Un sorriso all’aurora

Una toccante testimonianza di Raoul Follereau. Si trovava in un lebbrosario in un’isola del Pacifico. Un incubo di orrore. Solo cadaveri ambulanti, disperazione, rabbia, piaghe e mutilazioni orrende.
Eppure, in mezzo a tanta devastazione, un anziano malato conservava occhi sorprendentemente luminosi e sorridenti. Soffriva nel corpo, come i suoi infelici compagni, ma dimostrava attaccamento alla vita, non disperazione, e dolcezza nel trattare gli altri.
Incuriosito da quel vero miracolo di vita, nell’inferno del lebbrosario, Follereau volle cercarne la spiegazione: che cosa mai poteva dare tanta forza di vivere a quel vecchio così colpito dal male?
Lo pedinò, discretamente. Scoprì che, immancabilmente, allo spuntar dell’alba, il vecchietto si trascinava al recinto che circondava il lebbrosario, e raggiungeva un posto ben preciso.
Si metteva a sedere e aspettava.
Non era il sorgere del sole che aspettava. Né lo spettacolo dell’aurora del Pacifico.
Aspettava fino a quando, dall’altra parte del recinto, spuntava una donna, anziana anche lei, con il volto coperto di rughe finissime, gli occhi pieni di dolcezza.
La donna non parlava. Lanciava solo un messaggio silenzioso e discreto: un sorriso. Ma l’uomo si illuminava a quel sorriso e rispondeva con un altro sorriso.
Il muto colloquio durava pochi istanti, poi il vecchio si rialzava e trotterellava verso le baracche. Tutte le mattine. Una specie di comunione quotidiana. Il lebbroso, alimentato e fortificato da quel sorriso, poteva sopportare una nuova giornata e resistere fino al nuovo appuntamento con il sorriso di quel volto femminile.
Quando Follereau glielo chiese, il lebbroso gli disse: «è mia moglie!».
E dopo un attimo di silenzio: «Prima che venissi qui, mi ha curato in segreto, con tutto ciò che riusciva a trovare. Uno stregone le aveva dato una pomata. Lei tutti i giorni me ne spalmava la faccia, salvo una piccola parte, sufficiente per apporvi le sue labbra per un bacio… Ma tutto è stato inutile. Allora mi hanno preso, mi hanno portato qui. Ma lei mi ha seguito. E quando ogni giorno la rivedo, solo da lei so che sono ancora vivo, solo per lei mi piace ancora vivere».

Certamente qualcuno ti ha sorriso stamattina, anche se tu non te ne sei accorto. Certamente qualcuno aspetta il tuo sorriso oggi. Se entri in una chiesa e spalanchi la tua anima al silenzio, ti accorgerai che Dio, per primo, ti accoglie con un sorriso.




La rosa

Il poeta tedesco Rilke abitò per un certo periodo a Parigi. Per andare all’Università percorreva ogni giorno, in compagnia di una sua amica francese, una strada molto frequentata.
Un angolo di questa via era permanentemente occupato da una mendicante che chiedeva l’elemosina ai passanti. La donna sedeva sempre allo stesso posto, immobile come una statua, con la mano tesa e gli occhi fissi al suolo.
Rilke non le dava mai nulla, mentre la sua compagna le donava spesso qualche moneta.
Un giorno la giovane francese, meravigliata domandò al poeta:
– Ma perché non dai mai nulla a quella poveretta?
– Dovremmo regalare qualcosa al suo cuore, non alle sue mani, rispose il poeta.
Il giorno dopo, Rilke arrivò con una splendida rosa appena sbocciata, la depose nella mano della mendicante e fece l’atto di andarsene.
Allora accadde qualcosa d’inatteso: la mendicante alzò gli occhi, guardò il poeta, si sollevò a stento da terra, prese la mano dell’uomo e la baciò. Poi se ne andò stringendo la rosa al seno.
Per una intera settimana nessuno la vide più. Ma otto giorni dopo, la mendicante era di nuovo seduta nel solito angolo della via. Silenziosa e immobile come sempre.
– Di che cosa avrà vissuto in tutti questi giorni in cui non ha ricevuto nulla? chiese la giovane francese.
– Della rosa, rispose il poeta.

«Esiste un solo problema, uno solo sulla terra. Come ridare all’umanità un significato spirituale, suscitare un’inquietudine dello spirito. È necessario che l’umanità venga irrorata dall’alto e scenda su di lei qualcosa che assomigli a un canto gregoriano. Vedete, non si può continuare a vivere occupandosi soltanto di frigoriferi, politica, bilanci e parole crociate. Non è possibile andare avanti così», ha scritto Antoine de Saint-Exupéry.




La lettera da Roma (1884)

Nell’1884, trovandosi a Roma, pochi giorni prima di tornare a Torino, don Bosco ebbe due sogni che gli trascrisse in una lettera che invio ai suoi amati di Valdocco. È conosciuta come “La lettera da Roma” ed è uno dei testi più studiati e commentati. Proponiamo alla lettura il testo integrale, originale.

Miei carissimi figliuoli in G. C.,

            Vicino o lontano io penso sempre a voi. Un solo è il mio desiderio, quello di vedervi felici nel tempo e nell’eternità. Questo pensiero, questo desiderio mi risolsero a scrivervi questa lettera. Sento, o cari miei, il peso della mia lontananza da voi e il non vedervi e il non sentirvi mi cagiona pena, quale voi non potete immaginare. Perciò io avrei desiderato scrivere queste righe una settimana fa, ma le continue occupazioni me lo impedirono. Tuttavia benché pochi giorni manchino al mio ritorno, voglio anticipare la mia venuta fra voi almeno per lettera, non potendolo di persona. Sono le parole di chi vi ama teneramente in Gesù Cristo ed ha dovere di parlarvi colla libertà di un padre. E voi me lo permetterete, non è vero? E mi presterete attenzione e metterete in pratica quello che sono per dirvi.
            Ho affermato che voi siete l’unico ed il continuo pensiero della mia mente. Or dunque in una delle sere scorse io mi era ritirato in camera, e mentre mi disponeva per andare a riposo, aveva incominciato a recitare le preghiere, che mi insegnò la mia buona mamma.
            In quel momento non so bene se preso dal sonno o tratto fuor di me da una distrazione, mi parve che mi si presentassero innanzi due degli antichi giovani dell’Oratorio.
            Uno di questi due mi si avvicinò e salutatomi affettuosamente, mi disse:
            – O Don Bosco! Mi conosce?
            – Sì che ti conosco, risposi.
            – E si ricorda ancora di me? soggiunse quell’uomo.
            – Di te e di tutti gli altri. Tu sei Valfrè ed eri nell’Oratorio prima del 1870.
            – Dica! continuò quell’uomo, vuol vedere i giovani, che erano nell’Oratorio ai miei tempi?
            – Si, fammeli vedere, io risposi, ciò mi cagionerà molto piacere.
            Allora Valfrè mi mostrò i giovani tutti colle stesse sembianze e colla statura e nell’età di quel tempo. Mi pareva di essere nell’antico Oratorio nell’ora della ricreazione. Era una scena tutta vita, tutta moto, tutta allegria. Chi correva, chi saltava, chi faceva saltare. Qui si giuocava alla rana, là a bararotta ed al pallone. In un luogo era radunato un crocchio di giovani, che pendeva dal labbro di un prete, il quale narrava una storiella. In un altro luogo un chierico che in mezzo ad altri giovanetti giuocava all’asino vola ed ai mestieri. Si cantava, si rideva da tutte parti e dovunque chierici e preti, e intorno ad essi i giovani che schiamazzavano allegramente. Si vedeva che fra i giovani e i superiori regnava la più grande cordialità e confidenza. Io era incantato a questo spettacolo, e Valfrè mi disse:
            – Veda, la famigliarità porta affetto e l’affetto porta confidenza. Ciò è che apre i cuori e i giovani palesano tutto senza timore ai maestri, agli assistenti ed ai Superiori. Diventano schietti in confessione e fuori di confessione e si prestano docili a tutto ciò, che vuol comandare colui, dal quale sono certi di essere amati.
            In quell’istante si avvicinò a me l’altro mio antico allievo, che aveva la barba tutta bianca e mi disse:
            – Don Bosco, vuole adesso conoscere e vedere i giovani, che attualmente sono nell’Oratorio?
            Costui era Buzzetti Giuseppe.
            – Sì, risposi io; perché è già un mese che più non li vedo!
            E me lì additò: vidi l’Oratorio e tutti voi che facevate ricreazione, Ma non udiva più grida di gioia e cantici, non più vedeva quel moto, quella vita, come nella prima scena.
            Negli atti e nel viso di molti giovani si leggeva una noia, una spossatezza, una musoneria, una diffidenza, che faceva pena al mio cuore. Vidi, è vero, molti che correvano, giuocavano, si agitavano con beata spensieratezza, ma altri non pochi io ne vedeva, star soli, appoggiati ai pilastri in preda a pensieri sconfortanti; altri su per le scale e nei corridoi o sopra i poggioli dalla parte del giardino per sottrarsi alla ricreazione comune; altri passeggiare lentamente in gruppi parlando sottovoce fra di loro, dando attorno occhiate sospettose e maligne: talora sorridere ma con un sorriso accompagnato da occhiate da far non solamente sospettare, ma credere che S. Luigi avrebbe arrossito se si fosse trovato in compagnia di costoro; eziandio fra coloro che giuocavano ve ne erano alcuni così svogliati, che facevano veder chiaramente, come non trovassero gusto nei divertimenti.
            – Ha visto i suoi giovani? mi disse quell’antico allievo.
            – Li vedo, risposi sospirando.
            – Quanto sono differenti da quelli che eravamo noi una volta! esclamò quell’antico allievo.
            – Pur troppo! Quanta svogliatezza in questa ricreazione!
            – E di qui proviene la freddezza in tanti nell’accostarsi ai santi Sacramenti, la trascuranza delle pratiche di pietà in chiesa e altrove, lo star mal volentieri in un luogo ove la Divina Provvidenza li ricolma di ogni bene pel corpo, per l’anima, per l’intelletto. Di qui il non corrispondere che molti fanno alla loro vocazione; di qui le ingratitudini verso i Superiori; di qui i segretumi e le mormorazioni, con tutte le altre deplorevoli conseguenze.
            – Capisco, intendo, risposi io. Ma come si possono rianimare questi miei cari giovani acciocché riprendano l’antica vivacità, allegrezza, espansione?
            – Colla carità!
            – Colla carità? Ma i miei giovani non sono amati abbastanza? Tu lo sai se io li amo. Tu sai quanto per essi ho sofferto e tollerato pel corso di ben quaranta anni, e quanto tollero e soffro ancora adesso. Quanti stenti quante umiliazioni, quante opposizioni, quante persecuzioni, per dare ad essi pane, casa, maestri e specialmente per procurare la salute delle loro anime. Ho fatto quanto ho saputo e potuto per coloro che formano l’affetto di tutta la mia vita.
            – Non parlo di lei!
            – Di chi dunque? Di coloro che fanno le mie veci? Dei direttori, prefetti, maestri, assistenti? Non vedi come sono martiri dello studio e del lavoro? Come consumano i loro anni giovanili per coloro, che ad essi affidò la Divina Provvidenza?
            – Vedo, conosco; ma ciò non basta: ci manca il meglio.
            – Che cosa manca adunque?
            – Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati.
            – Ma non hanno gli occhi in fronte? Non hanno il lume dell’intelligenza? Non vedono che quanto si fa per essi è tutto per loro amore?
            – No; lo ripeto, ciò non basta.
            – Che cosa ci vuole adunque?
            – Che essendo amati in quelle cose che loro piacciono, col partecipare alle loro inclinazioni infantili, imparino a veder l’amore in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco; quali sono, la disciplina, lo studio, la mortificazione di sé stessi; e queste cose imparino a far con slancio ed amore.
            – Spiegati meglio!
            – Osservi i giovani in ricreazione.
            Osservai e quindi replicai:
            – E che cosa c’è di speciale da vedere?
            – Sono tanti anni che va educando giovani, e non capisce? Guardi meglio! Dove sono i nostri Salesiani?
            Osservai e vidi che ben pochi preti e chierici si mescolavano fra i giovani e ancor più pochi prendevano parte ai loro divertimenti. I Superiori non erano più l’anima della ricreazione. La maggior parte di essi passeggiavano fra di loro parlando, senza badare che cosa facessero gli allievi: altri guardavano la ricreazione non dandosi nessun pensiero dei giovani: altri sorvegliavano così alla lontana senza avvertire chi commettesse qualche mancanza; qualcuno poi avvertiva ma in atto minaccioso e ciò raramente. Vi era qualche Salesiano che avrebbe desiderato intromettersi in qualche gruppo dì giovani, ma vidi che questi giovani cercavano studiosamente di allontanarsi dai maestri e dai Superiori.
            Allora quel mio amico ripigliò:
            – Negli antichi tempi dell’Oratorio lei non stava sempre in mezzo ai giovani e specialmente in tempo di ricreazione? Si ricorda quei belli anni? Era un tripudio di Paradiso, un’epoca che ricordiamo sempre con amore, perché l’affetto era quello che ci serviva di regola; e noi per lei non avevamo segreti.
            – Certamente! E allora tutto era gioia per me e nei giovani uno slancio per avvicinarsi a me, per volermi parlare, ed una viva ansia di udire i miei consigli e metterli in pratica. Ora però vedi come le udienze continue e gli affari moltiplicati e la mia sanità me lo impediscono.
            – Va bene: ma se lei non può perché i suoi Salesiani non si fanno suoi imitatori? Perché non insiste, non esige che trattino i giovani come li trattava lei?
            – Io parlo, mi spolmono, ma pur troppo molti non si sentono più di far le fatiche di una volta.
            – E quindi trascurando il meno, perdono il più e questo PIÙ sono le loro fatiche. Amino ciò che piace ai giovani e i giovani ameranno ciò che piace ai Superiori. E a questo modo sarà facile la loro fatica. La causa del presente cambiamento nell’Oratorio è che un numero di giovani non ha confidenza nei Superiori. Anticamente i cuori erano tutti aperti ai Superiori, che i giovani amavano ed obbedivano prontamente. Ma ora i Superiori sono considerati come Superiori e non più come padri, fratelli ed amici; quindi sono temuti e poco amati. Perciò se si vuol fare un cuor solo ed un’anima sola, per amore di Gesù bisogna che si rompa quella fatale barriera della diffidenza e sottentri a questa la confidenza cordiale. Quindi l’obbedienza guidi l’allievo come la madre guida il suo fanciullino; allora regnerà nell’Oratorio la pace e l’allegrezza antica.
            – Come dunque fare per rompere questa barriera?
            – Famigliarità coi giovani specialmente in ricreazione. Senza famigliarità non si dimostra l’affetto e senza questa dimostrazione non vi può essere confidenza. Chi vuole essere amato bisogna che faccia vedere che ama. Gesù Cristo si fece piccolo coi piccoli e portò le nostre infermità. Ecco il maestro della famigliarità! Il maestro visto solo in cattedra è maestro e non più, ma se va in ricreazione coi giovani diventa come fratello.
            Se uno è visto solo predicare dal pulpito si dirà che fa né più né meno del proprio dovere, ma se dice una parola in ricreazione è la parola di uno che ama. Quante conversioni non cagionarono alcune sue parole fatte risuonare all’improvviso all’orecchio di un giovane mentre si divertiva! Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani. Questa confidenza mette una corrente elettrica fra i giovani ed i Superiori. I cuori si aprono e fanno conoscere i loro bisogni e palesano i loro difetti. Questo amore fa sopportare ai Superiori le fatiche, le noie; le ingratitudini, i disturbi, le mancanze, le negligenze dei giovanetti. Gesù Cristo non spezzo la canna già fessa, né spense il lucignolo che fumigava. Ecco il vostro modello. Allora non si vedrà più chi lavorerà per fine di vanagloria; chi punirà solamente per vendicare l’amor proprio offeso; chi si ritirerà dal campo della sorveglianza per gelosia di una temuta preponderanza altrui; chi mormorerà degli altri volendo essere amato e stimato dai giovani, esclusi tutti gli altri superiori, guadagnando null’altro che disprezzo ed ipocrite moine; chi si lasci rubare il cuore da una creatura e per fare la corte a questa trascurare tutti gli altri giovanetti; chi per amore dei propri comodi tenga in non cale il dovere strettissimo della sorveglianza; chi per un vano rispetto umano si astenga dall’ammonire chi deve essere ammonito. Se ci sarà questo vero amore non si cercherà altro che la gloria di Dio e la salute delle anime. Quando illanguidisce questo amore, allora è che le cose non vanno più bene. Perché si vuoi sostituire alla carità la freddezza di un regolamento? Perché i Superiori si allontanano dall’osservanza di quelle regole di educazione che Don Bosco ha loro dettate? Perché al sistema di prevenire colla vigilanza e amorosamente i disordini, si va sostituendo a poco a poco il sistema meno pesante e più spiccio per chi comanda, di bandir leggi che se si sostengono coi castighi accendono odii e fruttano dispiaceri; se si trascura di farle osservare, fruttano disprezzo per i Superiori e sono causa di disordini gravissimi?
            E ciò accade necessariamente se manca la famigliarità. Se adunque si vuole che l’Oratorio ritorni all’antica felicità, si rimetta in vigore l’antico sistema: il Superiore sia tutto a tutti, pronto ad ascoltar sempre ogni dubbio o lamentanza dei giovani, tutto occhio per sorvegliare paternamente la loro condotta, tutto cuore per cercare il bene spirituale e temporale di coloro che la Provvidenza gli ha affidati. Allora i cuori non saranno più chiusi e non regneranno più certi segretumi che uccidono. Solo in caso di immoralità i Superiori siano inesorabili. É meglio correre pericolo di scacciare dalla casa un innocente, che ritenere uno scandaloso. Gli assistenti si facciano uno strettissimo dovere di coscienza di riferire ai Superiori tutte quelle cose le quali conoscano in qualunque modo esser offesa di Dio.
            Allora io interrogai:
            – E quale è il mezzo precipuo perché trionfi simile famigliarità e simile amore e confidenza?
            – L’osservanza esatta delle regole della casa.
            – E null’altro?
            – Il piatto migliore in un pranzo è quello della buona cera.
            Mentre così il mio antico allievo finiva di parlare ed io continuava ad osservare con vivo dispiacere quella ricreazione, a poco a poco mi sentii oppresso da grande stanchezza che andava ognora crescendo. Questa oppressione giunse al punto che non potendo più resistere mi scossi e rinvenni.
            Mi trovai in piedi vicino al letto. Le mie gambe erano così gonfie e mi facevano così male che non poteva più star ritto. L’ora era tardissima, quindi me ne andai a letto risoluto di scrivere ai miei cari figliuoli queste righe.
            Io desidero di non far questi sogni perché mi stancano troppo. Nel giorno seguente mi sentiva rotto nella persona e non vedeva l’ora di potermi riposare la sera seguente. Ma ecco appena fui in letto ricominciare il sogno. Avevo dinanzi il cortile, i giovani che ora sono nell’Oratorio, e lo stesso antico allievo dell’Oratorio. Io presi ad interrogarlo:
            – Ciò che mi dicesti io lo farò sapere ai miei Salesiani; ma ai giovani dell’Oratorio che cosa debbo dire?
            Mi rispose:
            – Che essi riconoscano quanto i Superiori, i maestri, gli assistenti fatichino e studino per loro amore, poiché se non fosse pel loro bene non si assoggetterebbero a tanti sacrifici; che si ricordino essere l’umiltà la fonte di ogni tranquillità; che sappiano sopportare i difetti degli altri, poiché al mondo non si trova la perfezione, ma questa è solo in Paradiso; che cessino dalle mormorazioni, poiché queste raffreddano i cuori; e soprattutto che procurino di vivere nella santa grazia di Dio. Chi non ha pace con Dio, non ha pace con sé, non ha pace cogli altri.
            – E tu mi dici adunque che vi sono fra i miei giovani di quelli che non hanno la pace con Dio?
            – Questa è la prima causa del mal umore fra le altre che lei sa, alle quali deve porre rimedio, e che non fa d’uopo che ora le dica. Infatti non diffida se non chi ha segreti da custodire, se non chi teme che questi segreti vengano a conoscersi, perché sa che glie ne tornerebbe vergogna e disgrazia. Nello stesso tempo se il cuore non ha la pace con Dio, rimane angosciato, irrequieto, insofferente d’obbedienza, si irrita per nulla, gli sembra che ogni cosa vada a male, e perché esso non ha amore, giudica che i Superiori non lo amino.
            – Eppure, o caro mio, non vedi quanta frequenza di Confessioni e di Comunioni vi è nell’Oratorio?
            – É vero che grande è la frequenza delle Confessioni, ma ciò che manca radicalmente in tanti giovanetti che si confessano è la stabilità nei proponimenti. Si confessano, ma sempre le stesse mancanze, le stesse occasioni prossime, le stesse abitudini cattive, le stesse disobbedienze, le stesse trascuranze nei doveri. Così si va avanti per mesi e mesi, e anche per anni e taluni perfino così continuano alla 5a Ginnasiale.
            Sono confessioni che valgono poco o nulla; quindi non recano pace e se un giovanetto fosse chiamato in quello stato al tribunale di Dio sarebbe un affare ben serio.
            – E di costoro ve n’ha molti all’Oratorio?
            – Pochi in confronto del gran numero di giovani che sono nella casa. Osservi; – e me li additava.
            Io guardai e ad uno ad uno vidi quei giovani. Ma in questi pochi io vidi cose che hanno profondamente amareggiato il mio cuore. Non voglio metterle sulla carta, ma quando sarò di ritorno voglio esporle a ciascuno cui si riferiscono. Qui vi dirò soltanto che è tempo di pregare e di prendere ferme risoluzioni; proporre non colle parole, ma coi fatti, e far vedere che i Comollo, i Savio Domenico, i Besucco e i Saccardi vivono ancora tra noi.
            In ultimo domandai a quel mio amico:
            – Hai nulla altro da dirmi?
            – Predichi a tutti, grandi e piccoli che si ricordino sempre che sono figli di Maria SS. Ausiliatrice. Che essa li ha qui radunati per condurli via dai pericoli del mondo, perché si amassero come fratelli e perché dessero gloria a Dio e a lei colla loro buona condotta; che è la Madonna quella che loro provvede pane e mezzi dì studiare con infinite grazie e portenti. Si ricordino che sono alla vigilia della festa della loro SS. Madre e che coll’aiuto suo deve cadere quella barriera di diffidenza che il demonio ha saputo innalzare tra giovani e Superiori e della quale sa giovarsi per la rovina di certe anime.
            – E ci riusciremo a togliere questa barriera?
            – Sì certamente, purché grandi e piccoli siano pronti a soffrire qualche piccola mortificazione per amore di Maria e mettano in pratica ciò che io ho detto.
            Intanto io continuava a guardare i miei giovinetti e allo spettacolo di coloro che vedeva avviati verso l’eterna perdizione sentii tale stretta al cuore che mi svegliai. Molte cose importantissime che io vidi desidererei ancora narrarvi, ma il tempo e le convenienze non me lo permettono.
            Concludo: Sapete che cosa desidera da voi questo povero vecchio che per i suoi cari giovani ha consumata tutta la vita? Niente altro fuorché, fatte le debite proporzioni, ritornino i giorni felici dell’antico Oratorio. I giorni dell’affetto e della confidenza cristiana tra i giovani ed i Superiori; i giorni dello spinto di accondiscendenza e sopportazione per amore di Gesù Cristo, degli uni verso degli altri; i giorni dei cuori aperti con tutta semplicità e candore, i giorni della carità e della vera allegrezza per tutti. Ho bisogno che mi consoliate dandomi la speranza e la promessa che voi farete tutto ciò che desidero per il bene delle anime vostre. Voi non conoscete abbastanza quale fortuna sia la vostra di essere stati ricoverati nell’Oratorio. Innanzi a Dio vi protesto: Basta che un giovane entri in una casa Salesiana, perché la Vergine SS. lo prenda subito sotto la sua protezione speciale. Mettiamoci adunque tutti d’accordo. La carità di quelli che comandano, la carità di quelli che devono obbedire faccia regnare fra di noi lo spirito di S. Francesco di Sales. O miei cari figliuoli, si avvicina il tempo nel quale dovrò distaccarmi da voi e partire per la mia eternità. [Nota del Segretario. A questo punto Don Bosco sospese di dettare; gli occhi suoi si empirono di lagrime, non per rincrescimento, ma per ineffabile tenerezza che trapelava dal suo sguardo e dal suono della sua voce: dopo qualche istante continuò]. Quindi io bramo di lasciar voi, o preti, o chierici, o giovani carissimi, per quella via del Signore nella quale esso stesso vi desidera.
            A questo fine il Santo Padre, che io ho visto venerdì 9 di maggio, vi manda di tutto cuore la sua benedizione. Il giorno della festa di Maria Ausiliatrice mi troverò con voi innanzi all’effigie della nostra amorosissima Madre. Voglio che questa gran festa si celebri con ogni solennità e Don Lazzero e Don Marchisio pensino a far sì che stiano allegri anche in refettorio. La festa di Maria Ausiliatrice deve essere il preludio della festa eterna che dobbiamo celebrare tutti insieme uniti un giorno in Paradiso.

Roma, 10 maggio 1884
Vostro aff.mo in G. C.
Sac. GIO. BOSCO.

(MB XVII, 107-114)




San Francesco di Sales giovane studente a Parigi

            Nel 1578 François de Sales aveva 11 anni. Suo padre, desideroso di fare del suo primogenito una figura di spicco in Savoia, lo mandò a Parigi per continuare i suoi studi nella capitale intellettuale dell’epoca. Il collegio che voleva fargli frequentare era il collegio dei nobili, ma François preferì il quello dei Gesuiti. Con l’aiuto della madre, vinse la causa e divenne allievo dei gesuiti nel loro collegio di Clermont.
            Ricordando un giorno gli studi compiuti a Parigi, Francesco di Sales non sarà parco di elogi: la Savoia gli aveva garantito «gli inizi nelle belle lettere», scriverà, ma è all’università di Parigi, «molto fiorente e assai frequentata», dove si era «applicato sul serio dapprima alle belle lettere, poi a tutte le aree della filosofia, con una facilità e un profitto, favoriti dal fatto che perfino i tetti, per così dire, e le mura sembrano filosofare».
            In una pagina del Teotimo, Francesco di Sales racconterà un ricordo della Parigi di quell’epoca, nel quale ricostruisce il clima in cui era immersa la gioventù studentesca della capitale, strattonata dai piaceri proibiti, dall’eresia di moda e dalla devozione monastica:

            Quando ero giovane a Parigi, due studenti, di cui uno era eretico, mentre passavano la notte nel sobborgo di Saint-Jacques, gozzovigliando in modo dissoluto, udirono suonare la campana del mattutino nella chiesa dei certosini; avendo l’eretico chiesto al compagno cattolico perché suonasse quella campana, questi gli illustrò con quanta devozione in quel monastero si celebravano i santi uffici; o Dio, disse, quant’è diverso dal nostro l’esercizio di quei religiosi! Essi compiono quello degli angeli e noi quello degli animali bruti. Il giorno seguente, volendo verificare di persona quello che aveva appreso dal racconto del compagno, vide quei padri nei loro stalli, allineati come statue di marmo nelle loro nicchie, immobili, senza compiere alcun gesto eccetto quello di salmodiare, cosa che facevano con un’attenzione ed una devozione veramente angelica, secondo il costume di quel santo ordine. Allora quel giovane, rapito d’ammirazione, fu preso da un’estrema consolazione nel vedere Dio adorato così bene dai cattolici e decise, cosa che poi fece, di entrare in seno alla Chiesa, vera ed unica sposa di colui che l’aveva visitato con la sua ispirazione nel letto disonorevole dell’infamia sul quale giaceva.

            Un altro aneddoto mostra inoltre che Francesco di Sales non ignorava lo spirito ribelle dei parigini, che faceva loro «aborrire le azioni comandate». Si trattava di un uomo «che dopo aver vissuto ottant’anni nella città di Parigi, senza mai uscirne, non appena gli fu ingiunto da parte del re di rimanervi anche il resto dei suoi giorni, uscì subito per vedere la campagna, cosa che non aveva mai desiderato in tutta la vita».

Gli studi umanistici
            I gesuiti erano animati allora dallo slancio delle origini. Francesco di Sales passerà dieci anni nel loro collegio, percorrendo l’intero curricolo di studi previsto, passando dalla grammatica agli studi classici fino alla retorica e alla filosofia. In quanto allievo esterno, abitava non lontano dal collegio col suo precettore, don Déage, e con i suoi tre cugini, Amé, Louis et Gaspard.
            Il metodo dei gesuiti comprendeva la lezione del professore (praelectio), seguita da numerosi esercizi da parte degli studenti come la composizione di versi e discorsi, la ripetizione delle lezioni, le declamazioni, i temi, le conversazioni e le dispute (disputatio) in latino. Per motivare i loro studenti, i professori facevano appello a due «inclinazioni» presenti nell’animo umano: il piacere, alimentato dall’imitazione degli antichi, dal senso del bello e la ricerca dalla perfezione letteraria; e la lotta o l’emulazione, stimolata dal senso dell’onore e dal premio per i vincitori. Quanto alle motivazioni religiose, esse riguardavano prima di tutto la ricerca della maggior gloria di Dio (ad maiorem Dei gloriam).
            Percorrendo gli scritti di Francesco ci si rende conto fino a che punto la sua cultura latina era estesa e profonda, anche se non leggeva sempre gli autori nel testo originale. Cicerone vi ha il suo posto, ma piuttosto come filosofo; è uno spirito grande, se non il più grande «tra i filosofi pagani». Virgilio, principe dei poeti latini, non è dimenticato: a metà di un periodare appare d’un tratto un verso dell’Eneide o delle Egloghe, che abbellisce la frase e stimola la curiosità. Plinio il Vecchio, autore della Storia naturale, fornirà a Francesco di Sales una riserva pressoché inesauribile di paragoni, «similitudini» e dati curiosi sovente fantasmagorici.
            Al termine dei suoi studi letterari, ottenne il diploma di «baccellierato» che gli apriva l’accesso alla filosofia e alle «arti liberali».

Filosofia e «arti liberali»
            Le «arti liberali» comprendevano non solamente la filosofia propriamente detta, ma anche la matematica, la cosmografia, la storia naturale, la musica, la fisica, l’astronomia, la chimica, il tutto «frammisto a considerazioni metafisiche». Va notato altresì l’interesse dei gesuiti per le scienze esatte, più vicino in ciò all’umanesimo italiano che a quello francese.
            Gli scritti di Francesco di Sales mostrano che i suoi studi di filosofia hanno lasciato delle tracce nel suo universo mentale. Aristotele, «il più grande cervello» dell’antichità è ovunque presente in Francesco. Ad Aristotele, scriverà, si deve questo «antico assioma tra i filosofi, che ogni uomo desidera conoscere». Di Aristotele ciò che l’ha colpito di più è l’aver redatto «un mirabile trattato delle virtù». Quanto a Platone, egli lo considera come un «grande spirito», se non «il più grande. Stimerà parecchio Epitteto, «l’uomo migliore di tutto il paganesimo».
            Le conoscenze riguardanti la cosmografia, corrispondente alla nostra geografia, erano favorite dai viaggi e dalle scoperte dell’epoca. Ignorando del tutto la causa del fenomeno del nord magnetico, sapeva bene che «questa stella polare» è quella «verso cui tende costantemente l’ago della bussola; è grazie ad essa che i nocchieri sono guidati sul mare e possono sapere dove li portano le loro rotte». Lo studio dell’astronomia gli aprirà lo spirito alla conoscenza delle nuove teorie copernicane.
            Per quanto riguarda la musica, ci confiderà che senza esserne un conoscitore, tuttavia la gustava «moltissimo». Dotato di un senso innato dell’armonia in ogni cosa, ammetteva tuttavia conosceva l’importanza della discordanza che è alla base della polifonia: «Perché una musica sia bella, si richiede non soltanto che le voci siano nitide, chiare e ben distinte, ma che siano anche legate tra loro in modo tale da costituire una piacevole consonanza e armonia, in forza dell’unione esistente nella distinzione e della distinzione delle voci che, non senza ragione, viene chiamata accordo discordante, o meglio, discordia concorde». Sovente nei suoi scritti si parla del liuto, il che non può meravigliare, sapendo che il secolo XVI fu l’epoca d’oro di detto strumento.

Attività extrascolastiche
            La scuola non assorbiva interamente la vita del nostro giovanotto, che aveva anche bisogno di distensione. A partire dal 1560 i gesuiti avviarono nuovi orientamenti come la riduzione dell’orario giornaliero, l’inserimento di una ricreazione tra le ore di scuola e quelle di studio, la distensione dopo il pasto, la creazione di uno spazioso «cortile» per la ricreazione, il passeggio una volta alla settimana e le escursioni. L’autore della Filotea richiamerà alla memoria i giochi cui dovette partecipare negli anni della sua giovinezza, quando elencherà «il gioco della pallacorda, della palla, della pallamaglio, le corse all’anello, gli scacchi e altri giochi da tavolo». Una volta alla settimana, il giovedì, oppure nel caso in cui ciò non era possibile, la domenica, era previsto un pomeriggio intero riservato al divertimento in campagna.
            Il giovane Francesco ha assistito e anche partecipato a rappresentazioni teatrali al collegio di Clermont? È più che probabile, perché i gesuiti furono i promotori di recitazioni e di commedie morali presentate in pubblico su un palco, o su pedane sistemate su cavalletti, persino nella chiesa del collegio. Il repertorio si ispirava generalmente alla Bibbia, alla vita dei santi, in particolare agli atti dei martiri, o alla storia della Chiesa, senza escludere delle scene allegoriche come la lotta delle virtù contro i vizi, i dialoghi tra la fede e la Chiesa, tra l’eresia e la ragione. Si riteneva in generale che uno spettacolo di questo genere valeva bene una predica ben tornita.

Equitazione, scherma e danza
            Il padre vigilava sulla formazione completa di perfetto gentiluomo di Francesco e la prova sta nel fatto che gli impose di impegnarsi nell’apprendere le «arti della nobiltà» o le arti cavalleresche in cui lui stesso eccelleva. Francesco dovette esercitarsi nella pratica dell’equitazione, della scherma e della danza.
            Per quanto riguarda la pratica della scherma, si sa che essa distingueva il gentiluomo compito, come d’altronde il portare la spada faceva parte dei privilegi della nobiltà. La scherma moderna, nata in Spagna all’inizio del secolo XV, era stata codificata dagli italiani, che la fecero conoscere in Francia.
            Francesco di Sales avrà a volte l’occasione di mostrare il suo valore nel maneggiare la spada durante aggressioni reali o simulate, ma durante tutta la sua vita lotterà contro le sfide a duello che sovente finivano con la morte di un contendente. Il suo nipote ha raccontato che durante la missione a Thonon, non riuscendo a fermare due «miserabili» che «schermavano a spade nude» e «continuavano a incrociare la spada l’uno contro l’altro», «l’uomo di Dio, confidando nella sua maestria, appresa a dovere da lungo tempo, si scagliò contro di loro e li sconfisse talmente da farli pentire della loro azione indegna».
            Quanto alla danza che aveva acquisito titoli nobiliari nelle corti italiane, sembra che essa sia stata introdotta alla corte di Francia da Caterina de’ Medici, sposa di Enrico II. Francesco di Sales ha partecipato a qualche balletto, danza figurativa, accompagnata dalla musica? Non è impossibile, perché aveva le sue conoscenze presso alcune grandi famiglie.
            In sé stessi, scriverà in seguito nella Filotea, i balli non sono cosa cattiva; tutto dipende dall’uso che se ne fa: «Giocare, danzare è lecito quando si fa per divertimento e non per affetto». Aggiungiamo a tutti questi esercizi l’apprendimento della cortesia e delle buone maniere, specialmente presso i gesuiti che badavano molto alla «civiltà», alla «modestia» e all’«onestà».

La formazione religiosa e morale
            Sul piano religioso, l’insegnamento della dottrina cristiana e del catechismo rivestiva una grande importanza nei collegi dei gesuiti. Il catechismo era insegnato in tutte le classi, imparato a memoria in quelle inferiori seguendo il metodo della disputatio e con premi per i migliori. Talvolta erano organizzati concorsi pubblici con una messa in scena a carattere religioso. Si coltivava il canto sacro, che i luterani e i calvinisti avevano sviluppato molto. Si dava particolare risalto all’anno liturgico e alle feste, utilizzando le «storie» tratte dalla sacra Scrittura.
            Impegnati a restaurare la pratica dei sacramenti, i gesuiti incoraggiavano i loro allievi non solamente alla quotidiana assistenza alla messa, uso per nulla eccezionale nel secolo XVI, ma anche alla frequente comunione eucaristica, alla confessione frequente, alla devozione alla Vergine e ai santi. Francesco rispose con fervore alle esortazioni dei suoi maestri spirituali, impegnandosi a ricevere la comunione «il più sovente possibile», «almeno tutti i mesi».
            Col Rinascimento, la virtus degli antichi, debitamente cristianizzata, tornava in primo piano. I gesuiti ne divennero protagonisti, invogliando i loro allievi allo sforzo, alla disciplina personale e alla riforma di sé stessi. Francesco aderì indubbiamente all’ideale delle virtù cristiane più stimate, quali l’obbedienza, l’umiltà, la pietà, la pratica del dovere del proprio stato, il lavoro, le buone maniere e la castità. Più tardi consacrerà l’intera parte centrale della sua Filotea a «l’esercizio delle virtù».

Studio della Bibbia e della teologia
            La domenica di carnevale del 1584, mentre tutta Parigi andava a divertirsi, il suo precettore vide Francesco con un’aria preoccupata. Non sapendo se era malato oppure melanconico, gli propose di assistere agli spettacoli di carnevale. A tale proposta il giovane rispose con questa preghiera tratta dalla Scrittura: «Distogli i miei occhi dalle cose vane», e aggiunse: «Domine, fac ut videam». Vedere che cosa? «La sacra teologia», fu la sua risposta; «essa mi insegnerà ciò che Dio vuole che la mia anima impari». Don Déage, che preparava il suo dottorato alla Sorbona, ebbe la saggezza di non opporsi al desiderio del cuore del suo assistito. Francesco si entusiasmò delle scienze sacre fino al punto di saltare i pasti. Il suo precettore gli diede i propri appunti dei corsi e gli consentì di assistere alle dispute pubbliche di teologia.
            La sorgente di tale devozione stava per trovarla non tanto nei corsi teologici della Sorbona, quanto piuttosto nelle lezioni di esegesi che si tenevano al Collegio reale. Dopo la sua fondazione nel 1530, questo Collegio assisteva al trionfo di nuove tendenze nello studio della Bibbia. Nel 1584, Gilbert Genebrard, un benedettino di Cluny, commentava il Cantico dei Cantici. Più tardi, quando comporrà il suo Teotimo, il vescovo di Ginevra si ricorderà di questo maestro e lo nominerà «con riverenza e commozione, perché – scriverà – sono stato suo alunno, benché senza frutto quando insegnava al collegio reale a Parigi». Nonostante il suo rigore filologico, Genebrard gli trasmise un’interpretazione allegorica e mistica del Cantico dei Cantici, che lo incantò. Come scrive padre Lajeunie, Francesco trovò in questo libro sacro «l’inspirazione della sua vita, il tema del suo capolavoro e la migliore fonte del suo ottimismo».
            Gli effetti di tale scoperta non si fecero attendere. Il giovane studente conobbe un periodo segnato da un fervore eccezionale. Entrò nella Congregazione di Maria, associazione promossa dai gesuiti, che riuniva l’élite spirituale degli studenti del loro collegio, della quale diventerà ben presto l’assistente e poi il «prefetto». Il suo cuore si infiammò d’amor di Dio. Citando il salmista, si diceva «ebbro dell’abbondanza» della casa di Dio, ricolmo del torrente della «voluttà» divina. Il suo più grande affetto era riservato alla Vergine Maria, «bella come la luna, splendente come il sole».

La devozione in crisi
            Questo fervore sensibile durò per un certo tempo.  Poi sopraggiunse una crisi, uno «strano tormento», accompagnato dalla «paura della morte subitanea e del giudizio di Dio». Secondo la testimonianza della madre di Chantal, «cessò quasi completamente dal mangiare e dal dormire e divenne assai magro e pallido come la cera». Due spiegazioni hanno attirato l’attenzione dei commentatori: le tentazioni contro la castità e la questione della predestinazione. Non è necessario attardarsi sulle tentazioni. Il modo di pensare e di agire del mondo circostante, le abitudini di certi compagni che frequentavano «donne disoneste», gli offrivano esempi e inviti capaci di attirare qualsiasi giovane della sua età e della sua condizione.
            Un altro motivo di crisi era dovuto alla questione della predestinazione, un tema che era all’ordine del giorno tra i teologi. Lutero e Calvino ne avevano fatto un loro cavallo di battaglia nella disputa sulla giustificazione per la sola fede, indipendentemente dai «meriti» che l’uomo può acquistare con le buone opere. Calvino aveva affermato in modo decisivo che Dio «ha determinato ciò che intendeva fare per ogni singolo uomo; perché non li crea tutti nella stessa condizione, ma destina gli uni alla vita eterna, gli altri all’eterna dannazione». Alla stessa Sorbona, dove Francesco seguiva dei corsi, si insegnava, in base all’autorità di sant’Agostino e di san Tommaso, che Dio non aveva decretato la salvezza di tutti gli uomini.
            Francesco credette di essere riprovato da Dio e destinato alla dannazione eterna e all’inferno. Giunto al colmo dell’angoscia, fece un atto eroico di amore disinteressato e di abbandono alla misericordia di Dio. Giungerà perfino alla conclusione, assurda da un punto di vista logico, di accettare di buon animo di andare all’inferno ma a condizione di non maledire il Sommo Bene. La soluzione del suo «strano tormento» la si conosce, in particolare, tramite le confidenze da lui fatte alla madre di Chantal: un giorno del mese di gennaio del 1587, entrò in una chiesa vicina e, dopo aver pregato nella cappella della Vergine, gli parve che il suo male gli fosse caduto ai piedi come «squame di lebbra».
            Al dire il vero, questa crisi ebbe degli effetti realmente positivi nello sviluppo spirituale di Francesco. Da una parte, lo aiutò a passare da una devozione sensibile, forse egoista e perfino narcisista, all’amore puro, spoglio di ogni gratifica interessata e infantile. E dall’altra, gli aprì lo spirito a una nuova comprensione dell’amore di Dio, che vuole la salvezza di tutti gli esseri umani.  Certamente, egli difenderà sempre la dottrina cattolica circa la necessità delle opere per salvarsi, fedele in ciò alle definizioni del concilio di Trento, ma il termine «merito» non godrà delle sue simpatie. La vera ricompensa dell’amore non può essere che l’amore. Siamo qui alla radice dell’ottimismo salesiano.

Bilancio
            È difficile esagerare l’importanza dei dieci anni vissuti dal giovane Francesco di Sales a Parigi. Vi concluse i suoi studi nel 1588 con la licenza e il magistero «nelle arti», che gli aprivano la via agli studi superiori di teologia, di diritto e di medicina. Quali sceglierà, o piuttosto, quali gli saranno imposti dal padre? Conoscendo i progetti ambiziosi che il padre nutriva per il suo primogenito, si comprende che lo studio del diritto godeva delle sue preferenze. Francesco andrà a studiare il diritto nell’università di Padova, nella repubblica di Venezia.
            Da undici anni a ventun anni, ossia durante i dieci anni dell’adolescenza e della giovinezza, Francesco è stato allievo dei gesuiti a Parigi. La formazione intellettuale, morale e religiosa ricevuta dai padri della Compagnia di Gesù lascerà un’impronta che conserverà per tutta la vita. Ma Francesco di Sales manterrà la sua originalità. Non fu tentato di farsi gesuita, ma piuttosto cappuccino. La «salesianità» avrà sempre dei tratti troppo particolari per essere assimilata semplicemente a altri modi di essere e di reagire davanti agli uomini e agli avvenimenti.




San Giuseppe – Cuore di padre (video)

San Giuseppe, padre putativo di Gesù, è un santo non tanto conosciuto, del quale si è scritto poco perché non ci sono troppe testimonianze su di lui. Però il suo culto ha visto negli ultimi tempi un incremento costante, segno della potente intercessione che questo lavoratore e silenzioso santo ha presso Dio.

            Già dai tempi antichi da parte di parecchi Padri della Chiesa si trova una tenera devozione a san Giuseppe, padre putativo di Gesù. Il termine latino “puto” significa “credo”, ossia era colui “che era creduto” suo padre (cfr. Lc 3,23). E anche presso altri santi della Chiesa si trova il suo culto. L’espressione più famosa la troviamo in santa Teresa di Gesù (di Ávila) quando afferma: “Finora non mi ricordo di averlo mai pregato di un favore che egli non mi abbia concesso. È cosa che riempie di stupore pensare alle straordinarie grazie elargitemi da Dio e ai pericoli da cui mi ha liberato, sia materiali sia spirituali, per l’intercessione di questo santo benedetto. Mentre ad altri santi sembra che il Signore abbia concesso di soccorrerci in una singola necessità, ho sperimentato che il glorioso san Giuseppe ci soccorre in tutte. Pertanto, il Signore vuol farci capire che allo stesso modo in cui fu a lui soggetto in terra – dove san Giuseppe, che gli faceva le veci di padre, avendone la custodia, poteva dargli ordini – anche in cielo fa quanto gli chiede. Lo hanno constatato alla prova dei fatti anche altre persone, alle quali io dicevo di raccomandarsi a lui, e ce ne sono ora molte ad essergli diventate devote, per aver sperimentato questa verità.” (Libro della vita).

            La diffusione del suo culto ebbe una costante progressione. Nel 1726 il suo nome fu inserito nelle Litanie dei Santi. Nel 1833 fu approvato il piccolo ufficio di san Giuseppe da pregare il mercoledì. Nel 1844 il nome del Santo fu annoverato fra le invocazioni nelle preghiere da recitare dopo la Messa. Nel 1847 papa Pio IX estende a tutta la Chiesa la festa del Patrocinio di san Giuseppe, celebrazione che sarà sostituita nel 1956 con quella di san Giuseppe Lavoratore, assegnata al 1º di maggio. Però quella che darà maggior rilievo sarà la dichiarazione di san Giuseppe quale Patrono della Chiesa Universale, avvenuta l’8 dicembre del 1870 da parte del beato papa Pio IX, con il decreto Quemadmodum Deus. Così cominciava questo decreto:
             “Nello stesso modo in cui Dio aveva costituito quel Giuseppe, figlio del patriarca Giacobbe, soprintendente di tutta la terra d’Egitto, per assicurare il frumento al popolo, così, quando furono compiuti i tempi in cui l’Eterno stava per inviare sulla terra il suo Figlio Unigenito Salvatore del mondo, scelse un altro Giuseppe, di cui quello era figura, e lo fece signore e principe della sua casa e dei suoi beni e lo elesse custode dei suoi maggiori tesori.
            Di fatto, egli ebbe in sposa l’Immacolata Vergine Maria, dalla quale nacque per virtù dello Spirito Santo Nostro Signore Gesù Cristo, che volle agli occhi di tutti essere reputato figlio di Giuseppe, ed essergli soggetto. Colui che tanti re e profeti avevano bramato di vedere, Giuseppe non solo Lo vide, ma con Lui ha dimorato e con paterno affetto L’ha abbracciato e baciato; e ha nutrito con zelo e sollecitudine senza eguali Colui che i fedeli avrebbero ricevuto come Pane disceso dal cielo, per la vita eterna. Per questa sublime dignità, che Dio conferì a questo suo fedelissimo Servo, la Chiesa ebbe sempre in sommo onore e lode il Beatissimo Giuseppe, dopo la Vergine Madre di Dio, sua sposa, e implorò il suo intervento nei momenti difficili.”

            Il 15 agosto del 1889, il papa Leone XIII inviava la Lettera Enciclica Quamquam Pluries, nella quale raccomandava la devozione a san Giuseppe. Con questa Enciclica viene diffusa anche la preghiera, ormai classica, “A te, o beato Giuseppe”.

            Nel 1909 la Santa Sede aveva approvato una litania in onore di san Giuseppe proposta all’intera Chiesa, sancita dal papa san Pio X e pubblicata nell’Acta Apostolicae Sedis.

            Il 9 aprile del 1919, papa Benedetto XV inserisce nel Messale una Prefazio propria di san Giuseppe. Più tardi, papa Giovanni XXIII volle inserire il nome di san Giuseppe nel Canone Romano. E il 1° maggio del 2013, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti stabiliva l’inserimento del nome di san Giuseppe in tutte le Preghiere eucaristiche (II, III, IV) del Messale Romano, tramite un decreto, approvato da papa Francesco.

            Il 25 luglio del 1920, con l’occasione del cinquantenario della proclamazione di san Giuseppe a Patrono della Chiesa universale, papa Benedetto XV emette un motu proprio, Bonum sane, nel quale conferma la devozione a san Giuseppe.

            I papi Pio IX e Pio XI consacrarono il mese di marzo a san Giuseppe.

            Il 7 marzo del 1958, il pontefice Pio XII faceva pubblicare nell’Acta Apostolicae Sedis una preghiera a san Giuseppe e lo arricchiva con indulgenza parziale. La presentiamo in seguito.

O glorioso Patriarca S. Giuseppe, umile e giusto artigiano di Nazareth, che hai dato a tutti i cristiani, ma specialmente a noi, l’esempio di una vita perfetta nell’assiduo lavoro e nell’ammirabile unione con Maria e Gesù, assistici nella nostra fatica quotidiana, affinché anche noi, artigiani cattolici, possiamo trovare in essa il mezzo efficace di glorificare il Signore, di santificarci e di essere utili alla società in cui viviamo, ideali supremi di tutte le nostre azioni.
Ottienici dal Signore, o Protettore nostro amatissimo, umiltà e semplicità di cuore, affezione al lavoro e benevolenza per quelli che ci sono in esso compagni, conformità ai divini voleri nei travagli inevitabili di questa vita e letizia nel sopportarli, consapevolezza della nostra specifica missione sociale e senso della nostra responsabilità, spirito di disciplina e di orazione, docilità e rispetto verso i superiori, fraternità verso gli uguali, carità e indulgenza coi dipendenti. Accompagnaci nei momenti prosperi, quando tutto c’invita a gustare onestamente i frutti delle nostre fatiche; ma sostienici nelle ore tristi, allorché il cielo sembra chiudersi per noi e perfino gli strumenti del lavoro paiono ribellarsi nelle nostre mani.
Fa che, a tua imitazione, teniamo fissi gli occhi sulla Madre nostra Maria, tua sposa dolcissima, che in un angolo della tua modesta bottega silenziosa filava, lasciando scorrere sulle sue labbra il più soave sorriso; è non allontaniamo lo sguardo da Gesù, che si affannava teco al tuo banco di falegname; affinché in tal guisa possiamo condurre sulla terra una vita pacifica e santa, preludio di quella eternamente felice che ci attende nel cielo, per tutti i secoli dei secoli. Così sia!


            Il 19 marzo del 1961, il Summo Pontefice Giovanni XXIII chiedeva nella Carta Apostolica “Le Voci”, la protezione di san Giuseppe per il Concilio Vaticano II.

            Il 15 agosto del 1989, san Giovanni Paolo II pubblica l’Esortazione Apostolica Redemptoris Custos, con l’occasione del centenario della proclamazione di san Giuseppe come Patrono della Chiesa Universale.

            Nella Solennità dell’Immacolata del 8 dicembre 2021, il Santo Padre Francesco, inviava una Lettera apostolica, Patris corde, in occasione del 150° anniversario della proclamazione di san Giuseppe come Patrono della Chiesa Universale e ha dedicato l’anno 2022 come “Anno di san Giuseppe”.

            Il 1° maggio 2021, in una lettera indirizzata ai Presidenti delle Conferenze dei Vescovi, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha chiesto l’inserimento di nuove invocazioni nelle Litanie in onore di san Giuseppe.

            Tutti questi interventi ufficiali della Chiesa si sommano a tante altre devozioni che hanno preso radici nel popolo cristiano, come la pratica dei Sette dolori e allegrezze di san Giuseppe, le Litanie di san Giuseppe, il Cingolo o Cordone di san Giuseppe, la Coroncina di san Giuseppe, lo Scapolare di san Giuseppe, il Sacro Manto in onore di san Giuseppe, i nove mercoledì, la Novena perpetua, la Corona Perpetua, la Corte Perpetua.

            Però di san Giuseppe non si conserva neanche una parola nei Vangeli. Si ricorda invece il suo agire, la sua fedeltà a Dio, da dove deriva anche la pratica dei Sette dolori e allegrezze: l’accettazione di Maria come Madre del Messia (Mt. 1,18-25), la nascita di Gesù (Lc. 2,4-7), la circoncisione (Lc. 2,21), la presentazione nel Tempio (Lc. 2,22-33), la fuga in Egitto (Mt. 2,13-15), il ritorno in Galilea (Mt. 2,19-23) e il ritrovamento di Gesù nel Tempio (Lc. 2,39-51).
Questo silenzio e questo agire di san Giuseppe ci ricordano che la testimonianza si fa innanzitutto con le opere della fede, prima che con le parole. E ci ricorda che la Tradizione della Chiesa non è formata solo dalle parole consegnate per iscritto, ma è prima di tutto una comunicazione viva che viene dallo Spirito Santo, che può servirsi o no dei testi scritti.

            L’intercessione di san Giuseppe continua anche oggi, le più delle volte nel silenzio, come è stata anche la sua vita. Un film documentario, chiamato “Cuore di Padre”, lanciato proprio nell’anno 2022 dedicato a lui, viene a mettere in luce questa sua mediazione presso Dio. Il regista Andrés Garrigó, che ha cercato in vari paesi le tracce della devozione di questo santo, ha scoperto che “… Giuseppe di Nazareth, il gigante del silenzio, sia più attivo che mai, attirando migliaia di persone ogni giorno e agendo nelle loro vite in modo straordinario”.
È un film che presenta aspetti storici e teologici, ma soprattutto l’intercessione di san Giuseppe nella vita delle persone, anche in quelle inizialmente diffidenti: conversioni, matrimoni falliti, assistenza ai moribondi ecc. Si scopre che san Giuseppe non è solo un uomo vissuto più di 2000 anni fa o una figura del presepe, ma un santo che agisce nella vita delle persone che lo invocano, un santo che ha un culto diffuso in tutto il mondo.

Il film si rivolge soprattutto a un pubblico credente, ma è adatto a ogni categoria di età, senza restrizioni.

Ecco anche la scheda del film.

Titolo: Cuore di padre
Titolo originale: Corazón de padre
Anno di distribuzione: 2022
Uscita cinema: 18.03.2022
Durata: 91 min.
Genere: Documentario
Pubblico adatto: Tutti
Paese: Spagna
Regia: Andrés Garrigó
Attori principali: Paco Pérez-Reus, María Gil
Sceneggiatura: Josepmaria Anglés, Andrés Garrigó
Fotografia: Ismael Durán
Casa di produzione: Andrés Garrigó
Distribuito al cinema: Goya Producciones
Sito ufficiale: https://www.cuoredipadre.it/
Valutazione: 7/10 (decine21)

Trailer:






Questo è amore…

Questo è il bene semplice e silenzioso che ha fatto Don Bosco. Questo è il bene che continuiamo a fare insieme.

Amici, lettori del Bollettino Salesiano: ricevete come ogni mese il mio cordiale saluto, un saluto che preparo lasciando parlare il mio cuore, un cuore che vuole continuare a guardare al mondo salesiano con quella speranza e quella certezza che aveva Don Bosco stesso, che insieme possiamo fare molto bene e che il bene che si fa deve essere fatto conoscere.
Rivedo in tanti salesiani la “passione” di don Bosco per la felicità dei giovani. Una formula divenuta famosa cerca di condensare il sistema educativo di don Bosco in tre parole: ragione, religione, amore. Scuola, chiesa, cortile. Una casa salesiana è tutto questo realizzato nella pietra. Ma l’oratorio di don Bosco è molto di più. È un arsenale di stimoli e creatività: musica, teatro, sport e passeggiate che sono vere immersioni nella natura. Il tutto condito da un affetto reale, paterno, paziente, entusiasta.

Madre coraggio
Ebbene, mentre leggo con dolore e preoccupazione la cronaca del Sudan, dove la situazione di tutti è molto difficile, e anche la situazione salesiana, oggi vorrei offrire un’altra bella testimonianza, anche se questa volta non sono stata testimone oculare, ma racconto quello che mi è stato condiviso.
La scena si svolge a Palabek (Uganda), dove, in concomitanza con l’arrivo dei primi rifugiati, cinque anni fa, noi salesiani di Don Bosco abbiamo voluto andare con i primi rifugiati. La tenda era l’alloggio e la cappella per la preghiera e la celebrazione della prima Eucaristia era l’ombra di un albero.
Ogni giorno al Palabek arrivavano centinaia e centinaia di rifugiati dal Sudan. Prima a causa del conflitto nel Sud Sudan. A distanza di anni, continuano ad arrivare, ora a causa del conflitto in Sudan (Nord Sudan, si intende).
A dirmi quello che vi sto raccontando è stato il Consigliere generale per le Missioni che qualche giorno prima era andato a Palabek per continuare ad accompagnare questa presenza in un campo profughi dove sono già state accolte decine di migliaia di persone.
Dieci giorni fa è arrivata una donna con undici bambini. Da sola, senza alcun aiuto, aveva attraversato diverse regioni piene di pericoli per sé e per i bambini; aveva percorso più di 700 chilometri a piedi nell’ultimo mese e il gruppo di bambini stava crescendo. Ed è di questo che voglio parlare, perché questa è UMANITÀ e questo è AMORE. Questa donna è arrivata a Palabek con undici bambini affidati a lei, e li ha presentati tutti come suoi figli. Ma in realtà sei erano suoi figli frutto del suo grembo. Altri tre erano figli del fratello morto da poco e di cui si era fatta carico, e altri due erano piccoli orfani che aveva trovato per strada, soli, senza nessuno e naturalmente senza documenti (chi può pensare ai documenti e alla documentazione quando mancano le cose più essenziali per la vita?), ed erano diventati figli adottivi di questa donna.
In alcune occasioni, una madre che ha dato la vita per difendere il proprio figlio è stata definita “madre coraggio”. In questo caso, vorrei dare a questa madre di undici figli il titolo di Madre Coraggio, ma soprattutto di donna che sa molto bene – nelle “viscere del suo cuore” -, cosa sia amare, fino a soffrire, perché vive e ha vissuto in assoluta povertà con i suoi undici figli.
Benvenuta a Palabek, Mamma coraggiosa. Benvenuta alla presenza salesiana. Senza dubbio si farà tutto il possibile perché a questi bambini non manchi il cibo, e poi un posto per giocare e ridere e sorridere – nell’oratorio salesiano – e un posto nella nostra scuola.
Questo è il bene semplice e silenzioso che ha fatto Don Bosco. Questo è il bene che continuiamo a fare insieme perché, credetemi, sentire che non siamo soli, avere la certezza che molti di voi vedono con piacere e simpatia lo sforzo che facciamo ogni giorno a favore degli altri, ci dà anche molta forza umana, e senza dubbio il Buon Dio la fa crescere.
Vi auguro una buona estate. Senza dubbio la nostra, anche la mia, sarà più serena e confortevole di quella di questa mamma di Palabek, ma credo di poter dire che avendo pensato a lei e ai suoi figli, abbiamo, in qualche modo, costruito un ponte.
Siate molto felici.




La cicogna e i suoi doveri

La cicogna bianca (Ciconia ciconia) è un uccello grande, inconfondibile per il suo becco affusolato rosso, per il lungo collo, per le zampe lunghissime, per il candido piumaggio prevalentemente bianco, con penne nere sulle ali. È migratorio per natura, e il suo arrivo in primavera in molti paesi d’Europa è considerato di buon augurio.

Sin dall’arrivo, questi uccelli iniziano a farsi o rifarsi il nido, in posti alti, tantissime volte nello stesso posto.

Nel passato, quando non esistevano i pali di sostegno della rete elettrica, i posti più alti erano i camini coperti delle case, ed erano preferiti dalle cicogne quelli più caldi. E le case che si riscaldavano anche nella primavera erano quelle dove un neonato era bisognoso di un ambiente propizio. Di qui la leggenda della cicogna che porta i bambini, leggenda che è diventata un simbolo. Infatti anche oggi, sui biglietti di auguri alle neomamme, è presente una cicogna in volo, con un fagottino legato al becco.

Il Creatore ha dotato le cicogne di istinti superiori, facendo di loro nobili volatili. E sono così fedeli al compito assegnato loro per natura che meritano di essere messe tra le prime nel “libro della creazione”.

La prima cosa che colpisce è che sono tendenzialmente monogame: una volta formata la coppia, restano assieme per tutta la vita. Sicuramente ci saranno nella loro esistenza anche i battibecchi, però questi non portano mai alla separazione.

Quasi sempre tornano allo stesso nido, rifacendolo e arricchendolo. Non si stancano mai di ripararlo ogni anno e di migliorarlo, anche se questo richiede impegno e fatica. E il nido è sempre in alto, sui camini, sui pali elettrici o i campanili, perché vogliono proteggere la loro prole dagli animali selvatici.

Anche se nessuno ha insegnato loro, riescono a costruire stupendi nidi che possono superare due metri di diametro con rametti e anche con altri materiali che trovano alla loro portata di volo, perfino con materiali tessili e plastiche; non distruggono la natura, ma riciclano.

La femmina depone da tre fino a sei uova, non preoccupandosi di come potrà sostenere i suoi piccoli. Una volta deposte le uova, non trascura mai il suo dovere di covarle, anche se deve affrontare brutti periodi. Se i nidi sono vicini alle strade, il rumore continuo delle macchine, le vibrazioni provocate dai mezzi pesanti o le loro luci abbaglianti nella notte non le fa andare via. Quando fa un caldo torrido, quando il sole diventa scottante, la cicogna apre un po’ le sue ali o si muove ogni tanto per rinfrescarsi, ma non cerca di mettersi all’ombra. Quando fa freddo, specialmente di notte, fa di tutto per non lasciare troppo all’esterno le sue uova. Quando viene un forte vento non si lascia trascinare e fa di tutto per restare ferma. Quando piove, non si mette al riparo per difendersi dall’acqua. E quando viene anche una grandinata, resiste stoicamente correndo il rischio di perdere la vita, ma non smette di fare il suo dovere.

Ed è meraviglioso questo comportamento se ci ricordiamo gli istinti basici che il Creatore ha lasciato ad ogni essere vivente. Anche negli organismi più elementari, quelli unicellulari, troviamo quattro istinti fondamentali: nutrizione, escrezione, conservazione dell’individuo (autodifesa) e conservazione della specie (la riproduzione). E quando un organismo deve scegliere se dare priorità a uno di questi istinti, prevale sempre quello della conservazione dell’individuo, dell’autodifesa.

Nel caso della cicogna, il fatto che resti ferma a proteggere le uova anche nelle tempeste, anche quando si abbatte una grandinata che mette in pericolo la sua vita, mostra che l’istinto della conservazione della specie diventa più forte di quello della conservazione dell’individuo. È come se questo uccello avesse coscienza che il liquido di quelle uova non è un prodotto generato dal quale si può separare, ma che dentro l’uovo ci sia una vita che lei deve ad ogni costo proteggere.

La covata la porta avanti alternandosi con il maschio, che non disdegna di dare un cambio alla sua consorte per permetterle di procurarsi il cibo e fare un po’ di movimento. E questo per tutto il tempo, poco più di un mese, fino quando si schiudono le uova e le nuove creature vengono alla luce. Dopo questo periodo, i genitori continuano a darsi il cambio per assicurare ai piccoli un posto caldo, per nutrirli per altri due mesi fino a quando cominciano a lasciare il nido. E fino a tre settimane li nutrono con cibo rigurgitato perché i loro piccoli non sono in grado di nutrirsi diversamente. Si accontentano di quello che trovano: insetti, rane, pesci, roditori, lucertole, serpenti, crostacei, vermi ecc.; non hanno pretese per nutrirsi. E riuscendo a soddisfare questa necessità di alimentarsi, partecipano all’equilibrio naturale, riducendo i parassiti agricoli, come le cavallette.

Assicurano la sopravvivenza dei loro pulcini difendendoli dai passeri rapaci, come i falchi e le aquile, perché sanno che non sono capaci di riconoscere gli aggressori e neanche di difendere sé stessi, e lo fanno al loro posto.

I piccoli, una volta cresciute le ali, imparano a volare e a cercarsi il nutrimento, e a poco a poco abbandonano il loro nido, come se avessero consapevolezza che non c’è neanche spazio fisico per loro, avendo il nido dimensioni limitate. Non vivono pesando sui loro genitori, ma si danno da fare. Sono uccelli non possessivi; non marcano il loro territorio, ma convivono tranquillamente con gli altri.

In questo modo, le giovani cicogne cominciano a vivere come adulte, anche se non lo sono ancora, e non a fare le adulte. Infatti, per cominciare a riprodursi devono aspettare il loro tempo, fino ai 4 anni di età, quando unendosi in coppia con un altro uccello della stessa indole, ma dell’altro sesso, cominciano l’avventura della loro vita. Per questo dovranno imparare che per sopravvivere devono migrare anche per lunghissime distanze, facendo fatica, cercando le loro opportunità di vita in un luogo durante l’estate e in un altro durante l’inverno. E per farlo in sicurezza dovranno associarsi alle altre cicogne, che hanno la stessa natura e interesse.

Gli istinti di queste creature non sono sfuggiti all’osservazione umana. Fin dai tempi antichi la cicogna è stata il simbolo dell’amore tra i genitori e i figli. Ed è l’uccello che meglio rappresenta il legame antico tra l’uomo e la natura.

La cicogna bianca ha un carattere mite e per questo è amata dall’uomo ed è ben vista ovunque; l’Abbazia di Chiaravalle l’ha voluta perfino nel suo stemma accanto al baculo pastorale e la mitra.

Oggi è difficile vederla nella natura. Non capita spesso di vedere un nido di cicogne e ancor meno da vicino. Ma qualcuno ha avuto l’idea di usare la tecnologia per mostrare la vita di questi uccelli, posizionando una videocamera con trasmissione live accanto a un nido su una strada. Guardare per imparare. Il “libro della natura” ha tante cose da insegnarci…


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