Corona dei sette dolori di Maria

La pubblicazione “Corona dei sette dolori di Maria” rappresenta una cara devozione che san Giovanni Bosco inculcava ai suoi giovani. Seguendo la struttura della “Via Crucis”, le sette scene dolorose sono proposte con brevi considerazioni e preghiere, per guidare a una più viva partecipazione alle sofferenze di Maria e del suo Figlio. Ricco di immagini affettive e di spiritualità contrita, il testo riflette il desiderio di unirsi all’Addolorata nella compassione redentrice. Le indulgenze concesse da vari Pontefici attestano l’alto valore pastorale del testo che è un piccolo tesoro di preghiera e riflessione, per alimentare l’amore verso la Madre dei dolori.

Proemio
II primario fine di questa Operetta è di facilitare la rimembranza e la meditazione degli acerbissimi Dolori del tenero Cuore di Maria, cosa a Lei molto gradita, come più volte ha rivelato ai suoi devoti, e mezzo per noi efficacissimo per ottenere il suo patrocinio.
Affinché poi si renda più facile lo esercizio di una tale Meditazione si praticherà primieramente con una corona in cui sono accennati i sette principali dolori di Maria, i quali si potranno quindi meditare in sette distinte brevi considerazioni nel modo che suole farsi la Via Crucis.
Ci accompagni il Signore colla sua celeste grazia e benedizione perché si ottenga il bramato intento, sicché l’anima di ciascuno resti vivamente penetrata dalla frequente memoria dei dolori di Maria con vantaggio spirituale dell’anima, e tutto a maggior gloria di Dio.

Corona dei sette dolori della Beata Vergine Maria con sette brevi considerazioni sopra i medesimi esposte in forma della Via Crucis

Preparazione
Carissimi fratelli e sorelle in Gesù Cristo, noi facciamo i nostri soliti esercizi meditando devotamente gli acerbissimi dolori che la B. V. Maria patì nella vita e morte del suo amato Figlio e nostro Divin Salvatore. Immaginiamoci di trovarci presenti a Gesù pendente in croce, e che l’afflitta sua madre dica a ciascuno di noi: Venite, e vedete se vi è dolore eguale al mio.
Persuasi che questa Madre pietosa ci voglia concedere speciale protezione nel meditare i suoi dolori, invochiamo il Divino aiuto colle seguenti preghiere:

Antif. Veni, Sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium, et tui amoris in eis ignem accende.

Emitte Spiritum tuum et creabuntur
Et renovabis faciem terrae.
Memento Congregationis tuae,
Quam possedisti ab initio.
Domine exaudi orationem meam.
Et clamor meus ad te veniat.

Oremus.
Mentes nostras, quaesumus, Domine, lumine tuae claritatis illustra, ut videre possimus quae agenda sunt, et quae recta sunt, agere valeamus. Per Christum Dominum Nostrum. Amen.

Primo dolore. Profezia di Simeone
Il primo dolore fu allora quando la Beata Vergine Madre di Dio avendo presentato l’unico suo Figlio al Tempio nelle braccia del santo vecchio Simeone, le fu dal medesimo detto: questo sarà una spada che trapasserà l’anima tua, la qual cosa denotava la passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Vergine addolorata, per quell’acutissima spada, con cui il santo vecchio Simeone vi predisse che sarebbe stata trafitta l’anima vostra nella passione e morte del vostro caro Gesù, vi supplico ad impetrarmi grazia di aver sempre presente la memoria del vostro cuore trafitto e delle acerbissime pene sofferte dal vostro Figlio per la mia salute. Così sia.

Secondo dolore. Fuga in Egitto
Il secondo dolore della Beata Vergine fu quando le convenne fuggire in Egitto per la persecuzione del crudele Erode, che empiamente cercava di uccidere il suo amato Figlio.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Maria, mare amarissimo di lagrime, per quel dolore che provaste fuggendo in Egitto per assicurare il vostro Figliuolo dalla barbara crudeltà di Erode, vi supplico che vogliate essere mia guida, affinché per mezzo vostro io resti libero dalle persecuzioni dei visibili e invisibili nemici dell’anima mia. Così sia.

Terzo dolore. Perdita di Gesù nel tempio
Il terzo dolore della Beata Vergine fu quando al tempo della Pasqua, dopo di essere stata col suo sposo Giuseppe e coll’amato figlio Gesù Salvatore in Gerusalemme, nel ritornarsene alla sua povera casa, lo smarrì e per tre giorni continui sospirò la perdita del suo unico Diletto.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Madre sconsolata, voi che nella perdita della presenza corporale del vostro Figlio, lo andaste per tre giorni continui ansiosamente cercando, deh! impetrate grazia a tutti i peccatori onde ancora essi lo vadano cercando con atti di contrizione e lo ritrovino. Così sia.

Quarto dolore. Incontro di Gesù che porta la Croce
Il quarto dolore della Beata Vergine fu quando s’incontrò col suo dolcissimo Figlio che portava una pesante croce sulle delicate spalle al Monte Calvario a fine di essere crocifisso per la nostra salute.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Vergine più d’ogni altra appassionata, per quello spasimo che provaste nel cuore incontrandovi nel vostro Figlio mentre portava il legno della Santissima Croce verso il Monte Calvario, fate, vi prego, che io ancora l’accompagni di continuo col pensiero, pianga le mie colpe, manifesta cagione dei suoi e vostri tormenti. Così sia.

Quinto dolore. Crocifissione di Gesù
Il quinto dolore della B. Vergine fu quando vide il suo Figlio alzato sopra il duro tronco della Croce, che da ogni parte del suo Sacratissimo Corpo versava sangue.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Rosa fra le spine, per quegli amari dolori che trafissero il vostro seno rimirando cogli occhi propri trafitto e sollevato in Croce il vostro Figlio, ottenetemi, vi prego, che con assidue meditazioni solo ricerchi Gesù crocifisso a cagione dei miei peccati. Così sia.

Sesto dolore. Deposizione di Gesù dalla croce
Il sesto Dolore della Beata Vergine fu allora quando il suo amato Figliuolo essendo ferito nel costato dopo la sua morte e deposto dalla Croce, così spietatamente ucciso, venne posto tra le sue Santissime braccia.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Vergine travagliata, voi che sconfitto di Croce il vostro Figlio, l’accoglieste morto nel grembo, e baciando quelle sacratissime Piaghe, vi spargeste sopra un mare di lagrime, deh! fate che anch’io con lagrime di vera compunzione lavi di continuo le ferite mortali che vi fecero i miei peccati. Così sia.

Settimo dolore. Sepoltura di Gesù.
Il settimo Dolore di Maria Vergine Signora ed Avvocata di noi suoi servi e miseri peccatori fu quando accompagnò il Santissimo Corpo del suo Figlio alla sepoltura.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Martire dei Martiri Maria, per quell’acerbo tormento che soffriste allorché sepolto il vostro Figlio vi convenne allontanarvi da quella tomba amata, ottenete grazia, vi prego, a tutti i peccatori, affinché conoscano di quanto grave danno sia all’anima l’essere lontana dal suo Dio. Così sia.

Si reciteranno tre Ave Maria in segno di profondo rispetto alle lagrime che sparse la Beata Vergine in tutti i suoi Dolori per impetrare per mezzo suo un simile pianto per i nostri peccati.
Ave Maria etc.

Finita la Corona si recita il pianto della Beata Vergine, ossia l’inno Stabat Mater etc.

Inno – Pianto della Beata Vergine Maria

Stabat Mater dolorosa
Iuxta crucem lacrymosa,
Dum pendebat Filius.

Cuius animam gementem
Contristatam et dolentem
Pertransivit gladius.

O quam tristis et afflicta
Fuit illa benedicta
Mater unigeniti!

Quae moerebat, et dolebat,
Pia Mater dum videbat.
Nati poenas inclyti.

Quis est homo, qui non fleret,
Matrem Christi si videret
In tanto supplicio?

Quis non posset contristari,
Christi Matrem contemplari
Dolentem cum filio?

Pro peccatis suae gentis
Vidit Iesum in tormentis
Et flagellis subditum.

Vidit suum dulcem natura
Moriendo desolatum,
Dum emisit spiritum.

Eia mater fons amoris,
Me sentire vim doloris
Fac, ut tecum lugeam.

Fac ut ardeat cor meum
In amando Christum Deum,
Ut sibi complaceam.

Sancta Mater istud agas,
Crucifixi fige plagas
Cordi meo valide.

Tui nati vulnerati
Tam dignati pro me pati
Poenas mecum divide.

Fac me tecum pie flere,
Crucifixo condolere,
Donec ego vixero.

Iuxta Crucem tecum stare,
Et me tibi sociare
In planctu desidero.

Virgo virginum praeclara,
Mihi iam non sia amara,
Fac me tecum plangere.

Fac ut portem Christi mortem,
Passionis fac consortem,
Et plagas recolere.

Fac me plagis vulnerari,
Fac me cruce inebriari,
Et cruore Filii.

Flammis ne urar succensus,
Per te, Virgo, sim defensus
In die Iudicii.

Christe, cum sit hine exire,
Da per matrem me venire
Ad palmam victoriae.

Quando corpus morietur,
Fac ut animae donetur
Paradisi gloria. Amen.

Stava Maria dolente
Senza respiro e voce
Mentre pendeva in croce
Del mondo il Redentor.

E nel fatale istante
Crudo materno affetto
Le trafiggeva il petto,
Le lacerava il cor.

Qual di quell’Alma bella
Fosse lo strazio indegno,
No, che l’umano ingegno
Immaginar non può.

Vedere un Figlio… un Dio…
Che palpita, che more!
Sì barbaro dolore
Qual madre mai provò?

Alla funerea scena
Chi tiene il pianto a freno,
Un cuor di tigre ha in seno,
O core in sen non ha.

Chi può mirar in tante
Pene una Madre, un Figlio
E non bagnar il ciglio,
E non sentir pietà?

Per cancellar i falli
D’un popol empio, ingrato
Vide Gesù piagato
Languire e spasimar.

Vide sull’atro Golgota
Il figlio tuo diletto
Chinar la fronte al petto,
E l’anima sua spirar.

O dolce Madre, o puro
Fonte di santo amore,
Parte del tuo dolore
Fa che mi scenda al cor.

Fa, che il pensier profano
Sdegnosamente io sprezzi,
Che a sospirar m’avvezzi
Sol di celeste ardor.

Le barbare ferite
Prezzo del mio delitto,
Del figlio tuo trafitto
Passino, o Madre, in me.

A me dovuti sono
Gli strazi, ch’Ei soffri;
Deh! fa, che possa anch’io
Piangere almen con te.

Teca si strugga in lagrime
Quest’anima gemente:
È se non fu innocente,
Terga il suo fallo almen.

Teco alla Croce accanto
Star, cara Madre, io voglio,
Compagno a quel cordoglio,
Che ti trafigge il sen.

Ah! tu, che delle Vergini
Regina in Ciel ti assidi,
Ah tu propizia arridi
Ai voti del mio cor.

Del buon Gesù spirante
Sul fero tronco esangue
La croce, il fiele, il sangue
Fa ch’io rammenti ognor.

Del Salvator rinnova
In me lo scempio atroce,
Il sangue, il fiel, la Croce
Tutto provar mi fa.

Ma nell’estremo giorno,
Quando ci verrà sdegnato,
Rendalo a me placato,
Maria, la tua pietà.

Gesù che nulla nieghi
A chi tua Madre implora,
Del mio morir nell’ora
Non mi negar mercè.

E quando sia disciolto
Dal suo corporeo velo,
Fa che il mio spirto in Cielo
Voli a regnar con te.

Il Sommo Pontefice Innocenzo XI concede l’indulgenza di 100 giorni ogni volta che si recita lo Stabat Mater. Benedetto XIII accordò l’indulgenza di sette anni a chi reciterà la Corona dei sette dolori di Maria. Moltissime altre indulgenze furono concesse da altri sommi Pontefici specialmente ai Confratelli e Consorelle della compagnia di Maria Addolorata.

I sette dolori di Maria meditati in forma della Via Crucis

S’invochi il divino aiuto dicendo:
Actiones nostras, quaesumus Domine, aspirando praeveni, et adiuvando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a te semper incipiat, et per te coepta finiatur. Per Christum Dominum Nostrum. Amen.

Atto di Contrizione
Afflittissima Vergine, ahi! quanto sconoscente nel tempo trascorso io sono stato verso il mio Dio, con quanta ingratitudine ho corrisposto agl’innumerabili suoi benefizi! Ora me ne pento, e nell’amarezza del mio cuore e nel pianto dell’anima mia, domando a Lui umilmente perdono per avere oltraggiato la sua infinita bontà, resolutissimo in avvenire colla celeste grazia di non mai più offenderlo. Deh? per tutti i dolori che sopportaste nella barbara passione del vostro amato Gesù vi prego coi più profondi sospiri ad ottenermi dal medesimo, pietà e misericordia dei miei peccati. Gradite questo santo esercizio che sono per fare e ricevetelo in unione di quelle pene e di quei dolori che Voi soffriste per il vostro figliuolo Gesù. Ah concedetemi! sì concedetemi che quelle stesse spade che trafissero il vostro spirito, trapassino anche il mio, e che viva e muoia nell’amicizia del mio Signore, per partecipare eternamente della gloria che egli mi ha acquistato con il suo prezioso Sangue. Così sia.

Primo dolore
In questo primo dolore immaginiamoci di trovarci nel tempio di Gerusalemme, dove la Beatissima Vergine ascoltò la profezia del vecchio Simeone.

Meditazione
Ah! Quali ambasce avrà provato il cuore di Maria nel sentire le dolorose parole, con cui le era predetta dal Santo vecchio Simeone l’acerba passione e l’atroce morte del suo dolcissimo Gesù: mentre in quello stesso punto si affacciarono alla di lei mente gli affronti, gli strapazzi e le carneficine che gli empi Giudei avrebbero fatto del Redentore del mondo. Ma sai quale fu la spada più penetrante che in questa circostanza la trafisse? Fu il considerare l’ingratitudine con cui il diletto suo Figlio sarebbe stato contraccambiato dagli uomini. Ora riflettendo che, per cagione dei tuoi peccati sei miseramente nel numero di questi tali, ah! gettati ai piè di questa Madre Addolorata e dille piangendo così (ognuno s’inginocchia): Deh! Pietosissima Vergine, che provaste un sì acerbo spasimo nel vostro spirito vedendo l’abuso quale io indegna creatura avrei fatto del sangue del vostro amabile Figlio, fate, sì fate per il vostro afflittissimo Cuore, che io in avvenire corrisponda alle Divine Misericordie, mi approfitti delle celesti grazie, non riceva invano tanti lumi e tante inspirazioni che voi vi degnerete ottenermi onde abbia la sorte di essere nel numero di coloro per i quali l’amara passione di Gesù saia di eterna salvezza. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Secondo dolore
In questo secondo dolore consideriamo il penosissimo viaggio che la Vergine fece verso l’Egitto per liberare Gesù dalla crudele persecuzione di Erode.

Meditazione
Considera l’acerbo dolore che avrà provato Maria quando di notte tempo dovette mettersi in cammino per ordine dell’Angelo a fine di preservare il suo Figliuolo dalla strage ordinata da quel fierissimo Principe. Ah! che ad ogni grido di animale, ad ogni soffio di vento, ad ogni moto di foglia che sentiva per quelle strade deserte si riempieva di spavento per timore di qualche inconveniente al bambino Gesù che seco portava. Ora si rivolgeva da una parte, ora dall’altra, or affrettava il passo, ora si nascondeva credendosi di essere sopraggiunta dai soldati, che strappando dalle sue braccia il suo amabilissimo Figlio ne avessero fatto sotto gli sguardi suoi barbaro trattamento e fissando l’occhio lagrimoso sopra il suo Gesù e stringendolo fortemente al petto, dandogli mille baci, mandava dal cuore i più affannosi sospiri. E qui rifletti quante volte hai tu rinnovato questo acerbo dolore a Maria sforzando il suo Figliuolo coi tuoi gravi peccati a fuggire dall’anima tua. Ora che conosci il gran male commesso rivolgiti pentito a questa pietosa Madre e dille così:
Ah Madre dolcissima! Una volta Erode costrinse voi con il vostro Gesù a prendere la fuga per l’inumana persecuzione da esso comandata; ma io oh! quante volte obbligai il mio Redentore e per conseguenza ancora voi a partire rapidamente dal mio cuore, introducendo nel medesimo il maledetto peccato, spietato nemico vostro e del mio Dio. Deh! tutto dolente e contrito ve ne domando umilmente perdono.
Sì, misericordia, o cara Madre, misericordia, e vi prometto in avvenire col Divino aiuto di mantenere sempre il mio Salvatore e Voi nel totale possesso dell’anima mia. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Terzo dolore
In questo terzo dolore consideriamo l’afflittissima Vergine che lagrimosa va in traccia del suo smarrito Gesù.

Meditazione
Quanto mai fu grande la pena di Maria, quando si avvide di avere perduto l’amabile suo Figlio! e come si accrebbe il suo dolore allorché avendolo diligentemente ricercato presso gli amici, parenti e vicini non poté avere alcuna notizia di Lui. Essa non badando agl’incomodi, alla stanchezza, ai pericoli andò raminga tre giorni continui per le contrade della Giudea, ripetendo quelle parole di desolazione: forse alcuno ha veduto colui che veramente ama l’anima mia? Ah! che la grande ansietà con cui lo andava ricercando, le faceva immaginare ad ogni momento di vederlo, o di ascoltarne la voce: ma poi conoscendosi delusa, oh come si raccapricciava e più sensibile provava il rammarico di una tale deplorabilissima perdita! Confusione grande per le, o peccatore, il quale avendo tante volte smarrito il tuo Gesù coi gravi mancamenti commessi, non ti desti alcuna premura di andarlo a ricercare, chiaro segno, che poco o niuno conto fai del prezioso tesoro della Divina amicizia. Piangi dunque la tua cecità, e volgendoti a quest’Addolorata Madre, dille sospirando così:
Afflittissima Vergine, deh fate che impari da voi il vero modo di andare in cerca di Gesù ch’io ho smarrito per secondare le mie passioni e le inique suggestioni del demonio, acciocché mi riesca di ritrovarlo, e quando ne sarò tornato in possesso, ripeterò continuamente quelle vostre parole: Ho ritrovato quello che veramente ama il mio cuore; lo riterrò sempre con me, né lo lascerò mai più partire. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Quarto dolore
Nel quarto dolore consideriamo l’incontro che fece l’addolorata Vergine col suo appassionato Figliuolo.

Meditazione
Venite pure, o cuori indurati e provate se potete reggere a questo lagrimevolissimo spettacolo. È una madre la più tenera, la più amorosa che incontra un suo Figlio il più dolce, il più amabile; e come l’incontra? Oh Dio! in mezzo alla più empia ciurmaglia che lo strascina crudelmente alla morte, carico di piaghe, grondante di sangue, lacero per le ferite, con una corona di spine in testa e con un tronco pesante sopra le spalle, affannato, ansante, languente che pare ad ogni passo voglia esalare l’estremo respiro.
Ah! considera, anima mia, l’arresto mortale che fa la Santissima Vergine al primo sguardo che fissa sopra il suo tormentato Gesù; vorrebbe dargli l’ultimo addio, ma e come, se il dolore la impedisce di proferir parola? Vorrebbe gettarglisi al collo, ma resta immobile ed impietrita per la forza dell’interna afflizione; vorrebbe sfogarsi con il pianto, ma si sente talmente serrato ed oppresso il cuore, che non gli riesce di versare una lagrima. Oh! e chi può frenare le lagrime vedendo una povera Madre immersa in sì grande affanno? Ma chi mai è la cagione di una tale acerbissima pena? Ah, sano io, sì sono io con i miei peccati che ho fatto si barbara ferita al tenero vostro cuore, o Vergine Addolorata. Pure chi lo crederebbe? Resto insensibile senza punto essere commosso. Ma se fui ingrato per il passato, per l’avvenire non lo sarò più.
Intanto prostrato ai vostri piedi, o Vergine Santissima, vi domando umilmente perdono di tanto rammarico che vi ho cagionato. Lo conosco e lo confesso che non merito pietà, essendo io il vero motivo per cui cadeste di dolore all’incontrare il vostro Gesù tutto coperto di piaghe; ma ricordatevi, sì ricordatevi che siete madre di misericordia. Ah dimostratevi dunque tale verso di me, ch’io vi prometto in avvenire di essere più fedele al mio Redentore, e così compensare tanti disgusti che ho dato al vostro afflittissimo spirito. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Quinto dolore
In questo quinto dolore immaginiamoci di trovarci sul Monte Calvario dove l’afflittissima Vergine vide spirare in Croce il suo amato Figliuolo.

Meditazione
Eccoci al Calvario ove già sono innalzati due altari di sacrificio, uno nel corpo di Gesù, l’altro nel cuore di Maria. Oh funesto spettacolo! Miriamo la Madre affogata in un mare di affanni vedendosi rapito da spietata morte il caro ed amabile parto delle sue viscere. Ahimè! Ogni martellata, ogni piaga, ogni lacerazione che sopra le sue carni riceve il Salvatore, profondamente rimbombano nel cuore della Vergine. Essa sta ai piedi della Croce talmente penetrata dalla pena e trafitta per il cordoglio che non sapresti decidere chi sia per essere il primo a spirare, se Gesù, o Maria. Fissa l’occhio sul volto del suo Figlio agonizzante, considera le pupille languenti, il volto pallido, le labbra livide, il respiro difficile e conosce finalmente che egli più non vive e che già ha consegnato lo spirito in seno dell’eterno suo Padre. Ah che l’anima di Lei fa allora ogni sforzo possibile per dividersi dal corpo ed unirsi a quella di Gesù. E chi può reggere a tale vista.
Oh addoloratissima Madre, voi invece di ritirarvi dal Calvario, a fine di non sentire sì al vivo le angosce, là ve ne state immobile per assorbire fino all’ultima stilla l’amaro calice delle vostre afflizioni. Che confusione dev’essere questa per me che cerco tutti i modi per scansare le croci e quei piccioli patimenti che per mio bene si degna mandarmi il Signore? Vergine addoloratissima, io mi umilio dinanzi a voi, deh! fate, che conosca una volta chiaramente il pregio ed il valore grande del patire, onde ci prenda tanto attaccamento, che non mi sazi mai di esclamare con S. Francesco Saverio: Plus Domine, Plus Domine, più patire, mio Dio. Ah sì, più patire, o mio Dio. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Sesto dolore
In questo sesto dolore immaginiamoci di vedere la sconsolarsi ma Vergine che riceve fra le braccia il defunto suo Figlio deposto dalla Croce.

Meditazione
Considera l’acerbissima pena che penetrò l’anima di Maria, allorché vide nel suo seno posto il corpo defunto dell’amato Gesù. Ah! che nel fissare lo sguardo sopra le ferite e sopra le piaghe di lui, nel mirarlo rosseggiante del proprio sangue, fu tale l’impeto dell’interno cordoglio, che fu il suo cuore mortalmente trafitto, e se non morì fu l’onnipotenza Divina che la conservò in vita. O povera Madre, si, povera madre, che conducete alla tomba il caro oggetto delle vostre più tenere compiacenze, e che da un mazzo di rose è divenuto un fascio di spine per i maltrattamenti e lacerazioni fattegli dagli empi manigoldi. E chi non vi compatirà? Chi non si sentirà struggere dal dolore vedendovi in uno stato di afflizione da muovere a pietà anche il più duro macigno? Osservo Giovanni inconsolabile, la Maddalena colle altre Marie che si ciucciano acerbamente, Nicodemo che non può più reggere per l’afflizione. Ed io? io solo non verso una lagrima in mezzo a tanto duolo! Ingrato e sconoscente che sono!
Deh! Madre pietosissima, eccomi ai vostri piedi, ricevetemi sotto la potente vostra protezione e fate che questo mio cuore resti trafitto da quella medesima spada che passò parte a parte il vostro afflittissimo spirito, onde si ammollisca una volta e pianga davvero i miei gravi peccati che hanno portato a Voi sì crudo martirio. E così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Settimo dolore
In questo settimo dolore consideriamo l’addoloratissima Vergine che vede chiudere nel sepolcro il suo defunto Figliuolo.

Meditazione
Considera che mortale sospiro mandò l’afflitto cuore di Maria quando vide posto nella tomba il suo amabile Gesù! Oh che pena, che cordoglio provò il suo spirito allorché fu alzata la pietra con cui si doveva chiudere quel sacratissimo monumento! Non era possibile distaccarla dall’orlo del sepolcro, mentre il dolore era tale, che la rendeva insensibile ed immobile, non cessando mai di rimirare quelle piaghe e quelle crudeli ferite. Quando poi venne la tomba serrata o allora sì che tale fu la forza dell’interno rammarico, che sarebbe senza dubbio caduta estinta se Iddio non l’avesse in vita conservata. Oh travagliatissima madre! Voi partirete adesso col corpo da questo luogo, ma qui sicuramente resterà il vostro cuore, essendo qui il vostro vero tesoro. Ah fato, che in compagnia di lui resti tutto il nostro affetto, tutto il nostro amore, lì come potrà essere che non ci struggiamo di benevolenza verso il Salvatore, che ha dato tutto il suo sangue per nostra salvezza? Come potrà essere che noi non amiamo Voi che tanto avete sofferto per nostra cagione.
Ora noi dolenti e pentiti di aver cagionato tanti dolori al vostro Figlio e a voi tanta amarezza ci prostriamo ai vostri piedi e per tutte quelle pene che ci faceste la grazia di meditare, concedeteci questo favore: che la memoria delle medesime resti sempre vivamente impressa nella nostra mente, che si consumino i nostri cuori per amore del nostro buon Dio, e di Voi nostra dolcissima Madre, e che l’ultimo sospiro della nostra vita sia unito a quelli che versaste dal fondo dell’anima vostra nella dolorosa passione di Gesù, a cui sia onore, gloria, e rendimento di grazie per tutti i secoli dei secoli. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Quindi si dice lo Stabat Mater, come sopra.

Antifona. Tuam ipsius animam (ait ad Mariam Simeon) pertransiet gladius.
Ora pro nobis Virgo Dolorosissima.
Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Oremus
Deus in cuius passionem secundum Simeonis prophetiam, dulcissimam animam Gloriosae Virginis et Matris Mariae doloris gladius pertransivit, concede propitius, ut qui dolorum eius memoriam recolimus, passionis tuae effectum felicem consequamur. Qui vivis etc.

Laus Deo et Virgo Dolorosissimae.

Con permissione della Revisione Ecclesiastica

La Festa dei Sette dolori di Maria Vergine Addolorata che si celebra dalla Pia Unione e Società, cade alla terza domenica di settembre nella Chiesa di S. Francesco d’Assisi.

Testo della 3a edizione, Torino, Tipografia di Giulio Speirani e figli, 1871




La decima collina (1864)

Il sogno della “Decima Collina”, narrato da don Bosco nell’ottobre 1864, è una delle pagine più suggestive della tradizione salesiana. In esso il santo si ritrova in una sterminata valle colma di giovani: alcuni già all’Oratorio, altri ancora da incontrare. Guidato da una voce misteriosa, deve condurli oltre una ripida scarpata e poi attraverso dieci colline, simbolo dei dieci comandamenti, verso una luce che prefigura il Paradiso. Il carro dell’Innocenza, le schiere penitenziali e la musica celestiale disegnano un affresco educativo: mostrano la fatica di preservare la purezza, il valore del pentimento e il ruolo insostituibile degli educatori. Con questa visione profetica don Bosco anticipa l’espansione mondiale della sua opera e l’impegno di accompagnare ogni giovane sul cammino della salvezza.

                D. Bosco aveva sognato nella notte precedente. Nello stesso tempo un giovane di nome C… E… di Casal Monferrato, fece egli pure lo stesso sogno, parendogli di trovarsi con D. Bosco e di parlargli. Levatosi ne era rimasto tanto colpito che andò a raccontare le cose sognate al suo professore, il quale lo esortò di recarsi a narrarle a D. Bosco. Il giovane andò subito e s’imbatté con lui stesso che scendeva le scale, per cercarlo e narrargli la stessa cosa.
                Parve adunque a D. Bosco di trovarsi in una grandissima valle tutta piena di migliaia e migliaia di giovanetti, ma così numerosi che esso non credeva potersene trovare tanti in tutto il mondo. Fra questi giovani egli distingueva tutti quelli che furono, e quelli che sono nella casa. Tutti gli altri erano coloro che forse verranno poi. Frammisti ai giovani si vedevano i preti ed i chierici della casa.
                Una ripa altissima chiudeva da un lato quella valle. Mentre D. Bosco pensava che cosa avrebbe dovuto fare di tanti giovani, una voce gli disse:
                – Vedi quella ripa? Ebbene; bisogna che tu e i tuoi giovani ne guadagniate la cima.
                Allora D. Bosco diede ordine a tutte quelle, turbe di giovani di muoversi verso il punto indicato. I giovani si mossero e a gran corsa si slanciarono arrampicandosi su per la ripa. I preti della casa correvano anche essi all’insù spingendo avanti i giovani, rialzavano quelli che cadevano e portavano sulle spalle coloro che stanchi non potevano camminare. D. Rua colle maniche della veste rivoltate lavorava più di tutti e, prendendo i giovani a due per due, addirittura gli slanciava per aria sulla ripa, sulla quale cadendo essi restavano in piedi e poi scorrazzavano allegramente qua e là. D. Cagliero e D. Francesia correvano su e giù per le file gridando:
                – Coraggio, avanti; avanti, coraggio.
                In poco d’ora quelle schiere giovanili raggiunsero la cima della ripa; D. Bosco pure era salito e disse:
                – Ed ora che cosa faremo?
                E la voce soggiunse:
                – Tu devi valicare coi tuoi giovani queste dieci colline che vedi distendersi innanzi a te l’una dopo l’altra.
                – Ma come faranno a reggere ad un viaggio così lungo tanti giovanetti che sono così piccoli e delicati?
                – Chi non potrà andare coi suoi piedi, sarà portato; – gli fu risposto.
                Ed ecco infatti spuntare ad una estremità del colle e salire un magnifico carro. Impossibile ne è la descrizione tanto era bello, ma pure qualche cosa si può dire. Era triangolare e aveva tre ruote che si movevano per tutti i versi. Dai tre angoli partivano tre aste che venivano a congiungersi in un punto solo sopra il carro stesso, formando come un pinnacolo di pergolato. Su questo punto di congiunzione si innalzava un magnifico stendardo sul quale era scritto a caratteri cubitali: Innocentia. Una fascia poi che correva tutto intorno al carro, formava sponda e portava l’iscrizione: Adjutorio Dei Altissimi Patris et Filii et Spiritus Sancti (al riparo di Dio Altissimo, Padre e Figlio e Spirito Santo).
                Il carro, che splendeva tutto per oro e pietre preziose, si avanzò e venne a collocarsi in mezzo ai giovani. Dato il comando, molti fanciulletti vi salirono sopra. Il numero era di 500. Cinquecento appena in mezzo a tante migliaia di giovani erano ancora innocenti.
                Collocati questi sul carro D. Bosco pensava per quale via avrebbe dovuto incamminarsi, quando vide aprirsi innanzi a lui una strada larga e comoda, ma tutta sparsa di spine. Apparvero quindi all’improvviso sei giovani, già morti nell’Oratorio, vestiti di bianco, i quali inalberavano un’altra bellissima bandiera sulla quale era scritto: Poenitentia. Costoro si andarono a posare alla testa di tutte quelle falangi di giovani che dovevano mettersi in viaggio pedestri. Allora fu dato il segnale della partenza. Molti preti si slanciano al timone del carro, il quale tratto da essi incomincia a muoversi. I sei vestiti di bianco lo seguono. Dietro a loro tutto il resto della moltitudine. Con magnifica ed inesprimibile musica si intona dai giovanetti che erano sul carro il Laudate pueri Dominum (Lodate Dio voi piccoli, Ps 113,1).
                D. Bosco camminava inebbriato da quella musica celeste, quando si ricordò di voltarsi indietro, per vedere se tutti i giovani lo avevano seguito. Ma oh doloroso spettacolo! Molti erano rimasti nella valle, molti erano ritornati indietro. Don Bosco agitato da inesprimibile dolore decise di rifare il cammino già fatto per tentar di persuadere quei giovani sconsigliati, e di aiutarli a seguirlo. Ma gli venne assolutamente vietato.
                – Ma quei poverini si perdono: – esclamò egli.
                E gli venne, risposto:
                – Peggio per loro: essi furono chiamati come gli altri e non vollero seguirti. La strada da farsi l’hanno veduta e ciò basta.
                D. Bosco voleva replicare; pregò, scongiurò: tutto fa inutile:
                – L’obbedienza è anche per te! – gli fu detto. E dovette continuare il cammino.
                Non erasi ancor lenito questo dolore, quando un altro tristo accidente sopravvenne. Molti giovanetti di quelli che si trovavano sul carro a poco a poco erano caduti per terra. Di 500 appena 150 rimanevano sotto il vessillo dell’innocenza.
                Il cuore di D. Bosco scoppiava per l’insopportabile affanno. Esso sperava fosse quello un sogno, faceva tutti gli sforzi per svegliarsi, ma pur troppo si accorgeva che era una terribile realtà. Batteva le mani ed udiva il suono di esse: gemeva, ed udiva che il suo gemito risuonare per la stanza; voleva dissipare quel terribile fantasma, ma non poteva.
                – Ah miei cari giovani! egli esclamava a questo punto, narrando il sogno. Io ho conosciuto e veduto coloro che rimasero nella valle, quelli che tornarono indietro o caddero dal carro! Vi ho conosciuti tutti. Ma non dubitate; io farò ogni sforzo possibile per salvarvi. Molti di voi invitati da me a confessarsi non risposero alla chiamata! Per carità salvate le anime vostre.
                Molti dei giovanetti caduti dal carro si erano di mano in mano andati a porre tra le file di coloro che camminavano dietro la seconda bandiera. Intanto la musica del carro continuava così dolce che a poco a poco vinse il dolore di D. Bosco. Sette colline erano già valicate e giunte quelle schiere sulla ottava, entrarono in un meraviglioso paese, dove si fermarono a prendere un po’ di riposo. Le case erano di una ricchezza e bellezza indescrivibile.
                D. Bosco parlando ai giovani di questa regione soggiunse:
                – Vi dirò con Santa Teresa ciò che essa affermò delle cose del paradiso: sono cose che col parlarne si avviliscono, perché sono così belle che è inutile sforzarsi a descriverle. Quindi osserverò solamente che gli stipiti di quelle case parevano di oro, di cristallo, di diamante tutt’insieme, sicché sorprendevano, appagavano la vista infondevano allegrezza. I campi erano ripieni d’alberi sui quali si vedevano contemporaneamente fiori, bottoni, frutta matura e frutta verde. Era un incanto magnifico.
                I giovani si sparsero pel paese chi di qua e chi di là, chi per una cosa, chi per l’altra, poiché grande era la loro curiosità e il desiderio di avere di quella frutta.
                È in questo villaggio che quel giovane di Casale si imbatté in D. Bosco e tenne con lui un lungo dialogo. D. Bosco e il giovane si ricordavano perfettamente le domande fatte e le risposte avute. Singolare combinazione di due sogni.
                D. Bosco ebbe qui un’altra strana sorpresa. I suoi giovani gli apparvero ad un tratto come divenuti vecchi; senza denti, pieni di rughe in volto, coi capelli bianchi, curvi, zoppicanti, appoggiati al bastone. D. Bosco si meravigliava di questa metamorfosi, ma la voce gli disse:
                – Tu ti meravigli; ma hai da sapere che non sono già poche ore dacché sei partito dalla valle, ma sono anni ed anni. È quella musica che ti ha fatto parer corto il cammino. In prova, guarda la tua fisionomia e ti persuaderai se io dico il vero. – E a D. Bosco venne presentato uno specchio. Egli si specchiò e vide che il suo aspetto era d’uomo attempato, col volto rugoso, e coi denti guasti e pochi.
                La comitiva frattanto si rimise in cammino e i giovani a quando a quando chiedevano di fermarsi per vedere quelle nuove cose. Ma D. Bosco diceva loro:
                – Avanti, avanti: noi non abbisogniamo di nulla; non abbiamo fame, noti abbiam sete, dunque avanti.
                (In fondo lontano, sulla decima collina spuntava una luce che andava sempre crescendo come se uscisse da una stupenda porta). Ricominciò allora il canto, ma così bello che solo in Paradiso si può udire l’eguale e gustarlo. Non era musica di istrumenti, né pareva di voci umane. Era una musica impossibile a descriversi; e tanta fu la piena del giubilo che inondò l’anima di D. Bosco che svegliatosi si trovò nel suo letto.
                D. Bosco così spiegò il suo sogno:
                – La valle è il mondo. La ripa gli ostacoli per staccarsi da esso. – Il carro lo capite. – Le squadre dei giovani a piedi sono i giovani che perduta l’innocenza, si pentirono dei loro falli.
                D. Bosco aggiunse ancora che le 10 colline raffiguravano i 10 comandamenti della legge di Dio, l’osservanza dei quali conduce alla vita eterna.
                Quindi annunziò che, se facesse di bisogno era pronto a dire confidenzialmente a certi giovani che cosa facevano in quel sogno; se restarono nella valle o se caddero dal carro.
                Disceso dalla bigoncia, l’alunno Ferraris Antonio si avvicinò a lui, e gli raccontò, essendo noi presenti che intendemmo perfettamente le sue parole, come la sera precedente avesse egli sognato di trovarsi in compagnia di sua madre, la quale gli aveva domandato se a Pasqua sarebbe tornato a casa per passarvi i giorni di vacanza: esso averle risposto che prima di Pasqua sarebbe andato in paradiso. Quindi in confidenza sottovoce disse alcune altre parole nell’orecchio a D. Bosco. Ferraris Antonio morì il 16 marzo 1865.
                Noi abbiamo subito scritto il sogno, e la stessa sera 22 ottobre 1864 sul fine aggiungevamo la seguente postilla. “Io tengo per certo che D. Bosco colle sue spiegazioni cercò di coprire ciò che il sogno ha di più sorprendente, almeno per qualche circostanza. Quella dei dieci comandamenti non mi appaga. L’ottava collina sulla quale D. Bosco fa una sosta, ed egli si vede nello specchio così attempato, io credo che indichi il fine della sua vita dover succedere oltre i settanta anni. Vedremo l’avvenire”.
                Questo avvenire è dunque ora tempo passato, e noi ci siamo confermati nella nostra opinione. Il sogno indicava a Don Bosco la durata del suo vivere. Confrontiamo con questo, quello della Ruota, che noi non potemmo conoscere se non qualche anno dopo. I giri della Ruota procedono per decenni: e così pure sembra che’ abbracci simile spazio di tempo il procedere di collina in collina. Ognuna della dieci colline rappresenta dieci anni, sicché vengono a significare cento anni il massimo della vita di un uomo. Ora noi vediamo D. Bosco ancor fanciullo, nel primo decennio, incominciare la sua missione tra i compagni dei Becchi e così dar principio al suo viaggio; percorre interamente le sette colline cioè sette decenni quindi la sua età giunge a settant’anni: sale l’ottava collina e qui fa una sosta: vede case e campi meravigliosamente belli, ovvero la sua Pia Società resa grande e fruttifera dalla bontà infinita di Dio. È ancor lunga la via da percorrere sulla ottava collina e si rimette in viaggio; ma non giunge alla nona, perché si risveglia. Così egli non campò l’ottavo decennio, morendo a 72 anni e 5 mesi.
                Che ne dice il lettore? Aggiungeremo che la sera dopo Don Bosco avendo interrogato noi stessi qual fosse il nostro pensiero intorno al sogno, gli abbiamo risposto, che non riguardava solamente i giovani, ma sebbene indicava la dilatazione della Pia Società in tutto il mondo.
                – Ma che? replicò uno dei nostri confratelli; abbiamo già i collegi di Mirabello e di Lanzo e se ne aprirà qualche altro in Piemonte. Che cosa vuoi di più?
                – No; sono ben altri i destini che ci annunzia il sogno.
                E D. Bosco approvava, sorridendo, la nostra persuasione.
(MB VII, 796-802)




Il saggio

All’imperatore Ciro il Grande piaceva moltissimo conversare amabilmente con un amico molto saggio di nome Akkad.
Un giorno, appena tornato stanchissimo da una campagna di guerra contro i Medi, Ciro si fermò dal suo vecchio amico per passare qualche giorno con lui.
«Sono spossato, caro Akkad. Tutte queste battaglie mi stanno consumando. Come vorrei fermarmi a passare il tempo con te, chiacchierando sulle rive dell’Eufrate…».
«Ma, caro sire, ormai hai sconfitto i Medi, che cosa farai?».
«Voglio impadronirmi di Babilonia e sottometterla».
«E dopo Babilonia?».
«Sottometterò la Grecia».
«E dopo la Grecia?».
«Conquisterò Roma».
«E dopo?».
«Mi fermerò. Tornerò qui e passeremo giorni felici a conversare amabilmente sulle rive dell’Eufrate…».
«E perché, sire, amico mio, non incominciamo subito?».

Ci sarà sempre un altro giorno per dire «Ti voglio bene».
Ricordati dei tuoi cari oggi, e sussurra loro nell’orecchio, di’ loro quanto li ami. Prenditi il tempo per dire «Mi dispiace», «Ti prego ascoltami», «Grazie».
Domani non ti pentirai di quello che hai fatto oggi.




Il grillo e la moneta

Un saggio indiano aveva un caro amico che abitava a Milano. Si erano conosciuti in India, dove l’italiano era andato con la famiglia per fare un viaggio turistico. L’indiano aveva fatto da guida agli italiani, portandoli a esplorare gli angoli più caratteristici della sua patria.
Riconoscente, l’amico milanese aveva invitato l’indiano a casa sua. Voleva ricambiare il favore e fargli conoscere la sua città. L’indiano era molto restio a partire, ma poi cedette all’insistenza dell’amico italiano e un bel giorno sbarcò da un aereo alla Malpensa.
Il giorno dopo, il milanese e l’indiano passeggiavano per il centro della città. L’indiano, con il suo viso color cioccolato, la barba nera e il turbante giallo attirava gli sguardi dei passanti e il milanese camminava tutto fiero d’avere un amico così esotico.
Ad un tratto, in piazza San Babila, l’indiano si fermò e disse: «Senti anche tu quel che sento io?». Il milanese, un po’ sconcertato, tese le orecchie più che poteva, ma ammise di non sentire nient’altro che il gran rumore del traffico cittadino.
«Qui vicino c’è un grillo che canta», continuò, sicuro di sé, l’indiano.
«Ti sbagli», replicò il milanese. «Io sento solo il chiasso della città. E poi, figurati se ci sono grilli da queste parti».

«Non mi sbaglio. Sento il canto di un grillo», ribatté l’indiano e decisamente si mise a cercare tra le foglie di alcuni alberelli striminziti. Dopo un po’ indicò all’amico che lo osservava scettico un piccolo insetto, uno splendido grillo canterino che si rintanava brontolando contro i disturbatori del suo concerto.
«Hai visto che c’era un grillo?», disse l’indiano.
«È vero», ammise il milanese. «Voi indiani avete l’udito molto più acuto di noi bianchi…».
«Questa volta ti sbagli tu», sorrise il saggio indiano. «Stai attento…». L’indiano tirò fuori dalla tasca una monetina e facendo finta di niente la lasciò cadere sul marciapiede.
Immediatamente quattro o cinque persone si voltarono a guardare.
«Hai visto?», spiegò l’indiano. «Questa monetina ha fatto un tintinnio più esile e fievole del trillare del grillo. Eppure hai notato quanti bianchi lo hanno udito?».

“Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”




Intervista al Rettor Maggiore, don Fabio Attard

Abbiamo preso un’intervista in esclusiva al Rettor Maggiore dei Salesiani, don Fabio Attard, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua vocazione e del suo percorso umano e spirituale. La sua vocazione è nata nell’oratorio e si è consolidata attraverso un percorso formativo ricco che lo ha portato dall’Irlanda alla Tunisia, da Malta a Roma. Dal 2008 al 2020 è stato Consigliere Generale per la Pastorale Giovanile, ruolo che ha svolto con una visione multiculturale acquisita attraverso esperienze in diversi contesti. Il suo messaggio centrale è la santità come fondamento dell’azione educativa salesiana: “Vorrei vedere una Congregazione più santa”, afferma, sottolineando che l’efficienza professionale deve radicarsi nell’identità consacrata.

Qual è la tua storia della vocazione?

Sono nato a Gozo, Malta, il 23 marzo 1959, quinto di sette figli. Al tempo della mia nascita, mio padre aveva il compito di farmacista in ospedale, mentre mia madre aveva avviato un piccolo negozio di tessuti e sartoria, che con il tempo è cresciuto fino a diventare una piccola catena di cinque negozi. Era una donna molto laboriosa, ma l’attività restava sempre a conduzione familiare.

Ho frequentato le scuole primarie e secondarie locali. Un elemento molto bello e particolare della mia infanzia è che mio padre era catechista laico presso l’oratorio, che fino al 1965 era stato diretto dai salesiani. Lui, da giovane, aveva frequentato quell’oratorio e vi era poi rimasto come unico catechista laico. Quando io iniziai a frequentarlo, a sei anni, i salesiani avevano appena lasciato l’opera. Subentrò un giovane sacerdote (che è ancora in vita) che proseguì le attività dell’oratorio nello stesso spirito salesiano, avendovi lui stesso vissuto da seminarista.
Si continuava con il catechismo, la benedizione eucaristica quotidiana, il calcio, il teatro, il coro, le gite, le feste… tutto quello che normalmente si vive in un oratorio. C’erano tanti bambini e ragazzi, ed io sono cresciuto in quell’ambiente. In pratica, la mia vita si svolgeva tra la famiglia e l’oratorio. Ero anche chierichetto nella mia parrocchia. Così, finita la scuola superiore, mi sono orientato verso il sacerdozio, perché fin da bambino avevo questo desiderio nel cuore.

Oggi mi rendo conto di quanto fossi stato influenzato da quel giovane sacerdote, che guardavo con ammirazione: era sempre presente con noi nel cortile, nelle attività dell’oratorio. Tuttavia, in quel tempo i salesiani non erano più presenti lì. Sono così entrato in seminario, dove all’epoca si facevano due anni di propedeutica come interni. Durante il terzo anno – che corrispondeva al primo anno di filosofia – conobbi un amico di famiglia di circa 35 anni, una vocazione adulta, che era entrato come salesiano aspirante (oggi è ancora in vita, ed è coadiutore). Quando fece questo passo, dentro di me si accese un fuoco. E con l’aiuto del mio direttore spirituale iniziai un discernimento vocazionale.
Fu un cammino importante ma anche impegnativo: avevo 19 anni, ma quella guida spirituale mi aiutò a cercare la volontà di Dio, e non semplicemente la mia. Così, l’ultimo anno – il quarto di filosofia – invece di seguirlo in seminario, lo vissi come aspirante salesiano, completando i due anni di filosofia richiesti.

In famiglia, l’ambiente era fortemente segnato dalla fede. Partecipavamo ogni giorno alla Messa, recitavamo il Rosario in casa, eravamo molto uniti. Anche oggi, benché i nostri genitori siano in Paradiso, manteniamo quella stessa unità tra fratelli e sorelle.

Un’altra esperienza familiare mi ha segnato profondamente, anche se me ne sono accorto solo col tempo. Mio fratello, il secondo della famiglia, è morto a 25 anni per insufficienza renale. Oggi, con i progressi della medicina, sarebbe ancora vivo grazie alla dialisi e ai trapianti, ma allora non c’erano tante possibilità. Gli sono stato accanto negli ultimi tre anni della sua vita: condividevamo la stessa stanza e spesso lo aiutavo di notte. Lui era un giovane sereno, allegro, che ha vissuto la sua fragilità con una gioia straordinaria.
Avevo 16 anni quando è morto. Sono passati cinquant’anni, ma quando ripenso a quel tempo a quell’esperienza quotidiana di vicinanza, fatta di piccoli gesti, riconosco quanto abbia segnato la mia vita.

Sono nato in una famiglia dove c’era fede, senso del lavoro, responsabilità condivisa. I miei genitori sono per me due esempi straordinari: hanno vissuto con grande fede e serenità la croce, senza mai far pesare nulla su nessuno, e al tempo stesso hanno saputo trasmettere la gioia della vita familiare. Posso dire di aver vissuto un’infanzia molto bella. Non eravamo ricchi, né poveri, ma sempre sobri, discreti. Ci hanno insegnato a lavorare, a gestire bene le risorse, a non sprecare, a vivere con dignità, con eleganza e, soprattutto, con attenzione verso i poveri e gli ammalati.

Come ha reagito la tua famiglia quando hai preso la decisione di seguire la vocazione consacrata?

Era arrivato il momento in cui, insieme al mio direttore spirituale, avevamo chiarito che la mia strada era quella dei salesiani. Dovevo anche comunicarlo ai miei genitori. Ricordo che era una sera tranquilla, stavamo mangiando insieme, solo noi tre. A un certo punto dissi: “Voglio dirvi qualcosa: ho fatto il mio discernimento e ho deciso di entrare tra i salesiani.”
Mio padre fu felicissimo. Mi rispose subito: “Che il Signore ti benedica.”. Mia madre invece iniziò a piangere, un po’ come fanno tutte le mamme. Mi chiese: “Allora ti allontani?” Ma mio padre intervenne con dolcezza e fermezza: “Che si allontani o no, questa è la sua strada.”
Mi benedirono e mi incoraggiarono. Sono momenti che restano impressi per sempre.

Ricordo in particolare quello che accadde verso la fine della vita dei miei genitori. Mio padre morì nel 1997, e sei mesi dopo a mia madre hanno scoperto un tumore inguaribile.
In quel periodo, i superiori mi avevano chiesto di andare come docente all’Università Pontificia Salesiana (UPS), ma non sapevo che decisione prendere. Mia madre non stava bene, era ormai prossima alla morte. Parlando con i miei fratelli, mi dissero: “Tu fai quello che ti chiedono i superiori.”
Mi trovavo a casa e ne parlai con lei: “Mamma, i superiori mi chiedono di andare a Roma.”
Lei, con la lucidità di una vera madre, mi rispose: “Senti figlio mio, se dipendesse da me, ti chiederei di restare qui, perché non ho nessun altro e non vorrei pesare sui tuoi fratelli. Ma…” – e qui disse una frase che mi porto nel cuore – “Tu non sei mio, tu appartieni a Dio. Fai quello che ti dicono i superiori.”
Quella frase, pronunciata un anno prima della sua morte, per me è un tesoro, un’eredità preziosa. Mia madre era una donna intelligente, sapiente, perspicace: sapeva che la malattia l’avrebbe portata alla fine, ma in quel momento seppe essere libera interiormente. Libera di dire parole che confermavano ancora una volta il dono che lei stessa aveva fatto a Dio: offrire un figlio alla vita consacrata.

La reazione della mia famiglia, all’inizio e fino alla fine, è stata sempre segnata da un profondo rispetto e da un grande sostegno. E anche oggi, i miei fratelli e sorelle continuano a portare avanti questo spirito.

Qual è stato il tuo percorso formativo dal noviziato fino ad oggi?

È stato un percorso molto ricco e variegato. Ho iniziato il prenoviziato a Malta, poi ho fatto il noviziato a Dublino, in Irlanda. Un’esperienza davvero bella.

Dopo il noviziato, i miei compagni si sono trasferiti a Maynooth per studiare filosofia all’università, ma io l’avevo già completata in precedenza. Per questo i superiori mi hanno chiesto di rimanere ancora al noviziato per un anno, dove ho insegnato italiano e latino. In seguito, sono tornato a Malta per svolgere due anni di tirocinio, che sono stati molto belli e arricchenti.

Successivamente, sono stato inviato a Roma per studiare teologia all’Università Pontificia Salesiana, dove ho trascorso tre anni straordinari. Quegli anni mi hanno dato una grande apertura mentale. Vivevamo nello studentato con quaranta confratelli provenienti da venti nazioni diverse: Asia, Europa, America Latina… anche il corpo docente era internazionale. Era la metà degli anni ’80, circa vent’anni dopo il Concilio Vaticano II, e si respirava ancora molto entusiasmo: c’erano vivaci confronti teologici, la teologia della liberazione, l’interesse per il metodo e la prassi. Quegli studi mi hanno insegnato a leggere la fede non solo come contenuto intellettuale, ma come una scelta di vita.

Dopo quei tre anni, ho proseguito con altri due di specializzazione in teologia morale presso l’Accademia Alfonsiana, con i padri redentoristi. Anche lì ho incontrato figure significative, come il celebre Bernhard Häring, con cui ho stretto un’amicizia personale e andavo regolarmente ogni mese a dialogare con lui. Sono stati cinque anni complessivi – tra baccalaureato e licenza – che mi hanno formato profondamente dal punto di vista teologico.

In seguito, mi sono offerto per le missioni, e i superiori mi hanno inviato in Tunisia, insieme a un altro salesiano, per ristabilire la presenza salesiana nel paese. Abbiamo rilevato una scuola gestita da una congregazione femminile che, non avendo più vocazioni, stava per chiudere. Era una scuola con 700 studenti, per cui abbiamo dovuto imparare il francese e anche l’arabo. Per prepararci, abbiamo trascorso alcuni mesi a Lione, in Francia, e poi ci siamo dedicati allo studio dell’arabo.
Sono rimasto lì tre anni. È stata un’altra grande esperienza, perché ci siamo trovati a vivere la fede e il carisma salesiano in un contesto dove non si poteva parlare esplicitamente di Gesù. Tuttavia, era possibile costruire percorsi educativi fondati sui valori umani: rispetto, disponibilità, verità. La nostra testimonianza era silenziosa ma eloquente. In quell’ambiente ho imparato a conoscere e ad amare il mondo musulmano. Tutti – studenti, docenti e famiglie – erano musulmani, e ci hanno accolti con grande calore. Ci hanno fatto sentire parte della loro famiglia. Sono tornato più volte in Tunisia e ho sempre riscontrato lo stesso rispetto e apprezzamento, al di là della nostra appartenenza religiosa.

Dopo quell’esperienza, sono rientrato a Malta e ho lavorato per cinque anni nel campo sociale. In particolare, in una casa salesiana che accoglie ragazzi bisognosi di un accompagnamento educativo più attento, anche in forma residenziale.

Dopo questi otto anni complessivi di pastorale (tra Tunisia e Malta), mi è stata offerta la possibilità di completare il dottorato. Ho scelto di tornare in Irlanda, perché il tema era legato alla coscienza secondo il pensiero del cardinale John Henry Newman, oggi santo. Completato il dottorato, il Rettor Maggiore dell’epoca, don Juan Edmundo Vecchi – di grata memoria – mi chiese di entrare come docente di teologia morale all’Università Pontificia Salesiana.

Guardando a tutto il mio cammino, dall’aspirantato fino al dottorato, posso dire che è stato un insieme di esperienze non solo di contenuti, ma anche di contesti culturali molto diversi. Ringrazio il Signore e la Congregazione, perché mi hanno offerto la possibilità di vivere una formazione così varia e ricca.

Allora conosci il maltese perché è la tua lingua madre, l’inglese perché è la seconda idioma a Malta, il latino perché lo hai insegnato, l’italiano perché hai studiato in Italia, il francese e l’arabo perché sei stato a Manouba, in Tunisia… Quante lingue conosci?

Cinque, sei lingue, più o meno. Però, quando mi chiedono delle lingue, io dico sempre che sono un po’ coincidenze storiche.
A Malta cresciamo già con due idiomi: il maltese e l’inglese, e a scuola si studia una terza lingua. Ai miei tempi si insegnava anche l’italiano. Poi, io ero naturalmente portato per le lingue, e scelsi anche il latino. In seguito, andando in Tunisia, è stato necessario imparare il francese e anche l’arabo.
A Roma, vivendo con tanti studenti di lingua spagnola, l’orecchio si abitua, e quando sono stato eletto come Consigliere per la Pastorale Giovanile, ho approfondito un po’ anche lo spagnolo, che è una lingua molto bella.

Tutte le lingue sono belle. Certo, impararle richiede impegno, studio, esercizio. C’è chi è più portato, chi meno: fa parte della disposizione personale. Ma non è un merito, né una colpa. È semplicemente un dono, una predisposizione naturale.

Dal 2008- al 2020 sei stato per due mandati Consigliere Generale della Pastorale Giovanile. Come ti ha aiutato la tua esperienza in questa missione?

Quando il Signore ci affida una missione, portiamo con noi tutto il bagaglio di esperienze che abbiamo accumulato nel tempo.
Avendo vissuto in contesti culturali diversi, non correvo il rischio di vedere tutto attraverso il filtro di una sola cultura. Sono europeo, vengo dal Mediterraneo, da un paese che è stato colonia inglese, ma ho avuto la grazia di vivere in comunità internazionali, multiculturali.

Mi hanno aiutato molto anche gli anni di studio all’UPS. Avevamo professori che non si limitavano a trasmettere contenuti, ma ci educavano a fare sintesi, a costruire un metodo. Per esempio, se si studiava storia della Chiesa, si capiva quanto fosse essenziale per comprendere la patristica. Se si affrontava la teologia biblica, si imparava a collegarla con la teologia sacramentale, con la morale, con la storia della spiritualità. Insomma, ci insegnavano a pensare in modo organico.
Questa capacità di sintesi, questa architettura del pensiero, diventa poi parte della tua formazione personale. Quando fai teologia, impari a individuare punti fermi e a collegarli. E lo stesso vale per una proposta pastorale, pedagogica o filosofica. Quando incontri persone con grande spessore, assorbi non solo quello che dicono, ma anche come lo dicono, e questo forma il tuo stile.

Un altro elemento importante è che, al momento della mia elezione, avevo già vissuto esperienze in ambienti missionari, dove la religione cattolica era praticamente assente, e avevo lavorato con persone emarginate e vulnerabili. Avevo anche maturato una certa esperienza nel mondo universitario, e, parallelamente, mi ero molto dedicato all’accompagnamento spirituale.

Inoltre, tra il 2005 e il 2008 – proprio dopo l’esperienza all’UPS – l’Arcidiocesi di Malta mi aveva chiesto di fondare un Istituto di Formazione Pastorale, a seguito di un Sinodo diocesano che ne aveva riconosciuto la necessità. L’arcivescovo mi affidò il compito di avviarlo da zero. La prima cosa che feci fu costruire un’équipe con sacerdoti, religiosi, laici – uomini e donne. Abbiamo dato vita a un nuovo metodo formativo, che viene ancora utilizzato oggi. L’istituto continua a funzionare molto bene, e in qualche modo quell’esperienza ha rappresentato una preparazione preziosa per il lavoro che ho svolto successivamente nella pastorale giovanile.
Fin dall’inizio ho sempre creduto nel lavoro di équipe e nella collaborazione con i laici. La mia prima esperienza come direttore fu proprio in questo stile: un’équipe educativa stabile, oggi diremmo una CEP (Comunità Educativo-Pastorale), con incontri sistematici, non occasionali. Ci vedevamo ogni settimana con gli educatori e i professionisti. E questo approccio, che nel tempo è diventato un metodo, è rimasto per me un riferimento.

A tutto questo si aggiunge anche l’esperienza accademica: sei anni come docente all’Università Pontificia Salesiana, dove arrivavano studenti da oltre cento nazioni, e poi come esaminatore e direttore di tesi di dottorato all’Accademia Alfonsiana.

Credo che tutto ciò mi abbia preparato a vivere quella responsabilità con lucidità e visione.

Così, quando la Congregazione, durante il Capitolo Generale del 2008, mi ha chiesto di assumere questo incarico, portavo già con me una visione ampia, multiculturale. E questo mi ha aiutato, perché mettere insieme diversità non mi risultava faticoso: era parte della normalità. Certo, non si trattava semplicemente di fare una “macedonia” di esperienze: bisognava trovare i fili portanti, dare coerenza e unità.

Quello che ho potuto vivere come Consigliere Generale non è stato un merito personale. Credo che qualsiasi salesiano, se avesse avuto le stesse opportunità e il sostegno della Congregazione, avrebbe potuto vivere esperienze analoghe e dare il proprio contributo con generosità.

C’è una preghiera, una buonanotte salesiana, un’abitudine che non manchi mai da fare?

La devozione a Maria. In casa siamo cresciuti con il Rosario quotidiano, recitato in famiglia. Non era un obbligo, era qualcosa di naturale: lo facevamo prima di mangiare, perché mangiavamo sempre insieme. Allora era possibile. Oggi forse lo è meno, ma allora si viveva così: la famiglia riunita, la preghiera condivisa, la mensa comune.

All’inizio forse non mi rendevo conto di quanto fosse profonda quella devozione mariana. Ma col passare degli anni, quando si comincia a distinguere ciò che è essenziale da ciò che è secondario, ho capito quanto quella presenza materna abbia accompagnato la mia vita.
La devozione a Maria si esprime in forme diverse: il Rosario quotidiano, quando possibile; un momento di sosta davanti a un’immagine o a una statua della Madonna; una preghiera semplice, ma fatta con il cuore. Sono gesti che accompagnano il cammino di fede.

Naturalmente ci sono alcuni punti fermi: l’Eucaristia quotidiana e la meditazione quotidiana. Sono pilastri che non si discutono, si vivono. Non solo perché siamo consacrati, ma perché siamo credenti. E la fede la si vive solo nutrendola.
Quando la nutriamo, cresce in noi. E solo se cresce in noi, possiamo aiutare perché cresca anche negli altri. Per noi, che siamo educatori, è evidente: se la nostra fede non si traduce in vita concreta, tutto il resto diventa facciata.

Queste pratiche – la preghiera, la meditazione, la devozione – non sono riservate ai santi. Sono espressione di onestà. Se ho fatto una scelta di fede, ho anche la responsabilità di coltivarla. Altrimenti, tutto si riduce a qualcosa di esteriore, di apparente. E questo, nel tempo, non regge.

Se potessi tornare indietro, faresti le stesse scelte?

Assolutamente sì. Nella mia vita ci sono stati momenti molto difficili, come succede a tutti. Non voglio passare per la “vittima di turno”. Credo che ogni persona, per crescere, debba attraversare fasi di oscurità, momenti di desolazione, di solitudine, di sentirsi tradita o accusata ingiustamente. E io questi momenti li ho vissuti. Ma ho avuto la grazia di avere accanto un direttore spirituale.

Quando si vivono certe fatiche accompagnati da qualcuno, si riesce a intuire che tutto ciò che Dio permette ha un senso, ha uno scopo. E quando si esce da quel “tunnel”, si scopre di essere una persona diversa, più matura. È come se, attraverso quella prova, siamo trasformati.

Se fossi rimasto solo, avrei rischiato di prendere decisioni sbagliate, senza visione, accecato dalla fatica del momento. Quando si è arrabbiati, quando ci si sente soli, non è il momento di decidere. È il momento di camminare, di chiedere aiuto, di farsi accompagnare.

Vivere certi passaggi con l’aiuto di qualcuno è come essere una pasta messa nel forno: il fuoco la cuoce, la rende matura. Perciò, alla domanda se cambierei qualcosa, la mia risposta è: no. Perché anche i momenti più difficili, anche quelli che non capivo, mi hanno aiutato a diventare la persona che sono oggi.

Mi sento una persona perfetta? No. Ma sento di essere in cammino, ogni giorno, cercando di vivere davanti alla misericordia e alla bontà di Dio.

E oggi, mentre rilascio questa intervista, posso dire con sincerità che mi sento felice. Forse non ho ancora compreso pienamente cosa significhi essere Rettor Maggiore – ci vuole del tempo – ma so che è una missione, non una passeggiata. Porta con sé le sue difficoltà. Tuttavia, mi sento amato, stimato dai miei collaboratori e da tutta la Congregazione.

E tutto quello che sono oggi, lo sono grazie a ciò che ho vissuto, anche nei passaggi più faticosi. Non li cambierei. Mi hanno reso ciò che sono.

Hai qualche progetto che ti sta particolarmente a cuore?

Sì. Se chiudo gli occhi e immagino qualcosa che davvero desidero, vorrei vedere una Congregazione più santa. Più santa. Più santa.

Mi ha ispirato profondamente la prima lettera di don Pascual Chávez del 2002, intitolata “Siate santi”. Quella lettera mi ha toccato dentro, mi ha lasciato un segno.
I progetti sono molti, e tutti validi, ben strutturati, con visioni ampie e profonde. Ma che valore hanno, se vengono portati avanti da persone che non sono sante? Possiamo fare un lavoro eccellente, possiamo anche essere apprezzati – e questo, di per sé, non è negativo –, ma noi non lavoriamo per ottenere successo. Il nostro punto di partenza è un’identità: siamo persone consacrate.

Ciò che proponiamo ha senso solo se nasce da lì. È chiaro che desideriamo che i nostri progetti abbiano successo, ma ancora di più desideriamo che portino grazia, che tocchino le persone nel profondo. Non basta essere efficienti. Dobbiamo essere efficaci, nel senso più profondo: efficaci nella testimonianza, nell’identità, nella fede.
L’efficienza può esistere anche senza alcun riferimento religioso. Possiamo essere ottimi professionisti, ma non basta. La nostra consacrazione non è un dettaglio: è il fondamento. Se diventa marginale, se la mettiamo da parte per fare spazio all’efficienza, allora perdiamo la nostra identità.

E la gente ci osserva. Nelle scuole salesiane, si riconosce che i risultati sono buoni – ed è un bene. Ma ci riconoscono anche come uomini di Dio? Questa è la domanda.
Se ci vedono solo come bravi professionisti, allora siamo solo efficienti. Ma la nostra vita deve nutrirsi di Lui – Via, Verità e Vita – non di ciò che “io penso” o che “io voglio” o di “quello che mi sembra”.

Quindi, più che parlare di un progetto mio personale, preferisco parlare di un desiderio profondo: diventare santi. E parlarne in modo concreto, non idealizzato.
Quando don Bosco parlava ai suoi ragazzi di studio, sanità e santità, non si riferiva a una santità fatta solo di preghiera in cappella. Pensava a una santità vissuta nella relazione con Dio e alimentata dalla relazione con Dio. La santità cristiana è il riflesso di questa relazione viva e quotidiana.

Che consigli daresti a un giovane che si interroga sulla vocazione?

Gli direi di scoprire, passo dopo passo, qual è il progetto di Dio per lui.
Il cammino vocazionale non è una domanda che si fa, aspettando poi una risposta pronta da parte della Chiesa. È un pellegrinaggio. Quando un ragazzo mi dice: “Non so se farmi salesiano o no”, cerco di allontanarlo da quella formulazione. Perché non si tratta semplicemente di decidere: “Mi faccio salesiano”. La vocazione non è un’opzione in relazione a ina “cosa”.

Anche nella mia propria esperienza, quando dissi al mio direttore spirituale: “Voglio diventare salesiano, devo esserlo”, lui, con molta calma, mi fece riflettere: “È davvero la volontà di Dio? Oppure è solo un tuo desiderio?”

Ed è giusto che un giovane cerchi ciò che desidera, è una cosa sana. Ma chi accompagna ha il compito di educare quella ricerca, di trasformarla da entusiasmo iniziale in cammino di maturazione interiore.
“Vuoi fare del bene? Bene. Allora conosci te stesso, riconosci di essere amato da Dio.”
È solo a partire da quella relazione profonda con Dio che può emergere la vera domanda: “Qual è il progetto di Dio per me?”
Perché ciò che oggi desidero, domani potrebbe non bastarmi più. Se la vocazione si riduce a ciò che “mi piace”, allora sarà qualcosa di fragile. La vocazione è invece una voce interiore che interpella, che chiede di entrare in dialogo con Dio, e di rispondere.

Quando un giovane arriva a questo punto, quando viene accompagnato a scoprire quello spazio interiore dove abita Dio, allora inizia davvero a camminare.
E per questo, chi accompagna deve essere molto attento, profondo, paziente. Mai superficiale.

Il Vangelo di Emmaus è un’immagine perfetta: Gesù si avvicina ai due discepoli, li ascolta anche se sa che stanno parlando con confusione. Poi, dopo averli ascoltati, comincia a parlare. E loro, alla fine, lo invitano: “Resta con noi, perché si fa sera.”
E lo riconoscono nel gesto di spezzare il pane. Poi si dicono: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli parlava lungo la via?”

Oggi molti giovani sono in ricerca. Il nostro compito, come educatori, è non essere frettolosi. Ma aiutarli, con calma e gradualità, a scoprire la grandezza che è già nel loro cuore. Perché lì, in quella profondità, incontrano Cristo. Come dice sant’Agostino: “Tu eri dentro di me, e io fuori. E lì ti cercavo.”


Avresti un messaggio da trasmettere oggi alla Famiglia Salesiana?

È lo stesso messaggio che ho condiviso anche in questi giorni, durante l’incontro della Consulta della Famiglia Salesiana: La fede. Radicarci sempre di più nella persona di Cristo.

È da questo radicamento che nasce una conoscenza autentica di don Bosco. I primi salesiani, quando vollero scrivere un libro sul vero don Bosco, non lo intitolarono “Don Bosco apostolo dei giovani”, ma “Don Bosco con Dio” – un testo scritto da don Eugenio Ceria nel 1929.
E questo ci fa riflettere. Perché loro, che lo avevano visto in azione ogni giorno, non scelsero di sottolineare il don Bosco instancabile, organizzatore, educatore. No, vollero raccontare il don Bosco profondamente unito a Dio.
Chi lo ha conosciuto bene non si è fermato alle apparenze, ma è andato alla radice: don Bosco era un uomo immerso in Dio.

Alla Famiglia Salesiana dico: abbiamo ricevuto un tesoro. Un dono immenso. Ma ogni dono comporta una responsabilità.
Nel mio discorso finale ho detto: “Non basta amare don Bosco, bisogna conoscerlo.”
E possiamo conoscerlo davvero solo se siamo persone di fede.

Dobbiamo guardarlo con lo sguardo della fede. Solo così possiamo incontrare il credente che fu don Bosco, in cui lo Spirito Santo ha agito con forza: con dýnamis, con cháris, con carisma, con grazia.
Non possiamo limitarci a ripetere certe sue massime o a raccontare i suoi miracoli. Perché corriamo il rischio di fermarci sulle storielle di Don Bosco, invece di fermarci sulla storia di Don Bosco, perché Don Bosco è più grande di Don Bosco.
Questo significa studio, riflessione, profondità. Significa evitare ogni superficialità.

E allora potremo dire con verità: “Questa è la mia fede, questo è il mio carisma: radicati in Cristo, sui passi di Don Bosco.”




Educare le facoltà del nostro spirito con san Francesco di Sales

San Francesco di Sales presenta lo spirito come la parte più elevata dell’anima, retta da intelletto, memoria e volontà. Cuore della sua pedagogia è l’autorità della ragione, “divina fiaccola” che rende l’uomo realmente umano e deve guidare, illuminare e disciplinare passioni, immaginazione e sensi. Educare lo spirito significa quindi coltivare l’intelletto con studio, meditazione e contemplazione, esercitare la memoria come deposito delle grazie ricevute, e irrobustire la volontà perché scelga costantemente il bene. Da tale armonia sgorgano le virtù cardinali – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza – che formano persone libere, equilibrate e capaci di autentica carità.

            Lo spirito è considerato da Francesco di Sales come la parte superiore dell’anima. Le sue facoltà sono l’intelletto, la memoria e la volontà. L’immaginazione potrebbe farne parte nella misura in cui la ragione e la volontà intervengono nel suo funzionamento. La volontà, da parte sua, è la facoltà maestra cui conviene riservare un trattamento particolare. Lo spirito fa sì che l’uomo divenga, secondo la definizione classica, un «animale razionale». «Siamo uomini soltanto mediante la ragione», scrive Francesco di Sales. Dopo «le grazie corporali», ci sono «i doni dello spirito», che dovrebbero essere oggetto delle nostre riflessioni e della nostra riconoscenza.  Fra essi l’autore della Filotea distingue i doni ricevuti dalla natura e quelli acquistati con l’educazione:

Considerate i doni dello spirito: quanta gente c’è al mondo ebete, pazza furiosa, mentecatta. Perché non vi trovate fra loro? Dio vi ha favorita. Quanti sono stati educati rozzamente e nella più estrema ignoranza: ma voi, la Provvidenza divina vi ha fatto allevare in un modo civile e onorato.

La ragione, “divina fiaccola”
           
In un Esercizio del sonno o riposo spirituale, composto a Padova quando aveva ventitré anni, Francesco si proponeva di meditare un argomento che stupisce:

Mi fermerò ad ammirare la bellezza della ragione che Dio ha donato all’uomo, affinché illuminato e istruito dal suo meraviglioso splendore, odiasse il vizio e amasse la virtù. Oh! Seguiamo la splendente luce di questa divina fiaccola, perché ci è donata in uso per vedere dove dobbiamo mettere i piedi! Ah! Se ci lasciamo condurre dai suoi dettami, raramente inciamperemo, difficilmente ci faremo male.

            «La ragione naturale è un buon albero che Dio ha piantato in noi, i frutti che ne provengono possono essere soltanto buoni», afferma l’autore del Teotimo; è vero che è «gravemente ferita e quasi morta a causa del peccato», ma il suo esercizio non è fondamentalmente impedito.
            Nel regno interiore dell’uomo, «la ragione deve essere la regina, alla quale tutte le facoltà del nostro spirito, tutti i nostri sensi e lo stesso corpo devono rimanere assolutamente sottomessi». È la ragione che distingue l’uomo dall’animale, per cui bisogna guardarsi bene dall’imitare «le bertucce e le scimmie che sono sempre immusonite, tristi e lamentose quando manca la luna; poi, al contrario, alla luna nuova, saltano, danzano, e fanno tutte le smorfie possibili». È necessario far regnare «l’autorità della ragione», ribadisce Francesco di Sales.
            Fra la parte superiore dello spirito, che deve regnare, e la parte inferiore del nostro essere, designata a volte da Francesco di Sales col termine biblico di «carne», la lotta talvolta diventa aspra. Ogni fronte ha i suoi alleati. Lo spirito, «fortezza dell’anima», è accompagnato «da tre soldati: l’intelletto, la memoria e la volontà». Attenti dunque alla «carne» che complotta e cerca alleati sul posto:

La carne usa ora l’intelletto, ora la volontà, ora l’immaginazione, le quali associandosi contro la ragione, le lasciano libero il campo, creando divisione e facendo un cattivo servizio alla ragione. […] La carne alletta la volontà a volte coi piaceri, a volte con le ricchezze; ora sollecita l’immaginazione a campare pretese, ora suscita nell’intelletto una grande curiosità, il tutto col pretesto del bene.

            In questa lotta, anche quando tutte le passioni dell’anima sembrano sconvolte, niente è perduto fin tanto che lo spirito resiste: «Se questi soldati fossero fedeli, lo spirito non avrebbe alcun timore e non darebbe alcun peso ai propri nemici: come soldati che, disponendo di sufficienti munizioni, resistono nel bastione di una fortezza imprendibile, nonostante che i nemici si trovino nei sobborghi o addirittura abbiano già preso anche la città; è capitato alla cittadella di Nizza, davanti alla quale la forza di tre grandi principi non l’ha spuntata contro la resistenza dei difensori». La causa di tutte queste interiori lacerazioni è l’amore proprio. In effetti, «i nostri ragionamenti ordinariamente sono pieni di motivazioni, opinioni e considerazioni suggerite dall’amor proprio, e ciò causa grandi conflitti nell’anima».
            In ambito educativo, è importante far sentire la superiorità dello spirito. «Qui sta il principio di un’educazione umana – dice il padre Lajeunie –: mostrare al fanciullo, appena la sua ragione si sveglia, ciò che è bello e buono, e distoglierlo da ciò che è cattivo; creare in questo modo nel suo cuore l’abitudine di controllare i suoi riflessi istintivi, invece di seguirli servilmente; è così, infatti, che si forma questo processo di sensualizzazione che lo rende schiavo dei suoi desideri spontanei. Al momento di scelte decisive, tale abitudine di cedere sempre, senza controllarsi, alle pulsioni istintive può rivelarsi catastrofica».

L’intelletto, “occhio dell’anima”
            L’intelletto, facoltà tipicamente umana e razionale, la quale consente di conoscere e comprendere, sovente è paragonato alla vista. Si afferma per esempio: «Io vedo», per dire: «Io comprendo». Per Francesco di Sales, l’intelletto è “l’occhio dell’anima”; di qui la sua espressione «l’occhio del vostro intelletto». L’incredibile attività di cui è capace, lo rende simile a «un operaio, il quale, con le centinaia di migliaia di occhi e di mani, come un altro Argo, compie più opere di tutti i lavoratori del mondo, perché non c’è niente nel mondo che non sia in grado di rappresentare».
            Come funziona l’intelletto umano? Francesco di Sales ne ha analizzato con precisione le quattro operazioni di cui è capace: il semplice pensiero, lo studio, la meditazione e la contemplazione. Il semplice pensiero si esercita su una grande diversità di cose, senza alcun fine, «come fanno le mosche che si posano sui fiori senza volerne estrarre alcun succo, ma soltanto perché li incontrano». Quando l’intelletto passa da un pensiero all’altro, i pensieri che così lo stipano sono d’ordinario «inutili e dannosi». Lo studio, al contrario, mira a considerare le cose «per conoscerle, per comprenderle e per parlarne bene, con lo scopo di «riempirne la memoria», come fanno li maggiolini che «si posano sulle rose per nessun altro fine se non per saziarsene e riempirsene il ventre».
            Francesco di Sales poteva fermarsi qui, ma conosceva e raccomandava altre due forme più elevate. Mentre lo studio mira a aumentare le conoscenze, la meditazione ha come scopo quello di «muovere gli affetti e, in particolare, l’amore»: «Fissiamo il nostro intelletto sul mistero dal quale speriamo di poter attingere buoni affetti», come la colomba che “tuba trattenendo il respiro e, mediante il brontolio che produce in gola senza lasciarne uscire il respiro, produce il suo tipico canto”.
            L’attività suprema dell’intelletto è la contemplazione, la quale consiste nel gioire del bene conosciuto tramite la meditazione e amato mediante tale conoscenza; questa volta assomigliamo agli uccellini che si trastullano nella gabbia soltanto per “far piacere al maestro». Con la contemplazione lo spirito umano giunge al suo vertice; l’autore del Teotimo afferma che la ragione «vivifica infine l’intelletto con la contemplazione”.
            Ritorniamo allo studio, l’attività intellettuale che ci interessa più da vicino. “C’è un vecchio assioma dei filosofi, secondo cui ogni uomo desidera conoscere”. Riprendendo da parte sua questa affermazione di Aristotele, come pure l’esempio di Platone, Francesco di Sales intende dimostrare che ciò costituisce un grande privilegio. Ciò che l’uomo vuol conoscere è la verità. La verità è più bella di quella «famosa Elena, per la cui bellezza morirono tanti Greci e Troiani». Lo spirito è fatto per la ricerca della verità: «La verità è l’oggetto del nostro intelletto, il quale, di conseguenza, scoprendo e conoscendo la verità delle cose, si sente pienamente appagato e contento». Quando lo spirito trova qualcosa di nuovo, ne prova una gioia intensa, e quando si incomincia a trovare qualche cosa di bello, si è spinti a continuare la ricerca, «come coloro che hanno trovato una miniera d’oro e si spingono sempre più avanti per trovarne ancora di più, di questo prezioso metallo». Lo stupore che produce la scoperta è un potente stimolo; «l’ammirazione, infatti, ha dato l’origine alla filosofia e all’attenta ricerca delle cose naturali». Essendo Dio la verità suprema, la conoscenza di Dio è la scienza suprema che riempie il nostro spirito. È lui che ci «ha donato l’intelletto per conoscerlo»; fuori di lui ci sono soltanto «pensieri vani e riflessioni inutili!»

Coltivare la propria intelligenza
            Ciò che caratterizza l’uomo è il grande desiderio di conoscere. È stato questo desiderio «a indurre il grande Platone a uscire da Atene e correre tanto», e «a indurre questi antichi filosofi a rinunciare alle loro comodità corporali». Certuni giungono perfino a digiunare diligentemente «per poter studiare meglio». Lo studio, infatti, produce un piacere intellettuale, superiore ai piaceri sensuali e difficile da fermare: «L’amore intellettuale, trovando nell’unione con il suo oggetto una contentezza insperata, ne perfeziona la conoscenza, continuando così ad unirvisi, e unendosi sempre più, non smette dal continuare a farlo».
            Si tratta di «illuminare bene l’intelletto», sforzandosi di «purgarlo» dalle tenebre dell’«ignoranza». Egli denuncia «l’ottusità e l’indolenza di spirito, che non vuole sapere ciò che è necessario» e insiste sul valore dello studio e dell’apprendimento: «Studiate sempre di più, con diligenza e umiltà», scriveva a uno studente. Ma non basta «purgare» l’intelletto dall’ignoranza, occorre inoltre «abbellirlo e ornarlo», «tappezzarlo di considerazioni». Per conoscere perfettamente una cosa, è necessario imparare bene, dedicare del tempo ad «assoggettare» l’intelletto, cioè a fissarlo su una cosa, prima di passare ad un’altra.
            Il giovane Francesco di Sales applicava la sua intelligenza non soltanto agli studi e a conoscenze intellettuali, ma anche a certi soggetti essenziali per la vita dell’uomo sulla terra, e, in particolare, alla «considerazione della vanità della grandezza, delle ricchezze, degli onori, delle comodità e dei piaceri voluttuosi di questo mondo»; alla «considerazione della nefandezza, abiezione e deplorabile miseria, presenti nel vizio e nel peccato», e alla «conoscenza dell’eccellenza della virtù».
            Lo spirito umano è sovente distratto, dimentica, si accontenta d’una conoscenza vaga o vana. Mediante la meditazione, non soltanto delle verità eterne, ma anche dei fenomeni e degli avvenimenti del mondo, è in grado di raggiungere una visione più realista e più profonda della realtà. Per questo motivo, nelle Meditazioni proposte dall’autore a Filotea, vi è dedicata una prima parte intitolata Considerazioni.
            Considerare significa applicare lo spirito a un oggetto preciso, esaminarne con attenzione i suoi diversi aspetti. Francesco di Sales invita Filotea a «pensare», a «vedere», a esaminare i differenti «punti», alcuni dei quali meritano di essere considerati «a parte». Esorta a vedere le cose in generale e a discendere poi ai casi particolari. Vuole che si esaminino i principi, le cause e le conseguenze di una determinata verità, di una data situazione, come pure le circostanze che l’accompagnano. Occorre anche saper «pesare» certe parole o sentenze, la cui importanza rischia di sfuggirci, considerarle una ad una, confrontarle l’una con l’altra.
            Come in ogni cosa, così nel desiderio di conoscere ci possono essere eccessi e deformazioni. Attenti alla vanità di falsi sapienti: certuni, infatti, «per il poco di scienza che hanno, vogliono essere onorati e rispettati da tutti, come se ognuno dovesse andare alla loro scuola e averli per maestri: perciò li si chiama pedanti». Ora, «la scienza ci disonora quando ci gonfia e degenera in pedanteria». Che ridicolaggine voler istruire Minerva, Minervam docere, la dea della saggezza! «La peste della scienza è la presunzione, che gonfia gli spiriti e li rende idropici, come sono d’ordinario i sapienti del mondo».
            Quando si tratta di problemi che ci superano e che rientrano nell’ambito dei misteri della fede, è necessario «purificarli da ogni curiosità», bisogna «tenerli ben chiusi e coperti di fronte a tali vane e sciocche questioni e curiosità». È la «purità intellettuale», la «seconda modestia» o l’«interiore modestia». Infine si deve sapere che l’intelletto può sbagliarsi e che esiste il «peccato dell’intelletto», come quello che Francesco di Sales rimprovera alla signora di Chantal, la quale aveva commesso un errore riponendo un’esagerata stima nel suo direttore.

La memoria e i suoi «magazzini»
            Come l’intelletto, così la memoria è una facoltà dello spirito che suscita ammirazione. Francesco di Sales la paragona a un magazzino «che vale più di quelli di Anversa o di Venezia». Non si dice forse «immagazzinare» nella memoria? La memoria è un soldato la cui fedeltà ci è assai utile. È un dono di Dio, dichiara l’autore dell’Introduzione alla vita devota: Dio ve l’ha donata «perché vi ricordiate di lui», dice a Filotea, invitandola a fuggire «i ricordi detestabili e frivoli».
            Questa facoltà dello spirito umano ha bisogno di essere allenata. Quando era studente a Padova, il giovane Francesco esercitava la sua memoria non soltanto negli studi, ma anche nella vita spirituale, nella quale la memoria dei benefici ricevuti è un elemento fondamentale:

Prima di ogni cosa, mi dedicherò a rinfrescare la mia memoria con tutti i buoni moti, desideri, affetti, propositi, progetti, sentimenti e dolcezze che in passato la divina Maestà m’ha ispirato e fatto sperimentare, considerando i suoi santi misteri, la bellezza della virtù, la nobiltà del suo servizio e un’infinità di benefici che mi ha liberamente elargito; metterò pure ordine nei miei ricordi circa gli obblighi che ho verso di lei per il fatto che, per la sua santa  grazia, a volte ha debilitato i miei sensi inviandomi certe malattie e infermità, dalle quali ho tratto grande profitto.

            Nelle difficoltà e nelle paure è indispensabile servirsene «per ricordarsi delle promesse» e per «restare saldi confidando che tutto perirà piuttosto che le promesse vengano meno». Tuttavia, la memoria del passato non è sempre buona, perché può ingenerare tristezza, come capitò a un discepolo di san Bernardo, che fu assalito da una brutta tentazione quando incominciò «a ricordare gli amici del mondo, i parenti, i beni che aveva lasciato». In certe circostanze eccezionali della vita spirituale «è necessario purificarla dal ricordo di cose caduche e da affari mondani e dimenticare per un certo tempo le cose materiali e temporali, benché buone e utili». In campo morale, per esercitare la virtù, la persona che si è sentita offesa prenderà una misura radicale: «Mi ricordo troppo delle frecciate e ingiurie, d’ora in poi perderò la memoria».

«Dobbiamo avere uno spirito giusto e ragionevole»
            Le capacità dello spirito umano, in particolare dell’intelletto e della memoria, non sono destinate soltanto a gloriose imprese intellettuali, ma anche e soprattutto alla condotta della vita. Cercare di conoscere l’uomo, di comprendere la vita e definire le norme riguardanti i comportamenti conformi alla ragione, questi dovrebbero essere i compiti fondamentali dello spirito umano e della sua educazione. La parte centrale della Filotea, che tratta dell’«esercizio delle virtù», contiene, verso la fine, un capitolo che riassume in certo modo l’insegnamento di Francesco di Sales sulle virtù: «Dobbiamo avere uno spirito giusto e ragionevole».
            Con finezza e un pizzico di umore, l’autore denuncia numerose condotte bizzarre, folli o semplicemente ingiuste: «Accusiamo il prossimo per poco, e scusiamo noi stessi per molto di più»; «vogliamo vendere con un prezzo alto e comperare a buon mercato»; «ciò che facciamo per gli altri ci sembra sempre molto, e ciò che fanno gli altri per noi è niente»; «abbiamo un cuore dolce, grazioso e cortese verso di noi, e un cuore duro, severo e rigoroso verso il prossimo»; «abbiamo due pesi: l’uno per pesare le nostre comodità con il maggior vantaggio possibile per noi, l’altro per pesare quelle del prossimo con il maggior svantaggio che si può». Per giudicare bene, consiglia a Filotea, è necessario sempre mettersi nei panni del prossimo: «Fatevi venditrice nel comperare e compratrice nel vendere». Non si perde nulla a vivere da persone «generose, nobili, cortesi, con un cuore regale, costante e ragionevole».
            La ragione sta alla base dell’edificio dell’educazione. Certi genitori non hanno un atteggiamento mentale giusto; infatti, «ci sono ragazzi virtuosi che padri e madri non riescono quasi a sopportare perché hanno questo o quel difetto nel corpo; ce ne sono invece di viziosi continuamente coccolati, perché hanno questa o quella bella dote fisica». Ci sono educatori e responsabili che si lasciano andare a preferenze. «Tenete la bilancia ben diritta fra le vostre figlie», raccomandava a una superiora delle visitandine, affinché «i doni naturali non vi facciano distribuire ingiustamente gli affetti e i favori». E aggiungeva: «La bellezza, la buona grazia e la parola garbata conferiscono spesso una grande forza d’attrattiva alle persone che vivono secondo le loro inclinazioni naturali; la carità ha come oggetto la vera virtù e la bellezza del cuore, e si estende a tutti senza particolarismi».
            Ma è soprattutto la gioventù quella che corre i rischi maggiori, perché se «l’amor proprio ci allontana solitamente dalla ragione», ciò avviene forse ancor di più nei giovani tentati dalla vanità e dall’ambizione. La ragione di un giovane rischia di perdersi soprattutto quando si lascia «prendere da innamoramenti». Attenzione dunque, scrive il vescovo a un giovane, «a non permettere ai vostri affetti di prevenire il giudizio e la ragione nella scelta dei soggetti da amare; poiché, una volta che si è messo in corsa, l’affetto trascina il giudizio, come si trascinerebbe uno schiavo, a scelte molto deplorevoli, di cui potrebbe pentirsi assai presto». Spiegava pure alle visitandine che «i nostri pensieri sono solitamente pieni di ragioni, opinioni e considerazioni suggerite dall’amor proprio, che causa grandi conflitti nell’anima».

La ragione, fonte delle quattro virtù cardinali
            La ragione assomiglia al fiume del paradiso, «che Dio fa scorrere per irrigare tutto l’uomo in tutte le sue facoltà e attività»; esso si divide in quattro bracci corrispondenti alle quattro virtù che la tradizione filosofica chiama virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.
            La prudenza «inclina il nostro intelletto a discernere veramente il male da evitare e il bene da compiere». Essa consiste nel «discernere quali sono i mezzi più appropriati per raggiungere il bene e la virtù». Attenzione alle passioni che rischiano di deformare il nostro giudizio e di provocare la rovina della prudenza! La prudenza non si oppone alla semplicità: saremo, congiuntamente, «prudenti come serpenti per non essere ingannati; semplici come colombe per non ingannare nessuno».
            La giustizia consiste nel «rendere a Dio, al prossimo e a sé stessi ciò che si deve». Francesco di Sales inizia con la giustizia verso Dio, connessa con la virtù della religione, «mediante la quale rendiamo a Dio il rispetto, l’onore, l’omaggio e la sottomissione a lui dovuti come nostro sovrano Signore e primo principio». La giustizia verso i genitori comporta il dovere della pietà, la quale «si estende a tutti gli uffici che si possono legittimamente rendere loro, sia in onore, sia in servizio».
            La virtù della fortezza aiuta a «superare le difficoltà che si incontrano nel compiere il bene e nel respingere il male». È ben necessaria, perché l’appetito sensitivo è «davvero un soggetto ribelle, sedizioso, turbolento». Quando la ragione domina le passioni, l’ira lascia il posto alla dolcezza, grande alleata della ragione. La fortezza è accompagnata spesso dalla magnanimità, «una virtù che ci spinge e inclina a compiere azioni di grande rilievo».
            Infine la temperanza è indispensabile «per reprimere le inclinazioni disordinate della sensualità», per «governare l’appetito dell’avidità» e «frenare le passioni connesse». In effetti, se l’anima si appassiona troppo ad un piacere e a una gioia sensibile, si degrada rendendosi incapace di gioie più elevate.
            In conclusione, le quattro virtù cardinali sono come le manifestazioni di questa luce naturale che ci fornisce la ragione. Praticando queste virtù, la ragione esercita «la sua superiorità e l’autorità che ha di regolare gli appetiti sensuali».




Educare le nostre emozioni con san Francesco di Sales

La psicologia moderna ha dimostrato l’importanza e l’influsso delle emozioni nella vita della psiche umana e ognuno sa che le emozioni sono particolarmente forti durante la giovinezza. Ma non si parla quasi più delle «passioni dell’anima», che l’antropologia classica ha analizzato accuratamente, come testimonia l’opera di Francesco di Sales, e, in particolare, quando scrive che «l’anima, in quanto tale, è la sorgente delle passioni». Nel suo vocabolario il termine «emozione» non appare ancora con le connotazioni che gli attribuiamo. Dirà, invece, che le nostre «passioni» in certe circostanze sono «mosse». In ambito educativo, la questione che si pone riguarda l’atteggiamento che conviene avere di fronte a queste manifestazioni involontarie della nostra sensibilità, che hanno sempre una componente fisiologica.

«Io sono un povero uomo e nulla più»
            Tutti coloro che hanno conosciuto Francesco di Sales hanno notato la sua grande sensibilità e emotività. Gli saliva il sangue alla testa e il volto diventava tutto rosso. Conosciamo i suoi scatti d’ira contro gli «eretici» e la cortigiana di Padova. Come ogni buon Savoiardo, era «abitualmente calmo e dolce, ma capace di terribili scatti d’ira; un vulcano sotto la neve». La sua sensibilità era assai viva. In occasione della morte della sorellina Jeanne, scriveva a Giovanna di Chantal, anch’essa costernata:

Ahimè, Figlia mia: io sono un povero uomo e nulla più. Il mio cuore s’è intenerito più di quanto non avrei mai immaginato; ma la verità è che vi ha contribuito assai il dispiacere vostro e di mia madre: ho avuto paura per il cuore vostro e per quello di mia madre.

            Alla morte della madre, non nascose che quella separazione gli aveva fatto versare lacrime; ebbe certo il coraggio di chiuderle gli occhi e la bocca e di darle un ultimo bacio, ma dopo ciò, confidava a Giovanna di Chantal, «il cuore mi si gonfiò grandemente, e piansi per questa buona madre più di quanto non avessi mai fatto dal giorno in cui abbracciai il sacerdozio». Egli, infatti, non frenava sistematicamente le manifestazioni esteriori dei suoi sentimenti, il suo umanesimo le accettava tranquillamente. Una preziosa testimonianza di Giovanna di Chantal ci informa che «il nostro santo non era esente da sentimenti e da moti delle passioni, e non voleva esserne liberato».
            Si sa bene che le passioni dell’anima influiscono sul corpo, provocando reazioni esteriori ai loro movimenti interiori: «Noi esterniamo e manifestiamo le nostre passioni e i movimenti che le nostre anime hanno in comune con gli animali per mezzo degli occhi, con movimenti delle sopracciglia, della fronte e di tutto il volto». Così, non è in nostro potere non provare paura in determinate circostanze: «È come se uno dicesse ad una persona che si vede venire contro un leone od un orso: Non aver paura». Ora, «quando si prova timore si diventa pallidi, e quando veniamo richiamati per una cosa che ci contraria, ci sale il sangue al volto e diventiamo rossi, oppure la contrarietà può anche far sgorgare lacrime dai nostri occhi». I bambini, «se vedono un cane che abbaia, immediatamente si mettono a gridare e non smettono finché non sono vicini alla mamma».
            Quando la signora di Chantal incontrerà l’assassino del marito, come reagirà il suo «cuore»? «So che, senza dubbio, cotesto vostro cuore sobbalzerà e si sentirà sconvolto, e il vostro sangue bollirà», prevede il suo direttore spirituale, aggiungendo questa lezione di saggezza: «Dio ci fa toccare con mano, in queste emozioni, quanto sia vero che siamo fatti di carne, di ossa e di spirito».

Le dodici passioni dell’anima
            Nell’antichità, Virgilio, Cicerone e Boezio riducevano a quattro le passioni dell’anima, mentre sant’Agostino conosceva una sola passione dominante, l’amore, articolato a sua volta in quattro passioni secondarie: «L’amore che tende a possedere ciò che ama, si chiama cupidigia o desiderio; quando lo consegue e lo possiede, si chiama gioia; quando fugge ciò che gli è contrario, si chiama timore; se gli capita di perderlo e ne sente il peso, si chiama tristezza».
            Nella Filotea, Francesco di Sales ne segnala sette, paragonandole alle corde che il liutaio deve di volta in volta accordare: l’amore, l’odio, il desiderio, il timore, la speranza, la tristezza e la gioia.
            Nel Teotimo, invece, ne enumera fino a dodici. Stupisce che «questa moltitudine di passioni […] sia lasciata nelle nostre anime!». Le prime cinque hanno per oggetto il bene, ossia tutto ciò che la nostra sensibilità ci fa spontaneamente cercare e apprezzare come buono per noi (pensiamo ai beni fondamentali della vita, della salute e della gioia):

Se il bene viene considerato in sé stesso, secondo la sua bontà naturale, genera l’amore, prima e principale passione; se il bene viene considerato in quanto mancante, provoca il desiderio; se, desiderandolo, si pensa di poterlo conseguire, si ha la speranza; se si teme di non poterlo ottenere, si entra nella disperazione; e quando, di fatto, lo si possiede, si ha la gioia.

            Le altre sette passioni sono quelle che ci fanno spontaneamente reagire negativamente di fronte a tutto ciò che ci appare come male da evitare e da combattere (pensiamo alla malattia, alla sofferenza e alla morte):

Appena conosciamo il male, lo odiamo; se è assente, lo fuggiamo; se pensiamo di non poterlo evitare, lo temiamo; se riteniamo di poterlo evitare, ci facciamo animo e coraggio; ma se lo sentiamo presente, ci rattristiamo, e allora l’ira e il cruccio intervengono repentinamente per respingerlo e allontanarlo o almeno vendicarsene; e, se ciò non è fattibile, rimaniamo nella tristezza; ma, se riusciamo a respingerlo o a farne vendetta, proviamo soddisfazione e un senso di pace, che è piacere del trionfo, perché come il possesso del bene rallegra il cuore, la vittoria sul male soddisfa il coraggio.

            Come si vede, alle undici passioni dell’anima proposte da san Tommaso, Francesco di Sales aggiunge la vittoria sul male, che «soddisfa il coraggio» e provoca la gioia del trionfo.

L’amore, prima e principale passione
            Come era facile prevedere, l’amore è presentato come la «prima e principale passione»: «L’amore viene al primo posto, fra le passioni dell’anima: è il re di tutti i moti del cuore, trasforma in sé tutto il resto e ci fa essere ciò che esso ama». «L’amore è la prima passione dell’anima», ripete.
            Esso si manifesta in mille maniere e il suo linguaggio è assai diversificato; infatti, «non si esprime soltanto a parole, ma anche con gli occhi, con i gesti e con le azioni. Per quello che riguarda gli occhi, le lacrime che ne sgorgano sono prove d’amore». Ci sono pure i «sospiri d’amore». Ma tali manifestazioni dell’amore sono differenti. La più abituale e superficiale è l’emozione o passione, la quale mette in moto quasi involontariamente la sensibilità.
            E l’odio? Odiamo spontaneamente ciò che ci appare come un male. Occorre sapere che, tra le persone, ci sono forme di odio e avversioni istintive, irrazionali, inconsapevoli, come quelle esistenti tra il mulo e il cavallo, tra la vigna e i cavoli. Non ne siamo per nulla responsabili, perché non dipendono dalla nostra volontà.

Il desiderio e la fuga
            Il desiderio è un’altra realtà fondamentale della nostra psiche. La vita quotidiana provoca molteplici desideri, perché il desiderio consiste nella «speranza di un bene futuro». I più comuni desideri naturali sono quelli che «riguardano i beni, i piaceri e gli onori».
            All’opposto, noi fuggiamo spontaneamente i mali della vita. La volontà umana di Cristo lo spingeva a fuggire i dolori e le sofferenze della passione; di qui il tremore, l’angoscia e il sudare sangue.

La speranza e la disperazione
            La speranza concerne un bene che si pensa di poter ottenere. Filotea è invitata a esaminare come si è comportata in riferimento alla «speranza, forse troppo spesso riposta nel mondo e nella creatura, e troppo poco in Dio e nelle cose eterne».
            Quanto alla disperazione, guardate per esempio quella dei «giovani aspiranti alla perfezione»: «Appena incontrano una difficoltà sul loro cammino, eccoti subito una sensazione di disappunto, che li spinge a fare un mucchio di lamentele, tale da dare l’impressione di essere travagliati da grandi tormenti. L’orgoglio e la vanità non possono tollerare il minimo difetto, senza sentirsi subito fortemente turbati sino a giungere alla disperazione».

La gioia e la tristezza
            La gioia è «la soddisfazione per il bene ottenuto». Così, «quando incontriamo quelli che amiamo, non è possibile non sentirsi commossi per la gioia e la contentezza». Il possesso di un bene produce infallibilmente una compiacenza o allegrezza, come la legge di gravità muove la pietra: «È il peso che scuote le cose, le muove e le ferma: è il peso che muove la pietra e la trascina nella discesa non appena vengono tolti gli ostacoli; è lo stesso peso che le fa continuare il movimento verso il basso; infine, è sempre lo stesso peso che la fa arrestare ed assestarsi quando è giunta al suo posto».
            La gioia giunge talvolta al riso. «Il riso è una passione che erompe senza che lo vogliamo e non è in nostro potere trattenerlo, tanto più che ridiamo e siamo mossi a ridere da circostanze impreviste». Nostro Signore ha riso? Il vescovo di Ginevra pensa che Gesù sorrideva quando voleva: «Nostro Signore non poteva ridere, perché per lui nulla era imprevisto, dato che conosceva tutto prima che avvenisse; poteva, certo, sorridere, ma lo faceva volutamente».
            Le giovani visitandine, prese a volte da un incontenibile riso quando una compagna si batteva il petto o una lettrice commetteva un errore durante la lettura a tavola, avevano bisogno di una lezioncina su questo punto: «I pazzi ridono di ogni situazione, perché tutto li sorprende, non riuscendo a prevedere nulla; ma i saggi non ridono con tanta leggerezza, perché impiegano maggiormente la riflessione, la quale fa sì che prevedano le cose che devono accadere». Detto ciò, non è un difetto ridere di qualche imperfezione, «purché non si vada troppo oltre».
            La tristezza è «il dolore per un male presente». Essa «turba l’anima, provoca timori smodati, fa provare disgusto per la preghiera, fiacca e addormenta il cervello, priva l’anima di saggezza, di risoluzione, di giudizio e coraggio e annienta le forze»; è «come un duro inverno che rovina tutta la bellezza della terra e rende indolenti tutti gli animali; perché toglie ogni soavità dall’anima e la rende come pigra e impotente in tutte le sue facoltà».
            Può sfociare in certi casi nel pianto: un padre, all’atto di inviare il figlio a corte o agli studi, non può trattenersi «dal piangere congedandosi da lui»; e «una figlia, benché si sia sposata secondo i desideri del padre e della madre, li commuove fino alle lacrime al momento di riceverne la benedizione». Alessandro Magno pianse quando venne a sapere che c’erano altre terre che non avrebbe mai potuto conquistare: «Come un bambino che frigna per una mela che gli si nega, quell’Alessandro, che gli storici chiamano il Grande, più folle di un bambino, si mette a piangere a calde lacrime, perché gli sembra impossibile conquistare gli altri mondi».

Il coraggio e la paura
            Il timore si riferisce a un «male futuro». Certuni, volendo fare i coraggiosi, si aggirano da qualche parte durante la notte, ma «appena sentono cadere un sasso o il fruscio di un sorcio che scappa, si mettono ad urlare: Dio mio! – Che cosa c’è, si chiede loro, che cosa avete trovato? – Ho sentito un rumore.  – Ma che cosa? – Non lo so». È necessario essere guardinghi, perché «la paura è un male più grande del male stesso».
            Quanto al coraggio, prima di essere una virtù, è un sentimento che ci sostiene davanti a difficoltà che normalmente dovrebbero abbatterci. Francesco di Sales lo provò all’atto di intraprendere una lunga e rischiosa visita della sua diocesi di montagna:

Sono sul punto di montare a cavallo per la visita pastorale, che durerà circa cinque mesi. […] Parto pieno di coraggio, e, fin da questa mattina, ho provato una grande gioia di poter cominciare, sebbene, prima, per vari giorni, avessi provato vani timori e tristezze.

La collera e il sentimento del trionfo
            Quanto all’ira o collera, non possiamo impedire dall’esserne presi in certe circostanze: «Se mi vengono a dire che qualcuno ha parlato male di me, o che mi venga causata altra contrarietà, immediatamente scoppia la collera e non mi rimane nemmeno una vena che non si contorca, perché il sangue ribolle». Perfino nei monasteri della Visitazione le occasioni di irritarsi e arrabbiarsi non mancavano, e si sentivano prepotenti gli attacchi dell’«appetito irascibile». Niente di strano in ciò: «Impedire che il risentimento della collera si svegli in noi e che il sangue ci salga alla testa, non sarà mai possibile; saremo fortunati se potremo avere questa perfezione un quarto d’ora prima di morire». Può anche succedere «che l’ira sconvolga e metta sottosopra il mio povero cuore, che la testa mi fumi da tutte le parti, che il sangue ribolla come una pentola sul fuoco».
            L’appagamento dell’ira, per aver superato il male, provoca l’esaltante emozione del trionfo. Colui che trionfa «non può contenere il trasporto della sua gioia».

Alla ricerca dell’equilibrio
            Le passioni e i moti dell’anima sono il più delle volte indipendenti dal nostro volere: «Non si pretende da voi che non abbiate passioni; non è in vostro potere», diceva alle figlie della Visitazione, aggiungendo: «Che cosa può fare una persona per avere tale o tal altro temperamento, soggetto a questa o quella passione? Tutto sta dunque nelle azioni che ne facciamo derivare per mezzo di quel movimento, che dipende dalla nostra volontà».
            Una cosa è sicura, i moti d’animo e le passioni fanno dell’uomo un essere estremamente soggetto a variazioni della «temperatura» psicologica, ad immagine delle variazioni climatiche. «La sua vita scorre su questa terra come le acque, fluttuando e ondeggiando in una perpetua varietà di movimenti». «Oggi si sarà felici all’eccesso, e, subito dopo, esageratamente tristi. In tempo di carnevale si vedranno manifestazioni di gioia e di allegria, con azioni sciocche e pazzoidi, poi, subito dopo, vedrete segni di tristezza e di tedio così esagerati da far pensare che si tratti di cose terribili e, all’apparenza, irrimediabili. Un altro, al presente, sarà troppo fiducioso e nulla lo spaventerà, e, subito dopo, verrà preso da un’angoscia che lo sprofonderà fin sotto terra».
            Il direttore spirituale di Giovanna di Chantal ha individuato bene le diverse «stagioni dell’anima» attraversate da costei agli inizi della sua fervorosa vita:

Vedo che si trovano nella vostra anima tutte le stagioni dell’anno. Ora sentite l’inverno attraverso le molte sterilità, distrazioni, pesantezze e noie; ora le rugiade del mese di maggio col profumo dei santi fiorellini, e ora il calore dei desideri di piacere al nostro buon Dio. Non resta che l’autunno del quale, come dite, non vedete molti frutti. Orbene, spesso avviene che, trebbiando il grano o pigiando l’uva, si trova un frutto più abbondante di quanto promettessero le messi e la vendemmia. Voi vorreste che fosse sempre primavera o estate; ma no, Figlia mia: bisogna che avvenga l’avvicendamento delle stagioni nel nostro interiore come nel nostro esteriore. Solo in cielo tutto sarà primavera quanto alla bellezza, tutto sarà autunno quanto al godimento e tutto sarà estate quanto all’amore. Lassù, non vi sarà più inverno, ma qui esso è necessario per l’esercizio dell’abnegazione e di mille piccole e belle virtù, che si esercitano nel tempo delle aridità.

            La salute dell’anima come quella del corpo non può consistere nell’eliminare questi quattro umori, ma nel raggiungere una «invariabilità d’umore». Quando una passione predomina sulle altre, causa le malattie dell’anima; e siccome è oltremodo difficile regolarla, ne deriva che gli uomini sono bizzarri e variabili, per cui non si scorge altro tra loro se non fantasie, incostanze e stupidità.
            Le passioni hanno di buono il fatto di consentirci «d’esercitare la volontà nell’acquisto della virtù e nella vigilanza spirituale». Nonostante certe manifestazioni, nelle quali si deve «soffocare e reprimere le passioni», per Francesco di Sales non si tratta di eliminarle, cosa impossibile, ma di controllarle come più si può, cioè moderarle e orientarle a un fine che sia buono.
            Non si tratta, quindi, di fingere di ignorare le nostre manifestazioni psichiche, come se non esistessero (ciò che ancora una volta è impossibile), ma di «vegliare in continuazione sul proprio cuore e sul proprio spirito per mantenere le passioni nella norma e sotto il controllo della ragione; altrimenti si avranno soltanto originalità e comportamenti disuguali». Filotea non sarà felice, se non quando avrà «sedato e pacificato tante passioni che [le] provocavano inquietudine».
            Avere uno spirito costante è uno dei migliori ornamenti della vita cristiana e uno dei più amabili mezzi per acquistare e conservare la grazia di Dio, e anche per edificare il prossimo. «La perfezione, quindi, non consiste nell’assenza delle passioni, bensì nel loro corretta regolazione; le passioni stanno al cuore come le corde a un’arpa: bisogna che siano accordate perché possiamo dire: Ti loderemo con l’arpa».
            Quando le passioni ci fanno perdere l’equilibrio interiore e esteriore, due metodi sono possibili: «opponendovi passioni contrarie, oppure opponendovi maggiori passioni della stessa specie». Se sono turbato dal «desiderio delle ricchezze o del piacere voluttuoso», combatterò tale passione con il disprezzo e la fuga, oppure aspirerò a ricchezze e piaceri superiori. Posso lottare contro la paura fisica con il contrario che è il coraggio, oppure sviluppando un timore salutare riguardante l’anima.
            L’amore di Dio, da parte sua, imprime alle passioni una vera e propria conversione, cambiandone l’orientamento naturale e prospettando loro un fine spirituale. Per esempio, «l’appetito per i cibi viene reso molto spirituale se, prima di appagarlo, gli si dà il motivo dell’amore: e no, Signore, non è per accontentare questo povero ventre, né per appagare questo appetito che vado a tavola, ma, secondo la tua Provvidenza, per mantenere questo corpo che tu hai fatto soggetto a tale miseria; sì, Signore, perché così è piaciuto a te».
            La trasformazione così operata somiglierà a un «artificio» utilizzato nell’alchimia che cambia il ferro in oro. «O santa e sacra alchimia! – scrive il vescovo di Ginevra –, o polvere divina della fusione, con la quale tutti i metalli delle nostre passioni, affetti e azioni vengono mutati nell’oro purissimo della celeste dilezione!».
            Moti dell’animo, passioni e immaginazioni sono profondamente radicati nell’anima umana: rappresentano una risorsa eccezionale per la vita dell’anima. Sarà compito delle facoltà superiori, la ragione e soprattutto la volontà, moderarle e governarle. Impresa difficile; Francesco di Sales l’ha compiuta con successo, perché, secondo quanto afferma la madre di Chantal, «possedeva un tale assoluto dominio delle sue passioni da renderle obbedienti come schiave; e alla fine non comparivano quasi più».




Educare il corpo e i suoi 5 sensi con san Francesco di Sales

            Un buon numero di antichi asceti cristiani hanno sovente considerato il corpo come un nemico, la cui corruzione doveva essere combattuta, anzi, come un oggetto di disprezzo e da tener in nessun conto. Numerosi uomini spirituali del Medioevo non si preoccupavano del corpo se non per infliggergli penitenze. Nella maggioranza delle scuole del tempo, niente era previsto per far riposare “fratello asino”.
            Per Calvino, la natura umana totalmente corrotta dal peccato originale, non poteva essere altro se non un “immondezzaio”. Sul fronte opposto, numerosi scrittori e artisti rinascimentali esaltavano il corpo fino al punto di tributargli un culto, nel quale la sensualità aveva un grande rilievo. Rabelais, da parte sua, magnificava il corpo dei suoi giganti e si compiaceva nel metterne in mostra le funzioni organiche anche meno nobili.

Il realismo salesiano
           
Tra la divinizzazione del corpo e il suo disprezzo, Francesco di Sales offre una visione realista della natura umana. Alla fine della prima meditazione sul tema della creazione dell’uomo, “il primo essere del mondo visibile”, l’autore dell’Introduzione alla vita devota mette sulle labbra di Filotea questo proposito che sembra riassumere il suo pensiero: “Voglio sentirmi onorata per l’essere che egli mi ha dato”. Certo, il corpo è votato alla morte. Con crudo realismo l’autore descrive l’addio dell’anima al corpo, che abbandonerà “pallido, livido, disfatto, orrendo e puzzolente”, ma ciò non costituisce una ragione per trascurarlo e denigrarlo ingiustamente mentre è vivo. San Bernardo ha avuto torto quando annunciava a coloro che volevano porsi al suo seguito “che dovevano abbandonare il loro corpo e andare da lui solamente in spirito”. I mali fisici non devono spingere a odiare il corpo: il male morale è assai peggiore.
            Non troviamo affatto in Francesco di Sales l’oblio o la messa in ombra dei fenomeni corporali, come quando parla di diverse forme di malattie o quando evoca le manifestazioni dell’amore umano. In un capitolo del Trattato dell’amor di Dio dal titolo: “L’amore tende all’unione”, egli scrive per esempio che “si applica una bocca sull’altra quando ci si bacia, per testimoniare che si vorrebbe versare un’anima nell’altra, per unirle con un’unione perfetta”. Questo atteggiamento di Francesco di Sales nei confronti del corpo ha suscitato, già al suo tempo, reazioni scandalizzate. Quando apparve la Filotea, un religioso avignonese criticò pubblicamente questo “libretto”, lo fece a pezzi tacciando il suo autore di “dottore corrotto e corruttore”. Nemico del pudore esagerato, Francesco di Sales non conosceva ancora il riserbo e le paure che emergeranno in tempi successivi. Sopravvivono in lui usanze medievali o più semplicemente è una manifestazione del suo gusto “biblico”? Ad ogni modo, in lui non si trova niente di paragonabile alle trivialità dell’“infame” Rabelais.
            I doni naturali più stimati sono la bellezza, la forza e la salute. In riferimento alla bellezza, Francesco di Sales così si esprimeva parlando di santa Brigida: “Nacque in Scozia; era una ragazza molto bella, dato che gli scozzesi sono belli di natura, e in quel Paese si incontrano le più belle creature esistenti”. Pensiamo d’altronde al repertorio di immagini riguardanti le perfezioni fisiche dello sposo e della sposa, prese dal Cantico dei cantici. Benché le rappresentazioni siano sublimate e trasferite su un registro spirituale, rimangono tuttavia significative di un’atmosfera dove si esalta la bellezza naturale dell’uomo e della donna. Si è tentato di fargli sopprimere il capitolo del Teotimo sul bacio, nel quale dimostra che “l’amore tende all’unione”, ma si è sempre rifiutato di farlo. In ogni caso, la bellezza esteriore non è quella più importante: la bellezza della figlia di Sion è interiore.

Stretto legame tra il corpo e l’anima
            Innanzi tutto Francesco di Sales afferma che il corpo è “una parte della nostra persona”. L’anima personificata potrà anche dire con un accento di tenerezza: “Questa carne è la mia cara metà, è mia sorella, è mia compagna, nata con me, nutrita con me”.
            Il vescovo è stato assai attento al legame esistente tra il corpo e l’anima, tra la sanità del corpo e quella dell’anima. Così scrive di una persona da lui diretta, cagionevole di salute, che la salute del suo corpo “dipende molto da quella dell’anima, e quella dell’anima dipende dalle consolazioni spirituali”. “Non è illanguidito il vostro cuore – scriveva a una malata –, bensì il vostro corpo, e, dati i legami strettissimi che li uniscono, il vostro cuore ha l’impressione di provare il male del vostro corpo”. Ognuno può costatare che le infermità corporali “finiscono per creare disagio anche allo spirito, a causa degli stretti vincoli fra l’uno e l’altro”. Inversamente, lo spirito agisce sul corpo fino al punto che “il corpo percepisce gli affetti che si agitano nel cuore”, come avvenne in Gesù, che si sedette al pozzo di Giacobbe, stanco del suo gravoso impegno al servizio del regno di Dio.
            Tuttavia, siccome “il corpo e lo spirito procedono spesso in direzione contraria, e, a misura che l’uno s’indebolisce, l’altro si irrobustisce”, e siccome “lo spirito deve regnare”, “dobbiamo sostenerlo e consolidarlo talmente, che resti sempre il più forte”. Se poi mi prendo cura del corpo è “perché sia al servizio dello spirito”.
            Intanto siamo giusti nei confronti del corpo. In caso di malessere o di sbagli, capita spesso che l’anima accusi il corpo e lo maltratti, come fece Balaam colla sua asina: “O povera anima! se la tua carne potesse parlare, ti direbbe, come l’asina di Balaam: perché batti me, miserabile? È contro di te, anima mia, che Dio arma la sua vendetta, sei tu la criminale”. Quando una persona riforma il suo intimo, la conversione si manifesterà anche esternamente: in tutti gli atteggiamenti, nella bocca, nelle mani e “finanche nei capelli”. La pratica della virtù rende l’uomo bello interiormente e anche esteriormente. Inversamente, un cambiamento esteriore, un comportamento del corpo può favorire un cambio interiore. Un atto di devozione esteriore durante la meditazione può risvegliare la devozione interiore. Ciò che qui è detto della vita spirituale può essere facilmente applicato all’educazione in generale.

Amore e dominio del corpo
            Parlando dell’atteggiamento da avere nei confronti del corpo e delle realtà corporali, non stupisce vedere Francesco di Sales raccomandare a Filotea, come prima cosa, la gratitudine per le grazie corporali che Dio le ha dato.

Dobbiamo amare il nostro corpo per diversi motivi: perché ci è necessario per compiere le buone opere, perché è una parte della nostra persona, e perché è destinato a partecipare alla felicità eterna. Il cristiano deve amare il proprio corpo come un’immagine vivente di quello del Salvatore incarnato, come da lui proveniente per parentela e consanguineità. Soprattutto dopo che abbiamo rinnovato l’alleanza, ricevendo realmente il corpo del Redentore nell’adorabile sacramento dell’eucaristia, e, col battesimo, la confermazione e gli altri sacramenti, ci siamo dedicati e consacrati alla somma bontà.

            L’amore del proprio corpo fa parte dell’amore dovuto a sé stessi. In verità, la ragione più convincente per onorare e usare saggiamente del corpo sta in una visione di fede, che il vescovo di Ginevra così spiegava alla madre di Chantal uscita da una malattia: “Abbiate ancora cura di questo corpo, perché è di Dio, mia carissima Madre”. La Vergine Maria viene presentata a questo punto come modello: “Con quale devozione doveva amare il suo corpo verginale! Non soltanto perché era un corpo dolce, umile, puro, obbediente al santo amore e totalmente impregnato di mille sacri profumi, ma anche perché era la viva sorgente di quello del Salvatore e gli apparteneva molto strettamente, con un legame che non ha confronti”.
            L’amore del corpo è, sì, raccomandato, ma il corpo deve rimanere sottomesso allo spirito, come il servitore al suo maestro. Per controllare l’appetito dovrò “comandare alle mani di non fornire alla bocca cibi e bevande, se non nella giusta misura”. Per governare la sessualità “bisogna togliere o dare alla facoltà della riproduzione i soggetti, gli oggetti e gli alimenti che l’eccitano, secondo i dettami della ragione”. Al giovane che si accinge a “prendere il largo nel vasto mare” il vescovo raccomanda: “Vi auguro anche un cuore vigoroso che vi impedisca di vezzeggiare il vostro corpo con soverchie ricercatezze nel mangiare, nel dormire o in altre cose. Si sa, infatti, che un cuore generoso sente sempre un po’ di disprezzo per le delicatezze e le delizie corporali”.
            Affinché il corpo rimanga sottomesso alla legge dello spirito, conviene evitare gli eccessi: né maltrattarlo né vezzeggiarlo. In ogni cosa occorre misura. Il motivo della carità deve avere il primato in tutte le cose; ciò gli fa scrivere: “Se il lavoro che fate vi è necessario oppure è molto utile alla gloria di Dio, preferirei che sopportiate le pene del lavoro piuttosto che quelle del digiuno”. Di qui la conclusione: “In generale è meglio avere in corpo più forze di quante servano, piuttosto che rovinarle al di là del necessario; perché rovinarle si può sempre, appena si vuole, ma per recuperarle non sempre basta volerlo”.
            Ciò che è necessario evitare è questa “tenerezza che si prova per sé stessi”. Se la prende, con fine ironia ma in modo spietato, con un’imperfezione che non è soltanto “propria dei bambini, e, se posso osare di dirlo, delle donne”, ma anche di uomini poco coraggiosi, di cui ci dà questo interessante quadro caratteristico: “Altri sono quelli teneri verso sé stessi, e che non fanno altro che lamentarsi, coccolarsi, vezzeggiarsi e guardarsi”.
            Ad ogni modo, il vescovo di Ginevra si prendeva cura del suo corpo com’era suo dovere, obbediva al proprio medico e alle “infermiere”. Si occupava anche della salute altrui, consigliando misure appropriate. Scriverà, per esempio, alla madre di un giovane allievo del collegio d’Annecy: “È necessario far visitare Charles dai medici, affinché il suo gonfiore di ventre non si aggravi”.
            Al servizio della salute c’è l’igiene. Francesco di Sales desiderava che sia il cuore e sia il corpo fossero puliti. Raccomandava il decoro, molto differente da affermazioni come questa di sant’Ilario secondo il quale “non bisognava cercare la pulizia nei nostri corpi che non sono altro se non carogne pestilenziali e cariche soltanto di infezione”. Era piuttosto del parere di sant’Agostino e degli antichi che facevano il bagno “per tener puliti i loro corpi sia dalla sporcizia prodotta dalla calura e dal sudore, e sia per la salute, che è certamente oltremodo aiutata dalla pulizia”.
            Per poter lavorare e adempiere i doveri del proprio incarico, ognuno dovrebbe prendersi cura del proprio corpo per quanto riguarda l’alimentazione e il riposo: “Mangiare poco, lavorare molto e con molta agitazione e negare al corpo il riposo necessario, è come esigere molto da un cavallo che è sfiancato senza dargli il tempo per masticare un po’ di biada”. Il corpo ha bisogno di riposare, è cosa del tutto evidente. Le lunghe veglie serali sono “dannose alla testa e allo stomaco”, mentre, invece, alzarsi presto al mattino è “utile sia alla salute che alla santità”.

Educare i nostri sensi, specialmente gli occhi e le orecchie
            I nostri sensi sono doni meravigliosi del Creatore. Ci mettono in contatto con il mondo e ci aprono a tutte le realtà sensibili, alla natura, al cosmo. I sensi sono la porta dello spirito, al quale forniscono, per così dire, la materia prima; infatti, come dice la tradizione scolastica, “niente è nell’intelletto, che prima non sia stato nei sensi”.
            Quando Francesco di Sales parla dei sensi, il suo interesse lo porta specialmente sul piano educativo e morale, e il suo insegnamento al riguardo si ricollega a quanto ha esposto sul corpo in generale: ammirazione e vigilanza. Da una parte dice che Dio ci dona “gli occhi per vedere le meraviglie delle sue opere, la lingua per lodarlo, e così per tutte le altre facoltà”, senza mai omettere, dall’altra, la raccomandazione a “porre delle sentinelle agli occhi, alla bocca, alle orecchie, alle mani e all’odorato”.
            È necessario incominciare dalla vista, perché “fra tutte le parti esterne del corpo umano non ce n’è una, per fattura come per attività, più nobile dell’occhio”. L’occhio è fatto per la luce: lo dimostra il fatto che più le cose sono belle, piacevoli alla vista e debitamente illuminate, più l’occhio le guarda con avidità e vivacità. “Dagli occhi e dalle parole si conosce qual è l’anima e lo spirito dell’uomo, poiché gli occhi servono all’anima come il quadrante all’orologio”. È risaputo che tra gli amanti, gli occhi parlano di più della lingua.
            Bisogna vigilare sugli occhi, perché attraverso di loro possono entrare la tentazione e il peccato, come avvenne ad Eva, che rimase incantata nel vedere la bellezza del frutto proibito, o a Davide, che fissò il suo sguardo sulla moglie di Uria. In certi casi bisogna procedere come si fa con l’uccello da preda: per farlo ritornare è necessario mostrargli il logoro; per quietarlo occorre coprirlo con un cappuccio; allo stesso modo, per evitare gli sguardi cattivi, “bisogna distogliere gli occhi, coprirli con il cappuccio naturale e chiuderli”.
            Ammesso che le immagini visive siano largamente dominanti nelle opere di Francesco di Sales, occorre riconoscere che le immagini uditive sono assai degne di nota. Ciò evidenzia l’importanza che attribuiva all’udito per ragioni tanto estetiche quanto morali. “Una sublime melodia ascoltata con molto raccoglimento” produce un tale magico effetto da “incantare le orecchie”. Ma attenzione a non superare le capacità uditive: una musica, per bella che sia, se è forte e troppo vicina, ci dà fastidio e offende l’orecchio.
            D’altra parte, occorre sapere che “il cuore e le orecchie discorrono fra loro”, perché è attraverso l’orecchio che il cuore “ascolta i pensieri degli altri”. È ancora attraverso l’orecchio che entrano nel più profondo dell’anima parole sospette, ingiuriose, menzognere o malevole, dalle quali è necessario guardarsi bene; perché le anime si avvelenano attraverso l’orecchio, come il corpo attraverso la bocca. La donna onesta si tapperà le orecchie per non udire la voce dell’incantatore che vuole conquistarla subdolamente. Restando nell’ambito simbolico, Francesco di Sales dichiara che l’orecchio destro è l’organo attraverso il quale ascoltiamo i messaggi spirituali, le buone ispirazioni e mozioni, mentre quello sinistro serve per udire discorsi mondani e vani. Per custodire il cuore, proteggiamo quindi con grande cura le orecchie.
            Il miglior servizio che possiamo chiedere alle orecchie è quello di poter udire la parola di Dio, oggetto della predicazione, la quale esige uditori attenti e tesi a farla penetrare nei loro cuori affinché porti frutto. Filotea è invitata a “farla stillare” a sua volta nell’orecchio ora dell’uno e ora dell’altro, e a pregare Dio nell’intimo della anima sua, perché gli piaccia far penetrare quella santa rugiada nel cuore di chi l’ascolta.

Gli altri sensi
            Anche in tema di odorato, si è rilevato l’abbondanza delle immagini olfattive. I profumi sono tanto diversi quanto lo sono le sostanze odorose, come il latte, il vino, il balsamo, l’olio, la mirra, l’incenso, il legno aromatico, il nardo, l’unguento, la rosa, la cipolla, il giglio, la violetta, la viola del pensiero, la mandragola, il cinnamomo… Stupisce ancor più costatare i risultati prodotti con la fabbricazione dell’acqua odorosa:

Il basilico, il rosmarino, la maggiorana, l’issopo, i chiodi di garofano, la cannella, la noce moscata, i limoni e il muschio, mescolati insieme e tritati, danno effettivamente un profumo molto gradevole per la miscela dei loro odori; ma non è nemmeno paragonabile a quello dell’acqua che ne viene distillata, nella quale gli aromi di tutti questi ingredienti, isolati dai loro corpi, si fondono più perfettamente, dando origine ad uno squisito profumo che penetra molto di più l’olfatto di quanto non avverrebbe se, assieme all’acqua, ci fossero le parti materiali.

            Numerose sono le immagini olfattive ricavate dal Cantico dei cantici, poema orientale dove i profumi occupano un posto rilevante e dove uno dei versetti biblici più commentati da Francesco di Sales è il grido accorato della sposa: “Attirami a te, noi cammineremo e correremo insieme nella scia dei tuoi profumi”. E quanto è raffinata questa annotazione: “Il soave profumo della rosa è reso più sottile dalla vicinanza dell’aglio piantato nei pressi dei roseti!”.
            Non confondiamo, però, il sacro balsamo con i profumi di questo mondo. Esiste infatti un olfatto spirituale, che dovrebbe essere nel nostro interesse coltivare. Esso ci consente di percepire la presenza spirituale del soggetto amato, e inoltre fa sì che non ci lasciamo distrarre dai cattivi odori del prossimo. Il modello è il padre che raccoglie a braccia aperte il figliol prodigo che ritorna da lui “seminudo, sporco, lurido e puzzolente di immondizie per la lunga consuetudine coi porci”. Un’altra immagine realista compare in riferimento a certe critiche mondane: non meravigliamoci, raccomanda Francesco di Sales a Giovanna di Chantal, è necessario “che il poco unguento di cui disponiamo sembri puzzolente alle narici del mondo”.
            A proposito del gusto, certe osservazioni del vescovo di Ginevra potrebbero farci pensare che era un goloso nato, anzi un educatore del gusto: “Chi non sa che la dolcezza del miele si unisce sempre più al nostro senso del gusto con un progresso continuo di sapore, allorché, tenendolo lungamente in bocca, anziché inghiottirlo subito, il suo sapore penetra più a fondo il senso del nostro gusto?”. Ammessa la dolcezza del miele, occorre però apprezzare maggiormente il sale, per il fatto che è di uso più comune. In nome della sobrietà e della temperanza, Francesco di Sales raccomandava di saper rinunciare al gusto personale, mangiando ciò che ci “è messo davanti”.
            Infine, trattandosi del tatto, Francesco di Sales ne parla soprattutto in un senso spirituale e mistico. Così raccomanda di toccare Nostro Signore crocifisso: il capo, le sante mani, il prezioso corpo, il cuore. Al giovane che sta per prendere il largo nel vasto mare del mondo richiede di governarsi energicamente e di disprezzare le mollezze, le delizie corporali e le leziosaggini: “Vorrei che a volte voi trattaste duramente il vostro corpo per fargli provare qualche asprezza e durezza, disprezzando delicatezze e cose gradevoli ai sensi; perché è necessario che talvolta la ragione eserciti la sua superiorità e l’autorità che ha di regolare gli appetiti sensuali”.

Il corpo e la vita spirituale
            Anche il corpo è chiamato a partecipare alla vita spirituale che si esprime in primo luogo nella preghiera: “È vero, l’essenza della preghiera è nell’anima, ma la voce, i gesti e gli altri segni esteriori, mediante i quali si rivela l’intimo dei cuori, sono nobili appannaggi e utilissime proprietà della preghiera; ne sono effetti e operazioni. L’anima non si accontenta di pregare se l’uomo nella sua interezza non prega; essa prega assieme agli occhi, alle mani, alle ginocchia”.
            Egli aggiunge che “l’anima prosternata davanti a Dio fa piegare facilmente su di sé l’intero corpo; alza gli occhi dove eleva il cuore, innalza le mani là, da dove aspetta un aiuto”. Francesco di Sales spiega anche che “pregare in spirito e verità è pregare volentieri e affettuosamente, senza finzione né ipocrisia, e impegnando del resto l’uomo intero, anima e corpo, affinché ciò che Dio ha unito non sia separato”. “Bisogna che tutto l’uomo preghi”, ripete alle visitandine. Ma la miglior preghiera è quella di Filotea, quando decide di consacrare a Dio non solamente l’anima, il suo spirito e il suo cuore, ma anche il suo “corpo con tutti i suoi sensi”; è così che l’amerà e servirà veramente con tutto il suo essere.




Il nome

Nella Facoltà di Medicina di una importante università, il professore di anatomia, come esame finale, distribuì a tutti gli studenti un questionario.
Uno studente che si era preparato minuziosamente rispose prontamente a tutte le domande fino a quando arrivò all’ultima.
La domanda era: «Qual è il nome di battesimo della donna delle pulizie?».
Lo studente consegnò il test lasciando l’ultima risposta in bianco.
Prima di consegnare il compito, domandò al professore se l’ultima domanda del test avrebbe contato ai fini del voto.
«È chiaro!» rispose il professore. «Nella vostra carriera voi incontrerete molte persone. Hanno tutte il loro grado d’importanza. Esse meritano la vostra attenzione, anche con un piccolo sorriso o un semplice ciao».
Lo studente non dimenticò mai la lezione ed imparò che il nome di battesimo della donna delle pulizie era Marianna.

Un discepolo chiese a Confucio: «Se il re ti chiedesse di governare il Paese, quale sarebbe la tua prima azione?».
«Vorrei imparare i nomi di tutti i miei collaboratori».
«Che sciocchezza! Non è certo una questione di primaria preoccupazione per un primo ministro».
«Un uomo non può sperare di ricevere aiuto da ciò che non conosce» rispose Confucio. «Se non conosce la natura, non conoscerà Dio. Allo stesso modo, se non sa chi ha al suo fianco, non avrà amici. Senza amici, non sarà in grado di ideare un piano. Senza un piano, non potrà dirigere le azioni di alcuno. Senza direzione, il paese piomberà nelle tenebre e nemmeno i danzatori sapranno più come mettere un piede accanto all’altro. Così un’azione apparentemente banale, imparare il nome della persona che sta accanto a te, può fare una differenza enorme.
L’incorreggibile peccato del nostro tempo è che tutti vogliono mettere subito a posto le cose e si dimenticano che per fare questo hanno bisogno degli altri».




In memoriam. Cardinale Angelo Amato, sdb

La Chiesa universale e la Famiglia Salesiana hanno salutato per l’ultima volta, il 31 dicembre 2024, il Cardinale Angelo Amato, S.D.B., Prefetto emerito della Congregazione delle Cause dei Santi. Nato a Molfetta (in provincia di Bari, Italia) l’8 giugno 1938, egli ha servito a lungo la Santa Sede ed è stato un punto di riferimento per la teologia, la ricerca accademica e la promozione della santità nella Chiesa. Le esequie, presiedute il 2 gennaio 2025 dal Cardinale Giovanni Battista Re, Decano del Collegio Cardinalizio, si sono tenute all’Altare della Cattedra della Basilica di San Pietro. Al termine, il Santo Padre Francesco ha presieduto il rito dell’”Ultima Commendatio” e della “Valedictio”, rendendo il proprio omaggio a questo illustre figlio di san Giovanni Bosco.
Di seguito un profilo biografico che ne ripercorre la vita, le tappe più significative della sua formazione, le esperienze accademiche e pastorali, fino alla sua missione di Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.

Le origini e la scelta salesiana
Angelo Amato nacque a Molfetta l’8 giugno 1938, primo di quattro figli di una famiglia di costruttori navali. Cresciuto in un ambiente che ne favorì lo spirito di impegno e responsabilità, compì i primi studi presso le scuole elementari dirette dalle suore alcantarine e dalle suore salesiane dei Sacri Cuori, a Molfetta. Successivamente, proseguì con la scuola media e, intravvedendo un possibile futuro nella carriera marittima, si iscrisse all’Istituto nautico di Bari, nella sezione dei capitani di lungo corso. Fu proprio durante il terzo anno di studi, nell’ottobre del 1953, che maturò la decisione di intraprendere la via del sacerdozio: lasciò l’Istituto nautico e fece ingresso nell’aspirantato salesiano di Torre Annunziata.
La sua vocazione religiosa, dunque, si inserì fin dall’inizio nella Famiglia Salesiana. Dopo un periodo di prova, effettuò il noviziato a Portici Bellavista dal 1955 al 1956. Il 16 agosto 1956, giorno che la tradizione salesiana riserva alla prima professione dei novizi, emise i voti religiosi diventando salesiano di Don Bosco. Da quel momento, la sua vita sarebbe stata profondamente legata al carisma salesiano, con particolare attenzione ai giovani e all’educazione.
Terminato il noviziato, Angelo Amato frequentò lo studentato filosofico di San Gregorio di Catania, dove ottenne il diploma liceale classico (nel 1959) e, a seguire, la licenza in Filosofia presso l’allora Pontificio Ateneo Salesiano di Roma (oggi Università Pontificia Salesiana). Nel 1962 emise la professione perpetua, consolidando definitivamente la sua appartenenza alla Congregazione salesiana. In quegli stessi anni svolse il tirocinio pratico al collegio salesiano di Cisternino (Brindisi), insegnando lettere nella scuola media: un’esperienza che lo mise fin da subito a contatto con l’apostolato giovanile e l’insegnamento, due dimensioni che segneranno tutta la sua missione.

L’ordinazione sacerdotale e gli studi teologici
La tappa successiva del percorso di Angelo Amato fu lo studio della Teologia nella Facoltà teologica dell’Università Salesiana, sempre a Roma, dove conseguì la licenza in Teologia. Ordinato sacerdote il 22 dicembre 1967, decise di specializzarsi ulteriormente e si iscrisse alla Pontificia Università Gregoriana. Nel 1974 vi ottenne il dottorato in Teologia, entrando così a far parte del corpo docente universitario. L’ambito teologico lo affascinava profondamente, e ciò si sarebbe riflesso nella grande mole di pubblicazioni e saggi di cui fu autore nel corso della sua carriera accademica.

L’esperienza in Grecia e la ricerca sul mondo ortodosso
Una fase determinante nella formazione di padre Angelo Amato fu il soggiorno in Grecia, a partire dal 1977, promosso dall’allora Segretariato per l’Unità dei Cristiani (oggi Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani). Inizialmente trascorse quattro mesi nella residenza ateniese dei gesuiti, dove si dedicò allo studio del greco moderno, sia scritto sia parlato, in vista dell’iscrizione all’Università di Salonicco. Ammesso ai corsi, ottenne una borsa di studio dal Patriarcato di Costantinopoli, grazie alla quale poté soggiornare al Monì Vlatadon (Vlatadon Monastery), sede di un istituto di studi patristici (Idrima ton Paterikon Meleton) e di una ricchissima biblioteca specializzata in teologia ortodossa, arricchita dai microfilm dei manoscritti del Monte Athos.
Presso l’Università di Salonicco seguì corsi di storia dei dogmi con il professore Jannis Kaloghirou e di dogmatica sistematica con Jannis Romanidis. Parallelamente, portò avanti un importante studio sul sacramento della penitenza nella teologia greco ortodossa dal XVI al XX secolo: la ricerca, sostenuta dal noto patrologo greco Konstantinos Christou, fu pubblicata nel 1982 nella collana «Análekta Vlatádon». Questo periodo di scambio ecumenico e di conoscenza approfondita del mondo cristiano orientale arricchì notevolmente la formazione di Amato, rendendolo un esperto di teologia ortodossa e delle dinamiche di dialogo tra Oriente e Occidente.

Il ritorno a Roma e l’impegno accademico all’Università Pontificia Salesiana
Rientrato a Roma, Angelo Amato assunse l’incarico di professore di Cristologia nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Salesiana. Le sue doti di studioso e la sua chiarezza espositiva non passarono inosservate: fu nominato Decano della stessa Facoltà di Teologia per due mandati (1981-1987 e 1994-1999). Inoltre, tra il 1997 e il 2000 ricoprì il ruolo di Vice-Rettore dell’Università.
In quegli anni egli maturò ulteriore esperienza all’estero: nel 1988 fu inviato a Washington per approfondire la teologia delle religioni e per completare il suo manuale di cristologia. Parallelamente al lavoro accademico, ebbe ruoli di consulenza per diversi organismi della Santa Sede: fu consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede e dei Pontifici Consigli per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e per il Dialogo Interreligioso. Svolse anche l’incarico di consigliere presso la Pontificia Accademia Mariana Internazionale, sottolineando il suo interesse per la mariologia, tipico della spiritualità salesiana incentrata su Maria Ausiliatrice.
Nel 1999 venne nominato prelato segretario della ristrutturata Pontificia Accademia di Teologia e direttore della neonata rivista teologica «Path». Inoltre, tra il 1996 e il 2000, fece parte della commissione teologico-storica del Grande Giubileo dell’Anno 2000, dando così un apporto significativo all’organizzazione delle celebrazioni giubilari.

Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede e l’episcopato
Il 19 dicembre 2002 arrivò una nomina di grande rilievo: Papa Giovanni Paolo II lo designò Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, elevandolo contestualmente alla dignità arcivescovile e assegnandolo alla sede titolare di Sila, con il titolo personale di Arcivescovo. Ricevette l’ordinazione episcopale il 6 gennaio 2003, nella Basilica Vaticana, dalle mani dello stesso Giovanni Paolo II (oggi San Giovanni Paolo II).
In questo ruolo, Monsignor Angelo Amato collaborò con il Prefetto dell’epoca, il Cardinale Joseph Ratzinger (futuro Benedetto XVI). Compito del Dicastero fu, ed è, quello di promuovere e tutelare la dottrina cattolica in tutto il mondo. Durante il suo mandato, il neo-Arcivescovo continuò ad avere un approccio accademico, coniugando le sue competenze specialistiche in teologia con il servizio ecclesiale rivolto all’ortodossia della fede.

Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e la porpora cardinalizia
Un ulteriore passo in avanti nella carriera ecclesiastica giunse il 9 luglio 2008: Papa Benedetto XVI lo nominò Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, in sostituzione del Cardinale José Saraiva Martins. In questo dicastero, Monsignor Amato fu responsabile di seguire l’iter di beatificazione e canonizzazione dei Servi di Dio, il discernimento sulle virtù eroiche, i miracoli e la testimonianza di quanti, nel corso della storia, sono divenuti santi e beati della Chiesa Cattolica.
Nel Concistoro del 20 novembre 2010, Benedetto XVI lo creò Cardinale, assegnandogli la Diaconia di Santa Maria in Aquiro. Il nuovo porporato poté così prendere parte al conclave del marzo 2013, che vide l’elezione di Papa Francesco. Durante il pontificato di quest’ultimo, il Cardinale Amato fu confermato “donec aliter provideatur” come Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi (19 dicembre 2013), proseguendo la propria attività sino al 31 agosto 2018, quando rassegnò le dimissioni per raggiunti limiti di età, lasciando un’impronta duratura grazie al numero di beatificazioni e canonizzazioni esaminate in quegli anni.

L’impegno per la Chiesa locale: l’esempio di don Tonino Bello
Una particolare testimonianza del legame del Cardinale Amato con la sua terra d’origine si ebbe nel novembre 2013, quando egli si recò nella Cattedrale di Molfetta per la chiusura della fase diocesana del processo di beatificazione e canonizzazione di don Tonino Bello (1935-1993). Quest’ultimo, Vescovo di Molfetta dal 1982 al 1986, fu figura amatissima per il suo impegno a favore della pace e dei poveri. In quell’occasione, il Cardinale Amato mise in risalto come la santità non sia appannaggio di pochi eletti, bensì una vocazione universale: tutti i credenti, ispirati dalla persona e dal messaggio di Cristo, sono chiamati a vivere profondamente la fede, la speranza e la carità.

Ultimi anni e la morte
Dopo aver lasciato la guida della Congregazione delle Cause dei Santi, il Cardinale Angelo Amato continuò a offrire il proprio servizio alla Chiesa, partecipando ad eventi, cerimonie e rendendo disponibile la sua profonda conoscenza teologica. Il suo impegno fu sempre contrassegnato da un tratto umano di grande finezza, da un evidente rispetto per l’interlocutore e da un’umiltà che spesso colpiva chiunque lo incontrasse.
Il 3 maggio 2021, la sua diaconia di Santa Maria in Aquiro venne elevata pro hac vice a titolo presbiteriale, onorando ulteriormente la sua lunga e fedele dedizione al ministero ecclesiale.
La morte del porporato, sopraggiunta il 31 dicembre 2024 a 86 anni, ha lasciato un vuoto nella Famiglia Salesiana e nel Collegio Cardinalizio, ora costituito da 252 cardinali, di cui 139 elettori e 113 non elettori. L’annuncio della sua scomparsa ha suscitato reazioni di cordoglio e di riconoscenza in tutto il mondo ecclesiale: l’Università Pontificia Salesiana, in particolare, ne ha ricordato i lunghi anni di insegnamento come docente di Cristologia, il suo duplice mandato di Decano della Facoltà di Teologia, nonché il periodo in cui rivestì la carica di Vice-Rettore dell’ateneo.

Un’eredità di fedeltà e ricerca della santità
Guardando alla figura del Cardinale Angelo Amato, non si possono non cogliere alcuni tratti che ne hanno caratterizzato il ministero e la testimonianza. Anzitutto, il suo profilo di religioso salesiano: la fedeltà ai voti, il profondo legame con il carisma di san Giovanni Bosco, l’attenzione ai giovani, alla formazione intellettuale e spirituale, rappresentano una linea guida costante nella sua vita. In secondo luogo, la vasta produzione teologica, in particolare in ambito cristologico e mariologico, e il suo contributo al dialogo con il mondo ortodosso, di cui fu studioso appassionato.
Indubbiamente, il servizio alla Santa Sede come Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e cardinale, sottolinea l’importanza del suo ruolo nella promozione e nella tutela della dottrina cattolica, nonché nella valorizzazione dei testimoni di santità. Il Cardinale Amato fu testimone privilegiato della ricchezza spirituale che la Chiesa universale ha espresso lungo i secoli, e fu parte attiva nel riconoscimento di figure che rappresentano un faro per il popolo di Dio.
Inoltre, la partecipazione a un conclave (quello del 2013), la sua vicinanza a grandi Papi come Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, e la sua collaborazione con numerosi dicasteri testimoniano un servizio a trecentosessanta gradi, in cui si fondono la dimensione accademica e l’esercizio pastorale di governo nella Chiesa.
La morte del Cardinale Angelo Amato lascia un’eredità di dottrina, di sensibilità ecumenica e di amore per la Chiesa. La diocesi di Molfetta, che già aveva potuto sperimentare la sua partecipazione al processo di beatificazione di don Tonino Bello, lo ricorda come uomo di fede e pastore instancabile, capace di unire le esigenze della disciplina teologica a quelle della carità pastorale. La Famiglia Salesiana, in particolare, coglie in lui il frutto di un carisma ben vissuto, intriso di quella “carità educativa” che da Don Bosco in poi accompagna il percorso di tanti consacrati e sacerdoti nel mondo, sempre a servizio dei più giovani e dei più bisognosi.
Oggi, la Chiesa lo affida alla misericordia del Signore, nella certezza che, come lo stesso Pontefice ha affermato, il Cardinale Amato, “servo buono e vigilante”, possa contemplare il volto di Dio nella gloria dei santi che egli stesso ha contribuito a riconoscere. La sua testimonianza, resa concreta da una vita donata e da una profonda preparazione teologica, resta come segno e incoraggiamento per tutti coloro che desiderano servire la Chiesa con fedeltà, mitezza e dedizione, fino al termine del loro pellegrinaggio terreno.
In questo modo, il messaggio di speranza e di santità che ha animato ogni sua azione trova compimento: chi semina nel solco dell’obbedienza, della verità e della carità, raccoglie un frutto che diviene bene comune, ispirazione e luce per le generazioni future. Ed è questa, in definitiva, l’eredità più bella che il Cardinale Angelo Amato lascia alla sua famiglia religiosa, alla diocesi di Molfetta e all’intera Chiesa.

E non possiamo trascurare l’eredità scritturistica che il Cardinale Angelo Amato ci ha lasciato. Presentiamo a continuazione un elenco, sicuramente non completo delle sue pubblicazioni.


























































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































Anno



Titolo



Info



1



1974



I
pronunciamenti tridentini sulla necessità della confessione
sacramentale nei canoni 6-9 della sessione XIV (25 novembre 1551)



Saggio
di ermeneutica conciliare



2



1975



Problemi
attuali di cristologia



Conferenze
della facoltà teologica Salesiana 1974-1975



3



1976



La
Chiesa locale: prospettive teologiche e pastorali



Conferenze
della Facoltà teologica salesiana 1975-1976



4



1977



Cristologia
metaecclesiale?



Considerazioni
sulla cristologia “metadogmatica” di E. Schillebeeckx



5



1977



Il
Gesù storico



Problemi
e interpretazioni



6



1977



Temi
teologico-pastorali







7



1978



Annuncio
cristiano e cultura contemporanea







8



1978



Studi
di cristologia patristica attuale



A
proposito di due recenti pubblicazioni di Alois Grillmeier



9



1979



Il
sacramento della penitenza nelle “Risposte” del
patriarca Geremia II ai teologi luterani di Tübingen
(1576,1579,1581)







10



1980



Annunciare
Cristo ai giovani



(coautore)



11



1980



Il
Cristo biblico-ecclesiale



Proposta
di una sintesi criteriologica sui contenuti essenziali
dell’annuncio cristologico contemporaneo



12



1980



Il
Cristo biblico-ecclesiale latinoamericano



Il
modulo cristologico “religioso-popolare” di Puebla



13



1980



La
figura di Gesù Cristo nella cultura contemporanea



Il
Cristo nel conflitto delle interpretazioni



14



1980



Selezione
orientativa sulle pubblicazioni cristologiche in Italia







15



1980



L’enciclica
del dialogo rivisitata



A
proposito del Colloquio internazionale di studio sull’”Ecclesiam
suam
” di
Paolo VI (Roma, 24-26 ottobre 1980)



16



1981



Il
Salvatore e la Vergine-Madre: la maternità salvifica di
Maria e le cristologie contemporanee



Atti
del 3º Simposio mariologico internazionale (Roma, ottobre
1980)



17



1981



La
risurrezione di Gesù nella teologia contemporanea







18



1981



Mariologia
in contesto



Un
esempio de teologia inculturata: “Il volto meticcio di Maria
di Guadalupe” (Puebla n.446)



19



1982



Il
sacramento della penitenza nella teologia greco-ortodossa



Studi
storico-dogmatici, sec. XVI-XX



20



1983



Inculturazione-Contestualizzazione:
teologia in contesto



Elementi
di bibliografia scelta



21



1983



La
dimension “thérapeutique” du sacrement de la
pénitence dans la théologie et la praxis de l’Église
gréco-orthodoxe







22



1984



Come
conoscere oggi Maria







23



1984



Inculturazione
e formazione salesiana



Dossier
dell’incontro di Roma, 12-17 settembre 1983 (coautore)



24



1984



Maria
e lo Spirito Santo



Atti
del 4º Simposio Mariologico Internazionale (Roma, ottobre,
1982)



25



1985



Come
collaborare al progetto di Dio con Maria



Princìpi
e proposte



26



1987



La
Madre della misericordia







27



1988



Gesù
il Signore



Saggio
di cristologia



28



1989



Essere
donna



Studi
sulla lettera apostolica “Mulieris
dignitatem

di Giovanni Paolo II (coautore)



29



1990



Cristologia
e religioni non cristiane



Problematica
e attualità: considerazioni introduttive



30



1991



Come
pregare con Maria







31



1991



Studio
dei Padri e teologia dogmatica



Riflessioni
a partire dall’Istruzione della Congregazione per
l’educazione cattolica del 10 novembre 1989 (=IPC)



32



1991



Verbi
revelati ‘accommodata praedicatio’ lex omnis
evangelizationis”

(GS n.44)



Riflessioni
storico-teologiche sull’inculturazione



33



1992



Angeli
e demoni Il dramma
della storia tra il bene e il male







34



1992



Dio
Padre – Dio Madre



Riflessioni
preliminari



35



1992



Il
mistero di Maria e la morale cristiana







36



1992



Il
posto di Maria nella “Nuova evangelizzazione”







37



1993



Cristologia
della Secunda
Clementis



Considerazioni
iniziali



38



1993



Lettera
cristologica dei primi concili ecumenici







39



1994



Trinità
in contesto







40



1996



Maria
presso la Croce, volto misericordioso di Dio per il nostro tempo



Convegno
mariano delle Serve di Maria Riparatrici, Rovigo, 12-15 settembre
1995



41



1996



Tertio
millennio adveniente
:
Lettera apostolica di Giovanni Paolo II



Testo
e commento teologico pastorale



42



1996



Vita
consecrata
. Una
prima lettura teologica







43



1997



Alla
ricerca del volto di Cristo: … ma voi chi dite che io sia?



Atti
della XXVII Settimana teologica diocesana, Figline Valdarno, 2-5
settembre 1997



44



1997



Gesù
Cristo verità di Dio e ricerca dell’uomo



Cristologia



45



1997



La
catechesi al traguardo. Studi sul Catechismo della Chiesa
cattolica



(coautore)



46



1997



Super
fundamentum Apostolorum



Studi
in onore di S. Em. il cardinale A.M. Javierre Ortas (coautore)



47



1998



El
Evangelio del Padre







48



1998



Gesù
Cristo morto e risorto per noi consegna lo Spirito



Meditazioni
teologiche sul mistero pasquale (coautore)



49



1998



Il
Vangelo del Padre







50



1998



Una
lettura cristologica della “Secunda
Clementis



Esistenza
di influssi paolini?



51



1999



Evangelización,
catequesis, catequistas



Una
nueva etapa para la Iglesia del tercer milenio



52



1999



La
Vergine Maria dal Rinascimento a oggi







53



1999



Missione
della Chiesa e Chiesa in missione]. Gesù Cristo, Verbo del
Padre



Ambito
II



54



1999



La
Chiesa santa, madre di figli peccatori



Approccio
ecclesiologico ed implicanze pastorali



55



2000



Dominus
Iesus
: l’unicità
e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e
della Chiesa



Dichiarazione



56



2000



Gesù
Cristo e l’unicità della mediazione



(coautore)



57



2000



Gesù
Cristo, speranza del mondo



Miscellanea
in onore di Marcello Bordoni



58



2000



La
Vierge dans la catéchèse, hier et aujourd’hui



Communications
présentées à la 55e Session de la Société
française d’études mariales, Sanctuaire
Notre-Dame-de-la-Salette, 1999 (coautore)



59



2000



Maria
e la Trinità



Spiritualità
mariana ed esistenza cristiana



60



2000



Maria
nella catechesi ieri e oggi



Un
sintetico sguardo storico



61



2001



Crescere
nella grazia e nella conoscenza di Gesù







62



2002



Dichiarazione
Dominus
Iesus
” (6
agosto 2000)



Studi
(coautore)



63



2003



Maria
Madre della speranza



Per
una inculturazione della speranza e della misericordia. [Parte
componente di monografia]



64



2005



La
Madre del Dio vivo a servizio della vita



Atti
del 12. Colloquio internazionale di mariologia, Santuario del
Colle, Lenola (Latina), 30 Maggio – 1° giugno 2002 (coautore)



65



2005



Lo
sguardo di Maria sul mondo contemporaneo



Atti
del XVII Colloquio internazionale di mariologia, Rovigo, 10-12
settembre 2004



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2005



Maria,
sintesi di valori



Storia
culturale della mariologia (coautore)



67



2007



Sui
sentieri di Clotilde Micheli fondatrice delle Suore degli Angeli
adoratrici della SS. Trinità



Spiritualità
e promozione umana (coautore)



68



2007



San
Francesco Antonio Fasani apostolo francescano e culture
dell’Immacolata







69



2007



Il
vescovo maestro della fede



Sfide
contemporanee al magistero della verità



70



2008



Gesù,
identità del cristianesimo Conoscenza
ed esperienza







71



2008



La
Dominus Iesus
e le religioni







72



2009



Catholicism
and secularism in contemporary Europe







73



2009



Futuro
presente Contributi
sull’enciclica “Spe salvi” di Benedetto XVI



(coautore)



74



2009



La
santità dei papi e di Benedetto XIII







75



2009



Maria
di Nazaret. Discepola e testimone della parola







76



2009



Reflexiones
sobre la cristología contemporánea







77



2010



I
santi nella Chiesa







78



2010



Il
celibato di Cristo nelle trattazioni cristologiche contemporanee



Rassegna
critico-sistematico



79



2010



Il
celibato di Gesù







80



2010



Il
santo di Dio. Cristologia e santità







81



2011



Dialogo
interreligioso Significato
e valore







82



2011



I
santi si specchiano in Cristo







83



2011



Istruzione
Sanctorum
mater



Presentazione



84



2011



Le
cause dei santi



Sussidio
per lo “Studium



85



2011



Maria
la Theotokos.
Conoscenza ed esperienza







86



2012



I
santi testimoni della fede







87



2012



Santa
Ildegarda di Bingen







88



2012



Santi
e beati. Come
procede la Chiesa







89



2012



Testi
mariani del secondo millennio



(coautore)



90



2013



I
santi evangelizzano



Contributo
nel Sinodo dei Vescovi dell’ottobre 2012, che documenta
l’indispensabile natura evangelizzatrice dei Santi, che
grazie alla loro esemplare condotta cristiana, nutrita di fede,
speranza e carità, diventano così dei punti di
riferimento per la Chiesa Cattolica e per i fedeli di tutto il
mondo e tutte le culture, orientandoli verso una vita di santità.
Il volume è diviso in due parti: nella prima si trovano le
riflessioni dottrinali sul concetto di Santità e sulle
cause dei Santi, la seconda parte raccoglie invece omelie, lettere
e relazioni, tenute nell’arco del 2012, che descrivono la
vita e l’operato di Santi, Beati, Venerabili e Servi di Dio



91



2013



Il
Paradiso: di che si tratta?







92



2014



Accanto
a Giovanni Paolo II



Gli
amici e i collaboratori raccontano (coautore)



93



2014



I
santi profeti di speranza







94



2014



La
Santissima Eucaristia nella fede e nel diritto della Chiesa



(coautore)



95



2014



San
Pietro Favre







96



2014



Sant’Angela
da Foligno







97



2015



I
santi: apostoli di Cristo risorto







98



2015



Gregorio
di Narek. Dottore della Chiesa







99



2015



Beato
Oscar Romero







100



2015



Santa
Maria dell’incarnazione







101



2015



San
Joseph Vaz







102



2015



I
Santi apostoli di Cristo risorto







103



2016



I
santi: messaggeri di misericordia







104



2016



Misericordiosi
come il Padre



Esperienze
di misericordia nel vissuto di santità



105



2017



I
santi, ministri della carità



Contiene
considerazioni sulla carità e una galleria di uomini e
donne (santi, beati, venerabili e servi di Dio) esemplari per
l’esercizio eroico di questa energia divina che è la
carità



106



2017



Il
messaggio di Fatima tra carisma e profezia



Atti
del Forum Internazionale di Mariologia (Roma 7-9 maggio 2015)



107



2018



I
santi e la Madre di Dio







108



2019



Perseguitati
per la fede



Le
vittime del nazionalsocialismo in Europa centro-orientale



109



2019



Sufficit
gratia mea



Miscellanea
di studi offerti a Sua Em. il Card. Angelo Amato in occasione del
suo 80º genetliaco



110



2019



Un’inedita
Sicilia. Eventi e personaggi da riscoprire







111



2020



Il
segreto di Tiffany Grant







112



2021



Iesus
Christus heri et hodie, ipse et in saecula



Raccolta
di contributi promossa dalla Pontificia Università
Salesiana per il Card. Angelo Amato, in occasione del suo 80º
genetliaco



113



2021



Dici
l’anticu… La cultura popolare nel paese del Gattopardo.
Proverbi di Palma di Montechiaro







114



2023



Una
Sicilia ancora da scoprire. Eventi e personaggi inediti