa confidenza significativa: «Avevo – mi diceva – il migliore padre del mondo; ma era un brav’uomo che aveva trascorso gran parte dei suoi anni a corte e in guerra, per cui ne conosceva le massime meglio di quelle della teologia».
            Fu probabilmente il padre Possevino colui che divenne il suo miglior sostegno nell’orientarne la vita. Secondo il suo nipote Charles-Auguste, Possevino gli avrebbe detto: «Continui a pensare alle cose divine e a studiare teologia», aggiungendo delicatamente: «Mi creda, il suo spirito non è adatto agli affanni del foro e i suoi occhi non sono fatti per sopportarne il polverone; la strada del secolo è troppo scivolosa, c’è il pericolo di perdersi. Non c’è forse più gloria nell’annunciare la parola del nostro buon Dio a migliaia di esseri umani, dalle cattedre delle chiese, che a scaldarsi le mani battendo i pugni sui banchi dei procuratori per risolverne le controversie»? Fu indubbiamente l’attrattiva per questo ideale a consentirgli di resistere a certe manovre e a farse di cattivo gusto di alcuni compagni che non erano certo modelli di virtù.

Un discernimento e una scelta molto difficili
            Nel viaggio di ritorno da Padova, Francesco di Sales portava con sé una lettera del suo antico professore Panciroli diretta al padre, in cui lo si consigliava di inviare il figlio al Senato. Il signor de Boisy non desiderava altro, e a tale scopo aveva preparato per Francesco una ricca biblioteca di diritto, gli procurò una terra e un titolo, destinandolo ad essere il signore di Villaroget. Infine, gli chiese di incontrare Françoise Suchet, una adolescente di quattordici anni, «figlia unica e molto bella», precisa Charles-Auguste, per avviare «accordi preliminari di matrimonio». Francesco aveva venticinque anni, un’età da maggiorenne nella mentalità dell’epoca e adatta per convolare a nozze. La sua scelta era ormai fatta da lungo tempo, ma non volle creare rotture, preferendo preparare il padre in attesa del momento favorevole.
            Incontrerà a più riprese la signorina, alla quale faceva però comprendere di avere altre intenzioni. «Per compiacere suo padre – dichiarò François Favre al processo di beatificazione – fece visita alla citata signorina, di cui ammirava le virtù», ma «non poté essere convinto ad accettare tale matrimonio, nonostante tutti gli sforzi compiuti al riguardo da suo padre». Francesco rivelò parimenti a Amé Bouvard, suo confidente: «Per obbedire a mio padre vidi la signorina alla quale intendeva di cuore destinarmi, ne ammirai la virtù», aggiungendo, schietto e convinto: «Credimi, ti dico la verità: l’unico mio volere è sempre stato quello di abbracciare la vita ecclesiastica». Claude de Blonay affermava di aver udito dalle stesse labbra di Francesco «che aveva rifiutato tale bella alleanza, non già per disprezzo del matrimonio, del quale aveva grande rispetto in quanto sacramento, quanto piuttosto per un certo ardore, intimo e spirituale, che lo inclinava a porsi totalmente al servizio della Chiesa e a essere tutto di Dio, con un cuore indiviso».
            Nel frattempo, il 24 novembre 1592, nel corso di una seduta in cui diede lodevole prova delle sue capacità, era stato accolto come avvocato nel foro di Chambéry. Di ritorno da Chambéry, scorse un segno celeste in un incidente riferito da Michel Favre: «Il cavallo si accasciò sotto di lui e la spada uscita dal fodero si venne a trovare per terra con la punta rivolta contro di lui, [sicché] da ciò trasse un’ulteriore prova convincente che Dio lo voleva al suo servizio, assieme alla speranza che gliene avrebbe fornito i mezzi». Secondo Charles-Auguste, la spada «uscita dalla guaina aveva tracciato una specie di croce». Ciò che pare sicuro è che la prospettiva di una professione da avvocato non doveva entusiasmarlo, se si presta fede a quanto scriverà successivamente:

[Secondo alcuni,] quando il camaleonte si gonfia, cambia di colore; ciò avviene per la paura e l’apprensione, dicono altri. Democrito afferma che la lingua strappatagli, lui vivente, ha fatto vincere i processi a chi l’aveva in bocca; ciò si applica bene alla lingua degli avvocati, che sono dei veri camaleonti.

            Alcune settimane più tardi gli venne fatta giungere da Torino la patente di senatore. Era un onore straordinario per la sua età, perché se «gli avvocati discutono nel foro con molte parole sui fatti e sui diritti delle parti», «il Parlamento o Senato risolve con un decreto dall’alto tutte le difficoltà». Francesco non volle accettare tale alto incarico, che poteva sconvolgere nuovamente tutti i dati del problema. Nonostante lo stupore scandalizzato del padre e le pressioni dei migliori amici, mantenne rigorosamente il suo rifiuto. E anche quando gli si dimostrò che il cumulo di incarichi civili ed ecclesiastici era ammesso, rispose che «non bisognava mescolare le cose sacre con quelle profane».
            Venne infine il giorno in cui, per un felice concorso di circostanze, gli fu possibile sbrogliare una situazione complicata, la quale poteva degenerare in una dolorosa rottura con la famiglia. Dopo qualche mese, e precisamente dopo la morte del prevosto della cattedrale nell’ottobre del 1592, alcuni confidenti avevano presentato a Roma, a sua insaputa, una domanda per ottenergli tale incarico, che faceva del suo titolare il primo personaggio della diocesi dopo il vescovo. Il 7 maggio 1593 arrivò la nomina romana. Due giorni dopo ebbe luogo l’incontro che stava per segnare la svolta della sua vita. Con l’appoggio della madre, Francesco rivolse al suo vecchio padre la richiesta che non aveva mai osato formulargli: «Abbiate la cortesia, padre mio, […] di permettermi di essere di Chiesa».
            Durissimo fu il colpo per il signor de Boisy, che vedeva d’un tratto crollare i suoi piani. Rimase «sconvolto» perché non si attendeva tale richiesta. Charles-Auguste aggiunge che «la sua signora non lo fu meno», essendo stata presente alla scena. Per il padre, il desiderio del figlio di essere prete era un «umore» che qualcuno gli aveva messo in testa o che gli aveva «consigliato».

Speravo, gli disse, che saresti stato il bastone della mia vecchiaia, ed invece ti allontani prima del tempo da me. Stai attento a ciò che farai. Forse hai ancora bisogno di maturare la decisione. Hai la testa fatta per una berretta più maestosa. Hai dedicato tanti anni allo studio della legge: la giurisprudenza non ti servirà a niente sotto una sottana da prete. Hai dei fratelli ai quali devi fare da padre quando mancherò loro.

            Per Francesco era un’esigenza interiore, una «vocazione» che impegnava tutta la sua persona e l’intera sua vita. Il padre aveva rispetto per il sacerdozio, ma lo reputava ancora una semplice funzione, un mestiere. Ora la riforma cattolica mirava a conferire al sacerdozio una rinnovata configurazione, più alta e più esigente, a considerarlo cioè una chiamata di Dio sancita dalla Chiesa. Al dovere di rispondere a tale appello divino corrispondeva forse anche un nuovo diritto della persona umana, che Francesco difese di fronte alla decisione «unilaterale» del padre. Questi, dopo aver esposto tutte le sue buone ragioni contrarie a tale progetto, sapendo che il figlio avrebbe occupato un posto molto onorevole, finì per cedere: «Per Dio, fai ciò che credi».
            In un’opera apparsa nel 1669, Nicolas de Hauteville commenterà questo episodio paragonando il dramma del signor de Boisy a quello di Abramo, al quale Dio aveva comandato di sacrificargli il figlio. Ma con questa differenza, che era stato Francesco a imporre al padre il sacrificio. In effetti, scriveva l’antico cronista, «l’intera adolescenza e giovinezza [di Francesco] fu un tempo di gioia, di speranza e di consolazione assai gratificante per il suo buon padre, ma alla fin fine occorre confessare che questo [nuovo] Isacco fu per lui un ragazzo causa di preoccupazioni, di amarezze e di dolore». E aggiungeva che «la lotta che si scatenò dentro di lui, lo fece ammalare gravemente, trovando duro consentire a questo amato figlio di sposare un breviario al posto di una signorina avvenente e ricca ereditiera di un nobilissimo e antichissimo casato della Savoia».

(continua)




San Francesco de Sales studente universitario a Padova (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

Medicina
            Accanto alle facoltà di diritto e di teologia, a Padova gli studi di medicina e di botanica godevano di un prestigio straordinario, soprattutto dopo che il medico fiammingo Andrea Vesalio, padre dell’anatomia moderna, aveva inferto un colpo mortale alle vecchie teorie d’Ippocrate e di Galieno, grazie alla pratica della dissezione del corpo umano, che scandalizzava le autorità stabilite. Vesalio aveva pubblicato nel 1543 il suo De humani corporis fabrica, che rivoluzionò le conoscenze dell’anatomia umana. Per procurarsi cadaveri, si chiedevano i corpi dei giustiziati o si dissotterravano i morti, il che non avveniva senza provocare delle contese talvolta cruente dei becchini.
            Ciò nonostante è possibile avanzare parecchie costatazioni. Innanzi tutto, si sa che durante la grave malattia che lo prostrerà a Padova sul finire del 1590, aveva deciso di donare il suo corpo alla scienza, qualora fosse morto, e ciò allo scopo di evitare litigi tra gli studenti di medicina, intenti a cercare cadaveri. Approvava pertanto il nuovo metodo della dissezione del corpo umano? Sembrava in ogni caso incoraggiarla con questo gesto di scottante attualità. Inoltre, è rilevabile in lui un costante interesse per i problemi della salute, per i medici e per i chirurgi. Esiste una grande differenza, scriverà per esempio, tra il brigante e il chirurgo: «Il brigante e il chirurgo incidono le membra e fanno sgorgare il sangue, l’uno per uccidere, l’altro per guarire».
            Sempre a Padova all’inizio del secolo XVII, un medico inglese, William Harvey, scoprirà le regole della circolazione del sangue. Il cuore diveniva veramente l’autore della vita, il centro di tutto, il sole, come il principe nel suo Stato. Anche se il medico inglese pubblicherà le sue scoperte solo nel 1628, è possibile supporre che al tempo in cui Francesco era studente, tali ricerche fossero già avviate. Egli stesso scriverà per esempio che «cor habet motum in se proprium et alia movere facit», cioè che «il cuore ha in sé un movimento che gli è proprio e che fa muovere tutto il resto». Citando Aristotele, affermerà che «il cuore è il primo membro che vive in noi e l’ultimo che muore».

Botanica
            Probabilmente durante il suo soggiorno a Padova, Francesco si interessò anche delle scienze naturali. Non poteva ignorare che in città c’era il primo giardino botanico, creato per coltivare, osservare e sperimentare piante indigene ed esotiche. Le piante erano ingredienti che entravano nella maggioranza dei medicinali e il loro uso a scopo terapeutico si basava principalmente su testi di autori antichi, non sempre affidabili. Possediamo di Francesco otto raccolte di Similitudini, redatte probabilmente tra il 1594 e il 1614, ma la cui origine può risalire a Padova. Il titolo di queste piccole raccolte di immagini e di paragoni tratti dalla natura manifesta certamente il loro carattere utilitario; il loro contenuto, invece, testimonia in ogni caso un interesse quasi enciclopedico, non soltanto per il mondo vegetale, ma anche per quello minerale e animale.
            Francesco di Sales ha consultato gli autori antichi, che al suo tempo godevano di un’indiscussa autorità in materia: Plinio il Vecchio, autore di una vasta Storia naturale, vera enciclopedia di quell’epoca, ma anche Aristotele (quello della Storia degli animali e de La generazione degli animali), Plutarco, Teofrasto (autore di una Storia delle piante), e perfino sant’Agostino e sant’Alberto Magno. Conosceva pure gli autori contemporanei, in particolare i Commentari a Dioscoride del naturalista italiano Pietro Andrea Mattioli.
            Ciò che affascinava Francesco di Sales era il rapporto misterioso tra la storia naturale e la vita spirituale dell’uomo. Per lui, scrive A. Ravier, «ogni scoperta è portatrice di un segreto della creazione». Meravigliose sono le virtù particolari di alcune piante: «Plinio e Mattioli descrivono un’erba salutare contro la peste, la colica, i calcoli renali, invitandoci a coltivarla proprio nei nostri giardini». Lungo i numerosi sentieri che ha percorso durante la sua vita, lo scorgiamo attento alla natura, al mondo che lo circonda, al succedersi delle stagioni e al loro significato misterioso. Il libro della natura gli appariva come un’immensa Bibbia che occorreva imparare a interpretare, ragion per cui chiamava i Padri della Chiesa «erboristi spirituali». Quando eserciterà la direzione spirituale di persone assai differenti, rammenterà che «nel giardino, ogni erba e ogni fiore richiede una cura particolare».

Programma di vita personale
            Durante il suo soggiorno a Padova, città dove, tra monasteri e conventi, se ne contavano oltre quaranta, Francesco si rivolse di nuovo ai gesuiti per la sua direzione spirituale. Sottolineato come conviene il ruolo di primo piano dei gesuiti nella formazione del giovane Francesco di Sales, va detto però che essi non furono i soli. Una grande ammirazione e amicizia lo legava al padre Filippo Gesualdi, predicatore francescano del celebre convento di sant’Antonio di Padova. Frequentava il convento dei Teatini, dove il padre Lorenzo Scupoli veniva di tanto in tanto a predicare. Là appunto ne scoprì il libro intitolato Combattimento spirituale, che gli insegnerà a dominare le inclinazioni della parte inferiore dell’anima. Francesco di Sales «ha scritto non poche cose – asseriva il Camus –, di cui scopro subito il seme e il germe in qualche passo di detto Combattimento». Sempre nel suo soggiorno padovano, pare inoltre che si sia dedicato a un’attività educativa in un orfanotrofio.
            Si deve senza dubbio al benefico influsso di questi maestri, in particolare del padre Possevino, il fatto che Francesco scrisse vari regolamenti di vita, dei quali sono rimasti dei frammenti significativi. Il primo, intitolato Esercizio della preparazione, era un esercizio mentale da compiere al mattino: «Mi sforzerò, per mezzo suo – scriveva –, a dispormi per trattare e compiere, nella forma più lodevole, il mio dovere». Consisteva nell’immaginare tutto quello che gli poteva capitare durante la giornata: «Penserò dunque seriamente agli imprevisti che mi potranno capitare, alle compagnie dove forse sarò costretto d’intervenire, ai fatti che mi si potranno presentare, ai luoghi dove si cercherà di convincermi d’andare». Ed ecco lo scopo dell’esercizio:

            Studierò con diligenza e cercherò le vie migliori per evitare dei passi falsi. Disporrò così e stabilirò dentro di me quello che mi converrà fare, l’ordine e il comportamento che dovrò tenere in questa o in quella circostanza, ciò che sarà opportuno dire in compagnia, il contegno che dovrò osservare e ciò che bisognerà fuggire e desiderare.

            Nella Condotta particolare per passare bene la giornata, lo studente individuava le principali pratiche di pietà che intendeva compiere: preghiere del mattino, messa quotidiana, tempo di «riposo spirituale», preghiere e invocazioni durante la notte. Nell’Esercizio del sonno o del riposo spirituale, precisava i soggetti su cui doveva concentrare le sue meditazioni. Accanto ai temi classici, quali la vanità di questo mondo, il detestare il peccato, la giustizia divina, vi aveva ritagliato uno spazio per considerazioni, dal sapore umanista, sulla «eccellenza della virtù», che «rende l’uomo bello interiormente e anche esteriormente», sulla bellezza della ragione umana, questa «divina fiaccola» che diffonde un «meraviglioso splendore», come pure sulla «sapienza infinita, l’onnipotenza e l’incomprensibile bontà» di Dio. Un’altra pratica di pietà era consacrata alla Comunione frequente, alla preparazione e al relativo ringraziamento. Vi si nota un progresso nella frequenza della comunione rispetto al periodo parigino.
            Quanto alle Regole per le conversazioni e gli incontri, esse hanno un interesse particolare dal punto di vista dell’educazione sociale. Contengono sei punti che lo studente si proponeva di osservare. Prima di tutto occorreva distinguere bene tra il semplice incontro, dove «la compagnia è momentanea», e la «conversazione», dove entra in gioco l’affettività. Per quanto concerne gli incontri, vi si legge questa regola generale:

            Non disprezzerò mai, né darò l’impressione di fuggire completamente l’incontro di qualsiasi persona; questo potrebbe dar motivo d’apparire superbo, altero, severo, arrogante, censore, ambizioso e controllore. […] Non mi prenderò la libertà di dire o di fare qualcosa che non entri nella misura, per non apparire un insolente, lasciandomi trasportare da una familiarità troppo facile. Soprattutto starò attento a non mordere, o pungere o motteggiare qualcuno […]. Rispetterò ognuno in particolare, osserverò la modestia, parlerò poco e bene, in modo che i compagni desiderino tornare ad un nuovo incontro con piacere e non con noia.

            A proposito delle conversazioni, termine che all’epoca aveva un significato ampio di abituale frequentazione o di compagnia, Francesco si imponeva una maggiore prudenza. Voleva essere «amico di tutti e familiare di pochi», e sempre fedele all’unica regola che non consentiva eccezione: «Niente contro Dio».
            Per il resto, scriveva, «sarò modesto senza insolenza, libero senza austerità, dolce senza affettazione, arrendevole senza contraddizione, a meno che la ragione non suggerisca diversamente, cordiale senza dissimulazione». Si comporterà in maniera differente verso i superiori, gli uguali e gli inferiori. Era sua regola generale quella di «adattarsi alla varietà delle compagnie, senza pregiudicare però in nessun modo la virtù». Lo studente aveva diviso le persone in tre categorie: le persone sfacciate, quelle libere e le chiuse. Resterà imperturbabile davanti agli insolenti, sarà aperto con le persone libere (cioè semplici, accoglienti) e si mostrerà assai prudente con soggetti melanconici, sovente pieni di curiosità e di sospetti. Con i grandi, infine, si imporrà di stare in guardia, di trattare con loro «come con il fuoco» e di non avvicinarsi troppo. Certo, si potrebbe testimoniare loro dell’amore, perché l’amore «genera la libertà», ma ciò che dovrà dominare è il rispetto che «genera la modestia».
            È facile costatare a quale grado di maturità umana e spirituale lo studente di diritto era allora giunto. Prudenza, saggezza, modestia, discernimento e carità sono le qualità che balzano agli occhi nel suo programma di vita, ma vi si trova anche un’«onesta libertà», un atteggiamento benevolo verso tutti, un fervore spirituale fuori del comune. Ciò non impedì che a Padova conoscesse momenti difficili, dei quali si trovano forse delle reminiscenze in un passo della Filotea dove afferma che «un giovanotto o una signorina che non assecondino nel linguaggio, nel gioco, nel ballo, nel bere o nel vestire la sregolatezza di una compagnia debosciata verranno beffeggiati e scherniti dagli altri, e la loro modestia chiamata bigotteria o affettazione».

Ritorno in Savoia
            Il 5 settembre 1591 Francesco di Sales coronò l’insieme dei suoi studi con un brillante dottorato in utroque jure. Prendendo congedo dall’università di Padova, si allontanava, diceva, da «quella collina sulla cui cima abitano, senza dubbio, le Muse come in un altro Parnaso».
            Prima di lasciare l’Italia, era opportuno visitare questo paese così ricco di storia, di cultura e di religione. Con Déage, Gallois e qualche amico savoiardo, partì sul finire di ottobre alla volta di Venezia, poi di là fino ad Ancona e al santuario di Loreto. Loro meta finale era quella di giungere a Roma. Purtroppo la presenza di briganti, inorgogliti dalla morte del papa Gregorio XIV, ed anche la mancanza di denaro non glielo consentirono.
            Di ritorno a Padova, riprese per qualche tempo lo studio del Codice, inserendovi il racconto del viaggio. Ma alla fine dell’anno 1591, si arrese per la fatica. Era tempo di pensare a tornare in patria. Effettivamente, il ritorno in Savoia avvenne verso la fine di febbraio del 1592.




San Francesco de Sales studente universitario a Padova (1/2)

            Francesco si recò a Padova, città appartenente alla repubblica di Venezia, nell’ottobre del 1588, accompagnato dal fratello cadetto Gallois, un ragazzo di dodici anni che studierà dai gesuiti, e dal loro fedele precettore, don Déage. Alla fine del secolo XVI, la facoltà di diritto dell’università di Padova godeva di una fama straordinaria, che superava perfino quella del celebre Studium di Bologna. Quando pronuncerà il suo Discorso di ringraziamento in seguito alla promozione a dottore, Francesco di Sales ne tesserà gli elogi in forma ditirambica:

            Fino allora, io non avevo consacrato nessun lavoro alla santa e sacra scienza del Diritto: ma allorché, in seguito, decisi di impegnarmi in tale studio, non ebbi assolutamente bisogno di cercare dove rivolgermi o dove recarmi; questo collegio di Padova mi attirò subito per la sua celebrità e, sotto i più favorevoli auspici, infatti, in quel tempo, aveva dottori e lettori quali non ebbe mai e non avrà giammai di più grandi.

            Checché egli ne dica, è certo che la decisione di studiare il diritto non partiva da lui, ma gli venne imposta dal padre. Altre ragioni hanno potuto giocare a favore di Padova, e, precisamente, il bisogno che il Senato di uno Stato bilingue aveva di poter disporre di magistrati provvisti di una duplice cultura, francese e italiana.

Nella patria dell’umanesimo
            Valicando per la prima volta le Alpi, Francesco di Sales metteva piede nella patria dell’umanesimo. A Padova poté non solamente ammirare i palazzi e le chiese, specialmente la basilica di Sant’Antonio, ma anche gli affreschi di Giotto, i bronzi di Donatello, le pitture del Mantegna, o ancora gli affreschi del Tiziano. Il suo soggiorno nella penisola italiana gli consentirà inoltre di conoscere parecchie città d’arte, in particolare, Venezia, Milano e Torino.
            Sul piano letterario, non poteva mancare d’essere in contatto con alcune produzioni tra le più celebri. Ha avuto forse tra mano la Divina Commedia di Dante Alighieri, i poemi del Petrarca, precursore dell’umanesimo e primo poeta del suo tempo, le novelle del Boccaccio, fondatore della prosa italiana, l’Orlando furioso dell’Ariosto, o la Gerusalemme liberata del Tasso? Le sue preferenze andavano alla letteratura spirituale, in particolare alla lettura meditata del Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli. Riconoscerà modestamente: «Non penso di parlare un italiano perfetto».
            A Padova, Francesco ebbe la fortuna di incontrare un insigne gesuita nella persona del padre Antonio Possevino. Questo «umanista errante dalla vita epica», che era stato incaricato dal papa di missioni diplomatiche in Svezia, Danimarca, Russia, Polonia e Francia, aveva preso dimora fissa a Padova poco prima dell’arrivo di Francesco. Divenne suo direttore spirituale e sua guida negli studi e nella conoscenza del mondo.

L’università di Padova
            Fondata nel 1222, quella di Padova era la più antica università d’Italia dopo quella di Bologna, di cui era una derivazione. Vi si insegnava con successo non soltanto il diritto, considerato come la scientia scientiarum, ma anche la teologia, la filosofia e la medicina. I circa millecinquecento studenti provenivano dall’intera Europa e non erano tutti cattolici, il che ingenerava a volte preoccupazioni e disordini.
            Le risse erano frequenti, talvolta sanguinose. Uno dei giochi pericolosi preferiti era la «caccia ai Padovani». Francesco di Sales racconterà un giorno a un amico, Jean-Pierre Camus, «che uno studente, dopo aver sferrato un colpo di spada contro uno sconosciuto, si rifugiò presso una donna che scoprì essere la madre del giovane appena assassinato». Lui stesso, che non circolava senza la spada, un giorno venne coinvolto in una lotta da compagni, che giudicavano la sua dolcezza come una forma di vigliaccheria.
            Professori e studenti sapevano apprezzare la proverbiale patavinam libertatem, che oltre ad essere coltivata nella ricerca intellettuale, incitava anche un buon numero di studenti a «svolazzare» dandosi alla bella vita. Anche i discepoli più vicini a Francesco non erano modelli di virtù. La vedova di uno di loro racconterà più tardi, col suo linguaggio pittoresco, come il suo futuro marito aveva messo in scena una farsa di cattivo gusto con alcuni complici, destinata a gettare Francesco tra le braccia di una «miserabile puttana».

Gli studi di diritto
            Per obbedire al padre, Francesco si dedicò con coraggio allo studio del diritto civile, cui volle aggiungere quello del diritto ecclesiastico, che farà di lui un futuro dottore in utroque jure. Lo studio della legge comportava anche quello della giurisprudenza, che è «la scienza per mezzo della quale si amministra il diritto».
            Lo studio era concentrato sulle fonti del diritto, cioè, l’antico diritto romano, raccolto e interpretato nel secolo VI dai giuristi dell’imperatore Giustiniano. In tutta la sua vita si ricorderà della definizione della giustizia, letta all’inizio del Digesto: «una perpetua, forte e costante volontà di rendere a ciascuno ciò che gli appartiene».
            Esaminando i quaderni di appunti di Francesco, possiamo individuare alcune sue reazioni di fronte a certe leggi. Si manifesta pienamente d’accordo con il titolo del Codice che apre la serie delle leggi: Della Sovrana Trinità e della Fede cattolica, e con la difesa che segue immediatamente: Che nessuno si deve permettere di discuterne in pubblico. «Questo titolo – così annotava – è prezioso, direi sublime, e degno di essere letto sovente contro i riformatori, i saccenti e i politici».
            La formazione giuridica di Francesco di Sales poggiava su basi che all’epoca parevano indiscutibili. Per i cattolici del suo tempo, «tollerare» il protestantesimo non poteva assumere altro significato se non quello di essere complici dell’errore; di qui la necessità di combatterlo e con tutti i mezzi, ivi compresi quelli forniti dal diritto in vigore. In nessun caso ci si voleva rassegnare alla presenza dell’eresia, la quale appariva non soltanto come un errore sul piano della fede, ma anche come una fonte di divisione e di disturbo della cristianità. Nella foga dei suoi vent’anni, Francesco di Sales condivideva questo modo di vedere.
            Ma tale foga aveva libero corso anche nei confronti di quanti favorivano l’ingiustizia e le persecuzioni, dato che, a proposito del titolo XXVI del libro III, scriveva: «È preziosa come l’oro e degna di essere scritta con lettere maiuscole la IX legge, che recita: Siano puniti col fuoco i familiari del principe se perseguitano gli abitanti delle province».
            Più tardi, Francesco farà appello a colui che designava come «nostro Giustiniano» per denunciare la lentezza della giustizia da parte del giudice, il quale «si scusa invocando mille ragioni di costume, di stile, di teoria, di pratica e di cautela». Nelle lezioni di diritto ecclesiastico studierà la raccolta delle leggi che utilizzerà più tardi, in particolare quelle del canonista medievale Graziano, tra l’altro per dimostrare che il vescovo di Roma è «vero successore di san Pietro e capo della Chiesa militante», e che i religiosi e le religiose devono essere posti «sotto l’obbedienza dei vescovi».
            Consultando gli appunti manoscritti presi da Francesco durante il suo soggiorno a Padova, si resta colpiti dalla scrittura estremamente curata. È passato dalla scrittura gotica, ancora utilizzata a Parigi, alla scrittura moderna degli umanisti.
            Ma alla fin fine, gli studi di diritto devono averlo piuttosto annoiato. In un torrido giorno d’estate, di fronte alla freddezza delle leggi e alla loro lontananza nel tempo, scriverà, disilluso, questo commento: «Dato che queste questioni sono vecchie, non pareva proficuo dedicarsi ad esaminarle in questo tempo canicolare, troppo caldo per affrontare con comodo discussioni fredde e agghiaccianti».

Studi teologici e crisi intellettuale
            Mentre era dedito agli studi del diritto, Francesco continuò a interessarsi da vicino della teologia. Secondo suo nipote, giunto di fresco a Padova, «si mise tosto al lavoro con tutta la diligenza possibile, e pose sul leggio della sua stanza la Somma del dottore angelico, san Tommaso, per averla ogni giorno davanti agli occhi e poterla consultare facilmente per comprendere altri libri. Godeva molto nel leggere i libri di san Bonaventura. Acquisterà una buona conoscenza dei Padri latini, in modo particolare dei «due brillanti luminari della Chiesa», «il grande sant’Agostino» e san Girolamo, che furono anche «due grandi capitani dell’antica Chiesa», senza dimenticare il «glorioso sant’Ambrogio» e san Gregorio Magno. Tra i Padri greci ammirava san Giovanni Crisostomo «che, per la sua eccelsa eloquenza, venne lodato e denominato Bocca d’oro». Inoltre, citerà di frequente san Gregorio Nazianzeno, san Basilio, san Gregorio di Nissa, sant’Atanasio, Origene e altri ancora.
            Consultando i frammenti di appunti pervenutici, si viene a sapere che leggeva anche gli autori più importanti del suo tempo, in particolare, il grande esegeta e teologo spagnolo Juan Maldonado, un gesuita che aveva impostato con successo nuovi metodi nello studio dei testi della Scrittura e dei Padri della Chiesa. Oltre allo studio personale, Francesco ha potuto seguire corsi di teologia all’università, dove don Déage preparava il dottorato, e approfittare dell’aiuto e del consiglio del padre Possevino. Si sa anche che si recava spesso dai francescani, presso la basilica di Sant’Antonio.
            La sua riflessione si concentrava di nuovo sul problema della predestinazione e della grazia, al punto da fargli riempire cinque quaderni di appunti. In realtà, Francesco si trovò posto davanti a un dilemma: restare fedele a convinzioni che furono sempre sue, oppure attenersi alle classiche posizioni di sant’Agostino e di san Tommaso, «dottore massimo e senza pari». Ora gli tornava difficile «simpatizzare» per una dottrina tanto scoraggiante di questi due maestri, o perlomeno per l’interpretazione corrente, secondo cui gli uomini non hanno alcun diritto alla salvezza, perché essa dipende totalmente da una libera decisione da parte di Dio.
            A partire dalla sua adolescenza, Francesco si era fatto un’idea più ottimista del disegno di Dio. Le sue convinzioni personali vennero rinforzate dopo la comparsa nel 1588 del libro del gesuita spagnolo Luis Molina, il cui titolo latino Concordia riassumeva bene la tesi: Concordia del libero arbitrio con il dono della grazia. In quest’opera, la predestinazione in senso stretto era sostituita con una predestinazione che teneva conto dei meriti dell’uomo, cioè delle sue buone o cattive azioni. In altri termini, Molina affermava sia l’agire sovrano di Dio sia il ruolo determinante della libertà da lui donata all’uomo.
            Nel 1606, il vescovo di Ginevra avrà l’onore di essere consultato dal papa a proposito della disputa teologica che opponeva, sempre sullo stesso problema, i partigiani del gesuita Molina e quelli del domenicano Domingo Báñez, per il quale la dottrina del Molina concedeva troppa autonomia alla libertà umana, col rischio di mettere a repentaglio la sovranità di Dio.
            Il Teotimo, che apparirà nel 1616, contiene al capitolo 5 del libro III il pensiero di Francesco di Sales, riassunto in «quattordici righe», le quali, secondo Jean-Pierre Camus, gli erano costate «la lettura di mille duecento pagine di un grosso volume». Con un lodevole sforzo per essere conciso ed esatto, Francesco affermava sia la liberalità e generosità divina, sia la libertà e responsabilità umana all’atto di redigere questa soppesata frase: «Dipende da noi essere suoi: infatti, benché sia un dono di Dio appartenere a Dio, tuttavia è un dono che Dio non rifiuta mai ad alcuno, anzi l’offre a tutti, per concederlo a coloro che di buon cuore acconsentiranno a riceverlo».
            Facendo sue le idee dei gesuiti, che agli occhi di molti apparivano come dei «novatori», e che ben presto i giansenisti con Blaise Pascal tacceranno di cattivi teologi, di lassisti, Francesco di Sales innestava la sua teologia nella corrente dell’umanesimo cristiano e optava per il «Dio del cuore umano». La «teologia salesiana», che poggia sulla bontà di Dio, il quale vuole la salvezza di tutti, si presenterà ugualmente con un pressante invito alla persona umana a rispondere con tutto il «cuore» agli appelli della grazia.

(continua)




Nino, un giovane come tanti… incontra nel suo Signore lo scopo della vita

            Nino Baglieri nasce a Modica Alta il 1° maggio 1951 da mamma Giuseppa e papà Pietro. Dopo appena quattro giorni è battezzato nella Parrocchia di Sant’Antonio da Padova. Cresce come tanti ragazzi, con il gruppo di amici, qualche fatica negli anni della scuola e il sogno di un futuro fatto di lavoro e della possibilità di formarsi una famiglia.
            Pochi giorni dopo il suo diciassettesimo compleanno, festeggiato al mare con gli amici, il 6 maggio 1968, memoria liturgica di san Domenico Savio, Nino durante una giornata di ordinario lavoro come muratore cade da 17 metri di altezza quando cede l’impalcatura del palazzo – non lontano da casa – al quale stava lavorando: 17 metri, precisa Nino, nel suo Quaderno-Diario, «1 metro per ogni anno di vita». «Le mie condizioni», racconta, «erano così gravi che i medici si aspettavano il mio decesso da un momento all’altro (ricevetti addirittura l’estrema unzione). [Un medico] fece un’insolita proposta ai miei genitori: “se vostro figlio riuscisse a superare questi momenti, il che sarebbe solo frutto di un miracolo, sarebbe destinato a passare la sua vita su un letto; se voi credete, con una puntura letale, sia a voi che a lui risparmierete tante sofferenze”. “Se Dio lo vuole con sé – rispose la mamma – lo prenda, ma se lo lascia vivere sarò felice di accudirlo per tutta la vita”. Così la mia mamma, che è sempre stata una donna di grande fede e coraggio, aprì le braccia e il cuore ed abbracciò per prima la croce».
Nino affronterà anni difficili anche per il peregrinare in diversi Ospedali, dove dolorose terapie e operazioni lo proveranno duramente, non sortendo la guarigione desiderata. Resterà tetraplegico per tutta la vita.
            Ritornato a casa, seguito dall’affetto della famiglia e dal sacrificio eroico della mamma che gli è sempre accanto, Nino Baglieri ritrova gli sguardi di amici e conoscenti, ma vede in essi troppo spesso un compatire che lo disturba: “mischinu poviru Ninuzzu…” (“poveretto povero Nino…”). Finisce così per chiudersi in sé stesso, in dieci dolorosi anni di solitudine e rabbia. Sono anni di disperazione e bestemmie per la non accettazione del suo stato e di domande come: “Perché proprio a me è capitato tutto questo?”.
            La svolta arriva il 24 marzo 1978, vigilia dell’Annunciazione e – quell’anno – Venerdì Santo: un sacerdote del Rinnovamento nello Spirito Santo va a trovarlo con alcune persone ed essi pregano su di lui. La mattina Nino, sempre allettato, aveva chiesto alla mamma di vestirlo: «Se il Signore mi guarisce non sarò nudo davanti alle persone». Leggiamo dal suo Quaderno-Diario: “Padre Aldo cominciò subito la Preghiera, io ero ansioso ed emozionato, mi pose le mani sulla testa, io non capivo questo gesto; cominciò ad invocare lo Spirito Santo affinché scendesse su di me. Dopo qualche minuto, sotto l’imposizione delle mani, sentii un grande calore in tutto il corpo, un grande formicolio, come una forza nuova entrare in me, una forza rigeneratrice, una forza Viva e qualcosa di vecchio uscire. Lo Spirito Santo era sceso su di me, con potere è entrato nel mio cuore, è stata un’Effusione d’Amore e di Vita, in quell’istante ho accettato la Croce, ho detto il mio Sì a Gesù e sono rinato a Vita Nuova, sono diventato un uomo nuovo, con un cuore nuovo; tutta la disperazione di 10 anni cancellata in pochi secondi, il mio cuore è stato riempito di una gioia nuova e vera che io non avevo mai conosciuto. Il Signore mi ha guarito, io volevo la guarigione fisica ed invece il Signore ha operato qualcosa di più grande, la Guarigione dello Spirito, così ho trovato la Pace, la Gioia, la Serenità, e tanta forza e tanta voglia di vivere. Finì la preghiera, il mio cuore traboccava di gioia, i miei occhi brillavano e il mio viso era raggiante; pur restando nelle stesse condizioni di sofferente ero felice».
            Per Nino Baglieri e la sua famiglia comincia allora un nuovo periodo, un periodo di rinascita segnato in Nino dalla riscoperta della fede e dall’amore per la Parola di Dio, che egli legge per un anno di seguito. Si apre a quei rapporti umani dai quali si era sottratto senza che gli altri invece avessero mai smesso di volergli bene.
            Un giorno Nino, sollecitato da alcuni bambini che erano vicino a lui e gli chiedono aiuto per fare un disegno, si accorge di avere il dono di scrivere con la bocca: in breve tempo sarà in grado di scrivere molto bene – meglio di come quando scrivesse a mano – e questo gli permette di oggettivare il proprio vissuto, sia nella forma personalissima di numerosi Quaderni-Diario, sia attraverso poesie / brevi componimenti che inizierà a leggere alla Radio. Arriveranno poi, con il dilatarsi della rete relazionale, migliaia di lettere, amicizie, incontri…, attraverso i quali Nino espliciterà una particolare forma di apostolato, sino al termine della vita.
Approfondisce intanto il cammino spirituale attraverso tre direttrici, che ritmano la sua esperienza ecclesiale, dentro l’obbedienza agli incontri che Dio mette sul suo cammino: la vicinanza al Rinnovamento nello Spirito Santo; il legame con la realtà dei Camilliani (Ministri degli Infermi); il cammino con i Salesiani, diventando dapprima Salesiano Cooperatore e poi consacrato laico nell’Istituto Secolare dei Volontari con Don Bosco (interpellato dai delegati del Rettor Maggiore, dà anche un contributo nella stesura del Progetto di vita dei CDB). Saranno i Camilliani per primi a proporgli una forma di consacrazione: essa, umanamente parlando, sembrava intercettare lo specifico della sua esistenza, segnata dalla sofferenza. Il posto di Nino però è a casa di Don Bosco ed egli lo scopre nel tempo, non senza momenti di fatica, sempre però affidandosi a chi lo guida e imparando a confrontare i propri desideri con le modalità attraverso cui la Chiesa chiama. E mentre Nino percorre le tappe di formazione e consacrazione (fino alla professione perpetua, il 31 agosto 2004), sono tante le vocazioni – anche al sacerdozio e alla vita consacrata femminile – che da lui traggono ispirazione, forza, luce.
            Il responsabile Mondiale dei “CDB” così si esprime sul senso della consacrazione laicale oggi, vissuta anche da Nino: «Nino Baglieri è stato per noi Volontari Con Don Bosco un dono speciale del cielo: è il primo di noi fratelli che ci mostra un cammino di santità attraverso una testimonianza umile, discreta, gioiosa. Nino ha realizzato in pienezza la vocazione alla secolarità consacrata salesiana e ci insegna che la santità è possibile in ogni condizione di vita, anche quelle segnate dall’incontro con la croce e la sofferenza. Nino ci ricorda che tutti possiamo vincere in Colui che ci dà forza: la Croce che lui ha tanto amato, come uno sposo fedele, è stata il ponte attraverso cui ha unito la sua storia personale di uomo con la storia della salvezza; è stata l’altare su cui ha celebrato il suo sacrificio di lode al Signore della vita; è stata la scala per il paradiso. Animati dal suo esempio anche noi, come Nino, possiamo diventare capaci di trasformare come lievito buono tutte le realtà quotidiane, certi di trovare in lui un modello e un potente intercessore presso Dio».
            Nino, che non può muoversi, è Nino che nel tempo apprende a non scappare, a non sottrarsi alle richieste e diventa sempre più accessibile e semplice come il suo Signore. Il suo letto, la sua stanzetta o la sedia a rotelle si trasfigurano così in quell’“altare” dove tanti portano gioie e dolori: egli le accoglie, si offre e offre le proprie sofferenze per essi. Nino “che sta” è l’amico sul quale si possono “scaricare” tante preoccupazioni e “deporre” i pesi: lui accoglie col sorriso, anche se alla sua vita – custoditi nel riserbo – non mancheranno momenti di grande prova morale e spirituale.
            Nelle lettere, negli incontri, nelle amicizie attesta grande realismo e sa essere sempre vero, riconoscendo la propria piccolezza ma anche la grandezza del dono di Dio in lui e attraverso di lui.
            Durante un incontro con i giovani a Loreto, alla presenza del Card. Angelo Comastri, dirà: «Se qualcuno di voi è in peccato mortale, sta molto peggio di me!»: è la consapevolezza, tutta salesiana, che è meglio “la morte, ma non i peccati”, e che veri amici devono essere Gesù e Maria, da cui non separarsi mai.
            Il Vescovo della diocesi di Noto, Mons. Salvatore Rumeo, sottolinea che «la divina avventura di Nino Baglieri ricorda a tutti noi che la santità è possibile e non appartiene ai secoli passati: la santità è la via per raggiungere il Cuore di Dio. Nella vita cristiana non ci sono altre soluzioni. Abbracciare la Croce vuol dire stare con Gesù nella stagione della sofferenza per partecipare alla Sua Luce. E Nino è nella luce di Dio».
            Nino è nato al Cielo il 2 marzo 2007, dopo aver ininterrottamente festeggiato dal 1982 il 6 maggio (giorno della caduta) quale “anniversario della Croce”.
            Dopo la morte, viene vestito con la tuta e le scarpe da ginnastica, affinché, come aveva detto, «nel mio ultimo viaggio verso Dio, potrò corrergli incontro».
            Don Giovanni d’Andrea, ispettore dei Salesiani di Sicilia ci invita così a «… conoscere sempre meglio e sempre più la persona di Nino ed il suo messaggio di speranza. Anche noi come Nino vogliamo indossare “tuta e scarpette” e “correre” sulla strada della santità che vuol dire realizzare il Sogno di Dio per ciascuno di noi, un Sogno che ognuno di noi è: l’essere “felici nel tempo e nell’eternità”, come don Bosco scrisse nella sua Lettera da Roma, il 10 maggio 1884».
            Nel suo testamento spirituale Nino ci esorta a «non lasciarlo senza far nulla»: la sua Causa di Beatificazione e Canonizzazione è, ora, lo strumento, messo a disposizione dalla Chiesa per imparare a conoscerlo e ad amarlo sempre più, a incontrarlo come amico ed esempio nella sequela di Gesù, a rivolgersi a lui nella preghiera, chiedendogli quelle grazie che sono arrivate già numerosissime.
            «La testimonianza di Nino – auspica il Postulatore Generale don Pierluigi Cameroni sdb – sia segno di speranza per quanti sono nella prova e nel dolore, e per le nuove generazioni, perché possano imparare ad affrontare la vita con fede e coraggio, senza scoraggiarsi e abbattersi. Nino ci sorride e ci sostiene perché, come lui, possiamo fare la nostra “corsa” verso la gioia del cielo».
            Infine il vescovo Rumeo, al termine della Sessione di chiusura dell’Inchiesta diocesana, ha detto: «È una gioia grande aver raggiunto questo traguardo per Nino e soprattutto per la Chiesa di Noto, dobbiamo pregare Nino, bisogna intensificare la preghiera, dobbiamo chiedere qualche grazia a Nino perché possa intercedere dal cielo. È un invito a noi a camminare sulla via della santità. Quella della santità è un’arte difficile perché il cuore della santità è il Vangelo. Essere santi significa accogliere la parola del Signore: a chi ti percuote la guancia, porgi anche l’altra, a chi ti chiede il mantello offri anche la tunica. Questa è la santità! […] In un mondo dove prevale l’individualismo dobbiamo scegliere come intendere la vita: o scegliamo la ricompensa degli uomini, o riceviamo la ricompensa di Dio. Lo ha detto Gesù, lui è venuto e rimane segno di contraddizione perché è lo spartiacque, l’anno zero. La venuta di Cristo diventa l’ago della bilancia: o con lui, o contro di lui. Amare e amarci e il claim che deve guidare la nostra esistenza».

Roberto Chiaramonte