Santa Monica, madre di Sant’Agostino, testimone di speranza

Una donna dalla fede incrollabile, dalle lacrime feconde, esaudita da Dio dopo diciassette lunghi anni. Un modello di cristiana, sposa e madre per tutta la Chiesa. Una testimone di speranza che si è trasformata in potente intercessora nel Cielo. Lo stesso don Bosco raccomandava alle madri, afflitte per la vita poco cristiana dei loro figli, di affidarsi a lei nelle preghiere.

Nella grande galleria dei santi e delle sante che hanno segnato la storia della Chiesa, Santa Monica (331-387) occupa un posto singolare. Non per miracoli spettacolari, non per la fondazione di comunità religiose, non per imprese sociali o politiche di rilievo. Monica è ricordata e venerata anzitutto come madre, la madre di Agostino, il giovane inquieto che grazie alle sue preghiere, alle sue lacrime e alla sua testimonianza di fede divenne uno dei più grandi Padri della Chiesa e Dottori della fede cattolica.
Ma limitare la sua figura al ruolo materno sarebbe ingiusto e riduttivo. Monica è una donna che seppe vivere la sua vita ordinaria — moglie, madre, credente — in modo straordinario, trasfigurando la quotidianità attraverso la forza della fede. È un esempio di perseveranza nella preghiera, di pazienza nel matrimonio, di speranza incrollabile di fronte alle deviazioni del figlio.
Le notizie sulla sua vita ci giungono quasi esclusivamente dalle Confessioni di Agostino, un testo che non è una cronaca, ma una lettura teologica e spirituale dell’esistenza. Eppure, in quelle pagine Agostino traccia un ritratto indimenticabile della madre: non solo una donna buona e pia, ma un autentico modello di fede cristiana, una “madre delle lacrime” che diventano sorgente di grazia.

Le origini a Tagaste
Monica nacque nel 331 a Tagaste, città della Numidia, Souk Ahras nell’attuale Algeria. Era un centro vivace, segnato dalla presenza romana e da una comunità cristiana già radicata. Proveniva da una famiglia cristiana agiata: la fede era già parte del suo orizzonte culturale e spirituale.
La sua formazione fu segnata dall’influenza di una nutrice austera, che la educò alla sobrietà e alla temperanza. San Agostino scriverà di lei: “Non discorrerò per questo di doni suoi, ma di doni tuoi a lei, che non si era fatta da sé sola, né da sé sola educata. Tu la creasti senza che neppure il padre e la madre sapessero quale figlia avrebbero avuto; e l’ammaestrò nel tuo timore la verga del tuo Cristo, ossia la disciplina del tuo Unigenito, in una casa di credenti, membro sano della tua Chiesa.” (Confessioni IX, 8, 17).

Nelle stesse Confessioni Agostino racconta anche un episodio significativo: la giovane Monica aveva preso l’abitudine di bere piccoli sorsi di vino dalla cantina, finché una serva la rimproverò chiamandola “ubriacona”. Quel rimprovero le basto per correggersi definitivamente. Questo aneddoto, apparentemente minore, mostra la sua onestà di riconoscere i propri peccati, di lasciarsi correggere e di crescere in virtù.

A età di 23 anni Monica fu data in sposa a Patrizio, un funzionario municipale pagano, noto per il suo carattere collerico e la sua infedeltà coniugale. La vita matrimoniale non fu facile: la convivenza con un uomo impulsivo e distante dalla fede cristiana mise a dura prova la sua pazienza.
Eppure, Monica non cadde mai nello scoraggiamento. Con un atteggiamento fatto di mitezza e rispetto, seppe conquistare progressivamente il cuore del marito. Non rispondeva con durezza agli scatti d’ira, non alimentava conflitti inutili. Con il tempo, la sua costanza ottenne frutto: Patrizio si convertì e ricevette il battesimo poco prima di morire.
La testimonianza di Monica mostra come la santità non si esprima necessariamente in gesti clamorosi, ma nella fedeltà quotidiana, nell’amore che sa trasformare lentamente le situazioni difficili. In questo senso, è un modello per tante spose e madri che vivono matrimoni segnati da tensioni o differenze di fede.

Monica madre
Dal matrimonio nacquero tre figli: Agostino, Navigio e una figlia di cui non conosciamo il nome. Monica riversò su di loro tutto il suo amore, ma soprattutto la sua fede. Navigio e la figlia seguirono un cammino cristiano lineare: Navigio divenne sacerdote; la figlia intraprese la via della verginità consacrata. Agostino invece divenne presto il centro delle sue preoccupazioni e delle sue lacrime.
Già da ragazzo, Agostino mostrava un’intelligenza straordinaria. Monica lo mandò a studiare retorica a Cartagine, desiderosa di assicurargli un futuro brillante. Ma insieme ai progressi intellettuali arrivarono anche le tentazioni: la sensualità, la mondanità, le compagnie sbagliate. Agostino abbracciò la dottrina manichea, convinto di trovarvi risposte razionali al problema del male. Inoltre cominciò a convivere senza sposarsi con una donna dalla quale ebbe un figlio, Adeodato. Le deviazioni del figlio indussero Monica a negargli l’accoglienza nella propria casa. Pero non per questo cesso di pregare per lui e di offrire sacrifici: “dal cuore sanguinante di mia madre ti si offriva per me notte e giorno il sacrificio delle sue lacrime”. (Confessioni V, 7,13) e “versava più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli” (Confessioni III, 11,19).

Per Monica fu una ferita profonda: il figlio, che aveva consacrato a Cristo nel grembo, si stava smarrendo. Il dolore era indicibile, ma non smise mai di sperare. Agostino stesso scriverà: “Il cuore di mia madre, colpito da una tale ferita, non si sarebbe mai più risanato: perché non so esprimere adeguatamente i suoi sentimenti verso di me e quanto il suo travaglio nel partorirmi in spirito fosse maggiore di quello con cui mi aveva partorito nella carne.” (Confessioni V, 9,16).

Viene spontanea la domanda: perché Monica non fece battezzare Agostino subito dopo la nascita?
In realtà, benché il battesimo dei bambini fosse già conosciuto e praticato, non era ancora una prassi universale. Molti genitori preferivano rimandarlo all’età adulta, considerandolo un “lavacro definitivo”: temevano che, se il battezzato avesse peccato gravemente, la salvezza sarebbe stata compromessa. Inoltre Patrizio, ancora pagano, non aveva alcun interesse a educare il figlio nella fede cristiana.
Oggi vediamo chiaramente che si trattò di una scelta infelice, poiché il battesimo non solo ci rende figli di Dio, ma ci dona la grazia di vincere le tentazioni e il peccato.
Una cosa però è certa: se fosse stato battezzato da bambino, Monica avrebbe risparmiato a sé e al figlio tante sofferenze.

L’immagine più forte di Monica è quella di una madre che prega e piange. Le Confessioni la descrivono come donna instancabile nell’intercedere presso Dio per il figlio.
Un giorno, un vescovo di Tagaste — secondo alcuni, lo stesso Ambrogio — la rassicurò con parole rimaste celebri: “Va’, non può andare perduto il figlio di tante lacrime”. Quella frase divenne la stella polare di Monica, la conferma che il suo dolore materno non era vano, ma parte di un misterioso disegno di grazia.

Tenacità di una madre
La vita di Monica fu anche un pellegrinaggio sulle orme di Agostino. Quando il figlio decise di partire di nascosto per Roma, Monica non risparmia nessuna fatica; non dà la causa come perduta, ma lo segue e lo cerca fino quando non lo trova. Lo raggiunse a Milano, dove Agostino aveva ottenuto una cattedra di retorica. Qui trovò una guida spirituale in sant’Ambrogio, vescovo della città. Tra Monica e Ambrogio nacque una profonda sintonia: ella riconosceva in lui il pastore capace di guidare il figlio, mentre Ambrogio ammirava la sua fede incrollabile.
A Milano, la predicazione di Ambrogio aprì nuove prospettive ad Agostino. Egli abbandonò progressivamente il manicheismo e iniziò a guardare al cristianesimo con occhi nuovi. Monica accompagnava silenziosamente questo processo: non forzava i tempi, non pretendeva conversioni immediate, ma pregava e sosteneva e li rimane a fianco fino alla sua conversione.

La conversione di Agostino
Dio sembrava non ascoltarla, ma Monica non smise mai di pregare e di offrire sacrifici per il figlio. Dopo diciassette anni, finalmente le sue suppliche furono esaudite — e come! Agostino non solo si fece cristiano, ma divenne sacerdote, vescovo, dottore e padre della Chiesa.
Egli stesso lo riconosce: “Tu però nella profondità dei tuoi disegni esaudisti il punto vitale del suo desiderio, senza curarti dell’oggetto momentaneo della sua richiesta, ma badando a fare di me ciò che sempre ti chiedeva di fare.” (Confessioni V, 8,15).

Il momento decisivo arrivò nel 386. Agostino, tormentato interiormente, lottava contro le passioni e le resistenze della sua volontà. Nel celebre episodio del giardino di Milano, al sentire la voce di un bambino che diceva “Tolle, lege” (“Prendi, leggi”), aprì la Lettera ai Romani e lesse le parole che gli cambiarono la vita: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,14).
Fu l’inizio della sua conversione. Insieme al figlio Adeodato e ad alcuni amici si ritirò a Cassiciaco per prepararsi al battesimo. Monica era con loro, partecipe della gioia di vedere finalmente esaudite le preghiere di tanti anni.
La notte di Pasqua del 387, nella cattedrale di Milano, Ambrogio battezzò Agostino, Adeodato e gli altri catecumeni. Le lacrime di dolore di Monica si trasformarono in lacrime di gioia. Continua a rimanere al suo servizio, tanto che a Cassiciaco Agostino dirà: “Ebbe cura come se di tutti fosse stata madre e ci servì come se di tutti fosse stata figlia.”.

Ostia: l’estasi e la morte
Dopo il battesimo, Monica e Agostino si prepararono a tornare in Africa. Fermatisi a Ostia, in attesa della nave, vissero un momento di intensissima spiritualità. Le Confessioni narrano l’estasi di Ostia: madre e figlio, affacciati a una finestra, contemplarono insieme la bellezza del creato e si elevarono verso Dio, pregustando la beatitudine del cielo.
Monica dirà: “Figlio, quanto a me non trovo ormai più alcuna attrattiva per questa vita. Non so che cosa io stia a fare ancora quaggiù e perché mi trovi qui. Questo mondo non è più oggetto di desideri per me. C’era un solo motivo per cui desideravo rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico, prima di morire. Dio mi ha esaudito oltre ogni mia aspettativa, mi ha concesso di vederti al suo servizio e affrancato dalle aspirazioni di felicità terrene. Che sto a fare qui?” (Confessioni IX, 10,11). Aveva raggiunto la sua meta terrena.
Alcuni giorni dopo Monica si ammalò gravemente. Sentendo vicina la fine, disse ai figli: “Figli miei, seppellirete qui vostra madre: non vi preoccupate di dove. Solo di questo vi prego: ricordatevi di me all’altare del Signore, dovunque sarete”. Era la sintesi della sua vita: non l’importava il luogo della sepoltura, ma il legame nella preghiera e nell’Eucaristia.
Morì a 56 anni, nel 12 novembre del 387, e fu sepolta a Ostia. Nel VI secolo, le sue reliquie furono trasferite in una cripta nascosta nella stessa chiesa di Sant’Aurea. Nel 1425, le reliquie furono traslatate a Roma, nella basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio, dove ancora oggi sono venerate.

Il profilo spirituale di Monica
Agostino descrive sua madre con parole ben misurate:
“[…] muliebre nell’aspetto, virile nella fede, vegliarda nella pacatezza, materna nell’amore, cristiana nella pietà […]”. (Confessioni IX, 4, 8).
E ancora:
“[…] vedova casta e sobria, assidua nell’elemosina, devota e sottomessa ai tuoi santi; che non lasciava passare giornata senza recare l’offerta al tuo altare, che due volte al giorno, mattino e sera, senza fallo visitava la tua chiesa, e non per confabulare vanamente e chiacchierare come le altre vecchie, ma per udire le tue parole e farti udire le sue orazioni. Le lacrime di una tale donna, che con esse ti chiedeva non oro né argento, né beni labili o volubili, ma la salvezza dell’anima di suo figlio, avresti potuto sdegnarle tu, che così l’avevi fatta con la tua grazia, rifiutandole il tuo soccorso? Certamente no, Signore. Tu anzi le eri accanto e l’esaudivi, operando secondo l’ordine con cui avevi predestinato di dover operare.” (Confessioni V, 9,17).

Da questa testimonianza agostiniana, emerge una figura di sorprendente attualità.
Fu una donna di preghiera: non smise mai di invocare Dio per la salvezza dei suoi cari. Le sue lacrime diventano modello di intercessione perseverante.
Fu una sposa fedele: in un matrimonio difficile, non rispose mai con risentimento alla durezza del marito. La sua pazienza e la sua mitezza furono strumenti di evangelizzazione.
Fu una madre coraggiosa: non abbandonò il figlio nelle sue deviazioni, ma lo accompagnò con amore tenace, capace di fidarsi dei tempi di Dio.
Fu una testimone di speranza: la sua vita mostra che nessuna situazione è disperata, se vissuta nella fede.
Il messaggio di Monica non appartiene solo al IV secolo. Parla ancora oggi, in un contesto in cui molte famiglie vivono tensioni, figli si allontanano dalla fede, genitori sperimentano la fatica dell’attesa.
Ai genitori, insegna a non arrendersi, a credere che la grazia opera in modi misteriosi.
Alle donne cristiane, mostra come la mitezza e la fedeltà possano trasformare relazioni difficili.
A chiunque si senta scoraggiato nella preghiera, testimonia che Dio ascolta, anche se i tempi non coincidono con i nostri.
Non è un caso che molte associazioni e movimenti abbiano scelto Monica come patrona delle madri cristiane e delle donne che pregano per i figli lontani dalla fede.

Una donna semplice e straordinaria
La vita di santa Monica è la storia di una donna semplice e straordinaria insieme. Semplice perché vissuta nel quotidiano di una famiglia, straordinaria perché trasfigurata dalla fede. Le sue lacrime e le sue preghiere hanno plasmato un santo e, attraverso di lui, hanno inciso profondamente nella storia della Chiesa.
La sua memoria, celebrata il 27 agosto, alla vigilia della festa di sant’Agostino, ci ricorda che la santità passa spesso attraverso la perseveranza nascosta, il sacrificio silenzioso, la speranza che non delude.
Nelle parole di Agostino, rivolte a Dio per la madre, troviamo la sintesi della sua eredità spirituale: “Non posso dire abbastanza di quanto la mia anima sia debitrice a lei, mio Dio; ma tu sai tutto. Ripagale con la tua misericordia quanto ti chiese con tante lacrime per me” (Conf., IX, 13).

Santa Monica attraverso le vicende della sua vita ha raggiunto la felicità eterna che lei stessa ha definito: “La felicità consiste senza dubbio nel raggiungimento del fine e si deve aver fiducia che ad esso possiamo esser condotti da una ferma fede, da una viva speranza, da un’ardente carità”. (La Felicità 4,35).




La pastora, le pecore e agnelli (1867)

Nel brano che segue, Don Bosco, fondatore dell’Oratorio di Valdocco, racconta ai suoi giovani un sogno avuto tra il 29 e il 30 maggio 1867 e narrato la sera della Domenica della Santissima Trinità. In una pianura sconfinata, greggi e agnelli diventano allegoria del mondo e dei ragazzi: prati rigogliosi o deserti aridi figurano la grazia e il peccato; corna e ferite denunciano scandalo e disonore; la cifra «3» preannuncia tre carestie – spirituale, morale, materiale – che minacciano chi si allontana da Dio. Dal racconto sgorga l’appello pressante del santo: custodire l’innocenza, tornare alla grazia con la penitenza, così che ogni giovane possa rivestirsi dei fiori della purezza e partecipare alla gioia promessa dal buon Pastore.

                La Domenica della SS. Trinità, 16 giugno, nella qual festa ventisei anni addietro Don Bosco aveva celebrata la sua prima messa, i giovani erano in aspettazione del sogno, il cui racconto era stato da lui annunziato il giorno 13. Il suo ardente desiderio era il bene del suo gregge spirituale, e sempre sua norma gli ammonimenti e le promesse del capo XXVII, v. 23-25 del libro dei Proverbi: Diligenter agnosce vultum pecoris tui, tuosque greges considera: non enim habebis iugiter potestatem: sed corona tribuetur in generationem et generationem. Aperta sunt prata, et apparuerunt herbae virentes, et collecta sunt foena de montibus… (Preoccupati dello stato del tuo gregge, abbi cura delle tue mandrie, perché le ricchezze non sono eterne e una corona non dura per sempre. Tolto il fieno, ricresce l’erba nuova e si raccolgono i foraggi sui monti, Pro 27,23-25). Colle sue preghiere chiedeva di acquistare conoscenza esatta delle sue pecorelle, di aver la grazia di vigilarle attentamente, di assicurarne la custodia anche dopo la sua morte e di vederle provviste di facile e comodo nutrimento spirituale e materiale. Don Bosco adunque, dopo le orazioni della sera, così parlò:

                In una delle ultime notti del mese di Maria, il 29 o 30 maggio, essendo in letto e non potendo dormire, pensava ai miei cari giovani e diceva fra me stesso.
                – Oh se potessi sognare qualche cosa che fosse di loro profitto!
                Stetti alquanto riflettendo e mi risolsi:
                – Sì! adesso voglio fare un sogno per i giovani!
                Ed ecco che restai addormentato. Non appena il sonno mi ebbe preso, mi trovai in una immensa pianura coperta da un numero sterminato di grosse pecore, le quali divise in gregge pascolavano in prati estesi a vista d’occhio. Volli avvicinarmi ad esse e mi diedi a cercare il pastore, meravigliandomi che vi potesse essere al mondo chi possedesse così gran numero di pecore. Cercai per breve tempo, quando mi vidi innanzi un pastore appoggiato al suo bastone. Subito mi feci ad interrogarlo e gli domandai:
                – Di chi è questo gregge così numeroso?
                Il pastore non mi diede risposta. Replicai la domanda ed allora mi disse:
                – Che cosa hai da saper tu?
                – E perché, gli soggiunsi, mi rispondi in questo modo?
                – Ebbene: questo gregge è del suo padrone!
                Del suo padrone? Lo sapevo già questo; dissi fra me. Ma, continuai ad alta voce:
                – Chi è questo padrone?
                – Non t’infastidire, mi rispose il pastore: lo saprai.
                Allora percorrendo con lui quella valle mi diedi ad esaminare il gregge e tutta quella regione per la quale questo andava vagando. La valle era in alcuni luoghi coperta di ricca verdura con alberi che stendevano larghe frondi con ombre graziose ed erbe freschissime delle quali si pascevano belle e floride pecore. In altri luoghi la pianura era sterile, arenosa, piena di sassi con spineti senza foglie, e di gramigne giallastre, e non aveva un filo d’erba fresca; eppure anche qui vi erano moltissime altre pecore che pascolavano, ma d’aspetto miserabile.
                Io domandava varie spiegazioni al mio condottiero intorno a questo gregge, ed egli, senza dar veruna risposta alle mie domande, mi disse:
                – Tu non sei destinato per loro. A queste tu non devi pensare. Ti condurrò io a vedere il gregge del quale devi prenderti cura.
                – Ma tu chi sei?
                – Sono il padrone; vieni meco a guardar là, da quella parte.
                E mi condusse in un altro punto della pianura dove erano migliaia e migliaia di soli agnellini. Questi erano tanto numerosi che non si potevano contare, ma così magri che a stento passeggiavano. Il prato era secco ed arido e sabbioso e non vi si scorgeva un fil d’erba fresca, un ruscello; ma solo qualche sterpo disseccato e cespugli inariditi. Ogni pascolo era stato pienamente distrutto dagli stessi agnelli.
                Si vedeva a prima vista che quei poveri agnelli coperti di piaghe avevano molto sofferto e molto soffrivano ancora. Cosa strana! Ciascuno aveva due corna lunghe e grosse che gli spuntavano sulla fronte, come se fossero vecchi montoni e sulla punta delle corna avevano una appendice in forma di “S”. Meravigliato, me ne stava perplesso nel vedere quella strana appendice di genere così nuovo, e non sapeva darmi pace perché quegli agnellini avessero già le corna così lunghe e grosse, ed avessero distrutto già così presto tutta la loro pastura.
                – Come va questo? dissi al pastore. Son ancora così piccoli questi agnelli ed hanno già tali corna?
                – Guarda, mi rispose; osserva.
                Osservando più attentamente vidi che quegli agnelli in tutte le parti del corpo, sul dosso, sulla testa, sul muso, sulle orecchie, sul naso, sulle gambe, sulle unghie portavano stampati tanti numeri “3” in cifra.
                – Ma che vuol dire ciò? esclamai. Io non capisco niente.
                – Come, non capisci? disse il pastore: Ascolta adunque e saprai tutto. Questa vasta pianura è il gran mondo. I luoghi erbosi la parola di Dio e la grazia. I luoghi sterili ed aridi sono quei luoghi dove non si ascolta la parola di Dio e solo si cerca di piacere al mondo. Le pecore sono gli uomini fatti, gli agnelli sono i giovanetti e per questi Iddio ha mandato D. Bosco. Quest’angolo di pianura che tu vedi è l’Oratorio e gli agnelli ivi radunati i tuoi fanciulli. Questo luogo così arido figura lo stato di peccato. Le corna significano il disonore. La lettera “S” vuol dire scandalo. Essi col mal esempio vanno alla rovina. Fra questi agnelli ve ne sono alcuni che hanno le corna rotte; furono scandalosi, ma ora hanno cessato di dare scandalo. Il numero “3” vuol dire che portano la pena della colpa, cioè che soffriranno tre grandi carestie; carestia spirituale, morale, materiale. 1° La carestia d’aiuti spirituali: domanderanno questo aiuto e non l’avranno. 2 ° Carestia di parola di Dio. 3° Carestia di pane materiale. L’aver gli agnelli mangiato tutto, significa non rimaner più loro altro che il disonore e il numero “3”, ossia le carestie. Questo spettacolo mostra eziandio le sofferenze attuali di tanti giovani in mezzo al mondo. Nell’Oratorio anche quelli che pur ne sarebbero indegni non mancano di pane materiale.
                Mentre io ascoltava ed osservava ogni cosa come smemorato, ecco nuova meraviglia. Tutti quelli agnelli cambiarono aspetto!
                Alzatisi sulle gambe posteriori divennero alti e tutti presero la forma di altrettanti giovanetti. Io mi avvicinai per vedere se ne conoscessi alcuno. Erano tutti giovani dell’Oratorio. Moltissimi io non li aveva mai veduti, ma tutti si dichiaravano essere figli del nostro Oratorio. E fra quelli che non conosceva ve n’erano anche alcuni pochi che attualmente si trovano nell’Oratorio. Sono coloro che non si presentano mai a D. Bosco, che non vanno mai a prendere consiglio da lui, coloro che lo fuggono: in una parola, coloro che Don Bosco non conosce ancora! L’immensa maggioranza però degli sconosciuti era di coloro che non furono né sono ancora nell’Oratorio.
                Mentre con pena osservava quella moltitudine, colui che mi accompagnava mi prese per mano e mi disse:
                – Vieni con me e vedrai altre cose! – E mi condusse in un angolo remoto della valle, circondato da collinette, cinto da una siepe di piante rigogliose, ove era un gran prato verdeggiante, il più ridente che immaginar si possa, ripieno di ogni sorta di erbe odorifere, sparso di fiori campestri, con freschi boschetti e correnti di limpide acque. Qui trovai un altro grandissimo numero di figliuoli, tutti allegri, i quali coi fiori del prato si erano formati o andavano formandosi una vaghissima veste.
                – Almeno hai costoro che ti dànno grande consolazione.
                – E chi sono? interrogai.
                – Sono quelli che si trovano in grazia di Dio.
                Ah! io posso dire di non avere mai vedute cose e persone così belle e risplendenti, né mai avrei potuto immaginare tali splendori. È inutile che mi ponga a descriverli, perché sarebbe un guastare quello che è impossibile a dirsi senza che si veda. Erami però riserbato uno spettacolo assai più sorprendente. Mentre me ne stava guardando con immenso piacere quei giovanetti e fra questi ne contemplava molti che non conosceva ancora, la mia guida mi soggiunse:
                – Vieni, vieni con me e ti farò vedere una cosa che ti darà un gaudio ed una consolazione maggiore. – E mi condusse in un altro prato tutto smaltato di fiori più vaghi e più odorosi dei già veduti. Aveva l’aspetto di un giardino principesco. Qui si scorgeva un numero di giovani non tanto grande, ma che erano di così straordinaria bellezza e splendore da far scomparire quelli da me ammirati poc’anzi. Alcuni di costoro sono già nell’Oratorio, altri qui verranno più tardi.
                Mi disse il pastore:
                – Costoro sono quelli che conservano il bel giglio della purità. Questi sono ancora vestiti della stola dell’innocenza.
                Guardava estatico. Quasi tutti portavano in capo una corona di fiori di indescrivibile bellezza. Questi fiori erano composti di altri piccolissimi fiorellini di una gentilezza sorprendente, e i loro colori erano di una vivezza e varietà che incantava. Più di mille colori in un sol fiore, e in un sol fiore si vedevano più di mille fiori. Scendeva ai loro piedi una veste di bianchezza smagliante, anch’essa tutta intrecciata di ghirlande di fiori, simili a quelli della corona. La luce incantevole che partiva da questi fiori rivestiva tutta la persona e specchiava in essa la propria gaiezza. I fiori si riflettevano l’uno negli altri e quelli delle corone in quelli delle ghirlande, riverberando ciascuno i raggi che erano emessi dagli altri. Un raggio di un colore infrangendosi con un raggio di un altro colore formava raggi nuovi, diversi, scintillanti e quindi ad ogni raggio si riproducevano sempre nuovi raggi, sicché io non avrei mai potuto credere esservi in paradiso un incanto così molteplice. Ciò non è tutto. I raggi e i fiori della corona degli uni si specchiavano nei fiori e nei raggi della corona di tutti gli altri: così pure le ghirlande, e la ricchezza della veste degli uni si riflettevano nelle ghirlande, nelle vesti degli altri. Gli splendori poi del viso di un giovane, rimbalzando, si fondevano con quelli del volto dei compagni e riverberando centuplicati su tutte quelle innocenti e rotonde faccine producevano tanta luce da abbarbagliare la vista ed impedire di fissarvi lo sguardo.
                Così in un solo si accumulavano le bellezze di tutti i compagni con un’armonia di luce ineffabile! Era la gloria accidentale dei santi. Non vi è nessuna immagine umana per descrivere anche languidamente quanto divenisse bello ciascuno di quei giovani in mezzo a quell’oceano di splendori. Fra questi ne osservai alcuni in particolare, che adesso sono qui all’Oratorio e son certo che, se potessero vedere almeno la decima parte della loro attuale speciosità, sarebbero pronti a soffrire il fuoco, a lasciarsi tagliare a pezzi, ad andare insomma incontro a qualunque più atroce martirio, piuttosto che perderla.
                Appena potei alquanto riavermi da questo celestiale spettacolo, mi volsi al duce e gli dissi:
                – Ma dunque fra tanti miei giovani sono così pochi gli innocenti? Sono così pochi coloro che non han mai perduta la grazia di Dio?
                Mi rispose il pastore:
                – Come? Non ti pare abbastanza grande questo numero? Del resto quelli che hanno avuto la disgrazia di perdere il bel giglio della purità, e con questo l’innocenza, possono ancor seguire i loro compagni nella penitenza. Vedi là? In quel prato si ritrovano ancor molti fiori; ebbene essi possono tessersi una corona e una veste bellissima e seguire ancora gli innocenti nella gloria.
                – Suggeriscimi ancora qualche cosa da dire ai miei giovani! io soggiunsi allora.
                – Ripeti ai tuoi giovani, che se essi conoscessero quanto è preziosa e bella agli occhi di Dio l’innocenza e la purità, sarebbero disposti a fare qualunque sacrificio per conservarla. Di’ loro che si facciano coraggio a praticare questa candida virtù, che supera le altre in bellezza e splendore. Imperciocché i casti sono quelli che crescunt tanquam lilia in conspectu Domini (crescono come gigli davanti al Signore).
                Io allora volli andare in mezzo a quei miei carissimi, così vagamente incoronati, ma inciampai nel terreno e svegliatomi mi trovai in letto.
                Figliuoli miei, siete voi tutti innocenti? Forse ve ne saranno fra voi alcuni e a questi io rivolgo le mie parole. Per carità, non perdete un pregio di valore inestimabile! È una ricchezza che vale quanto vale il Paradiso quanto vale Iddio! Se aveste potuto vedere come erano belli questi giovanetti coi loro fiori. L’insieme di questo spettacolo era tale che io avrei dato qualunque cosa del mondo per godere ancora di quella vista, anzi, se fossi pittore, l’avrei per una grazia grande poter dipingere in qualche modo ciò che vidi. Se voi conosceste la bellezza di un innocente, vi assoggettereste a qualunque più penoso stento, perfino anco alla morte, per conservare il tesoro dell’innocenza.
                Il numero di coloro che erano ritornati in grazia, quantunque mi abbia recato grande consolazione, tuttavia io sperava che dovesse essere assai maggiore. E restai assai meravigliato nel vedere alcuno che or qui in apparenza sembra un buon giovane e là aveva le corna lunghe e grosse…

                 D. Bosco finì con una calda esortazione a coloro che hanno perduta l’innocenza, perché si adoperino volenterosamente a riacquistare la grazia per mezzo della penitenza.
                Due giorni dopo, il 18 giugno, D. Bosco risaliva alla sera sulla cattedra e dava alcune spiegazioni del sogno.

                Non farebbe più d’uopo nessuna spiegazione riguardo al sogno, ma ripeterò quello che già dissi. La gran pianura è il mondo, e anche i luoghi e lo stato donde furono chiamati qui tutti i nostri giovani. Quell’angolo dove erano gli agnelli è l’Oratorio. Gli agnelli sono tutti i giovani, che furono, sono presentemente, e saranno nell’Oratorio. I tre prati in questo angolo, l’arido, il verde, il fiorito, indicano lo stato di peccato, lo stato di grazia e lo stato d’innocenza. Le corna degli agnelli sono gli scandali che si sono dati nel passato. Ve ne erano poi di quelli che avevano le corna rotte e costoro furono scandalosi, ma ora cessarono dal dare scandalo. Tutte quelle cifre “3”, che si vedevano stampate su ciascuno agnello, sono, come seppi dal pastore, tre castighi che Dio manderà sui giovani: 1° Carestia d’aiuti spirituali. 2° Carestia morale, ossia mancanza d’istruzione religiosa e della parola di Dio. 3° Carestia materiale, ossia mancanza anche di vitto. I giovani risplendenti sono coloro che si trovano in grazia di Dio, e soprattutto quelli che conservano ancora l’innocenza battesimale e la bella virtù della purità. E quanta gloria li aspetta!
                Mettiamoci dunque, cari giovani, coraggiosamente a praticare la virtù. Chi non è in grazia di Dio, si metta di buona voglia e quindi con tutte le sue forze e coll’aiuto di Dio perseveri sino alla morte. Che se tutti non possiamo essere in compagnia degli innocenti a far corona all’immacolato Agnello, Gesù, almeno possiamo seguirlo dopo di loro.
                Uno mi domandò se era fra gli innocenti ed io gli dissi di no e che aveva le corna, ma rotte. Mi domandò ancora se aveva delle piaghe ed io gli dissi di sì.
                – E che cosa significano queste piaghe? egli soggiunse.
                Risposi:
                – Non temere. Sono rimarginate, spariranno; queste piaghe ora non sono più disonorevoli, come non sono disonorevoli le cicatrici di un combattente, il quale malgrado le tante ferite e l’incalzamento e gli sforzi del nemico, seppe vincere e riportare vittoria. Sono dunque cicatrici onorevoli!… Ma è più onorevole chi combattendo valorosamente in mezzo ai nemici non riporta nessuna ferita. La sua incolumità eccita la meraviglia di tutti.
Spiegando questo sogno, D. Bosco disse eziandio che non andrà più molto tempo che si faranno sentire questi tre mali: – Peste, fame e quindi mancanza di mezzi per farci del bene.
Soggiunse che non passeranno tre mesi che accadrà qualche cosa di particolare.
Questo sogno produsse nei giovani l’impressione e i frutti che avevano ottenuto tante altre volte simili esposizioni.
(MB VIII 839-845)




Verso l’alto! San Pier Giorgio Frassati

“Carissimi giovani, la nostra speranza è Gesù. È Lui, come diceva San Giovanni Paolo II, «che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande […], per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna» (XV Giornata Mondiale della Gioventù, Veglia Di Preghiera, 19 agosto 2000). Teniamoci uniti a Lui, rimaniamo nella sua amicizia, sempre, coltivandola con la preghiera, l’adorazione, la Comunione eucaristica, la Confessione frequente, la carità generosa, come ci hanno insegnato i beati Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, che presto saranno proclamati Santi. Aspirate a cose grandi, alla santità, ovunque siate. Non accontentatevi di meno. Allora vedrete crescere ogni giorno, in voi e attorno a voi, la luce del Vangelo” (Papa Leone XIV – omelia Giubileo dei giovani – 3 agosto 2025).

Pier Giorgio e don Cojazzi
Il senatore Alfredo Frassati, ambasciatore del Regno d’Italia a Berlino, era il proprietario e direttore del quotidiano La Stampa di Torino. I Salesiani avevano un grosso debito di riconoscenza verso di lui. In occasione della grande montatura scandalistica nota come “I fatti di Varazze”, in cui si era cercato di gettare fango sulla onorabilità dei Salesiani, Frassati ne aveva preso le difese. Mentre persino alcuni giornali cattolici sembravano smarriti e disorientati di fronte alle pesanti e penose accuse, La Stampa, condotta una rapida inchiesta, aveva precorso le conclusioni della magistratura proclamando l’innocenza dei Salesiani. Così, quando da casa Frassati giunse la richiesta di un salesiano che si occupasse di seguire negli studi i due figli del senatore, Pier Giorgio e Luciana, don Paolo Albera, Rettor Maggiore, si sentì in obbligo di accettare. Inviò don Antonio Cojazzi (1880-1953). Era l’uomo adatto: buona cultura, temperamento giovanile di un’eccezionale capacità comunicativa. Don Cojazzi si era laureato in lettere nel 1905, in filosofia nel 1906, e aveva conseguito il diploma di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese dopo un serio perfezionamento in Inghilterra.
In casa Frassati don Cojazzi diventò qualcosa di più del ‘precettore’ che segue i ragazzi. Diventò un amico, specialmente di Pier Giorgio, di cui dirà: “Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e il liceo con lezioni che nei primi anni erano quotidiane; lo seguii con crescente interesse e affetto”. Pier Giorgio, diventato uno dei giovani di punta dell’Azione Cattolica torinese, ascoltava le conferenze e le lezioni che don Cojazzi teneva ai soci del Circolo C. Balbo, seguiva con interesse la Rivista dei Giovani, saliva talvolta a Valsalice in cerca di luce e di consiglio nei momenti decisivi.

Un momento di notorietà
Pier Giorgio lo ebbe durante il Congresso Nazionale della Gioventù Cattolica italiana, nel 1921: cinquantamila giovani che sfilavano per Roma, cantando e pregando. Pier Giorgio, studente del politecnico, reggeva la bandiera tricolore del circolo torinese C. Balbo. Le truppe regie, ad un tratto, circondarono l’enorme corteo e lo presero d’assalto per strappare le bandiere. Si volevano impedire disordini. Un testimone raccontò: “Picchiano con i calci dei moschetti, afferrano, spezzano, strappano le nostre bandiere. Vedo Pier Giorgio alle prese con due guardie. Accorriamo in suo aiuto, e la bandiera, con l’asta spezzata, resta nelle sue mani. Imprigionati a forza in un cortile, i giovani cattolici vengono interrogati dalla polizia. Il testimone ricorda il dialogo condotto con i modi e le cortesie che usano in simili contingenze:
– E tu, come ti chiami?
– Pier Giorgio Frassati di Alfredo.
– Che cosa fa tuo padre?
– Ambasciatore d’Italia a Berlino.
Stupore, cambiamento di tono, scuse, offerta di immediata libertà.
– Uscirò quando usciranno gli altri.
Intanto lo spettacolo bestiale continua. Un sacerdote è buttato, letteralmente buttato nel cortile con l’abito talare strappato e una guancia sanguinante… Insieme ci inginocchiammo per terra, nel cortile, quando quel prete lacero alzò il rosario e disse: Ragazzi, per noi e per quelli che ci hanno percosso, preghiamo!”.

Amava i poveri
Pier Giorgio amava i poveri, li andava a cercare nei quartieri più lontani della città; saliva le scale strette e oscure; entrava nelle soffitte dove soltanto abitano la miseria e il dolore. Tutto quello che aveva in tasca era per gli altri, come tutto quello che teneva nel cuore. Arrivava a passare le notti al capezzale di ammalati sconosciuti. Una notte che non rincasava, il padre sempre più ansioso telefonò alla questura, agli ospedali. Alle due si sentì girare la chiave nella porta e Pier Giorgio entrò. Papà esplose:
– Senti, puoi stare fuori di giorno, di notte, nessuno ti dice niente. Ma quando fai così tardi, avverti, telefona!
Pier Giorgio lo guardò, e con la solita semplicità rispose:
– Babbo, dov’ero io, non c’era telefono.
Le Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli lo videro assiduo cooperatore; i poveri lo conobbero consolatore e soccorritore; le misere soffitte lo accolsero sovente fra le loro squallide mura come un raggio di sole per i suoi derelitti abitanti. Dominato da una profonda umiltà, quello che faceva non voleva che fosse conosciuto da alcuno.

Giorgetto bello e santo
Nei primi giorni del luglio 1925 Pier Giorgio fu assalito e stroncato da un violento attacco di poliomielite. Aveva 24 anni. Sul letto di morte, mentre un male terribile gli devastava la schiena, pensò ancora ai suoi poveri. Su un biglietto, con grafia ormai quasi indecifrabile, scrisse per l’ingegnere Grimaldi, suo amico: Ecco le iniezioni di Converso, la polizza è di Sappa. L’ho dimenticata, rinnovala tu.
Di ritorno dal funerale di Pier Giorgio, don Cojazzi scrive di getto un articolo per la Rivista dei Giovani: “Ripeterò la vecchia frase, ma sincerissima: non credevo di amarlo tanto. Giorgetto bello e santo! Perché mi cantano in cuore insistenti queste parole? Perché le udii ripetere, le udii pronunciare per quasi due giorni, dal padre, dalla madre, dalla sorella, con voce che diceva sempre e non ripeteva mai. E perché affiorano certi versi d’una ballata del Deroulède: «Si parlerà di lui a lungo, nei palazzi dorati e nei casolari sperduti! Perché di lui parleranno anche i tuguri e le soffitte, dove passò tante volte angelo consolatore». Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e parte del liceo… lo seguii con crescente interesse e affetto fino alla sua odierna trasfigurazione… Scriverò la sua vita. Si tratta della raccolta di testimonianze che presentano la figura di questo giovane nella pienezza della sua luce, nella verità spirituale e morale, nella testimonianza luminosa e contagiosa di bontà e di generosità”.

Il best-seller dell’editoria cattolica
Incoraggiato e spinto anche dall’arcivescovo di Torino, Mons. Giuseppe Gamba, don Cojazzi si mise al lavoro di buona lena. Le testimonianze arrivarono numerose e qualificate, furono ordinate e vagliate con cura. La mamma di Pier Giorgio seguiva il lavoro, dava suggerimenti, forniva materiale. Nel marzo del 1928 esce la vita di Pier Giorgio. Scrive Luigi Gedda: “Fu un successo strepitoso. In soli nove mesi vennero esaurite 30 mila copie del libro. Nel 1932 erano già state diffuse 70 mila copie. Nel giro di 15 anni il libro su Pier Giorgio raggiunse 11 edizioni, e forse fu il best-seller dell’editoria cattolica in quel periodo”.
La figura illuminata da don Cojazzi fu una bandiera per l’Azione Cattolica durante il difficile tempo del fascismo. Nel 1942 avevano preso il nome di Pier Giorgio Frassati: 771 associazioni giovanili di Azione Cattolica, 178 sezioni aspiranti, 21 associazioni universitarie, 6o gruppi di studenti medi, 29 conferenze di S. Vincenzo, 23 gruppi del Vangelo… Il libro fu tradotto almeno in 19 lingue.
Il libro di don Cojazzi segnò una svolta nella storia della gioventù italiana. Pier Giorgio, fu l’ideale additato senza alcuna riserva: uno che ha saputo dimostrare che essere cristiano fino in fondo non è affatto utopistico, né fantastico.
Pier Giorgio Frassati segnò una svolta anche nella storia di don Cojazzi. Quel biglietto scritto da Pier Giorgio sul letto di morte gli rivelò in maniera concreta, quasi brutale, il mondo dei poveri. Scrive lo stesso don Cojazzi: “Il Venerdì Santo di quest’anno (1928) con due universitari visitai per quattro ore i poveri fuori Porta Metronia. Quella visita mi procurò una salutarissima lezione e umiliazione. Io avevo scritto e parlato moltissimo sulle Conferenze di S. Vincenzo… eppure non ero mai andato una sola volta a visitare i poveri. In quei luridi capannoni mi vennero spesso le lacrime agli occhi… La conclusione? Eccola chiara e cruda per me e per voi: meno parole belle e più opere buone”.
Il contatto vivo con i poveri non solo un’attuazione immediata del Vangelo, ma una scuola di vita per i giovani. Sono la migliore scuola per i giovani, per educarli e tenerli nella serietà della vita. Chi si reca a visitare i poveri e ne tocca con mano le piaghe materiali e morali, come può sprecare il suo denaro, il suo tempo, la sua giovinezza? Come può lamentarsi dei propri lavori e dolori, quando ha conosciuto, per diretta esperienza, che altri soffrono più di lui?

Non vivacchiare, ma vivere!
Pier Giorgio Frassati è un esempio luminoso di santità giovanile, attuale, «inquadrato» nel nostro tempo. Egli attesta ancora una volta che la fede in Gesù Cristo è la religione dei forti e dei veramente giovani, che sola può illuminare tutte le verità con la luce del «mistero» e che soltanto essa può regalare la perfetta letizia. La sua esistenza è il perfetto modello della vita normale alla portata di tutti. Egli, come tutti i seguaci di Gesù e del Vangelo, incominciò dalle piccole cose; giunse alle altezze più sublimi a forza di sottrarsi ai compromessi di una vita mediocre e senza senso e impiegando la naturale testardaggine nei suoi fermi propositi. Tutto, nella sua vita, gli fu gradino per salire; anche ciò che gli avrebbe dovuto essere di inciampo. Fra i compagni era l’intrepido ed esuberante animatore di ogni impresa facendo convergere intorno a sé tanta simpatia e tanta ammirazione. La natura gli era stata larga di favori: di famiglia rinomata, ricco, d’ingegno sodo e pratico, fisico prestante e robusto, educazione completa, nulla gli mancava per farsi largo nella vita. Ma egli non intendeva vivacchiare, bensì conquistarsi il suo posto al sole, lottando. Era una tempra di uomo ed un’anima di cristiano.
La sua vita aveva in sé stessa una coerenza che riposava nell’unità dello spirito e della esistenza, della fede e delle opere. La sorgente di questa personalità così luminosa era nella profonda vita interiore. Frassati pregava. La sua sete della Grazia gli faceva amare tutto ciò che riempie e arricchisce lo spirito. S’accostava ogni giorno alla Santa Comunione, poi restava ai piedi dell’altare, a lungo, senza che nulla valesse a distrarlo. Pregava sui monti e per la via. Non era però, la sua, una fede ostentata, anche se i segni di croce fatti sulla pubblica strada passando davanti alle chiese erano grandi e sicuri, anche se il Rosario era detto ad alta voce, in una carrozza ferroviaria o nella camera di un albergo. Ma era piuttosto una fede vissuta così intensamente e schiettamente che erompeva dalla sua anima generosa e franca con una semplicità di atteggiamento che convinceva e commoveva. La sua formazione spirituale si irrobustì nelle adorazioni notturne di cui fu fervido propugnatore ed immancabile partecipante. Fece più di una volta gli esercizi spirituali traendone serenità e vigoria spirituale.
Il libro di don Cojazzi si chiude con la frase: «Averlo conosciuto o averne udito parlare significa amarlo, ed amarlo significa seguirlo». L’augurio che la testimonianza di Piergiorgio Frassati sia “sale e luce” per tutti, soprattutto per i giovani di oggi.




Profeti del perdono e della gratuità

In questi tempi, dove le notizie, giorno dopo giorno, ci comunicano esperienze di conflitto, di guerra e di odio, quanto è grande il rischio che noi come credenti finiamo per essere coinvolti in una lettura degli eventi che si riduce solamente a livello politico oppure ci limitiamo a prendere posizione a favore di una parte o dell’altra con degli argomenti che hanno a che fare con la nostra maniera di vedere le cose, con la nostra maniera di interpretare la realtà.

Nel discorso di Gesù che segue le beatitudini c’è una serie di “piccole/grandi lezioni” che il Signore offre. Sempre iniziano con il versetto “avete inteso che fu detto”. In una di queste il Signore richiama l’antico detto “occhio per occhio e dente per dente” (Mt 5,38).
Fuori dalla logica del Vangelo, questa legge non solo non è contestata, ma può anche essere presa come una regola che esprime il modo ristabilire i conti con coloro che ci hanno offeso. Ottenere vendetta è percepita come diritto‚ Fino a essere anche un dovere.
Gesù si presenta davanti a questa logica con una proposta completamente differente, totalmente opposta. A quello che abbiamo inteso, Gesù ci dice: “Ma io vi dico” (Mt 5,39). E qui come cristiani dobbiamo fare molta attenzione. Le parole di Gesù che seguono sono importanti non solamente per sé stesse, ma perché esprimono in una maniera molto sintetica tutto il suo messaggio. Gesù non viene per dirci che c’è un altro modo di interpretare la realtà. Gesù non si avvicina a noi per allargare lo spettro delle opinioni a proposito delle realtà terrene, in modo particolare quella che toccano la nostra vita. Gesù non è un’altra opinione, ma lui stesso incarna la proposta alternativa alla legge della vendetta.
La frase “ma io vi dico” è di fondamentale importanza perché adesso non è più la parola pronunciata, ma la persona stessa di Gesù. Quello che Gesù ci comunica lui lo vive. Quando Gesù dice “di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra” (Mt 5,39), queste stesse parole le ha vissute in prima persona. Sicuramente non possiamo dire di Gesù che predica bene ma vi fa male nel suo messaggio.
Per ritornare ai nostri tempi, queste parole di Gesù rischiano di essere percepite come le parole di una persona debole, reazioni di chi non è più capace di reagire ma soltanto di subire. E in effetti quando noi guardiamo a Gesù che si offre completamente sul legno della Croce, questa è l’impressione che possiamo avere. Eppure, sappiamo benissimo che col sacrificio sulla croce e frutto di un vissuto che parte dalla frase “ma io vi dico”. Perché tutto ciò che Gesù ci ha detto, lui ha finito per assumerlo in pieno. E assumendolo in pieno è riuscito a passare dalla croce alla vittoria. Quella di Gesù è una logica che apparentemente comunica una personalità perdente. Ma sappiamo benissimo che il messaggio che Gesù ci ha lasciato, e che lui lo ha vissuto pienamente, e la medicina di cui questo mondo oggi ne ha proprio bisogno.

Essere profeti del perdono significa assumere il bene come risposta al male. Significa avere la determinazione che la potenza del maligno non condizionerà il mio modo di vedere e di interpretare la realtà. Il perdono non è la risposta del debole. Il perdono è il segno più eloquente di quella libertà che è capace di riconoscere le ferite che il male lascia dietro di sé, ma che quelle stesse ferite non saranno mai una polveriera che fomenta la vendetta e l’odio.
Reagire al male con il male non fa altro che allargare ed approfondire le ferite dell’umanità. La pace e la concordia non crescono sul terreno dell’odio ed è la vendetta.

Essere profeti della gratuità richiede da noi la capacità di guardare al povero e all’ingente non con la logica del profitto, ma con la logica della carità. Il povero non sceglie di essere povero, ma chi sta bene alla possibilità di scegliere di essere generoso, buono e pieno di compassione. Quanto sarebbe differente il mondo se i nostri leader politici in questo scenario dove stanno crescendo i conflitti le guerre, abbiano la sensatezza di guardare a coloro che pagano il prezzo in queste divisioni, e sono i poveri, di emarginati quelli che non possono scappare perché non ce la fanno.
Se partiamo da una lettura puramente orizzontale, c’è da disperarsi. Non ci rimane altro che rimanere chiusi nelle nostre mormorazioni nelle nostre critiche. Eppure, no! Noi siamo educatori dei giovani. Sappiamo bene che questi giovani in questo nostro mondo stanno cercando punti di riferimento di un’umanità sana, di leaders politici capace di interpretare la realtà con dei criteri di giustizia e di pace. Ma quando i nostri giovani guardano attorno, sappiamo bene che colgono solamente il vuoto di una visione povera della vita.
Noi che siamo impegnati per la educazione dei giovani abbiamo una grossa responsabilità. Non basta commentare il buio che lascia un’assenza quasi completa di leadership. Non basta commentare che non ci sono proposte che hanno la capacità di infiammare la memoria dei giovani. Spetta ad ognuno e ad ognuna di noi accendere quella candela di speranza in questo buio, offrire esempi di umanità riuscita nella quotidianità.
Davvero vale la pena oggi essere profeti del perdono e della gratuità.




L’educazione della coscienza con san Francesco di Sales

            Con ogni probabilità è stato l’avvento della Riforma protestante a porre all’ordine del giorno il problema della coscienza, e, più precisamente, della «libertà di coscienza». In una lettera del 1597 a Clemente VIII, il prevosto di Sales deplorava la «tirannia» che lo «stato di Ginevra» faceva pesare «sulle coscienze dei cattolici». Domandava alla santa Sede di intervenire presso il re di Francia per ottenere che i Ginevrini concedessero «ciò che chiamano libertà di coscienza». Contrario a soluzioni militari della crisi protestante, faceva intravedere nella libertas conscientiae una possibile via d’uscita dal confronto violento, a condizione che la reciprocità fosse rispettata. Rivendicata da Ginevra a favore della Riforma, e da Francesco di Sales a beneficio del cattolicesimo, la libertà di coscienza stava per divenire uno dei pilastri della mentalità moderna.

Dignità della persona umana
            La dignità dell’individuo risiede nella coscienza, e la coscienza è in primo luogo sinonimo di sincerità, onestà, franchezza, convinzione. Il prevosto di Sales riconosceva ad esempio, «per scaricare la sua coscienza», che il progetto delle Controversie gli era stato in qualche modo imposto da altri Quando presentava le sue ragioni a favore della dottrina e della pratica cattolica, si preoccupava di precisare che lo faceva «in coscienza». «Ditemi in coscienza», domandava ai suoi contradditori. La «buona coscienza», infatti, fa sì che uno eviti certi atti che lo mettono in contraddizione con sé stesso.
            Tuttavia, la coscienza soggettiva individuale non può essere presa sempre come garante della verità oggettiva. Non si è sempre obbligati a credere ciò che uno vi dice in coscienza. «Mostratemi chiaramente – dice il prevosto ai signori di Thonon – che non mentite affatto, che proprio non mi ingannate, quando mi dite che in coscienza avete avuto questa o quell’ispirazione». La coscienza può essere vittima dell’illusione, in forma volontaria o anche involontariamente. «Gli avari incalliti, non soltanto non confessano di esserlo, ma non pensano in coscienza di esserlo».
            La formazione della coscienza è un compito essenziale, perché la libertà di coscienza comporta il rischio di «far il bene e il male», ma «scegliere il male non è usare, bensì abusare della nostra libertà». È un compito duro, perché la coscienza talvolta ci appare come un avversario che «combatte sempre contro noi e per noi»: essa «oppone costante resistenza alle nostre cattive inclinazioni», ma lo fa «per la nostra salvezza». Quando uno pecca, «il rimorso interiore si muove contro la sua coscienza con la spada in pugno», ma lo fa per «trafiggerla con un santo timore».
            Un mezzo per esercitare una libertà responsabile è la pratica dell’«esame di coscienza». Fare l’esame di coscienza è come seguire l’esempio delle colombe che si guardano «con occhi limpidi e puri», «si puliscono con cura e si ornano meglio che possono». Filotea è invitata a fare questo esame tutte le sere, prima di andare a coricarsi, chiedendosi «come ci si è comportati nelle varie ore della giornata; per farlo più facilmente si penserà a dove, con chi e a quali occupazioni ci si è dedicati».
            Una volta all’anno dovremo fare un esame approfondito dello «stato della nostra anima» davanti a Dio, al prossimo e a noi stessi, senza dimenticare un «esame degli affetti della nostra anima». L’esame – dice Francesco di Sales alle visitandine – vi condurrà a sondare «a fondo la vostra coscienza».
            Come alleggerire la coscienza quando uno la sente carica di un errore o di uno fallo? Certuni lo fanno in malo modo, giudicando e accusando gli altri «di vizi di cui sono succubi», pensando così di «addolcire i rimorsi della loro coscienza». In tal modo uno moltiplica il rischio di fare giudizi temerari. Al contrario, «coloro che si prendono correttamente cura della loro coscienza non sono affatto soggetti a giudizi temerari». Conviene considerare a parte il caso dei genitori, degli educatori e dei responsabili del bene pubblico, perché «una buona parte della loro coscienza consiste nel vegliare attentamente sulla coscienza degli altri».

Il rispetto di sé stessi
            Dall’affermazione della dignità e della responsabilità di ognuno dovrà nascere il rispetto di sé. Già Socrate e tutta l’antichità pagana e cristiana ne avevano mostrato il cammino:

È un detto dei filosofi, che però è stato ritenuto valido dai dottori cristiani: «Conosci te stesso», ossia, conosci l’eccellenza della tua anima per non avvilirla e disprezzarla.

            Certi nostri atti costituiscono non solo un’offesa di Dio, ma anche un’offesa della dignità della persona umana e della ragione. Le loro conseguenze sono deplorevoli:

La rassomiglianza e immagine di Dio, che portiamo in noi, viene imbrattata e sfigurata, la dignità del nostro spirito disonorata, e noi siamo resi simili agli animali senza ragione […], rendendoci schiavi delle nostre passioni e rovesciando l’ordine della ragione.

            Ci sono estasi e rapimenti che ci innalzano al di sopra della nostra condizione naturale e altri che ci abbassano: «O uomini, fino a quando sarete così insensati – scrive l’autore del Teotimo – dal voler calpestare la vostra dignità naturale, discendendo volontariamente e precipitandovi nella condizione delle bestie?».
            Il rispetto di sé stessi consentirà di evitare due pericoli opposti: l’orgoglio e il disprezzo dei doni che uno ha. In un secolo in cui il senso dell’onore era esaltato al massimo, Francesco di Sales ha dovuto intervenire per denunciare misfatti, in particolare nel problema del duello, che gli faceva «rizzare i capelli in testa», e più ancora l’orgoglio insensato che ne era la causa. «Sono scandalizzato» – scriveva alla sposa di un marito duellante – ; «in verità, non riesco a pensare come si possa avere un coraggio tanto sregolato persino per bagattelle e cose da nulla». Battendosi in duello è come se «diventassero l’uno carnefice dell’altro».
            Altri, al contrario, non osano riconoscere i doni ricevuti e peccano così contro il dovere della riconoscenza. Francesco di Sales denuncia «certa falsa e sciocca umiltà che impedisce di scoprire il buono che c’è in loro». Hanno torto, perché «i beni che Dio ha posto in noi vanno riconosciuti, stimati e onorati sinceramente».
            Il primo prossimo che devo rispettare e amare, sembra voler dire il vescovo di Ginevra, è il proprio io. Il vero amore verso me stesso e il rispetto dovutogli esigono che tenda alla perfezione e che mi corregga, se necessario, ma dolcemente, ragionevolmente e «seguendo la strada della compassione» piuttosto che quella dell’ira e del furore.
            Esiste infatti un amore di sé stessi non soltanto legittimo, ma anche benefico e comandato: «La carità ben ordinata incomincia da sé stessi» – dice il proverbio – e rispecchia bene il pensiero di Francesco di Sales, ma a condizione di non confondere l’amore di sé con l’amor proprio. L’amore di sé è buono, e Filotea è invitata a interrogarsi sul modo con cui ama sé stessa:

Tenete un buon ordine nell’amore di voi stessa? Perché soltanto il disordinato amore di noi stessi può mandarci in rovina. Ora, l’amore ordinato vuole che amiamo l’anima più del corpo, che cerchiamo di procurarci le virtù più di ogni altra cosa.

            Al contrario, l’amor proprio è un amore egoista, «narcisista», gonfio di sé stesso, geloso della propria bellezza e unicamente preoccupato del proprio interesse: «Narciso – dicono i profani – era un giovane cosi sdegnoso da non voler offrire il proprio amore a nessun altro; e infine, contemplandosi in una limpida fontana fu totalmente rapito dalla sua bellezza».

Il «rispetto dovuto alle persone»
            Se si rispetta sé stessi si sarà più preparati e disposti a rispettare gli altri. Il fatto di essere «l’immagine e la somiglianza di Dio» ha come corollario l’asserto secondo cui «tutti gli esseri umani godono della stessa dignità». Francesco di Sales, pur vivendo in una società segnata dall’antico regime, fortemente disuguale, ha promosso un pensiero e una prassi caratterizzate dal «rispetto dovuto alle persone».
            Bisogna iniziare dai bambini. La madre di san Bernardo – dice l’autore della Filotea – amava i suoi figli appena nati «con rispetto come una cosa sacra che Dio le aveva affidato». Un rimprovero molto grave rivolto dal vescovo di Ginevra ai pagani riguardava il loro disprezzo della vita di esseri indifesi. Il rispetto del bimbo che sta per nascere emerge in questo passo di una lettera, redatta secondo la retorica barocca dell’epoca, indirizzata da Francesco di Sales a una donna incinta. La incoraggia spiegandole che il bimbo che si sta formando nelle sue viscere non è soltanto «un’immagine vivente della divina Maestà», ma anche l’immagine di sua madre. Raccomanda a un’altra donna:

Offrite sovente alla gloria eterna del vostro Creatore la creaturina alla cui formazione vi ha voluto assumere come sua cooperatrice.

            Un altro risvolto del rispetto dovuto agli altri riguarda il tema della libertà. La scoperta di nuove terre aveva avuto, come conseguenza nefasta, il riemergere della schiavitù, che richiamava le pratiche degli antichi romani al tempo del paganesimo. La vendita di esseri umani li degradava al rango delle bestie:

Un giorno, Marcantonio comprò da un mercante due giovanetti; allora, come avviene ancora oggi in qualche contrada, si vendevano i bambini; c’erano degli uomini che se li procuravano e poi li trafficavano come si fa per i cavalli nei nostri paesi.

            Il rispetto degli altri è continuamente minacciato in forma più sottile dalla maldicenza e dalla calunnia. Francesco di Sales insiste parecchio sui «peccati di lingua». Un capitolo della Filotea che tratta esplicitamente di tale argomento è intitolato L’onestà nelle parole e rispetto che si deve alle persone. Rovinare la reputazione di qualcuno è commettere un «omicidio spirituale»; è sottrarre «la vita civile» a colui di cui si parla male. Così pure, «biasimando il vizio», ci si sforzerà di risparmiare il più possibile «la persona implicata in esso».
            Certe categorie di persone sono facilmente denigrate o disprezzate. Francesco di Sales difende la dignità della gente del popolo fondandosi sul Vangelo: «San Pietro – commenta – era un uomo rude, grossolano, un vecchio pescatore, un mestierante di bassa condizione; san Giovanni, al contrario, era un gentiluomo, dolce, amabile, saggio; san Pietro, invece, ignorante». Orbene, è stato san Pietro ad essere scelto per guidare gli altri e per essere il «superiore universale».
            Proclama la dignità dei malati, dicendo che «le anime che sono in croce sono dichiarate regine». Denunciando la «crudeltà verso i poveri» ed esaltando la «dignità dei poveri», giustifica e precisa l’atteggiamento che si deve tenere verso di loro, spiegando «come dobbiamo onorarli e quindi visitarli come rappresentanti di Nostro Signore». Nessuno è inutile, nessuno è insignificante: «Non vi è al mondo oggetto che non possa essere utile per qualche cosa; ma bisogna saperne trovare l’uso e il luogo».

L’«uno-diverso» salesiano
            Il problema che da sempre ha tormentato le società umane è quello di conciliare tra loro la dignità e la libertà di ogni individuo con quelle degli altri. Ricevette da Francesco di Sales un chiarimento originale grazie all’invenzione di una nuova parola. Infatti, ammesso che l’universo è formato da «tutte le cose create, visibili e invisibili» e che «la loro diversità viene ricondotta a unità», il vescovo Ginevra propose di chiamarlo «uno-diverso», ossia «unico e diverso, unico con diversità e diverso con unità».
            Per lui, ogni essere è unico. Le persone sono come le perle di cui parla Plinio: «sono talmente uniche, ciascuna nella sua qualità, che non se ne trovano mai due perfettamente uguali». È significativo che le sue due opere principali, l’Introduzione alla vita devota e il Trattato dell’amore di Dio siano indirizzate a una persona singola, Filotea e Teotimo. Quale varietà e diversità tra gli esseri! «Senza dubbio, come vediamo che non si trovano mai due uomini perfettamente uguali quanto ai doni della natura, così non se ne trovano mai di perfettamente uguali quanto ai doni soprannaturali». La varietà lo incantava anche da un punto di vista puramente estetico, ma temeva una curiosità indiscreta sulle sue cause:

Se qualcuno si ponesse la domanda perché Dio abbia fatto i cocomeri più grossi delle fragole, o i gigli più grandi delle violette; perché il rosmarino non sia una rosa o perché il garofano non sia una calendola; perché il pavone sia più bello di un pipistrello, o perché il fico sia dolce e il limone aspro, si riderebbe delle sue domande e gli si direbbe: pover’uomo, siccome la bellezza del mondo richiede varietà, è necessario che nelle cose ci siano perfezioni diverse e differenziate e che l’una non sia l’altra; ecco perché le une sono piccole, le altre grandi, le une aspre, le altre dolci, le une più belle, le altre meno. […] Tutte hanno il loro pregio, la loro grazia, il loro splendore, e tutte, viste nell’insieme delle loro varietà, costituiscono un meraviglioso spettacolo di bellezza.

            La diversità non ostacola l’unità, tutt’altro la rende ancor più ricca e bella. Ogni fiore ha le sue caratteristiche, che lo distinguono da tutti gli altri: «Non è proprio delle rose essere bianche, mi sembra, perché quelle vermiglie sono più belle e hanno un profumo migliore, il quale però è proprio del giglio». Certo, Francesco di Sales non sopporta la confusione e il disordine, ma è ugualmente nemico dell’uniformità. La diversità degli esseri può condurre alla dispersione e alla rottura della comunione, ma se c’è l’amore, «vincolo della perfezione», niente è perduto, al contrario, la diversità è esaltata dall’unione.
            In Francesco di Sales c’è sicuramente una reale cultura dell’individuo, ma questa non è mai una chiusura al gruppo, alla comunità o alla società. Egli vede spontaneamente l’individuo inserito in un contesto o «stato» di vita, che segna marcatamente l’identità e l’appartenenza di ciascuno. Non sarà possibile fissare un programma o un progetto uguale per tutti, per il semplice fatto che sarà applicato e attuato in maniera diversa «per il gentiluomo, per l’artigiano, per il valletto, per il principe, per la vedova, per la giovane, per la sposata»; bisogna inoltre adattarlo «alle forze e ai doveri di ognuno in particolare. Il vescovo di Ginevra vede la società ripartita in spazi vitali caratterizzati dall’appartenenza sociale e solidarietà di gruppo, come quando tratta «della compagnia di soldati, della bottega degli artigiani, della corte dei principi, della famiglia di gente sposata».
            L’amore personalizza e, quindi, individualizza. L’affetto che lega una persona a un’altra è unico, come dimostra Francesco di Sales nel suo rapporto con la signora di Chantal: «Ogni affetto ha una sua peculiarità che lo differenzia dagli altri; quello che provo per voi possiede una certa particolarità che mi consola infinitamente, e, per dire tutto, per me è oltremodo fruttuoso». Il sole illumina tutti e ciascuno: «rischiarando un angolo della terra, non lo rischiara meno di quel che farebbe se non risplendesse altrove, ma solamente in quell’angolo».

L’essere umano è in divenire
            Umanista cristiano, Francesco di Sales crede infine alla possibilità che la persona umana ha di perfezionarsi. Erasmo aveva forgiato la formula: Homines non nascuntur sed finguntur. Mentre l’animale è un essere predeterminato, guidato dall’istinto, l’uomo, al contrario, è in perpetua evoluzione. Non solo cambia, ma può cambiare sé stesso, tanto in meglio che in peggio.
            Ciò che preoccupava interamente l’autore del Teotimo era perfezionare sé stesso e aiutare gli altri a perfezionarsi, e non soltanto in ambito religioso, bensì in ogni cosa. Dalla nascita alla tomba, l’uomo è in una situazione di apprendista. Imitiamo il coccodrillo che «non cessa mai di crescere fin tanto che vive». Infatti, «rimanere in uno stesso stato a lungo non è possibile: chi non avanza, indietreggia in questo traffico; chi non sale, scende in questa scala; chi non vince è vinto in questo combattimento». Egli cita san Bernardo che diceva: «È scritto in modo particolare per l’uomo, che non si troverà mai nello stesso stato: bisogna che avanzi o indietreggi». Andiamo avanti:

Non sai che sei in cammino e che il camino non è fatto per sedersi, ma per andare avanti? Ed è talmente fatto per avanzare, che muoversi in avanti si chiama camminare.

            Ciò significa anche che la persona umana è educabile, capace di apprendere, di correggersi e di migliorarsi. E ciò è vero a tutti i livelli. L’età a volte non c’entra per nulla. Guardate questi fanciulli cantori della cattedrale, che superano di gran lunga le capacità del loro vescovo in questo loro ambito: «Ammiro questi bambini – diceva – che a mala pena sanno parlare e che cantano già la loro parte; comprendono tutti i segni e le regole musicali, mentre io non saprei proprio come cavarmela, io che sono un uomo fatto e che si vorrebbe far passare per un grande personaggio». Nessuno in questo mondo è perfetto:

Ci sono persone di loro natura leggere, altre sgarbate, altre ancora ben restie ad ascoltare le opinioni altrui, e altre infine portate all’indignazione, altre alla collera e altre all’amore; per farla breve, troviamo ben poche persone in cui non sia possibile scoprire l’una o l’altra di simili imperfezioni.

            Si deve allora disperare di poter migliorare il proprio temperamento, correggendo qualcuna delle nostre naturali inclinazioni? Niente affatto.

Per quanto, infatti, siano in ciascuno di noi come proprie e naturali, se con l’applicazione a un attaccamento contrario si possono correggere e regolare, e perfino uno può liberarsene e purificarsi, allora, vi dico Filotea, che bisogna farlo. Si è pur trovato il modo di far diventare dolci i mandorli amari: basta forarli al piede e farne uscire il succo; perché mai non potremmo allora far uscire le nostre inclinazioni perverse, per diventare così migliori?

            Di qui la conclusione ottimista ma esigente: «Non c’è natura buona che non si possa far diventare malvagia, tramite abitudini viziose; non c’è natura tanto perversa che non si possa, anzitutto con la grazia di Dio e poi con l’impegno industrioso e la diligenza, domare e vincere». Se l’uomo è educabile, bisogna non disperare di nessuno e guardarsi bene dai pregiudizi nei confronti delle persone:

Non dite: quel tale è un ubriacone, anche se l’avete visto ubriaco; è un adultero, per averlo visto peccare; è un incestuoso, per averlo colto in quella disgrazia; perché un solo atto non basta per dare il nome alla cosa. […] E anche quando un uomo fosse stato a lungo vizioso, si correrebbe lo stesso il rischio di mentire chiamandolo vizioso.

            La persona umana non ha mai terminato di coltivare il suo giardino. È la lezione che il fondatore delle visitandine inculcava loro, quando le chiamava «a coltivare la terra e il giardino» dei loro cuori e dei loro spiriti, perché non esiste «uomo tanto perfetto da non aver bisogno di impegnarsi sia per crescere nella perfezione e sia per conservarla».




Don José-Luis Carreño, missionario salesiano

Don José Luis Carreño (1905-1986) è stato descritto dallo storico Joseph Thekkedath come “il salesiano più amato dell’India del Sud” nella prima parte del ventesimo secolo. In ogni luogo in cui ha vissuto – sia in India britannica, nella colonia portoghese di Goa, nelle Filippine o in Spagna – troviamo salesiani che custodiscono con affetto la sua memoria. Stranamente, però, non disponiamo ancora di una biografia adeguata di questo grande salesiano, eccetto la corposa lettera mortuaria redatta da don José Antonio Rico: “José Luis Carreño Etxeandía, obrero de Dios”. Speriamo che presto si possa colmare questa lacuna. Don Carreño è stato uno degli artefici della regione dell’Asia Sud, e non possiamo permetterci di dimenticarlo.

            José-Luis Carreño Etxeandía nacque a Bilbao, in Spagna, il 23 ottobre 1905. Rimasto orfano di madre alla tenera età di otto anni, fu accolto nella casa salesiana di Santander. Nel 1917, all’età di dodici anni, entrò nell’aspirantato di Campello. Ricorda che a quei tempi “non si parlava molto di Don Bosco… Ma per noi un Don Binelli era un Don Bosco, per non parlare di Don Rinaldi, allora Prefetto Generale, le cui visite ci lasciavano una sensazione soprannaturale, come quando i messaggeri di Yahweh visitarono la tenda di Abramo”.
            Dopo il noviziato e postnoviziato, svolse il tirocinio come assistente dei novizi. Doveva essere un chierico brillante, perché di lui scrive don Pedro Escursell al Rettor Maggiore: “Sto parlando proprio in questo momento con uno dei chierici modello di questa casa. È un assistente nella formazione del personale di questa Ispettoria; mi dice che da tempo chiede di essere mandato nelle missioni e dice che ha rinunciato a chiederlo perché non riceve risposta. È un giovane di grande valore intellettuale e morale.”
            Alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale, nel 1932, il giovane José-Luis scrisse direttamente al Rettor Maggiore, offrendosi per le missioni. L’offerta fu accettata, e fu inviato in India, dove sbarcò a Mumbai nel 1933. Appena un anno dopo, quando fu eretta l’Ispettoria dell’India del Sud, fu nominato maestro dei novizi a Tirupattur: aveva appena 28 anni. Con le sue straordinarie qualità di mente e di cuore, divenne rapidamente l’anima della casa e lasciò una profonda impressione nei suoi novizi. “Ci conquistò con il suo cuore paterno”, scrive uno di loro, l’arcivescovo Hubert D’Rosario di Shillong.
            Don Joseph Vaz, un altro novizio, raccontava spesso come Carreño si fosse accorto che lui tremava di freddo durante una conferenza. “Aspetta un momento, hombre,” disse il maestro dei novizi, e uscì. Poco dopo rientrò con un maglione blu che consegnò a Joe. Joe notò che il maglione era stranamente caldo. Poi si ricordò che sotto la talare il suo maestro indossava qualcosa di blu… che adesso non c’era più. Carreño gli aveva dato il suo stesso maglione.
            Nel 1942, quando il governo britannico in India internò tutti gli stranieri provenienti da paesi in guerra con la Gran Bretagna, Carreño, essendo cittadino di un paese neutrale, non fu disturbato. Nel 1943 ricevette un messaggio tramite la Radio Vaticana: doveva prendere il posto di don Eligio Cinato, ispettore dell’ispettoria dell’India del Sud, anche egli internato. Nello stesso periodo, arcivescovo salesiano Louis Mathias di Madras-Mylapore lo invitò a essere suo vicario generale.
            Nel 1945 fu ufficialmente nominato ispettore, incarico che ricoprì dal 1945 al 1951. Uno dei suoi primissimi atti fu consacrare l’Ispettoria al Sacro Cuore di Gesù. Molti salesiani erano convinti che la straordinaria crescita dell’Ispettoria del Sud fosse dovuta proprio a questo gesto. Sotto la guida di don Carreño, le opere salesiane raddoppiarono. Uno dei suoi atti più lungimiranti fu l’avvio di un college universitario nel remoto e povero villaggio di Tirupattur. Il Sacred Heart College avrebbe finito per trasformare l’intero distretto.
            Fu anche Carreño l’artefice principale della “indianizzazione” del volto salesiano in India, cercando fin da subito vocazioni locali, invece di fare affidamento esclusivo sui missionari stranieri. Una scelta che si rivelò provvidenziale: prima, perché il flusso di missionari stranieri cessò, si interruppe durante la Guerra; poi, perché l’India indipendente decise di non concedere più visti a nuovi missionari stranieri. “Se oggi i salesiani in India sono più di duemila, il merito di questa crescita va attribuito alle politiche avviate da don Carreño,” scrive don Thekkedath nella sua storia dei salesiani in India.
            Don Carreño, come abbiamo detto, non era solo ispettore, ma anche vicario di mons. Mathias. Questi due grandi uomini, che si stimavano profondamente, erano però molto diversi per temperamento. L’arcivescovo era fautore di misure disciplinari severe nei confronti dei confratelli in difficoltà, mentre don Carreño preferiva procedimenti più miti. Il visitatore straordinario, don Albino Fedrigotti, sembra aver dato ragione all’arcivescovo, definendo don Carreño “un eccellente religioso, un uomo dal cuore grande”, ma anche “un po’ troppo poeta”.
            Non mancò neppure l’accusa di essere un cattivo amministratore, ma è significativo che una figura come don Aurelio Maschio, grande procuratore e architetto delle opere salesiane di Mumbai, abbia respinto con decisione tale accusa. In realtà, don Carreño era un innovatore e un visionario. Alcune delle sue idee – come quella di coinvolgere volontari non salesiani per un servizio di qualche anno – erano, all’epoca, guardate con sospetto, ma oggi sono largamente accettate e attivamente promosse.
            Nel 1951, al termine del suo mandato ufficiale come ispettore, a Carreño fu chiesto di rientrare in Spagna per occuparsi dei Salesiani Cooperatori. Non era questo il vero motivo della sua partenza, dopo diciotto anni in India, ma Carreno accettò con serenità, anche se non senza dolore.
            Nel 1952 gli fu invece chiesto di andare a Goa, dove rimase fino al 1960. “Goa fu amore a prima vista,” scrisse in Urdimbre en el telar. Goa, da parte sua, lo accolse nel cuore. Proseguì la tradizione dei salesiani che prestavano servizio come direttori spirituali e confessori del clero diocesano, e fu persino patrono dell’associazione degli scrittori in lingua konkani. Soprattutto, governò la comunità di Don Bosco Panjim con amore, si prese cura con straordinaria paternità dei tanti ragazzi poveri e, ancora una volta, si dedicò attivamente alla ricerca di vocazioni alla vita salesiana. I primi salesiani di Goa – persone come Thomas Fernandes, Elias Diaz e Romulo Noronha – raccontavano con le lacrime agli occhi come Carreño e altri passassero dal Goa Medical College, proprio accanto alla casa salesiana, per donare il sangue e così ottenere qualche rupia con cui comprare viveri e altri beni per i ragazzi.
            Nel 1961 ebbero luogo l’azione militare indiana e l’annessione di Goa. In quel momento don Carreño si trovava in Spagna e non poté più fare ritorno all’amata terra. Nel 1962 fu inviato nelle Filippine come maestro dei novizi. Accompagnò solo tre gruppi di novizi, perché nel 1965 chiese di rientrare in Spagna. All’origine della sua decisione vi era una seria divergenza di visione tra lui e i missionari salesiani provenienti dalla Cina, e specialmente con don Carlo Braga, superiore della visitatoria. Carreño si oppose con forza alla politica di inviare i giovani Salesiani filippini appena professi a Hong Kong per gli studi di filosofia. Come accadde, alla fine i superiori accettarono la proposta di trattenere i giovani salesiani nelle Filippine, ma a quel punto la richiesta di Carreño di rientrare in patria era già stata accolta.

            Don Carreño trascorse solo quattro anni nelle Filippine, ma anche qui, come in India, lasciò un’impronta indelebile, “un contributo incommensurabile e cruciale alla presenza salesiana nelle Filippine”, secondo le parole dello storico salesiano Nestor Impelido.
            Rientrato in Spagna, ha collaborato con le Procure Missionarie di Madrid e di New Rochelle, e all’animazione delle ispettorie iberiche. Molti in Spagna ricordano ancora il vecchio missionario che visitava le case salesiane, contagiando i giovani con il suo entusiasmo missionario, le sue canzoni e la sua musica.
            Ma nella sua fantasia creativa stava prendendo forma un nuovo progetto. Carreño si dedicò con tutto il cuore al sogno di fondare un Pueblo Misionero con due obiettivi: preparare giovani missionari – per lo più provenienti dall’Europa dell’Est – per l’America Latina; e offrire un rifugio per missionari “pensionati” come lui, i quali avrebbero potuto servire anche come formatori. Dopo una lunga e sofferta corrispondenza con i superiori, il progetto prese finalmente forma nell’Hogar del Misionero ad Alzuza, a pochi chilometri da Pamplona. La componente vocazionale missionaria non decollò mai, e furono pochissimi i missionari anziani che si unirono effettivamente a Carreño. Il suo principale apostolato in questi ultimi anni rimase quello della penna. Lasciò più di trenta libri, tra i quali cinque dedicati alla Santa Sindone, alla quale era particolarmente devoto.
            Don José-Luis Carreño morì nel 1986 a Pamplona, all’età di 81 anni. Nonostante gli alti e bassi della sua vita, questo grande amante del Sacro Cuore di Gesù poté affermare, nel giubileo d’oro della sua ordinazione sacerdotale: “Se cinquant’anni fa il mio motto da giovane prete era ‘Cristo è tutto’, oggi, vecchio e sopraffatto dal suo amore, lo scriverei in lettere d’oro, perché in realtà CRISTO È TUTTO”.

don Ivo COELHO, sdb




L’albero

Un uomo aveva quattro figli. Egli desiderava che i suoi figli imparassero a non giudicare le cose in fretta. Per questo, invitò ognuno di loro a fare un viaggio per osservare un albero che era piantato in un luogo lontano. Li mandò uno alla volta, a distanza di tre mesi uno dall’altro. I figli ubbidirono.
Quando l’ultimo rientrò, li riunì, e chiese loro di descrivere quello che avevano visto.
Il primo figlio disse che l’albero era brutto, torto e piegato.
Il secondo figlio disse, invece, che l’albero era ricoperto di gemme verdi e promesse di vita.
Il terzo figlio era in disaccordo; disse che era coperto di fiori, che avevano un profumo tanto dolce, ed erano tanto belli da fargli dire che erano la cosa più bella che avesse mai visto.
L’ultimo figlio era in disaccordo con tutti gli altri; disse che l’albero era carico di frutta, vita e generosità.
L’uomo allora spiegò ai suoi figli che tutte le risposte erano esatte poiché ognuno aveva visto solo una stagione della vita dell’albero.
Egli disse che non si può giudicare un albero, o una persona, da una sola stagione, e che la loro essenza, il piacere, l’allegria e l’amore che vengono da quelle vite possono essere misurati solo alla fine, quando tutte le stagioni sono complete.

Quando la primavera se ne parte tutti i fiori muoiono, ma quando ritorna sorridono lieti. Nei miei occhi tutto passa, sulla mia testa tutto imbianchisce.
Ma non bisogna mai credere che all’agonia della primavera tutti i fiori muoiano perché, proprio la scorsa notte, un ramo di pesco fioriva.
(anonimo del Vietnam)

Non lasciare che il dolore di una stagione distrugga la gioia di ciò che verrà dopo.
Non giudicare la tua vita in una stagione difficile. Persevera attraverso le difficoltà, e sicuramente tempi migliori verranno quando meno te lo aspetti! Vivi ogni tua stagione con gioia e con la forza della speranza.




La decima collina (1864)

Il sogno della “Decima Collina”, narrato da don Bosco nell’ottobre 1864, è una delle pagine più suggestive della tradizione salesiana. In esso il santo si ritrova in una sterminata valle colma di giovani: alcuni già all’Oratorio, altri ancora da incontrare. Guidato da una voce misteriosa, deve condurli oltre una ripida scarpata e poi attraverso dieci colline, simbolo dei dieci comandamenti, verso una luce che prefigura il Paradiso. Il carro dell’Innocenza, le schiere penitenziali e la musica celestiale disegnano un affresco educativo: mostrano la fatica di preservare la purezza, il valore del pentimento e il ruolo insostituibile degli educatori. Con questa visione profetica don Bosco anticipa l’espansione mondiale della sua opera e l’impegno di accompagnare ogni giovane sul cammino della salvezza.

                D. Bosco aveva sognato nella notte precedente. Nello stesso tempo un giovane di nome C… E… di Casal Monferrato, fece egli pure lo stesso sogno, parendogli di trovarsi con D. Bosco e di parlargli. Levatosi ne era rimasto tanto colpito che andò a raccontare le cose sognate al suo professore, il quale lo esortò di recarsi a narrarle a D. Bosco. Il giovane andò subito e s’imbatté con lui stesso che scendeva le scale, per cercarlo e narrargli la stessa cosa.
                Parve adunque a D. Bosco di trovarsi in una grandissima valle tutta piena di migliaia e migliaia di giovanetti, ma così numerosi che esso non credeva potersene trovare tanti in tutto il mondo. Fra questi giovani egli distingueva tutti quelli che furono, e quelli che sono nella casa. Tutti gli altri erano coloro che forse verranno poi. Frammisti ai giovani si vedevano i preti ed i chierici della casa.
                Una ripa altissima chiudeva da un lato quella valle. Mentre D. Bosco pensava che cosa avrebbe dovuto fare di tanti giovani, una voce gli disse:
                – Vedi quella ripa? Ebbene; bisogna che tu e i tuoi giovani ne guadagniate la cima.
                Allora D. Bosco diede ordine a tutte quelle, turbe di giovani di muoversi verso il punto indicato. I giovani si mossero e a gran corsa si slanciarono arrampicandosi su per la ripa. I preti della casa correvano anche essi all’insù spingendo avanti i giovani, rialzavano quelli che cadevano e portavano sulle spalle coloro che stanchi non potevano camminare. D. Rua colle maniche della veste rivoltate lavorava più di tutti e, prendendo i giovani a due per due, addirittura gli slanciava per aria sulla ripa, sulla quale cadendo essi restavano in piedi e poi scorrazzavano allegramente qua e là. D. Cagliero e D. Francesia correvano su e giù per le file gridando:
                – Coraggio, avanti; avanti, coraggio.
                In poco d’ora quelle schiere giovanili raggiunsero la cima della ripa; D. Bosco pure era salito e disse:
                – Ed ora che cosa faremo?
                E la voce soggiunse:
                – Tu devi valicare coi tuoi giovani queste dieci colline che vedi distendersi innanzi a te l’una dopo l’altra.
                – Ma come faranno a reggere ad un viaggio così lungo tanti giovanetti che sono così piccoli e delicati?
                – Chi non potrà andare coi suoi piedi, sarà portato; – gli fu risposto.
                Ed ecco infatti spuntare ad una estremità del colle e salire un magnifico carro. Impossibile ne è la descrizione tanto era bello, ma pure qualche cosa si può dire. Era triangolare e aveva tre ruote che si movevano per tutti i versi. Dai tre angoli partivano tre aste che venivano a congiungersi in un punto solo sopra il carro stesso, formando come un pinnacolo di pergolato. Su questo punto di congiunzione si innalzava un magnifico stendardo sul quale era scritto a caratteri cubitali: Innocentia. Una fascia poi che correva tutto intorno al carro, formava sponda e portava l’iscrizione: Adjutorio Dei Altissimi Patris et Filii et Spiritus Sancti (al riparo di Dio Altissimo, Padre e Figlio e Spirito Santo).
                Il carro, che splendeva tutto per oro e pietre preziose, si avanzò e venne a collocarsi in mezzo ai giovani. Dato il comando, molti fanciulletti vi salirono sopra. Il numero era di 500. Cinquecento appena in mezzo a tante migliaia di giovani erano ancora innocenti.
                Collocati questi sul carro D. Bosco pensava per quale via avrebbe dovuto incamminarsi, quando vide aprirsi innanzi a lui una strada larga e comoda, ma tutta sparsa di spine. Apparvero quindi all’improvviso sei giovani, già morti nell’Oratorio, vestiti di bianco, i quali inalberavano un’altra bellissima bandiera sulla quale era scritto: Poenitentia. Costoro si andarono a posare alla testa di tutte quelle falangi di giovani che dovevano mettersi in viaggio pedestri. Allora fu dato il segnale della partenza. Molti preti si slanciano al timone del carro, il quale tratto da essi incomincia a muoversi. I sei vestiti di bianco lo seguono. Dietro a loro tutto il resto della moltitudine. Con magnifica ed inesprimibile musica si intona dai giovanetti che erano sul carro il Laudate pueri Dominum (Lodate Dio voi piccoli, Ps 113,1).
                D. Bosco camminava inebbriato da quella musica celeste, quando si ricordò di voltarsi indietro, per vedere se tutti i giovani lo avevano seguito. Ma oh doloroso spettacolo! Molti erano rimasti nella valle, molti erano ritornati indietro. Don Bosco agitato da inesprimibile dolore decise di rifare il cammino già fatto per tentar di persuadere quei giovani sconsigliati, e di aiutarli a seguirlo. Ma gli venne assolutamente vietato.
                – Ma quei poverini si perdono: – esclamò egli.
                E gli venne, risposto:
                – Peggio per loro: essi furono chiamati come gli altri e non vollero seguirti. La strada da farsi l’hanno veduta e ciò basta.
                D. Bosco voleva replicare; pregò, scongiurò: tutto fa inutile:
                – L’obbedienza è anche per te! – gli fu detto. E dovette continuare il cammino.
                Non erasi ancor lenito questo dolore, quando un altro tristo accidente sopravvenne. Molti giovanetti di quelli che si trovavano sul carro a poco a poco erano caduti per terra. Di 500 appena 150 rimanevano sotto il vessillo dell’innocenza.
                Il cuore di D. Bosco scoppiava per l’insopportabile affanno. Esso sperava fosse quello un sogno, faceva tutti gli sforzi per svegliarsi, ma pur troppo si accorgeva che era una terribile realtà. Batteva le mani ed udiva il suono di esse: gemeva, ed udiva che il suo gemito risuonare per la stanza; voleva dissipare quel terribile fantasma, ma non poteva.
                – Ah miei cari giovani! egli esclamava a questo punto, narrando il sogno. Io ho conosciuto e veduto coloro che rimasero nella valle, quelli che tornarono indietro o caddero dal carro! Vi ho conosciuti tutti. Ma non dubitate; io farò ogni sforzo possibile per salvarvi. Molti di voi invitati da me a confessarsi non risposero alla chiamata! Per carità salvate le anime vostre.
                Molti dei giovanetti caduti dal carro si erano di mano in mano andati a porre tra le file di coloro che camminavano dietro la seconda bandiera. Intanto la musica del carro continuava così dolce che a poco a poco vinse il dolore di D. Bosco. Sette colline erano già valicate e giunte quelle schiere sulla ottava, entrarono in un meraviglioso paese, dove si fermarono a prendere un po’ di riposo. Le case erano di una ricchezza e bellezza indescrivibile.
                D. Bosco parlando ai giovani di questa regione soggiunse:
                – Vi dirò con Santa Teresa ciò che essa affermò delle cose del paradiso: sono cose che col parlarne si avviliscono, perché sono così belle che è inutile sforzarsi a descriverle. Quindi osserverò solamente che gli stipiti di quelle case parevano di oro, di cristallo, di diamante tutt’insieme, sicché sorprendevano, appagavano la vista infondevano allegrezza. I campi erano ripieni d’alberi sui quali si vedevano contemporaneamente fiori, bottoni, frutta matura e frutta verde. Era un incanto magnifico.
                I giovani si sparsero pel paese chi di qua e chi di là, chi per una cosa, chi per l’altra, poiché grande era la loro curiosità e il desiderio di avere di quella frutta.
                È in questo villaggio che quel giovane di Casale si imbatté in D. Bosco e tenne con lui un lungo dialogo. D. Bosco e il giovane si ricordavano perfettamente le domande fatte e le risposte avute. Singolare combinazione di due sogni.
                D. Bosco ebbe qui un’altra strana sorpresa. I suoi giovani gli apparvero ad un tratto come divenuti vecchi; senza denti, pieni di rughe in volto, coi capelli bianchi, curvi, zoppicanti, appoggiati al bastone. D. Bosco si meravigliava di questa metamorfosi, ma la voce gli disse:
                – Tu ti meravigli; ma hai da sapere che non sono già poche ore dacché sei partito dalla valle, ma sono anni ed anni. È quella musica che ti ha fatto parer corto il cammino. In prova, guarda la tua fisionomia e ti persuaderai se io dico il vero. – E a D. Bosco venne presentato uno specchio. Egli si specchiò e vide che il suo aspetto era d’uomo attempato, col volto rugoso, e coi denti guasti e pochi.
                La comitiva frattanto si rimise in cammino e i giovani a quando a quando chiedevano di fermarsi per vedere quelle nuove cose. Ma D. Bosco diceva loro:
                – Avanti, avanti: noi non abbisogniamo di nulla; non abbiamo fame, noti abbiam sete, dunque avanti.
                (In fondo lontano, sulla decima collina spuntava una luce che andava sempre crescendo come se uscisse da una stupenda porta). Ricominciò allora il canto, ma così bello che solo in Paradiso si può udire l’eguale e gustarlo. Non era musica di istrumenti, né pareva di voci umane. Era una musica impossibile a descriversi; e tanta fu la piena del giubilo che inondò l’anima di D. Bosco che svegliatosi si trovò nel suo letto.
                D. Bosco così spiegò il suo sogno:
                – La valle è il mondo. La ripa gli ostacoli per staccarsi da esso. – Il carro lo capite. – Le squadre dei giovani a piedi sono i giovani che perduta l’innocenza, si pentirono dei loro falli.
                D. Bosco aggiunse ancora che le 10 colline raffiguravano i 10 comandamenti della legge di Dio, l’osservanza dei quali conduce alla vita eterna.
                Quindi annunziò che, se facesse di bisogno era pronto a dire confidenzialmente a certi giovani che cosa facevano in quel sogno; se restarono nella valle o se caddero dal carro.
                Disceso dalla bigoncia, l’alunno Ferraris Antonio si avvicinò a lui, e gli raccontò, essendo noi presenti che intendemmo perfettamente le sue parole, come la sera precedente avesse egli sognato di trovarsi in compagnia di sua madre, la quale gli aveva domandato se a Pasqua sarebbe tornato a casa per passarvi i giorni di vacanza: esso averle risposto che prima di Pasqua sarebbe andato in paradiso. Quindi in confidenza sottovoce disse alcune altre parole nell’orecchio a D. Bosco. Ferraris Antonio morì il 16 marzo 1865.
                Noi abbiamo subito scritto il sogno, e la stessa sera 22 ottobre 1864 sul fine aggiungevamo la seguente postilla. “Io tengo per certo che D. Bosco colle sue spiegazioni cercò di coprire ciò che il sogno ha di più sorprendente, almeno per qualche circostanza. Quella dei dieci comandamenti non mi appaga. L’ottava collina sulla quale D. Bosco fa una sosta, ed egli si vede nello specchio così attempato, io credo che indichi il fine della sua vita dover succedere oltre i settanta anni. Vedremo l’avvenire”.
                Questo avvenire è dunque ora tempo passato, e noi ci siamo confermati nella nostra opinione. Il sogno indicava a Don Bosco la durata del suo vivere. Confrontiamo con questo, quello della Ruota, che noi non potemmo conoscere se non qualche anno dopo. I giri della Ruota procedono per decenni: e così pure sembra che’ abbracci simile spazio di tempo il procedere di collina in collina. Ognuna della dieci colline rappresenta dieci anni, sicché vengono a significare cento anni il massimo della vita di un uomo. Ora noi vediamo D. Bosco ancor fanciullo, nel primo decennio, incominciare la sua missione tra i compagni dei Becchi e così dar principio al suo viaggio; percorre interamente le sette colline cioè sette decenni quindi la sua età giunge a settant’anni: sale l’ottava collina e qui fa una sosta: vede case e campi meravigliosamente belli, ovvero la sua Pia Società resa grande e fruttifera dalla bontà infinita di Dio. È ancor lunga la via da percorrere sulla ottava collina e si rimette in viaggio; ma non giunge alla nona, perché si risveglia. Così egli non campò l’ottavo decennio, morendo a 72 anni e 5 mesi.
                Che ne dice il lettore? Aggiungeremo che la sera dopo Don Bosco avendo interrogato noi stessi qual fosse il nostro pensiero intorno al sogno, gli abbiamo risposto, che non riguardava solamente i giovani, ma sebbene indicava la dilatazione della Pia Società in tutto il mondo.
                – Ma che? replicò uno dei nostri confratelli; abbiamo già i collegi di Mirabello e di Lanzo e se ne aprirà qualche altro in Piemonte. Che cosa vuoi di più?
                – No; sono ben altri i destini che ci annunzia il sogno.
                E D. Bosco approvava, sorridendo, la nostra persuasione.
(MB VII, 796-802)




L’educazione al femminile con san Francesco di Sales

Il pensiero educativo di san Francesco di Sales rivela una visione profonda e innovativa del ruolo femminile nella Chiesa e nella società del suo tempo. Convinto che la formazione delle donne fosse fondamentale per la crescita morale e spirituale dell’intera comunità, il santo vescovo di Ginevra promosse un’educazione equilibrata, rispettosa della dignità femminile ma anche attenta alle fragilità. Con uno sguardo paterno e realista, seppe cogliere e valorizzare le qualità delle donne, incoraggiandole a coltivare virtù, cultura e devozione. Fondatore della Visitazione con Giovanna di Chantal, difese con vigore la vocazione femminile anche contro critiche e pregiudizi. Il suo insegnamento continua a offrire spunti attuali sull’educazione, l’amore e la libertà nella scelta della propria vita.

            In occasione del suo viaggio a Parigi nel 1619, Francesco di Sales incontrò Adrien Bourdoise, un prete riformatore del clero, che gli rimproverò di occuparsi troppo delle donne. Il vescovo gli avrebbe risposto con calma che le donne erano la metà del genere umano e che, formando buone cristiane, si avrebbero avuti giovani buoni, e con giovani buoni, buoni preti. D’altronde, san Girolamo non ha consacrato loro parecchio tempo e vari scritti? La lettura delle sue lettere è raccomandata da Francesco di Sales alla signora di Chantal, la quale vi troverà, tra l’altro, numerose indicazioni «per educare le sue figlie». Se ne dedurrà che il ruolo delle donne in ambito educativo giustificava, ai suoi occhi, il tempo e la sollecitudine ad esse dedicati.

Francesco di Sales e le donne del suo tempo
            “Bisogna aiutare il sesso femminile, disprezzato”, aveva detto un giorno il vescovo di Ginevra a Jean-François de Blonay. Per comprendere le preoccupazioni e il pensiero di Francesco di Sales conviene situarlo nella sua epoca. Occorre dire che un certo numero di sue affermazioni sembrano ancora molto legate alla mentalità corrente. Nella donna del suo tempo deplorava «questa femminile tenerezza con sé stesse», la facilità «nel compatirsi e nel desiderare di essere compatite», una maggiore propensione rispetto agli uomini «a dar credito ai sogni, ad aver paura degli spiriti e ad essere credulone e superstiziose», e soprattutto, gli «attorcigliamenti dei loro vanitosi pensieri». Tra i consigli dati alla signora di Chantal attinenti all’educazione delle figlie, scriveva senza esitazione: “Togliete loro la vanità dall’anima: nasce quasi assieme al sesso”.
            Tuttavia, le donne sono dotate di grandi qualità. Scriveva a proposito della signora di La Fléchère che aveva appena perso il marito: “Se avessi soltanto questa perfetta pecorella nel mio ovile, non mi sarei angustiato d’essere pastore di questa afflitta diocesi. Dopo la signora di Chantal, non so se ho mai incontrato un’anima più forte in un corpo femminile, uno spirito più ragionevole e un’umiltà più sincera”. Le donne non sono affatto le ultime nella pratica delle virtù: “Non abbiamo forse visto molti grandi teologi che hanno detto cose meravigliose sulle virtù, non però per praticarle, mentre, al contrario, ci sono tante sante donne che non sanno parlare di virtù, ma che tuttavia conoscono molto bene come praticarle?”.
            Sono le donne sposate quelle più degne di ammirazione: «Oh mio Dio! Come sono gradite a Dio le virtù di una donna sposata; infatti devono essere forti ed eccellenti per poter durare in tale vocazione!». Nella lotta per conservare la castità, riteneva che «le donne sovente hanno combattuto in maniera più coraggiosa rispetto agli uomini».
            Fondatore di una congregazione di donne assieme a Giovanna di Chantal, fu in costante relazione con le prime religiose. Accanto a lodi, incominciarono a piovere le critiche. Spinto in queste trincee, il fondatore dovette difendersi e difenderle, non soltanto in quanto religiose, ma anche in quanto donne. In un documento che doveva servire come prefazione delle Costituzioni delle visitandine, troviamo la vena polemica di cui sapeva dar prova, dirigendosi non più contro «eresiarchi», ma contro «censori» malevoli e ignoranti:

La presunzione e inopportuna arroganza di parecchi figli di questo secolo, che biasimano ostentatamente tutto ciò che non è secondo il loro spirito […], mi offre l’occasione, meglio mi costringe a stendere questa Prefazione, mie carissime Suore, per armare e difendere la vostra santa vocazione contro le punte dello loro lingue pestifere; affinché le anime buone e pie, che senza dubbio sono legate al vostro  amabile e onorato Istituto, trovino qui come respingere le frecce scagliate dalla temerità di questi bizzarri e insolenti censori.

            Prevedendo forse che un tale preambolo rischiava di danneggiare la causa, il fondatore della Visitazione scrisse una seconda edizione addolcita, allo scopo di mettere in luce la fondamentale uguaglianza dei sessi. Dopo aver citato la Genesi, questa volta ne faceva il seguente commento: “La donna, dunque, non meno dell’uomo, ha la grazia di essere stata fatta a immagine di Dio; pari onore nell’uno e nell’altro sesso; le loro virtù sono uguali”.

L’educazione delle figlie
            Il nemico del vero amore è la “vanità”. Questo era il difetto che Francesco di Sales, come peraltro i moralisti e i pedagoghi del suo tempo, temeva di più nell’educazione delle giovani. Ne rileva parecchie manifestazioni. Guardate «queste signorine di mondo, che essendosi ben sistemate, vanno in giro gonfie d’orgoglio e di vanità, con la testa alta, gli occhi aperti, ansiose d’essere notate dai mondani».
            Il vescovo di Ginevra si diverte un poco nel prendere in giro queste «ragazze di società», che «portano cappelli sparsi e incipriati», con la testa «ferrata come si ferrano gli zoccoli dei cavalli», tutte «impennacchiate e infiorate quanto non è possibile dire» e «cariche di fronzoli». Ci sono di quelle che «indossano vesti che stringono e danno loro molto fastidio, e questo per far vedere che sono snelle»; ecco una vera “pazzia che per lo più le rende incapaci di fare alcunché”.
            Che pensare allora di certune bellezze artificiali trasformate in «boutiques di vanità?». Francesco di Sales preferisce una «faccia limpida e pulita», desidera «che non ci sia nulla di affettato, perché tutto ciò che è imbellettato dispiace». Occorre allora condannare ogni «artificio»? Ammette volentieri che «nel caso di qualche difetto di natura, bisogna correggerlo in modo da vederne la correzione, ma spoglia d’ogni artificio».
            E il profumo? si chiedeva il predicatore parlando della Maddalena. «È una cosa eccellente – risponde –; anche colui che è profumato ne percepisce qualcosa di eccellente»; aggiungendo, da buon conoscitore, che «il muschio della Spagna gode di grande stima nel mondo». Nel capitolo sulla «decenza degli abiti», permette che le giovani abbiano vestiti con ornamenti vari, «perché possono liberamente desiderare di essere gradevoli a molti, ma con l’unico scopo di guadagnarsi un giovane in vista di un santo matrimonio». Chiudeva con questa indulgente osservazione: «Che volete? È pur conveniente che le signorine siano un po’ carine».
            È opportuno aggiungere che la lettura della Bibbia l’aveva preparato a non fare il muso duro davanti alla bellezza femminile. Nell’amante del Cantico dei cantici, ammirava «la notevole bellezza del suo viso simile a un bouquet di fiori». Descrive Giacobbe che, incontrando Rachele presso il pozzo, «versava lacrime di gioia scorgendo una vergine che gli piaceva e l’incantava per la grazia del volto». Amava anche raccontare la storia di santa Brigida, nata in Scozia, un paese dove si ammirano «le più belle creature che uno possa vedere»; era «una giovane oltremodo avvenente», ma la sua bellezza era «naturale», precisa il nostro autore.
            L’ideale della bellezza salesiana si chiama «buona grazia», che designa non soltanto «la perfetta armonia delle parti che fa essere bello», ma anche la «grazia dei movimenti, dei gesti e delle azioni, che è come l’anima della vita e della bellezza», ossia la bontà di cuore. La grazia esige «semplicità e modestia». Ora, la grazia è una perfezione che deriva dall’intimo della persona. È la bellezza unita alla grazia che fa di Rebecca l’ideale femminile della Bibbia: ella era «così bella e graziosa presso il pozzo dove attingeva l’acqua per abbeverare il gregge», e la sua «familiare bontà» le ispirava, inoltre, di dar da bere non soltanto ai servi di Abramo, ma anche ai suoi cammelli.

Istruzione e preparazione alla vita
            Ai tempi di san Francesco di Sales, le donne avevano poche possibilità di accedere a studi superiori. Le ragazze imparavano ciò che udivano da parte dei loro fratelli e, quando la famiglia ne aveva la possibilità, frequentavano un monastero. La lettura era certamente più frequente della scrittura. I collegi erano riservati ai ragazzi, di conseguenza, imparare il latino, lingua della cultura, era praticamente interdetto alle ragazze.
            Bisogna credere che Francesco di Sales non era contrario al fatto che le donne potessero diventare persone colte, ma a condizione che non cadessero nella pedanteria e nella vanità. Ammirava santa Caterina che era «molto erudita, ma umile in tanta scienza». Tra le interlocutrici del vescovo di Ginevra, la signora di La Fléchère aveva studiato latino, italiano, spagnolo e le belle arti, ma era un’eccezione.
            Per trovare loro un posto nella vita, sia in ambito sociale che in quello religioso, a un certo momento le giovani avevano spesso bisogno di un aiuto particolare. Georges Rolland riferisce che il vescovo si occupò personalmente di parecchi casi difficili. Una donna di Ginevra, con tre figlie, fu assistita generosamente dal vescovo, «con denaro e crediti»; «collocò una di dette figlie come apprendista presso un’onesta signora della città, pagandole la pensione per sei anni, in grano e in denaro». Donò pure 500 fiorini per il matrimonio della figlia di uno stampatore di Ginevra.
            L’intolleranza religiosa del tempo talvolta provocava dei drammi, ai quali Francesco di Sales cercava di porre rimedio. Marie-Judith Gilbert, educata a Parigi dai genitori negli «errori di Calvino», scoprì a diciannove anni il libro della Filotea, che osava leggere soltanto in segreto. Ne prese in simpatia l’autore, di cui aveva sentito parlare. Sorvegliata strettamente dal padre e dalla madre, riuscì a farsi prelevare in carrozza, si fece istruire nella religione cattolica ed entrò tra le suore della Visitazione.
            Il ruolo sociale delle donne rimaneva ancora piuttosto limitato. Francesco di Sales non del tutto contrario all’intervento delle donne nella vita pubblica. Scriveva in questi termini, ad esempio, a una donna portata a intervenire in ambito pubblico, a proposito e a sproposito:

Il vostro sesso e la vostra vocazione vi consentono di reprimere il male esterno a voi, ma solo se ciò è ispirato dal bene e compiuto con rimostranze semplici, umili e caritatevoli nei confronti dei trasgressori e avvertendone i superiori nei limiti del possibile.

            D’altra parte, è significativo che una contemporanea di Francesco di Sales, la signorina di Gournay, una prima femminista ante litteram, una intellettuale e autrice di testi polemici come il suo trattato L’uguaglianza degli uomini e delle donne e La lagnanza delle donne, gli abbia manifestato grande ammirazione. Costei si accanì durante tutta la sua vita a dimostrare questa uguaglianza, raccogliendo tutte le testimonianze possibili in merito, senza dimenticare quella del «buono e santo vescovo di Ginevra».

Educazione all’amore
            Francesco di Sales ha parlato molto dell’amore di Dio, ma è stato anche assai attento alle manifestazioni dell’amore umano. Per lui, infatti, l’amore è uno, anche se il suo «oggetto» è diverso e disuguale. Per spiegare l’amore di Dio non ha saputo fare meglio se non partendo dall’amore umano.
            L’amore nasce dalla contemplazione del bello, e il bello si lascia percepire dai sensi, soprattutto dagli occhi. Si stabilisce un fenomeno interattivo tra lo sguardo e la bellezza: «Il contemplare la bellezza ce la fa amare, e l’amore ce la fa contemplare». L’odorato reagisce allo stesso modo; infatti, «i profumi esercitano l’unico loro potere di attrazione con la loro soavità».
            Dopo l’intervento dei sensi esterni subentra quello dei sensi interni, la fantasia, l’immaginazione, che esaltano e trasfigurano il reale: «In forza di questo reciproco movimento dell’amore verso la vista e della vista verso l’amore, allo stesso modo che l’amore rende più splendente la bellezza della cosa amata, così la vista della cosa amata rende l’amore più innamorato e piacevole”. Si comprende allora perché «coloro che hanno dipinto Cupido ne hanno bendato gli occhi, affermando che l’amore è ceco». A questo punto sopraggiunge l’amore-passione: esso fa «ricercare il dialogo, e il dialogo spesso nutre ed accresce l’amore»; inoltre «desidera il segreto, e quando gli innamorati non hanno nessun segreto da dirsi, si compiacciono talvolta a dirselo segretamente»; e infine induce a «proferire delle parole che, certo, sarebbero ridicole se non sgorgassero da un cuore appassionato».
            Ora, questo amore-passione che forse si riduce soltanto ad «amorucci», a «galanterie», è esposto a varie peripezie, a tal punto da indurre l’autore della Filotea a intervenire con una serie di considerazioni e di avvertimenti a proposito di «amicizie frivole che si allacciano fra persone di diverso sesso e senza intenzione di matrimonio». Spesso non sono altro che «aborti o, meglio, parvenze di amicizia».
            Francesco di Sales si è espresso anche in tema di baci, chiedendosi per esempio con gli antichi commentatori, come mai Rachele aveva permesso a Giacobbe di abbracciarla. Egli spiega che ci sono due specie di bacio: cattivo l’uno, buono l’altro. I baci che si scambiano facilmente fra loro i giovani e che all’inizio non sono cattivi, lo possono diventare in seguito a causa della fragilità umana. Ma il bacio però può essere anche buono. In determinati luoghi è voluto dal costume. «Il nostro Giacobbe abbraccia molto innocentemente la sua Rachele; Rachele accetta questo bacio di cortesia da parte di quest’uomo dal carattere buono e dal viso pulito». «Oh! – concludeva Francesco di Sales – datemi persone che abbiano l’innocenza di Giacobbe e di Rachele e permetterò loro di baciarsi».
            Nella questione della danza e del ballo, anch’essa all’ordine del giorno, il vescovo di Ginevra evitava i comandi assoluti, come facevano i rigoristi del tempo, tanto cattolici che protestanti, mostrandosi comunque molto prudente. Gli si è perfino rinfacciato aspramente di aver scritto che «le danze e i balli di per sé sono cose indifferenti». Come per certi giochi, anch’essi diventano pericolosi quando vi ci si affeziona talmente da non potersene più distaccare: il ballo «bisogna farlo per ricreazione e non per passione; per poco tempo e non fino a stancarsi e a stordirsi». Ciò che è più pericoloso sta nel fatto che questi passatempi diventano spesso occasioni che provocano «dispute, invidie, beffe, amorazzi».

La scelta della forma di vita
            Quando la figlioletta è diventata grande, arriva «il giorno in cui bisognerà parlarle, intendo riferirmi a una parola decisiva, quella in cui si dice alle giovani di volerle maritare». Uomo del suo tempo, Francesco di Sales condivideva in larga misura l’idea che attribuiva ai genitori un rilevante compito nel determinare la vocazione dei figli, sia al matrimonio che alla vita religiosa. «D’ordinario non si sceglie il proprio principe o il proprio vescovo, il proprio padre o la propria madre, e neppure spesse volte il proprio marito», costatava l’autore della Filotea. Tuttavia, afferma chiaramente che «le figlie non possono essere date in sposa, fintantoché esse dicono di no».
            La prassi corrente è spiegata bene in questo passo della Filotea: «Perché un matrimonio si faccia veramente, tre cose sono necessarie nei riguardi della giovane che si vuole dare in sposa: anzitutto che le si faccia la proposta; poi, che lei la gradisca; in terzo luogo che acconsenta». Siccome le ragazze si sposavano molto sovente assai giovani, non ci si può meravigliare della loro immaturità affettiva.  «Le ragazze sposate molto giovani amano realmente i loro sposi, se ne hanno, ma non cessano di amare anche gli anelli, i monili, le amiche con le quali si divertono un mondo a giocare, a ballare e a fare pazzie».
            Il problema della libertà di scegliere si poneva ugualmente per i fanciulli che si voleva destinare alla vita religiosa. La Franceschetta, figlia della baronessa di Chantal, doveva essere collocata in un monastero dalla madre desiderosa di vederla religiosa, ma il vescovo intervenne: «Se Franceschetta vuole di buon grado essere religiosa, bene; in caso contrario, non approvo che se ne anticipi il volere con decisioni non sue». Non converrebbe d’altronde che la lettura delle lettere di san Girolamo orienti troppo la madre nella via della severità e della costrizione. Perciò le consiglia di «usare moderazione» e di procedere con «inspirazioni soavi».
            Certe giovani esitano di fronte alla vita religiosa e al matrimonio, senza mai giungere a decidersi. Francesco di Sales incoraggiò la futura signora de Longecombe a fare il passo del matrimonio, che volle celebrare egli stesso. Fece quest’opera buona, dirà in seguito il marito, alla domanda della moglie «che desiderava sposarsi per le mani del vescovo, e senza tale presenza, non avrebbe mai potuto fare questo passo, a causa della grande avversione che nutriva nei confronti del matrimonio».

Le donne e la «devozione»
            Estraneo a ogni femminismo ante litteram, Francesco di Sales era consapevole dell’eccezionale apporto della femminilità sul piano spirituale. Si è fatto notare che favorendo la devozione nelle donne, l’autore della Filotea ne ha favorito, congiuntamente, la possibilità di una maggiore autonomia, una «vita privata al femminile».
            Non meraviglia che le donne abbiano disposizioni particolari per la «devozione». Dopo aver enumerato un certo numero di dottori ed esperti, poteva scrivere nella prefazione del Teotimo: «Ma affinché si sapesse che questo tipo di scritti si redigono meglio con la devozione degli innamorati che con la dottrina dei sapienti, lo Spirito santo ha fatto sì che numerose donne compissero meraviglie al riguardo. Chi ha mai manifestato meglio le celestiali passioni dell’amore divino di santa Caterina da Genova, di sant’Angela da Foligno, di santa Caterina da Siena, di santa Matilde?». È noto l’influsso della madre di Chantal nella redazione del Teotimo, e in particolare del libro nono, «il vostro libro nono dell’Amore di Dio», secondo l’espressione dell’autore.
            Le donne potevano immischiarsi in problemi concernenti la religione? «Ecco dunque questa donna che fa la teologhessa», dice Francesco di Sales parlando della Samaritana del Vangelo. Si deve necessariamente scorgervi una disapprovazione nei confronti delle teologhe? Non è certo. Tanto più che afferma con forza: «Vi dico che una donna semplice e povera può amare Dio quanto un dottore in teologia». La superiorità non abita sempre là dove uno pensa.
            Ci sono donne superiori agli uomini, incominciando dalla Santa Vergine. Francesco di Sales rispetta sempre il principio dell’ordine stabilito dalle leggi religiose e civili del suo tempo, verso le quali predica l’obbedienza, ma la sua prassi testimonia una grande libertà di spirito. Così, per il governo dei monasteri femminili, riteneva che era meglio per loro essere sotto la giurisdizione del vescovo piuttosto dipendere dai loro fratelli religiosi, i quali rischiavano di pesare su di loro in maniera eccessiva.
            Le visitandine, da parte loro, non dipenderanno da alcun ordine maschile e non avranno nessun governo centrale, essendo ogni monastero sotto la giurisdizione del vescovo del luogo. Egli osò qualificare col titolo inatteso di «apostole» le suore della Visitazione in partenza per una nuova fondazione.
            Se interpretiamo correttamente il pensiero del vescovo di Ginevra, la missione ecclesiale delle donne consiste nell’annunciare non la parola di Dio, ma «la gloria di Dio» con la bellezza della loro testimonianza. I cieli, prega il salmista, narrano la gloria di Dio soltanto con il loro splendore. «La bellezza del cielo e del firmamento invita gli uomini ad ammirare la grandezza del Creatore e ad annunciare le sue meraviglie»; e «non è forse una meraviglia più grande vedere un’anima ornata di molte virtù, rispetto a un cielo trapuntato di stelle?».




Il saggio

All’imperatore Ciro il Grande piaceva moltissimo conversare amabilmente con un amico molto saggio di nome Akkad.
Un giorno, appena tornato stanchissimo da una campagna di guerra contro i Medi, Ciro si fermò dal suo vecchio amico per passare qualche giorno con lui.
«Sono spossato, caro Akkad. Tutte queste battaglie mi stanno consumando. Come vorrei fermarmi a passare il tempo con te, chiacchierando sulle rive dell’Eufrate…».
«Ma, caro sire, ormai hai sconfitto i Medi, che cosa farai?».
«Voglio impadronirmi di Babilonia e sottometterla».
«E dopo Babilonia?».
«Sottometterò la Grecia».
«E dopo la Grecia?».
«Conquisterò Roma».
«E dopo?».
«Mi fermerò. Tornerò qui e passeremo giorni felici a conversare amabilmente sulle rive dell’Eufrate…».
«E perché, sire, amico mio, non incominciamo subito?».

Ci sarà sempre un altro giorno per dire «Ti voglio bene».
Ricordati dei tuoi cari oggi, e sussurra loro nell’orecchio, di’ loro quanto li ami. Prenditi il tempo per dire «Mi dispiace», «Ti prego ascoltami», «Grazie».
Domani non ti pentirai di quello che hai fatto oggi.