Don Bosco e la chiesa del Santo Sudario

La Santa Sindone di Torino, reliquia tra le più venerate della cristianità, ha una storia millenaria intrecciata con quella dei Savoia e della città sabauda. Giunta a Torino nel 1578, divenne oggetto di profonda devozione, con ostensioni solenni legate a eventi storici e dinastici. Nell’Ottocento, figure come san Giovanni Bosco e altri santi torinesi ne promossero il culto, contribuendo alla sua diffusione. Oggi custodita nella Cappella del Guarini, la Sindone è al centro di studi scientifici e teologici. Parallelamente, la chiesa del Santo Sudario a Roma, legata ai Savoia e alla comunità piemontese, rappresenta un altro luogo significativo, dove don Bosco tentò di stabilire una presenza salesiana.

            La Santa Sindone di Torino, detta impropriamente «Santo Sudario» dall’uso francese di chiamarla «Le Saint Suaire», fu proprietà di Casa Savoia sin dal 1463, e venne trasferita da Chambery nella nuova capitale sabauda nel 1578.
            In quello stesso anno se ne celebrò la prima Ostensione, voluta da Emanuele Filiberto in omaggio al card. Carlo Borromeo che veniva a Torino in pellegrinaggio per venerarla.

Ostensioni nel secolo XIX e culto della Sindone
            Nel secolo XIX si ricordano in particolare le Ostensioni del 1815, 1842, 1868 e 1898: la prima per il rientro dei Savoia nei loro Stati, la seconda per le nozze di Vittorio Emanuele II con Maria Adelaide di Asburgo-Lorena, la terza per le nozze di Umberto I con Margherita di Savoia-Genova, e la quarta in occasione dell’Esposizione Universale.
            I Santi dell’800 torinese, il Cottolengo, il Cafasso e don Bosco, furono devotissimi della Santa Sindone, emuli sull’esempio del Beato Sebastiano Valfré, l’apostolo di Torino nell’assedio del 1706.
            Le Memorie Biografiche ci assicurano che don Bosco la venerò in particolare all’Ostensione del 1842 e a quella del ’68, quando portò anche i ragazzi dell’oratorio a vederla (MB II, 117; IX, 137).
            Oggi la tela senza prezzo, donata da Umberto II di Savoia alla Santa Sede, è affidata all’Arcivescovo di Torino «Custode Pontificio» e conservata nella sontuosa Cappella del Guarini, retrostante il Duomo.
            A Torino vi è pure, in via Piave angolo via San Domenico, la Chiesa del Santo Sudario, eretta dalla Confraternita omonima e rifatta nel 1761. Adiacente alla chiesa vi è il «Museo Sindonologico» e la sede del Sodalizio «Cultores Sanctae Sindonis», centro di studi sindonologici ai quali hanno dato preziosi contributi studiosi salesiani come don Natale Noguier de Malijay, don Antonio Tonelli, don Alberto Caviglia, don Pietro Scotti e, più recentemente, don Pietro Rinaldi e don Luigi Fossati, per nominare solo i principali.

La chiesa del Santo Sudario a Roma
            Una chiesa del Santo Sudario esiste anche a Roma lungo la via omonima che parte dal Largo Argentina parallelamente a Corso Vittorio. Eretta nel 1604 su disegno di Carlo di Castellamonte, fu la Chiesa dei Piemontesi, Savoiardi e Nizzardi, fatta costruire dalla Confraternita del Santo Sudario sorta in quel tempo a Roma. Dopo il 1870 divenne la chiesa particolare di Casa Savoia.
            Don Bosco nei suoi soggiorni romani celebrò varie volte la Santa Messa in quella chiesa e formulò su di essa e sulla casa adiacente un progetto in linea con lo scopo dell’allora estinta Confraternita, dedita ad opere caritative verso la gioventù abbandonata, gli infermi ed i carcerati.
            La Confraternita aveva cessato di operare agli inizi del secolo e la proprietà ed amministrazione della chiesa erano passate alla Legazione Sarda presso la Santa Sede. Negli anni ’60 la chiesa esigeva ormai grossi restauri tanto che nel 1868 venne temporaneamente chiusa.
            Ma già nel 1867 don Bosco era giunto all’idea di proporre al Governo Sabaudo di cedergliene l’uso e l’amministrazione, offrendo la propria collaborazione in denaro per condurre a termine i restauri. Forse egli presentiva non lontana l’entrata delle truppe piemontesi in Roma e, desiderando di aprirvi una casa, pensò di farlo prima che la situazione precipitasse rendendo più difficile ottenere il beneplacito della Santa Sede ed il rispetto degli accordi da parte dello Stato (MB IX, 415-416).
            Presentò quindi la richiesta al Governo. Nel 1869, in una sosta a Firenze, preparò un progetto di convenzione che, giunto a Roma, fece conoscere a Pio IX. Ottenuto il suo assenso, passò alla richiesta ufficiale al Ministero degli Affari Esteri, ma, purtroppo, l’occupazione di Roma venne poi a pregiudicare tutto l’affare. Don Bosco stesso vide l’inopportunità di insistere. L’assumere, infatti, in quel momento, l’ufficiatura di una chiesa romana appartenente ai Savoia da parte di una Congregazione religiosa con Casa Madre a Torino, sarebbe potuto apparire un atto di opportunismo e di servilismo verso il nuovo Governo.
            Dopo la breccia di Porta Pia, con verbale del 2 dicembre 1871, la Chiesa del SS. Sudario fu annessa alla Casa Reale e designata come sede ufficiale del Cappellano maggiore palatino. In seguito all’interdetto di Pio IX sulle Cappelle dell’ex palazzo apostolico del Quirinale, fu proprio nella Chiesa del Sudario che si svolgevano tutti i riti sacri della Famiglia Reale.
            Nel 1874 don Bosco tastò nuovamente il terreno presso il Governo. Ma, sfortunatamente, notizie intempestive trapelate dai giornali, mandarono definitivamente a monte il progetto (MB X, 1233-1235).
            Con la fine della monarchia, nel 2 di giugno del 1946, l’intero complesso del Sudario passò sotto la gestione della Segreteria Generale della Presidenza della Repubblica. Nel 1984, a seguito del nuovo Concordato che sancì l’abolizione delle Cappelle palatine, la Chiesa del Sudario fu affidata all’Ordinariato Militare e così è rimasta fino ad oggi.
            A noi, tuttavia, piace ricordare il fatto che don Bosco, nel cercare l’occasione propizia per aprire una casa in Roma, abbia posto lo sguardo sulla Chiesa del Santo Sudario.




Visitare Roma con don Bosco. Cronaca del suo primo viaggio a Roma

La prima volta che Don Bosco si recò a Roma fu nel 1858, dal 18 febbraio al 16 aprile, accompagnato dal ventunenne chierico Michele Rua. Quattro anni prima, la Chiesa aveva celebrato un Giubileo straordinario di sei mesi, indetto in occasione della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione (8 dicembre 1854). Don Bosco colse l’opportunità di questa grande festa spirituale per pubblicare il volume “Il Giubileo e Pratiche divote per la visita delle chiese”.
Durante quella che sarebbe stata la sua prima di ben venti visite alla Città Eterna, Don Bosco si comportò come un vero pellegrino giubilare, dedicandosi con fervore alle visite e alle devozioni previste, fino a partecipare ai solenni riti pasquali officiati dal Pontefice. Fu un’esperienza intensa, che lui stesso non tenne per sé, ma condivise con i suoi giovani con l’entusiasmo e la passione educativa che lo contraddistinguevano.
Nel descrivere minuziosamente il viaggio, le tappe e i luoghi sacri, Don Bosco aveva un chiaro intento apostolico ed educativo: far rivivere a chi lo ascoltava o leggeva la stessa profonda esperienza di fede, trasmettendo loro l’amore per la Chiesa e per la tradizione cristiana.
Invitiamo ora anche voi lettori a unirvi spiritualmente a Don Bosco, ripercorrendo idealmente le strade della Roma cristiana, per lasciarvi affascinare dal suo slancio e dal suo zelo e, insieme, rinnovare la vostra fede.

A Genova in ferrovia
La partenza per Roma era fissata per il giorno 18 del mese di febbraio 1858. In quella notte cadde quasi un palmo di neve sopra i due che coprivano già il terreno. Alle 8 e mezzo, mentre ancora nevicava, con la commozione che prova un padre che lascia i suoi figli, salutavo i giovani per iniziare il viaggio verso Roma. Benché avessimo una certa fretta per poter arrivare in tempo al treno, ci trattenemmo ancora un po’ per fare testamento: non volevo infatti lasciare pendenze di nessun genere all’Oratorio qualora la Provvidenza avesse voluto darci in pasto ai pesci del mediterraneo […] Poi di corsa ci recammo allo scalo ferroviario e, assieme a don Mentasti […], partimmo col treno alle dieci del mattino.
Avvenne qui uno spiacevole incidente: le carrozze erano quasi complete per cui dovetti lasciare Rua e don Mentasti in uno scompartimento e trovare posto in un altro […]

Il fanciullo ebreo
Capitai per caso vicino a un ragazzino di dieci anni. Notandone l’aspetto semplice e il viso buono, mi misi a conversare con lui e […] mi accorsi che era ebreo. Il padre, che gli sedeva accanto, mi assicurava che il figlio frequentava la quarta elementare, ma la sua istruzione mi pareva non arrivasse alla seconda. Però era d’ingegno pronto. Il padre aveva piacere che lo interrogassi anzi, m’invitò a farlo parlare della Bibbia. Così cominciai a interrogarlo sulla creazione del mondo e dell’uomo, sul Paradiso terrestre, sulla caduta dei progenitori. Rispondeva abbastanza bene, ma rimasi meravigliato quando capii che non aveva alcuna idea del peccato originale e della promessa di un Redentore.
– Non c’è nella tua Bibbia la promessa di Dio ad Adamo quando lo cacciò dal Paradiso?
– No, me lo dica lei, rispose.
– Subito. Dio disse al serpente: poiché hai ingannato la donna, sarai maledetto fra tutti gli animali, e Uno che nascerà da una donna ti schiaccerà il capo.
– Chi è quest’Uno di cui si parla?
– È il Salvatore che avrebbe liberato il genere umano dalla schiavitù del demonio.
– Quando verrà?
– È già venuto ed è quello che noi chiamiamo…
Qui il padre ci interruppe dicendo:
– Queste cose noi non le studiamo perché non riguardano la nostra legge.
– Fareste bene a studiarle, perché sono nei libri di Mosè e dei profeti cui voi credete.
– Va bene, disse l’altro, ci penserò. Ora gli chieda qualcosa di aritmetica.
Vedendo che non desiderava che gli parlassi di religione, conversammo di cose piacevoli, cosicché il padre, il figlio e anche gli altri viaggiatori cominciarono a divertirsi e a ridere di gusto. Alla stazione di Asti il ragazzino doveva scendere, ma non si decideva a lasciarmi. Aveva le lacrime agli occhi, mi teneva la mano e commosso riuscì solo a dirmi:
– Mi chiamo Sacerdote Leone di Moncalvo; si ricordi di me. Venendo a Torino spero di poterle far visita. Il padre per allentare la commozione disse che aveva cercato a Torino la “Storia d’Italia” [da me scritta]. Non avendola trovata mi pregava di mandargliene copia. Promisi di inviare quella stampata appositamente per la gioventù, poi scesi anch’io per cercare i miei compagni per vedere se c’era posto nel loro scompartimento. Trovai Rua che aveva le mandibole stanche a forza di sbadigliare, giacché da Torino ad Asti si era annoiato molto, non sapendo con chi attaccare discorso: i suoi compagni di viaggio non parlavano che di balli, teatro e altre cose di poco gusto […]

Verso Genova
Giungemmo agli Appennini. Si alzavano davanti a noi altissimi e ripidissimi. Poiché il treno viaggiava a gran velocità, avevamo l’impressione di andare a urtare contro le rocce, finché sul treno si fece improvvisamente buio. Eravamo entrati nelle gallerie. Queste sono “fori” che passando sotto le montagne fanno risparmiare parecchie decine di miglia […] Senza gallerie sarebbe impossibile valicarle, e siccome ci sono molte montagne, esistono parecchi trafori. Uno di essi è lungo quanto la distanza tra Torino e Moncalieri; qui il convoglio rimase al buio per otto minuti, tempo necessario a percorrere il tratto di galleria.

Ci stupì constatare che la neve diminuiva man mano che ci avvicinavamo alla riviera di Genova. Ma quale non fu la nostra meraviglia quando scorgemmo le campagne senza un filo di bianco, le rive verdeggianti, i giardini pieni di colori, le piante di mandorlo fiorite e gli alberi di pesco coi boccioli in procinto di schiudersi al sole! Allora, facendo un confronto tra Torino e Genova, ci siamo detti che in questa stagione Genova è la primavera e Torino il più crudo inverno.

I due montanari
Mi dimenticavo di parlare di due montanari che salirono nel nostro scompartimento alla stazione di Busalla. Uno era pallido e infermiccio da far compassione, l’altro invece aveva un’aria sana e vivace, e, sebbene toccasse i settant’anni, mostrava la vigoria di un venticinquenne. Aveva le brache corte e le ghette quasi sbottonate, tanto che mostrava le gambe nude fino al ginocchio sferzate dal freddo. Era in maniche di camicia con la sola maglia e una giubba di panno grossolano buttata sulle spalle. Dopo averlo fatto parlare di vari argomenti, gli dissi:
– Perché non vi aggiustate questi abiti in modo da difendervi dal freddo? Rispose:
– Vede, caro signore, noi siamo montanari, e siamo abituati al vento, alla pioggia, alla neve e al ghiaccio. Quasi nemmeno ci accorgiamo della stagione invernale. I nostri ragazzi camminano a piedi nudi in mezzo alla neve, anzi ci si divertono senza badare al freddo. Da ciò ho potuto capire che l’uomo vive di abitudini, e il corpo è capace di sopportare a seconda dei casi il freddo o il caldo, e quelli che vorrebbero porre riparo a ogni piccolo incomodo rischiano di indebolire la loro condizione invece di rafforzarla.

La sosta genovese
Ma ecco Genova, ecco il mare! Rua si agita per vederlo, allunga il collo: qua nota un bastimento, là alcune navi, più in giù la lanterna che è un altissimo fanale. Giungiamo intanto alla stazione e scendiamo dal treno. Il cognato dell’abate Montebruno ci attendeva con alcuni giovani, e appena a terra ci accolsero con gioia, e portando i nostri bagagli ci condussero presso l’opera degli artigianelli che è una casa simile al nostro Oratorio. I complimenti furono brevi giacché tutti avevamo una gran fame: erano le tre e mezza del pomeriggio e io avevo preso solo una tazza di caffè. A tavola sembrava che nulla ci potesse saziare, tuttavia a forza di mandar giù il sacco si riempì.
Subito dopo abbiamo visitato la casa: scuole, dormitori, laboratori: mi sembrava di vedere l’Oratorio di dieci anni fa. I convittori erano venti; altri venti, pur mangiando e lavorando qui, dormivano altrove. Qual è il loro vitto? A pranzo un buon piatto di minestra, poi… niente altro. A cena una pagnottella che si mangia in piedi quindi a letto!
Al termine siamo usciti per un giro in città che a dire il vero è poco attraente, sebbene abbia magnifici palazzi e grandi negozi. Le vie sono strette, tortuose e ripide. Ma la cosa più seccante era un vento molesto che, spirando quasi senza interruzione, toglieva il piacere di ammirare qualsiasi cosa anche la più bella […]

A Genova insomma andarono deluse le nostre aspettative. Come se non bastasse il vento contrario impedì l’attracco del bastimento su cui dovevamo imbarcarci, perciò, nostro malgrado, dovemmo attendere fino al giorno seguente […] Al mattino ho detto messa nella chiesa dei Padri Predicatori sull’altare del Beato Sebastiano Maggi, un frate vissuto circa trecento anni fa. Il suo corpo è un prodigio continuato, perché si conserva intero, flessibile e con un colore che lo diresti morto da pochi giorni […] Poi andammo a vidimare, cioè firmare il passaporto. Il console pontificio ci accolse con molta cortesia […] Cercò anche di farci avere qualche sconto sul battello, ma non fu possibile.

A Civitavecchia via mare. L’imbarco
Alle sei e mezza di sera, prima di avviarci verso il battello a vapore chiamato Aventino, salutammo parecchi ecclesiastici venuti dagli Artigianelli per augurarci buon viaggio. Anche i ragazzi, attratti dalle buone parole, ma soprattutto da alcune portate in più nel pranzo di quel giorno, ci erano divenuti amici e sembrava provassero dispiacere a vederci partire. Parecchi di loro ci accompagnarono fino al mare, quindi saltando agilmente su una barchetta, vollero scortarci fino al battello. Il vento era assai forte: non avvezzo a viaggiare per mare, ad ogni agitarsi della barca temevamo di capovolgerci e affondare e i nostri accompagnatori ridevano di gusto. Dopo venti minuti giungemmo finalmente alla nave.

A prima vista ci sembrava un palazzo circondato dalle onde. Salimmo a bordo, e portato il nostro bagaglio in un alloggiamento alquanto spazioso, ci sedemmo per riposarci e pensare: ciascuno provava particolari sensazioni che non sapeva come esprimere. Rua osservava tutto e tutti in silenzio. Ed ecco il primo intoppo: essendo arrivati all’ora di pranzo, non siamo andati subito a mangiare; quando l’abbiamo richiesto, era tutto finito. Rua dovette cenare con una mela, una pagnottella e un bicchiere di vino Bordò, io mi accontentai di un pezzetto di pane e un po’ di quell’eccellente vino. Da notare che quando si viaggia in nave, nel biglietto sono compresi anche i pasti, per cui che si mangi o no si paga ugualmente.

Dopo siamo saliti in coperta per renderci conto di come fosse questo “Aventino”. Abbiamo così saputo che i bastimenti prendono nome dai luoghi più famosi delle zone verso cui sono diretti. Uno si chiama Vaticano, un altro Quirinale, un altro Aventino, come il nostro, per ricordare i sette famosi colli di Roma. Questa nostra nave parte da Marsiglia, tocca Genova, Livorno, Civitavecchia, poi continua per Napoli, Messina e Malta. Al ritorno ripete lo stesso percorso fino a Marsiglia. Si chiama anche battello postale perché porta lettere, pieghi, ecc. Che faccia bello o brutto tempo parte comunque.

Il mal di mare
Ci avevano assegnato la cuccetta che è una specie di armadio a ripiani dove i passeggeri si coricano sopra un materasso in ciascun ripiano. Alle dieci salparono le ancore e il battello, spinto dal vapore e da un vento favorevole, cominciò a correre a gran velocità alla volta di Livorno. Quando fummo al largo fui assalito dal mal di mare che mi tormentò per due giorni. Questo fastidio consiste in un vomito frequente, e quando non si ha più nulla da rigettare gli sforzi diventano più violenti, sicché la persona diviene così sfinita che rifiuta qualsiasi alimento. L’unica cosa che può recare qualche sollievo è il mettersi a letto e stare, quando il vomito lo permette, col corpo interamente disteso.

Livorno
Quella del 20 febbraio fu una brutta notte. Non correvamo pericolo per il mare agitato, ma il mal di mare mi aveva talmente prostrato che non riuscivo a stare né coricato, né in piedi. Mi gettai giù dalla cuccetta e andai a vedere se Rua fosse vivo o morto. Egli però non aveva che un po’ di spossatezza, nient’altro. Si alzò subito mettendosi a mia disposizione per alleviarmi i disagi della traversata. Quando Dio volle giungemmo al porto di Livorno. Per porto s’intende un seno del mare riparato dalla furia dei venti da barriere naturali o da bastioni costruiti dall’uomo. Qui le navi sono al riparo da ogni pericolo, qui scaricano le loro merci e ne caricano altre per altre destinazioni, qui si fanno i rifornimenti. I passeggeri che lo desiderano possono anche scendere a terra per qualche giro in città purché tornino in orario […]

Sebbene io desiderassi scendere per visitare la città, dire messa e salutare qualche amico, non potei farlo, anzi fui costretto a tornare nella mia cuccetta e starmene lì buono buono a digiuno. Un cameriere di nome Charles mi guardava con occhio di compassione e ogni tanto mi veniva vicino offrendomi i suoi servizi. Vedendolo così buono e cortese cominciai a conversare con lui, e fra le altre cose gli domandai se non temesse di essere deriso assistendo un prete sotto l’occhio di tante persone.
No, mi disse in francese, come vede nessuno fa le meraviglie, anzi tutti la guardano con bontà, mostrando desiderio di aiutarla. D’altronde mia madre mi ha insegnato ad avere grande rispetto per i sacerdoti per guadagnare la benedizione del Signore. Charles, andò poi a chiamare un dottore: ogni bastimento ha il suo medico e i principali rimedi per qualsiasi bisogno. Il medico venne e le sue maniere affabili mi sollevarono alquanto.
Comprendete il francese? Mi disse. Risposi:
– Comprendo tutti i linguaggi del mondo, anche quelli che non sono scritti, perfino il linguaggio dei sordomuti. Scherzavo per svegliarmi dalla sonnolenza che mi aveva preso. L’altro comprese e si mise a ridere.
Peut être, può darsi! Diceva mentre mi visitava. Alla fine mi annunciò che al mal di mare si era aggiunta la febbre e che una bibita di tè mi avrebbe fatto bene. Lo ringraziai e gli chiesi il suo nome.
Il mio nome, disse, è Jobert di Marsiglia, dottore in medicina e chirurgia. Charles attento agli ordini del dottore in breve tempo mi preparò una tazza di tè, di lì a poco un’altra, poi un’altra ancora. E mi fece bene, tanto che riuscii a prendere sonno.
Alle cinque [pomeridiane] il battello levò le ancore. Quando fummo in alto mare di nuovo ebbi conati di vomito ancor più violenti, rimanendo agitato per circa quattro ore, poi per lo sfinimento – non avevo ormai più nulla nello stomaco – coadiuvato dal rollio della nave mi addormentai e riposai di un sonno tranquillo fino all’arrivo a Civitavecchia.

Pagare, pagare, pagare
Il riposo della notte mi aveva fatto tornare le forze. Sebbene sfinito per il lungo digiuno, mi alzai e preparai i bagagli. Stavamo per scendere quando ci avvisarono di un debito che non sapevamo di aver contratto. Il caffè non era compreso col vitto ma si doveva pagare a parte, e noi che ne avevamo prese quattro tazze pagammo un supplemento di due franchi, vale a dire cinquanta centesimi a tazza.
Il capitano, fatti vidimare i passaporti, ci consegnò il permesso di sbarco; e qui cominciò la teoria delle mance: un franco ciascuno ai barcaioli, mezzo franco per il bagaglio (che portavamo noi), mezzo franco alla dogana, mezzo franco a chi ci invitava in vettura, mezzo al facchino che sistemava i bagagli, due franchi per il visto sul passaporto, un franco e mezzo al console pontificio. Non si faceva in tempo ad aprire bocca che subito bisognava pagare. Con l’aggiunta che, variando le monete di nome e di valore, dovevamo fidarci di chi ci faceva il cambio […] Alla Dogana rispettarono un pacco indirizzato al cardinale Antonelli col bollo pontificio, entro cui avevamo messo le cose più importanti […]

Terminate le operazioni mi recai dal barbiere a farmi radere una barba di dieci giorni. Tutto andò bene, ma in bottega non riuscii a distogliere lo sguardo da due corna su un tavolino. Erano lunghe circa un metro e ornate di anelli luccicanti e nastri. Pensavo fossero destinate a qualche uso particolare, ma mi dissero che erano di giovenca, che noi chiamiamo bue, poste là solo per ornamento […]

Verso Roma in carrozza
Intanto don Mentasti era su tutte le furie perché non ci vedeva arrivare, mentre la vettura già ci attendeva. Noi ci eravamo messi a correre per arrivare in tempo. Saliti in vettura partimmo per Roma. La distanza da percorrere era di 47 miglia italiane che corrispondono a 36 miglia piemontesi; la strada era molto bella. Avevamo preso posto sul coupé da dove potevamo contemplare i prati verdeggianti e le siepi fiorite. Una curiosità ci divertì non poco. Ci accorgemmo che tutto andava a tre a tre: i cavalli della nostra vettura erano aggiogati a tre a tre; incontrammo pattuglie di soldati che andavano a tre a tre; perfino alcuni contadini camminavano a tre a tre, come pure alcune vacche e alcuni asini pascolavano a tre a tre. Noi ridevamo su queste strane coincidenze […]

Una tappa per i cavalli
A Palo il vetturino concesse ai viaggiatori un’ora di libertà per avere il tempo di ristorare i cavalli. Noi ce ne servimmo per correre nella vicina locanda a levarci la fame. Le faccende ci avevano quasi fatto dimenticare il mangiare; da mezzogiorno del venerdì non avevo preso che una tazza di caffelatte. Ci siamo messi intorno alle pagnottelle e abbiamo mangiato, o meglio, divorato tutto. Nel vedere poi il cameriere tutto sfinito e pallido gli chiesi che cosa avesse.
– Ho le febbri che da molti mesi mi affliggono, rispose. Io allora feci il buon medico:
– Lasciate fare a me, vi prescrivo una ricetta che caccerà per sempre la febbre. Abbiate solo fiducia in Dio e in san Luigi. Preso quindi un pezzo di carta con la matita scrissi la mia ricetta, raccomandandogli di portarla da qualche farmacista. Era fuori di sé dalla gioia, e, non sapendo come meglio dimostrare la sua gratitudine, baciava e ribaciava la mia mano, e voleva baciarla anche a Rua, che per modestia non glielo permise.

Fu pure simpatico l’incontro con un carabiniere pontificio. Egli pensava di conoscermi, ed io credevo di conoscere lui, così ci siamo salutati tutti e due con gran festa. E quando ci siamo accorti dell’equivoco, l’amicizia e le espressioni di benevolenza e di rispetto continuarono: per fargli piacere ho dovuto permettere che mi pagasse una tazza di caffè, da parte mia gli offrii un bicchierino di rhum. Avendomi poi chiesto di lasciargli qualche ricordo, gli regalai la medaglia di san Luigi Gonzaga. Il nome di quel buon carabiniere era Pedrocchi.

Nella città dei papi
Montati nuovamente in vettura e volando più veloci col desiderio che con le zampe dei cavalli, ci sembrava ogni momento di essere a Roma. Calata la notte, ogni volta che si scorgeva lontano un arbusto od una pianta Rua subito esclamava:
– Ecco la cupola di S. Pietro. Ma prima di arrivare abbiamo dovuto procedere fino alle dieci e mezza della sera, ed essendo ormai notte fonda, non riuscivamo a scorgere più nessun particolare. Un certo brivido tuttavia ci prese al pensiero che stavamo entrando nella città santa. […] Arrivati finalmente al punto di fermata, non avendo alcuna conoscenza del luogo, abbiamo cercato una guida che per dodici baiocchi ci accompagnò a casa De Maistre, in via del Quirinale 49, alle Quattro Fontane. Erano già le undici. Fummo accolti con bontà dal conte e dalla contessa; gli altri erano già a letto. Preso un po’ di ristoro ci siamo dati la buona notte e siamo andati a dormire.

San Carlino
La parte del Quirinale da noi abitata viene chiamata Quattro Fontane perché zampillano quattro fonti perenni da quattro angoli di quattro contrade che qui si uniscono. Di fronte alla casa dove avevamo preso dimora vi era la chiesa dei carmelitani. Costoro, tutti spagnoli, appartenevano all’ordine detto della Redenzione degli Schiavi. La chiesa fu costruita nel 1640 e intitolata a san Carlo; ma per distinguerla da altre dedicate al medesimo santo fu chiamata S. Carlino. Recatici in sacrestia, abbiamo mostrato il Celebret, (il documento per celebrare n.d.r.) e così abbiamo potuto dire messa. […] Il giorno lo passammo quasi interamente ad ordinare le nostre carte, fare commissioni, portar lettere […]

Il Pantheon
Approfittando di un’ora che rimaneva ancora prima di notte, ci recammo al Pantheon che è uno dei più antichi e celebri monumenti di Roma. Venne fatto costruire da Marco Agrippa, genero di Cesare Augusto, venticinque anni prima dell’era volgare (della nascita di Cristo n.d.r.). Si crede che questo edificio sia stato chiamato Pantheon, che vuol dire tutti gli dei, perché di fatto era dedicato a tutte le divinità. La facciata è veramente superba. Otto grosse colonne reggono un elegante cornicione. Subito dopo ecco un porticato formato da sedici colonne fatte di un sol blocco di granito, poi il pronao, o avantempio, costituito da quattro pilastri scanalati, entro cui sono ricavate nicchie anticamente occupate dalle statue di Augusto e di Agrippa.
All’interno si presenta un’alta cupola aperta in mezzo, dalla quale penetra la luce, ma anche il vento, la pioggia, e la neve, quando ne cade da queste parti. Qui i più preziosi marmi servono da pavimento o da ornamento tutto intorno. Il diametro è di centotrentatre piedi, corrispondenti a diciotto trabucchi (c.ca 55 mt.). Questo tempio servì al culto degli dei fino al 608 dopo Cristo, quando papa Bonifacio IV, per impedire i disordini che si commettevano durante i sacrifici, lo dedicò al culto del vero Dio, cioè a tutti i santi.

Questa chiesa andò soggetta a molte vicende. Quando Bonifacio IV ottenne questo luogo dall’imperatore Foca e lo dedicò al culto di Dio e della Madonna, fece trasportare da vari cimiteri ventotto carri di reliquie che collocò sotto l’altare maggiore. Da allora cominciò ad essere chiamato Santa Maria ad Martyres. Fra le cose che gradimmo molto fu visitare la tomba del grande Raffaello […] Ora questa chiesa porta anche il nome di Rotonda, dalla forma della sua costruzione. Davanti si estende una piazza il cui centro è occupato da una grande fontana di marmo, sormontata da quattro delfini che gettano continuamente acqua.

San Pietro in Vincoli
Il 23 febbraio […] siamo rimasti molto contenti della visita a S. Pietro in Vincoli, chiesa a sud di Roma sul confine della città. Fu una giornata memorabile perché coincideva con una delle rare volte in cui venivano messe in mostra le catene di san Pietro, le cui chiavi sono custodite dallo stesso Santo Padre.
Una tradizione ritiene che fu lo stesso Pietro a erigere qui la prima chiesa, dedicandola al Salvatore. Distrutta dall’incendio di Nerone, venne da san Leone Magno ricostruita nel 442 e dedicata al primo Papa. Fu chiamata S. Pietro in Vincoli, perché il Pontefice vi collocò la catena con cui il Principe degli Apostoli a Gerusalemme era stato, per ordine di Erode, incatenato. Il patriarca Giovenale l’aveva regalata all’imperatrice Eudossia, che a sua volta l’inviò a Roma alla figlia Eudossia junior, moglie di Valentiniano III. A Roma si conservava anche la catena cui era incatenato san Pietro nel carcere Mamertino. Quando san Leone volle fare il confronto di questa con quella di Gerusalemme, in modo prodigioso le due catene si unirono, cosicché oggi ne formano una sola, che si conserva in un altare apposito a lato della sacrestia. Noi abbiamo avuto la consolazione di toccare quelle catene colle nostre mani, baciarle, mettercele al collo e accostarle alla fronte. Abbiamo anche attentamente controllato per riuscire a scorgere il punto di unione delle due, ma non ci fu possibile. Abbiamo solo potuto constatare che la catena di Roma è più piccola di quella di Gerusalemme.

A S. Pietro in Vincoli si trova il magnifico sepolcro di Giulio II […] È uno dei capolavori del celebre Michelangelo Buonarroti, che è ritenuto uno dei massimi artisti del marmo, specialmente per la statua del Mosè posta vicino all’urna. Il patriarca è rappresentato con le tavole della legge piegate sotto al braccio destro, in atto di parlare al popolo che egli guarda fieramente, perché si era ribellato. La chiesa è a tre navate, separate da venti colonne di marmo pario, e due di granito ben conservato.

S. Luigi dei Francesi
Verso le nove ci portammo a Santa Maria sopra Minerva, ove fummo ricevuti in udienza privata dal cardinale Gaude per circa un’ora e mezza. Egli parlò con noi in dialetto piemontese, interessandosi ai nostri oratori […] Dopo mezzogiorno ci recammo a fare visita al marchese Giovanni Patrizi […] In faccia al suo palazzo c’è la chiesa di S. Luigi dei Francesi che dà il nome alla piazza e alla contrada vicina. È una chiesa ben tenuta e arricchita di molti marmi preziosi. La sua singolarità consiste nei sepolcri degli uomini illustri francesi morti a Roma. Infatti il pavimento e le mura sono coperte di epitaffi e lapidi. […]

S. Maria Maggiore all’Esquilino
Dal Quirinale si apre una via che porta all’Esquilino, così detto per i molti elci di cui era ammantato. Nella parte più elevata s’innalza S. Maria Maggiore, la cui origine è narrata così da tutti gli storici sacri. Un certo Giovanni, patrizio romano, non avendo figli, desiderava impiegare le sue sostanze in qualche opera di pietà […] La notte del 4 agosto del 352 gli apparve in sogno la Madonna che gli comandò di innalzarle un tempio nel luogo dove la mattina dopo avrebbe trovato neve fresca. La stessa visione ebbe il papa di allora Liberio. Il giorno seguente si sparse voce che sul colle Esquilino era caduta abbondante neve, perciò Liberio e Giovanni vi si recarono, e, constatato il prodigio, si attivarono per mettere in pratica il comando avuto nella visione. Il Papa segnò il tracciato del nuovo tempio, che in breve fu portato a termine con i denari di Giovanni: pochi anni dopo Liberio poté procedere alla consacrazione […]

Davanti alla chiesa si estende una vasta piazza al centro della quale è posta l’antica colonna di marmo bianco, tolta dal tempio della pace. Il pontefice Paolo V l’anno 1614 la dotò di una base e un capitello, sopra cui collocò la statua della Madonna col Bambino. L’architettura della facciata è maestosa ed è sostenuta da grosse colonne di marmo che formano uno spazioso vestibolo. In fondo ad esso è stata posta la statua di Filippo IV, re di Spagna, che fece molte donazioni a favore di questa chiesa e volle egli stesso essere iscritto fra i canonici. Il pavimento è in mosaico prezioso lavorato con marmi di vario genere, tutti di incalcolabile valore.

La cappella a destra dell’altare maggiore conserva la tomba di san Girolamo, la culla del Salvatore e l’altare di papa Liberio. L’altare papale è ricoperto da preziosi marmi di porfido, e sostenuto da quattro putti di bronzo dorato. Sotto di esso si apre la Confessione, che è una cappella dedicata a san Mattia. Siamo andati a visitarla nel giorno della stazione quaresimale, così abbiamo avuto la fortuna di trovare esposto sopra un ricco altare il capo di san Mattia. L’abbiamo osservato attentamente, e abbiamo notato la pelle attaccata alla testa, anzi, appaiono ancora alcuni capelli attaccati al venerato teschio.

La Vergine e la peste
Nella cappella a sinistra dell’altare si può osservare un dipinto della Vergine attribuito a san Luca, molto venerato dal popolo. L’immagine fu tenuta in grande considerazione dai papi. San Gregorio Magno nella terribile pestilenza del 590 la portò in processione fino al Vaticano. Era il 25 aprile. Giunto il corteo nei pressi della mole Adriana, fu visto un angelo che riponeva la spada nel fodero, indicando così la cessazione della peste. In memoria di questo prodigio la Mole Adriana fu denominata Castel Sant’Angelo, e da allora la processione si ripete ogni anno nel giorno di san Marco Evangelista. In S. Maria Maggiore tutto è maestoso e grande; ma il parlarne o scriverne sono insufficienti per arrivare a descriverla con verità. Chi la vede coi propri occhi ferma lo sguardo meravigliato in ogni angolo.

Oggi mercoledì di quaresima qui a Roma si digiuna e questo vuol dire che sono proibiti non solo i cibi di carne, ma anche ogni minestra o pietanza a base di uova, burro o latte. Olio, acqua e sale sono i condimenti che si usano in questi mercoledì. La pratica è rigorosamente osservata da ogni classe di persone tanto che nei mercati e nelle botteghe quel giorno non si trova né carne, né uova, né burro.

La leggenda di san Galgano
A sera la signora De Maistre ci raccontò una storia degna di essere ricordata. Disse:
L’anno scorso venne a trovarci il vicario generale di Siena. Fra le tante cose di cui era solito parlarci, ci narrò la storia di san Galgano soldato. Questo santo è morto da secoli, e il suo capo si conserva intatto; ma la meraviglia più grande è che ogni anno gli tagliano i capelli, che crescono insensibilmente e tornano della medesima lunghezza l’anno seguente. Un protestante dopo che ebbe ascoltato questo prodigio si mise a ridere dicendo: lascino sigillare da me l’urna dove è conservato il capo, e se i capelli cresceranno ugualmente riconoscerò il miracolo e diventerò cattolico. La cosa fu riferita al vescovo che rispose: io metterò i sigilli vescovili per l’autenticità della reliquia, egli metta i suoi per assicurarsi del fatto. Così fu fatto; ma quel signore, impaziente di vedere se il prodigio cominciava ad operarsi, dopo alcuni mesi chiese di aprire l’urna. Immaginate la sua meraviglia quando vide che i capelli di san Galgano erano già cresciuti come avrebbero fatto se fosse stato vivo! Allora è vero! Esclamò. Diventerò cattolico. Infatti l’anno seguente nel giorno della festa del Santo egli con la sua famiglia rinunziò al luteranesimo e abbracciò la religione cattolica, che oggi professa con esemplarità.

S. Pudenziana al Viminale
Dalle Quattro Fontane si sale al Viminale, chiamato così per i molti vimini, cioè i giunchi, che un tempo lo ricoprivano. Ai piedi di questo colle nella casa di Pudente, senatore romano, alloggiò san Pietro quando venne a Roma. Il santo apostolo convertì alla fede il suo ospite e trasformò la sua casa in chiesa. San Pio I verso il 160, su istanza delle vergini Pudenziana e Prassede, figlie del nipote del senatore Pudente, consacrò questa chiesa, che […] in seguito venne dedicata a S. Pudenziana perché vi aveva abitato e vi era morta. Molti pontefici misero mano alla ristrutturazione di questo luogo che contiene preziose testimonianze cristiane. Merita speciale attenzione il pozzo di santa Pudenziana. Si crede che in esso ella seppellisse i corpi dei martiri. Sul fondo si possono notare una grande quantità di reliquie: la storia dice che contiene le reliquie di tremila martiri.

Accanto all’altare maggiore c’è una cappella di forma oblunga sul cui altare si ammira un gruppo marmoreo di Gesù nell’atto di consegnare le chiavi a san Pietro. Si crede che l’altare sia quello stesso su cui ha celebrato messa san Pietro, e sul quale con grande consolazione ho potuto celebrare io stesso. Vi sono conservati vari pezzi di spugna, gli stessi di cui si serviva Pudenziana per raccogliere il sangue dalle piaghe dei martiri, oppure dalla terra che ne era impregnata.
Continuando verso sinistra si giunge a una cappella dove si conserva la testimonianza di un grande miracolo. Mentre celebrava messa un sacerdote cadde in dubbio sulla possibilità della presenza reale di Gesù nell’ostia santa. Dopo la consacrazione l’ostia gli sfuggì dalle mani e cadendo sul pavimento rimbalzò prima su un gradino poi su un altro. Là dove batté la prima volta il marmo rimase quasi forato, anche nel secondo scalino si formò una cavità assai profonda a forma di ostia. Questi due gradini di marmo sono conservati in quello stesso luogo, custoditi da appositi cancelli.

Santa Prassede
Da S. Pudenziana salendo verso l’Esquilino, a poca distanza da S. Maria Maggiore s’incontra la chiesa di S. Prassede. Verso l’anno 162 d. C., sopra il luogo dove erano le terme, ossia i bagni di Novato, san Pio I eresse una chiesa in onore di questa vergine, sorella di Novato, Pudenziana e Teotilo. Il luogo servì di rifugio agli antichi cristiani in tempo di persecuzione. La Santa, che si adoperava per fornire quanto occorreva ai cristiani perseguitati, provvedeva anche a raccogliere i corpi dei martiri che poi seppelliva, versando il loro sangue nel pozzo che sta in mezzo alla chiesa. Essa è ricchissima di ornamenti e marmi preziosi, come lo sono quasi tutte le chiese di Roma.

C’è anche la cappella dei martiri Zenone e Valentino, i cui corpi, fatti trasportare da san Pasquale I l’anno 899, riposano sotto l’altare. Qui si conserva anche una colonna di diaspro, alta circa tre palmi, che un cardinale di nome Colonna l’anno 1223 fece trasportare dalla Terrasanta. Si ritiene che sia quella a cui fu legato il Salvatore durante la flagellazione.

Il Celio
Dall’Esquilino guardando a ovest si vede il colle Celio. Anticamente veniva chiamato Querchetulano dalle querce che lo ricoprivano. Più tardi fu denominato Celio da Cele Vilenna, capitano degli Etruschi venuti in soccorso di Roma, e che Tarquinio Prisco fece alloggiare su detto colle. La prima cosa che si nota è l’obelisco più grande che si conosca. Ramsete, faraone d’Egitto, lo fece innalzare a Tebe dedicandolo al sole. Costantino il Grande lo fece trasportare attraverso il Nilo fino ad Alessandria, ma, colto dalla morte, toccò al figlio Costanzo trasportarlo a Roma. Per il viaggio si usò un vascello di trecento remi, e attraverso il Tevere fu condotto nell’Urbe e posto in un luogo detto Circo Massimo. Qui cadde spezzandosi in tre parti. Papa Sisto V lo fece restaurare e innalzare nella piazza del Laterano l’anno 1588. L’obelisco giunge all’altezza di 153 piedi romani. È tutto ornato di geroglifici e sormontato da un’alta croce.

A destra della piazza c’è il battistero di Costantino con la chiesa di S. Giovanni in Fonte. Si dice sia stata costruita da Costantino in occasione del battesimo che ricevette dal pontefice san Silvestro l’anno 324. Dalle due cappelle annesse dedicate una a san Giovanni Battista, l’altra a san Giovanni Evangelista ha preso il nome di chiesa di S. Giovanni in Fonte. Il battistero, che è una vasca di grande larghezza rivestita di marmi preziosi, è nel mezzo. La cappelletta annessa dedicata a san Giovanni Battista si crede sia una camera di Costantino, cambiata in oratorio e dedicata al santo Precursore dal papa sant’Ilario.

S. Giovanni in Laterano
Uscendo dal battistero e attraversando la vasta piazza, s’incontra la basilica di S. Giovanni in Laterano. Questa celeberrima costruzione è la prima e principale chiesa del mondo cattolico. Sulla facciata è scritto: Ecclesiarum Urbis et Orbis Mater et Caput (madre e capo di tutte le chiese di Roma e del mondo). È la sede del Sommo Pontefice come vescovo di Roma; dopo la sua incoronazione egli va a prenderne solennemente possesso. Fu chiamata anche Basilica Costantiniana, perché fondata da Costantino il Grande. Fu detta poi Basilica Lateranense perché innalzata dove era il palazzo di un certo Plauzio Laterano, fatto uccidere da Nerone; e anche Basilica del Salvatore a seguito di una apparizione del Salvatore avvenuta durante la costruzione. La chiamano ancora Basilica Aurea per i preziosi doni di cui fu arricchita, e Basilica di S. Giovanni perché dedicata ai santi Giovanni Battista ed Evangelista.

Fu Costantino il Grande a farla costruire presso il suo palazzo, attorno all’anno 324. Ampliata poi con nuovi corpi di fabbrica, fu ceduta al santo Pontefice. Qui abitarono i Papi fino al tempo di Gregorio XI. Quando costui riportò la Santa Sede da Avignone a Roma trasferì la sua abitazione in Vaticano.
L’anno 1308 scoppiò un terribile incendio che la distrusse, ma Clemente V, che allora era in Avignone, mandò subito i suoi agenti con grandi somme di danaro, e in breve fu ricostruita. Il portico è retto da ventiquattro grossi pilastri; in fondo vi è la statua di Costantino trovata nelle sue terme al Quirinale. La porta grande di bronzo è di straordinaria altezza. Essa fu tolta dalla chiesa di S. Adriano in Campo Vaccino e fatta trasportare qui. Costituisce un raro esempio di porte antiche dette Quadrifores, cioè costruite in modo che si potessero aprire in quattro parti, una per volta senza che alcuna mettesse in pericolo la stabilità dell’altra. Sulla destra c’è una porta murata che si apre solo nell’anno del giubileo e perciò è detta Porta Santa.

L’interno è a cinque navate. La lunghezza, l’altezza, la preziosità dei pavimenti, delle sculture e delle pitture sono cose che incantano a vederle. Bisognerebbe farne grossi volumi a parlarne degnamente. Le reliquie più insigni di questa chiesa sono il capo dei due principi degli Apostoli Pietro e Paolo. Essi sono custoditi sotto l’altare maggiore e incassati in un altro capo d’oro. Vi è pure una reliquia insigne di san Pancrazio martire, e vi si custodisce una tavola che si pensa sia quella medesima sopra la quale Gesù celebrò la sacra cena coi suoi Apostoli.

Uscendo dalla chiesa per la porta principale e attraversando la piazza si trova la Scala Santa, un edificio che papa Sisto V fece innalzare per custodirvi la scala, che prima si trovava a pezzi nel vecchio palazzo papale del Laterano. Essa è formata da ventotto gradini di marmo bianco del pretorio di Pilato a Gerusalemme che Gesù salì e discese più volte durante la sua passione. Sant’Elena, madre di Costantino, li inviò a Roma insieme con molte altre cose santificate dal sangue di Gesù Cristo. Questa celebre scalinata è tenuta in grande venerazione e perciò si sale in ginocchio; e si ridiscende per una delle quattro scale laterali. Questi gradini si sono incavati per il grande afflusso di cristiani che li hanno saliti, per cui sono stati coperti con tavoloni di legno. Lo stesso Sisto V fece collocare nell’alto della scala la celebre cappella domestica dei papi, che è piena delle più insigni reliquie, e che perciò viene chiamata Sancta Sanctorum.

Città del Vaticano. La costruzione
Il colle Vaticano contiene quanto esiste di più eccellente nelle arti, e di memorabile nella religione; perciò ne daremo un ragguaglio un po’ più preciso. Fu chiamato Vaticano da Vagitanus, una divinità che pensavano sovrintendesse al vagito dei fanciulli. Infatti la prima sillaba Uà (va n.d.r.) di cui è composta la parola è anche il primo grido dei bambini. Il colle acquistò rinomanza quando Caligola vi costruì il circo che fu poi detto di Nerone. Caligola per passare dalla sinistra alla sponda destra del Tevere costruì il ponte Vaticano, detto anche Trionfale che ora però non esiste più. Il circo di Nerone incominciava dov’è oggi la chiesa di S. Marta e si estendeva fino alle scale dell’antica basilica Vaticana. In questo circo fu seppellito il corpo del Principe degli Apostoli […]

Lì vennero anche sotterrate le ossa di altri papi tra cui Lino, Cleto, Anacleto, Evaristo ed altri ancora. La Memoria di S. Pietro, ossia il tempietto costruito sulla sua tomba, durò fino ai tempi di Costantino che, per desiderio di san Silvestro, verso il 319 mise mano alla costruzione di una chiesa in onore dell’Apostolo. Essa fu eretta proprio intorno a quel tempietto, servendosi di materiale tolto da edifici pubblici. La costruzione fu chiamata Basilica Costantiniana, e a quei tempi era reputata fra le più celebri della cristianità. Nel mezzo di quella chiesa, fatta a forma di croce latina, vi era l’altare dedicato a san Pietro sotto il quale era sepolto, protetto da cancelli, il suo corpo; quel vano fin da allora si usava chiamare Confessione di san Pietro. Terminato il tempio e dotatolo di ricchi arredi papa Silvestro lo consacrò il 18 novembre del 324 […] I pontefici che vennero in seguito lo abbellirono e ampliarono. Per undici secoli fu l’oggetto della devozione e dell’ammirazione dei cristiani che si recavano a Roma.

Nel secolo XV cominciava ad andare in rovina, perciò Nicolò V pensò di rinnovarlo, ma ebbe solo il merito di iniziare i lavori, perché la morte gli fece sospendere ogni cosa. Giulio II riprese la costruzione alla quale cambiò nome, da Basilica Costantiniana a S. Pietro in Vaticano, e pose la prima pietra il 18 aprile 1506. Gli architetti furono Bramante, in seguito fra Giocondo Domenico e Raffaello Sanzio. Dopo costoro lavorarono i più celebri architetti, e i più sublimi ingegni del tempo.

La grande piazza
 […] Dinanzi alla basilica si apre una vasta piazza la cui lunghezza supera il mezzo chilometro. Essa è formata da 284 colonne e da 64 pilastri che, disposti in semicerchio da ambo i lati in quattro file, formano tre vie di cui la più ampia quella centrale può permettere il transito di due carrozze. Sopra al colonnato sono poste 96 statue di santi, in marmo, dell’altezza di circa 10 piedi. Al centro invece s’innalza l’obelisco egizio. Esso è formato da un sol pezzo, ed è il solo che sia restato intero. Misura 126 piedi di altezza compresa la croce e il piedistallo. Non ha geroglifici. Nuccoreo re d’Egitto l’aveva innalzato a Eliopoli, da dove venne prelevato e fatto trasportare a Roma da Caligola l’anno 3° del suo impero. Fu collocato nel circo costruito ai piedi del colle Vaticano, come dimostrano le iscrizioni che vi si leggono. Questo circo fu chiamato di Nerone perché da lui molto frequentato; qui quel crudele imperatore fece strage di cristiani, calunniandoli di essere autori dell’incendio di Roma che lui stesso aveva appiccato.

Nel 1818 sulla piazza venne costruita una meridiana. Per terra si disegnarono i dodici segni dello zodiaco. L’obelisco faceva da gnomone (asta), e con la sua ombra indicava le stazioni del sole. Tutto intorno furono scritti i nomi dei venti nella direzione in cui spira ciascuno di essi. Ai lati due fontane uguali gettano perennemente acqua da un gruppo di zampilli che s’innalzano anche fino a sessanta piedi. La regina di Scozia accolta con pompa in questo luogo guardò con meraviglia le due fontane pensando che fossero state fatte apposta per la sua accoglienza. No, disse un signore che le stava a fianco, questi zampilli sono perenni.

Visita a San Pietro
Camminando verso la facciata della basilica si arriva a una magnifica gradinata fiancheggiata da due statue una di san Pietro l’altra di san Paolo, fatte collocare dal regnante Pio IX. Salite le scale si è davanti alla facciata che ha questa iscrizione: In onore del Principe degli Apostoli Paolo V Pontefice Massimo l’anno 1612 7° del suo pontificato. Sopra al porticato si estende la grande Loggia delle benedizioni. La facciata è maestosa e imponente. Il porticato è tutto adorno di marmi, pitture in mosaico e altri eleganti lavori. In fondo al vestibolo a destra si può osservare la bellissima statua equestre di Costantino in atto di mirare la prodigiosa croce apparsagli in cielo prima della battaglia finale con Massenzio.

Dal portico si entra in basilica attraverso quattro porte, di cui l’ultima a destra non si apre che per l’anno santo. La porta maggiore è in bronzo, di grande altezza, e occorrono molte e forti braccia per aprirla. L’interno si presenta a cinque navate oltre la crociera che termina con la tribuna. La curiosità e la sorpresa ci portò nel mezzo della navata maggiore. Qui ci siamo fermati ad ammirare e riflettere senza dire parola. Ci parve di vedere la celeste Gerusalemme. La lunghezza della basilica è di palmi 837, la sua larghezza di 607. È il maggior tempio di tutta la cristianità. Dopo S. Pietro il più vasto è quello di S. Paolo a Londra. Se alla chiesa di S. Paolo aggiungiamo quella del nostro Oratorio si forma la precisa lunghezza di S. Pietro.

Dopo di essere stati per qualche tempo immobili abbiamo cercato il catino dell’acqua santa. Abbiamo scorto due putti, a prima vista molto piccoli, che reggevano una specie di conchiglia nel primo pilastro della basilica. Ci recò meraviglia che una chiesa tanto vasta avesse un’acquasantiera così piccola. Ma la meraviglia si cambiò in sorpresa quando vedemmo i putti farsi sempre più grandi man mano che ci avvicinavamo. La conchiglia divenne un vaso di circa sei piedi di circonferenza, e i putti ai lati ci facevano vedere le loro mani con le dita grandi come un nostro braccio. Ciò dimostra che le proporzioni di questo meraviglioso edificio sono così ben regolate da renderne meno sensibile l’ampiezza, la quale però si nota sempre meglio esaminando ciascun dettaglio. Intorno ai pilastri della navata maggiore si vedono scolpite in marmo le statue dei fondatori degli ordini religiosi.

Nell’ultimo pilone a destra è collocata la statua in bronzo di san Pietro tenuta in grande venerazione. Fu fatta fondere da san Leone Magno col bronzo di quella di Giove Capitolino. Essa ricorda la pace che quel Pontefice ottenne da Attila che infuriava contro l’Italia. Il piede destro che sporge fuori del piedistallo è consumato dalle labbra dei fedeli che non passano mai davanti senza baciarlo con rispetto. Mentre stavamo rimirando la statua, passò l’ambasciatore austriaco a Roma che s’inchinò dinanzi al principe degli Apostoli e gli baciò il piede.

Navate e cappelle
Passiamo ora a dire qualche cosa delle navate minori e delle cappelle che vi si trovano. In quella di destra si incontra per prima la cappella della Pietà. Oltre a magnifici mosaici e alle statue che la adornano, si ammira sopra l’altare il celebrato gruppo scolpito da Michelangelo Buonarroti in marmo bianco, quando non aveva che ventiquattro anni di età. È forse la più bella scultura del mondo. Il medesimo Buonarroti se ne compiacque, tanto che lo firmò sulla cintola del petto di Maria.

A sinistra della cappella della Pietà c’è quella interna dedicata al Crocifisso e a S. Nicola. Da qui si entra nella così detta Cappellina della Colonna Santa, dove si conserva, protetta da una cancellata in ferro, una delle colonne a vite che stavano anticamente davanti all’altare della Confessione di san Pietro. È questa la colonna a cui si appoggiò Gesù Cristo allorché predicò nel tempio di Salomone. Si ammira con meraviglia in questa colonna che la parte toccata dalle sacre spalle del Salvatore non è mai imbrattata di polvere, e perciò non occorre che sia spolverata come il resto.

Dopo la cappella della Pietà s’incontra il monumento sepolcrale di Leone XII, fatto erigere da Gregorio XVI. Il Pontefice è ritratto mentre benedice il popolo dalla Loggia sopra il portico; attorno si vedono le teste dei cardinali assistenti alla cerimonia. Di fronte a questo sepolcro è il cenotafio di Cristina Alessandra, regina di Svezia, morta a Roma il 19 aprile 1689. Costei, protestante, convintasi della poca consistenza della sua religione, si fece istruire nel cattolicesimo e fece la solenne abiura a Ispruch il 3 novembre 1655. Vari bassorilievi che adornano il sepolcro rappresentano l’avvenimento.

Segue la cappella di san Sebastiano anch’essa ricca di pitture e marmi. Uscendo a destra si trova il deposito sepolcrale di Innocenzo XII dei Pignatelli di Napoli. Di fronte c’è il sepolcro della famosa contessa Matilde, insigne benefattrice della Chiesa, e sostenitrice della autorità pontificia. Urbano VIII fece trasferire qui le sue ceneri togliendole dal monastero di san Benedetto a Mantova. Essa fu la prima delle illustri donne che meritarono un sepolcro nella basilica Vaticana. La contessa è rappresentata in piedi; il sepolcro è ornato da un bassorilievo che raffigura l’assoluzione impartita da Gregorio VII ad Enrico IV imperatore di Germania, su istanza di Matilde e di altri personaggi, il 25 gennaio 1077 nella fortezza di Canossa.

Si giunge così alla cappella del Sacramento, ricca di marmi e mosaici. Accanto all’altare una scala porta al palazzo pontificio. Questo altare è dedicato a san Maurizio e compagni martiri, patroni principali del Piemonte. Le due colonne a vite di un sol pezzo che ornano l’altare sono due delle dodici che si credono portate a Roma dall’antico tempio di Salomone. Sul pavimento davanti all’altare si ammira il sepolcro in bronzo di Sisto IV Della Rovere. Esso fu eseguito per ordine di Giulio II suo nipote, e rappresenta le virtù e la scienza proprie del defunto. In esso sono contenute le ceneri dei due papi.

All’uscire dalla cappella ecco a destra il sepolcro di Gregorio XIII Buoncompagni. Lo ornano due statue: la Religione e la Fortezza, al centro un grande bassorilievo rappresenta la riforma del calendario, detta perciò Gregoriana. Qui sono ritratti una quantità di personaggi illustri che ebbero parte in quell’opera, tutti in atto di venerare il Pontefice. Di fronte, entro un’urna di stucco, riposano le ossa di Gregorio XIV della famiglia Sfrondato. Qui termina la navata minore e si entra nella croce greca secondo il disegno del Buonarroti.

Uscendo dalla navata, a destra si trova la Cappella Gregoriana. Sopra l’altare è venerata un’antica immagine della Madonna dei tempi di Pasquale II. Sotto riposa il corpo di san Gregorio Nazianzeno, fatto trasferire per ordine di Gregorio XIII dalla chiesa delle monache di campo Marzio. Proseguendo il cammino si giunge al monumento sepolcrale di Benedetto XIV Lambertini, fatto erigere dai cardinali da lui creati. Ai due lati del sepolcro s’innalzano due magnifiche statue che rappresentano il Disinteresse e la Sapienza, le due virtù maggiormente luminose di questo papa. La statua del Pontefice, in piedi, benedice il popolo con gesto maestoso. Questo lavoro è tanto ben eseguito che il semplice rimirare il Papa ci fa riconoscere in lui la grandezza e la elevatezza del suo animo. Di fronte si riconosce l’altare di san Basilio Magno con sopra un prezioso quadro in mosaico dell’imperatore Valente svenuto alla presenza del Santo, mentre lo guardava celebrare la messa.

Si giunge quindi alla tribuna. Il primo altare a destra è dedicato a san Venceslao martire, re di Boemia; quello di mezzo è consacrato ai santi Processo e Martiniano, guardie del carcere Mamertino, convertite alla fede da san Pietro, quando l’Apostolo vi era rinchiuso. Da questi santi prende nome il complesso; i loro corpi riposano sotto l’altare. Tre preziosi bassorilievi rappresentano san Pietro in prigione liberato dall’Angelo (quello di mezzo), san Paolo che predica nell’Areopago (quello a destra), il terzo i santi Paolo e Barnaba, presi per divinità dagli abitanti di Listri.
S’incontra poi il sepolcro di Clemente XIII Rezzonico, scultura di Antonio Canova. È un capolavoro. Il quadro dell’altare che rimane in faccia al monumento, raffigura san Pietro in pericolo di annegare, sostenuto dal Redentore. Più avanti ecco l’altare di san Michele, poi quello di santa Petronilla, figlia di san Pietro. Questa santa è rappresentata in un mosaico che narra il dissotterramento del cadavere di lei per mostrarlo a Flacco, nobile Romano, che l’aveva chiesta in sposa. Nella parte superiore è raffigurata l’anima di lei che con preghiere ottenne di morire vergine ed è accolta da Gesù Cristo. Più avanti si vede il sarcofago di Clemente X, Altieri: il bassorilievo rappresenta l’apertura della porta santa per il Giubileo del 1675. L’altare è sormontato dal quadro di san Pietro che alle preghiere di una turba di mendicanti risuscita la vedova Tabita.

Attraverso due gradini di porfido che facevano parte dell’altare maggiore dell’antica basilica si ascende all’Altare della Cattedra. Un sorprendente gruppo di quattro statue di metallo reggono la sede pontificale. Le due davanti rappresentano due padri latini Ambrogio e Agostino; le due di dietro i padri Greci, Atanasio e Giovanni Crisostomo. Il peso di questi gruppi ammonta a 219.161 libbre di metallo. La sedia in bronzo riveste, come preziosa reliquia, quella di legno intarsiata con vari bassorilievi d’avorio. Questa sedia è quella del senatore Pudente che servì l’Apostolo Pietro e molti altri papi dopo di lui.

Sopra l’altare della Cattedra come sfondo è effigiato su tela lo Spirito Santo tra vetri colorati e raggianti di modo che, a chi lo guarda, sembra di vedere una stella d’oro risplendente. Sotto invece, a sinistra di chi guarda, c’è il magnifico sepolcro di Paolo III Farnese, monumento molto pregiato per le sue sculture. La statua del Pontefice assiso sull’urna è di bronzo, le altre due statue, di marmo, rappresentano la Prudenza e la Giustizia. Di fronte è posto il sepolcro di papa Urbano VIII la cui statua è di bronzo. La Giustizia e la Carità sono ai suoi lati, scolpite in marmo bianco. Sull’urna si scorge l’immagine della morte in atto di scrivere in un libro il nome del Pontefice. Qui interrompemmo la visita: eravamo stanchi, la visita era durata dalle undici del mattino alle cinque pomeridiane.

Roma. S. Maria della Vittoria
Dal Quirinale guardando verso mezzogiorno si vede la via di Porta Pia, così chiamata dal pontefice Pio IV che per abbellirla eseguì non pochi lavori. Lungo questa strada, presso la fontana dell’Acqua Felice, s’innalza a sinistra la chiesa di S. Maria della Vittoria, edificata da Paolo V nel 1605, e chiamata così per una immagine miracolosa della Madonna trasportatavi dal padre Domenico dei Carmelitani Scalzi. A questa immagine, o meglio alla protezione di Maria, Massimiliano duca di Baviera dovette la grande vittoria riportata in pochi giorni contro i protestanti, che con un esercito numerosissimo avevano messo sottosopra il regno d’Austria. La prodigiosa immagine si conserva sull’altare maggiore. Ai cornicioni sono appese le bandiere tolte ai nemici: glorioso monumento alla protezione di Maria.

In memoria della liberazione di Vienna fu istituita la festa del Nome di Maria che si celebra da tutta la cristianità la domenica tra l’ottava della nascita di Maria. La cosa accadde il 12 settembre 1683 sotto il pontificato di Innocenzo XI. In questa stessa chiesa si celebra una speciale solennità nella seconda domenica di novembre in ricordo della famosa vittoria riportata dai cristiani contro i Turchi a Lepanto il 7 ottobre 1571, sotto Pio V. Anche alcune bandiere tolte ai Turchi sono appese come trofei al cornicione di questa chiesa.
Davanti a S. Maria della Vittoria si trova la fontana di Termini, chiamata fontana del Mosè, perché in una nicchia vi è scolpita la statua di Mosè che con la verga in mano fa scaturire l’acqua dalla pietra. È anche chiamata Acqua Felice da fra’ Felice, che è il nome di Sisto V quando era in convento.

L’isola Tiberina
Nel pomeriggio abbiamo deciso di andare col conte De Maistre a visitare la grande opera di San Michele al di là del Tevere. Dovemmo perciò attraversare il fiume all’altezza di un’isoletta detta Tìberina o anche Lycaonia, da un tempio dedicato a Giove Lycaonio. Quest’isola ebbe origine così. Quando fu espulso Tarquinio da Roma il Tevere era quasi privo d’acqua, e lasciava scoperti alcuni banchi di sabbia. I Romani, mossi da odio contro questo re, andarono nei suoi campi, tagliarono le biade e il farro che era vicino a maturare e gettarono tutto nel Tevere. La paglia andò ad arrestarsi sopra quella sabbia, e depositandosi la fanghiglia di arena che l’acqua faceva scorrere, giunse a consolidarsi a tal punto da potersi coltivare e abitare. In quest’isola i pagani innalzarono un tempio in onore di Esculapio; ma nel 973 vi fu trasferito il corpo di san Bartolomeo che riposa nell’urna sotto l’altare maggiore.

Passato il Tevere e continuando verso il S. Michele s’incontra a destra la chiesa di S. Cecilia, edificata nel luogo dov’era la sua casa. Urbano I, verso la metà del terzo secolo, la consacrò, e san Gregorio Magno la arricchì di molti oggetti preziosi. Entrando a destra c’è la cappella ove era il bagno di santa Cecilia, in cui si dice abbia ricevuto il colpo mortale. L’altare maggiore protetto da una cancellata di ferro, custodisce il corpo della santa. Sopra l’urna è scolpito un commovente lavoro in marmo che la rappresenta distesa e vestita come fu rinvenuta nel sepolcro.

Giunti all’ospizio S. Michele abbiamo avuto udienza dal Cardinale Tosti che ci raccontò vari episodi a lui accaduti al tempo della repubblica. Anch’egli fu costretto a vivere per un po’ lontano dall’ospizio per non rimanere vittima di qualche attentato. Fra le varie cose derubate in quella triste circostanza a questo pio porporato vi furono tre tabacchiere assai preziose specialmente per l’antichità e la provenienza. Portate ai componenti del triumvirato, Mazzini pensò di trattenerne una per sé e regalare le altre due a suoi compagni. Ma essi non osarono prenderle. Mazzini aggiustò tutto, e graziosamente se le pose tutte tre in tasca!

Il Campidoglio
Lungo il tragitto di ritorno, a metà strada si alza il colle più alto di Roma, il Campidoglio così chiamato da caput Toli, capo di Tolo, che fu ritrovato mentre Tarquinio il Superbo ne faceva appianare la sommità per erigerlo in fortezza. Noi salimmo una lunga gradinata alla cui estremità si alzano due statue colossali rappresentanti Castore e Polluce. Il piano che forma la piazza si chiamava anticamente inter duos lucos, perché restava tra i boschetti che ricoprivano le due cime. Qui Romolo aveva creato un riparo per i popoli vicini che avessero voluto rifugiarvisi. Il Campidoglio d’oggi non ha più imponenza guerresca, ma è una piazza maestosa contornata da palazzi che ospitano musei, e dove si trattano gli affari municipali. In una parte di questa piazza esisteva il tempio di Giove Feretrio, così detto dalle armi dei vinti che i vincitori andavano ad appendere all’altare di quel tempio.

In mezzo alla piazza s’innalza la famosa statua equestre di Marco Aurelio in atto di pacificatore. Essa è la più bella fra le più antiche statue di bronzo che si siano conservate intatte. Una parte dei grandi edifici che circondano la piazza costituiscono il palazzo senatorio, fondato da Bonifacio IX nel 1390 sopra il medesimo terreno ove era l’antico senato dei Romani. A lato si trova la fonte dell’Acqua Felice, cui fanno ornamento due statue giacenti del Nilo e del Tevere. Da qui, attraverso una piccola scala, si arriva alla torre del Campidoglio, eretta in forma di campanile sul medesimo luogo ove anticamente montavano gli osservatori per ammirare Roma e controllare i nemici che tentassero di avvicinarsi alla città […]
Nella parte più elevata verso oriente vi era il tempio di Giove Capitolino che veniva chiamato di Giove Ottimo, Massimo, ed era stato eretto da Tarquinio il Superbo sopra le fondamenta preparate da Tarquinio Prisco che ne aveva fatto voto durante la guerra contro i Sabini. Proprio mentre si faceva lo scavo fu rinvenuto il caput Toli.

S. Maria in Aracoeli
Dove era il tempio di Giove Capitolino, ora c’è la maestosa chiesa di Santa Maria in Aracoeli, edificata nel VI secolo dell’era volgare. Per qualche tempo si chiamò Santa Maria in Campidoglio, dal luogo dove sorgeva. Fu poi detta Aracoeli dal fatto seguente. Avendo un fulmine colpito il Campidoglio, Ottaviano Augusto per timore di qualche sventura mandò ad interrogare l’oracolo di Delfi […] Per questo fatto, e per alcuni detti delle Sibille che riguardavano la nascita del Salvatore, Augusto fece innalzare un’ara intitolata: Ara primogeniti Dei, altare del primogenito di Dio. Donde ne derivò il nome di Santa Maria in Aracoeli, dopo che sul posto fu innalzata una chiesa in onore della Madre di Dio. L’interno è a tre navate divise da 22 colonne di marmo già appartenenti al tempio di Giove Feretrio. L’altare maggiore è degno di speciale osservazione, perché sopra di esso si venera un’immagine di Maria, che si pensa sia di san Luca. Questa ai tempi di san Gregorio Magno venne portata processionalmente per Roma per ottenere la liberazione dalla peste. Il fatto è rappresentato in un dipinto sul pilastro a lato dell’altare. Nel mezzo della crociera è collocata la cappella di sant’Elena, dove venne innalzata l’Ara Primogeniti. La mensa dell’altare è una grande urna di porfido, entro cui sono stati riposti i corpi di sant’Elena madre di Costantino, e dei santi Abbondio e Abbondanzio.

In una stanza vicina alla sacrestia si conserva un’effigie miracolosa di Gesù Bambino. Le fasce che lo rivestono sono arricchite di pietre preziose. Essa viene esposta in venerazione durante le feste di Natale, in un bel presepio che si rappresenta in chiesa dentro una cappella. Insieme col Bambino si pongono anche le figure di Augusto e della Sibilla a ricordo di una tradizione che afferma che la Sibilla Cumana predicesse la nascita del Salvatore e perciò Augusto vi eresse un’ara.

Uscendo da Aracoeli e andando verso la parte occidentale del Campidoglio s’incontra la rupe Tarpea che occupava la parte verso il Tevere, e si chiamava così dalla Vergine Tarpea, che vi fu uccisa a tradimento nella guerra dei Sabini. Dall’alto di questa rupe venivano precipitati i traditori della patria. Qui furono martirizzati molti cristiani che, in odio alla fede, furono gettati in basso. Là vicino si trovava la Curia, e la capanna di Romolo, dove, si dice, abbia atteso il responso degli avvoltoi […]

Scendendo verso il basso ecco il tempio della Concordia, fatto costruire da Camillo l’anno 387 di Roma. […] Presso questo tempio nella parte sinistra di chi scende era situato quello di Giove Tonante di cui restano tre colonne di marmo. Fu eretto da Augusto sul clivo capitolino e dedicato a Giove in ringraziamento di essere scampato al fulmine che uccise il servo che lo precedeva.

Il Carcere Mamertino
Il mattino del 2 marzo insieme con la famiglia De Maistre siamo andati a visitare il carcere Mamertino, che è ai piedi del Campidoglio nella parte occidentale. Questo carcere è chiamato così da Mamerto, o Anco Marzio, 4° re di Roma che lo fece costruire per spargere terrore nella plebe, e così impedire i furti e gli assassini. Servio Tullio 6° Re di Roma aggiunse sotto a questo un altro carcere che fu chiamato Tulliano. Esso ha due sotterranei, che nella volta presentano un’apertura capace di far passare un uomo. Attraverso questa si calavano con una corda i condannati […]

Qui sgorga una sorgente d’acqua che si dice sia stata fatta miracolosamente scaturire da san Pietro quando con san Paolo vi era tenuto in prigione. Il principe degli Apostoli si servì di quest’acqua per battezzare i santi Processo e Martiniano, custodi del carcere, assieme ad altri 47 compagni morti tutti martiri. Quest’acqua presenta aspetti miracolosi. Il suo gusto è naturale. Non cresce mai, né mai diminuisce di volume qualsiasi quantità se ne attinga. Due signori inglesi quasi per burlare i cattolici vollero provare a svuotare la piccola fossa dell’acqua che assomiglia a un vaso di piccole dimensioni. Si stancarono essi e i loro amici, ma l’acqua rimase sempre allo stesso livello. Si raccontano molte guarigioni miracolose ottenute dal suo uso. Accanto alla fonte è posta una colonna di pietra a cui furono legati i due principi degli Apostoli. A fianco della colonna è ubicato un piccolo e basso altare ove con grande consolazione ho celebrato la messa, cui hanno partecipato la famiglia De Maistre e altre pie persone. Sopra l’altare un bassorilievo rappresenta Paolo che predica e Pietro che battezza le guardie […]

In un angolo del 1° piano del carcere si nota sul muro l’impronta di un volto umano. Si dice che san Pietro abbia ricevuto un forte schiaffo da uno sgherro, sicché battendo con la faccia nel muro vi abbia lasciato impresso il suo volto che in modo miracoloso si è conservato. Al disopra di questa figura è scolpita questa antica iscrizione: “In questo sasso Pietro batté la testa spinto da sgherro ed il prodigio resta”. Sopra questo carcere venne edificata una chiesa, e sopra questa un’altra ancora dedicata a san Giuseppe. Ha sede qui la confraternita dei falegnami. I membri si radunano nei giorni festivi, assistono alle funzioni sacre e provvedono a quanto è necessario per la manutenzione della chiesa e a quanto occorre per la pulizia del carcere. Anticamente per arrivare all’ingresso della prigione si scendeva attraverso una scala in fondo alla quale era l’apertura da cui venivano precipitati i condannati. Quelle scale furono chiamate Gemonie, dai gemiti dei condannati […]

Città del Vaticano. Devozioni giubilari
Il 3 marzo era destinato alla visita a san Pietro. Partiti alle sei e mezzo da casa con un fresco che allietava la vita e rendeva celeri i nostri passi, prendemmo la direzione del colle Vaticano. Giunti al Ponte Elio, o Ponte Sant’Angelo, sopra cui si passa traversando il Tevere, recitammo il credo. I Pontefici concedono cinquanta giorni d’indulgenza a quelli che recitano il simbolo degli Apostoli mentre passano sopra questo ponte. Viene chiamato Elio da Elio Adriano che lo ha costruito. Ma si chiama anche ponte Sant’Angelo da Castel Sant’Angelo, che è il primo edificio che s’incontra sulla sponda opposta.

Diremo qualche cosa di questo castello. L’imperatore Adriano volle erigere un grande sepolcro sulla riva destra del Tevere. Per la sua larghezza, lunghezza e altezza lo chiamarono Mole Adriana. Allorché Teodosio imperatore fece prelevare le colonne dal mausoleo di Adriano per dotarne la basilica di san Paolo, questa costruzione restò priva della metà superiore e senza colonne. L’anno 537 le truppe di Belisario diedero l’assalto ai Goti per allontanarli da Roma, e allora quasi tutti gli avanzi di quel mausoleo vennero ridotti in pezzi. Nel secolo X fu chiamato Castro e Torre di Crescenzio da un certo Cescenzo Nomentano che se ne impadronì e lo fortificò. Poco dopo la storia gli diede il nome di Castel Sant’Angelo, derivandolo forse da una chiesa dedicata all’angelo Michele […] Ma l’opinione più probabile resta quella che narra di una processione di san Gregorio Magno per ottenere dalla Vergine la liberazione dalla peste: in quell’occasione apparve sull’alta cima della Mole un angelo che rimetteva nel fodero la spada, segno che il flagello stava per cessare. Ora Castel Sant’Angelo è ridotto ad una fortezza ed è l’unica di Roma.

Continuando il nostro cammino siamo arrivati nella grande piazza S. Pietro. Passando davanti all’obelisco, ci siamo tolti il cappello, perché i papi hanno concesso cinquanta giorni d’indulgenza a chi fa riverenza o si scopre il capo passando vicino a quell’obelisco, sopra cui è stata applicata una croce che contiene un pezzo del Santo Legno della croce di Gesù.
Eccoci dunque di nuovo nella Basilica Vaticana. Ne avevamo già visitata la metà più la tribuna, che forma come il coro dell’altare papale, ubicata in mezzo alla crociera, dirimpetto alla cattedra di Pietro. Detto coro fu fatto erigere da Clemente VIII e da lui consacrato l’anno 1594: racchiude l’altare già edificato da san Silvestro. Essendo l’altare papale, vi celebra solo il Papa, e quando qualche altro vuole usarlo occorre un “Breve” apostolico. Ai quattro lati s’innalzano quattro grandi colonne a vite che sorreggono un baldacchino ornato di fregi tutto di bronzo. L’altezza di questo baldacchino dal piano del pavimento eguaglia quella dei più alti palazzi di Torino.

La tomba di Pietro: curiosità di un santo
Davanti all’altare papale attraverso una doppia scala di marmo si discende nel piano della Confessione. All’estremità delle scale sono poste due colonne di alabastro d’Orte, materiale assai raro, trasparente come diamante. Centododici lampade ardono continuamente intorno al venerando luogo. Nel fondo si apre una nicchia formata sull’antico oratorio eretto da san Silvestro, dove sant’Anacleto “eresse una memoria a san Pietro”. Qui riposa il corpo del Principe degli Apostoli. Nelle pareti laterali si aprono due porte munite di un cancello di ferro da dove si passa alle sacre grotte. Proprio di fronte alla nicchia il 28 Novembre 1822 venne collocata la statua in marmo di Pio VI che, in ginocchio, sta in fervorosa preghiera. È questa una delle più belle opere di Antonio Canova. Pio VI era solito di giorno e talvolta anche di notte recarsi presso la tomba di san Pietro per pregare. In vita mostrò il vivo desiderio di essere sepolto lì e alla sua morte si volle esaudirlo. Ma fatto uno scavo di poca profondità fu scoperta una tomba sopra cui era scritto: Linus episcopus. Immediatamente fu rimessa ogni cosa a posto, e il Pontefice fu sepolto in altro angolo della chiesa. In quello prescelto invece del corpo fu collocata la statua di cui abbiamo parlato. Noi abbiamo visto e toccato con mano quanto c’è qui di prezioso, ma non abbiamo potuto vedere il corpo del primo papa, perché da secoli il sepolcro non è stato più aperto per timore che qualcuno tenti di spezzarne qualche reliquia.

Sopra questa tomba è stato innalzato un ricco altare: qui ho avuto la consolazione di celebrare la santa messa. Questo altare con una cappelletta annessa riceve luce da alcuni oblò ricoperti di grate di metallo. Durante la costruzione della basilica, avvenne un fatto prodigioso, riferito da un testimone oculare. Prima che il tetto fosse terminato, caddero piogge così impetuose che le acque inondarono il pavimento della basilica fino a un palmo di altezza. Malgrado tanta abbondanza, l’acqua non osò accostarsi all’altare della Confessione, e neppure discese nell’oratorio inferiore attraverso i tre oblò suddetti, perché, giunta nelle vicinanze, si fermò rimanendo sospesa di modo che neppure una goccia giunse a bagnare quel santuario. Dopo aver osservato ogni oggetto, guardato ogni angolo, le mura, le volte, il pavimento, chiedemmo se non ci fosse più nulla da vedere.
Più nulla, ci fu risposto.
– Ma la tomba del santo apostolo, dov’è?
– Qui sotto. È situata nello stesso luogo che occupava quando era in piedi l’antica basilica
[…]
– Ma noi vorremmo vedere fin là.
– Non è possibile […]
– Ma il papa ha detto che avremmo potuto vedere tutto. Se tornando da lui ci dicesse se abbiamo visto tutto, mi rincrescerebbe di non poter rispondere affermativamente.
Il monsignore [che ci accompagnava] mandò a prendere alcune chiavi e aprì una specie di armadio. Qui si apriva una cavità che scendeva sotterra. Era tutto buio.
È soddisfatto? Mi disse il monsignore.
– Non ancora, vorrei vedere.
– E come vuol fare?
Mandi a prendere una canna e un cerino. Portarono canna e cerino che applicato sulla punta di quella venne calato giù, ma si spense subito nell’aria senza ossigeno. La canna non giungeva fino in fondo. Allora fu fatta venire un’altra canna che aveva all’estremità un uncino di ferro. Così si giunse a toccare il coperchio della tomba di san Pietro. Era a sette/otto metri di profondità. Battendo leggermente, il suono che veniva su indicava che l’uncino stava urtando ora nel ferro ora nel marmo. Ciò confermava quello che avevano scritto gli storici antichi.

Ci vorrebbe un volume per descrivere le cose viste. Quanto esisteva nella basilica costantiniana si conserva in lapidi laterali, o sui pavimenti o nelle volte dei sotterranei. Metto in risalto solo una cosa, l’immagine di Santa Maria della Bocciata, molto antica, posta in un altare sotterraneo. Il nome deriva dal fatto seguente. Un giovane per disprezzo o, forse, inavvertitamente con una boccia colpì in un occhio la figura di Maria. Avvenne un gran prodigio. Grondò sangue dalla fronte e dall’occhio che ancora rosso si vede sopra le gote dell’immagine. Due gocce schizzarono lateralmente sopra il sasso che si conserva gelosamente riparato dietro due cancelli di ferro.

Altari, cappelle, sepolcri
Sopra l’altare papale e la tomba di san Pietro si alza la sterminata cupola che fa restare incantato chi la osserva. Quattro grandi piloni la sostengono: ciascuno di essi ha cento cinquanta passi, circa venticinque trabucchi, di circuito. Tutto intorno a quell’alta cupola ci sono eleganti lavori in mosaico eseguiti dai più celebri autori. Sui pilastri sono incavate quattro nicchie dette Logge delle Reliquie, che sono il Volto Santo della Veronica, la Santa Croce, la Sacra Lancia, e Sant’Andrea. Tra esse è celebre quella del Sacro Volto che si crede essere quel pannolino di cui si servì il Salvatore per asciugarsi la faccia grondante di sangue. Egli vi lasciò impressa la sua effigie che regalò a Veronica che piangente l’accompagnava al Calvario. Persone degne di fede raccontano che questo Sacro Volto l’anno 1849 trasudò sangue più volte, anzi cambiò colore tanto da variarne i lineamenti. Queste cose furono scritte, e i canonici di S. Pietro ne danno testimonianza.

Partendo dall’altare papale e proseguendo verso la parte meridionale si incontra il sepolcro di Alessandro VIII degli Ottobuoni. Fu fatto erigere dal nipote cardinale Pietro Ottobuoni. La statua del Papa assiso in trono è di metallo. Due statue in marmo sono ai due lati, e rappresentano la Religione e la Prudenza. L’urna è coperta dal bassorilievo della canonizzazione di Lorenzo Giustiniani, Giovanni da Capistrano, Giovanni da san Facondo, Giovanni di Dio e Pasquale Bajlon, fatta da Alessandro VIII nel 1690. A fianco si erge l’altare di san Leone Magno su cui si ammira il sorprendente bassorilievo del Pontefice che va incontro al feroce Attila. In alto sono effigiati Pietro e Paolo, accanto al Papa Attila, spaventato dalla comparsa dei due e in atto di ossequiare il Pontefice. In un’urna sotto l’altare riposa il corpo del santo papa e dottore della Chiesa. Davanti è posta la tomba di Leone XII, morto nel 1829, il quale aveva tanta venerazione per questo suo glorioso antecessore, da voler essere sepolto accanto a lui. […]

L’altare che segue è dedicato alla Vergine della Colonna, così detta perché vi si venera l’immagine di Maria dipinta sopra una colonna dell’antica basilica costantiniana. Vi fu collocata nel 1607. L’altare custodisce i corpi di Leone II, III e IV. Continuando il giro sulla linea meridionale incontriamo a destra il sepolcro di Alessandro VII Ghigi con quattro statue: Giustizia, Prudenza, Carità e Verità. Siccome questo pontefice aveva sempre presente il pensiero della morte, lo scultore ha steso una coltre in rilievo, sotto a cui la figura della morte mostra una clessidra, cioè un orologio a polvere, che sta per terminare la sua carica. Il Papa sta pregando a mani giunte in ginocchio. L’altare sulla sinistra è dedicato agli apostoli Pietro e Paolo. Vi è rappresentata la caduta di Simon Mago. Di fronte è collocato l’altare dei santi Simone e Giuda che qui riposano. L’altare a destra invece è dedicato a san Tommaso e custodisce il corpo di Bonifacio IV, mentre quello a sinistra conserva le spoglie di Leone IX. Di fronte alla porta della sacrestia l’altare dei santi Pietro e Andrea rappresenta in prezioso mosaico la morte di Anania e Saffira.

Si giunge così alla cappella Clementina, il cui altare, dedicato a san Gregorio Magno, è sormontato da un bel mosaico del santo in atto di convincere gli increduli. Sotto l’altare se ne venera il corpo. Sopra la porta che conduce all’organo è posto il monumento sepolcrale di Pio VII. Il Pontefice, seduto sopra una ricca sedia e vestito degli abiti pontificali, è in atto di benedire. Le statue poste ai lati rappresentano la Sapienza e la Fortezza. Prima di arrivare alla navata laterale si incontra l’altare della Trasfigurazione il cui mosaico presenta la trasfigurazione del Salvatore sul monte Tabor.

La navata minore sinistra
Entrati nella navata minore si incontrano ai due lati due sepolcri, a destra quello di Leone XI dei Medici. Un bassorilievo descrive il Pontefice che assolve Enrico IV re di Francia […] Più in basso vi sono rose scolpite col motto: Sic floruit, per indicare la caducità della vita e simboleggiare la brevità del pontificato di Leone XI, che fu di soli 21 giorni.
Il sarcofago di sinistra è di Innocenzo XI Odescalchi. Il bassorilievo sovrapposto ritrae la liberazione di Vienna dai Turchi, avvenuta sotto il suo pontificato. Inoltrandosi lungo la navata, si giunge alla cappella del coro, arricchita di mosaici e dipinti. Sotto l’altare riposa il corpo di san Giovanni Crisostomo. Questa cappella ha un sotterraneo ove si conservano le ceneri di Clemente XI. Viene chiamata Cappella Sistina da Sisto IV che ne aveva eretta un’altra nel luogo medesimo dell’antica basilica. A destra si accede alla cantoria del coro, e alla Cappella Giulia, così detta da Giulio II che ne fu l’istitutore. Sopra questa porta esiste un’urna di stucco che racchiude le ceneri di Gregorio XVI, morto nel 1846. Quest’urna viene riservata per accogliere il cadavere dell’ultimo pontefice sino a che gli venga eretta una sepoltura.

Il sepolcro d’Innocenzo VIII della famiglia Cibo è di fronte. Due sono le figure di quel Papa: una seduta col ferro della lancia in mano, per alludere a quella con cui venne trafitto Gesù, mandatagli in dono da Bajasetto II, imperatore dei Turchi; l’altra distesa, sotto la prima […] Prospiciente alla porticina che immette alla scala della cupola c’è il cenotafio di Giacomo III, re d’Inghilterra, della famiglia Stuart, morto a Roma il 1° di gennaio 1766, e dei due suoi figli Carlo III ed Enrico IX, cardinale, duca di York. I tre busti in bassorilievo, sono di Antonio Canova.
L’ultima cappella è quella del Battistero. La conca battesimale è di porfido e formava il coperchio dell’urna di Ottone II imperatore che fu qui trasportata quando le sue ceneri vennero poste nelle grotte Vaticane […]

Roma. S. Andrea al Quirinale
Il permesso di visita terminava a mezzogiorno e mezzo, sicché il signor Carlo, che ci guidava e noi pure guidati da buon appetito, abbiamo rimandato ad altra volta la salita sulla cupola e la visita al palazzo Vaticano. Dopo il pranzo, e qualche ora di riposo abbiamo dato un’occhiata al Quirinale e alle cose più importanti vicine alla nostra dimora. Il Quirinale è uno dei sette colli di Roma antica, così chiamato dai Quiriti che vennero qui ad abitare, e da un tempio dedicato a Romolo, venerato sotto il nome di Quirino. Alla nostra sinistra procedendo verso piazza Monte Cavallo, s’incontra la chiesa di Sant’Andrea, dov’è oggi il noviziato dei Gesuiti. Essa custodisce, in una cappella dedicata a san Stanislao Kostka, dentro un’urna di lapislazzuli ornata di marmi preziosi, il corpo del santo. Accanto a questa chiesa c’è il monastero delle Domenicane. Si vuole che queste due costruzioni siano sorte sulle rovine del tempio di Quirino. A destra della via s’innalza il maestoso palazzo del Quirinale, iniziato da Paolo III circa 300 anni or sono, e terminato dai suoi successori. Lo ornano architetture, sculture, pitture e mosaici di gran pregio. Il Papa vi abita per una parte dell’anno. Il palazzo ha uno spazioso giardino di un miglio circa di perimetro. Fra le altre meraviglie vi si ammira un organo che suona alimentato dalla forza dell’acqua che qui scorre.

Davanti al Quirinale si apre la piazza di Monte Cavallo, così chiamata per via di due cavalli colossali in bronzo che rappresentano Castore e Polluce. Pio VI fece innalzare un obelisco in mezzo a questa piazza. Esso è lavoro eseguito per ordine di Smarre ed Efre, principi dell’Egitto, e trasportato a Roma dall’imperatore Claudio. Non ha geroglifici. A sud domina il magnifico palazzo Rospigliosi, innalzato dove anticamente erano le terme di Costantino. Gli amanti delle belle arti possono qui visitare molti capolavori di pittura e scultura.

Santa Croce in Gerusalemme
Il 4 marzo era dedicato alla basilica di S. Croce in Gerusalemme. Il tempo era nuvoloso, e fatta appena un po’ di strada fummo sorpresi dalla pioggia. Non essendo provvisti di ombrella giungemmo bagnati come due sorci; ma la consolazione provata nella visita ci compensò sia dell’acqua che del disagio patito. È questa una delle sette basiliche che si visitano per guadagnare le indulgenze. Fondata da Costantino il Grande, dove sorgeva il palazzo detto Sassorio, fu chiamata Basilica Sassoriana e venne eretta in memoria del ritrovamento della santa Croce fatto da sant’Elena, madre dell’imperatore, a Gerusalemme. Quella principessa vi fece trasportare molta terra del Calvario, prelevata dal luogo dove fu rinvenuta la Croce di Cristo. L’edificio prese il nome Santa Croce dalla parte considerevole del santo Legno che vi si conserva, e fu aggiunto in Gerusalemme perché questa santa reliquia, assieme a molte altre, fu qui trasportata da quella città. La chiesa venne consacrata da san Silvestro papa. Sotto l’altare maggiore riposano i corpi di san Cesario e sant’Anastasio martiri […]

Di fronte all’altare vi è la cappella Gregoriana, privilegiata perché si può lucrare l’indulgenza plenaria applicabile alle anime del purgatorio, sia per quelli che celebrano la messa, che per quelli che l’ascoltano. A questo altare con gran consolazione ho celebrato anch’io. Accanto alla chiesa sorge il convento dei Cistercensi. Il padre Abbate è un certo Marchini, piemontese, il quale ci usò molta cortesia. Fra le altre cose ci ha fatto visitare la biblioteca, ricca di pergamene antiche e di altre opere […]

Un giorno di pioggia
Il 5 marzo fu un giorno piovoso, perciò l’abbiamo impiegato quasi interamente a scrivere. C’è questo di singolare a Roma, che piove e c’è sole contemporaneamente, sicché in certe epoche dell’anno bisogna essere continuamente muniti di ombrello per difendersi o dal sole o dalla pioggia. Alle dieci di questo giorno passava a miglior vita il padre Lolli, rettore del noviziato dei Gesuiti, nella chiesa di Sant’Andrea a Monte Cavallo, un piemontese che dimorò per lungo tempo a Torino ove si rese celebre per la predicazione e la sollecitudine nell’apostolato del confessionale. La regina di Sardegna Maria Teresa lo aveva scelto come suo confessore […]

In questo giorno siamo venuti a sapere che le malattie a Roma si erano moltiplicate, e che la mortalità attuale è quattro volte superiore alla media. Nei soli mesi di gennaio e febbraio morirono circa 6600 persone; un numero assai grande, tenuto conto della popolazione che ammonta a circa 130 mila abitanti. Verso sera sono uscito per farmi radere la barba. Andai in una bottega e fui servito abbastanza bene; ma feci il proposito di non andarci mai più, perché tanti furono gli urti e gli scrolloni che mi diede colle sue manacce il barbiere che mi avrebbe spostato denti e mandibole, se non avessero avuto radici ben salde.

L’Ospizo s. Michele
Secondo l’invito fattoci dal cardinale Tosti, il 6 marzo siamo andati colla famiglia De Maistre a visitare l’Ospizio S. Michele. Oltre a quanto dissi la volta scorsa, posso aggiungere quanto segue. Il primo tratto di cortesia usatoci fu una sontuosa colazione, cui però non abbiamo potuto partecipare, perché l’avevamo fatta prima di partire, ed essendo giorno di digiuno non potevamo più mangiare fino al pranzo. Così ci siamo limitati ad una piccola tazza di cioccolata, che sua Eminenza ci disse essere compatibile col digiuno. Ci fu data anche una bibita di ottimo sapore al mandarino, una specie di vino fatto con frutti disseccati e posti in fusione con acqua e zucchero. Soltanto Rua non essendo obbligato al digiuno mangiò qualche cosa di più solido.

Poi abbiamo iniziato la visita di quello spazioso ospizio dove sono ricoverate oltre ottocento persone. Il cardinale Tosti ci accompagnò ovunque. Ci siamo fermati specialmente a considerare il lavoro dei giovani. Qui imparano gli stessi mestieri che imparano da noi: la maggior parte si occupa nel disegno, nella pittura, nella scultura; e molti lavorano in una tipografia interna. Il Santo Padre per aiutare l’Ospizio gli ha concesso il privilegio di stampare in esclusiva i libri di scuola che si usano negli Stati Pontifici. Sopra l’edificio vi è un terrazzo con una magnifica vista: guardando a ponente si scorge l’accampamento dei francesi venuti a liberare Roma […] Alle dodici e mezzo, quando ormai i ragazzi erano a pranzo, essendo anche il cardinale molto stanco, abbiamo preso congedo […]

S. Maria in Cosmedin e la Bocca della Verità
Secondo il solito pioveva a meraviglia, e tra me e Rua, avendo una sola ombrella assai piccola, abbiamo trovato il modo di bagnarci tutti e due. Abbiamo passato il Tevere sopra un ponte chiamato Ponte Rotto perché, si era rovinato, e fu sostituito con un ponte di ferro molto simile a quello che abbiamo sul Po a Torino. Anticamente si chiamava ponte Coclite, perché è quello stesso, in cui Orazio Coclite oppose un’eroica resistenza all’esercito di Porsenna, finché il ponte fu tagliato, ed egli si gettò nel Tevere passando a nuoto all’altra sponda fra i dardi dei nemici meravigliati.

S’incontra qui una via detta Bocca della Verità, perché in fondo alla medesima c’era il luogo dove si conducevano coloro che dovevano fare un giuramento. Adesso c’è una chiesa chiamata S. Maria in Cosmedin, parola che vuol dire ornamento, perché fu con magnificenza ornata dal pontefice Adriano I. Al suo interno si conserva la cattedra di cui si servì Sant’Agostino quando insegnava Retorica. Sotto al vestibolo ci siamo ritirati per attendere che smettesse l’acquazzone che stava inondando tutte le vie. Mentre stavamo là abbiamo dato uno sguardo alla piazza chiamata anch’essa Bocca della Verità.

I vaccari
Vi erano molti buoi aggiogati che bivaccavano, esposti alla pioggia al fango e al vento. I bovari si erano riparati sotto il medesimo vestibolo mettendosi a pranzare con invidiabile appetito. Al posto della minestra e della pietanza avevano un pezzo di merluzzo crudo, da cui ciascuno strappava un pezzo. Alcune pagnottelle di meliga e segala era il loro pane. Acqua la bevanda. Scorgendo in loro un’aria di semplicità e di bontà mi avvicinai e feci questa conversazione.
– Avete buon appetito?
Molto, rispose uno di essi.
– Vi basta quel cibo a togliervi la fame e sostentarvi?
– Ci basta, grazie a Dio, quando possiamo averne, giacché, essendo poveri, non possiamo pretendere di più.
– Perché non conducete quei buoi nelle stalle?
– Perché non ne abbiamo.
– Li lasciate sempre esposti al vento, alla pioggia, alla grandine giorno e notte?
– Sempre, sempre.
– Fate lo stesso ai vostri paesi?
– Si, facciamo lo stesso, perché nemmeno là abbiamo stalla, perciò o piova, o faccia vento, o nevichi, giorno e notte stanno sempre all’aperto.
– E le vacche e i vitelli piccoli sono anch’essi esposti a tali intemperie?
– Certamente. Tra di noi si usa che gli animali, quelli di stalla stanno sempre in stalla e quelli che cominciano a stare fuori se ne stanno sempre fuori.
– Abitate molto lontano di qui?
– Quaranta miglia.
– Nei giorni festivi potete assistere alle sacre funzioni?
– Oh! chi ne dubita? Abbiamo la nostra cappella, il prete che ci dice messa, fa la predica ed il catechismo, e tutti, comunque lontani, si danno premura d’intervenire.
– Andate anche qualche volta a confessarvi?
– Oh! Senza dubbio. Ci sono forse cristiani che non adempiono questi santi doveri? Adesso ci è il giubileo e noi tutti ci daremo sollecitudine di farlo bene.
Da questo ragionamento appare la buona indole di questi paesani, i quali nella loro semplicità vivono contenti della loro povertà e lieti del loro stato, purché possano adempiere i doveri di buon cristiano e disimpegnare ciò che riguarda al basso loro commercio.

S. Maria del Popolo
Domenica 7 marzo era destinata alla visita di S. Maria del Popolo. Alcune pie e nobili persone desideravano che andassimo là a celebrare la messa, per poter fare la comunione. Era questa una pia devozione. Alle nove il signor Foccardi, persona servizievole e piena di fede, ci venne a prendere con la propria vettura per trasportarci al luogo indicato. Questa chiesa fu costruita sul luogo dove erano stati sepolti Nerone e la famiglia Domizia. La tradizione dice che vi apparissero continuamente spettri che atterrivano i cittadini tanto che nessuno voleva abitare nei dintorni. Il pontefice Pasquale II l’anno 1099 vi fece innalzare una chiesa, e per allontanare l’infestazione diabolica la dedicò a Maria Santissima. L’anno 1227 l’antica chiesa minacciava di cadere e il popolo romano concorse con generosità alle spese di ricostruzione. Proprio per questo fu chiamata S. Maria del Popolo. Una chiesa grandiosa, ricca di marmi e pitture. Nell’altare maggiore si venera un’immagine miracolosa della Madonna fatta prelevare per ordine di Gregorio IX dalla cappella del Salvatore in Laterano. Vicino c’è il convento dei padri Agostiniani.

Porta del Popolo anticamente si chiamava Porta Flaminia, perché era all’inizio della via Flaminia […]. Fuori di questa porta, voltando a destra, si trova Villa Borghese, un maestoso edificio degno di essere visitato dai turisti a motivo dei molti oggetti d’arte che vi sono conservati. Porta del Popolo delimita una gran piazza chiamata Piazza del Popolo, e abbellita da copiose fontane, e da obelischi, i quali come ognuno sa, sono monumenti di una remota antichità fatti innalzare dai re dell’Egitto per rendere immortale la memoria delle loro azioni. Il superbo obelisco che si eleva in mezzo alla piazza fu costruito a Eliopoli per ordine di Ramesse, re di Egitto, che regnò nel 522 a. C. L’imperatore Augusto lo fece trasportare a Roma; ma per sventura si rovesciò, spezzandosi e fu coperto di terra. Papa Sisto V nel 1589 lo fece dissotterrare innalzandolo nella piazza, dopo averne dotato il culmine di un’alta croce di metallo. Le sue quattro facce sono coperte di geroglifici, cioè di simboli misteriosi dei quali si servivano gli Egiziani per esprimere le cose sacre ed i misteri della loro teologia.

Nel fondo della piazza s’innalza la chiesa di S. Maria dei Miracoli, costruita da Alessandro VII, e chiamata così a causa di un’immagine miracolosa della Madonna che prima era dipinta sotto un arco nei pressi del Tevere. A sinistra c’è un’altra chiesa, S. Maria di Monte Santo, perché edificata sopra un’altra chiesa che apparteneva ai carmelitani della provincia di Monte Santo. Fu inaugurata nel 1662. Appagata così devozione e curiosità, siamo di nuovo saliti in vettura che ci portò a casa della principessa Potosca, dei conti e principi Sobieschi, antichi sovrani di Polonia. La colazione apparecchiata per noi era sontuosa, ma troppo signorile, quindi poco adatta al nostro appetito. Ci siamo aggiustati alla meglio. Siamo tuttavia rimasti molto soddisfatti dalla conversazione veramente cristiana, che quelle signore tennero per il tempo che ci trattenemmo a casa loro.
Una cosa suscitò la nostra meraviglia. Terminato di mangiare, la padrona di casa si fece portare un mazzetto di sigari e si mise a fumare. Malgrado una conversazione assai animata ella continuò con grande avidità a fumare un sigaro dopo l’altro, e questo mi mise a disagio, essendo costretto a sopportare l’odore di fumo che impregnava tutta la casa. Mi provocava la nausea risultandomi insopportabile […]

Città del Vaticano. La salita al Cupolone
Riservammo l’8 marzo per visitare la famosa cupola di S. Pietro. Il canonico Lantieri ci aveva procurato il biglietto necessario per appagare questa curiosità. L’orario in cui è permessa la salita va dalle 7 alle 11 ½ del mattino. Il tempo era sereno e perciò propizio. Dopo aver celebrato l’eucarestia nella Chiesa del Gesù, dove stanno i Gesuiti, sull’altare di san Francesco Saverio, giungemmo in Vaticano alle 9 in compagnia del signor Carlo De Maistre. Consegnato il biglietto, ci fu aperta la porticina e cominciammo a salire su per una scala assai comoda fatta come un ripido terrazzo. Salendo s’incontrano varie iscrizioni che ricordano il nome e l’anno di tutti i pontefici che aprirono e chiusero gli anni giubilari. Vicino al ripiano del terrazzo sono scritti i più celebri personaggi, re o principi, che salirono fino alla palla della cupola. Abbiamo letto con piacere anche il nome di vari dei nostri sovrani e della famiglia reale.

Abbiamo dato un’occhiata al terrazzo della basilica. Si presenta come una vasta piazza selciata dove si può giocare a palla, a bocce, e simili. Qui abitano alcune persone cui è affidata la cura della parte superiore del tempio: falegnami, ferrai, lavoratori dell’asfalto. Quasi nel mezzo del terrazzo è posta una fontana sempre aperta, dove Rua andò a bere.
Dalla piazza sottostante avevamo osservato le statue dei dodici apostoli che ornano l’alto cornicione della basilica. Da laggiù apparivano piccole, ma da vicino ci accorgemmo che il solo dito pollice del piede aveva la grossezza del corpo d’un uomo. Da ciò si può capire a quale altezza eravamo. Abbiamo anche visitato la campana maggiore che ha un diametro di oltre tre metri che significano tre trabucchi di circonferenza (c.ca 9 metri n.d.r.).

Una veduta per noi assai curiosa fu il giardino vaticano dove il papa suole andare a passeggiare a piedi. Si calcola che esso abbia la lunghezza che vi è da Porta Susa al principio di Via Po. A Sud si scorgevano vaste campagne. La nostra guida ci disse:
Tutto quel piano era coperto di soldati francesi quando vennero a liberare la nostra città dai ribelli. E ci indicava la basilica di S. Sebastiano, S. Pietro in Montorio, Villa Panfili, Villa Corsini, tutti edifici che soffrirono gravissimi danni per essere stati fatti campi di battaglia.
Una scaletta a chiocciola ai fianchi della cupola ci condusse su fino alla prima ringhiera. Da questo ripiano ci pareva di volare in alto e allontanarci da terra. La guida ci aprì una porticina la quale immetteva su una ringhiera interna che faceva il giro della cupola. L’ho voluta misurare, e camminando da buon viaggiatore ho contato 230 passi prima di completare il giro. Una curiosità: in qualsiasi punto della ringhiera ti trovi, parlando anche sottovoce con la faccia rivolta al muro, il più piccolo suono si comunica nitidamente da una parete all’altra. Abbiamo anche notato che i mosaici della chiesa che da sotto apparivano molto piccoli, da lì prendevano una forma gigantesca.
Coraggio, ci esortò la guida, se vogliamo vedere altre cose. Così infilammo un’altra scala a chiocciola e arrivammo alla seconda ringhiera. Qui ci pareva di esserci innalzati verso il Paradiso, e quando entrammo nella ringhiera interna e lasciammo cadere lo sguardo sul pavimento della basilica, ci rendemmo conto della straordinaria altezza cui eravamo giunti. Le persone che lavoravano o camminavano laggiù sembravano bambini. L’altare papale che è sormontato da un baldacchino di bronzo che in altezza sorpassa le più alte case di Torino, da lì pareva un semplice seggiolone.

L’ultimo piano sopra cui siamo saliti è quello che posa sopra la punta della cupola, da dove si gode forse la veduta più maestosa del mondo. Tutto intorno lo sguardo va a perdersi in un orizzonte formato dai limiti della vista umana. Dicono che guardando verso levante si può vedere il mare Adriatico, a ponente il Mediterraneo. Noi però abbiamo soltanto potuto scorgere la nebbia che il tempo piovoso dei giorni passati aveva sparso un po’ dovunque.

C’era rimasta la palla, un globo che da terra pare una delle bocce di cui ci serviamo per passare un po’ di tempo; da lì appariva grandissima. I più coraggiosi, passando per una scaletta perpendicolare e camminando come dentro a un sacco, si arrampicarono come gatti per l’altezza di due trabucchi, ossia sei metri. Alcuni non ebbero abbastanza coraggio. Noi, che eravamo un po’ più temerari, ci siamo riusciti. Dalla palla tutto appare meraviglioso. Mi avevano detto che avrebbe potuto contenere sedici persone; a me pareva però che ce ne potessero stare comodamente trenta. Alcuni buchi, quasi piccole finestre, permettono di osservare la città e le campagne. Ma la grande altezza dà una certa sensazione e non rende del tutto gradevole la visione. Pensavamo che lassù facesse freddo. Tutto il contrario: il sole battendo sul bronzo della palla la riscaldava a tal punto che ci sembrava essere in piena estate. Credo che questa sia una delle ragioni per cui dopo pranzo non è permesso salire fin lassù: per il caldo insopportabile. Qui dopo aver parlato di varie cose riguardanti i giovani dell’oratorio, soddisfatti della nostra impresa, quasi avessimo riportata una grande vittoria, abbiamo cominciato la discesa con passo lento e grave, per non romperci l’osso del collo, e senza più fermarci siamo arrivati a terra.

Per riposarci un po’ siamo andati ad ascoltare la predica che era iniziata proprio allora nella basilica. Il predicatore ci piacque. Buona lingua, bel gesto, ma il tema non ci interessò molto perché trattava dell’osservanza delle leggi civili. Quello però che non servì a nutrire lo spirito servì assai bene a dar riposo al corpo. Restandoci ancora un briciolo di tempo l’abbiamo impiegato a visitare la sacrestia che è una vera magnificenza degna di S. Pietro.
Intanto erano arrivate le undici e mezzo, e a causa del digiuno e del tanto camminare avevamo un grande appetito; perciò siamo andati a fare una piccola refezione. Rua non soddisfatto giudicò bene di andarsene a pranzo, così io rimasi solo col signor Carlo De Maistre, indivisibile compagno di quella giornata. Ristorati alquanto siamo andati a fare visita a monsignor Borromeo, maggiordomo di Sua Santità che ci accolse benissimo, e, dopo aver parlato del Piemonte e di Milano sua patria, si annotò i nostri nomi per inserirci sul catalogo delle persone che desiderano ricevere la palma dal Santo Padre nella funzione della Domenica delle Palme.

Ai famosi musei
Accanto alla loggia di questo prelato, intorno al cortile del palazzo pontificio ci sono i Musei Vaticani. Ci siamo entrati e abbiamo visto cose davvero eccezionali. Ne descrivo solo alcune. C’è una sala di lunghezza straordinaria arricchita di marmi e preziosissimi dipinti. In mezzo alla seconda arcata campeggia una acquasantiera di circa un metro e mezzo, formata di malachite, uno dei marmi più preziosi del mondo. È un dono fatto dall’imperatore di Russia al Sommo Pontefice. Ci sono vari altri oggetti di simile genere. In fondo a quella grande sala a sinistra si apre una specie di lungo corridoio che ospita il museo cristiano […] Nel medesimo si estende la Biblioteca Vaticana, dove si conservano i manoscritti più celebri dell’antichità […]

In giro per Roma
Dal Vaticano andando verso il centro di Roma siamo arrivati a piazza Scossacavalli ove lavorano gli scrittori del celebre periodico La Civiltà Cattolica. Ci siamo fermati a far loro una visita e abbiamo provato un vero piacere nell’osservare che i principali sostenitori di questa pubblicazione sono piemontesi. Sentivo ormai un vivo desiderio di tornare a casa, superando ogni indugio, ed eravamo quasi giunti al Quirinale, quando il signor Foccardi ci vide passare davanti la sua bottega e ci chiamò dentro. A forza di inviti e cortesia ci trattenne alquanto, e nel momento in cui chiedemmo di partire ci disse:
Ecco la vettura, vi accompagno fino a casa. Sebbene mi mettessi di mala voglia in vettura, tuttavia per compiacerlo accondiscesi. Ma il Foccardi desiderando trattenersi più a lungo con noi ci fece fare un lungo giro tanto che siamo arrivati a casa a notte inoltrata.

Qui mi venne consegnata una lettera. L’apro e la leggo. Si notifica al signor Abate Bosco che Sua Santità si è degnata di ammetterlo all’udienza domani, nove di marzo, dalle ore undici e tre quarti ad un’ora. Questa notizia, attesa e molto desiderata, mi procurò una rivoluzione interiore e per tutta la serata non riuscii a parlare d’altro se non del Papa e dell’udienza.

L’udienza papale. S. Maria sopra Minerva
Era arrivato il 9 marzo, il grande giorno dell’udienza papale. Prima però avevo bisogno di parlare col cardinale Gaude; perciò mi recai a dire messa nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, dove il porporato aveva la sua dimora. Anticamente era un tempio che Pompeo il Grande aveva fatto edificare alla dea Minerva; fu chiamata S. Maria sopra Minerva perché fu fabbricata precisamente sopra le rovine di questo tempio. L’anno 750 papa Zaccaria la donò ad un convento di monache greche. L’anno 1370 passò ai padri predicatori che tuttora la officiano. Dinanzi a questa chiesa si apre una piazza ove abbiamo ammirato un obelisco egizio con geroglifici, la cui base poggia sul dorso di un elefante di marmo. Entrati abbiamo potuto ammirare uno degli edifici sacri più belli di Roma. Sotto l’altare maggiore riposa il corpo di S. Caterina da Siena. Celebrata la messa e recatomi con tutta fretta dal cardinale Gaude, gli parlai, quindi partimmo alla volta del Quirinale.

Il piccolo bugiardo
Lungo la via abbiamo incontrato un ragazzo che con buona grazia ci chiese l’elemosina e per farci conoscere la sua condizione ci disse che suo padre era morto, sua madre aveva cinque figlie e che egli sapeva parlare italiano, francese e latino. Meravigliato, gli indirizzai un discorso in francese a cui diede per risposta un solo oui senza né intendere quel che dicevo, né articolare altre espressioni; lo invitai allora a parlare latino, ed egli senza badare alle mie parole si mise a recitare a memoria le seguenti parole: ego stabam bene, pater meus mortuus est l’annus passatus et ego sum rimastus poverus. Mater mea etc. Qui non abbiamo più potuto trattenere le risa. Però l’abbiamo poi avvertito di non dire bugie e gli abbiamo regalato un baiocco.

L’anticamera
Intanto l’ora dell’udienza si avvicinava […] Giunti in Vaticano, salimmo le scale macchinalmente. Ovunque c’erano le guardie nobili, vestite da sembrare tanti principi. Al piano nobile ci aprirono la porta che introduceva nelle sale pontificie. Guardie e camerieri, abbigliati con gran lusso, ci salutavano con profondi inchini. Consegnato il biglietto per l’udienza, fummo condotti di sala in sala fino all’anticamera papale. Siccome vi erano parecchi altri che attendevano, abbiamo aspettato circa un’ora e mezzo prima di essere ricevuti.

Quel tempo l’abbiamo impiegato a osservare le persone e il posto dove ci trovavamo. I domestici del Papa erano vestiti quasi come i vescovi dei nostri paesi. Un monsignore, cui si dà il titolo di prelato domestico introduceva a turno le persone per l’udienza man mano che finiva quella precedente. Abbiamo ammirato grandi sale ben tappezzate, maestose, ma senza lusso. Un semplice tappeto di panno verde copriva il pavimento. Le tappezzerie erano di seta rossa ma senza ornati. Le sedie di legno duro. Un seggiolone posto sopra un palchetto alquanto elegante indicava che quella era la sala pontificia. Tutto questo ci ha fatto piacere, perché coi nostri occhi abbiamo potuto renderci conto della falsità delle dicerie che taluni vanno spargendo contro lo spazio e il lusso della corte pontificia. Mentre eravamo immersi in vari pensieri, suonò il campanello, e il prelato ci fece cenno di avanzare per presentarci a Pio IX. In quel momento io rimasi veramente confuso e dovetti farmi violenza per rimanere calmo.

Pio IX
Rua mi seguì recando una copia delle Letture Cattoliche. Entrati, facemmo la genuflessione all’inizio, poi a metà della sala, infine, la terza, ai piedi del Papa. Cessò ogni apprensione quando scorgemmo nel Pontefice l’aspetto di un uomo affabile, venerando, e al tempo stesso il più bello che potesse dipingere un pittore. Non gli potemmo baciare il piede, perché era seduto al tavolino; gli baciammo però la mano, e Rua, memore della promessa fatta ai chierici, la baciò una volta per sé e una volta per suoi compagni. Allora il Santo Padre fece segno di alzarci e metterci davanti a lui. Io, secondo l’etichetta, avrei voluto parlare restando in ginocchio.
No, egli disse, alzatevi pure. Conviene qui notare che nell’annunziarci al Papa fu letto male il nostro nome. Infatti invece di scrivere Bosco era stato scritto Bosser, perciò il Papa cominciò ad interrogarmi:
– Voi siete piemontese?
– Sì, Santità, sono piemontese, e in questo momento provo la più grande consolazione della mia vita, trovandomi ai piedi del Vicario di Cristo.
– Di che cosa vi occupate?
– Santità, io mi occupo dell’istruzione della gioventù e delle Letture Cattoliche.
– L’istruzione della gioventù è stato un apostolato utile in tutti i tempi, ma oggi lo è molto di più.
C’è anche un altro a Torino che si occupa di giovani. Allora mi accorsi che il Papa aveva sottomano un nome sbagliato, ma, senza saper come, anche lui si rese conto che io non ero Bosser, ma Bosco; così assunse un aspetto molto più festoso, e chiese tante cose riguardanti i giovani, i chierici, gli oratori […] Quindi con volto ridente mi disse:
– Mi ricordo dell’offerta mandatami a Gaeta e dei teneri sentimenti con cui quei giovani l’accompagnarono. Approfittai per esprimergli l’attaccamento dei nostri giovani alla sua persona e lo pregai di gradire una copia delle Letture Cattoliche:
– Santità, gli dissi, le offro una copia dei volumetti finora stampati a nome della direzione; la legatura è opera dei giovani della nostra scuola.
– Quanti sono questi giovani?
– Santità, i giovani della casa sono circa duecento, i legatori sono quindici.
Bene, egli rispose, voglio mandare una medaglia a ciascuno. Quindi andato in un’altra stanza, dopo brevi istanti tornò portando quindici piccole medaglie della Concezione:
Queste saranno per i giovani legatori, disse mentre me le porgeva. Rivoltosi poi a Rua, gliene diede una più grande dicendo:
Questa è per il suo compagno. Quindi rivoltosi nuovamente a me, mi porse una piccola scatola che ne rinchiudeva un’altra più grande:
E questa è per voi. Essendoci inginocchiati per ricevere i regali, il Santo Padre ci invitò ad alzarci, e credendo poi che volessimo partire, stava per congedarci, quando io presi a parlargli così:
– Santità, avrei qualche cosa di particolare da comunicarle.
Va bene, rispose […].
Il Santo Padre è speditissimo nel capire le domande e prontissimo nel dare le risposte, perciò con lui si tratta in cinque minuti quello che con altri richiederebbe oltre un’ora. Tuttavia la bontà del Papa e il mio vivo desiderio di trattenermi con lui prolungarono l’udienza di oltre mezz’ora, tempo assai considerevole sia riguardo alla sua persona sia riguardo all’ora del pranzo che per nostra cagione le era ritardato […].

Il Gianicolo
Alle 13,30 del 10 marzo il padre Giacinto dei Carmelitani Scalzi passava a prenderci con un calesse per trasportarci alla basilica di S. Pancrazio e di S. Pietro in Montorio. Sono due chiese situate sul Gianicolo, chiamato così a causa di Giano che dicono vi abitasse. Sulla sommità di questo colle al di là del Tevere, è situata la basilica di S. Pancrazio, costruita da papa Felice II nel 485, circa 100 anni dopo il martirio di Pancrazio. Il generale Narsete, vinti i Goti, fece una solenne processione insieme con papa Pelagio da S. Pancrazio a S. Pietro. San Gregorio Magno che aveva grande venerazione per questa chiesa vi celebrò più volte la messa e vi tenne alcune omelie, infine la donò ai monaci benedettini. Nel 1673 venne affidata ai Carmelitani Scalzi col convento annesso e un seminario per le missioni delle Indie […]

Sotto l’altare maggiore, vi è un altro altare sotterraneo dove anticamente veniva conservato il corpo del Santo, protetto da una cancellata di ferro. C’era l’usanza di condurre quelli che erano sospettati di spergiuro davanti a questa cancellata, perché se erano colpevoli venivano presi da un vistoso tremolio o da altro accidente.

Le Catacombe
Venite con me, ci disse il padre Giacinto, andremo nelle catacombe. Aveva approntato un lume per ciascuno. Noi ci siamo messi a seguirlo. A metà chiesa sul pavimento ci indicò una botola. Alzato il coperchio apparve una cavità oscura e profonda: cominciavano le catacombe. All’entrata era scritto in latino: “In questo luogo è stato decollato il martire di Cristo Pancrazio”. Eccoci nelle catacombe. Immaginatevi lunghi corridoi ora più stretti e più bassi, ora più alti e spaziosi, ora tagliati da altri corridoi, ora in discesa, ora in salita, e avrete la prima idea di questi sotterranei. A destra e a sinistra vi sono piccole tombe scavate parallelamente nel tufo. Qui anticamente venivano seppelliti i cristiani, soprattutto i martiri. Quelli che avevano dato la vita per la fede erano designati con emblemi particolari. La palma era segno della vittoria riportata contro i tiranni; l’ampolla indicava che aveva sparso il sangue per la fede; il “” significava che era morto nella pace del Signore oppure che aveva patito per Cristo. In altri comparivano gli strumenti con cui erano stati martirizzati. Talvolta questi emblemi erano chiusi nella piccola tomba del santo. Quando non infierivano molto le persecuzioni si scriveva nome e cognome del martire e qualche riga che sottolineava qualche importante circostanza della sua vita. […]
Ecco, ci disse la guida, questo è il luogo dov’era sepolto san Pancrazio, accanto a lui san Dionigi suo zio e qui vicino un altro suo parente. Poi abbiamo visitato alcune tombe riunite in una cameretta sulle cui pareti si vedevano iscrizioni antiche che non abbiamo saputo leggere. In mezzo alla volta era dipinto un giovane che ci parve rappresentasse san Pancrazio […]

Stavolta la guida ci indicò una cripta. Cripta, parola greca, vuol dire profondità. È uno spazio più grande dell’ordinario dove i cristiani solevano radunarsi, in tempo di persecuzione, per ascoltare la Parola, assistere alla messa, e alle funzioni sacre. In un lato c’è ancora un altare antico dove è possibile celebrare. Per lo più era la tomba di qualche martire a servire da altare. Fatto un po’ di cammino ci fu mostrata la cappella dove san Felice papa era solito riposarsi e celebrare l’Eucarestia. Il suo sepolcro è a poca distanza. Ovunque si vedevano scheletri umani ridotti in pezzi dal tempo. La nostra guida ci assicurò che di lì a poco saremmo arrivati a un luogo dove si conservavano lapidi con le iscrizioni intatte.

Ma eravamo molto stanchi, anche perché l’aria sotterranea, e le difficoltà del cammino – ognuno doveva badare a non sbattere il capo, non urtare con le spalle e non scivolare coi piedi – ci avevano affaticano non poco. La guida ci avvertiva che i sotterranei sono moltissimi e alcuni giungono fino alla lunghezza di quindici/venti miglia. Se fossimo andati da soli avremmo potuto cantare il requiescant in pace, perché sarebbe stato assai difficile ritrovare la strada per tornare all’aperto. La nostra guida però era molto pratica e in breve ci ricondusse al punto da dove eravamo partiti […]

San Pietro in Montorio
Saliti di nuovo in vettura col padre Giacinto ci avviammo giù dal Gianicolo per andare a S. Pietro in Montorio. La parola è una corruzione di “monte d’oro”, perché qui il terreno e la ghiaia assumono un colore giallo simile all’oro. Fu anche chiamato Castro Aureo, fortezza d’oro, per gli avanzi della rocca di Anco Marzio ancora esistenti sulla vetta. È una delle chiese fondate da Costantino il Grande, ricca di statue, dipinti e marmi. Tra la chiesa e il convento annesso si staglia un edificio chiamato Tempietto di Bramante di forma rotonda. Si tratta di uno dei più insigni lavori del Bramante. Esso venne edificato sul luogo dove fu martirizzato san Pietro. Sul retro una scaletta conduce in una cappella sotterranea circolare, in mezzo alla quale c’è un foro ove arde continuamente un lume. È il posto dove fu incastrata la cima della croce su cui san Pietro fu inchiodato a testa in giù. La chiesa è situata dove ha termine il Gianicolo e comincia il Vaticano.

Vicino a S. Pietro in Montorio è ubicata la magnifica Fontana Paolina, da Paolo V che l’ha fatta costruire nel 1612. L’acqua sgorga da tre colonne che sembrano un fiume. Arriva fin lì da Bramario, un luogo a 35 miglia da Roma. Queste acque, precipitando, servono a far girare macine da molino ed altre macchine e si diramano con gran vantaggio in vari punti della città […].

Una disavventura
L’11 marzo, siamo stati occupati a scrivere e fare commissioni. Merita un ricordo l’episodio dello smarrimento per Roma. Andai a fare una visita a monsignor Pacca, prelato domestico di Sua Santità. Al ritorno ero accompagnato da padre Bresciani avendo mandato Rua a cercare padre Botandi a Ponte Sisto. Il buon Bresciani mi condusse fino all’accademia della Sapienza quindi mi indicò dove passare per arrivare al Quirinale:
Attraversi questa contrada, poi si tenga sempre a destra. Io invece di prendere a destra presi a sinistra, sicché dopo un’ora di cammino mi sono ritrovato in Piazza del Popolo, distante quasi un miglio da casa. Povero me! Almeno avessi avuto Rua insieme, ci saremmo potuti consolare a vicenda, ma ero solo. Il tempo era nuvoloso, soffiava un vento gagliardo e cominciava a piovere. Che fare? Dormire in mezzo a quella piazza mi rincresceva, perciò con tutta pazienza salii sul Pincio, chiamato così dal palazzo di un signore detto Pincio […]. Questo monte non è molto abitato e non è uno dei sette colli di Roma […]

S. Andrea della Valle
Venerdì 12 sono andato a celebrare la messa a S. Andrea della Valle per distinguerlo da altre chiese consacrate al medesimo Apostolo. Valle gli fu aggiunto sia perché la basilica si trova nel punto più basso di Roma sia anche a causa di un palazzo appartenente alla famiglia Valle. Anticamente la chiesa era dedicata a san Sebastiano che aveva qui sofferto il martirio. Vicino ne fu costruita un’altra dedicata a san Luigi re di Francia. Ma l’anno 1591 un ricco signore di nome Gesualdo la fece ristrutturare rinnovandone interamente il disegno. Essa è una delle prime chiese di Roma. La sua cupola misura 64 palmi di diametro, e perciò dopo S. Pietro in Vaticano è la cupola più ampia di tutte le altre della città.
La prima cappella entrando a sinistra ha un cancello di ferro che indica il punto della cloaca in cui si crede sia stato gettato il corpo di san Sebastiano martire. Quasi in faccia a questa chiesa vi è il palazzo Stoppani che servì di abitazione all’imperatore Carlo V quando venne a Roma, come appare da un’iscrizione sul muro ai piedi della scala.

S. Gregorio Magno
Un’ora e mezza dopo mezzogiorno col signor Francesco De Maistre, nostra guida, siamo partiti per visitare la chiesa di S. Gregorio Magno. Essa è edificata sopra una parte del monte Celio detto anticamente clivus Scauri, cioè discesa di Scauro, ed era la casa abitata da san Gregorio e dai suoi. Fu proprio lui a convertirla in monastero, dove poi dimorò fino all’anno 590, all’inizio come semplice monaco, quindi come Abate. Quando fu eletto pontefice (nel 590) dedicò quell’edificio all’apostolo sant’Andrea, trasformando una parte dei locali ad uso di chiesa. Dopo la sua morte essa venne dedicata a lui medesimo.

È certamente una delle più belle chiese di Roma. La prima cappella entrando a sinistra è dedicata a santa Silvia, madre di san Gregorio. L’ultima a destra è quella del Sacramento, sul cui altare celebrava lo stesso san Gregorio. […]. Questo altare, venerabile per il titolo e il patrocinio del santo Papa, fu reso celebre in tutto il mondo dai privilegi concessi da molti pontefici. Capitò che un monaco del monastero avendo per comando del santo offerto la messa per trenta giorni continui in suffragio dell’anima di un suo fratello defunto, un altro monaco la vide liberata dalle pene del purgatorio.

Accanto a questa cappella ne esiste un’altra più piccola, dove san Gregorio si ritirava per riposarsi. Si fa vedere ancora con precisione il luogo dove era il suo letto. Lì accanto c’è la sedia di marmo sopra cui sedeva sia quando scriveva che quando annunziava la parola di Dio al popolo.
Passato l’altare maggiore s’incontra la cappella che custodisce un’immagine della Madonna molto antica e prodigiosa. Si crede che sia quella che il Santo teneva in casa e ogni volta che le passava davanti la salutasse dicendo “Ave, Maria”. Un giorno però il buon Pontefice per la fretta che aveva a causa di alcuni affari urgenti, uscendo non indirizzò alla Vergine il consueto saluto. Ed Ella gli fece questo dolce rimprovero: “Ave, Gregori”, con le quali parole lo invitava a non dimenticare quel saluto che a lei tornava tanto gradito.

In un’altra cappella troneggia la statua di san Gregorio, un lavoro progettato e diretto da Michelangelo Buonarroti. Il Santo è seduto sul trono con una colomba vicino all’orecchio, che ricorda quanto asserisce Pietro Diacono, famigliare del Santo, cioè che ogni qualvolta che Gregorio predicava o scriveva, sempre una colomba gli parlava all’orecchio. Al centro della cappella è collocata una grande tavola di marmo sopra la quale il Pontefice ogni giorno offriva da mangiare a dodici poveri servendoli di propria mano. Un giorno sedette a mensa con gli altri un angelo sotto forma di giovanetto, che poi ad un tratto disparve. Da allora il Santo aumentò a tredici il numero dei poveri da lui sfamati. Così ebbe origine l’usanza di porre tredici pellegrini alla tavola che nel giovedì santo il Papa ogni anno serve di sua mano. Sopra la tavola è inciso il distico seguente: “Qui Gregorio sfamava dodici poveri; un angelo sedette a mensa e compì il numero di tredici”.

Santi Giovanni e Paolo
Uscendo da questa chiesa e voltando a destra s’incontra quella dei Santi Giovanni e Paolo. L’imperatore Gioviano permise al monaco san Pammacchio di costruirla nel 400 in onore di questi due fratelli martiri. Essa fu edificata sopra la loro abitazione proprio dove subirono il martirio. Venne poi restaurata da san Simmaco Papa verso il 444 […] Entrando si presenta allo sguardo un maestoso edificio. Nel mezzo una cancellata di ferro delimita il luogo dove i santi furono uccisi. I loro corpi, chiusi in un’urna preziosa, riposano sotto l’altare maggiore. Nella cappella accanto, sotto l’altare, viene custodito il corpo del beato Paolo della Croce, fondatore dei passionisti, ai quali è affidata la chiesa. Questo servo di Dio è un piemontese, nato a Castellazzo nella diocesi di Alessandria. Morì nel 1775 all’età di 82 anni. I molti miracoli che a Roma e altrove accadono per sua intercessione, hanno fatto crescere la congregazione dei passionisti, così chiamati a motivo del quarto voto che essi fanno, cioè promuovere la venerazione verso la passione del Signore.

Uno di quei religiosi, un genovese, fra Andrea, dopo averci accompagnati a vedere le cose più importanti della chiesa ci portò in convento, un bell’edificio che ospita una ottantina di padri in gran parte piemontesi.
Questa, ci disse fra Andrea, è la camera in cui morì il nostro santo Fondatore. Ci siamo entrati ed abbiamo in devoto raccoglimento ammirato il luogo d’onde partì l’anima sua per volare al cielo.
Là c’è la sedia, gli abiti, i libri ed altri oggetti che servirono ad uso del Beato. Ogni cosa è posta sotto sigillo e si distribuiscono come reliquie ai fedeli cristiani. Quella camera oggi è una cappella dove si celebra la messa.

Archi di Costantino e Tito
Dato un saluto al cortese fra Andrea, ci siamo avviati verso S. Lorenzo in Lucina. Ma fatta un po’ di strada ci siamo ritrovati sotto all’Arco di Costantino. Esso si è conservato quasi integro. Un’iscrizione del senato e del popolo romano indica che fu dedicato all’imperatore Costantino in occasione della vittoria riportata sopra il tiranno Massenzio. Questo imperatore, divenuto cristiano, fece collocare sopra l’arco una statua con una croce in mano in memoria della croce apparsagli davanti all’esercito, per ricordare a tutto il mondo che egli professava la religione di Gesù crocifisso.
Fatto un altro tratto di strada ecco un altro arco, quello Arco di Tito. Esistono tre archi a Roma e quello di Tito è il più antico ed elegante. È arricchito da bassorilievi che commemorano le varie vittorie riportate da quel prode guerriero: tra essi è scolpito il candelabro del tempio di Gerusalemme in memoria della caduta di quella città e del suo tempio. Sotto quest’arco passava la celebre Via Sacra, una delle più antiche di Roma, così chiamata perché attraverso questa si portavano ogni mese le cose sacre sulla Rocca, e veniva percorsa dagli àuguri per recarsi a prendere i loro responsi.

Giunti a S. Lorenzo in Lucina non riuscimmo a entrare a motivo dei lavori che vi si eseguivano […] Questa chiesa è una delle più vaste parrocchie di Roma, e fu eretta da Sisto III col consenso dell’imperatore Valentiniano in onore di san Lorenzo martire. Per distinguerlo dalle altre chiese innalzate a questo levita, fu denominata in Lucina o dalla santa martire di tal nome, o forse dal luogo che così si chiamava. Annesso a questa chiesa verso il corso è il palazzo Ottobuoni, fabbricato verso l’anno 1300 sopra le rovine di un grande edificio antico chiamato Palazzo di Domiziano. Essendo ormai stanchi e avvicinandosi l’ora del pranzo siamo tornati a casa […].

Santa Maria degli Angeli
 […] Il 13 marzo la stazione quaresimale era a S. Maria degli Angeli, e noi ci siamo andati sia per guadagnare l’indulgenza plenaria, sia anche per pregare Dio a favore della nostra casa. Questa chiesa è distinta da un’altra del medesimo nome con l’aggiunta alle Terme di Diocleziano, perché è costruita sul luogo dove anticamente s’innalzavano le famose terme ossia i bagni dell’imperatore Diocleziano. Il sommo pontefice Pio IV diede incarico a Michelangelo Buonarroti che col vasto suo ingegno seppe trasformare in chiesa una parte di quei superbi edifici. In un salone delle terme esisteva già una chiesetta dedicata a san Cirillo martire. Questa fu rinchiusa nella nuova chiesa, che il Pontefice dedicò a santa Maria degli Angeli, per compiacere il duca e re di Sicilia devotissimo degli Angeli, che cooperò assai alla sua edificazione.

Nel giorno della stazione quaresimale la chiesa è ornata con speciale eleganza, e si espongono alla pubblica venerazione le reliquie più insigni. In una cappella accanto all’altare maggiore era posto il reliquiario con moltissime reliquie tra le quali abbiamo notato i corpi di san Prospero, san Fortunato, san Cirillo, inoltre la testa di san Giustino e di san Massimo martiri e di moltissimi altri. Appagata così la nostra devozione siamo giunti a casa verso le sei assai stanchi e con buon appetito.

Santa Maria della Quercia
Domenica 14 marzo abbiamo celebrato in casa, poi siamo andati a visitare un oratorio, secondo le indicazioni avute dal marchese Patrizi. La chiesa dove si radunano i giovani si chiama S. Maria della Quercia. Eccone l’origine, che risale ai tempi di Giulio II. Un’immagine di Maria era stata dipinta su una tegola da un certo Battista Calvaro, che la pose sopra una quercia entro una sua vigna a Viterbo. Questa immagine rimase nascosta sessant’anni, fino a quando nel 1467 cominciò a manifestarsi con tante grazie e miracoli che i fedeli che l’andavano a visitare, con le loro offerte innalzarono una chiesa e un monastero. Papa Giulio II desiderò che anche a Roma ci fosse un tempio dedicato a Maria della Quercia, che è quello di cui parliamo.
Entrati in chiesa, e arrivati nella spaziosa sacrestia, fummo rallegrati dalla vista di una quarantina di giovanetti. Per la vivacità del comportamento assomigliano molto ai birichini del nostro oratorio. Le loro sacre funzioni si compiono tutte al mattino. Messa, confessione, catechismo e una breve istruzione è quanto si fa per loro […]

Dopo mezzogiorno i giovani vanno a S. Giovanni dei Fiorentini, un altro oratorio dove c’è solo ricreazione senza funzioni di chiesa. Ci siamo andati ed abbiamo visto circa un centinaio di giovani che si divertivano a più non posso. I loro giuochi erano la tombola e la campana, conosciute anche da noi. Praticano pure il giuoco del buco che consiste in cinque buchi alquanto capaci entro cui si mettono due castagne o altra cosa. Da una distanza di sei passi si fa rotolare una boccia. Chi riesce a farla entrare in uno dei buchi guadagna quello che c’è dentro. Ci dispiacque molto che essi non avessero altro che la ricreazione. Se ci fosse qualche prete in mezzo a loro, costui potrebbe fare del bene alle loro anime, perché ce n’è grande bisogno. Tanto più ci rincrebbe in quanto abbiamo trovato in costoro buone disposizioni. Parecchi provavano piacere a dialogare con noi, baciando più volte la mano tanto a me che a Rua, il quale suo malgrado era costretto ad acconsentire […]

Tornati a casa ricevemmo la visita di monsignor Merode, maestro di camera di Sua Santità. Dopo alcuni convenevoli, costui mi annunciò che il Santo Padre mi invitava a predicare gli esercizi spirituali alle detenute nelle carceri presso S. Maria degli Angeli alle terme di Diocleziano. Ogni desiderio del Papa è per me un comando e quindi accettai con vero piacere […]

Al carcere femminile
Alle due pomeridiane mi recai dalla superiora del carcere per combinare il giorno e l’ora in cui iniziare la predicazione. Ella mi disse:
Se per lei va bene può cominciare subito, poiché le donne sono in chiesa e non c’è nessuno che predichi. Così ho cominciato subito e la settimana fu quasi interamente dedicata a questo ministero. La casa correzionale si chiama Alle Terme di Diocleziano perché è situata nel medesimo luogo dove erano le terme di quel famoso imperatore. Vi erano ospitate 260 detenute colpevoli di gravi delitti e condannate alla galera […]. Gli esercizi andarono con soddisfazione. La predicazione semplice e popolare che usiamo tra noi riuscì fruttuosa in questo carcere. Al sabato, dopo l’ultima predica, la madre superiora mi annunziò con gran piacere che nessuna delle condannate aveva omesso di accostarsi ai Sacramenti.

Due episodi
Un piacevole episodio accadde al Santo Padre in questa settimana. Il conte Spada, andò a fargli visita, e s’intavolò questa conversazione:
– Santità, io vorrei chiederle un ricordo di questa visita.
– Chiedete quel che volete e cercherò di accontentarvi.
– Vorrei qualcosa di straordinario.
– Bene, domandate pure.
– Santità, desidererei per ricordo la vostra tabacchiera.
– Ma è piena di un tabacco di qualità infima.
– Non importa; la terrò molto cara.
– Prendetela pure, ve ne faccio un dono con piacere
. Il conte Spada partì più contento di quella tabacchiera che di un gran tesoro. Essa è semplice, di corno di bufalo, unita con due anelli di ottone e non vale quattro soldi, ma è preziosissima per la provenienza. Il buon conte la mostra ai suoi amici come un oggetto degno di venerazione […]

Un altro aneddoto mi fu raccontato di questo venerando Pontefice. L’anno scorso mentre il Santo Padre viaggiava attraverso i suoi stati si trovò nelle vicinanze di Viterbo. Una ragazzina con un fascio di legna, vedendo che la vettura pontificia s’era fermata, pensò che quei signori volessero comperare la sua fascina. Corse verso di loro:
Signore, disse al Santo Padre, compratela, il legno è molto secco.
Non ne abbiamo bisogno, rispose il Papa.
– Comperatela ve la do per tre baiocchi.
Prendi i tre baiocchi e tieni pure la tua fascina. Il Santo Padre le diede tre scudi, quindi si apprestò a risalire in vettura. Ma la ragazzina voleva che il Santo Padre prendesse la sua fascina.
Prendetela, sarete contenti; nella vostra vettura c’è posto abbondante. Mentre il Papa e la sua corte ridevano di un tale affare, la madre della ragazza, che lavorava in un campo vicino, accorse gridando:
Santo Padre, Santo Padre, perdonate; questa povera ragazza è mia figlia. Essa non vi conosce. Abbiate pietà di noi che siamo in grande miseria. Il Papa aggiunse ancora sei scudi e continuò il cammino […]

San Paolo fuori le Mura
Il giorno 22 marzo domenica Don Bosco andò dal cardinale vicario, l’eminentissimo Costantino Patrizi […] Uscito dal Vicariato, peregrinò fino a S. Paolo fuori le Mura per venerare il sepolcro del grande Apostolo delle Genti e ammirare le meraviglie di quel tempio immenso. Dopo un miglio di strada, arrivò al celebre luogo denominato Ad Aquas Salvias, dove san Paolo diede il sangue per Gesù Cristo. Proprio in questo punto, in cui sono tre miracolose sorgenti d’acqua, sgorgate nelle zolle sulle quali fece tre balzi il capo troncato del santo Apostolo, è stata costruita una chiesa. Don Bosco pregò anche nella chiesa vicina di Sancta Maria Scala Coeli, di forma ottagonale, edificata sul cimitero di san Zenone, un tribuno che subì il martirio sotto Diocleziano, assieme a 10.203 suoi commilitoni […]

Il Colosseo
Il 23 marzo il suo sguardo sbalordito contemplò le gigantesche rovine dell’anfiteatro Flavio o Colosseo, di forma ovale con 527 metri di circonferenza esterna, e alto ancora in alcuni tratti cinquanta metri. Nei tempi del suo splendore era coperto di marmi, ornato di colonnati, di centinaia di statue, di obelischi, di quadrighe di bronzo; e nell’interno sosteneva tutto all’intorno immense gradinate, che potevano contenere circa 200.000 persone, per assistere ai combattimenti delle bestie feroci e dei gladiatori, e alle stragi di migliaia e migliaia di martiri. Don Bosco entrò nell’arena degli spettacoli che misura 241 metri di circonferenza […]

San Clemente
Il 24 Don Bosco si recò alla basilica di S. Clemente per venerare le reliquie del quarto papa dopo san Pietro, e quelle di sant’Ignazio martire, vescovo di Antiochia; come anche per ammirare l’architettura dell’antichissima chiesa a tre navate. In quella di mezzo, davanti all’altare della Confessione, un recinto di marmo bianco delimita il coro per il clero minore. È dotato di due pulpiti, uno per il canto del vangelo, presso il quale si alza la colonnina del cero pasquale, e l’altro per la lettura dell’epistola. A fianco di quest’ultimo era posto il leggio per i cantori e lettori delle profezie e degli altri libri delle scritture; intorno all’abside le sedi dei sacerdoti, e, in fondo al centro su tre gradini, la cattedra episcopale […].

Da qui Don Bosco procedette verso la chiesa dei Quattro Coronati, per visitare i sepolcri dei martiri Severo, Severino, Carpoforo e Vittorino, uccisi sotto Diocleziano. Passò poi a S. Giovanni davanti alla Porta Latina, presso la quale sorge una cappella sul luogo dove san Giovanni Evangelista fu immerso nella caldaia d’olio bollente; da lì s’inoltrò fino alla chiesina del Quo Vadis, così chiamata perché in quel punto il Signore apparve a san Pietro che usciva da Roma per sottrarsi alla persecuzione:
Signore, dove vai? gridò l’Apostolo stupito. E Gesù gli rispose:
Vengo per essere crocifisso un’altra volta. San Pietro comprese, e ritornò a Roma dove lo aspettava il martirio. Da questo tempietto Don Bosco rifece la strada, dopo aver dato uno sguardo alla via Appia, lungo la quale si contano moltissimi mausolei dei tempi del paganesimo, che ricordano la fine di ogni grandezza umana.

Don Bosco… salesiano!
Una scena graziosa accadde la mattina del 25 marzo. Don Bosco, passato il Tevere, vide in una piccola piazza una trentina di ragazzi che si divertivano. Senz’altro si portò in mezzo a loro, che, sospesi i giochi, lo guardavano meravigliati. Egli alzò allora la mano tenendo fra le dita una medaglia, poi esclamò:
Siete troppi e mi rincresce di non aver tante medaglie per regalarne una a ciascuno di voi. Quelli, fattosi coraggio, protendendo le mani gridavano a gran voce:
Non importa, non importa… a me, a me! Don Bosco soggiunse:
– Ebbene, non avendone per tutti, questa medaglia voglio regalarla al più buono. Chi è di voi il più buono?
– Sono io, sono io! schiamazzarono tutti insieme
. Egli continuò:
– Come posso fare io, se siete tutti ugualmente buoni? Allora la darò al più discolo! Chi fra di voi è il più discolo?
– Sono io, sono io!
risposero con grida assordanti.
Il marchese Patrizi e i suoi amici, ad una certa distanza, sorridevano commossi e stupiti nel vedere Don Bosco trattare così famigliarmente con quei ragazzi, che per la prima volta aveva incontrati; ed esclamavano:
– Ecco un altro san Filippo Neri, amico della gioventù. Don Bosco infatti, come se fosse stato un amico già conosciuto da quei fanciulli, continuò ad interrogarli, se avessero già ascoltata la Messa, in quale chiesa solessero andare, se frequentassero gli oratori che erano in quelle parti […] Il dialogo era animato. Don Bosco, dopo averli esortati ad essere sempre buoni cristiani, promise che sarebbe passato altra volta per quella piazza e avrebbe regalato una medaglia ciascuno; poi, salutatili affettuosamente, tornò dai suoi accompagnatori mostrando la medaglia. Non aveva dato nulla ai ragazzi, eppure li aveva lasciati contenti.

Santo Stefano Rotondo
Il 26 marzo Don Bosco ritornò al Celio nella spaziosa chiesa di S. Stefano Rotondo, chiamata così per la sua forma. Il cornicione circolare è sostenuto da 56 colonne. Tutt’intorno alle pareti sono dipinte le scene degli atroci supplizi coi quali furono straziati i martiri. È ornata da mosaici del secolo VII, che rappresentano Gesù crocifisso, con alcuni santi, e conserva i corpi di due confessori della fede: san Primo e san Feliciano. Da lì D. Bosco passò a S. Maria in Dominica, o della Navicella, per una barca di marmo che sta sulla piazza antistante. Ha tre navate spartite da 18 colonne e contiene mosaici del secolo IX. Fra questi la Vergine è al posto d’onore fra molti angeli e ai suoi piedi è inginocchiato papa Pasquale […]

Intanto il Santo Padre aveva espresso il desiderio che Don Bosco assistesse in Vaticano al devoto e magnifico spettacolo delle funzioni della Settimana Santa. Quindi aveva dato incarico a monsignor Borromeo di invitarlo a nome suo, e di procurargli un posto dal quale potesse assistere comodamente ai sacri riti. Il monsignore lo fece ricercare tutto il giorno senza esito. Finalmente, a ora tardissima, il messo lo trovò a casa De Maistre dov’era tornato dopo una giornata di visite. Dicendo che veniva per ordine del Papa, fu introdotto e presentò a Don Bosco la lettera d’invito, con la quale era ammesso a ricevere la palma benedetta dalle mani stesse del Papa. Don Bosco la lesse subito ed esclamò che sarebbe andato con gran piacere.

Pasqua Romana di don Bosco. La Domenica delle Palme
Domenica 28 marzo, col chierico Rua, entrò nella basilica di San Pietro molto prima che incominciassero le funzioni. Il conte Carlo De Maistre lo accompagnò al suo posto, nella tribuna dei diplomatici. Egli era attentissimo poiché conosceva l’importanza delle cerimonie della Chiesa. Al suo fianco stava un milord inglese protestante, meravigliato di tanta solennità. A un certo punto un cantore della cappella Sistina eseguì un assolo così bene che Don Bosco ne restò commosso fino alle lacrime e quel milord volgendosi a lui esclamò in latino, perché in altra lingua non sapeva come farsi intendere:
Post hoc paradisus! Quel signore dopo qualche tempo si convertì al cattolicesimo non solo, ma divenne prete e vescovo. Benedette le palme, a turno il corpo diplomatico sfilò davanti al Pontefice, e ogni ambasciatore e ministro ricevette la palma dalle sue mani. Anche Don Bosco e il chierico Rua s’inginocchiarono ai piedi del Papa e ricevettero la palma. Così volle Pio IX: non era forse Don Bosco ambasciatore di Dio? Il chierico Rua, ritornato presso i Rosminiani, regalò la sua al padre Pagani, che la gradì molto […]

Don Bosco caudatario
Il cardinale Marini, uno dei due assistenti al trono, perché Don Bosco potesse assistere a tutte le funzioni della settimana santa, lo prese come caudatario. Così egli in veste violacea stette quasi a fianco del Papa per tutto il tempo, e poté gustare i canti gregoriani e le musiche dell’Allegri e del Palestrina.
Il giovedì santo pontificò il cardinale Mario Mattei, essendo il più anziano dei vescovi suburbicari, invece del cardinale decano che era impedito. D. Bosco seguì il Pontefice che processionalmente portava il SS. Sacramento nella cappella Paolina per riporlo dentro l’urna appositamente preparata; lo accompagnò fin sulla loggia vaticana dalla quale il Papa benedice Roma e il mondo; assistette alla lavanda dei piedi fatta dal Pontefice a tredici sacerdoti, e partecipò alla loro cena commemorativa, servita dallo stesso Vicario di Gesù Cristo.

La benedizione Urbi et Orbi
[…] Il 4 aprile le salve d’artiglieria di Castel S. Angelo annunciavano il giorno di Pasqua. Pio IX scese in basilica verso le dieci per il pontificale. Subito dopo, preceduto dal corteo di vescovi e cardinali, si recò alla Loggia per la benedizione Urbi et Orbi. Don Bosco col cardinale Marini ed un vescovo restò per un istante vicino al davanzale ricoperto da un magnifico drappo, sul quale erano stati deposti tre Triregni d’oro. Il cardinale disse a Don Bosco:
Osservate quale spettacolo! Don Bosco girava sulla piazza gli occhi attoniti. Una folla di 200.000 persone stava accalcata colla faccia rivolta alla Loggia. I tetti, le finestre, i terrazzi di tutte le case erano occupati. L’esercito francese riempiva una parte dello spazio compreso tra l’obelisco e la scalinata di San Pietro. I battaglioni della fanteria pontificia stavano schierati a destra e a sinistra. Indietro, la cavalleria e l’artiglieria. Migliaia di carrozze erano ferme alle due ali della piazza, vicino ai portici del Bernini, e nel fondo presso le case. Specialmente su quelle a nolo stavano in piedi gruppi di persone che parevano dominare la piazza. Era un vociare clamoroso, un calpestio di cavalli, una confusione incredibile. Nessuno può farsi un’idea di tale spettacolo.

Intrappolato
Don Bosco, che aveva lasciato il Papa in basilica mentre era in venerazione delle reliquie insigni, credeva che avrebbe tardato a comparire. Assorto nel contemplare tanta gente di ogni nazione, non s’accorse del sopraggiungere della sedia gestatoria su cui sedeva il Papa. Si venne a trovare in una posizione difficile; stretto fra la sedia e la balaustra, poteva muoversi appena; tutto intorno stavano pigiati cardinali, vescovi, cerimonieri e sediari, sicché non scorgeva alcun varco per uscirne. Rivolgere il viso al Papa era sconvenienza; voltargli le spalle inciviltà; rimanere nel centro del balcone una ridicolaggine. Non potendo far di meglio, si volse di fianco; allora la punta di un piede del Papa arrivò a posarsi sulla sua spalla.

In quel mentre un silenzio solenne regnava sulla grande piazza tanto che si sarebbe potuto udire il ronzio di una mosca. Gli stessi cavalli stavano immobili. Don Bosco, per nulla turbato, attento ad ogni minimo particolare, osservò che un solo nitrito, e il suono di un orologio che batteva le ore, si fece udire mentre il Papa recitava le preghiere di rito. Egli intanto, visto che il pavimento della Loggia era sparso di fronde e fiori, si curvò, e raccogliendo alcuni fiori li mise tra le pagine del libro che aveva in mano. Finalmente Pio IX si alzò in piedi per benedire: aperse le braccia, sollevò al cielo le mani, le stese sulla moltitudine che curvò la fronte, e la sua voce nel cantare la formula della benedizione, sonora, potente, solenne si udiva al di là di piazza Rusticucci e dalla soffitta del palazzo degli scrittori della Civiltà Cattolica.

La folla rispose con una immensa ovazione. Allora il cardinale Ugolini lesse in latino il Breve dell’indulgenza plenaria e subito dopo il cardinale Marini lo ripeté in lingua italiana. Don Bosco si era inginocchiato, e quando si rialzò il corteo papale era ormai scomparso. Tutte le campane suonavano a festa, tuonava il cannone da Castel Sant’Angelo, le musiche militari facevano risuonare le loro trombe. Il cardinale Marini, accompagnato dal caudatario, discese e andò verso la sua carrozza. Appena questa si mosse, Don Bosco si sentì preso dal male prodotto da quel moto che gli rivoltava lo stomaco; non potendo più resistere, manifestò al cardinale quel suo incomodo. Per suo consiglio salì in cassetta col cocchiere, ma il malessere non diminuì, allora scese per camminare a piedi. Essendo in veste violacea, sarebbe stato oggetto di meraviglia o di scherno, se avesse attraversato Roma così; perciò il segretario gentilmente scese dalla carrozza e lo accompagnò a palazzo […].

Il ricordo del Papa
Don Bosco il 6 aprile ritornò a un’udienza particolare di Pio IX col chierico Rua e il teologo Murialdo, ammesso in Vaticano per interposizione dello stesso Don Bosco. Entrarono nell’anticamera alle nove di sera, e subito Don Bosco venne introdotto. Il Papa appena lo ebbe innanzi gli disse con viso serio:
– Abate Bosco, dove vi siete andato a ficcare il giorno di Pasqua durante la benedizione papale? Lì, davanti al Papa, e tenendo la spalla sotto il suo piede come se il Pontefice avesse bisogno di essere sostenuto da Don Bosco.
– Santo Padre
, rispose tranquillo ed umile, sono stato colto di sorpresa e chiedo perdono se l’ho in qualche modo offesa!
– E aggiungete ancora l’affronto di chiedermi se mi avete offeso? Don Bosco guardò il Papa e gli parve che fingesse: un sorriso accennava a comparirgli sulle labbra. Ma che cosa vi è saltato in testa di raccogliere fiori in quel momento? C’è voluta tutta la serietà di Pio IX per non scoppiare dalle risa. […]
Ora, Beatissimo Padre, supplicò Don Bosco, abbiate la bontà di suggerirmi una massima che io possa ripetere ai miei giovani, come ricordo del Vicario di Cristo.
– La presenza di Dio! rispose il Papa. Dite ai vostri giovani che si regolino sempre con questo pensiero!… E voi non avete nulla da domandarmi? Certamente desiderate qualche cosa anche voi.
– Santo Padre, Vostra Santità si è degnata di concedermi quanto ho domandato, ora non mi resta che ringraziarla dal più intimo del cuore.
– Eppure, eppure, voi desiderate ancora qualche cosa.
Al che Don Bosco stava là come sospeso senza proferire parola. Il Pontefice soggiunse:
– Ma come? Non desiderate di fare stare allegri i vostri giovani, quando sarete ritornato tra loro?
– Santità, questo sì.
– Allora aspettate.
Pochi istanti prima erano entrati in quella stanza il teologo Murialdo, il chierico Rua e don Cerutti di Varazze, cancelliere nella Curia Arcivescovile di Genova. Essi rimasero stupiti della famigliarità con la quale il Papa trattava Don Bosco e di ciò che videro in quel momento. Il Papa aveva aperto lo scrigno, ne aveva tirato fuori una manciata di monete d’oro e senza contarle le aveva porte a Don Bosco dicendo:
– Prendete e date poi una buona merenda ai vostri ragazzi. Ognuno può immaginare l’impressione che fece su Don Bosco quest’atto di bontà di Pio IX, il quale con grande amorevolezza si rivolgeva anche agli ecclesiastici sopravvenuti, benediceva le corone, i crocifissi ed altri oggetti di devozione che gli presentavano, e dava a tutti una medaglia ricordo.

La sfida educativa di don Bosco
Fra i cardinali che passò ad ossequiare vi fu l’Eminentissimo Tosti, per invito del quale aveva parlato ai giovani dell’Ospizio San Michele. Costui, soddisfatto della cortesia di Don Bosco, essendo l’ora della sua passeggiata, volle averlo per compagno, così tutti e due salirono in carrozza. Si incominciò a parlare del sistema più adatto all’educazione dei giovani. Don Bosco si era andato persuadendo che gli alunni di quell’ospizio non avevano famigliarità coi superiori, anzi li temevano: cosa poco piacevole, poiché gli educatori erano sacerdoti. Perciò diceva:
– Vede, Eminenza, è impossibile educare bene i giovani se questi non hanno confidenza nei superiori.
– Ma come, replicava il cardinale, si può guadagnare questa confidenza?
– Facendo in modo che essi si avvicinino a noi, togliendo ogni causa che li allontani.
– E come si può fare per avvicinarli a noi?
– Avvicinandoci noi ad essi, cercando di adattarci ai loro gusti, facendoci simili a loro. Vuole che facciamo una prova? Mi dica: in qual punto di Roma si può trovare un bel numero di ragazzi?
– In Piazza Termini e in Piazza del Popolo, rispose il cardinale.
– Ebbene, andiamo in Piazza del Popolo.

Il cardinale passò l’ordine al carrozziere. Appena arrivati, Don Bosco scese di carrozza, e il prelato rimase ad osservarlo. Visto un crocchio di giovanetti che giocavano, si avvicinò, ma i birichini fuggirono. Allora li chiamò con le buone maniere e quelli dopo qualche esitazione si avvicinarono. Don Bosco regalò qualche cosuccia, domandò notizie delle loro famiglie, chiese che gioco stavano facendo e li invitò a continuare, fermandosi prima a guardarli, poi cominciando a prendervi parte. Allora anche altri che stavano osservando da lontano accorsero numerosissimi dai quattro angoli della piazza intorno al prete, che tutti accoglieva amorevolmente ed aveva per tutti una buona parola e un regaluccio. Chiedeva se fossero buoni, se dicessero le orazioni, se andassero a confessarsi. Quando volle allontanarsi, lo seguirono per un buon tratto, lasciandolo solo quando egli risalì in carrozza. Il cardinale era meravigliato.
– Ha visto?
– Avevate ragione!
esclamò il cardinale […]

Le ultime visite
Le ultime visite di D. Bosco furono riservate alla Confessione di San Pietro ed alle Catacombe. Dopo aver pregato nella basilica di S. Sebastiano, viste due delle frecce che ferirono il santo tribuno e la colonna a cui fu legato, scese nelle gallerie sotterranee che custodirono le ossa di migliaia e migliaia di martiri, e dove san Filippo Neri tante notti vegliò in preghiera. Passò poi alle vicine Catacombe di san Callisto. Qui lo attendeva il cavaliere G. B. De Rossi, che le aveva scoperte, al quale lo aveva presentato monsignor di San Marzano.
Chi entra in quei luoghi prova una tale commozione, che gli resta per tutta la vita. Don Bosco era assorto in santi pensieri nel percorrere quei sotterranei, ove i primi cristiani, attraverso la messa, le preghiere in comune, il canto dei salmi e delle profezie, la comunione eucaristica, l’ascolto dei vescovi e dei papi, avevano trovato la forza necessaria per affrontare il martirio. È impossibile contemplare ad occhi asciutti quei loculi che avevano rinchiuso i corpi insanguinati o bruciati di tanti eroi della fede, le tombe di ben quattordici papi che avevano data la vita per testimoniare ciò che insegnavano, e la cripta di santa Cecilia.

Don Bosco osservava gli antichissimi affreschi che ritraevano Gesù Cristo e l’Eucarestia; e le immagini che rappresentavano lo sposalizio di Maria SS. con san Giuseppe, l’Assunzione di Maria in cielo, la Madre di Dio col bambino in braccio o sulle ginocchia. Era incantato dal sentimento di modestia che splendeva in queste immagini, nelle quali l’arte cristiana primitiva aveva saputo riprodurre la bellezza incomparabile dell’anima e dell’ideale altissimo della perfezione morale che si deve attribuire alla Vergine. Non mancavano altre figure di santi e di martiri. Don Bosco uscì dalle catacombe alle 6 della sera. Vi era entrato alle 8 del mattino […]

Verso casa
Don Bosco il 14 aprile partì da Roma col chierico Rua, lieto che fossero state gettate le basi della Società di San Francesco di Sales […] Prese dunque una carrozza a nolo, fece una breve fermata nel paese di Palo dove trovò l’albergatore perfettamente libero dalle febbri: la sua guarigione era stata istantanea. Questi non dimenticherà più l’accaduto, e verso il 1875 o 76, capitato a Genova per ragioni di commercio, volle continuare il suo viaggio fino a Torino. Chiesto e saputo per telegrafo che Don Bosco era all’Oratorio, ci andò; ma egli in quel giorno era a pranzo dal signor Occelletti Carlo. Allora si recò là a trovarlo, facendogli feste senza fine. Il signor Occelletti ricordò sempre con grande piacere il racconto da lui udito di quella guarigione. Arrivato a Civitavecchia e fatta una visita al delegato pontificio, Don Bosco andò al porto per imbarcarsi.

Le onde questa volta furono calme e bello il tempo, sicché egli poté scendere a Livorno, intrattenersi con qualche amico e visitare alcune chiese. Ripreso il mare sul far della sera, don Rua ricorda come la nave giungesse nel porto di Genova al sorgere di una splendida aurora che illuminava il magnifico panorama della superba città. Don Bosco, appena messo piede in terra, si recò al collegio degli Artigianelli, dove lo aspettava don Montebruno e il signor Giuseppe Canale. Dopo mezzogiorno salì in treno. Nell’attraversare la città aveva provato una gradita sorpresa: quando le campane suonarono l’Angelus, molte persone per le vie e le piazze si scoprivano il capo, e gli stessi facchini si erano alzati dalle loro panche per recitare la preghiera. Più volte egli raccontò questo per edificazione dei suoi alunni. Giunse a Torino il 16 di aprile, accolto dai giovani con tanta festa ed affetto, che nessun padre potrebbe augurarsene di più dai propri figli.




Don Pietro Ricaldone rinasce a Mirabello Monferrato

Don Pietro Ricaldone (Mirabello Monferrato, 27 aprile 1870 – Roma, 25 novembre 1951) fu il quarto successore di don Bosco alla guida dei Salesiani, uomo di vasta cultura, profonda spiritualità e grande amore per i giovani. Nato e cresciuto tra le colline monferrine, portò sempre con sé lo spirito di quella terra, traducendolo in un impegno pastorale e formativo che lo avrebbe reso figura di rilievo internazionale. Oggi, gli abitanti di Mirabello Monferrato vogliono farlo tornare nelle loro terre.

Il Comitato Don Pietro Ricaldone: rinascita di un’eredità (2019)
Nel 2019, un gruppo di ex allievi e ex allieve, storici e appassionati di tradizioni locali ha dato vita al Comitato Don Pietro Ricaldone a Mirabello Monferrato. L’obiettivo – semplice e ambizioso allo stesso tempo – è stato fin dall’inizio quello di riportare la figura di don Pietro nel cuore del paese e dei giovani, perché la sua storia e la sua eredità spirituale non vadano perdute.

Per preparare il 150° anniversario della nascita (1870–2020), il Comitato ha scandagliato l’Archivio Storico Comunale di Mirabello e l’Archivio Storico Salesiano, rinvenendo lettere, appunti e antichi volumi. Da questo lavoro è nata una biografia illustrata, pensata per lettori di ogni età, in cui la personalità di Ricaldone emerge in forma chiara e avvincente. Fondamentale, in questa fase, è stata la collaborazione con don Egidio Deiana, studioso di storia salesiana.

Nel 2020 era prevista una serie di eventi – mostre fotografiche, concerti, spettacoli teatrali e circensi – tutti incentrati sul ricordo di don Pietro. Sebbene la pandemia abbia costretto a riprogrammare gran parte dei festeggiamenti, nel luglio dello stesso anno si è svolto un evento commemorativo con una mostra fotografica sulle tappe della vita di Ricaldone, una animazione per bambini con laboratori creativi e una celebrazione solenne, alla presenza di alcuni Superiori Salesiani.
Quell’incontro ha segnato l’inizio di una nuova stagione di attenzione al territorio mirabellese.

Oltre il 150°: il concerto per il 70° anniversario della morte
L’entusiasmo per il recupero della figura di don Pietro Ricaldone ha portato il Comitato a prolungare la propria attività anche dopo il 150° anniversario.
In vista del 70° anniversario della morte (25 novembre 1951), il Comitato ha organizzato un concerto dal titolo “Affrettare l’alba radiosa del giorno sospirato”, frase tratta dalla circolare di don Pietro sul Canto Gregoriano del 1942.
In piena Seconda Guerra Mondiale, don Pietro – allora Rettore Maggiore – scrisse una celebre circolare sul Canto Gregoriano in cui sottolineava l’importanza della musica come via privilegiata per ricondurre i cuori degli uomini alla carità, alla mitezza e soprattutto a Dio: “A taluno potrà causare meraviglia che, in tanto fragore di armi, io v’inviti ad occuparvi di musica. Eppure penso, anche prescindendo da allusioni mitologiche, che questo tema risponda pienamente alle esigenze dell’ora che volge. Tutto ciò che possa esercitare efficacia educativa e ricondurre gli uomini a sensi di carità e mitezza e soprattutto a Dio, dev’essere da noi praticato, diligentemente e senza indugio, per affrettare l’alba radiosa del giorno sospirato”.

Passeggiate e radici salesiane: la “Passeggiata di don Bosco”
Pur essendo nato come omaggio a don Ricaldone, il Comitato ha finito per diffondere nuovamente anche la figura di don Bosco e di tutta la tradizione salesiana, di cui don Pietro è stato erede e protagonista.
A partire dal 2021, ogni seconda domenica di ottobre, il Comitato promuove la “Passeggiata di Don Bosco”, riproponendo il pellegrinaggio che don Bosco compì con i ragazzi da Mirabello a Lu Monferrato nel 12–17 ottobre 1861. In quei cinque giorni si progettarono i dettagli del primo collegio salesiano fuori Torino, affidato al Beato Michele Rua con don Albera tra gli insegnanti. Anche se l’iniziativa non riguarda direttamente don Pietro, ne sottolinea le radici e il legame con la tradizione salesiana locale che egli stesso ha portato avanti.

Ospitalità e scambi culturali
Il Comitato ha favorito l’accoglienza di gruppi di giovani, scuole professionali e chierici salesiani da tutto il mondo. Alcune famiglie offrono ospitalità gratuita, rinnovando la fraternità tipica di don Bosco e di don Pietro. Nel 2023 ha toccato Mirabello un numeroso gruppo della Crocetta, mentre ogni estate arrivano gruppi internazionali accompagnati da don Egidio Deiana. Ogni visita è un dialogo tra memoria storica e gioia dei giovani.

Il 30 marzo 2025, quasi cento capitolari salesiani hanno fatto tappa a Mirabello, sui luoghi in cui don Bosco aprì il suo primo collegio fuori Torino e dove don Pietro visse i suoi anni formativi. Il Comitato, insieme alla Parrocchia e alla Pro Loco, ha organizzato l’accoglienza e realizzato un video divulgativo sulla storia salesiana locale, apprezzato da tutti i partecipanti.

Le iniziative continuano e oggi il Comitato, guidato dal suo presidente, collabora alla creazione del Cammino Monferrino di Don Bosco, un itinerario spirituale di circa 200 km attraverso le vie autunnali percorse dal Santo. L’obiettivo è ottenere il riconoscimento ufficiale a livello regionale, ma anche offrire ai pellegrini un’esperienza formativa e di evangelizzazione. Le passeggiate giovanili di don Bosco, infatti, erano esperienze di formazione ed evangelizzazione: lo stesso spirito che don Pietro Ricaldone avrebbe poi difeso e promosso durante tutto il suo rettorato.

La missione del Comitato: tenere viva la memoria di don Pietro
Dietro a ogni iniziativa c’è la volontà di far emergere l’opera educativa, pastorale e culturale di don Pietro Ricaldone. I fondatori del Comitato custodiscono ricordi personali di infanzia e desiderano trasmettere alle nuove generazioni i valori di fede, cultura e solidarietà che animarono il sacerdote mirabellese. In un’epoca in cui tanti punti di riferimento vacillano, riscoprire il cammino di don Pietro significa offrire un modello di vita capace di illuminare il presente: “Là dove passano i Santi, Dio cammina con loro e niente è più come prima” (San Giovanni Paolo II).
Il Comitato Don Pietro Ricaldone si fa portavoce di questa eredità, confidando che la memoria di un grande figlio di Mirabello continui a illuminare la via per le generazioni che verranno, tracciando un sentiero saldo fatto di fede, cultura e solidarietà.




San Domenico Savio. I luoghi della fanciullezza

San Domenico Savio, il “piccolo grande santo”, visse la sua breve ma intensa fanciullezza tra le colline del Piemonte, in luoghi oggi carichi di memoria e spiritualità. In occasione della sua beatificazione nel 1950, la figura di questo giovane discepolo di Don Bosco fu celebrata come simbolo di purezza, fede e dedizione evangelica. Ripercorriamo i luoghi principali della sua infanzia — Riva presso Chieri, Morialdo e Mondonio — attraverso testimonianze storiche e racconti vividi, rivelando l’ambiente familiare, scolastico e spirituale che ha forgiato il suo cammino verso la santità.

            L’Anno Santo 1950 fu anche quello della Beatificazione di Domenico Savio, avvenuta il 5 marzo. Il quindicenne discepolo di don Bosco era il primo santo laico «confessore» a salire sugli altari in così giovane età.
            Quel giorno la Basilica di San Pietro era gremita di giovani che testimoniavano, con la loro presenza a Roma, una giovinezza cristiana tutta aperta ai più sublimi ideali del Vangelo. Era trasformata, a detta della Radio Vaticana, in un immenso e rumoroso Oratorio Salesiano. Quando dalla raggiera del Bernini cadde il velario che copriva la figura del nuovo Beato, da tutta la basilica si levò un applauso frenetico e l’eco raggiunse la piazza, dove veniva scoperto l’arazzo riproducente il Beato dalla Loggia delle Benedizioni.
Il sistema educativo di don Bosco riceveva quel giorno il suo più alto riconoscimento. Abbiamo voluto rivisitare i luoghi della fanciullezza di Domenico, dopo esserci rilette le dettagliate informazioni di don Michele Molineris in quella Nuova Vita di Domenico Savio, in cui egli descrive con la sua nota serietà di documentazione ciò che le biografie di San Domenico Savio non dicono.

A Riva presso Chieri
            Eccoci anzitutto a San Giovanni di Riva presso Chieri, la borgata dove il 2 aprile 1842 nacque il nostro «piccolo grande Santo» da Carlo Savio e Brigida Gaiato, secondo di dieci figli, ereditando dal primo, sopravvissuto solo 15 giorni alla nascita, nome e primogenitura.
            Il padre, si sa, proveniva da Ranello, frazione di Castelnuovo d’Asti, e da giovane era andato ad abitare con lo zio Carlo, fabbro a Mondonio, in una casa sull’attuale via Giunipero, al n. 1, ancora oggi chiamata «ca dèlfré» o casa del fabbro. Là, da «Barba Carlòto» aveva appreso il mestiere. Qualche tempo dopo le sue nozze, contratte il 2 marzo 1840, si era reso indipendente, trasferendosi a San Giovanni di Riva in casa Gastaldi. Affittò un alloggio con locali al pian terreno adatti a cucina, ripostiglio ed officina e camere da letto al primo piano dove si giungeva da una scala esterna oggi scomparsa.
            Gli eredi dei Gastaldi vendettero poi ai Salesiani la casetta ed il cascinale attiguo nel 1978. Ed oggi un moderno Centro di accoglienza giovanile, gestito da exallievi e cooperatori salesiani, dà memoria e nuova vita alla casetta natia di Domenico.

A Morialdo
            Nel novembre del 1843, e cioè quando Domenico non aveva ancora compiuto due anni di età, i Savio, per ragioni di lavoro, si trasferirono a Morialdo, la frazione di Castelnuovo legata al nome di San Giovanni Bosco, nato alla Cascina Biglione, borgata dei Becchi.
            A Morialdo i Savio affittarono alcune camerette presso il portico d’entrata del cascinale di proprietà di Viale Giovanna andata sposa a Stefano Persoglio. Tutto il podere venne più tardi venduto dal figlio, Persoglio Alberto, a Pianta Giuseppe e famiglia.
            Anche questo cascinale è ora, in gran parte, proprietà dei Salesiani che, dopo averlo ristrutturato, lo hanno destinato ad incontri per ragazzi e adolescenti e alle visite dei pellegrini. Distante meno di 2 km dal Colle Don Bosco, sito in un ambiente di natura paesana, tra festoni di viti, fertili campi e prati ondulati, con un’aria di letizia in primavera e di nostalgia in autunno quando le foglie ingiallite vengono indorate dai raggi del sole, con un panorama incantevole nelle giornate più belle, quando la catena delle Alpi si distende all’orizzonte dalla vetta del Rosa a ridosso di Albugnano, al Gran Paradiso, al Rocciamelone, giù fino al Monviso, è davvero un posto da visitare e da utilizzare per giornate di intensa vita spirituale, una scuola di santità stile don Bosco.
I Savio rimasero a Morialdo fino al febbraio del 1853, e cioè ben 9 anni e 3 mesi. Domenico, vissuto solo 14 anni eli mesi, passò lì quasi due terzi della sua breve esistenza. Può quindi essere considerato non solo allievo e figlio spirituale di don Bosco, ma anche suo conterraneo.

A Mondonio
            Perché i Savio abbiano lasciato Morialdo, ce lo suggerisce don Molineris. Lo zio fabbro era morto e il papà di Domenico, oltre ai ferri del mestiere, ne poteva ereditare a Mondonio anche la clientela. Probabilmente quella fu la ragione del trasloco, avvenuto però non nella casa di via Giunipero, ma nella parte più bassa del paese, dove presero in affitto dai fratelli Bertello la prima casa a sinistra della strada principale del paese. La casetta consisteva, e consiste ancor oggi, di un pian terreno a due stanze, adattate a cucina e camera da lavoro, e di un piano superiore, sopra la cucina, con due camere da letto e lo spazio sufficiente per un’officina con porta sulla rampa della strada.
            Sappiamo che i coniugi Savio ebbero dieci figli, di cui tre morirono in tenerissima età ed altri tre, tra cui il nostro, non raggiunsero i 15 anni. La madre moriva nel 1871 a 51 anni. Il padre, rimasto solo in casa col figlio Giovanni, dopo avere accasato le tre figlie superstiti, chiese nel 1879 ospitalità a don Bosco e morì poi a Valdocco il 16 dicembre 1891.
A Valdocco, Domenico era entrato il 29 ottobre 1854, rimanendovi, tranne brevi periodi di vacanza, fino al 1° marzo 1857. Moriva otto giorni dopo a Mondonio, nella stanzetta accanto alla cucina, il 9 marzo di quell’anno. La sua permanenza a Mondonio quindi fu in tutto di 20 mesi circa, a Valdocco di 2 anni e 4 mesi.

Ricordi di Morialdo
            Da questa breve scorsa sulle tre case del Savio appare evidente che quella di Morialdo dev’essere la più ricca di memorie. San Giovanni di Riva ricorda la nascita di Domenico, e Mondonio un anno di scuola e la sua santa morte, ma Morialdo ricorda la sua vita in famiglia, in chiesa e a scuola. «Minòt», come egli era lì chiamato, quante cose avrà sentito, visto e imparato da papà e mamma, quanta fede ed amore dimostrato nella chiesetta di San Pietro, quanta intelligenza e bontà alla scuola di don Giovanni Zucca, e quanta allegria e vivacità nei trastulli con i compagni di borgata.
            Fu a Morialdo che Domenico Savio si preparò alla Prima Comunione, fatta poi nella Chiesa parrocchiale di Castelnuovo l‘8 aprile 1849. Fu lì che a soli 7 anni scrisse i «Ricordi» e cioè i propositi della sua Prima Comunione:
            1. Mi confesserò molto sovente e farò la comunione tutte le volte che il confessore me ne darà licenza;
            2. Voglio santificare i giorni festivi;
            3. I miei amici saranno Gesù e Maria;
            4. La morte ma non peccati.
            Ricordi che furono la guida delle sue azioni sino alla fine della vita.
Il contegno, il modo di pensare e di agire di un ragazzo riflettono l’ambiente in cui vive, e soprattutto la famiglia in cui ha passato la sua fanciullezza. Se si vuol quindi capire qualcosa di Domenico, sarà sempre bene riflettere sulla sua vita in quella cascina di Morialdo.

La famiglia
            La sua non era una famiglia di contadini. Il padre era fabbro ferraio e la madre sarta. I suoi genitori non erano di costituzione robusta. I segni della fatica si potevano scorgere sul volto del padre mentre la finezza del tratto distingueva il volto materno. Il papà di Domenico era uomo di iniziativa e di coraggio. La mamma veniva dal non lontano Cerreto d’Asti dove teneva bottega di sarta «e con la sua perizia toglieva a quegli abitanti la noia di scendere a valle a provvedersi di panni». E fece ancora la sarta anche a Morialdo. Lo avrà saputo don Bosco? Curioso, comunque, il suo dialogo col piccolo Domenico che lo era andato a cercare ai Becchi:
— Ebbene, che gliene pare?
— Eh, mi pare che ci sia buona stoffa (in piem.: Eh, m’a smia ch’a-j sia bon-a stòfa!).
— A che può servire questa stoffa?
— A fare un bell’abito da regalare al Signore.
— Dunque, io sono la stoffa: ella ne sia il sarto; mi prenda con lei (in piem.: ch’èmpija ansema a chiel) e farà un bell’abito per il Signore» (OE XI, 185).
            Dialogo impagabile tra due conterranei che si compresero a prima vista. E il loro linguaggio veniva proprio a taglio per il figlio della sarta.
            Quando la mamma morì, il 14 luglio 1871, alle figlie piangenti, il parroco di Mondonio, don Giovanni Pastrone, per consolarle diceva: «Non piangete, perché vostra madre era una santa donna; ed ora è già in Paradiso».
Suo figlio Domenico, che l’aveva preceduta in cielo di parecchi anni, aveva pure detto a lei ed al papà, prima di spirare: «Non piangete, io vedo già il Signore e la Madonna colle braccia aperte che mi aspettano». Queste sue ultime parole, testimoniate da Anastasia Molino, vicina di casa, presente al momento della sua morte, erano il suggello di una vita gioiosa, il segno manifesto di quella santità che la Chiesa riconosceva solennemente il 5 marzo 1950, dandole poi definitiva conferma il 12 giugno 1954 con la sua canonizzazione.

Foto nel frontespizio. La casa ove morì Domenico nel 1857. È una costruzione di tipo rurale risalente probabilmente alla fine del 1600. Ricostruita su di un’altra casa ancor più antica, è uno dei monumenti più cari ai Mondoniesi.




Se la Patagonia deve aspettare… andiamo in Asia

Si ripercorre l’espansione dei missionari salesiani in Argentina nella seconda metà dell’Ottocento, in un Paese aperto ai capitali stranieri e caratterizzato da intensa immigrazione italiana. Le riforme legislative e la carenza di scuole favorirono i progetti educativi di Don Bosco e Don Cagliero, ma la realtà si rivelò più complessa di quanto immaginato in Europa. Un contesto politico instabile e un nazionalismo ostile alla Chiesa si intrecciavano con tensioni religiose anticlericali e protestanti. Vi era inoltre la drammatica condizione degli indigeni, respinti verso sud dalla forza militare. Il ricco carteggio tra i due religiosi mostra come dovettero adeguare obiettivi e strategie di fronte a nuove sfide sociali e religiose, mantenendo però vivo il desiderio di estendere la missione anche in Asia.

Con la missio giuridica ricevuta dal papa, con il titolo e le facoltà spirituali dei missionari apostolici concessi dalla Congregazione di Propaganda Fide, con una lettera di presentazione di don Bosco all’arcivescovo di Buenos Aires, i dieci missionari dopo un mese di viaggio attraverso l’oceano Atlantico, a metà dicembre 1875, arrivarono in Argentina, paese immenso popolato da poco meno di due milioni di abitanti (quattro milioni nel 1895, nel 1914 sarebbero stati otto milioni). Di essa conoscevano a malapena la lingua, la geografia e un po’ di storia.
Accolti con simpatia dalle autorità civili, dal clero locale e da benefattori, vissero inizialmente mesi felici. La situazione nel paese si presentava infatti favorevole, tanto dal punto di vista economico, con grandi investimenti di capitali stranieri, quanto sociale con l’apertura legale (1875) all’immigrazione, soprattutto italiana: 100 000 immigrati, di cui 30 000 nella sola Buenos Aires. Favorevole era anche la congiuntura educativa data dalla nuova legge sulla libertà d’insegnamento (1876) e dal vuoto di scuole per “ragazzi poveri ed abbandonati”, come quelli cui volevano dedicarsi i salesiani.
Difficoltà sorgevano invece dal punto di vista religioso – data la forte presenza di anticlericali, massoni, liberali ostili, inglesi (gallesi) protestanti in alcune zone – e dal modesto spirito religioso di molto clero nativo e immigrato. Analogamente sul versante politico per i sempre incombenti rischi d’instabilità politica, economica e commerciale, per un nazionalismo ostile alla Chiesa cattolica e suscettibilissimo ad ogni influenza esterna e per il problema irrisolto degli indigeni della Pampa e della Patagonia. Il continuo avanzamento della linea di frontiera meridionale infatti li costringeva con la forza ad arretrare sempre più a sud e verso la Cordigliera, quando addirittura non li eliminava o, catturati, non li vendeva come schiavi. Se ne rese subito conto il capospedizione don Cagliero. Due mesi dopo il suo sbarco scriveva: “Gli Indi sono esasperati contro il Governo Nazionale. Vanno per essi armati di Remington, fanno prigionieri uomini, donne, fanciulli, cavalli e pecore […] bisogna pregare Dio che loro mandi missionari per liberarli dalla morte dell’anima e del corpo”.

Dall’utopia del sogno al realismo della situazione
Nel biennio 1876-1877 ebbe luogo una sorta di dialogo a distanza fra don Bosco e don Cagliero: in meno di venti mesi ben 62 loro lettere hanno attraversato l’Atlantico. Don Cagliero in loco s’impegnava ad attenersi alle direttive date da don Bosco sulla base delle lacunose letture a sua disposizione e delle sue ispirazioni dall’Alto, non facilmente decifrabili. Don Bosco a sua volta veniva a sapere dal suo condottiero sul campo come la realtà in Argentina si presentasse diversa da quella pensata in Italia. Il progetto operativo studiato in Torino poteva sì essere condiviso negli obiettivi e nella stessa strategia generale, ma non nelle coordinate geografiche, cronologiche e antropologiche previste. Don Cagliero se ne rendeva perfettamente conto, a differenza di don Bosco che invece continuava instancabilmente ad allargare gli spazi per le missioni salesiane.
Il 27 aprile 1876 infatti annunciava a don Cagliero l’accettazione di un Vicariato Apostolico in India – esclusi dunque gli altri due proposti dalla Santa Sede, in Australia e Cina – da affidare appunto a lui stesso, che dunque avrebbe lasciato ad altri le missioni in Patagonia. Due settimane dopo però don Bosco presentava a Roma la richiesta di erigere un Vicariato Apostolico pure per la Pampa e la Patagonia, che riteneva, erroneamente, territorio nullius [di nessuno] sia civilmente sia ecclesiasticamente. Lo ribadiva nell’agosto successivo firmando il lungo manoscritto La Patagonia e le terre australi del continente americano, redatto assieme a don Giulio Barberis. La situazione era resa ancor più complicata dall’acquisizione da parte del governo argentino (d’accordo con quello cileno) delle terre abitate dagli indigeni, che le autorità civili di Buenos Aires avevano suddiviso in quattro governatorati e che l’arcivescovo di Buenos Aires riteneva a ragione soggette alla sua giurisdizione ordinaria.
Ma le furibonde lotte governative contro gli indigeni (settembre 1876) fecero sì che il sogno salesiano “Alla Patagonia, alla Patagonia. Dio lo vuole!” per il momento restasse tale.

Gli italiani “indianizzati”
Intanto nell’ottobre 1876 l’arcivescovo aveva proposto ai missionari salesiani di assumere la parrocchia della Boca in Buenos Aires a servizio di migliaia di italiani “più indianizzati che gli Indiani quanto a costume e religione” (avrebbe scritto don Cagliero). La accettarono. Lungo il primo anno di permanenza in Argentina infatti avevano già reso stabile la loro posizione nella capitale: con l’acquisto formale della cappella Mater misericordiae in centro città, con l’impianto di oratori festivi per Italiani in tre punti della città, con l’ospizio di “artes y officios” e la chiesa di San Carlo ad Ovest – che sarebbe rimasto colà dal maggio 1877 al marzo 1878 quando si trasferì ad Almagro – e ora la parrocchia della Boca al sud con oratorio in via di attivazione. Progettavano anche un noviziato e mentre aspettavano le Figlie di Maria Ausiliatrice prospettavano un ospizio e un collegio a Montevideo in Uruguay.
A fine anno 1876 don Cagliero era pronto a rientrare in Italia, visto anche che si prolungava eccessivamente sia la possibilità di entrare nel Chubut sia la fondazione di una colonia a Santa Cruz (all’estremo sud del continente) a causa di un governo che creava impacci ai missionari e che gli indigeni avrebbe preferito “distruggerli anziché ridurli”.
Ma con l’arrivo in gennaio 1877 della seconda spedizione di 22 missionari, don Cagliero progettò autonomamente di ritentare un’escursione a Carmen de Patagones, sul Río Negro, in accordo con l’arcivescovo. Don Bosco a sua volta lo stesso mese suggerì alla Santa Sede l’erezione di tre Vicariati Apostolici (Carmen de Patagones, Santa Cruz, Punta Arenas) o almeno uno a Carmen de Patagones, impegnandosi ad accettare nel 1878 quello di Mangalor in India con don Cagliero Vicario. Non solo, ma il 13 febbraio con immenso coraggio si dichiarava pure disponibile per lo stesso 1878 per il Vicariato apostolico di Ceylon a preferenza di quello dell’Australia, entrambi propostogli dal papa (o suggeriti da lui al papa?). Insomma a don Bosco non bastava l’America Latina, ad occidente, sognava di mandare i suoi missionari in Asia, ad oriente.




Si parte per le missioni… confidando nei sogni

I sogni missionari di don Bosco, pur senza anticipare il corso degli eventi futuri, hanno avuto per l’ambiente salesiano il sapore delle previsioni.

            A richiamare l’attenzione di don Bosco al problema missionario contribuirono non poco pure il sogno missionario del 1870-1871 e soprattutto quelli degli anni Ottanta. Se nel 1885 invitava monsignor Giovanni Cagliero alla prudenza: “non si dia gran retta ai sogni” ma “solo se servono moralmente”, lo stesso Cagliero partito alla testa della prima spedizione missionaria (1875) e futuro cardinale, li giudicava come semplici ideali da perseguire. Altri salesiani invece e soprattutto don Giacomo Costamagna, missionario della terza spedizione (1877) e futuro ispettore e vescovo, li intendeva come un itinerario da seguire quasi obbligatoriamente, tanto da chiedere al segretario di don Bosco, don Giovanni Battista Lemoyne, di mandargli i “necessari” aggiornamenti. A sua volta don Giuseppe Fagnano, sempre missionario della prima ora e futuro Prefetto apostolico, li considerava come espressione di un desiderio di tutta la Congregazione, che doveva sentirsi responsabile di realizzarli cercando i mezzi ed il personale. Don Luigi Lasagna infine, missionario partito con la seconda spedizione nel 1876, e pure futuro vescovo, li considerava come una chiave per conoscere il futuro salesiano in missione. Don Alberto Maria De Agostini poi nella prima metà del secolo xx si sarebbe lanciato personalmente in pericolose e innumerevoli escursioni in America australe sulla scia dei sogni di don Bosco.
            Comunque si possano intendere oggigiorno, resta il fatto che i sogni missionari di don Bosco, pur senza anticipare il corso degli eventi futuri, hanno avuto per l’ambiente salesiano il sapore delle previsioni. Visto poi che erano privi di significati simbolici e allegorici ed invece erano ricchi di riferimenti antropologici, geografici, economici, ambientali (si parla di tunnel, di treno, di aereo…) hanno costituito un incentivo per i missionari salesiani ad agire, tanto più che si sarebbe potuto verificarne l’effettiva realizzazione. In altre parole i sogni missionari hanno orientato la storia e tracciato un programma di lavoro missionario per la società salesiana.

La chiamata (1875): un progetto immediatamente rielaborato
            Negli anni Settanta in America Latina era in corso un notevole tentativo di evangelizzazione, grazie soprattutto ai religiosi, nonostante le forti tensioni presenti fra la Chiesa e i singoli Stati liberali. Attraverso contatti con il console argentino in Savona, Giovanni Battista Gazzolo, don Bosco nel dicembre 1874 si offrì di provvedere preti per la Chiesa della misericordia (la chiesa degli italiani) in Buenos Aires, come richiesto dal Vicario generale di Buenos Aires monsignor Mariano Antonio Espinosa ed accettò l’invito di una Commissione interessata ad un collegio a San Nicolás de los Arroyos, a 240 km a nord ovest della Capitale argentina. In effetti la società salesiana – che all’epoca comprendeva pure il ramo femminile delle Figlie di Maria Ausiliatrice – aveva come suo primo obiettivo la cura della gioventù povera (con catechismi, scuole, collegi, ospizi, oratori festivi), ma non escludeva di estendere i suoi servizi a ogni tipo di sacro ministero. Dunque in quel fine 1874 don Bosco non offriva altro di quello che già si faceva in Italia. Del resto le Costituzioni salesiane, approvate definitivamente nell’aprile precedente, proprio mentre da anni erano in corso trattative per fondazioni salesiane in “terre di missione” extraeuropee, non contenevano alcun accenno ad eventuali missiones ad gentes.
            Le cose cambiarono nel volgere di pochi mesi. Il 28 gennaio 1875 in un discorso ai direttori, e il giorno dopo a tutta la comunità salesiana, ragazzi compresi, don Bosco annunciò che erano state accolte le due suddette domande in Argentina, dopo che erano state rifiutate richieste in altri continenti. Riferì anche che “le Missioni in Sud America” (cosa che in questi termini invero nessuno aveva offerto) erano state accettate alle condizioni richieste, con la sola riserva dell’approvazione del papa. Don Bosco con un colpo da maestro presentava così a Salesiani e giovani un entusiasmante “progetto missionario” approvato da Pio IX.
            Iniziava subito una febbrile preparazione della spedizione missionaria. Il 5 febbraio una sua circolare invitava i Salesiani ad offrirsi liberamente per tali missioni, dove, a parte alcune aree civilizzate, essi avrebbero esercitato il loro ministero fra
“popoli selvaggi sparsi in immensi territori”. Se anche aveva individuato nella Patagonia la terra del suo primo sogno missionario – dove selvaggi crudeli di zone sconosciute uccidevano missionari ed invece accoglievano benevolmente quelli salesiani – tale piano di evangelizzazione di “selvaggi” andava ben oltre le richieste pervenute dall’America. Di certo non ne era consapevole, almeno in quel momento, l’arcivescovo di Buenos Aires, monsignor Federico Aneiros.
            Don Bosco procedette con determinazione ad organizzare la spedizione. Il 31 agosto al Prefetto di Propaganda Fide, cardinale Alessandro Franchi, comunicava di avere accettato la gestione del collegio di S. Nicolás come “base per le missioni” e dunque chiedeva le facoltà spirituali solitamente concesse in tali casi. Ne ebbe alcune, ma non ricevette alcun sussidio economico pur sperato perché l’Argentina non dipendeva dalla Congregazione di Propaganda Fide, in quanto con un arcivescovo e quattro vescovi non era considerata “terra di missione”. E la Patagonia? E la terra del Fuoco? E le decine e decine di migliaia di indios viventi laggiù, a due, tremila chilometri di distanza, “alla fine del mondo”, senza alcuna presenza missionaria?
            A Valdocco, nella chiesa di Maria Ausiliatrice, nel corso della famosa cerimonia di addio ai missionari dell’11 novembre, don Bosco si soffermò sulla missione universale di salvezza data dal Signore agli apostoli e dunque alla Chiesa. Parlò della carenza di sacerdoti in Argentina, delle famiglie di emigranti abbonate e del lavoro missionario fra le “grandi orde di selvaggi” della Pampa e nella Patagonia, regioni “che circondano la parte civilizzata” dove “non penetrò ancora né la religione di Gesù Cristo, né la civiltà, né il commercio, dove piede europeo non poté finora lasciare alcun vestigio”.
            Lavoro pastorale per gli emigrati italiani e poi plantatio ecclesiae nella Patagonia: ecco il duplice obiettivo, originale, che don Bosco lasciava alla prima spedizione. (Stranamente non fece però alcun accenno alle due precise sedi di lavoro concordato con l’altra sponda dell’Atlantico). Pochi mesi dopo, nell’aprile 1876, avrebbe insistito con don Cagliero che “lo scopo nostro è di tentare una scorsa nella Patagonia […] ritenendo sempre per nostra base l’impianto di collegi e di ospizi […] in vicinanze delle tribù selvagge”. Glielo avrebbe ripetuto il 1° agosto: “In generale ricordati sempre che Dio vuole i nostri sforzi verso i Pampas e verso i Patagonici, e verso ai ragazzi poveri e abbandonati”.
            A Genova, all’imbarco a ciascuno dei dieci missionari – fra cui cinque sacerdoti – diede venti particolari ricordi. Li riproponiamo:

RICORDI AI MISSIONARI

1. Cercate anime, ma non danari né onori, né dignità.
2. Usate carità e somma cortesia con tutti, ma fuggite la conversazione e la famigliarità colle persone di altro sesso o di sospetta condotta.
3. Non fate visite se non per motivi di carità e di necessità.
4. Non accettate mai inviti di pranzo se non per gravissime ragioni. In questi casi procurate di essere in due.
5. Prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri, e guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini.
6. Rendete ossequio a tutte le autorità civili, religiose, municipali e governative.
7. Incontrando persona autorevole per via, datevi premura di salutarla ossequiosamente.
8. Fate lo stesso verso le persone ecclesiastiche o aggregate ad Istituti religiosi.
9. Fuggite l’ozio e le questioni. Gran sobrietà nei cibi, nelle bevande e nel riposo.
10. Amate, temete, rispettate gli altri ordini religiosi e parlatene sempre bene. È questo il mezzo di farvi stimare da tutti e promuovere il bene della congregazione.
11. Abbiatevi cura della sanità. Lavorate, ma solo quanto le proprie forze comportano.
12. Fate che il mondo conosca che siete poveri negli abiti, nel vitto, nelle abitazioni, e voi sarete ricchi in faccia a Dio e diverrete padroni del cuore degli uomini.
13. Fra di voi amatevi, consigliatevi, correggetevi, ma non portatevi mai né invidia, né rancore, anzi il bene di uno, sia il bene di tutti; le pene e le sofferenze di uno siano considerate come pene e sofferenze di tutti, e ciascuno studi di allontanarle o almeno mitigarle.
14. Osservate le vostre Regole, né mai dimenticate l’esercizio mensile della buona morte.
15. Ogni mattino raccomandate a Dio le occupazioni della giornata nominatamente le confessioni, le scuole, i catechismi, e le prediche.
16. Raccomandate costantemente la divozione a M.A. ed a Gesù Sacramentato.
17. Ai giovanetti raccomandate la frequente confessione e comunione
18. Per coltivare la vocazione ecclesiastica insinuate 1. amore alla castità, 2. orrore al vizio opposto, 3. separazione dai discoli, 4. comunione frequente, 5. carità con segni di amorevolezza e benevolenza speciale.
19. Nelle cose contenziose prima di giudicare si ascolti ambe le parti.
20. Nelle fatiche e nei patimenti non si dimentichi che abbiamo un gran premio preparato in cielo.
Amen.




I precedenti delle missioni salesiane (1/5)

Il 150° anniversario delle missioni salesiane si terrà l’11 novembre 2025. Crediamo possa essere interessante raccontare ai nostri lettori una breve storia dei precedenti e delle prime fasi di quella che sarebbe diventata una sorta di epopea missionaria salesiana in Patagonia. Lo facciamo in cinque puntate, con l’aiuto di inedite fonti che ci permettono di correggere le tante imprecisioni passate alla storia.

            Sgombriamo subito il campo: si dice e si scrive che don Bosco volesse partire per le missioni tanto da seminarista, che da giovane sacerdote. Non è documentato. Se studente di 17 anni (1834) fece la domanda di entrare tra i frati Francescani Riformati del convento degli Angeli a Chieri che avevano missioni, la richiesta, a quanto pare, era stata avanzata soprattutto per motivi economici. Se dieci anni dopo (1844), al momento di lasciar il “Convitto Ecclesiastico” in Torino, fu tentato di entrare nella Congregazione degli Oblati di Maria Vergine, cui erano appena state affidate missioni in Birmania (Myanmar), è però vero che quella missionaria, per la quale aveva forse anche intrapreso qualche studio di lingue estere, era solo per il giovane sacerdote Bosco una delle possibilità di apostolato che gli si aprivano davanti. In entrambi i casi don Bosco seguì immediatamente il consiglio, prima, di don Comollo di entrare in seminario diocesano e, dopo, di don Cafasso, di continuare a dedicarsi ai giovani di Torino. Anche nel ventennio 1850-1870, impegnato com’era nel progettare una continuità della sua “opera degli Oratori”, nel dare un fondamento giuridico alla società salesiana che stava avviando e nella formazione spirituale e pedagogica dei primi salesiani, tutti giovani del suo Oratorio, non era certo in condizione di poter dar seguito ad eventuali aspirazioni missionarie personali o degli stessi suoi “figli”. Dell’andata sua o dei salesiani in Patagonia neanche l’ombra, benché lo si trovi scritto su carta o sul web.

Acuirsi della sensibilità missionaria
            Ciò non toglie che la sensibilità missionaria in don Bosco, ridotta probabilmente a deboli spunti e vaghe aspirazioni negli anni di formazione sacerdotale e del primo sacerdozio, si acuì notevolmente lungo gli anni. La lettura degli Annali della Propagazione della Fede gli offriva infatti una buona informazione sul mondo missionario, tanto da ricavarne episodi per alcuni suoi libri e da lodare papa Gregorio XVI che incentivava l’espandersi del vangelo nei remoti angoli della terra ed approvava nuovi Ordini religiosi con finalità missionarie. Notevole influenza don Bosco poté ricevere dal canonico G. Ortalda, direttore del Consiglio diocesano dell’Associazione di Propaganda Fide per 30 anni (1851-1880) ed anche promotore di “Scuole Apostoliche” (una sorta di seminario minore per vocazioni missionarie). Nel dicembre 1857 aveva pure lanciato il progetto di un’Esposizione a favore delle Missioni Cattoliche affidate ai seicento Missionari Sardi. Don Bosco ne era informatissimo.
            L’interesse missionario poté crescere in lui nel 1862 al momento della solennissima canonizzazione in Roma dei 26 protomartiri di giapponesi e nel 1867 in occasione della beatificazione di oltre duecento martiri giapponesi, celebrata questa con solennità pure a Valdocco. Sempre nella città papale nel corso dei lunghi soggiorni degli anni 1867, 1869 e 1870 poté rendersi conto di altre iniziative missionarie locali, come la fondazione del Pontificio seminario dei santi apostoli Pietro e Paolo per le missioni straniere.
            Il Piemonte con quasi il 50% dei missionari italiani (1500 con 39 vescovi) si poneva all’avanguardia in tale ambito e a Torino venne in visita nel novembre 1859 il francescano monsignor Luigi Celestino Spelta, Vicario Apostolico di Hupei. Non visitò l’Oratorio, lo fece invece nel dicembre 1864 don Daniele Comboni che proprio in Torino diede alle stampe il Piano di rigenerazione per l’Africa con l’intrigante progetto di evangelizzare l’Africa attraverso gli africani.
            Don Bosco ebbe uno scambio di idee con lui, che nel 1869 tentò, senza esito, di associarlo al suo progetto e l’anno dopo lo invitò a mandargli qualche prete e laico per dirigere un istituto al Cairo e così prepararlo alle missioni in Africa, al cui centro contava di affidare ai Salesiani un Vicariato apostolico. A Valdocco la richiesta, non accolta, fu sostituita dalla disponibilità ad accettare ragazzi da educare in vista delle missioni. Colà però il drappello di algerini raccomandati da monsignor Charles Martial Lavigerie trovò difficoltà, per cui furono mandati a Nizza Marittima, in Francia. La richiesta nel 1869 dello stesso arcivescovo di avere aiutanti salesiani in un orfanotrofio di Algeri in momento di emergenza non fu accolta. Così come dal 1868 era sospesa la petizione del missionario bresciano Giovanni Bettazzi di mandare dei salesiani a dirigere un erigendo istituto di arti e mestieri, nonché un piccolo seminario minore, nella diocesi di Savannah (Georgia, USA). Le proposte altrui, tanto di direzione di opere educative in “territori di missione”, quanto di diretta azione in partibus infidelium, potevano essere anche appetibili, ma don Bosco non avrebbe mai rinunciato né alla sua piena libertà di azione – che forse vedeva compromessa nelle proposte altrui pervenutegli – né soprattutto al suo peculiare lavoro con i giovani, per i quali al momento era impegnatissimo a sviluppare la società salesiana appena approvata (1869) oltre i confini torinesi e piemontesi. Insomma fino al 1870 don Bosco, pur teoricamente sensibile alle necessità missionarie, coltivava altri progetti in sede nazionale.

Quattro anni di richieste non accolte (1870-1874)
            Il tema missionario e le importanti questioni che vi si riferivano furono oggetto di attenzione nel corso del Concilio Vaticano I (1868-1870). Se il documento Super Missionibus Catholicis non fu mai presentato in assemblea generale, la presenza in Roma di 180 vescovi di “terre di missioni” e le informazioni positive sul modello di vita religiosa salesiana, diffuse fra loro da alcuni vescovi piemontesi, diedero occasione a Don Bosco di incontrarne molti e anche di essere da loro contattato, tanto in Roma che in Torino.
            Qui il 17 novembre 1869 fu ricevuta la delegazione cilena, con l’arcivescovo di Santiago e il vescovo di Concepción. Nel 1870 fu la volta di mons. D. Barbero, Vicario Apostolico a Hyderabad (India), già conosciuto da Don Bosco, che gli chiese delle suore disponibili per l’India. A Valdocco si recò nel luglio 1870 il domenicano mons. G. Sadoc Alemany, arcivescovo di San Francisco in California (USA), che chiese ed ottenne dei Salesiani per un ospizio con scuola professionale (poi mai realizzato). Visitarono pure Valdocco il francescano mons. L. Moccagatta, Vicario Apostolico di Shantung (Cina) e il suo confratello mons. Eligio Cosi poi suo successore. Nel 1873 fu la volta del milanese mons. T. Raimondi che offrì a Don Bosco la possibilità di andare a dirigere scuole cattoliche nella Prefettura apostolica di Hong Kong. La trattativa, durata oltre un anno, per vari motivi si arenò, così come nello stesso 1874 rimase sulla carta anche un progetto di nuovo seminario del succitato don Bertazzi per Savannah (USA). Lo stesso avvenne in quegli anni per fondazioni missionarie in Australia ed in India, per le quali Don Bosco intavolò con i singoli vescovi trattative, da lui date talora come concluse alla Santa Sede, mentre in realtà erano solo progetti in fieri.
            In quei primi anni settanta, con un personale costituito da poco più di due decine di persone (fra preti, chierici e coadiutori), un terzo delle quali con voti temporanei, sparsi in sei case difficilmente Don Bosco avrebbe potuto mandarne alcune in terra di missione. Tanto più che le missioni estere offertegli fino a quel momento fuori Europa presentavano serie difficoltà di lingua, cultura e tradizioni non neolatine e il tentativo a lungo condotto di disporre di giovane personale di lingua inglese anche con l’aiuto del rettore del collegio irlandese di Roma, mons. Toby Kirby, erano andato fallito.

(continua)

Foto d’epoca: il porto di Genova, 14 novembre 1877.




Quinto sogno missionario: Pechino (1886)

            Nella notte dal 9 al 10 aprile Don Bosco fece un nuovo sogno missionario, che raccontò a Don Rua, a Doli Branda e al Viglietti, con voce rotta a volte dai singulti. Il Viglietti lo scrisse subito dopo e per ordine suo ne inviò copia a Don Lemoyne, affinché se ne desse lettura a tutti i Superiori dell’Oratorio e servisse di generale incoraggiamento. “Questo però, avvertiva il segretario, non è che l’abbozzo di una magnifica e lunghissima visione”. Il testo che noi pubblichiamo è quello del Viglietti, ma un po’ ritoccato da Don Lemoyne nella forma per renderne più corretta la dizione.

            Don Bosco si trovava nelle vicinanze di Castelnuovo sul poggio, così detto, Bricco del Pino, vicino alla valle Sbarnau. Spingeva di lassù per ogni parte il suo sguardo, ma altro non gli veniva fatto di vedere che una folta boscaglia, sparsa ovunque, anzi coperta di una quantità innumerevole di piccoli funghi.
            – Ma questo, diceva Don Bosco, è pure il contado di Rossi Giuseppe (di questa terra Don Bosco per scherzo aveva creato conte il coadiutore Rossi): dovrebbe ben esserci!
            Ed infatti dopo qualche tempo, scorse Rossi il quale tutto serio stava guardando da un lontano poggio le sottostanti valli. Don Bosco lo chiamò, ma egli non rispose che con uno sguardo come chi è soprappensiero.
            Don Bosco, volgendosi dall’altra parte, vide pure in lontananza Don Rua il quale, allo stesso modo che Rossi, stava con tutta serietà tranquillamente quasi riposando seduto.
            Don Bosco li chiamava entrambi, ma essi silenziosi non rispondevano neppure a cenni.
            Allora scese da quel poggio e camminando arrivò sopra un altro, dalla cui vetta scorgeva una selva, ma coltivata e percorsa da vie e da sentieri. Di là volse intorno il suo sguardo, lo spinse in fondo all’orizzonte, ma, prima dell’occhio, fu colpito il suo orecchio dallo schiamazzo di una turba innumerevole di fanciulli.
            Per quanto egli facesse affine di scorgere donde venisse quel rumore, non vedeva nulla; poi allo schiamazzo succedette un gridare come al sopraggiungere di qualche catastrofe. Finalmente vide un’immensa quantità di giovanetti, i quali, correndo intorno a lui, gli andavano dicendo:
            – Ti abbiamo aspettato, ti abbiamo aspettato tanto, ma finalmente ci sei: sei tra noi e non ci fuggirai!
            Don Bosco non capiva niente e pensava che cosa volessero da lui quei fanciulli; ma mentre stava come attonito in mezzo a loro contemplandoli, vide un immenso gregge di agnelli guidati da una pastorella, la quale, separati i giovani e le pecore, e messi gli uni da una parte e le altre dall’altra, si fermò accanto a Don Bosco e gli disse:
            – Vedi quanto ti sta innanzi?
            – Sì, che lo vedo, rispose Don Bosco.
            – Ebbene, ti ricordi del sogno che facesti all’età di dieci anni?
            – Oh è molto difficile che lo ricordi! Ho la mente stanca; non ricordo più bene presentemente.
            – Bene, bene: pensaci e te ne ricorderai.
            Poi fatti venire i giovani con Don Bosco gli disse:
            – Guarda ora da questa parte, spingi il tuo sguardo e spingetelo voi tutti e leggete che cosa sta scritto… Ebbene, che cosa vedi?
            – Vedo montagne, poi mare, poi colline, quindi di nuovo montagne e mari.
            – Leggo, diceva un fanciullo, Valparaiso.
            – Io leggo, diceva un altro, Santiago.
            – Io, ripigliava un terzo, li leggo tutt’e due.
            – Ebbene, continuò la pastorella, parti ora da quel punto e avrai una norma di quanto i Salesiani dovranno fare in avvenire. Volgiti ora da quest’altra parte, tira una linea visuale e guarda.
            – Vedo montagne, colline e mari!…
            E i giovani aguzzavano lo sguardo ed esclamarono in coro:
            – Leggiamo Pechino.
            Vide Don Bosco allora una gran città. Essa era attraversata da un largo fiume sul quale erano gittati alcuni grandi ponti.
            – Bene, disse la donzella che sembrava la loro maestra; ora tira una sola linea da una estremità all’altra, da Pechino a Santiago, fanne un centro nel mezzo dell’Africa ed avrai un’idea esatta di quanto debbono fare i Salesiani.
            – Ma come fare tutto questo? esclamò Don Bosco. Le distanze sono immense, i luoghi difficili e i Salesiani pochi.
            – Non ti turbare. Faranno questo i tuoi figli, i figli dei tuoi figli e dei figli loro; ma si tenga fermo nell’osservanza delle Regole e nello spirito della Pia Società.
            – Ma dove prendere tanta gente?
            – Vieni qui e guarda. Vedi là cinquanta Missionari in pronto? Più in là ne vedi altri e altri ancora? Tira una linea da Santiago al centro dell’Africa. Che cosa vedi?
            – Vedo dieci centri di stazioni.
            – Ebbene, questi centri che tu vedi, formeranno studio e noviziato e daranno moltitudine di Missionari affine di provvederne queste contrade. Ed ora volgiti da quest’altra parte. Qui vedi dieci altri centri dal mezzo dell’Africa fino a Pechino. E anche questi centri somministreranno i Missionari a tutte queste altre contrade. Là c’è Hong-Kong, là Calcutta, più in là Madagascar. Questi e più altri avranno case, studi e noviziati.
            Don Bosco ascoltava guardando ed esaminando; poi disse:
            – E dove trovare tanta gente, e come inviare Missionari in quei luoghi? Là ci sono i selvaggi che si nutrono delle carni umane; là ci sono gli eretici, là i persecutori, e come fare?
            – Guarda, rispose la pastorella, mettiti di buona volontà. Vi è una cosa sola da fare: raccomandare che i miei figli coltivino costantemente la virtù di Maria.
            – Ebbene, sì, mi pare d’aver inteso. Predicherò a tutti le tue parole.
            – E guardati dall’errore che vige adesso, che è la mescolanza di quelli che studiano le arti umane, con quelli che studiano le arti divine, perché la scienza del cielo non vuol essere con le terrene cose mescolata.
            Don Bosco voleva ancora parlare; ma la visione disparve: il sogno era finito.
(MB XVIII, 71-74)




Don Rinaldi ai Becchi

Il beato don Filippo Rinaldi, terzo successore di don Bosco, è ricordato come una figura straordinaria, capace di unire in sé le qualità di Superiore e Padre, insigne maestro di spiritualità, pedagogia e vita sociale, oltre che guida spirituale impareggiabile. La sua profonda ammirazione per don Bosco, che ebbe il privilegio di conoscere personalmente, lo rese una viva testimonianza del carisma del fondatore. Consapevole dell’importanza spirituale dei luoghi legati all’infanzia di don Bosco, don Rinaldi dedicò particolare attenzione a visitarli, riconoscendone il valore simbolico e formativo. In questo articolo, ripercorriamo alcune delle sue visite al Colle Don Bosco, alla scoperta del legame speciale che lo univa a questi luoghi santi.

Per il santuarietto di Maria Ausiliatrice
            Con l’inaugurazione del Santuarietto di Maria Ausiliatrice, voluto davanti alla Casetta di don Bosco da don Paolo Albera, e precisamente dal due agosto 1918, quando Mons. Morganti, Arcivescovo di Ravenna, assistito dai nostri Superiori Maggiori, benedisse solennemente la chiesa e le campane, ebbe inizio la presenza stabile dei Salesiani ai Becchi. In quel giorno c’era pure don Filippo Rinaldi, Prefetto Generale, e, con lui, don Francesco Cottrino, primo direttore della nuova casa.
            D’allora in poi le visite di don Rinaldi ai Becchi si rinnovarono ogni anno a ritmo serrato, vera espressione del suo grande affetto al buon padre don Bosco e del suo vivissimo interessamento per l’acquisto e l’appropriata sistemazione dei luoghi memorabili della fanciullezza del Santo.
            Dalle scarne notizie di cronaca della casa salesiana dei Becchi si possono facilmente dedurre la cura e l’amore con cui don Rinaldi promosse e seguì personalmente i lavori necessari a rendere onore a don Bosco ed appropriato servizio ai pellegrini.
            Nel 1918, dunque, don Rinaldi, dopo la sua venuta ai Becchi per la benedizione della chiesa, vi ritornò il 6 ottobre assieme al Card. Cagliero per la Festa del Santo Rosario, e ne approfittò per avviare le trattative dell’acquisto della Casa Cavallo retrostante a quella di don Bosco.

Cura dei lavori per la casetta
            Nel 1919 furono due le visite di don Rinaldi ai Becchi: quella del 2 giugno e quella del 28 settembre, tutte e due in vista dei restauri da effettuare nella zona storica del Colle.
            Tre invece furono le visite nel 1920: quella del 16-17 giugno, per trattare l’acquisto della casa Graglia e del prato dei fratelli Bechis; quella dell’11 settembre per visitare i lavori e la proprietà dei Graglia; e, infine, quella del 13 dello stesso mese, per presenziare alla stesura dello strumento notarile di acquisto della medesima casa Graglia.
            Due furono le visite del 1921: il 16 marzo, con l’Arch. Valotti, per il progetto di una strada che conducesse al Santuario e di un Pilone e di un Capannone per pellegrini sulla piazzetta; il 12-13 settembre, con l’Arch. Valotti ed il Cav. Melle, per lo stesso scopo.
            Nel 1922 don Rinaldi fu di nuovo ai Becchi due volte: il 4 maggio con il Card. Cagliero, don Ricaldone, don Conelli e tutti i Membri del Capitolo Generale (inclusi i Vescovi Salesiani), per pregare presso la Casetta dopo la sua elezione a Rettor Maggiore; ed il 28 settembre con i suoi più diretti collaboratori.
            Vi giunse poi il 10 giugno 1923 per celebrare la Festa di Maria Ausiliatrice. Presiedette ai Vespri nel santuario, fece la predica ed impartì la benedizione eucaristica. Nell’Accademia che seguì, presentò la Croce «Pro Ecclesia et Pontifice» al sig. Giovanni Febbraro, nostro benefattore. Vi ritornò poi in ottobre con il Card. G. Cagliero per la festa del Santo Rosario, celebrando la Santa Messa alle ore 7 e portando il SS. nella processione eucaristica cui seguì la Benedizione impartita dal Cardinale.
            Il 7 settembre 1924 don Rinaldi guidò ai Becchi il Pellegrinaggio dei Padri di Famiglia e de-gli Exallievi delle Case di Torino. Celebrò la Santa Messa, fece la predica e poi, dopo colazione, partecipò al Concerto organizzato per l’occasione. Ritornò ancora il 22 ottobre dello stesso anno assieme a don Ricaldone, ed ai sigg. Valotti e Barberis, per risolvere la spinosa questione della strada al santuario che implicava difficoltà da parte dei proprietari dei terreni adiacenti.
            Ben tre volte don Rinaldi fu ai Becchi nel 1925: il 21 maggio per lo scoprimento della lapide a don Bosco, e poi il 23 luglio ed il 19 settembre, accompagnato questa volta nuovamente dal Card. Cagliero.
            Il 13 maggio 1926 don Rinaldi guidò un pellegrinaggio di circa 200 soci dell’Unione Insegnanti don Bosco, celebrando la Santa Messa e presiedendo alla loro adunanza. Il 24 luglio dello stesso anno ritornò, assieme a tutto il Capitolo Superiore, alla guida del pellegrinaggio dei Direttori delle Case d’Europa; e, di nuovo, il 28 agosto con il Capitolo Superiore ed i Direttori delle case d’Italia.

Ristrutturazione del centro storico
            Tre altre visite di don Rinaldi ai Becchi risalgono al 1927: quella del 30 maggio con don Giraudi ed il sig. Valotti per definire i lavori edilizi (costruzione del portico ecc.); quella del 30 agosto con don Tirone e con i Direttori degli Oratori festivi; e quella del 10 ottobre con don Tirone ed i giovani missionari di Ivrea. In quest’ultima occasione don Rinaldi esortò il Direttore di allora, don Fracchia, a collocare piante dietro la casa Graglia e nel prato del Sogno,
            Quattro volte don Rinaldi fu ai Becchi nel 1928: — Il 12 aprile con don Ricaldone per l’esame dei lavori eseguiti e di quelli in corso. — Il 9-10 giugno con don Candela e don V. Bettazzi per la Festa di Maria Ausiliatrice e per l’inaugurazione del Pilone del Sogno. In quest’occasione cantò la Santa Messa e, dopo i Vespri e la Benedizione eucaristica pomeridiana, benedisse il Pilone del Sogno ed il nuovo Portico, dirigendo a tutti dalla veranda la sua parola. Alla sera assistette alla luminaria. — Il 30 settembre giunse con don Ricaldone e don Giraudi per visitare la località «Gaj». — L’8 ottobre ritornò alla testa del pellegrinaggio annuale dei giovani missionari della casa di Ivrea. Fu in quell’anno che don Rinaldi manifestò il desiderio dell’acquisto della villa Damevino per adibirla ad alloggio per pellegrini o, meglio ancora, destinarla ai Figli di Maria aspiranti missionari.
            Ben sei furono le visite ai Becchi nel 1929: — La prima, del 10 marzo, con don Ricaldone, fu per visitare la villa Damevino e la casa Graglia (la prima delle quali venne poi acquistata quello stesso anno). Essendo ormai imminente la beatificazione di don Bosco, don Rinaldi volle pure che si allestisse un altarino al Beato nella cucina della Casetta (il che fu poi eseguito più tardi, nel 1931). — La seconda, del 2 maggio, fu pure una visita di studio, con don Giraudi, il sig. Valotti ed il pittore prof. Guglielmino. — La terza, del 26 maggio, fu per partecipare alla festa di Maria Ausiliatrice. — La quarta, del 16 giugno, la fece con il Capitolo Superiore e con tutti i Membri del Capitolo Generale per la Festa di don Bosco. — La quinta, del 27 luglio, fu una breve visita con don Tirone e Mons. Massa. — La sesta, infine, fu con Mons. Mederlet ed i giovani missionari della Casa di Ivrea, per i quali don Rinaldi non nascondeva le sue predilezioni.
            Nel 1930 don Rinaldi venne ancora due volte ai Becchi: il 26 giugno per una breve visita di ricognizione delle varie località; ed il 6 agosto, con don Ricaldone, il sig. Valotti ed il cav. Sartorio, per la ricerca dell’acqua (trovata poi da don Ricaldone in due punti, a 14 e a 11 metri di distanza dalla fonte chiamata Bacolla).
            L’anno 1931, che fu l’anno della sua morte, avvenuta il 5 dicembre, don Rinaldi giunse ai Becchi almeno tre volte: Il 19 luglio, di pomeriggio. In quell’occasione raccomandò di fare la commemorazione di don Bosco il 16 di ogni mese o la domenica seguente. Il 16 settembre, quando approvò e lodò il campo di ricreazione preparato per i giovani della Comunità. Il 25 settembre, e fu l’ultima, quando, con don Giraudi ed il sig. Valotti, esaminò il progetto degli alberi da piantare nella zona (sarà eseguito più tardi, nel 1990, quando cominciò la realizzazione del progetto di alberazione di 3000 piante sui vari versanti del Colle dei Becchi, proprio nell’anno della sua beatificazione).
            Non calcolando eventuali visite precedenti, sono quindi 41 le visite fatte da don Rinaldi ai Becchi tra il 1918 e il 1931.




Terzo sogno missionario: viaggio aereo (1885)

Il sogno di don Bosco alla vigilia della partenza dei missionari per l’America è un evento ricco di significato spirituale e simbolico nella storia della Congregazione Salesiana. Durante quella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, don Bosco ebbe una visione profetica che sottolinea l’importanza della pietà, dello zelo apostolico e della totale fiducia nella Provvidenza Divina per il successo della missione. Questo episodio non solo incoraggiò i missionari, ma consolidò anche la convinzione di Don Bosco sulla necessità di espandere la loro opera oltre i confini italiani, portando educazione, assistenza e speranza alle nuove generazioni in terre lontane.

            S’arrivò frattanto alla vigilia della partenza. Per tutta la giornata il pensiero che Monsignore e gli altri sarebbero andati così lontano, e l’impotenza assoluta di accompagnarli, come le volte precedenti, fino all’imbarco, anzi l’impossibilità forse di dar loro almeno l’addio nella chiesa di Maria Ausiliatrice, gli causarono sussulti di commozione, che in certi momenti lo opprimevano e lo lasciavano abbattuto. Or ecco che nella notte dal 31 gennaio al 1° febbraio fece un sogno simile a quello del 1883 sulle Missioni. Lo raccontò quindi a Don Lemoyne che subito lo scrisse. É il seguente.

            Mi parve di accompagnare i Missionari nel loro viaggio. Ci siamo parlati per un breve momento prima di partire dall’Oratorio. Essi mi stavano attorno e mi chiedevano consigli; e mi pareva di dire loro:
            – Non colla scienza, non colla sanità, non colle ricchezze, ma collo zelo e colla pietà, farete del gran bene, promovendo la gloria di Dio e la salute delle anime.
            Eravamo poco prima all’Oratorio, e poi senza sapere per quale via fossimo andati e con quale mezzo, ci siamo trovati quasi subito in America. Giunto al termine del viaggio mi trovai solo in mezzo ad una vastissima pianura, posta tra il Chile e la Repubblica Argentina. I miei cari Missionari si erano tutti dispersi qua e là per quello spazio senza limiti. Io guardandoli mi meravigliava, poiché mi sembravano pochi. Dopo tanti Salesiani che in varie volte aveva mandati in America, mi pensava di dover vedere un numero maggiore di Missionari. Ma poscia riflettendo conobbi che se piccolo sembrava il loro numero, ciò avveniva perché si erano sparsi in molti luoghi, come seminagione che doveva trasportarsi altrove ad essere coltivata e moltiplicata.
            In quella pianura apparivano molte e lunghissime vie per le quali si vedevano sparse numerose case. Queste vie non erano come le vie di questa terra, e le case non erano come le case di questo mondo. Erano oggetti misteriosi e direi quasi, spirituali. Quelle strade erano percorse da veicoli, o da mezzi di trasporto che correndo prendevano successivamente mille aspetti fantastici e mille forme tutte diverse, benché magnifiche e stupende, sicché io non posso definirne o descriverne una sola. Osservai con stupore che i veicoli giunti vicini ai gruppi di case, ai villaggi, alle città, passavano in alto, cosicché chi viaggiava vedeva sotto di sé i tetti delle case, le quali benché fossero molto elevate, pure di molto sottostavano a quelle vie le quali mentre nel deserto aderivano al suolo, giunte vicine ai luoghi abitati diventavano aeree quasi formando un magico ponte. Di lassù si vedevano gli abitanti nelle case, nei cortili, nelle vie, e nelle campagne occupati a lavorare i loro poderi.
            Ciascheduna di quelle strade faceva capo ad una delle nostre missioni. In fondo ad una lunghissima via che si protendeva dalla parte del Chile io vedeva una casa [tutte le particolarità topografiche che precedono e che seguono, sembrano indicare la casa di Fortìn Mercedes, sulla riva sinistra del Colorado] con molti confratelli Salesiani, i quali si esercitavano nella scienza, nella pietà, in varie arti e mestieri e nell’agricoltura. A mezzodì era la Patagonia. Dalla parte opposta in un colpo d’occhio scorgeva tutte le case nostre nella Repubblica Argentina. Quindi nell’Uruguay, Paysandú, Las Piedras, Villa Colón; nel Brasile il Collegio di Nicteroy e molti altri ospizi sparsi nelle provincie di quell’impero. Ultima ad occidente si apriva un’altra lunghissima strada che traversando fiumi, mari e laghi faceva capo in paesi sconosciuti. In questa regione vidi pochi Salesiani. Osservai con attenzione e potei solamente vederne due.
            In quell’istante apparve vicino a me un personaggio di nobile e vago aspetto, pallidetto di carnagione, grasso, con barba rasa in modo da parere imberbe e per età uomo fatto. Era vestito in bianco, con una specie di cappa color di rosa intrecciata con fili d’oro. Risplendeva tutto. Io conobbi in quello il mio interprete.
            – Dove siamo qui? chiesi io additandogli quest’ultimo paese.
            – Siamo in Mesopotamia, mi rispose l’interprete.
            – In Mesopotamia? io replicai: ma questa è la Patagonia.
            – Ti dico, rispose l’altro, che questa è la Mesopotamia.
            – Ma pure… ma pure… non posso persuadermene.
            – La cosa è così! Questa è la Me.. so.. po.. ta.. mi.. a, concluse l’interprete sillabando la parola, perché mi restasse bene impressa.
            – Ma perché i Salesiani che vedo qui sono così pochi?
            – Ciò che non è, sarà, concluse il mio interprete.
            Io intanto sempre fermo in quella pianura percorreva collo sguardo tutte quelle interminabili vie e contemplava, in modo chiarissimo ma inesplicabile, i luoghi che sono e saranno occupati dai Salesiani. Quante cose magnifiche io vidi! Vidi tutti i singoli collegi. Vidi come in un punto solo il passato, il presente e l’avvenire delle nostre missioni. Siccome vidi tutto complessivamente in uno sguardo solo, è ben difficile, anzi impossibile rappresentare anche languidamente qualche ristretta idea di questo spettacolo. Solamente ciò che io vidi in quella pianura del Chile, del Paraguay, del Brasile, della Repubblica Argentina domanderebbe un grosso volume, volendo indicare qualche sommaria notizia. Vidi pure in quella vasta pianura, la gran quantità di selvaggi che sono sparsi nel Pacifico fino al golfo di Ancud, nello stretto di Magellano, al Capo Horn, nelle isole Diego, nelle isole Malvine. Tutta messe destinata per i Salesiani. Vidi che ora i Salesiani seminano soltanto, ma i nostri posteri raccoglieranno. Uomini e donne ci rinforzeranno e diverranno predicatori. I loro figli stessi che sembra quasi impossibile guadagnare alla fede, eglino stessi diverranno gli evangelizzatori dei loro parenti e dei loro amici. I Salesiani riusciranno a tutto colla umiltà, col lavoro, colla temperanza. Tutte quelle cose che io vedeva in quel momento e che vidi in appresso, riguardavano tutte i Salesiani, il loro regolare stabilimento in quei paesi, il loro aumento meraviglioso, la conversione di tanti indigeni e di tanti Europei colà stabiliti. L’Europa si verserà nell’America del Sud. Dal momento che in Europa si incominciò a spogliare le chiese, incominciò a diminuire la floridezza del commercio, il quale andò e andrà sempre più deperendo. Quindi gli operai e le loro famiglie spinti dalla miseria correranno a cercare ricovero in quelle nuove terre ospitali.
            Visto il campo che ci assegna il Signore ed il glorioso avvenire della Congregazione Salesiana, mi parve di mettermi in viaggio pel ritorno in Italia. Io era trasportato con rapidissimo corso per una via strana, altissima e così giunsi in un attimo sopra l’Oratorio. Tutta Torino era sotto i miei piedi e le case, i palagi, le torri mi sembravano basse casupole, tanto io mi trovava in alto. Piazze, strade, giardini, viali, le ferrovie le mura di cinta, le campagne, e le colline circostanti, le città, i villaggi della provincia, la gigantesca catena delle Alpi coperta di neve stavano sotto i miei occhi presentandomi uno stupendo panorama. Vedeva i giovani là in fondo nell’Oratorio che sembravano tanti topolini. Ma il loro numero era straordinariamente grande; preti, chierici, studenti, capi d’arte ingombravano tutto. Molti partivano in processione ed altri sottentravano alle file di coloro che partivano. Era una continuata processione.
            Tutti si andavano a raccogliere in quella vastissima pianura tra il Chile e la Repubblica Argentina, nella quale io tosto era ritornato in un batter d’occhio. Io li stava, osservando. Un giovane prete il quale sembrava il nostro D. Pavia, ma che non era, con aria affabile, parola cortese, di un aspetto candido, e di carnagione fanciullesca venne verso di me e mi disse:
            – Ecco le anime ed i paesi destinati ai figliuoli di S. Francesco di Sales.
            Io era meravigliato come tanta moltitudine che sì era raccolta colà in un momento disparisse e appena appena in lontananza si scorgesse la direzione che aveva presa.
            Qui io noto che nel narrare il mio sogno vado per sommi capi e non mi è possibile precisare la successione esatta dei magnifici spettacoli che mi si presentavano e i vari accidenti accessori. Lo spirito non regge, la memoria dimentica, la parola non basta. Oltre il mistero che involgeva quelle scene, queste si avvicendavano, talora s’intrecciavano, soventi volte si ripetevano secondo il vario unirsi o dividersi o partire dei missionari, e lo stringersi, o allontanarsi da essi di quei popoli che erano chiamati alla fede o alla conversione. Lo ripeto: vedeva in un punto solo il presente, il passato, l’avvenire di queste missioni, con tutte le fasi, i pericoli, le riuscite, le disdette o disinganni momentanei che accompagneranno questo Apostolato. Allora intendeva chiaramente tutto, ma ora è impossibile sciogliere questo intrigo di fatti, di idee, di personaggi. Sarebbe come chi volesse comprendere in una sola storia e ridurre ad un solo fatto e ad unità tutto lo spettacolo del firmamento, narrando il moto, lo splendore, le proprietà di tutti gli astri colle loro relazioni e leggi particolari e reciproche; mentre un solo astro darebbe materia all’attenzione e allo studio della mente più robusta. E noto ancora che qui si tratta di cose le quali non hanno relazione con gli oggetti materiali.
            Ripigliando adunque il racconto, dico che restai meravigliato nel vedere scomparire tanta moltitudine. Monsignor Cagliero era in quell’istante al mio fianco. Alcuni missionari erano ad una certa distanza. Molti altri erano intorno a me con un bel numero di cooperatori Salesiani, fra i quali distinsi Mons. Espinosa, il Dottor Torrero, il Dottor Caranza e il Vicario generale del Chile [forse si voleva dire di Mons. Domenico Cruz, Vicario Capitolare della diocesi di Concepción]. Allora il solito interprete venne verso di me che parlava con Mons. Cagliero e molti altri, mentre andavamo studiando se quel fatto racchiudesse qualche significazione. Nel modo più cortese l’interprete mi disse:
            – Ascoltate e vedrete.
            Ed ecco in quel momento la vasta pianura divenire una gran sala. Io non posso descrivere esattamente quale apparisse nella sua magnificenza e nella sua ricchezza. Dico solo che se uno si mettesse a descriverla, nessun uomo potrebbe sostenerne lo splendore neppure coll’immaginazione. L’ampiezza era tale che si perdeva a vista d’occhio e non si riusciva a vederne le mura laterali. La sua altezza non si poteva raggiungere. La volta terminava tutta con archi altissimi, larghissimi e risplendentissimi e non si vedeva sopra qual sostegno si appoggiassero. Non vi erano né pilastri, né colonne. In generale sembrava che la cupola di quella gran sala fosse di un candidissimo lino a guisa di tappezziera. Lo stesso dicasi del pavimento. Non vi erano lumi, né sole, né luna, né stelle, ma sebbene uno splendore generale, diffuso egualmente in ogni parte. La stessa bianchezza dei lini luccicava e rendeva visibile ed amena ogni parte, ogni ornamento, ogni finestra, ogni entrata, ogni uscita. Tutto intorno era diffusa una soavissima fragranza, la quale era mescolanza di tutti gli odori più grati.
            Un fenomeno si scorse in quel momento. Una gran quantità di tavole in forma di mensa si trovavano là di una lunghezza straordinaria. Ve ne erano per tutte le direzioni, ma concorrevano ad un centro solo. Erano coperte da eleganti tovaglie e sopra stavano disposti in ordine bellissimi vasi cristallini in cui erano fiori molti e vari.
            La prima cosa che notò Mons. Cagliero fu:
            – Le tavole ci sono, ma i commestibili dove sono?
            Infatti non era apparecchiato nessun cibo e nessuna bevanda, anzi neppure vi erano piatti, coppe o altri recipienti nei quali porre le vivande.
            L’amico interprete rispose allora:
            – Quelli che vengono qui, neque sitient, neque esurient amplius (Non avranno più fame né avranno più sete Ap. 7.16).
            Detto questo incominciò ad entrare gente, tutta vestita in bianco con una semplice striscia come collana, di color di rosa ricamata a fili d’oro che cingeva il collo e le spalle. I primi che entrarono erano in numero limitato. Solo alcuni in piccola schiera. Appena entrati in quella gran sala andavano a sedersi intorno ad una mensa loro preparata, cantando: Evviva! Ma dopo queste, altre schiere più numerose si avanzavano, cantando: Trionfo! Ed allora incominciò a comparire una varietà di persone, grandi e piccoli, uomini e donne, di ogni generazione, diversi di colore, di forme, di atteggiamenti e da tutte parti risuonavano cantici. Si cantava: Evviva! da quelli che erano già al loro posto. Si cantava trionfo! da quelli che entravano. Ogni turba che entrava erano altrettante nazioni o parti di nazioni che saranno tutte convertite dai missionari.
            Ho dato un colpo d’occhio a quelle mense interminabili e conobbi che là sedute e cantando vi erano molte nostre suore e gran numero dei nostri confratelli. Costoro però non avevano nessun distintivo di essere preti, chierici, o suore, ma egualmente come gli altri avevano la veste bianca e il pallio color di rosa.
            Ma la mia meraviglia crebbe quando ho veduto uomini dall’aspetto ruvido, col medesimo vestito degli altri e cantare: Evviva trionfo! In quel momento il nostro interprete disse:
            – Gli stranieri, i selvaggi che bevettero il latte della parola divina dai loro educatori, divennero banditori della parola di Dio.
            Osservai pure in mezzo alla folla schiere di fanciulli con aspetto rozzo e strano e domandai:
            – E questi fanciulli che hanno una pelle così ruvida, che sembra quella di un rospo, ma pure così bella e di un colore così risplendente? Chi sono costoro?
            L’interprete rispose:
            – Questi sono i figliuoli di Cam che non hanno rinunziato alla eredità di Levi. Essi rinforzeranno le armate per tutelare il regno di Dio che finalmente è giunto anche fra noi. Era piccolo il loro numero, ma i figli dei figli loro lo accrebbero. Ora ascoltate e vedete, ma non potete intendere i misteri che vedrete.
            Quei giovanetti appartenevano alla Patagonia ed all’Africa Meridionale.
            In quel mentre si ingrossarono tanto le file di coloro che entrarono in quella sala straordinaria, che ogni sedia pareva occupata. Le sedie e i sedili non avevano forma determinata, ma prendevano quella forma che ciascheduno desiderava. Ognuno era contento del seggio che occupava e del seggio che occupavano gli altri.
            Ed ecco mentre si gridava da tutte Evviva! trionfo! ecco sopraggiungere in ultimo una gran turba che festevolmente veniva incontro agli altri già entrati e cantando: Alleluia, gloria, trionfo!
            Quando la sala apparve interamente piena, e le migliaia dei radunati non si potevano numerare, si fece un profondo silenzio e quindi quella moltitudine incominciò a cantare divisa in diversi cori.
            Il primo coro: Appropinquavit in nos regnum Dei (È vicino a voi il regno di Dio Lc. 10,11); laetentur Coeli et exultet terra (Gioiscano i cieli, esulti la terra, 1Cr 16,31); Dominus regnavit super nos (Il Signore regnò su di noi); alleluia.
            Altro coro: Vicerunt; et ipse Dominus dabit edere de ligno vitae et non esurient in aeternum: alleluia (Al vincitore darò da mangiare dall’albero della vita e non avrà fame in eterno, alleluia Ap. 2,7).
            Un terzo coro: Laudate Dominum omnes gentes, laudate eum omnes populi. (Genti tutte, lodate il Signore, popoli tutti, cantate la sua lode, Ps 117,1)
            Mentre queste ed altre cose cantavano e si alternavano, a un tratto si fece per la seconda volta un profondo silenzio. Quindi incominciarono a risuonare voci che venivano dall’alto e lontane. Il senso del cantico era questo con una armonia che non si può in nessun modo esprimere: Soli Deo honor et gloria in saecula saeculorum ([solo a Dio] onore e gloria nei secoli dei secoli 1Tm 1,17). Altri cori sempre in alto e lontani rispondevano a queste voci: Semper gratiarum actio illi qui erat, est, et venturus est. Illi eucharistia, illi soli honor sempiternus (Ringraziamento in eterno a Colui che era, che è e che verrà. A lui l’Eucaristia, a lui solo l’eterno onore).
            Ma in quel momento quei cori si abbassarono e si avvicinarono. Fra quei musici celesti vi era anche Luigi Colle. Gli altri che stavano nella sala si misero allora tutti a cantare e si unirono, collegandosi le voci insieme in somiglianza di straordinari istrumenti musicali, con suoni la cui estensione non aveva limiti. Quella musica sembrava avesse contemporaneamente mille note e mille gradi di elevazione che si associavano a fare un solo accordo di voci. Le voci in alto salivano così acute che non si può immaginare. Le voci di coloro che erano nella sala scendevano sonore, rotonde così basso che non si può esprimere. Tutti formavano un coro solo, una sola armonia, ma così i bassi come gli alti con tale gusto e bellezza e con tale penetrazione in tutti i sensi dell’uomo e assorbimento di questi, che l’uomo dimenticava la propria esistenza, ed io caddi in ginocchio ai piedi di Mons. Cagliero esclamando:
            – Oh Cagliero! Noi siamo in paradiso!
            Mons. Cagliero mi prese per mano e mi rispose:
            – Non è il paradiso, è una semplice, una debolissima figura di ciò che in realtà sarà in paradiso.
            Intanto unanimi le voci dei due grandiosi cori proseguivano, e cantavano con inesprimibile armonia: Soli Deo honor et gloria, et triumphus alleluia, in aeternum in aeternum! (Solo a Dio onore e gloria e vittoria alleluia, nei secoli dei secoli!) Qui ho dimenticato me stesso e non so più che cosa sia stato di me. Al mattino stentava a levarmi di letto; appena appena potei richiamarmi a me stesso, quando sono andato a celebrare la santa Messa.
            Il pensiero principale che mi restò impresso dopo questo sogno, fu di dare a Mons. Cagliero ed ai miei cari missionari un avviso di somma importanza riguardante le sorti future delle nostre missioni: – Tutte le sollecitudini dei Salesiani e delle suore di Maria Ausiliatrice siano rivolte a promuovere le vocazioni ecclesiastiche e religiose.
(MB XVII, 299-305)