San Francesco di Sales lo ammaestra. Futuro sulle vocazioni (1879)

Nel sogno profetico che Don Bosco racconta il 9 maggio 1879, San Francesco di Sales appare come premuroso maestro e consegna al Fondatore un libretto carico di avvertimenti per novizi, professi, direttori e superiori. La visione è dominata da due battaglie epiche: giovani e guerrieri prima, poi uomini armati e mostri, mentre lo stendardo di «Maria Auxilium Christianorum» garantisce la vittoria a chi lo segue. I sopravvissuti partono per Oriente, Nord e Mezzogiorno, prefigurando l’espansione missionaria salesiana. Le parole del Santo insistono su obbedienza, castità, carità educativa, amore al lavoro e temperanza, colonne indispensabili perché la Congregazione cresca, resista alle prove e lasci ai figli un’eredità di santità operosa. Si chiude con una bara, severo richiamo a vigilanza e preghiera.

            Checché sia di questo sogno [cura del mal d’occhi con sugo di cicoria], il Beato un altro ne ebbe dei soliti, che raccontò il 9 maggio. Assistette in esso alle lotte accanite che si sarebbero dovute affrontare dai chiamati alla Congregazione, ricevendo una serie di utili avvisi per tutti i suoi ed alcuni salutari consigli per l’avvenire.

            Grande e lunga battaglia di giovanetti contro guerrieri di vario aspetto, diverse forme, con armi strane. In fine rimasero pochissimi superstiti.
            Altra più accanita ed orribile battaglia avvenne tra mostri di forma gigantesca contro ad uomini di alta statura bene armati e bene esercitati. Essi avevano uno stendardo assai alto e largo, nel centro del quale stavano dipinte in oro queste parole: Maria Auxilium Christianorum (Maria Aiuto dei Cristiani). La pugna fu lunga e sanguinosa. Ma quelli che seguivano lo stendardo, furono come invulnerabili e rimasero padroni di una vastissima pianura. A costoro si congiunsero i giovanetti superstiti alla antecedente battaglia e tra tutti formarono una specie d’esercito aventi ognuno per arma nella destra il Santissimo Crocifisso, nella sinistra un piccolo stendardo di Maria Ausiliatrice modellato come si è detto sopra.
            I novelli soldati fecero molte manovre in quella vasta pianura, poi si divisero e partirono gli uni all’Oriente, alcuni pochi al Nord, molti al Mezzodì.
            Scomparsi questi, si rinnovarono le stesse battaglie, le stesse manovre e partenze per le stesse direzioni.
            Ho conosciuto alcuni delle prime zuffe: quelli che seguirono erano a me sconosciuti: ma essi davano a divedere che conoscevano me e mi facevano molte domande.
            Succedette poco dopo una pioggia di fiammelle splendenti che sembravano di fuoco di vario colore. Tuonò e poi si rasserenò il cielo e mi trovai in un giardino amenissimo. Un uomo che aveva la fisionomia di S. Francesco di Sales, mi offrì un libretto senza dirmi parola. Chiesi chi fosse.
            – Leggi nel libro – rispose.
            Aprii il libro, ma stentava a leggere. Potei però rilevare queste precise parole:
Ai Novizi: – Ubbidienza in ogni cosa. Coll’ubbidienza meriteranno le benedizioni del Signore e la benevolenza degli uomini. Colla diligenza combatteranno e vinceranno le insidie degli spirituali nemici.
Ai professi: – Custodire gelosamente la virtù della castità. Amare il buon nome dei confratelli e promuovere il decoro della Congregazione.
Ai Direttori: – Ogni cura, ogni fatica per osservare e far osservare le regole con cui ognuno si è consacrato a Dio.
Al Superiore: – Olocausto assoluto per guadagnare sé e i suoi soggetti a Dio.
            Molte altre cose erano stampate in quel libro, ma non potei più leggere, perché la carta apparve azzurra come l’inchiostro.
            – Chi siete voi? – ho di nuovo domandato a quell’uomo, che con sereno sguardo mi stava rimirando.
            – Il mio nome è noto a tutti i buoni e sono mandato per comunicarti alcune cose future.
            – Quali?
            – Quelle esposte e quelle che chiederai.
            – Che debbo fare per promuovere le vocazioni?
            – I Salesiani avranno molte vocazioni colla loro esemplare condotta, trattando con somma carità gli allievi, ed insistendo sulla frequente Comunione.
            – Che si deve osservare nell’accettazione dei novizi?
            – Escludere i pigri ed i golosi.
            – Nell’accettare ai voti?
            – Vegliare se vi sia garanzia sulla castità.
            – Come si potrà meglio conservare il buono spirito nelle nostre case?
            – Scrivere, visitare, ricevere e trattare con benevolenza; e ciò con molta frequenza da parte dei Superiori.
            – Come dobbiamo regolarci nelle Missioni?
            – Mandare individui sicuri nella moralità; richiamare coloro che ne lasciassero travedere grave dubbio; studiare e coltivare le vocazioni indigene.
            – Cammina bene la nostra Congregazione?
– Qui iustus est justificetur adhuc (Chi è giusto sarà ancora giustificato). Non progredi est regredi (Non andare avanti significa tornare indietro). Qui perseveraverit, salvus erit (Chi persevera sarà salvato).
            – Si dilaterà molto?
            – Finché i Superiori faranno la parte loro, crescerà e niuno potrà arrestarne la propagazione.
            – Durerà molto tempo?
            – La Congregazione vostra durerà fino a che i soci ameranno il lavoro e la temperanza. Mancando una di queste due colonne, il vostro edifizio ruina schiacciando Superiori ed inferiori e i loro seguaci.
            In quel momento apparvero quattro individui portanti una bara mortuaria. Camminavano verso di me.
            – Per chi è questo? – io dissi.
            – Per te!
            – Presto?
            – Non domandarlo: pensa solo che sei mortale.
            – Che cosa mi volete significare con questa bara?
            – Che devi far praticare in vita quello che desideri che i tuoi figli debbano praticare dopo di te. Questa è l’eredità, il testamento che devi lasciare ai tuoi figli; ma devi prepararlo e lasciarlo ben compiuto e ben praticato.
            – Ci sovrastano fiori o spine?
            – Sovrastano molte rose, molte consolazioni, ma sono imminenti spine pungentissime che cagioneranno in tutti profondissima amarezza e cordoglio. Bisogna pregare molto.
            – A Roma dobbiamo andare?
            – Si, ma adagio, con la massima prudenza e con raffinate cautele.
            – Sarà imminente il fine della mia vita mortale?
            – Non ti curare di questo. Hai le regole, hai i libri, fa’ quello che insegni agli altri. Vigila.

            Volevo fare altre domande, ma scoppiò cupo il tuono con lampi e fulmini, mentre alcuni uomini, o dirò meglio orridi mostri, si avventarono contro di me per sbranarmi. In quell’istante una tetra oscurità mi tolse la vista di tutto. Mi credevo morto e mi son posto a gridare come frenetico. Mi svegliai e mi trovai ancor vivo, ed erano le quattro e tre quarti del mattino.
            Se c’è qualche cosa che possa essere vantaggioso, accettiamolo.
            In ogni cosa poi sia onore e gloria a Dio per tutti i secoli dei secoli.
(MB XIV, 123-125)

Foto nel frontespizio. San Francesco di Sales. Anonimo. Sacrestia del Duomo di Chieri




San Francesco di Sales fondatore di una nuova scuola di perfezione

            Per Francesco di Sales la vita religiosa è «una scuola di perfezione», nella quale uno «si consacra in modo più semplice e più totale a Nostro Signore». «La vita religiosa – aggiunge il fondatore della Visitazione – è una scuola dove ognuno deve imparare la lezione: il maestro non richiede che l’allievo sappia ogni giorno la lezione senza sbagliare, è sufficiente che si impegni a fare quanto può per impararla». Parlando della congregazione della Visitazione da lui fondata, usava lo stesso linguaggio: «La congregazione è una scuola»; vi si entra «per incamminarsi verso la perfezione dell’amore divino».
            Spettava al fondatore formare le sue figlie spirituali, ricoprendo il ruolo di «istitutore» e maestro delle novizie. Lo ha svolto in modo eccellente. Secondo T. Mandrini, «san Francesco di Sales occupa nella storia della vita religiosa un posto di primo ordine, come sant’Ignazio di Loyola; possiamo anzi affermare che nella storia della vita religiosa femminile san Francesco di Sales occupa quel posto che sant’Ignazio tiene nella storia della vita maschile».

Giovanna di Chantal alle origini della Visitazione
            Nel 1604, Francesco di Sales incontrò a Digione, dove stava predicando il quaresimale, la donna che stava per divenire la «pietra fondamentale» di un nuovo istituto. In tale data, Jeanne-Françoise Frémyot era una giovane vedova di trentadue anni. Nata nel 1572 a Digione, aveva sposato a vent’anni Christophe Rabutin, barone di Chantal. Ebbero un figlio e tre figlie. Quindici giorni dopo la nascita dell’ultima figlia, il marito venne colpito mortalmente nel corso di una partita di caccia. Rimasta vedova, Giovanna continuò coraggiosamente a occuparsi dell’educazione dei figli e dell’aiuto ai poveri.
            L’incontro della Chantal con il vescovo di Ginevra segnò l’inizio di una vera amicizia spirituale che sfocerà in una nuova forma di vita religiosa. All’inizio Francesco di Sales inculcò a Giovanna di amare l’umiltà richiesta dal suo stato di vedova, senza pensare a un nuovo matrimonio o alla vita religiosa; la volontà di Dio si sarebbe manifestata a suo tempo. La incoraggiò nelle prove e tentazioni contro la fede e contro la Chiesa.
            Nel 1605 la baronessa giunse a Sales per rivedere il suo direttore e approfondire con lui gli argomenti che la preoccupavano. Francesco rispose evasivamente al desiderio di Giovanna di farsi religiosa ma aggiungendo queste forti parole: «Il giorno in cui abbandonerete ogni cosa, verrete da me e farò in modo che vi troviate in un totale spogliamento e nudità, per essere tutta di Dio». Per disporla a questo obiettivo finale le suggeriva: “la dolcezza di cuore, la povertà di spirito e la semplicità di vita, insieme con questi tre esercizi modesti: visitare gl’infermi, servire i poveri, consolare gli afflitti e altri simili”.
            All’inizio del 1606, siccome il padre della baronessa la spingeva a risposarsi, il problema della vita religiosa divenne urgente. Che fare, si domandava il vescovo di Ginevra? Una cosa era chiara, ma l’altra in bilico:

Ho appreso fino a questo momento, Figlia mia, che, un giorno, dovrete lasciar tutto; o meglio, perché non intendiate la cosa diversamente da come l’ho intesa io, che, un giorno, vi dovrò consigliare di lasciar tutto. Dico lasciar tutto. Ma che lo dobbiate fare per entrare nella vita religiosa, è poco probabile, perché non mi è ancora accaduto di essere di questo parere: ne sono ancora in dubbio, e non vedo, dinanzi a me, nulla che mi inviti a desiderarlo. Comprendetemi bene, per l’amor di Dio. Non dico di no, ma dico solo che il mio spirito non ha ancora trovato una ragione per dire di sì.

            La prudenza e la lentezza di Francesco di Sales è facilmente spiegabile. La baronessa, infatti, sognava forse di farsi carmelitana, e anch’egli, d’altra parte, non aveva ancora maturato il progetto della nuova fondazione. Ma l’ostacolo principale era costituito dai figli della signora Chantal, tutti ancora piccoli di età.

La fondazione
            Nel corso di un nuovo incontro avvenuto ad Annecy nel 1607, Francesco le dichiarò questa volta: «Ebbene! figlia mia, mi sono deciso circa ciò che voglio fare di voi»; e le svelò il progetto di fondare con lei un nuovo istituto. Rimanevano due ostacoli maggiori alla realizzazione: i doveri familiari della signora di Chantal e la sua stabile venuta ad Annecy, perché, diceva, «occorre gettare il seme della nostra congregazione nella piccola Annecy». E mentre la signora di Chantal sognava probabilmente una vita interamente contemplativa, Francesco le citava l’esempio di santa Marta, ma una Marta «corretta» dall’esempio di Maria, che divideva le ore delle sue giornate in due, «dedicandone una buona parte alle opere esteriori di carità, e la parte migliore al proprio intimo con la contemplazione».
            Durante i tre anni successivi, i principali ostacoli caddero uno dopo l’altro: il padre della Chantal le consentì di seguire la propria strada, accettando anche di curare l’educazione del primogenito; la figlia maggiore convolava a nozze con Bernard de Sales, fratello di Francesco, e lo raggiungeva in Savoia; la seconda figlia accompagnerà la madre ad Annecy; quanto all’ultima, essa moriva alla fine di gennaio del 1610 all’età di nove anni.
            Il 6 giugno 1610, Giovanna di Chantal si stabilì in una casa privata con Charlotte, un’amica di Borgogna, e Jacqueline, figlia del presidente Antoine Favre. Loro scopo era di «consacrare tutti i momenti della loro vita ad amare e servire Dio», senza disattendere «il servizio dei poveri e dei malati». La Visitazione sarà una «piccola congregazione», che unisce la vita interiore con una forma di vita attiva. Le tre prime visitandine fecero la loro professione esattamente un anno dopo, il 6 giugno 1611. Il 1° gennaio 1612 cominceranno le visite ai poveri e ai malati, previste nel primitivo progetto di Costituzioni. Il 30 ottobre dello stesso anno la comunità abbandonò la casa, divenuta troppo piccola, e si trasferì in una nuova casa, in attesa di erigere il primo monastero della Visitazione.
            Durante i primi anni non si sognò nessun’altra fondazione, finché nel 1615 giunse una domanda insistente di alcune persone di Lione. L’arcivescovo di detta città non voleva che le suore uscissero dal monastero per le visite ai malati; secondo lui, occorreva trasformare la congregazione in un vero e proprio ordine religioso, con voti solenni e clausura, seguendo le prescrizioni del concilio di Trento. Francesco di Sales dovette accettare la maggior parte delle condizioni: la visita ai malati venne soppressa e la Visitazione divenne un ordine quasi monastico, sotto la regola di sant’Agostino, pur conservando la possibilità di accogliere persone esterne per un po’ di riposo o per esercizi spirituali. Il suo sviluppo fu rapido: conterà tredici monasteri alla morte del fondatore nel 1622 e ottantasette alla morte della madre di Chantal nel 1641.

La formazione sotto forma di trattenimenti
            Georges Rolland ha descritto bene il ruolo della formazione delle «figlie» della Visitazione, che Francesco di Sales ha assunto fin dall’inizio del nuovo istituto:

Le assisteva nei loro inizi faticando parecchio e dedicando molto tempo nell’educarle e nell’avviarle sul sentiero della perfezione, prima tutte insieme e poi ciascuna in particolare. Perciò andava da loro, sovente due o tre volte al giorno, dando loro indicazioni su questioni che di volta in volta venivano loro in mente, sia di ordine spirituale che di natura materiale. […] Era loro confessore, cappellano, padre spirituale e direttore.

            Il tono dei suoi «trattenimenti» era assai semplice e familiare. Un trattenimento, infatti, è un’amabile conversazione, un dialogo o colloquio familiare, non già una «predica», quanto piuttosto una «semplice conferenza nella quale ciascuno dice la sua opinione». Normalmente, le domande erano poste dalle suore, come appare chiaramente nel terzo dei suoi Trattenimenti dove parla Della confidenza e dell’abbandono. La prima domanda era quella di sapere «se un’anima cosciente della sua miseria può rivolgersi a Dio con piena confidenza». Un po’ oltre il fondatore pare che prenda al balzo una nuova domanda: «Ma voi dite che non provate affatto questa confidenza». Più oltre ancora afferma: «Ora passiamo all’altra domanda che è l’abbandonare se stessi». E ancora più avanti si trova una catena di domande come queste: «Ora voi mi domandate di che cosa si occupa quest’anima che si abbandona totalmente nelle mani di Dio»; «voi mi dite a quest’ora»; «ora voi mi chiedete»; «per rispondere a ciò che voi domandate»; «voi volete ancora sapere». È possibile, anzi probabile, che le segretarie abbiano soppresso le domande delle interlocutrici per porle in bocca al vescovo. Le domande potevano essere anche formulate per iscritto, perché all’inizio dell’undicesimo Trattenimento si legge: «Incomincio la nostra conversazione rispondendo a una domanda che mi è stata scritta su questo biglietto».

Istruzioni e esortazioni
            L’altro metodo usato nella formazione delle visitandine escludeva le domande e le risposte: erano sermoni che il fondatore faceva nella cappella del monastero. Il tono familiare che li caratterizza non consente di annoverarli tra le grandi prediche per il popolo secondo lo stile dell’epoca. R. Balboni preferisce chiamarli esortazioni. «Il discorso che sto per farvi», diceva il fondatore iniziando a parlare. Gli capitava di accennare al suo «discorsetto», qualifica che non s’applicava certamente alla durata, la quale ordinariamente era di un’ora. Una volta dirà: «Avendo del tempo, tratterò di…». Il vescovo si indirizzava a un pubblico particolare, le visitandine, alle quali potevano aggiungersi parenti e amici. Quando parlava nella cappella, il fondatore doveva tener conto di questo pubblico, che poteva essere differente rispetto a quello dei Trattenimenti riservati alle religiose. La diversità dei suoi interventi è descritta bene dal confronto tra il barbiere e il chirurgo:

Mie care figlie, quando parlo davanti ai secolari, io faccio come il barbiere, mi accontento di radere il superfluo, mi servo cioè del sapone per addolcire un poco la pelle del cuore, come fa il barbiere per addolcire quella del mento prima di raderlo; ma invece quando sono in parlatorio, io mi comporto come l’esperto chirurgo, fascio cioè le piaghe delle mie care figlie, benché esse gridino un poco: Ahi!, e non smetto di premere la mano sulla piaga per far in modo che la fasciatura aiuti a guarirla bene.

            Ma anche in cappella il tono continuava ad essere familiare, simile a una conversazione. «Occorre andare oltre – diceva –, perché mi manca il tempo per fermarmi di più su questo argomento»; o ancora: «Prima di finire, diciamo ancora una parola». E un’altra volta: «Ma vado oltre questo primo punto senza aggiungere niente di più, perché non è su questo tema che intendo fermarmi». Quando parla del mistero della Visitazione, ha bisogno di un tempo supplementare: «Concluderò con due esempi, benché il tempo sia già passato; ad ogni modo un breve quarto d’ora basterà». Talvolta esprime i suoi sentimenti, dicendo che ha provato «piacere» a trattare dell’amore vicendevole. Né temeva di fare qualche digressione: «A questo proposito – dirà un’altra volta – vi racconterò due storielle che non narrerei se dovessi parlare da un’altra cattedra; ma qui non c’è pericolo». Per mantenere attento l’uditorio, lo interpella con un «ditemi voi», oppure con l’espressione: «Notate dunque, vi prego». Si ricollegava sovente con un argomento che aveva sviluppato precedentemente, dicendo: «Desidero aggiungere ancora una parola al discorso che vi ho fatto l’altro giorno».  «Ma vedo che l’ora se ne va veloce – esclama –, il che mi farà finire col completare, nel poco tempo che mi resta, la storia di questo vangelo». È giunto il momento di concludere dice: «Ho finito».
            Occorre tener presente che il predicatore era desiderato, ascoltato con attenzione e anche autorizzato talvolta a raccontare di nuovo la stessa storia: «Benché l’abbia già narrata, non tralascerò di ripeterla, dato che non sono davanti a persone talmente disgustate da non essere disposte ad ascoltare due volte la stessa storia; coloro infatti che hanno un buon appetito mangiano volentieri due volte lo stesso cibo».
            I Sermoni si presentano come un’istruzione più strutturata rispetto ai Trattenimenti, dove gli argomenti si susseguono a volte rapidamente incalzati dalle domande. Qui la connessione è più logica, le diverse articolazioni del discorso sono indicate meglio. Il predicatore spiega la Scrittura, la commenta con i Padri e i teologi, ma è una spiegazione piuttosto meditata e in grado di alimentare la preghiera mentale delle religiose. Come ogni meditazione, comprende considerazioni, affetti e risoluzioni. Tutto il suo discorso, infatti, verteva su una domanda essenziale: «Volete diventare una brava figlia della Visitazione?».

L’accompagnamento personale
            Da ultimo c’era il contatto personale con ciascuna suora. Francesco aveva una lunga esperienza di confessore e di direttore spirituale di singole persone. Occorreva tener conto, è del tutto evidente, della «varietà degli spiriti», dei temperamenti, delle situazioni particolari e dei progressi nella perfezione.
            Nei ricordi di Marie-Adrienne Fichet si legge un episodio che mostra il modo di fare del vescovo di Ginevra: «Monsignore, vostra Eccellenza avrebbe la bontà di assegnare a ciascuna di noi una virtù per impegnarci singolarmente a praticarla?». Forse si trattava di un pio stratagemma inventato dalla superiora. Il fondatore rispose: «Madre mia, volentieri, occorre cominciare da voi». Le suore si ritirarono e il vescovo le chiamò una dopo l’altra e, passeggiando, lanciava a ciascuna una «sfida» in segreto. Nel corso della successiva ricreazione, tutte vennero evidentemente a conoscenza della sfida che aveva confidato a ciascuna in particolare. Alla madre di Chantal aveva raccomandato «l’indifferenza e l’amare la volontà di Dio»; a Jacqueline Favre, «la presenza di Dio»; a Charlotte di Bréchard, «la rassegnazione al volere di Dio». Le sfide destinate alle altre religiose riguardavano, una dopo l’altra, la modestia e la tranquillità, l’amore alla propria condizione, la mortificazione dei sensi, l’affabilità, l’umiltà interiore, l’umiltà esteriore, il distacco dai genitori e dal mondo, la mortificazione delle passioni.
            A suore della Visitazione tentate di considerare la perfezione come un vestito da infilare, ricordava con una punta d’umorismo la loro responsabilità personale:

Voi vorreste che vi insegnassi una via di perfezione già bella pronta e fatta, per cui non ci sarebbe da fare altro che infilarvela, come fareste di un abito, e così vi trovereste perfette senza fatica, ossia vorreste che io vi presentassi una perfezione già confezionata […]. Certo, se ciò fosse in mio potere, sarei l’uomo più perfetto del mondo; infatti, se potessi dare la perfezione agli altri senza fare nulla, vi assicuro che prima la prenderei per me.

            Come conciliare in una comunità la necessaria unità, anzi uniformità, con la diversità delle persone e dei temperamenti che la compongono? Il fondatore scriveva a questo proposito alla superiora della Visitazione di Lione: «Se si riscontra qualche anima o addirittura qualche novizia che prova troppa ripugnanza ad assoggettarsi a quegli esercizi che sono segnalati, e se questa ripugnanza non nasce da un capriccio, da presunzione, da alterigia o tendenze melanconiche, toccherà alla maestra delle novizie condurre per un’altra via, sebbene questa sia utile per l’ordinario, come lo dimostra l’esperienza». Come sempre obbedienza e libertà non vanno opposte l’una all’altra.
            Forza e dolcezza devono inoltre caratterizzare la maniera con cui le superiore della Visitazione dovevano «modellare» le anime. Infatti, dice loro, è «con le vostre mani» che Dio «modella le anime, usando o il martello, o lo scalpello, o il pennello, al fine di configurarle tutte a suo piacimento». Le superiori dovranno avere «cuori di padri solidi, saldi e costanti, senza trascurare le tenerezze di madri che fanno desiderare i dolci ai bimbi, seguendo l’ordine divino che tutto governa con una forza molto soave e una soavità molto forte».
            Le maestre delle novizie meritavano di avere attenzioni particolari da parte del fondatore, perché «dalla buona formazione e direzione delle novizie dipende la vita e la buona salute della congregazione». Come formare le future visitandine, quando si è lontane dai fondatori? si chiedeva la maestra delle novizie di Lione. Francesco le risponde: «Dite ciò che avete visto, insegnate ciò che avete udito ad Annecy. Ecco! Questa pianticella è piccola piccola e ha radici profonde; ma il ramoscello che se ne separerà, senza dubbio perirà, si seccherà e non sarà buono ad altro se non ad essere tagliato e gettato nel fuoco».

Un manuale della perfezione
            Nel 1616 san Francesco di Sales pubblicò il Trattato dell’amor di Dio, un libro «fatto per aiutare l’anima già devota affinché possa progredire nel suo progetto». Come è facile rilevare, il Teotimo propone una dottrina sublime sull’amore di Dio, la quale ha procurato al suo autore il titolo di «dottore della carità», ma lo fa con uno spiccato senso pedagogico. L’autore vuole accompagnare lungo il cammino dell’amore più alto una persona chiamata Teotimo, nome simbolico che designa «lo spirito umano che desidera progredire nella santa dilezione», cioè nell’amore di Dio.
            Il Teotimo si rivela come il «manuale» della «scuola di perfezione» che Francesco di Sales ha inteso creare. Vi si scopre in modo implicito l’idea della necessità di una formazione permanente, da lui illustrata mediante quest’immagine tratta dal mondo vegetale:
            Non vediamo, per esperienza, che le piante e i frutti non hanno una giusta crescita e maturazione se non quando portano i loro grani e i loro semi che servono per la riproduzione delle piante e degli alberi della stessa specie? Le virtù non hanno mai la giusta dimensione e sufficienza se non producono in noi desideri di fare progressi. Insomma occorre imitare questo curioso animale che è il coccodrillo: «Piccolissimo alla nascita, non cessa mai di crescere fin tanto che è in vita».
            Di fronte alla decadenza e talvolta alla condotta scandalosa di numerosi monasteri e abbazie, Francesco di Sales tracciava un cammino esigente ma amabile. In riferimento agli ordini riformati, dove regnavano una severità e un’austerità tali da allontanare un buon numero di persone dalla vita religiosa, il fondatore delle visitandine ebbe la profonda intuizione di concentrare l’essenza della vita religiosa semplicemente nella ricerca della perfezione della carità. Con i necessari adattamenti, tale «pedagogia giunta al suo apice», nata a contatto con la Visitazione, valicherà largamente i muri del suo primo monastero e affascinerà altri «apprendisti» della perfezione.




Andrea Beltrami profilo virtuoso (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

3. Storia di un’anima

3.1. Amare e patire
            Don Barberis tratteggia molto bene la parabola esistenziale del Beltrami leggendovi l’azione misteriosa e trasformante della grazia operante «attraverso le principali condizioni della vita salesiana, affinché ci fosse modello generale di alunno, di chierico, di maestro, di studente universitario, di sacerdote, di scrittore, di ammalato; modello in ogni virtù, così nella pazienza come nella carità, così nell’amore alla penitenza come, nello zelo». Ed è interessante che lo stesso don Barberis, introducendo la seconda parte della sua biografia che tratta delle virtù di don Beltrami, afferma: «La vita del nostro don Beltrami piuttosto che storia d’una persona potrebbe dirsi la storia di un’anima. Essa è tutta intrinseca; ed io mi fo tutto lo studio di far penetrare il caro lettore entro a quell’anima, perché ne ammiri i celesti carismi». Il richiamo alla “Storia di un’anima” non è casuale, non solo perché don Beltrami è contemporaneo alla Santa di Lisieux, ma possiamo affermare che sono davvero fratelli nello spirito che li animò. Lo zelo apostolico per la salvezza è maggiormente autentico e fecondo in coloro che la salvezza l’hanno sperimentata e, ritrovatisi salvati per grazia, vivono la propria vita come un puro dono d’amore per i fratelli, perché anch’essi siano raggiunti dall’amore redentivo di Gesù. «Tutta la vita, in vero, del nostro don Andrea potrebbe compendiarsi in due parole, che formano la sua tessera o divisa: Amare e patire – Amore e Dolore. Amore il più tenero, il più ardente, e, direi anche, il più zelante possibile verso quel bene, in cui si concentra ogni bene. Dolore il più vivo, il più acuto, il più penetrante dei suoi peccati, e alla contemplazione di quel sommo bene che per noi si abbassò sino alla follia, ai dolori ed alla morte della Croce. Di qui nasceva in una smania febbrile di patimenti: de’ quali, quanto più abbondava, tanto più provava desiderio: di qui ancora proveniva quel gusto, quella ineffabile voluttà nel patire, che è il segreto dei santi, ed una delle più sublimi meraviglie della Chiesa di Gesù Cristo».
            «E siccome nel Sacro Cuore di Gesù, divampante fiamme e coronato di spine, ambidue quegli affetti di amore e di dolore trovan pascolo sì copioso, e sì mirabilmente ad essi proporzionato, così, dal primo istante in cui egli conobbe questa divozione, sino all’ultimo della sua vita, il suo cuore fu come un vaso d’eletti aromi che innanzi a quel cuore divino sempre ardeva, e tramandava profumo d’incenso e di mirra, d’amore e di dolore». «Ottenere dal Cuore di Gesù la sospirata grazia di vivere lunghi anni per soffrire ed espiare le mie colpe. Morire no, ma vivere per patire, salvo però sempre il volere di Dio. Così potrò saziare questa sete. È così bello, così soave il patire quando Dio aiuta e dà la pazienza!». Sono testi di sintesi della spiritualità vittimale di don Beltrami che nella prospettiva della devozione al Sacro Cuore, tanto cara alla spiritualità dell’Ottocento e allo stesso Don Bosco, fa superare ogni lettura doloristica o peggio ancora di un certo masochismo spiritualistico. Fu infatti anche grazie a don Beltrami che don Rua consacrerà ufficialmente la Congregazione salesiana al Sacro Cuore di Gesù nell’ultima notte del secolo XIX.

3.2. Nella scia della Santa di Lisieux
            Alla brevità della vita cronologica supplisce la sorprendente ricchezza di testimonianza di vita virtuosa, che in breve tempo espresse un intenso fervore spirituale e una singolare tensione alla perfezione evangelica. Non è secondario che il venerabile Beltrami chiuda la sua esistenza tre mesi esatti dopo la morte di santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto santo, proclamata da Giovanni Paolo II Dottore della Chiesa per l’eminente Scienza dell’Amore divino che la contraddistinse. Attraverso la “Storia di un’anima” emerge la biografia interiore di una vita che, plasmata dallo Spirito nel giardino del Carmelo, fiorisce con frutti di santità e di fecondità apostolica per la Chiesa universale, tanto da essere proclamata da Pio XI nel 1927 Patrona delle missioni. Anche don Beltrami morì come santa Teresina di tubercolosi, ma entrambi negli sbocchi di sangue che li portavano rapidamente alla fine non videro tanto il deperimento di un corpo e il venir meno delle forze, ma colsero una vocazione particolare a vivere in comunione con Gesù Cristo, che li assimilava al suo sacrificio d’amore per il bene dei fratelli. Il 9 giugno del 1895, nella festa della Santissima Trinità, santa Teresa di Gesù Bambino si offre vittima di olocausto all’Amore misericordioso di Dio. Il 3 aprile dell’anno successivo, nella notte fra il giovedì ed il venerdì santo, ha una prima manifestazione della malattia che la condurrà alla morte. Teresa la accoglie come misteriosa visita dello Sposo divino. Nello stesso tempo entra nella prova della fede, che durerà fino alla sua morte. Peggiorando la sua salute, a partire dall’8 luglio 1897 viene trasferita in infermeria. Le sue sorelle ed altre religiose raccolgono le sue parole, mentre i dolori e le prove, sopportati con pazienza, si intensificano fino a culminare con la morte, nel pomeriggio del 30 settembre del 1897. «Io non muoio, entro nella vita», aveva scritto a un suo fratello spirituale, don Bellière. Le sue ultime parole «Dio mio, io ti amo» sono il sigillo della sua esistenza.
            Anche don Beltrami fino al termine della vita sarà fedele alla sua offerta vittimale, come scrisse pochi giorni prima della morte al suo maestro di noviziato: «Io prego sempre e m’offro vittima per la Congregazione, per tutti i Superiori e confratelli e soprattutto per coteste case di noviziato, che contengono le speranze della nostra pia Società».

4. Spiritualità vittimale
            Anche don Beltrami si collega a questa spiritualità vittimale, grado sublime di carità: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). Ciò non significa soltanto il gesto estremo, supremo del dono fisico della vita per un altro, ma tutta la vita dell’individuo orientata al bene dell’altro. Si sentì chiamato a questa vocazione: «Sono tanti, soggiungeva, anche tra noi Salesiani, che lavorano molto e fanno del gran bene; ma non sono poi tanti che amino davvero il soffrire, e vogliano soffrir molto per il Signore: io desidero essere di questi». Proprio perché non è qualcosa di ambito dai più, di conseguenza non è nemmeno compreso. Ma questo non è una novità. Anche Gesù quando parlava ai discepoli della sua Pasqua, della sua salita a Gerusalemme incontrava incomprensione e Pietro stesso lo volle distogliere da questo proposito. Nell’ora suprema i suoi “amici” lo tradirono, rinnegarono e abbandonarono. Eppure l’opera della redenzione si è compiuta e si compie solo attraverso il mistero della croce e l’offerta che Gesù fa di sé al Padre come vittima di espiazione, unendo al suo sacrificio tutti coloro che accettano di partecipare alle sue sofferenze per la salvezza dei fratelli. La verità di tale offerta del Beltrami sta nella fecondità offerta dalla sua vita santa. Infatti egli dava efficacia alle sue parole sostenendo in particolare i confratelli nella loro vocazione, stimolandoli ad accettare con spirito di sacrificio le prove della vita in fedeltà alla vocazione salesiana. Don Bosco nelle primitive Costituzioni presentava il Salesiano come colui che «è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo, ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime».
            La stessa malattia portò don Beltrami sia a una progressiva consumazione sia a un forzato isolamento, che gli lasciavano intatte le facoltà percettive e intellettive, anzi quasi affinandole con la lama del dolore. Solo la grazia della fede gli consentiva di accogliere quella condizione che di giorno in giorno lo assimilava sempre più al Cristo crocifisso e che una statua dell’Ecce homo, di un realismo sconvolgente e da far ribrezzo, voluta da lui nella sua camera, costantemente gli ricordava. La fede era regola della sua vita, la chiave di lettura delle persone e delle diverse situazioni; «gli stessi suoi patimenti egli al lume della fede considerava come grazie di Dio, ed insieme coll’anniversario della professione religiosa e dell’ordinazione sacerdotale, celebrava quello dell’inizio della sua grave malattia, la quale Egli credeva avesse cominciato il 20 febbraio 1891. In questa circostanza recitava di cuore il Te Deum per avergli concesso il Signore di patire per Lui». Meditava e coltivava un vivo culto per la Passione di Cristo e per Gesù Crocifisso: «Grande devozione, che può dirsi informò tutta la vita del servo di Dio… Era questo il soggetto quasi continuo delle sue meditazioni. Aveva sempre un Crocifisso avanti agli occhi e per lo più tra le mani… che baciava di tanto in tanto con trasporto».
            Dopo la morte gli si trovò appeso al collo, col crocifisso e con la medaglia di Maria Ausiliatrice, un borsellino contente alcune carte: preghiere in ricordo della sua ordinazione; una carta geografica in cui erano disegnati i cinque continenti per ricordare sempre al Signore i missionari sparsi nel mondo e alcune preghiere con cui si costituisce formalmente vittima al Sacro Cuore di Gesù, specialmente per gli agonizzanti, per le anime del Purgatorio, per la prosperità della Congregazione e della Chiesa. Tali preghiere, nelle quali il pensiero dominante riprendeva l’assillo di Paolo “Opto ego ipse anathema esse a Christo pro fratribus meis”, vennero sottoscritte da lui col suo sangue e approvate dal suo direttore don Luigi Piscetta in data 15 novembre 1895.

5. Don Beltrami è attuale?
            La domanda, non oziosa, se la posero già i giovani confratelli dello Studentato Teologico Internazionale di Torino-Crocetta quando nel 1948, in occasione del 50° della morte del venerabile don Beltrami, indissero una giornata commemorativa. Fin dalle prime battute dell’opuscolo che raccolse gli interventi tenuti in quell’occasione ci si chiede cosa abbia a che fare la testimonianza del Beltrami in rapporto alla vita salesiana, vita apostolica e di azione. Ebbene, dopo aver ricordato come egli fu esemplare negli anni in cui poté gettarsi nel lavoro apostolico, «fu altresì salesiano nell’accettare il dolore, quando esso parve stroncare una carriera e un avvenire così brillantemente e fruttuosamente intrapreso. Perché fu lì appunto che don Andrea rivelò una profondità di sentire salesiano e una ricchezza di dedizione che prima, nel lavoro poteva essere presa per giovanile ardimento, impulso all’agire, ricchezza di doti, qualcosa di normale, di ordinario insomma. Lo straordinario comincia, o meglio, si rivela nella malattia e mediante la malattia. Don Andrea, segregato, escluso oramai per sempre dall’insegnamento, dalla vita fraterna di collaborazione coi confratelli e dalla grande impresa di Don Bosco, si sente avviato verso una via nuova, solitaria, forse ripugnante ai suoi fratelli; ripugnante certo alla natura umana, tanto più alla sua, così ricca ed esuberante! Don Beltrami accettò questa via e vi si avviò con animo salesiano: salesianamente».
            Colpisce che si affermi che don Beltrami in certo modo abbia inaugurato una nuova via nella scia tracciata da Don Bosco, una chiamata speciale a illuminare il nucleo profondo della vocazione salesiana e il vero dinamismo della carità pastorale: «Noi abbiamo bisogno di avere quello che lui aveva nel cuore, quello che viveva profondamente nel suo intimo. Senza quella ricchezza interiore la nostra azione sarebbe vanificata; don Beltrami potrebbe rimproverarci la nostra vana vita dicendoci con Paolo: “nos quasi morientes, et ecce: vivimus!”». Egli stesso era consapevole di aver iniziato una nuova via come testimoniò il fratello Giuseppe: «A metà lezione cercava di convincermi della necessità di seguire la sua via, ed io, non pensandola come lui, mi opponevo, ed egli soffriva». Questo patire vissuto nella fede fu davvero fecondo apostolicamente e vocazionalmente: «Manifestazione della nuova ed originale concezione salesiana voluta e attuata da Lui, di un dolore cioè, fisico e morale, attivo, produttivo, anche materialmente, per la salvezza delle anime».
            Occorre anche dire che, sia per un certo clima spirituale un po’ pietistico, sia forse più inconsciamente per non lasciarsi troppo provocare dalla sua testimonianza, nel tempo si sedimentò una certa interpretazione che gradualmente portò, anche per i grandi cambi avvenuti, ad un oblio. Espressione di tale processo sono ad esempio i quadri che lo riproducono, che a coloro che lo conobbero, come don Eugenio Ceria, non piacevano proprio, perché lo ricordavano gioviale, con un aspetto aperto che ispirava confidenza e fiducia in chi lo avvicinava. Sempre don Ceria ricorda che già negli anni di Foglizzo don Beltrami viveva un’intensa vita interiore, una profonda e impetuosa unione con Dio, alimentata dalla meditazione e dalla comunione eucaristica, a tal punto che anche in pieno inverno, a temperature rigidissime, non portava il pastrano e teneva la finestra aperta, così da essere chiamato “orso bianco”.

5.1. Testimone dell’unione con Dio
            Tale spirito di sacrificio lo maturò in una profonda unione con Dio: «Il suo pregare consisteva nello stare continuamente alla presenza di Dio, tener gli occhi fissi nel Tabernacolo e sfogarsi col Signore con continue giaculatorie e aspirazioni affettuose. La sua meditazione si può dire continua… lo penetrava talmente che non si accorgeva di quanto avveniva intorno a sé, e penetrava talmente il soggetto che l’udii dirmi in confidenza che generalmente veniva a capire talmente i misteri che meditava che gli pareva di vederli come se si presentassero davanti agli occhi». Tale unione significata e realizzata in modo speciale nella celebrazione dell’Eucaristia, quando per incanto cessavano tutti i dolori e i colpi di tosse, si traduceva nella perfetta conformità alla volontà di Dio, soprattutto accettando le sofferenze: «Considerò l’apostolato delle sofferenze e dei patimenti come non meno fecondo di quello della vita più attiva; e mentre altri avrebbero detto sufficientemente occupati quegli anni non brevi nel patire, egli santificò il patire offrendolo al Signore e conformandosi alla divina volontà così generalmente da esserne non solo rassegnato, ma contento».
            È di notevole valore la richiesta fatta dallo stesso venerabile al Signore, come risulta da diverse lettere e in particolare quella al suo primo direttore di Lanzo don Giuseppe Scappini, scritta poco più di un mese prima della sua morte: «Non si affligga, mio padre dolcissimo in Gesù Cristo, della mia malattia; anzi ne gioisca nel Signore. L’ho chiesta io stesso al Buon Dio, per aver occasione di espiare i miei peccati in questo mondo, dove il Purgatorio si fa con merito. Propriamente io non ho domandato questa infermità, perché non ne aveva neppur l’idea, ma ho chiesto molto da soffrire ed il Signore mi ha esaudito in questo modo. Sia adunque benedetto in eterno; e mi aiuti sempre a portare la Croce con gioia. Creda, in mezzo a’ miei dolori, io sono felice di una felicità piena e compiuta, cosicché mi viene da ridere, quando mi fanno condoglianze e auguri di guarigione».

5.2. Saper soffrire
             “Saper soffrire”: per la propria santificazione, per espiazione e per apostolato. Festeggiava l’anniversario della propria malattia: «Il giorno 20 febbraio è anniversario della mia malattia: ed io ne faccio festa, come di un giorno benedetto da Dio; giorno fausto, pieno di letizia, fra i più belli della mia vita». Forse la testimonianza di don Beltrami conferma l’affermazione di Don Bosco «di Beltrami ce n’è uno solo», quasi ad indicare l’originalità della santità di questo suo figlio nell’aver sperimentato e visibilizzato il nucleo segreto della santità apostolica salesiana. Don Beltrami esprime l’esigenza che la missione salesiana non cada nella trappola di un attivismo e di una esteriorità che con il tempo condurrebbe ad un fatale destino di morte, ma preservi e coltivi il nocciolo segreto che esprime insieme profondità e ampiezza di orizzonte. Traduzione concreta di tale cura di interiorità e profondità spirituale sono: la fedeltà alla vita di preghiera, la preparazione seria e competente alla propria missione, soprattutto per il ministero sacerdotale, combattendo contro la negligenza e una colpevole ignoranza; l’uso responsabile del tempo.
            Più profondamente la testimonianza di don Beltrami ci dice che non si vive di rendita o di glorie passate, ma che ogni confratello e ogni generazione deve far fruttificare il dono ricevuto e saperlo trasmettere in forma fedele e creativa alle future generazioni. L’interruzione di questa virtuosa catena sarà fonte di danni e rovina. Il “saper soffrire” è un segreto che dà fecondità a ogni impresa apostolica. Lo spirito di offerta vittimale di don Beltrami si associa in modo mirabile al suo ministero sacerdotale, a cui si preparò con grande responsabilità e che visse nella forma di una singolare comunione con il Cristo immolato per la salvezza dei fratelli: nella lotta e nella mortificazione contro le passioni della carne; nella rinuncia agli ideali di un apostolato attivo da sempre desiderato; nella sete insaziabile di sofferenze; nell’aspirazione ad offrirsi vittima per la salvezza dei fratelli. Ad esempio, per la Congregazione oltre che la preghiera e l’offerta nominatim per diversi confratelli, tenendo il catalogo della Congregazione tra le mani, case e missioni, chiedeva la grazia della perseveranza e dello zelo, la conservazione dello spirito di Don Bosco e del suo metodo educativo. Uno dei libri scritti su di lui porta significativamente il titolo «La passiflora serafica», cioè “fiore della passione”, nome attribuito dai missionari Gesuiti nel 1610, per la somiglianza di alcune parti della pianta con i simboli religiosi della passione di Cristo: i viticci la frusta con cui venne flagellato; i tre stili i chiodi; gli stami il martello; la raggiera corollina la corona di spine. Autorevole è il parere di don Nazareno Camilleri, anima profondamente spirituale: «Don Beltrami ci pare eminentemente rappresenti, oggi, l’ansia divina della “santificazione della sofferenza” per la sociale, apostolica e missionaria fecondità, attraverso l’eroico entusiasmo della Croce, della Redenzione di Cristo in mezzo all’umanità».

5.3 Passaggio di testimone
            A Valsalice, don Andrea era di esempio a tutti: un giovane chierico, Luigi Variara, lo scelse come modello di vita: diventerà sacerdote e missionario salesiano in Colombia e fonderà, ispirandosi a don Beltrami, la Congregazione delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. Nato a Viarigi (Asti) nel 1875 Luigi Variara fu condotto undicenne a Torino-Valdocco dal padre. Entrato in noviziato il 17 agosto 1891, lo concluse emettendo i voti perpetui. Dopo si trasferì a Torino-Valsalice per lo studio della filosofia. Qui conobbe il venerabile Andrea Beltrami. A lui si ispirerà don Variara quando in seguito, ad Agua de Dios (Colombia), alle sue Figlie dei Santissimi Cuori proporrà la “consacrazione vittimale”.

Fine




San Francesco di Sales, accompagnatore personale

            «Il mio spirito accompagna sempre il vostro», scriveva un giorno Francesco di Sales a Giovanna di Chantal, in un periodo in cui questa si sentiva assalita da tenebre e tentazioni. E aggiungeva: «Camminate dunque, cara Figlia, e avanzate nel cattivo tempo e durante la notte. Siate coraggiosa, mia cara Figlia; con l’aiuto di Dio, faremo molto». Accompagnamento, direzione spirituale, guida delle anime, direzione di coscienza, assistenza spirituale: sono altrettante formule pressappoco sinonime, in quanto designano questa forma particolare di educazione e formazione esercitata nell’ambito spirituale della coscienza individuale.

Formazione di un futuro accompagnatore
            La formazione ricevuta da giovane aveva preparato Francesco di Sales a diventare, a sua volta, direttore spirituale. Come studente presso i gesuiti di Parigi molto probabilmente ebbe un padre spirituale di cui ignoriamo il nome. A Padova era stato suo direttore Antonio Possevino; con questo famoso gesuita Francesco si feliciterà in seguito di esserne stato uno dei «figli spirituali». In occasione del suo tormentato cammino verso lo stato clericale, fu suo confidente e sostegno Amé Bouvard, un prete amico di famiglia, il quale lo preparò poi alle ordinazioni.
            All’inizio del suo episcopato affidò la cura della sua vita spirituale al padre Fourier, rettore dei gesuiti di Chambéry, «grande, erudito e devoto religioso», col quale stabilì «una particolarissima amicizia» e che gli fu molto vicino «col suo consiglio e avvertimenti». Durante parecchi anni si confessò regolarmente dal penitenziere della cattedrale, che chiamava «signor confratello carissimo e perfetto amico».
            Il soggiorno a Parigi del 1602 influì profondamente sullo sviluppo dei suoi doni di direttore d’anime. Inviato dal vescovo a trattare a corte alcuni affari della diocesi, ebbe poco successo sul piano diplomatico, ma questa prolungata visita nella capitale francese gli consentì di allacciare contatti con l’élite spirituale che si riuniva presso la dama Acarie, una donna eccezionale, mistica e padrona di casa allo stesso tempo. Divenuto suo confessore, ne osservava le estasi e l’ascoltava senza farle domande. «Oh! che sbaglio ho fatto – dirà più tardi –, per non aver approfittato abbastanza della sua santissima compagnia! Ella infatti mi aprì liberamente il suo animo; ma l’estremo rispetto che avevo per lei faceva sì che non osassi informarmi di una minima cosa».

Un’attività assillante «che rasserena e rincuora»
            Aiutare ogni singolo individuo, accompagnarlo personalmente, consigliarlo, correggerne eventualmente gli errori, incoraggiarlo, tutto ciò esige tempo, pazienza e un costante sforzo di discernimento. L’autore della Filotea parla per esperienza quando afferma nella prefazione:

È una fatica, lo confesso, guidare anime singole, ma una fatica che fa sentir leggeri, come quella dei mietitori e dei vendemmiatori, i quali non sono mai tanto contenti come quando hanno molto lavoro e molto da portare. È un lavoro che rasserena e rincuora, per la soavità che arreca a chi lo intraprende.

            Conosciamo questo settore importante della sua azione formativa specialmente dalla sua corrispondenza, ma va precisato che si fa direzione spirituale non soltanto per iscritto. Incontri personali e confessioni individuali ne fanno parte, anche se occorre distinguerli adeguatamente. Nel 1603, incontrò il duca di Bellegarde, grande personaggio del regno e grande peccatore, il quale, alcuni anni più tardi gli chiederà di guidarlo sul cammino della conversione. Il quaresimale che predicò a Digione l’anno seguente costituì una svolta nella sua «carriera» di direttore spirituale, perché incontrò Jeanne Frémyot, vedova del barone di Chantal.
            A partire dal 1605, la visita sistematica della sua vasta diocesi lo metterà in contatto con un numero infinito di persone di tutte le condizioni, soprattutto contadini e montanari, perlopiù analfabeti, i quali non ci hanno lasciato della corrispondenza. Predicando il quaresimale ad Annecy nel 1607, trovò nelle sue «sacre reti» una signora di ventun anni, «ma tutta d’oro», di nome Louise Du Chastel, la quale aveva sposato il cugino del vescovo, Henri de Charmoisy. Le lettere di direzione spirituale che Francesco invierà alla signora di Charmoisy serviranno come materiale di base per la redazione della sua futura opera, la Filotea.
            La predicazione di Grenoble del 1616, 1617 e 1618 gli procurò un considerevole numero di figlie e figli spirituali che, avendolo ascoltato sulla cattedra, cercheranno di contattarlo da vicino. Nuove Filotee lo seguiranno durante il suo ultimo viaggio a Parigi nel 1618-1619, dove faceva parte della delegazione di Savoia che stava negoziando il matrimonio del principe del Piemonte Vittorio Amedeo, con Cristina di Francia, sorella di Luigi XIII. Concluso il principesco matrimonio, Cristina lo sceglierà come suo confessore e «grande cappellano».

Il direttore è padre, fratello, amico
            Quando si rivolge alle persone da lui dirette, Francesco di Sales fa un uso abbondante, per non dire eccessivo, secondo il costume dell’epoca, di titoli e di appellativi tratti dalla vita familiare e sociale, come padre, madre, fratello, sorella, figlio, figlia, zio, zia, nipote, padrino, madrina, o servitore. Il titolo di padre significava autorità e allo stesso tempo amore e confidenza. Il padre «assiste» mediante consigli il figlio e la figlia usando saggezza, prudenza e carità. In quanto padre spirituale, il direttore è colui che in certi casi dice: Lo voglio! Francesco di Sales sapeva usare tale linguaggio, ma solo in circostanze del tutto speciali, come quando ordina alla baronessa di non evitare l’incontro con l’assassino del marito:

Mi avete chiesto come volevo che vi comportaste nell’incontro con colui che uccise il vostro signor marito. Rispondo per ordine. Non è necessario che ne cerchiate voi stessa la data e l’occasione. Però, se questa si presenta, voglio che l’accogliate con un cuore dolce, gentile e compassionevole.

            Una volta scrisse a una donna angosciata: «Ve lo ordino a nome di Dio», ma era per toglierle gli scrupoli. La sua autorità resta sempre umile, buona, anche tenera; il suo ruolo nei confronti delle persone da lui dirette, precisava nella prefazione della Filotea, consisteva in una particolare «assistenza», termine che appare due volte in tale contesto. L’intimità che si stabilirà tra lui e il duca di Bellegarde sarà tale da consentire a Francesco di Sales di rispondere alla richiesta del duca, usando non senza esitazione gli appellativi di «figlio mio» o di «monsignore figlio mio», ben sapendo che il duca era più vecchio di lui. Il risvolto pedagogico della direzione spirituale è sottolineato da un’altra immagine significativa. Dopo aver ricordato la veloce corsa della tigre per salvare il suo piccolo, mossa dalla forza dell’amore naturale, continua dicendo:

E quanto più volentieri un cuore paterno s’occuperà di un’anima che avrà trovato piena di desiderio della santa perfezione, portandola sul suo seno, come una madre il suo bambino, senza sentire il peso del caro fardello.

            Nei riguardi delle persone da lui dirette, donne e uomini, Francesco di Sales si comporta anche come un fratello, ed è in tale veste che sovente si presenta alle persone che ricorrono a lui. Antoine Favre è chiamato costantemente «mio fratello». In un primo momento si rivolge alla baronessa di Chantal usando l’appellativo «signora» (madame), successivamente passa a quello di «sorella», «questo nome, che è quello con cui gli apostoli e i primi cristiani usavano esprimere il loro amore vicendevole». Un fratello non comanda, dà consigli e pratica la correzione fraterna.
            Ma ciò che caratterizza meglio lo stile salesiano, è il clima amichevole e reciproco che unisce il direttore e la persona diretta. Come dice bene André Ravier, «non c’è, per lui, vera direzione spirituale se non c’è amicizia, cioè scambio, comunicazione, influsso reciproco». Non stupisce che Francesco di Sales ami i suoi referenti di un amore che testimonia loro in mille modi; meraviglia invece che desideri di essere da loro parimenti amato. Con Giovanna di Chantal, la reciprocità divenne tanto intensa da trasformare talvolta il «mio» e il «tuo» in un «nostro»: «Non mi è possibile distinguere il mio e il tuo in quello che ci riguarda, è nostro».

Obbedienza al direttore, ma in un clima di confidenza e di libertà
            L’obbedienza al direttore spirituale è una garanzia contro gli eccessi, le illusioni e i passi falsi compiuti il più delle volte per amor proprio; essa mantiene in un atteggiamento prudente e saggio. L’autore della Filotea la considera necessaria e benefica, senza ricalcarla; «l’umile obbedienza, tanto raccomandata e tanto praticata da tutti gli antichi devoti», fa parte di una tradizione. Francesco di Sales la raccomanda alla baronessa di Chantal nei confronti del suo primo direttore, ma indicandone il modo di viverla:

Lodo moltissimo il rispetto religioso che sentite per il vostro direttore, e vi esorto a conservarlo con molta cura; ma bisogna pure che vi dica ancora una parola. Questo rispetto vi deve indurre senza dubbio a perseverare nella santa condotta alla quale vi siete adattata così felicemente, ma non deve assolutamente impedire o soffocare la giusta libertà che lo Spirito di Dio dà a chiunque egli possiede.

            Ad ogni modo, è necessario che il direttore possegga tre qualità indispensabili: «Occorre che sia pieno di carità, di scienza e di prudenza: se una di queste tre gli manca, c’è del pericolo» (I I 4). Non pare proprio questo il caso del primo direttore della signora di Chantal. A detta del suo biografo, la madre de Chaugy, costui «la vincolò alla sua direzione» intimandole di non pensare mai a cambiarlo; erano «legami inopportuni che ne tenevano l’anima in trappola, coartata e senza libertà». Quando, dopo aver incontrato Francesco di Sales, volle cambiare di direttore, piombò in un mare di scrupoli. Questi, per rasserenarla le indicò un’altra via:

Eccovi qui la regola generale della nostra obbedienza, scritta in lettere molto grosse: OCCORRE FAR TUTTO PER AMORE, E NULLA PER FORZA; OCCORRE AMARE L’OBBEDIENZA PIÙ DI QUANTO SI TEME LA DISOBBEDIENZA. Vi lascio lo spirito di libertà: non quello che esclude l’obbedienza, ché, allora, si dovrebbe parlare della libertà della carne, ma quello che esclude la costrizione, lo scrupolo e la fretta.

            La modalità salesiana è fondata sul rispetto e sull’obbedienza dovuta al direttore, senza alcun dubbio, ma soprattutto sulla confidenza: «Abbiate in lui la massima confidenza, unita a una sacra riverenza, in modo che la riverenza non diminuisca la confidenza e la confidenza non impedisca la riverenza; fidatevi di lui con il rispetto di una figlia verso il proprio padre, rispettatelo con la confidenza di una figlia con la propria madre». La confidenza ispira semplicità e libertà, le quali favoriscono la comunicazione fra due persone, specialmente quando quella diretta è una giovane novizia timorosa:

Vi dirò, in primo luogo, che non dovete usare, nei miei riguardi, parole di cerimonia o di scusa, poiché, per volontà di Dio, sento per voi tutto l’affetto che potreste desiderare, e non saprei proibirmi di sentirlo. Amo il vostro spirito profondamente, perché penso che Dio lo vuole, e lo amo teneramente, perché vi vedo ancora debole e troppo giovane. Scrivetemi, dunque, con tutta confidenza e libertà, e chiedete tutto quello che vi parrà utile per il vostro bene. E questo sia detto una volta per sempre.

            Come si deve scrivere al vescovo di Ginevra? «Scrivetemi liberamente, sinceramente, semplicemente – diceva a una delle anime da lui dirette –. Su questo punto, non ho altro da dire, se non che non dovete mettere sulla lettera Monsignore né solo né accompagnato da altre parole: basta che mettiate Signore, e sapete perché. Io sono un uomo senza cerimonie, e vi amo e vi onoro con tutto il cuore». Questo ritornello ritorna di frequente all’inizio di una nuova relazione epistolare. L’affetto, quando è sincero e soprattutto quando ha la fortuna di essere corrisposto, autorizza la libertà e la massima franchezza. «Scrivetemi ogni volta che ne avete voglia – diceva a un’altra donna –, con piena confidenza e senza cerimonie; perché così occorre comportarsi in questa specie di amicizia». A un suo corrispondente chiedeva: «Non chiedetemi di scusarvi per il fatto che scrivete bene o male, perché non mi dovete altra cerimonia se non quella di amarmi». Questo vuol dire parlare «cuore a cuore». L’amore di Dio come l’amore del prossimo ci fa andare avanti «alla buona, senza tante moine» perché, così si esprimeva, «il vero amore non ha bisogno di un metodo». La chiave di tutto ciò è l’amore, per il fatto che «l’amore rende uguali gli amanti», l’amore cioè opera una trasformazione nelle persone che si amano, rendendole uguali, simili e allo stesso livello.

«Ogni fiore richiede una cura particolare»
            Mentre il fine della direzione spirituale è uguale per tutti, e cioè la perfezione della vita cristiana, le persone invece non sono tutte uguali, e appartiene all’arte del direttore saper indicare il cammino appropriato a ciascuno per raggiungere il comune scopo. Uomo del suo tempo, consapevole che le stratificazioni sociali erano una realtà, Francesco di Sales conosceva bene la differenza che c’era tra il gentiluomo, l’artigiano, il valletto, il principe, la vedova, la ragazza e la donna sposata. Ciascuno, infatti, dovrà produrre frutti «secondo la sua qualifica e professione». Ma il senso di appartenenza a un determinato gruppo sociale si coniugava bene, in lui, con la considerazione delle peculiarità del singolo individuo: occorre «adattare la pratica della devozione alle forze, attività e doveri di ognuno in particolare». Riteneva d’altronde che «i mezzi per raggiungere la perfezione sono diversi secondo la diversità delle vocazioni».
            La diversità dei temperamenti è un dato di fatto, di cui occorre tener conto. È rilevabile in Francesco di Sales un «fiuto psicologico» anteriore alle scoperte moderne. La percezione delle caratteristiche uniche di ogni persona è assai accentuata in lui ed è il motivo per cui ogni soggetto merita un’attenzione particolare da parte del padre spirituale: «In un giardino, ogni erba e ogni fiore richiede una cura particolare». Come un padre o una madre con i propri figli, egli si adatta all’individualità, al temperamento, alle situazioni particolari di ogni individuo. A questa persona, impaziente con sé stessa, delusa perché non progredisce come vorrebbe, raccomanda di amare sé stessa; a quest’altra, attirata dalla vita religiosa ma dotata di una forte individualità, consiglia uno stile di vita che tiene conto di queste due tendenze; a una terza che oscilla tra l’esaltazione e la depressione, suggerisce la pace del cuore tramite la lotta contro immaginazioni angoscianti. A una donna disperata a causa del carattere «spendaccione e frivolo» del marito, il direttore dovrà consigliare «il giusto mezzo e la moderazione» e i mezzi per superare la propria insofferenza. Un’altra, donna con la testa sul collo, con un carattere tutto d’un pezzo, piena di affanni e di processi, avrà bisogno di «santa dolcezza e tranquillità». Un’altra ancora è angustiata dal pensiero della morte e sovente depressa: il suo direttore le ispira coraggio. Ci sono anime che hanno mille desideri di perfezione; occorre calmarne l’impazienza, frutto del loro amor proprio. La famosa Angélique Arnauld, badessa di Port-Royal, vuol riformare il proprio monastero con la rigidità: occorre raccomandarle flessibilità e umiltà.
            Quanto al duca de Bellegarde, che si era immischiato in tutti gli intrighi politici e amorosi della corte, il vescovo lo incoraggia ad acquisire «una devozione maschia, coraggiosa, valorosa, invariabile per servire da specchio a molti, esaltando la verità dell’amore celeste, degna riparazione delle colpe passate». Nel 1613 stenderà per lui un Promemoria per far bene la confessione, contenente otto «avvisi» generali, una descrizione dettagliata «dei peccati contro i dieci comandamenti», un «esame riguardante i peccati capitali», i «peccati che si commettono contro i precetti della Chiesa», un «mezzo per discernere il peccato mortale da quello veniale», e infine «i mezzi per distogliere i grandi dal peccato della carne».

Metodo «regressivo»
            L’arte della direzione di coscienza richiede assai sovente al direttore di fare un passo indietro e di lasciare l’iniziativa al destinatario, o a Dio, soprattutto quando si tratta di fare delle scelte che esigono una decisione impegnativa. «Non prendete le mie parole troppo alla lettera – scrisse alla baronessa di Chantal –; non voglio che esse siano per voi un’imposizione, ma che conserviate la libertà di fare quello che stimate meglio». Scriverà ad esempio a una donna molto attaccata alle «vanità»:

Quando partiste, mi venne in mente di dirvi che dovevate rinunziare al muschio e ai profumi, ma mi contenni, per seguire il mio sistema, che è soave e cerca di attendere quei movimenti che, a poco a poco, gli esercizi di pietà sogliono suscitare nelle anime che si consacrano interamente alla divina Bontà. Il mio spirito, infatti, è estremamente amico della semplicità; e la roncola con la quale si usa tagliare i polloni inutili, la lascio abitualmente in mano a Dio.

            Il direttore non è un despota, ma uno che «guida le nostre azioni con i suoi avvisi e consigli», come dice all’inizio della Filotea. Si astiene dal comandare quando scrive alla signora di Chantal: «Sono consigli buoni e indicati per voi, ma non comandi». Costei d’altronde dirà, al processo di canonizzazione, che si rammaricava a volte perché non era guidata abbastanza con comandi. In effetti, il ruolo del direttore è definito dalla seguente risposta di Socrate a un discepolo: «Io avrò dunque cura di restituirti a te stesso migliore rispetto a ciò che sei». Come dichiarava sempre alla signora di Chantal, Francesco si era «votato», messo al «servizio» della «santissima libertà cristiana». Egli combatte per la libertà:

Vedrete che dico la verità e che combatto per una buona causa quando difendo la santa e amabile libertà dello spirito che, come sapete, onoro in modo tutto particolare, a condizione che sia vera e libera dalla dissipazione e dal libertinaggio, che non sono altro che una maschera di libertà.

            Nel 1616, durante un ritiro spirituale, Francesco di Sales fece fare alla stessa madre di Chantal un esercizio di «spogliazione», per ridurla «all’amabile e santa purezza e nudità dei bimbi». Era giunto il momento di farle fare il passo verso l’«autonomia» della persona diretta. Egli la invita, tra l’altro, a non «prendere nessuna nutrice» e a non continuare a dirgli – precisava – «che sarò sempre io a farle da nutrice», e, insomma, a essere disposta a rinunciare alla direzione spirituale di Francesco. Dio solo basta: «Non abbiate altre braccia che vi portano se non quelle di Dio, né altri seni su cui riposare se non il suo e la Provvidenza. […] Non pensate più all’amicizia né all’unità che Dio ha stabilito fra noi». Per la signora di Chantal la lezione è dura: «Dio mio! mio vero Padre, che avete inciso profondamente col vostro rasoio! potrò io rimanere a lungo in questo stato d’animo»? Ella si vede ormai «spogliata e nuda di tutto ciò che le era più prezioso». Francesco confessa pure lui: «E sì, anch’io mi trovo nudo, grazie a Colui che è morto nudo per insegnarci a vivere nudi». La direzione spirituale raggiunge qui il suo apice. Dopo una tale esperienza, le lettere spirituali diventeranno più rare e l’affetto sarà più contenuto a vantaggio di un’unità tutta spirituale.




Andrea Beltrami profilo virtuoso (1/2)

            Il venerabile don Andrea Beltrami (1870-1897) è espressione emblematica di una dimensione costitutiva non solo del carisma salesiano, ma del cristianesimo: la dimensione oblativa e vittimale, che in chiave salesiana incarna le esigenze del “caetera tolle”. Una testimonianza che, sia per la sua singolarità, sia per ragioni in parte legate a letture datate o tramandate attraverso una certa vulgata, è andata scomparendo dalla visibilità del mondo salesiano. Resta il fatto che il messaggio cristiano presenta intrinsecamente aspetti incompatibili con il mondo e se ignorati rischiano di rendere infecondo lo stesso messaggio evangelico e, nello specifico, il carisma salesiano, non salvaguardato nelle sue radici carismatiche di spirito di sacrificio, di faticosa laboriosità, di rinunce apostoliche. La testimonianza di don Andrea Beltrami è paradigmatica di tutto un filone della santità salesiana che, partendo dai tre santi Andrea Beltrami, beato Augusto Czartoryski, beato Luigi Variara, continua nel tempo con altre figure di famiglia quali la beata Eusebia Palomino, la beata Alexandrina Maria da Costa, la beata Laura Vicuña, senza dimenticare la numerosa schiera dei martiri.

1. Radicalità evangelica

1.1. Radicale nella scelta vocazionale
            A Omegna (Novara), sulle rive del lago d’Orta, il 24 giugno 1870, nacque Andrea Beltrami. Ricevette in famiglia un’educazione profondamente cristiana, che fu poi sviluppata nel collegio salesiano di Lanzo ove entrò nell’ottobre del 1883. Qui maturò la sua vocazione. A Lanzo, un giorno ebbe la grande fortuna di incontrare Don Bosco. Rimastone affascinato, gli nacque dentro una domanda: «Perché non potrei essere anch’io come lui? Perché non spendere anch’io la vita per la formazione e la salvezza dei giovani?». Nel 1885, Don Bosco gli disse: «Andrea, diventa anche tu salesiano!». Nel 1886 ricevette l’abito chiericale da Don Bosco a Foglizzo e il 29 ottobre 1886 iniziava l’anno di noviziato con un proposito: «Voglio farmi santo». Tale proposito non fu formale, ma diventò ragione di vita. Specialmente don Eugenio Bianchi, suo maestro di noviziato, nella relazione che fece a Don Bosco, lo descrive come perfetto in ogni virtù. Tale radicalità fin dal noviziato si espresse nell’obbedienza ai superiori, nell’esercizio della carità verso i compagni, nell’osservanza religiosa da essere definito “Regola personificata”. Il 2 ottobre 1887, a Valsalice (Torino) Don Bosco riceveva i voti religiosi di Andrea: era diventato salesiano e intraprese subito gli studi per prepararsi al sacerdozio.
            Colpisce molto la fermezza e la determinazione nella risposta alla chiamata del Signore, segno del valore che egli attribuiva alla sua vocazione: «La grazia della vocazione fu per me una grazia, affatto singolare, invincibile, irresistibile, efficace. Il Signore mi aveva messo in cuore una ferma persuasione, un intimo convincimento che la sola via a me conveniente era farmi salesiano; era una voce di comando che non ammetteva replica, che toglieva ogni ostacolo alla quale non avrei potuto resistere anche se avessi voluto, e perciò avrei superato mille difficoltà, ancorché si fosse trattato di passare sul corpo di mio padre e di mia madre, come fece la Chantal che passò sul corpo del suo figlio”. Queste espressioni molto forti e forse poco piacevoli al nostro palato; sono come il preludio a una storia vocazionale vissuta con una radicalità non facile né da comprendere e tanto meno da accettare.

1.2. Radicale nel cammino formativo
            Un aspetto interessante e rivelativo di un agire prudenziale è la capacità di lasciarsi consigliare e correggere e diventare a sua volta capace di correzione e di consiglio: «Mi getto come un bambino nelle braccia sue abbandonandomi interamente alla sua direzione. Ella mi conduca per la via della perfezione, io sono risoluto con la grazia di Dio, di superare qualunque difficoltà, di fare qualunque sforzo per seguire i suoi consigli»; così al suo direttore spirituale don Giulio Barberis. Nell’esercizio dell’insegnamento e dell’assistenza «parlava sempre con calma e serenità… prima leggeva attentamente i regolamenti dei medesimi uffici… le norme ed il regolamento sull’assistenza e sul modo di far scuola… acquistò presto la conoscenza di ciascuno dei propri allievi, dei loro bisogni individuali, quindi si fece tutto a tutti ed a ciascuno». Nella correzione fraterna si lasciava ispirare da principi cristiani e interveniva ponderando bene le parole ed esprimendo chiaramente il suo pensiero.

            Risale a questo periodo la conoscenza del principe polacco Augusto Czartoryski da poco entrato in Congregazione, con il quale Andrea si legò d’amicizia: studiavano insieme le lingue straniere e si aiutavano a salire verso la vetta della santità. Quando Augusto si ammalò, i superiori pregarono Andrea di stargli vicino e di aiutarlo. Trascorsero insieme le vacanze estive negli istituti salesiani di Lanzo, Penango d’Asti, Alassio. Augusto, che intanto era arrivato al sacerdozio, era per Andrea angelo custode, maestro ed esempio eroico di santità. Don Augusto si spegnerà nel 1893 e don Andrea dirà di lui: “Ho curato un santo”. Quando poi a sua volta don Beltrami si ammalerà della stessa malattia, tra le probabili cause bisognerà annoverare anche questa dimestichezza di vita con l’amico infermo.

1.3. Radicale nella prova
            La sua malattia iniziò in modo brutale il 20 febbraio 1891 quando, in seguito ad un viaggio molto faticoso e durante i giorni di rigido inverno, si manifestarono i primi sintomi di un male che ne avrebbe minato la salute e lo avrebbe condotto alla tomba. Se tra le cause vi sono le fatiche scolastiche e i contatti con il principe Czartoryski affetto da tale malattia, meritano di essere ricordati sia lo sforzo ascetico che l’offerta vittimale. Circa tale lotta ingaggiata con il proprio uomo vecchio testimonia il suo compaesano e compagno di noviziato Giulio Cane: «Ebbi sempre la convinzione che il servo di Dio abbia preso la scossa più grave alla sua salute dalla forma violenta e costante con cui s’impose di rinnegare ogni suo moto volontario per farsi direi schiavo della volontà del Superiore, nel quale egli vedeva quella di Dio. Solo chi poté conoscere il servo di Dio negli anni della sua adolescenza e giovinezza, dallo spirito impulsivo, ardente, quasi ribelle ad ogni freno, e che sa come sia proprio della gente dei Beltrami Manera, il carattere tenace alle proprie opinioni, può farsi un chiaro concetto dello sforzo che il servo di Dio ebbe ad imporsi per dominare se stesso. In poi dalle conversazioni avute col servo di Dio mi feci questa convinzione: che Egli, diffidando di poter vincersi a gradi nel suo carattere, abbia fatto, fino dai primi mesi del suo Noviziato, il proposito della radicale rinunzia del suo volere, delle sue tendenze, delle sue aspirazioni. Tutto ciò ottenne con una costante vigilanza su se stesso per non venir mai meno al suo proposito. È impossibile che una tale lotta interna non abbia contribuito, più che le fatiche dello studio e dell’insegnamento, a minare la salute del servo di Dio». Davvero il giovane Beltrami prese alla lettera le parole del Vangelo: «Il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12).

            Visse la sua sofferenza con letizia interiore: «Il Signore mi vuole sacerdote e vittima: che c’è di più bello?». La sua giornata iniziava con la Santa Messa, in cui egli univa le sue sofferenze al Sacrificio di Gesù presente sull’altare. La meditazione diventava contemplazione. Ordinato sacerdote da mons. Cagliero, si diede tutto alla contemplazione e all’apostolato della penna. D’una tenacia di volontà a tutta prova, con un desiderio veementissimo della santità, consumò la sua esistenza nel dolore e nel lavoro incessante. «La missione che Dio mi affida è di pregare e di soffrire”, diceva. “Io sono contento e felice e faccio sempre festa. Né morire, né guarire, ma vivere per soffrire: nei patimenti ho trovato la vera contentezza», fu il suo motto. Ma la sua vocazione più vera era la preghiera e la sofferenza: essere vittima sacrificale con la Vittima divina che è Gesù. Lo rivelano i suoi scritti luminosi e ardenti: «È pur bello nelle tenebre, quando tutti riposano, tenere compagnia a Gesù, alla tremula luce della lampada davanti al Tabernacolo. Si conosce allora la grandezza infinita del suo amore». «Chiedo a Dio lunghi anni di vita per soffrire ed espiare, riparare. Io sono contento e faccio sempre festa perché lo posso fare. Né morire né guarire, ma vivere per soffrire. Nella sofferenza sta la mia gioia, la sofferenza offerta con Gesù in croce». «Mi offro vittima con Lui, per la santificazione dei sacerdoti, per gli uomini del mondo intero».

2. Il segreto
            Nel suo testo fondamentale per comprendere la vicenda di don Andrea Beltrami, don Giulio Barberis situa la santità del giovane salesiano nell’orbita di quella di Don Bosco, apostolo della gioventù abbandonata. Per fama di santità e di segni don Barberis parla di don Beltrami come «splendente come astro insigne… che tanta luce sparse di buon esempio e tanto ci incoraggiò al bene con le sue virtù!». Si tratterà quindi di cogliere di quale esemplarità di vita si tratti e in quale misura sia di incoraggiamento a quanti la guardano. La testimonianza di don Barberis si fa ancora più stringente e in forma molto ardita dichiara: «Io sono da oltre 50 anni nella Pia Società Salesiana; sono stato oltre 25 anni Maestro dei novizi: quanti santi confratelli ho conosciuto, quanti buoni giovani sono passati sotto di me in questo tempo! Quanti fiori eletti si compiacque il Signore trapiantare nel giardino salesiano in Paradiso! Eppure, se io ho da dire tutto il mio pensiero, sebbene non intenda far paragoni, mia convinzione si è, che nessuno abbia sorpassato in virtù e santità il carissimo nostro don Andrea». E nel processo affermò: «Sono persuaso che sia una grazia straordinaria che volle fare Iddio alla Congregazione fondata dall’impareggiabile don Giovanni Bosco, affinché noi cercando di imitarlo, possiamo raggiungere nella Chiesa lo scopo che ebbe il venerabile Don Bosco nel fondarla». L’attestazione, condivisa da tanti, è basata sia su una conoscenza approfondita della vita dei santi, sia su una famigliarità con don Beltrami di oltre dieci anni.
            Ad uno sguardo superficiale la luce di santità del Beltrami parrebbe in contrasto con la santità di Don Bosco di cui dovrebbe essere un riflesso, ma una lettura attenta consente di cogliere un segreto ordito su cui è intessuta l’autentica spiritualità salesiana. Si tratta di quella parte nascosta, non visibile, che tuttavia costituisce l’ossatura portante della fisionomia spirituale ed apostolica di Don Bosco e dei suoi discepoli. L’ansia del “Da mihi animas” si nutre dell’ascetica del “caetera tolle”; la parte frontale del personaggio misterioso del famoso sogno dei dieci diamanti, con le gemme della fede, speranza, carità, lavoro e temperanza, esige che nella parte posteriore corrispondano quelle dell’obbedienza, povertà, premio, castità, digiuno. La breve esistenza di don Beltrami è densa di un messaggio che rappresenta il lievito evangelico che fa fermentare tutta l’azione pastorale ed educativa tipica della missione salesiana e senza il quale l’azione apostolica è destinata ad esaurirsi in uno sterile e inconcludente attivismo. «La vita di don Beltrami, passata tutta nascosta in Dio, tutta nella preghiera, nei patimenti, nelle umiliazioni, nei sacrifizi, tutta in un lavoro nascosto ma costante, in una carità eroica, sebbene ristretta in un piccolo cerchio secondo la sua condizione, in un complesso mi pare tanto ammirabile da far dire: la fede ha operato sempre dei prodigi, ne opera anche oggidì, come certamente ne opererà finché il mondo duri».
            Si tratta di una consegna totale ed incondizionata di sé al progetto di Dio che motiva l’autentica radicalità della sequela evangelica, vale a dire di ciò che sta alla base, a fondamento di un’esistenza vissuta come risposta generosa ad una chiamata. Lo spirito con cui don Beltrami visse la sua vicenda è bene espresso da questa testimonianza riportata da un suo compagno che mentre lo commiserava per la sua malattia fu interrotto dal Beltrami in questi termini: «Lascia, disse, Dio sa quel che fa; ad ognuno accettare il suo posto ed in quello essere veramente Salesiano. Voi altri sani lavorate, io ammalato soffro e prego», così convinto di essere vero imitatore di Don Bosco.
            Certo non è facile cogliere tale segreto, tale perla preziosa. Non lo fu per don Barberis che pure lo conobbe in modo serio per ben dieci anni come direttore spirituale; non lo fu nella tradizione salesiana che gradualmente ha emarginato tale figura; non lo è nemmeno per noi oggi e per tutto un contesto culturale e antropologico che tende ad emarginare il messaggio cristiano, soprattutto nel suo nucleo di opera redentiva che passa attraverso lo scandalo dell’umiliazione, della passione e della croce. «Descrivere le singolari virtù d’un uomo vissuto sempre chiuso in una casa religiosa, e, negli anni più importanti, in una cameretta, senza pur poter scendere le scale, per ragion della sua malattia, d’un uomo poi d’una tal umiltà che fece scomparire accuratamente tutti quei documenti che avrebbero potuto far conoscere le sue virtù, e che cercava non trapelasse ombra degli alti sensi di sua pietà; di uno che, a chi voleva e a chi non voleva, si protestava gran peccatore accennando a’ suoi innumerevoli peccati, mentre invece era sempre stato tenuto il migliore in qualunque scuola e collegio si fosse presentato, è opera non pure difficile, ma quasi impossibile». La difficoltà a cogliere il profilo virtuoso dipende dal fatto che tali virtù non erano né appariscenti, né suffragate da particolari fatti esteriori da attirare l’attenzione o suscitare ammirazione.

(continua)




Terzo sogno missionario: viaggio aereo (1885)

Il sogno di don Bosco alla vigilia della partenza dei missionari per l’America è un evento ricco di significato spirituale e simbolico nella storia della Congregazione Salesiana. Durante quella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, don Bosco ebbe una visione profetica che sottolinea l’importanza della pietà, dello zelo apostolico e della totale fiducia nella Provvidenza Divina per il successo della missione. Questo episodio non solo incoraggiò i missionari, ma consolidò anche la convinzione di Don Bosco sulla necessità di espandere la loro opera oltre i confini italiani, portando educazione, assistenza e speranza alle nuove generazioni in terre lontane.

            S’arrivò frattanto alla vigilia della partenza. Per tutta la giornata il pensiero che Monsignore e gli altri sarebbero andati così lontano, e l’impotenza assoluta di accompagnarli, come le volte precedenti, fino all’imbarco, anzi l’impossibilità forse di dar loro almeno l’addio nella chiesa di Maria Ausiliatrice, gli causarono sussulti di commozione, che in certi momenti lo opprimevano e lo lasciavano abbattuto. Or ecco che nella notte dal 31 gennaio al 1° febbraio fece un sogno simile a quello del 1883 sulle Missioni. Lo raccontò quindi a Don Lemoyne che subito lo scrisse. É il seguente.

            Mi parve di accompagnare i Missionari nel loro viaggio. Ci siamo parlati per un breve momento prima di partire dall’Oratorio. Essi mi stavano attorno e mi chiedevano consigli; e mi pareva di dire loro:
            – Non colla scienza, non colla sanità, non colle ricchezze, ma collo zelo e colla pietà, farete del gran bene, promovendo la gloria di Dio e la salute delle anime.
            Eravamo poco prima all’Oratorio, e poi senza sapere per quale via fossimo andati e con quale mezzo, ci siamo trovati quasi subito in America. Giunto al termine del viaggio mi trovai solo in mezzo ad una vastissima pianura, posta tra il Chile e la Repubblica Argentina. I miei cari Missionari si erano tutti dispersi qua e là per quello spazio senza limiti. Io guardandoli mi meravigliava, poiché mi sembravano pochi. Dopo tanti Salesiani che in varie volte aveva mandati in America, mi pensava di dover vedere un numero maggiore di Missionari. Ma poscia riflettendo conobbi che se piccolo sembrava il loro numero, ciò avveniva perché si erano sparsi in molti luoghi, come seminagione che doveva trasportarsi altrove ad essere coltivata e moltiplicata.
            In quella pianura apparivano molte e lunghissime vie per le quali si vedevano sparse numerose case. Queste vie non erano come le vie di questa terra, e le case non erano come le case di questo mondo. Erano oggetti misteriosi e direi quasi, spirituali. Quelle strade erano percorse da veicoli, o da mezzi di trasporto che correndo prendevano successivamente mille aspetti fantastici e mille forme tutte diverse, benché magnifiche e stupende, sicché io non posso definirne o descriverne una sola. Osservai con stupore che i veicoli giunti vicini ai gruppi di case, ai villaggi, alle città, passavano in alto, cosicché chi viaggiava vedeva sotto di sé i tetti delle case, le quali benché fossero molto elevate, pure di molto sottostavano a quelle vie le quali mentre nel deserto aderivano al suolo, giunte vicine ai luoghi abitati diventavano aeree quasi formando un magico ponte. Di lassù si vedevano gli abitanti nelle case, nei cortili, nelle vie, e nelle campagne occupati a lavorare i loro poderi.
            Ciascheduna di quelle strade faceva capo ad una delle nostre missioni. In fondo ad una lunghissima via che si protendeva dalla parte del Chile io vedeva una casa [tutte le particolarità topografiche che precedono e che seguono, sembrano indicare la casa di Fortìn Mercedes, sulla riva sinistra del Colorado] con molti confratelli Salesiani, i quali si esercitavano nella scienza, nella pietà, in varie arti e mestieri e nell’agricoltura. A mezzodì era la Patagonia. Dalla parte opposta in un colpo d’occhio scorgeva tutte le case nostre nella Repubblica Argentina. Quindi nell’Uruguay, Paysandú, Las Piedras, Villa Colón; nel Brasile il Collegio di Nicteroy e molti altri ospizi sparsi nelle provincie di quell’impero. Ultima ad occidente si apriva un’altra lunghissima strada che traversando fiumi, mari e laghi faceva capo in paesi sconosciuti. In questa regione vidi pochi Salesiani. Osservai con attenzione e potei solamente vederne due.
            In quell’istante apparve vicino a me un personaggio di nobile e vago aspetto, pallidetto di carnagione, grasso, con barba rasa in modo da parere imberbe e per età uomo fatto. Era vestito in bianco, con una specie di cappa color di rosa intrecciata con fili d’oro. Risplendeva tutto. Io conobbi in quello il mio interprete.
            – Dove siamo qui? chiesi io additandogli quest’ultimo paese.
            – Siamo in Mesopotamia, mi rispose l’interprete.
            – In Mesopotamia? io replicai: ma questa è la Patagonia.
            – Ti dico, rispose l’altro, che questa è la Mesopotamia.
            – Ma pure… ma pure… non posso persuadermene.
            – La cosa è così! Questa è la Me.. so.. po.. ta.. mi.. a, concluse l’interprete sillabando la parola, perché mi restasse bene impressa.
            – Ma perché i Salesiani che vedo qui sono così pochi?
            – Ciò che non è, sarà, concluse il mio interprete.
            Io intanto sempre fermo in quella pianura percorreva collo sguardo tutte quelle interminabili vie e contemplava, in modo chiarissimo ma inesplicabile, i luoghi che sono e saranno occupati dai Salesiani. Quante cose magnifiche io vidi! Vidi tutti i singoli collegi. Vidi come in un punto solo il passato, il presente e l’avvenire delle nostre missioni. Siccome vidi tutto complessivamente in uno sguardo solo, è ben difficile, anzi impossibile rappresentare anche languidamente qualche ristretta idea di questo spettacolo. Solamente ciò che io vidi in quella pianura del Chile, del Paraguay, del Brasile, della Repubblica Argentina domanderebbe un grosso volume, volendo indicare qualche sommaria notizia. Vidi pure in quella vasta pianura, la gran quantità di selvaggi che sono sparsi nel Pacifico fino al golfo di Ancud, nello stretto di Magellano, al Capo Horn, nelle isole Diego, nelle isole Malvine. Tutta messe destinata per i Salesiani. Vidi che ora i Salesiani seminano soltanto, ma i nostri posteri raccoglieranno. Uomini e donne ci rinforzeranno e diverranno predicatori. I loro figli stessi che sembra quasi impossibile guadagnare alla fede, eglino stessi diverranno gli evangelizzatori dei loro parenti e dei loro amici. I Salesiani riusciranno a tutto colla umiltà, col lavoro, colla temperanza. Tutte quelle cose che io vedeva in quel momento e che vidi in appresso, riguardavano tutte i Salesiani, il loro regolare stabilimento in quei paesi, il loro aumento meraviglioso, la conversione di tanti indigeni e di tanti Europei colà stabiliti. L’Europa si verserà nell’America del Sud. Dal momento che in Europa si incominciò a spogliare le chiese, incominciò a diminuire la floridezza del commercio, il quale andò e andrà sempre più deperendo. Quindi gli operai e le loro famiglie spinti dalla miseria correranno a cercare ricovero in quelle nuove terre ospitali.
            Visto il campo che ci assegna il Signore ed il glorioso avvenire della Congregazione Salesiana, mi parve di mettermi in viaggio pel ritorno in Italia. Io era trasportato con rapidissimo corso per una via strana, altissima e così giunsi in un attimo sopra l’Oratorio. Tutta Torino era sotto i miei piedi e le case, i palagi, le torri mi sembravano basse casupole, tanto io mi trovava in alto. Piazze, strade, giardini, viali, le ferrovie le mura di cinta, le campagne, e le colline circostanti, le città, i villaggi della provincia, la gigantesca catena delle Alpi coperta di neve stavano sotto i miei occhi presentandomi uno stupendo panorama. Vedeva i giovani là in fondo nell’Oratorio che sembravano tanti topolini. Ma il loro numero era straordinariamente grande; preti, chierici, studenti, capi d’arte ingombravano tutto. Molti partivano in processione ed altri sottentravano alle file di coloro che partivano. Era una continuata processione.
            Tutti si andavano a raccogliere in quella vastissima pianura tra il Chile e la Repubblica Argentina, nella quale io tosto era ritornato in un batter d’occhio. Io li stava, osservando. Un giovane prete il quale sembrava il nostro D. Pavia, ma che non era, con aria affabile, parola cortese, di un aspetto candido, e di carnagione fanciullesca venne verso di me e mi disse:
            – Ecco le anime ed i paesi destinati ai figliuoli di S. Francesco di Sales.
            Io era meravigliato come tanta moltitudine che sì era raccolta colà in un momento disparisse e appena appena in lontananza si scorgesse la direzione che aveva presa.
            Qui io noto che nel narrare il mio sogno vado per sommi capi e non mi è possibile precisare la successione esatta dei magnifici spettacoli che mi si presentavano e i vari accidenti accessori. Lo spirito non regge, la memoria dimentica, la parola non basta. Oltre il mistero che involgeva quelle scene, queste si avvicendavano, talora s’intrecciavano, soventi volte si ripetevano secondo il vario unirsi o dividersi o partire dei missionari, e lo stringersi, o allontanarsi da essi di quei popoli che erano chiamati alla fede o alla conversione. Lo ripeto: vedeva in un punto solo il presente, il passato, l’avvenire di queste missioni, con tutte le fasi, i pericoli, le riuscite, le disdette o disinganni momentanei che accompagneranno questo Apostolato. Allora intendeva chiaramente tutto, ma ora è impossibile sciogliere questo intrigo di fatti, di idee, di personaggi. Sarebbe come chi volesse comprendere in una sola storia e ridurre ad un solo fatto e ad unità tutto lo spettacolo del firmamento, narrando il moto, lo splendore, le proprietà di tutti gli astri colle loro relazioni e leggi particolari e reciproche; mentre un solo astro darebbe materia all’attenzione e allo studio della mente più robusta. E noto ancora che qui si tratta di cose le quali non hanno relazione con gli oggetti materiali.
            Ripigliando adunque il racconto, dico che restai meravigliato nel vedere scomparire tanta moltitudine. Monsignor Cagliero era in quell’istante al mio fianco. Alcuni missionari erano ad una certa distanza. Molti altri erano intorno a me con un bel numero di cooperatori Salesiani, fra i quali distinsi Mons. Espinosa, il Dottor Torrero, il Dottor Caranza e il Vicario generale del Chile [forse si voleva dire di Mons. Domenico Cruz, Vicario Capitolare della diocesi di Concepción]. Allora il solito interprete venne verso di me che parlava con Mons. Cagliero e molti altri, mentre andavamo studiando se quel fatto racchiudesse qualche significazione. Nel modo più cortese l’interprete mi disse:
            – Ascoltate e vedrete.
            Ed ecco in quel momento la vasta pianura divenire una gran sala. Io non posso descrivere esattamente quale apparisse nella sua magnificenza e nella sua ricchezza. Dico solo che se uno si mettesse a descriverla, nessun uomo potrebbe sostenerne lo splendore neppure coll’immaginazione. L’ampiezza era tale che si perdeva a vista d’occhio e non si riusciva a vederne le mura laterali. La sua altezza non si poteva raggiungere. La volta terminava tutta con archi altissimi, larghissimi e risplendentissimi e non si vedeva sopra qual sostegno si appoggiassero. Non vi erano né pilastri, né colonne. In generale sembrava che la cupola di quella gran sala fosse di un candidissimo lino a guisa di tappezziera. Lo stesso dicasi del pavimento. Non vi erano lumi, né sole, né luna, né stelle, ma sebbene uno splendore generale, diffuso egualmente in ogni parte. La stessa bianchezza dei lini luccicava e rendeva visibile ed amena ogni parte, ogni ornamento, ogni finestra, ogni entrata, ogni uscita. Tutto intorno era diffusa una soavissima fragranza, la quale era mescolanza di tutti gli odori più grati.
            Un fenomeno si scorse in quel momento. Una gran quantità di tavole in forma di mensa si trovavano là di una lunghezza straordinaria. Ve ne erano per tutte le direzioni, ma concorrevano ad un centro solo. Erano coperte da eleganti tovaglie e sopra stavano disposti in ordine bellissimi vasi cristallini in cui erano fiori molti e vari.
            La prima cosa che notò Mons. Cagliero fu:
            – Le tavole ci sono, ma i commestibili dove sono?
            Infatti non era apparecchiato nessun cibo e nessuna bevanda, anzi neppure vi erano piatti, coppe o altri recipienti nei quali porre le vivande.
            L’amico interprete rispose allora:
            – Quelli che vengono qui, neque sitient, neque esurient amplius (Non avranno più fame né avranno più sete Ap. 7.16).
            Detto questo incominciò ad entrare gente, tutta vestita in bianco con una semplice striscia come collana, di color di rosa ricamata a fili d’oro che cingeva il collo e le spalle. I primi che entrarono erano in numero limitato. Solo alcuni in piccola schiera. Appena entrati in quella gran sala andavano a sedersi intorno ad una mensa loro preparata, cantando: Evviva! Ma dopo queste, altre schiere più numerose si avanzavano, cantando: Trionfo! Ed allora incominciò a comparire una varietà di persone, grandi e piccoli, uomini e donne, di ogni generazione, diversi di colore, di forme, di atteggiamenti e da tutte parti risuonavano cantici. Si cantava: Evviva! da quelli che erano già al loro posto. Si cantava trionfo! da quelli che entravano. Ogni turba che entrava erano altrettante nazioni o parti di nazioni che saranno tutte convertite dai missionari.
            Ho dato un colpo d’occhio a quelle mense interminabili e conobbi che là sedute e cantando vi erano molte nostre suore e gran numero dei nostri confratelli. Costoro però non avevano nessun distintivo di essere preti, chierici, o suore, ma egualmente come gli altri avevano la veste bianca e il pallio color di rosa.
            Ma la mia meraviglia crebbe quando ho veduto uomini dall’aspetto ruvido, col medesimo vestito degli altri e cantare: Evviva trionfo! In quel momento il nostro interprete disse:
            – Gli stranieri, i selvaggi che bevettero il latte della parola divina dai loro educatori, divennero banditori della parola di Dio.
            Osservai pure in mezzo alla folla schiere di fanciulli con aspetto rozzo e strano e domandai:
            – E questi fanciulli che hanno una pelle così ruvida, che sembra quella di un rospo, ma pure così bella e di un colore così risplendente? Chi sono costoro?
            L’interprete rispose:
            – Questi sono i figliuoli di Cam che non hanno rinunziato alla eredità di Levi. Essi rinforzeranno le armate per tutelare il regno di Dio che finalmente è giunto anche fra noi. Era piccolo il loro numero, ma i figli dei figli loro lo accrebbero. Ora ascoltate e vedete, ma non potete intendere i misteri che vedrete.
            Quei giovanetti appartenevano alla Patagonia ed all’Africa Meridionale.
            In quel mentre si ingrossarono tanto le file di coloro che entrarono in quella sala straordinaria, che ogni sedia pareva occupata. Le sedie e i sedili non avevano forma determinata, ma prendevano quella forma che ciascheduno desiderava. Ognuno era contento del seggio che occupava e del seggio che occupavano gli altri.
            Ed ecco mentre si gridava da tutte Evviva! trionfo! ecco sopraggiungere in ultimo una gran turba che festevolmente veniva incontro agli altri già entrati e cantando: Alleluia, gloria, trionfo!
            Quando la sala apparve interamente piena, e le migliaia dei radunati non si potevano numerare, si fece un profondo silenzio e quindi quella moltitudine incominciò a cantare divisa in diversi cori.
            Il primo coro: Appropinquavit in nos regnum Dei (È vicino a voi il regno di Dio Lc. 10,11); laetentur Coeli et exultet terra (Gioiscano i cieli, esulti la terra, 1Cr 16,31); Dominus regnavit super nos (Il Signore regnò su di noi); alleluia.
            Altro coro: Vicerunt; et ipse Dominus dabit edere de ligno vitae et non esurient in aeternum: alleluia (Al vincitore darò da mangiare dall’albero della vita e non avrà fame in eterno, alleluia Ap. 2,7).
            Un terzo coro: Laudate Dominum omnes gentes, laudate eum omnes populi. (Genti tutte, lodate il Signore, popoli tutti, cantate la sua lode, Ps 117,1)
            Mentre queste ed altre cose cantavano e si alternavano, a un tratto si fece per la seconda volta un profondo silenzio. Quindi incominciarono a risuonare voci che venivano dall’alto e lontane. Il senso del cantico era questo con una armonia che non si può in nessun modo esprimere: Soli Deo honor et gloria in saecula saeculorum ([solo a Dio] onore e gloria nei secoli dei secoli 1Tm 1,17). Altri cori sempre in alto e lontani rispondevano a queste voci: Semper gratiarum actio illi qui erat, est, et venturus est. Illi eucharistia, illi soli honor sempiternus (Ringraziamento in eterno a Colui che era, che è e che verrà. A lui l’Eucaristia, a lui solo l’eterno onore).
            Ma in quel momento quei cori si abbassarono e si avvicinarono. Fra quei musici celesti vi era anche Luigi Colle. Gli altri che stavano nella sala si misero allora tutti a cantare e si unirono, collegandosi le voci insieme in somiglianza di straordinari istrumenti musicali, con suoni la cui estensione non aveva limiti. Quella musica sembrava avesse contemporaneamente mille note e mille gradi di elevazione che si associavano a fare un solo accordo di voci. Le voci in alto salivano così acute che non si può immaginare. Le voci di coloro che erano nella sala scendevano sonore, rotonde così basso che non si può esprimere. Tutti formavano un coro solo, una sola armonia, ma così i bassi come gli alti con tale gusto e bellezza e con tale penetrazione in tutti i sensi dell’uomo e assorbimento di questi, che l’uomo dimenticava la propria esistenza, ed io caddi in ginocchio ai piedi di Mons. Cagliero esclamando:
            – Oh Cagliero! Noi siamo in paradiso!
            Mons. Cagliero mi prese per mano e mi rispose:
            – Non è il paradiso, è una semplice, una debolissima figura di ciò che in realtà sarà in paradiso.
            Intanto unanimi le voci dei due grandiosi cori proseguivano, e cantavano con inesprimibile armonia: Soli Deo honor et gloria, et triumphus alleluia, in aeternum in aeternum! (Solo a Dio onore e gloria e vittoria alleluia, nei secoli dei secoli!) Qui ho dimenticato me stesso e non so più che cosa sia stato di me. Al mattino stentava a levarmi di letto; appena appena potei richiamarmi a me stesso, quando sono andato a celebrare la santa Messa.
            Il pensiero principale che mi restò impresso dopo questo sogno, fu di dare a Mons. Cagliero ed ai miei cari missionari un avviso di somma importanza riguardante le sorti future delle nostre missioni: – Tutte le sollecitudini dei Salesiani e delle suore di Maria Ausiliatrice siano rivolte a promuovere le vocazioni ecclesiastiche e religiose.
(MB XVII, 299-305)




Missionari 2024

Domenica 29 Settembre, alle 12:30 (UTC+2) presso la basilica di Maria Ausiliatrice a Valdocco, 27 Salesiani di Don Bosco e 8 Figlie di Maria Ausiliatrice riceveranno il crocifisso missionario rinnovando la generosità apostolica a favore di tanti giovani in tutto il mondo.

Come ogni anno, nell’ultima domenica di settembre, si rinnova il cuore missionario di Don Bosco attraverso la disponibilità dei Salesiani di Don Bosco e delle Figlie di Maria Ausiliatrice inviati come missionari ad gentes.
Tanto tempo è passato da quell’11 novembre 1875, giorno nel quale si compì un passo fondamentale: il primo gruppo di missionari salesiani diretto in Argentina iniziò la trasformazione dei salesiani in una congregazione mondiale, oggi estesa in 138 Paesi. Due anni più tardi, anche le FMA attraversarono l’oceano iniziando l’opera di diffusione oltre i confini italiani.

Mentre ci avviciniamo al 150° anniversario della prima spedizione missionaria, possiamo vedere da più vicino la preparazione dei neomissionari salesiani che si sviluppa nel corso “Germoglio”, organizzato dall’equipe del Settore per le Missioni e coordinato da don Reginaldo Cordeiro. Il corso si articola lungo cinque settimane, immediatamente prima della spedizione missionaria. Nella preghiera, nell’ascolto delle testimonianze, nella condivisione delle esperienze, nella riflessione personale e nella convivenza gioiosa con gli altri partenti del corso, i nuovi missionari sono aiutati a verificare, approfondire e, a volte, scoprire le ragioni profonde del proprio andare in missione.

Ovviamente, il discernimento della propria vocazione missionaria inizia molto prima. Tradizionalmente, il 18 dicembre, giorno della fondazione della Congregazione Salesiana, il Rettor Maggiore diffonde un appello missionario indicando le priorità missionarie a cui rivolgere lo sguardo. In risposta all’appello, molti salesiani scrivono la propria disponibilità, dopo essersi messi in ascolto della volontà di Dio, aiutati dalla propria guida spirituale e dal direttore della propria comunità, seguendo gli orientamenti del Settore per le Missioni. Occorre una rilettura profonda della propria vita e un cammino attento di discernimento per maturare la vocazione missonaria ad gentes, ad exteros, ad vitam. Il missionario, infatti, parte per un progetto che durerà tutta la vita, con la prospettiva di inculturarsi in un paese diverso e di incardinarsi in una nuova Ispettoria, in un contesto che diventerà “casa”, nonostante le tante sfide e difficoltà.
Dall’altro lato, è importante che ci sia nelle Ispettorie un progetto missionario ben strutturato, che permetta al missionario che arriva di essere accompagnato, di inserirsi e di mettersi al servizio nel modo migliore possibile.

Il Corso Germoglio inizia a Roma, con un nucleo introduttivo, che mira a fornire ai missionari partenti i fondamenti delle competenze di base e gli atteggiamenti necessarie per un esito positivo del corso. Vengono affrontate le motivazioni della scelta missionaria, in un cammino graduale di consapevolezza e purificazione. Ogni missionario viene invitato ad elaborare un progetto personale di vita missionaria, che metta in luce gli elementi imprescindibili e i passi da compiere per rispondere adeguatamente alla chiamata di Dio. Poi un’introduzione alla cultura italiana ed un incontro sull’ “alfabetizzazione delle emozioni”, fondamentale per vivere al meglio l’esperienza in un contesto diverso dal proprio, e una sessione sull’animazione missionaria e sul volontariato missionario salesiano. Tutto questo in un contesto di comunità, dove i momenti informali sono preziosi e la partecipazione ai momenti comunitari di preghiera è vitale, in uno stile di Pentecoste, dove le lingue e le culture si mischiano per un arricchimento di tutti. In questi giorni, un pellegrinaggio sui luoghi della fede cristiana aiuta a ripercorrere le radici della propria fede, insieme alla vicinanza alla Chiesa universale, manifestata anche nella partecipazione all’udienza papale. Quest’anno il papa, nel giorno 28 Agosto, ha mostrato vicinanza ai missionari, ricordando loro in un breve colloquio durante una foto di gruppo la figura di Sant’Artemide Zatti insieme alla bellezza e all’importanza della vocazione dei coadiutori salesiani.

La seconda parte del corso si sposta a Colle Don Bosco, luogo natale di Don Bosco, dove si entra nel vivo dell’esperienza andando a fondo nella preparazione sotto il punto di vista antropologico, teologico/missiologico e carismatico salesiano. Prepararsi all’inevitabile shock culturale, essere consapevoli dell’importanza e della fatica di conoscere una nuova cultura e una nuova lingua ed essere aperti al dialogo interculturale, sapendo di dover affrontare conflitti e incomprensioni, sono elementi fondamentali per vivere un’esperienza vera, umana e piena. Alcuni fondamenti missiologici aiutano a comprendere cosa sia la missione per la Chiesa e nozioni sul Primo Annuncio e l’evangelizzazione integrale completano la visione del missionario. Infine, le caratteristiche tipicamente salesiane, iniziando da alcuni cenni storici per poi soffermarsi sulla situazione attuale, sul discernimento e la spiritualità salesiana.
Il gruppo dei missionari ha poi l’opportunità di visitare i luoghi di Don Bosco, in una settimana di esercizi spirituali itineranti in cui potersi confrontare con il santo dei giovani e affidare a lui il proprio sogno missionario.

L’esperienza prosegue con un pellegrinaggio a Mornese, dove viene presentato il carisma missionario nella versione femminile di Santa Maria Domenica Mazzarello, insieme alle Figlie di Maria Ausiliatrice. Gli ultimi giorni vengono vissuti a Valdocco, dove si completa l’itinerario sui luoghi di don Bosco e si completa la preparazione in vista del “sì” alla chiamata missionaria. Il dialogo con il Rettor Maggiore e la Madre Generale chiudono il programma prima della domenica, quando, nella messa delle 12:30, vengono consegnati i crocifissi missionari ai partenti.

Se andiamo a vedere chi sono i salesiani della 155esima spedizione missionaria, subito notiamo come il cambio di paradigma è evidente: tutte le Ispettorie, e tutti i Paesi, possono essere destinatarie e allo stesso tempo mittenti. I missionari non sono più solamente italiani, come era alle origini, o europei, ma provengono dai cinque continenti, in particolare dall’Asia (11 missionari, provenienti dalle due regioni di Asia Sud e Asia Est-Oceania) e dall’Africa (8 missionari), mentre la regione Mediterranea accoglierà il maggior numero dei missionari di questa spedizione. Da qualche anno il Settore per le Missioni prepara una mappa che aiuta graficamente a visualizzare la distribuzione dei nuovi missionari nel mondo (si può scaricare in allegato). Quest’anno ci sono cinque sacerdoti, due coadiutori, un diacono e 19 salesiani studenti. Insieme a loro, si è unito qualche missionario delle passate spedizioni, che non è riuscito a partecipare al corso di preparazione.

Qui sotto, nel dettaglio, la lista dei nuovi missionari:
Donatien Martial Balezou, dalla Rep. Centrafricana (ATE) al Brasile – Belo Horizonte (BBH);
Guy Roger Mutombo, dalla Rep. Dem. del Congo (ACC) all’Italia (IME);
Henri Mufele Ngandwini, dalla Rep. Dem. del Congo (ACC) all’Italia (IME);
il coadiutore Alain Josaphat Mutima Balekage, dalla Rep. Dem. del Congo (AFC) all’Uruguay (URU);
Clovis Muhindo Tsongo, dalla Rep. Dem. del Congo (AFC) al Brasile (BPA);
Confiance Kakule Kataliko, dalla Rep. Dem. del Congo (AFC) all’Uruguay (URU);
don Ephrem Kisenga Mwangwa dalla Rep. Dem. del Congo (AFC) a Taiwan (CIN);
Ernest Kirunda Menya, dall’Uganda (AGL) alla Romania (INE);
Éric Umurundi Ndayicariye, dal Burundi (AGL) alla Mongolia (KOR);
Daniel Armando Nuñez, da El Salvador (CAM) al Nord Africa (CNA);
Marko Dropuljić, dalla Croazia (CRO) alla Mongolia (KOR);
Krešo Maria Gabričević, dalla Croazia (CRO) a Papua Nuova Guinea – Isole Salomone (PGS);
Rafael Gašpar, dalla Croazia (CRO) al Brasile (BBH);
don Marijan Zovak, dalla Croazia (CRO) alla Rep. Dominicana (ANT);
don Enrico Bituin Mercado dalle Filippine (FIN) all’Africa Meridionale (AFM);
Alan Andrew Manuel, dall’India (INB) al Nord Africa (CNA);
don Joseph Reddy Vanga, dall’India (INH) a Papua Nuova Guinea – Isole Salomone (PGS);
don Hubard Thyrniang, dall’India (INS) all’Africa Occidentale Nord (AON);
don Albert Tron Mawa, dall’India (INS) allo Sri Lanka (LKC);
Eruthaya Valan Arockiaraj, dall’India (INT) al Congo (ACC);
Herimamponona Dorisse Angelot Rakotonirina, dal Madagascar (MDG) a Albania/Kosovo/Montenegro (AKM);
il coadiutore Mouzinho Domingos Joaquim Mouzinho, dal Mozambico (MOZ) a Albania/Kosovo/Montenegro (AKM);
Nelson Alves Cabral, da Timor Est (TLS) alla Rep. Dem. del Congo (AFC);
Elisio Ilidio Guterres Dos Santos, da Timor Est (TLS) alla Romania (INE);
Francisco Armindo Viana, da Timor Est (TLS) al Congo (ACC);
Tuấn Anh Joseph Vũ, dal Vietnam (VIE) al Cile (CIL);
Trong Hữu Francis Ɖỗ, dal Vietnam (VIE) al Cile (CIL).

Questi sono i membri della 155esima spedizione missionaria salesiana, mentre le FMA vivranno la 147esima spedizione.

Le Figlie di Maria Ausiliatrice neomissionarie sono:
suor Cecilia Gayo, dall’Uruguay;
suor Maria Goretti Tran Thi Hong Loan, dal Vietnam;
suor Sagma Beronica, dall’India, ispettoria di Shillong;
suor Serah Njeri Ndung’u, dall’ispettoria Africa dell’Est, inviata in Sud Sudan;
suor Lai Marie Pham Thi, dal Vietnam;
suor Maria Bosco Tran Thi Huyen, dal Vietnam;
suor Philina Kholar, dall’India, ispettoria di Shillong, inviata in Italia (Sicilia);
suor Catherine Ramírez Sánchez, dal Cile.
La maggior parte di loro ancora non conosce la destinazione missionaria, che sarà comunicata dopo il corso di formazione.

Quest’anno anche un gruppo appartenente alla Comunità della Missione di Don Bosco (CMB), gruppo della Famiglia Salesiana guidato dal diacono Guido Pedroni, riceverà la croce missionaria insieme ai Salesiani e alle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Preghiamo affinché questa variegata disponibilità vocazionale porti frutto in tutto il mondo!

Marco Fulgaro




Diffondere lo spirito missionario di don Bosco

Ci avviciniamo alla celebrazione dei 150 anni della Prima Spedizione Missionaria salesiana (1875-2025). La dimensione missionaria della Società Salesiana fa parte del suo “DNA”. È stata così voluta da don Bosco fin dall’inizio, e oggi la congregazione è presente in 136 paesi. Questo slancio iniziale continua anche oggi ed è sostenuto dal Dicastero delle Missioni. Presentiamo brevemente la loro attività e organizzazione.

            Don Bosco, pur non essendo mai partito per terre lontane come missionario ad gentes, ha sempre avuto un cuore missionario ed un ardente desiderio di condividere il carisma salesiano per raggiungere tutti i confini del mondo e contribuire alla salvezza dei giovani.
Questo è stato possibile grazie alla disponibilità di tanti salesiani inviati nelle spedizioni missionarie (a fine settembre di quest’anno si celebrerà la 155esima) che, collaborando con i locali e i laici, hanno permesso la diffusione e l’inculturazione del carisma salesiano. Rispetto ai primi “pionieri” oggi la figura del missionario deve rispondere a sfide diverse, e il paradigma missionario si è aggiornato per essere un veicolo efficace di evangelizzazione nel mondo di oggi. Innanzitutto, come ci ricorda don Alfred Maravilla, Consigliere Generale per le Missioni, (nel 2021 ha scritto una lettera, “La vocazione missionaria salesiana”), le missioni non rispondono più a criteri geografici, come una volta, e i missionari di oggi provengono dai cinque continenti e si inviano ai cinque continenti, perciò non esiste più una netta separazione tra “terre di missione” e altre presenze salesiane. Inoltre, molto importante è la distinzione tra la vocazione missionaria salesiana, ovvero la chiamata che alcuni salesiani ricevono per essere inviati per tutta la vita in un altro luogo come missionari, e lo spirito missionario, tipico di tutti i salesiani e di tutti i membri di una comunità educativo-pastorale, che si manifesta nel cuore oratoriano e nello slancio per l’evangelizzazione dei giovani.

            Il compito di promuovere lo spirito missionario e mantenerlo vivo nei salesiani e nei laici è affidato soprattutto ai “Delegati Ispettoriali per l’Animazione Missionaria” (DIAM), ovvero quei salesiani, o laici, che ricevono dall’Ispettore, il salesiano superiore della provincia (“ispettoria”) in questione, il compito di occuparsi dell’animazione missionaria. Il DIAM ha un ruolo molto importante, è la “sentinella missionaria” che, attraverso la sua sensibilità ed esperienza, si impegna nel diffondere la cultura missionaria a vari livelli (v. Animazione Missionaria Salesiana. Manuale del Delegato Ispettoriale, Roma, 2019).

            Il DIAM innesca la sensibilità missionaria in tutte le comunità dell’Ispettoria e lavora in sinergia con i responsabili delle altre aree per testimoniare l’importanza di questo ambito trasversale e comune ad ogni cristiano. A livello pratico, organizza alcune iniziative, promuove la preghiera per le missioni nel giorno 11 del mese, nel ricordo della prima spedizione missionaria l’11 Novembre 1875, promuove nell’Ispettoria la “Giornata Missionaria Salesiana” ogni anno, diffonde i materiali preparati dalla Congregazione a tema missionario, come il bollettino “Cagliero11” o il video “CaglieroLife”. La Giornata Missionaria Salesiana, che ricorre dal 1988, è un’occasione bella per fermarsi a riflettere e rilanciare l’animazione missionaria. Non deve essere necessariamente una giornata, può essere un itinerario di più giorni e non ha una data fissa, in modo da permettere a tutti di scegliere il miglior momento dell’anno che si adatta al ritmo e al calendario dell’Ispettoria. Ogni anno viene scelto un tema comune e preparati alcuni materiali di animazione come spunto di riflessione e di attività, adattabili e modificabili. Quest’anno il tema è “costruttori di dialogo”, mentre nel 2025 si concentrerà sul 150esimo anniversario della prima spedizione missionaria secondo i tre verbi “Ringraziare, Ripensare, Rilanciare”. Il Cagliero11, invece, è un semplice bollettino di animazione missionaria, creato nel 2009 e pubblicato tutti i mesi, di due pagine che contiene riflessioni missionarie, interviste, notizie, curiosità e la preghiera mensile che viene proposta. Il “CaglieroLife” è un video di un minuto che, sulla base della preghiera missionaria del mese (a su volta basata sull’intenzione mensile proposta dal Papa), aiuta a riflettere sul tema. Questi sono tutti strumenti che permettono al DIAM di svolgere bene il suo compito di promozione dello spirito missionario, in linea con i tempi di oggi.
            Il DIAM collabora o coordina, a seconda delle Ispettorie, il Volontariato Missionario Salesiano (“VMS”), ovvero quelle esperienze giovanili di servizio solidale e gratuito in una comunità diversa dalla propria per un periodo di tempo continuo (in estate, per più mesi, un anno…), motivate dalla fede, con stile missionario e secondo la pedagogia e la spiritualità di Don Bosco (Il Volontariato nella Missione Salesiana. Identità e Orientamenti del Volontariato Missionario Salesiano, Roma, 2019).
            Quest’anno, a marzo, è stato realizzato a Roma un primo incontro dei coordinatori del VMS, che ha visto la presenza di una cinquantina di partecipanti, tra laici e salesiani, sotto la guida di un advisory team misto che ne ha curato l’organizzazione. Tra i punti salienti usciti dall’incontro, ricchissimo soprattutto per la condivisione delle esperienze, ci sono stati l’esplorazione dell’identità del volontario missionario salesiano, la formazione dei volontari e dei coordinatori, la collaborazione tra laici e religiosi, l’accompagnamento a tutti i livelli e il lavoro in rete. È stata presentata una nuova croce simbolica del VMS, che può essere utilizzata da tutti i volontari nelle varie esperienze in tutto il mondo, e la bozza di un nuovo sito web che fungerà come piattaforma di dati e di rete.
            Inoltre, il DIAM visita le comunità dell’Ispettoria e le accompagna dal punto di vista missionario, prendendosi cura soprattutto di quei salesiani che camminano per capire se sono chiamati a diventare missionari ad gentes.

            Ovviamente, tutto questo lavoro non può essere fatto da una singola persona, è importante il lavoro in equipe e la mentalità progettuale. Ogni Ispettoria ha una commissione di animazione missionaria, composta da salesiani, laici e giovani corresponsabili che formula proposte, suggerimenti creativi e coordina le attività. Inoltre, redige il progetto di animazione missionaria ispettoriale, da presentare all’Ispettore, che è la bussola da seguire con obiettivi, tempi scanditi, risorse e passi concreti. In questo modo si evita l’improvvisazione e si agisce seguendo un piano strutturato e strategico sulla base del più ampio progetto educativo pastorale salesiano ispettoriale (PEPSI), promuovendo una visione condivisa dell’animazione missionaria. Nell’Ispettoria vengono organizzati momenti di formazione permanente, di riflessione e di discussione, e si promuove la cultura missionaria a vari livelli. Queste strutture che si sono create nel tempo permettono un’animazione e un coordinamento più efficaci, nell’ottica di dare sempre il meglio per il bene dei giovani.

            Un altro aspetto importante è la condivisione tra DIAM di diversi Paesi e ispettorie. Ogni Regione (ne esistono sette: America Cono Sud, Interamerica, Europa Centro-Nord, Mediterranea, Africa – Madagascar, Asia Est – Oceania e Asia Sud) si incontra regolarmente, in presenza una volta l’anno e on-line ogni tre mesi circa, per mettere in comunione le proprie ricchezze, condividere le sfide e elaborare un cammino regionale. Gli incontri on-line, iniziati da pochi anni, permettono una maggiore conoscenza dei DIAM e dei contesti in cui operano, un aggiornamento continuo e di qualità, e uno scambio proficuo che arricchisce tutti. In ogni Regione c’è un coordinatore, che convoca le riunioni, promuove il cammino regionale e modera i processi comuni, insieme al salesiano referente dell’equipe centrale del Settore per le Missioni, che rappresenta il Consigliere Generale per le Missioni portando idee, spunti e suggerimenti all’interno del gruppo.

            Questo grande impegno, faticoso ma assai utile e pieno di gioia vera, è uno dei tasselli che si unisce alle tante tessere del mosaico salesiano, e fa sì che il sogno di Don Bosco possa continuare ancora oggi.




Un grande collaboratore di don Bosco: don Antonio Sala

Un personaggio di rilievo, ma praticamente sconosciuto, nella storia dei primi anni della Congregazione salesiana. Ha speso tutta la sua vita salesiana nell’ambito economico. Dinamico e intraprendente è stato un grande amministratore in senso moderno. Alla sua “visione” lungimirante e previdente si devono molte opere che sono un orgoglio attuale della Congregazione. Ma soprattutto intenso fu il suo amore per don Bosco.

Infanzia e giovinezza
Nacque il 29 gennaio 1836 nella Brianza lecchese, a Monticello di Olgiate Molgora, diocesi di Milano. Il padre Pietro ed il fratello, gestori di una filanda, avevano sposato due sorelle. Famiglie molto religiose entrambe con un figlio prete (il salesiano Antonio e il cugino Federico, teologo e futuro vescovo Ausiliare a Milano) e un figlio religioso: Ambrogio, fratello di Antonio, salesiano per alcuni anni e suor Maria Serafina, sorella di Federico, religiosa di clausura a Bergamo. Antonio, compiuti gli studi elementari, adolescente forte e robusto, si mise subito al lavoro nell’ambito familiare. Come animatore dell’oratorio parrocchiale dimostrava attitudini alla vita sacerdotale, con la sua capacità di attrarre i ragazzi, organizzarne i divertimenti, portarli alle funzioni di chiesa. Tornato dal servizio militare nell’esercito austro­ungarico, assunse responsabilità nella gestione dell’azienda familiare, dove rivelò eccellenti doti amministrative e grande senso pratico. Morta la mamma, il giovane Antonio maturò il desiderio di diventare sacerdote. Se ne fece interprete il parroco don Nava che all’inizio del 1863 scrisse a don Bosco, magnificando le doti di natura e di grazia del giovane e chiedendogli di accoglierlo a Valdocco. Alla risposta immediatamente positiva di don Bosco, don Nava lo ringraziò e gli assicurò che il ventiseienne Antonio, riconoscentissimo, sarebbe arrivato a Valdocco quanto prima. Il generosissimo parroco si impegnò a pagare in anticipo per cinque anni non solo la “troppo modica” pensione richiesta da don Bosco, ma in caso di morte dava in garanzia mobili, posate d’argento e oggetti di valore in suo possesso.

Studente-lavoratore e sacerdote-educatore
Arrivato a Torino il 5 marzo 1863 il Sala iniziò gli studi ginnasiali. A Valdocco si trovò a suo agio, e come “figlio di Maria” non solo recuperò gli anni scolastici persi, ma, disinvolto nel tratto e pratico di affari commerciali, nei tempi liberi aiutava il malaticcio economo don Alasonatti, dava una mano ai provveditori della casa, andava lui stesso al mercato ed assisteva ai primi lavori della costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice. L’esperienza gli sarebbe servita per le varie chiese e costruzioni salesiane che avrebbe seguito personalmente nei decenni successivi.
Il 22 maggio 1869 don Sala era sacerdote, ormai da quattro anni presente nella casa di Lanzo.

Economo a Valdocco (1869-1880)
Prima ancora della fine dell’anno scolastico, il 3 luglio 1869 don Bosco gli chiese, riservatamente, se era disponibile a trasferirsi per qualche tempo a Valdocco perché vi era assoluto bisogno di un economo della casa in quanto l’economo generale don Savio era sovra occupato. Don Sala accettò, scese a Valdocco. Vi sarebbe rimasto per 26 anni, fino alla morte.
Colà poté approfondire i suoi affrettati studi teologici frequentando per tre anni al Convitto le lezioni di morale: gli sarebbero state utilissime nel ministero pastorale che avrebbe svolto per tanti anni come confessore ordinario nella chiesa di Maria Ausiliatrice, cappellano dell’Istituto del Buon Pastore, confessore straordinario del collegio degli Artigianelli, e successivamente anche assistente spirituale dei laboratori femminili di S. Giuseppe al rifugio Barolo.
Nella seduta del Consiglio Superiore dell’11 dicembre 1869 don Savio venne confermato economo generale, ma parecchi voti li ebbe pure don Sala, che nel gennaio successivo, nel Capitolo dell’Oratorio venne formalmente eletto economo. Avrebbe svolto una formidabile attività economico­amministrativa all’interno della mega opera di Valdocco, con varie centinaia di giovani, suddivisi fra studenti, artigiani, oratoriani, chierici, con tanto di aule, cortili, laboratori, refettori, camerate, sale, chiesa di Maria Ausiliatrice, cappelle; vi si aggiungano lotterie, costruzioni, manutenzione generale, problemi fiscali, notarili… Non gli mancarono momenti difficili, tant’è che il 27 gennaio 1870 don Bosco da Firenze invitò don Rua a fargli coraggio.
Nel gennaio 1873, avviata una piccola lotteria con primo premio una preziosa copia della Madonna di Foligno di Raffaello, don Bosco gli affidò lo smercio dei biglietti, previsto soprattutto in Lombardia. Don Sala percorse particolarmente le province di Milano, Como e Varese, dove poteva offrire cartelline di beneficienza alle più cospicue famiglie, che in qualche modo sentiva a lui vicine e che forse erano già in contatto con don Bosco. Smerciò molti biglietti, ma molti altri gli vennero restituiti, per cui andò a cercare altri benefattori fino a Roma. Salesiano della prima ora, don Sala svolse molti altri umili servizi, compresi la classica assistenza in cortile e nei laboratori e qualche insegnamento ai giovani coadiutori. Nel 1876 a Roma si occupò di alloggiare tanto i salesiani destinati alle nuove fondazioni di Albano, Ariccia e Magliano quanto i missionari venuti a ricevere il mandato dal Papa. Il 17 dicembre 1876 per la prima volta partecipò alle sedute del Consiglio Superiore: lo avrebbe fatto per quasi 20 anni. Nel 1878 fece sopralluoghi a Mornese e Chieri per provvedere ai necessari lavori di adattamento delle case delle FMA. In ottobre fece lo stesso per i salesiani di Randazzo in Sicilia e poi di Este e Mogliano Veneto. Così altre volte per oltre quindici anni. Don Bosco si fidò di lui e lui ne ricambiò la fiducia fino sul letto di morte, anzi ancora dopo, come vedremo.

Il Capitolo Generale del 1880 elesse don Sala Economo Generale, che però per altri tre anni rimase anche Economo di Valdocco. Si mise subito al lavoro.
Nell’aprile 1881 fece riprendere in Roma i lavori della chiesa del S. Cuore e dell’abitazione dei salesiani. Poi si interessò del nuovo fabbricato di Mogliano Veneto e prese in esame il progetto di un’ampia ristrutturazione della casa di La Navarra (Francia). Ai primi di aprile dell’anno successivo era di nuovo a Mestre per trattare con la benefattrice Astori e per fare un sopraluogo all’erigenda colonia agricola di Mogliano; in novembre vi accompagnò i primi quattro salesiani. L’8 luglio 1883 sottoscrisse il capitolato dei lavori di costruzione dell’Ospizio di S. Giovanni Evangelista in Torino ed in autunno fece rimettere in ordine gli ambienti della tipografia di Valdocco, ivi compreso l’ufficio del direttore, lo abbellì con tendine alle finestre, “meritandosi” un benevolo rimprovero di don Bosco per tali “raffinatezze di troppo”. A metà gennaio 1884 per l’Esposizione Nazionale della Scienza e della Tecnica in Torino si decise di installarvi la complessa macchina (acquistata per la cartiera salesiana di Mathi), che, partendo dagli stracci, sfornava libri rilegati. Duro fu il compito di don Sala perché a farla funzionare fossero allievi salesiani adeguatamente preparati. Fu un successo strepitoso di pubblico e don Bosco si permise di rifiutare un premio che non fosse il primo assoluto. Poco dopo don Sala si recò a Roma per accelerare i lavori del S. Cuore onde ad inizio maggio don Bosco potesse porre la prima pietra dell’Ospizio, assieme al conte Colle (che avrebbe portato con sé un’offerta di ben 50 000 lire).
Ovviamente don Sala partecipava alle sedute del Consiglio Generale per dare il suo illuminato parere soprattutto sulle materie di suo interesse: accettazione di opere, fondazione di una casa a Parigi, capitolato di quella di Lucca, sostituzione di un vecchio forno con uno nuovo proveniente da Vienna ad un prezzo di favore, adozione di una “foresteria” per il personale femminile di Valdocco, preventivi di spese di illuminazione delle case di Vienna, Nizza Marittima e Milano. Il 12 settembre presentò l’abbozzo dello stemma ufficiale della Congregazione Salesiana che, discusso e corretto, fu approvato dal Consiglio. Nella stessa seduta venne incaricato di risolvere il contenzioso del terreno di Chieri e della striscia di terreno comunale di Torino utilizzata per la chiesa di Maria Ausiliatrice, ma già compensata con permuta. Seguirono numerosissime sedute in settembre ed ottobre con presenza saltuaria di don Sala. Il 9 dicembre trattò dei problemi economici di varie case, fra cui quella di Sampierdarena, Napoli, Schio.

Il triennio 1885-1887
Per tutto l’anno seguente (1885) si interessò di quella di Faenza per la quale “si meritò” un altro paterno rimprovero di don Bosco per eccessiva spesa nelle fondamenta. In aprile assistette ad una perizia eseguita al Collegio di Lanzo su ordine del Tribunale Civile di Torino. Il 22 giugno presentò e fece approvare il disegno di innalzare di un piano la casa delle FMA a Nizza. Per l’erigenda casa di Trento si assicurò la disponibilità di adeguate risorse economiche locali, fiducioso della collaborazione del Municipio, ma messo sull’attenti da don Bosco che, sempre vigile, gli faceva presente che spesso “i Municipi promettono e non attendono”. Il 20 settembre 1885 don Sala riferì al Consiglio del terreno per il camposanto dei salesiani acquistabile a 14 000 lire. Venne autorizzato a cercare di abbassare il prezzo ed a realizzare il progetto presentato.
Seguirono altri due anni di sedute di Consiglio Generale, di viaggi per aiutare le case in difficoltà per problemi edilizi, amministrativi, economici. Intanto era stato rieletto Economo Generale (settembre 1886; sarebbe stato rieletto ancora sei anni dopo) e si preparava a predisporre tutto per la solenne consacrazione della chiesa del S. Cuore di Roma (14 maggio). Colà pochi mesi dopo, su espresso invito del papa, si nominò un nuovo Procuratore ed un nuovo Parroco in sostituzione di don F. Dalmazzo, e don Sala ebbe mille grattacapi per sbrogliare la matassa intricata di un’insostenibile situazione economico-finanziaria.

Accanto a don Bosco morente (gennaio 1888)
Richiamato d’urgenza da Roma il 30 dicembre, la mattina di capodanno era già al capezzale di don Bosco. Per tutto il mese si alternò con il giovane segretario Viglietti nell’assistere l’ammalato.
Morto don Bosco il 31 gennaio, la sera stessa il Consiglio Generale “promette al Signore che se la Madonna ci fa la grazia di poter seppellire don Bosco sotto la chiesa di Maria Ausiliatrice o almeno nella nostra casa di Valsalice avrebbe di quest’anno o almeno al più presto possibile incominciati i lavori per la decorazione della sua chiesa”. La richiesta formale avanzata da don Sala alle autorità cittadine è respinta. Si ricorre allora a Roma ed il Presidente del Consiglio F. Crispi, memore dell’aiuto datogli da don Bosco quando era esule a Torino, concede la tumulazione fuori città, nel collegio salesiano di Valsalice. Nel frattempo la salma di don Bosco si trova nei pressi della camera di don Sala. Il 4 febbraio sera viene trasportato a Valsalice. Nel piccolissimo corteo che sale la collina don Sala piange: ha perso la persona più cara che aveva ancora sulla terra. Per altri sei anni però avrebbe continuato a svolgere con grande competenza l’arduo settore di lavoro che per primo gli aveva affidato don Bosco. Il 21 maggio 1895 lo avrebbe raggiunto in cielo, stroncato da un attacco cardiaco.




Intervista con Nelson Javier MORENO RUIZ, ispettore in Cile

Don Nelson ha 57 anni ed è nato nella città di Concepción l’11 settembre 1965. Ha conosciuto i Salesiani presso il Collegio Salesiano di Concepción, dove era studente e partecipava ai gruppi giovanili e alle attività pastorali.
I suoi genitori Fabriciano Moreno e María Mercedes Ruiz vivono attualmente nella città di Concepción.
Ha svolto tutta la sua formazione iniziale nella città di Santiago. Ha emesso la professione perpetua l’8 agosto 1992 a Santiago (La Florida). È stato ordinato sacerdote il 6 agosto 1994 a Santiago. I suoi primi anni da sacerdote sono stati trascorsi nella presenza salesiana del Colegio San José de Punta Arenas e nella scuola salesiana di Concepción, dove ha lavorato nella pastorale. Dal 2001 al 2006 è stato direttore della presenza salesiana a Puerto Natales e dal 2006 al 2012 direttore della presenza salesiana a Puerto Montt.
Dal 2012 al 2017 è stato economo provinciale e direttore della casa provinciale. Nel 2018 è stato direttore della presenza salesiana di Gratitud Nacional nel centro della città di Santiago e dal 2019 direttore dell’opera a Puerto Montt, dove si trova attualmente.
Don Moreno Ruiz succede a Don Carlo Lira Airola, che ha concluso il suo mandato di sei anni nel gennaio 2024.

Può farci un’autopresentazione?
Sono un salesiano contento della vita, che nella vocazione religiosa salesiana ha trovato la presenza di Dio nei giovani, che servo e accompagno come pastore educatore.
Sono Padre Nelson Moreno Ruiz, Ispettore dell’Ispettoria del Cile. Sono stato chiamato a questo servizio di animazione dal Vescovo Rettor Maggiore e Cardinale Ángel Fernández Artime, assumendo questa responsabilità dal gennaio di quest’anno.
Ho conosciuto i Salesiani in giovane età, quando sono entrato nella scuola salesiana della città di Concepción, che è la prima opera nel nostro Paese, dove i missionari inviati da Don Bosco arrivarono dall’Argentina al Cile nel 1887.
In questo ambiente scolastico salesiano sono cresciuto intorno alla proposta educativa pastorale offerta dalla scuola; incontri sportivi, attività pastorali missionarie e molte attività di servizio sociale, tutto questo ha avuto un’eco nella mia vita di giovane; era anche importante vedere e incontrare i salesiani nel cortile della scuola, e con queste esperienze si è sviluppata la mia vocazione e nel tempo mi sono sentito chiamato a seguire le orme di Don Bosco come salesiano.
Il mio gruppo familiare è composto dai miei genitori, ormai anziani, mio padre Fabriciano di 93 anni e mia madre di 83, i miei quattro fratelli, i tre ragazzi che hanno studiato alla scuola salesiana, e mia sorella maggiore, che spesso aveva il compito di prendersi cura di noi. Siamo una famiglia relativamente piccola, completata da quattro nipoti, che ora sono giovani professionisti.
Come salesiano, ho fatto la mia prima professione religiosa il 31 gennaio 1987, quindi sono stato religioso per 37 anni e sono stato ordinato sacerdote il 6 agosto 1994. Nella mia vita religiosa, ho avuto l’opportunità di animare alcune comunità come direttore delle opere, oltre a servire come economo provinciale prima di diventare ispettore.
Ritengo che una delle mie caratteristiche sia quella di essere attento a rendere un buon servizio ovunque il Signore lo voglia, quindi ho dedicato del tempo a prepararmi e a studiare per la missione. Dopo aver conseguito il diploma di scuola superiore presso la scuola salesiana di Concepción, sono entrato nella Congregazione dove ho studiato Filosofia presso la Congregazione, poi ho ottenuto la Licenza in Teologia presso la Pontificia Università Cattolica del Cile, la Laurea in Educazione Religiosa e la Licenza in Educazione in Gestione Scolastica presso l’Università Cattolica Raúl Silva Henríquez; in seguito, ho conseguito un Master in Gestione dell’Educazione presso l’Università di Concepción in Cile, un Master in Qualità ed Eccellenza nell’Educazione presso l’Università di Santiago de Compostela in Spagna e un Dottorato in Scienze dell’Educazione presso l’Università di Siviglia, Spagna.
E ora, con umiltà e semplicità, servo la mia Ispettoria, nei fratelli e nell’animazione delle opere.

Cosa sognava da bambino?
Da bambino, insieme ai miei fratelli e ai miei amici, ho avuto un’infanzia molto normale e felice, mi piaceva molto lo sport, giocavo regolarmente a calcio in un club locale e questo mi ha portato a sognare di dedicarmi allo sport in futuro, ciò che mi piaceva di più era condividere e avere amici, e questo era ciò che lo sport mi offriva.
Quando sono entrato a scuola e mi sono unito alle varie attività pastorali, mi sono reso conto che mi piaceva anche insegnare ai bambini e ai giovani con cui avevo contatti in queste attività pastorali. Il tema educativo e pedagogico aveva molto senso per me ed è diventato parte del mio progetto di vita, poiché lo vedevo come un sogno che era possibile realizzare.
Queste preoccupazioni si sono mescolate con la mia inclinazione a studiare qualcosa legato all’area della salute; questa motivazione era molto presente, dal momento che nella mia famiglia alcuni di loro erano impegnati in professioni in questo settore.
Vedo che il filo conduttore di queste inclinazioni che ho avvertito dall’infanzia all’adolescenza, sono sempre state orientate a lavorare con le persone, a essere al loro servizio, a essere utili a loro, a servirle, a insegnare loro, ad accompagnarle.

Qual è la storia della sua vocazione?
La mia storia vocazionale, senza dubbio, inizia nella mia famiglia, provengo da una casa in cui si viveva la fede, attraverso la devozione a San Sebastiano e a Santa Rita da Cascia, e sono stati i miei genitori a inculcarci la fede, permettendoci di ricevere il sacramento del battesimo e della cresima. La mia vocazione è iniziata a casa, in modo molto semplice, con un senso di Dio percepito in modo naturale e senza grandi pratiche religiose, ma con un profondo senso di gratitudine verso Dio nella vita quotidiana.
Nella scuola salesiana di Concepción, ho scoperto un mondo nuovo, perché era una scuola enorme e prestigiosa della città. Quando sono arrivato, mi sono sentito subito accolto e motivato a partecipare alle proposte che aveva per i suoi studenti, soprattutto alle attività pastorali, nelle quali sono stato gradualmente coinvolto, così come allo sport, che era una parte importante della mia vita a quell’età.
Quando studiavo alla scuola salesiana, ero molto interessato a tutte le attività pastorali e nell’ultimo anno di scuola elementare, ho avuto l’opportunità di partecipare come monitore ai “Campi estivi – Villa Feliz”, dove ho scoperto che potevo essere utile e dare qualcosa ai bambini più poveri; da quel momento in poi ho assunto l’impegno di continuare su questo percorso di servizio, che ha dato molto significato alle mie preoccupazioni adolescenziali.

È stato nei gruppi giovanili che la mia vocazione alla vita religiosa si è definita più chiaramente, sono entrato a far parte del ministero sacramentale, come monitore della Cresima, dove ho riaffermato la mia chiamata a servire.
Tutta questa vita pastorale mi ha dato l’opportunità di incontrare e condividere con i Salesiani che, con la loro testimonianza e vicinanza, mi hanno presentato una proposta vocazionale che ha catturato la mia attenzione, in quanto erano belle testimonianze di un servizio vicino ai giovani. Questo è stato già il seme della mia vocazione religiosa, che mi ha dato l’impulso di decidere di entrare nella Congregazione, l’inizio del cammino vocazionale nella chiamata che il Signore mi ha fatto, dove sono un sacerdote salesiano da 30 anni, accompagnato dal motto che ho scelto per la mia ordinazione sacerdotale: “Signore, tu conosci ogni cosa, tu sai che io ti amo” (Gv. 21,17),

Perché salesiano?
Perché salesiano? Perché è stato in una scuola della Congregazione dove ho studiato, dove mi sono formato, dove sono cresciuto, dove si sono formate le mie convinzioni, le mie certezze e il mio progetto di vita.
Con i Salesiani, attraverso le attività pastorali, ho conosciuto più a fondo la missione della Chiesa, tutto questo ambiente ha dato un senso pieno alla mia vita, confermando che il carisma della gioia, dei giovani e dell’educazione, era la strada che il Signore mi presentava, alla quale partecipavo attivamente, perché rispondeva alle mie preoccupazioni e ai miei desideri, e mi rendeva felice; non c’era possibilità di un’altra risposta, perché i Salesiani erano ciò che copriva tutto ciò che cercavo e desideravo e che conoscevo fin dalla mia infanzia.
Durante la mia formazione, ho avuto contatti con altre congregazioni e carismi, che mi hanno aiutato a confermare, ancora di più, che la spiritualità salesiana era il mio stile, ciò che copriva il significato di ciò che volevo fare; la vita di Don Bosco, il lavoro con i giovani, il lavoro pastorale, tutto, il frutto dell’esperienza che ho avuto con loro, dove mi sono formato, dove ho servito e dove la mia vocazione si è formata e consolidata.
Il Signore mi ha fatto il dono di conoscere Don Bosco e la spiritualità salesiana, è stata la proposta che mi ha invitato a seguire e io l’ho accettata, ho consacrato la mia vita qui, e ad oggi sento che la mia vocazione di salesiana mi rende tutto ciò che sono.

Come ha reagito la sua famiglia?
Una volta presa la decisione di fare il passo di entrare nei Salesiani, l’ho detto alla mia famiglia, soprattutto ai miei genitori. Erano sorpresi, e fu mia madre che per prima mi capì, mi sostenne e mi accompagnò, invitandomi a fare questo passo.
Il padre, preoccupato, mi chiese se ero davvero sicuro, se era quello che volevo veramente, cosa mi rendeva felice e se era la mia strada; a tutte queste domande risposi di sì. Lui, confermando che se era quello che volevo ed era disposto a vedere se era davvero il mio futuro, e chiarendo che potevo sempre contare su di loro e di non dimenticare che avrei sempre avuto la mia casa, nel caso in cui non fosse stata la mia strada, mi ha detto che potevo contare su tutto il suo sostegno.
Sentire così chiaramente il sostegno dei miei genitori è stato molto bello, mi ha dato molta gioia e serenità, dato che stavo iniziando un percorso senza essere sicuro che fosse davvero il percorso per una persona giovane.
Anche i miei fratelli sono rimasti sorpresi, perché avevo una vita molto naturale, legata allo sport, con gli amici, ma quando sono stati sicuri che volevo davvero seguire la chiamata del Signore, mi hanno sostenuto.
Mi sono sempre sentito molto accompagnato e sostenuto dai miei genitori e dai miei fratelli, il che mi ha dato molta serenità per iniziare il processo di formazione; ad oggi, conto su di loro, so che mi accompagnano con amore fatto preghiera.

Quali sono i bisogni locali e giovanili più urgenti?
In Cile, oggi, la popolazione da 0 a 17 anni è di 4.259.115 abitanti, pari al 24% della popolazione totale del Paese. E noi salesiani ci dedichiamo in modo particolare all’educazione formale di questo segmento della popolazione. Abbiamo 22 scuole, dove studiano bambini e giovani dai 4 ai 19 anni, con un totale di 31.000 studenti che vengono educati nelle nostre scuole. Oggi è la più grande rete scolastica del Paese che offre questo servizio ai giovani.
A ciò si aggiungono un’Università, che serve circa 7.000 studenti, e la Fondazione Don Bosco, dedicata all’accoglienza e all’accompagnamento dei bambini di strada, il segmento più vulnerabile tra loro, che serve più di 7.000 bambini e giovani.
La necessità più urgente che vivono e soffrono i nostri giovani è che sono molto esposti al consumo di alcol e droghe, oltre che all’uso indiscriminato della tecnologia. Questo, insieme alla solitudine che sperimentano a causa della disgregazione delle loro famiglie, li porta spesso a soffrire di situazioni di ‘salute mentale’, depressione, ansia, angoscia e crisi di panico o simili.
Questa realtà ci spinge a cercare di accompagnarli nella loro ricerca di significato, di benessere emotivo e di stabilità emotiva, tutti bisogni fondamentali degli esseri umani, soprattutto di quelli che si stanno sviluppando e crescendo. Cerchiamo anche di fornire loro i valori cristiani, affinché passo dopo passo si impegnino a vivere la loro fede nelle comunità giovanili e nella Chiesa cilena, oltre a fornire loro l’educazione necessaria per integrarsi nella società.
I giovani sono la parte preferita di Don Bosco e lo dobbiamo a loro, per cui ci impegniamo a fornire loro istruzione e strumenti affinché possano diventare “buoni cristiani e onesti cittadini”.

Quali sono le opere più significative nella sua area?
L’Ispettoria cilena ha una gamma variegata di opere di cui si occupa: parrocchie, centri di pastorale giovanile, centri di accoglienza, scuole e università. Ma la proposta pastorale si è concentrata fondamentalmente sull’educazione formale nelle scuole, che forniscono un’istruzione dall’età prescolare – 4 anni – all’istruzione secondaria – 19 anni.
L’istruzione cilena fornisce una formazione sia per preparare i giovani ad accedere all’istruzione superiore, alle università, sia per fornire un’istruzione tecnico-professionale, in cui gli studenti si diplomano con un diploma tecnico in una carriera di loro scelta.
Possiamo dire che l’istruzione tecnica professionale è uno dei lavori più significativi che abbiamo, perché costituisce una vera e propria promozione dei giovani, permettendo loro di entrare nel mondo del lavoro con un diploma tecnico che, anche se è vero che non è tutto, facilita la possibilità di collaborare con le loro famiglie, e spesso finanzia il loro proseguimento dell’istruzione superiore.
Vorrei anche sottolineare il lavoro che svolgiamo nella “Fundación don Bosco”, che si occupa di bambini in situazioni di strada, che non hanno o non hanno una famiglia, svolgendo con loro un lavoro di contenimento, riabilitazione, promozione e inserimento sociale, realizzando – come faceva Don Bosco – bambini e giovani evangelizzati con valori.

Comunicate attraverso riviste, blog, Facebook o altri media?
I social media oggi sono molto importanti e di grande aiuto per raggiungere molti giovani e adulti. Comunico regolarmente con la Famiglia Salesiana attraverso la rivista Bollettino Salesiano, il blog “Agorà”, i siti ufficiali dell’Ispettoria, il sito web e Instagram.

Quali sono le aree più importanti?
Della missione che devo svolgere oggi nell’Ispettoria, credo che la cosa più importante sia accompagnare e animare la vita dei miei confratelli, soprattutto quelli con cui lavoro e condivido la responsabilità dell’Ispettoria come consiglieri, e i confratelli che hanno la responsabilità di animare e accompagnare i confratelli come direttori di comunità e opere. In breve, la priorità è accompagnare i miei confratelli salesiani.
Allo stesso modo, mi sembra rilevante, il compito di animare la vita della Famiglia Salesiana, un compito importante, animando nella fedeltà al carisma, tutti coloro che ne fanno parte; Salesiani consacrati, Figlie di Maria Ausiliatrice, Salesiani Cooperatori, Volontarire di Don Bosco, Associazione di Maria Ausiliatrice e altri.
Non possiamo non menzionare come compito rilevante, quello di animare la vita dei giovani, attraverso la pastorale giovanile, le associazioni e i diversi gruppi che possono esistere sotto il carisma salesiano, dando un posto importante tra questi, alla pastorale vocazionale, e a quei giovani che sentono il desiderio di rispondere alla chiamata del Signore nella nostra Congregazione.

Come vede il futuro?
Di fronte a una società assetata di significato in ciò che è e in ciò che fa, mi sembra che noi Salesiani siamo chiamati a rispondere a queste ricerche e a dare un senso a ciò che facciamo, a dare un senso alla vita, soprattutto per i giovani.
Abbiamo un compito fondamentale, che è quello di educare i giovani, e coloro che li educano e lavorano con loro devono certamente essere portatori di sogni e di speranza.
Il mondo è in costante costruzione e spetta a noi Salesiani contribuire, con la nostra vita, le nostre azioni e la nostra missione, alla sua costruzione, attraverso l’educazione dei giovani di oggi, affinché sapendo di essere amati, preziosi, capaci e tirando fuori il meglio di loro, possano dare un senso alla loro vita ed essere costruttori di speranza nelle loro famiglie e nella società.

Ha un messaggio per la Famiglia Salesiana?
Il messaggio che posso condividere con tutta la Famiglia Salesiana, prima di tutto, è che siamo custodi e portatori di un dono, un dono che Dio fa alla Chiesa, che è il carisma salesiano, un dono e un compito per ciascuno di noi.
Quest’anno, il Cardinale e Rettor Maggiore della Congregazione, Padre Ángel Fernández Artime, ci invita a sognare, a imitazione di nostro padre Don Bosco, un padre sognatore. Don Bosco sognava cose che sembravano impossibili, ma la sua grande fiducia in Maria Ausiliatrice e il suo lavoro perseverante e tenace lo portarono a realizzare i suoi sogni. Anche noi, degni figli di questo padre, siamo chiamati a sognare e ad aggiungere i giovani a questi sogni, che non sono altro che desiderare un mondo migliore per loro, dove possano inserirsi, costruendo una società più amabile e più sensibile ai valori umani e cristiani. Insieme a loro, vogliamo contribuire e diventare buoni cristiani e onesti cittadini, sentendoci profondamente amati da Dio.