San Francesco di Sales. Da mihi animas (3/8)

(continuazione dall’articolo precedente)

IL “DA MIHI ANIMAS” DI SAN FRANCESCO DI SALES (3/8)

Occorre anzitutto precisare cosa si intende per zelo pastorale:
“Zelo non significa solo impegno, darsi da fare: esprime un orientamento totalizzante, l’ansia e quasi il tormento di portare a salvezza ogni persona, a tutti i costi, con tutti i mezzi, attraverso una ricerca instancabile degli ultimi e dei più abbandonati pastoralmente.

Spesso, quando si sente parlare di zelo pastorale, si richiamano alla mente figure caratterizzate da grande attività, generose nello spendersi per gli altri, animate da una carità che a volte non hanno neppure “il tempo di mangiare”. Francesco è stato una di queste figure, completamente votato al bene delle anime della sua diocesi e non solo. Tuttavia con il suo esempio ci consegna un ulteriore messaggio: il suo vivere il da mihi animas scaturisce dalla cura che ha avuto della sua vita interiore, della sua preghiera, della sua consegna senza riserve a Dio.
Sono quindi le due facce del suo zelo che vogliamo far emergere dalla sua vita e dai suoi scritti.

Quando nasce Francesco si è concluso da poco il Concilio di Trento che, sul piano pastorale, ha richiamato i vescovi ad una cura più attenta e generosa della propria diocesi, cura fatta anzitutto di residenzialità, di presenza tra la gente, di istruzione del clero attraverso la creazione di seminari, le visite frequenti alle parrocchie, la formazione dei parroci, la diffusione del Catechismo come strumento di evangelizzazione per i più piccoli e non solo…; tutta una serie di misure per riportare i vescovi e i sacerdoti a prendere coscienza della loro identità di pastori in cura d’anime.

Francesco prende sul serio questi richiami al punto da diventare, insieme a san Carlo Borromeo, il modello del vescovo pastore, tutto dedito al suo popolo, come lui stesso ebbe a dire, ricordando la sua consacrazione episcopale:
“Quel giorno Dio mi ha tolto da me stesso per prendermi per sé e quindi darmi al popolo, intendendo dire che mi aveva trasformato da ciò che ero per me in ciò che dovevo essere per loro”.

Francesco, sacerdote per nove anni e vescovo per venti, visse all’insegna di questa donazione totale a Dio e ai fratelli. A fine 1593, pochi giorni dopo la sua ordinazione sacerdotale, pronuncia un celebre discorso, detto arringa per il contenuto e il vigore con cui fu pronunciato.

L’anno seguente si offre “missionario” nel Chiablese e parte munito di una robusta fune:
“La preghiera, l’elemosina e il digiuno sono le tre parti che compongono la fune che il nemico rompe con difficoltà. Con la grazia divina, cercheremo di legare con essa questo nemico”.
Predica nella chiesa di Sant’Ippolito, a Thonon, dopo il culto protestante.

Il suo apostolato nel Chiablese all’inizio è un apostolato di contatto con la gente: sorride, parla, saluta, si ferma e si informa… convinto che i muri della diffidenza si abbattono solo con relazioni di amicizia e di simpatia. Se riuscirà a farsi amare, tutto sarà più facile e più semplice.
“Sono stanco morto”, scrive al suo vescovo, ma non si arrende.

Ama recitare il Rosario ogni giorno, anche la sera tardi e quando teme di addormentarsi per la stanchezza lo recita in piedi o passeggiando.
L’esperienza missionaria di Francesco nel Chiablese si interrompe definitivamente verso la fine del 1601 per raggiungere Parigi, dove dovrà trattare dei problemi della diocesi e vi rimarrà nove lunghi mesi.

Per impegni politici e per amicizia con tante persone frequenta la corte e proprio in questo luogo Francesco scopre tanti uomini e donne desiderose di camminare verso il Signore.
Qui nasce l’idea di un testo che riassumesse in forma concisa e pratica i principi della vita interiore e ne facilitasse l’applicazione per tutte le classi sociali. E così da questo anno il Santo inizia a mettere insieme i primi materiali che più tardi concorreranno alla composizione della Filotea.

Al ritorno da Parigi apprende la notizia della morte del suo caro vescovo. Si prepara alla sua consacrazione episcopale con due settimane di silenzio e di preghiera.
Da subito avverte il peso del nuovo incarico:
“Non si può credere quanto io mi senta assillato e oppresso da questa grande e difficile carica”.

In sintesi, lo zelo di Francesco nei vent’anni che vivrà come vescovo si manifesta soprattutto in questi ambiti:

Visita le parrocchie e i monasteri per conoscere la sua diocesi: ne scopre a poco a poco difetti e limiti anche gravi, come pure la bellezza, la generosità e il buon cuore di tante, tante persone. Per visitare le parrocchie rimane fuori Annecy per lungo tempo:
“Partirò di qui fra dieci giorni e continuerò la visita pastorale per cinque mesi interi fra le alte montagne, dove la gente mi attende con molto affetto”; “Tutte le sere quando mi ritiro, non riesco più a muovere il corpo né lo spirito, tanto mi sento stanco in tutte le membra. Però, ogni mattina, mi ritrovo più arzillo che mai”.
Soprattutto ascolta i suoi preti e li incoraggia a vivere con fedeltà la loro vocazione.

L’apostolato della penna: l’Opera omnia di Francesco consta di 27 poderosi volumi… Ci si domanda come un uomo abbia potuto scrivere tanto. Quanta fatica, quanto tempo rubato al sonno, al riposo!
Tutte le pagine uscite dalla sua penna sono la conseguenza della sua passione per le anime, della grande volontà di portare il Signore a tutti quelli che incontrava, nessuno escluso.

La fondazione dell’Ordine della Visitazione
Nel 1610 nasce una nuova realtà: tre donne (la baronessa de Chantal, Jacqueline Favre e Charlotte de Bréchard) danno vita ad una nuova forma di vita religiosa, fatta esclusivamente di preghiera e di carità. Si ispirano al quadro evangelico della Visitazione della Vergine Maria alla cugina Elisabetta.

L’altro aspetto del suo zelo è la cura della sua vita spirituale.
Il cardinal Carlo Borromeo in una lettera al clero scriveva:
“Eserciti la cura d’anime? Non trascurare per questo la cura di te stesso e non darti agli altri fino al punto che non rimanga nulla di te a te stesso”.

Ritorna a casa sfinito e bisognoso di “riassestare il mio povero spirito. Mi propongo di fare una revisione completa di me stesso e di rimettere tutti i pezzi del mio cuore al loro posto”.
“Al ritorno dalla visita, quando ho voluto rivedere bene la mia anima, mi ha fatto compassione: l’ho trovata così dimagrita e disfatta che pareva la morte. Sfido! Per quattro o cinque mesi non aveva quasi avuto un momento per respirare. Le starò vicino per il prossimo inverno e cercherò di trattarla bene”.

S. Francesco di Sales e s. Francisca de Chantal. Vetrata, Chiesa di San Maurizio di Thorens, Francia

Nella Filotea scriverà:
“Un orologio, per buono che sia, bisogna caricarlo e dargli la corda almeno due volte al giorno, al mattino e alla sera, e inoltre, almeno una volta all’anno, bisogna smontarlo completamente, per togliere la ruggine accumulata, raddrizzare i pezzi storti e sostituire quelli troppo consunti.

La stessa cosa deve fare chi ha seriamente cura del proprio cuore; lo deve ricaricare in Dio, sera e mattina, per mezzo degli esercizi indicati sopra; deve inoltre ripetutamente riflettere sul proprio stato, raddrizzarlo e ripararlo; e, infine, deve smontarlo almeno una volta all’anno, e controllare accuratamente tutti i pezzi, ossia tutti i suoi sentimenti e le sue passioni, per riparare tutti i difetti che vi scopre”.

Sta per iniziare la quaresima e ad un amico scrive questo significativo biglietto:
“Consacrerò questa Quaresima a osservare l’obbligo della residenza nella mia cattedrale e a riassettare un poco la mia anima, che è tutta come scucita per i grandi strapazzi a cui è stata sottoposta. È come un orologio scassato: bisogna smontarlo, pezzo per pezzo, e, dopo averlo ben ripulito e oliato, rimontarlo per fargli segnare le ore al tempo giusto”.

L’attività di Francesco va di pari passo con la cura della sua vita interiore; è questo un grande messaggio per noi oggi, per evitare di diventare tralci secchi e quindi inutili!

Per concludere.
“Ho sacrificato la mia vita e la mia anima a Dio e alla sua Chiesa: che importa se devo scomodarmi, quando si tratta di procurare qualche vantaggio alla salute delle anime?”.

(continua)







San Francesco di Sales. Amicizia (2/8)

(continuazione dall’articolo precedente)

L’AMICIZIA IN SAN FRANCESCO DI SALES (2/8)

Dopo aver incontrato Francesco di Sales attraverso il racconto della sua vita, guardiamo alla bellezza del suo cuore e presentiamo alcune virtù con l’obiettivo di far nascere in tanti il desiderio di approfondire la ricca personalità di questo santo.

La prima fotografia, quella che affascina da subito chi si avvicina a Francesco di Sales, è l’amicizia! È il biglietto da visita con cui egli si presenta.

C’è un episodio di Francesco ventenne che pochi conoscono: dopo dieci anni di studio a Parigi è arrivato il momento di ritornare in Savoia, a casa, ad Annecy. Quattro suoi compagni lo accompagnano fino a Lione e si salutano in lacrime.

Questo fatto ci aiuta a comprendere e a gustare quanto Francesco scrive verso la fine della sua vita, consegnandoci una rara fotografia del suo cuore:
“Penso che nel mondo non vi siano anime che amino più cordialmente e più teneramente e, per dire tutto molto alla buona, più amorosamente di me, perché a Dio è piaciuto fare così il mio cuore. E tuttavia, amo le anime indipendenti, vigorose, perché la tenerezza troppo grande sconvolge il cuore, lo rende inquieto e lo distrae dalla meditazione amorosa di Dio. Quello che non è Dio, non è nulla per noi”.

E ad una signora parla della sua sete di amicizia:
“Vi devo dire in confidenza queste poche parole: non vi è al mondo un uomo che abbia un cuore più tenero e più assetato di amicizia che il mio o che senta più dolorosamente di me le separazioni”.

Antoine FAVRE – Ritratto, collezione privata
Fonte: Wikipedia

Tra le centinaia di destinatari delle sue lettere, ne ho scelti tre, scrivendo ai quali Francesco mette in risalto le caratteristiche dell’amicizia salesiana, quale l’ha vissuta e che propone a noi oggi.
Il primo grande amico che incontriamo è il suo concittadino Antoine Favre. Francesco, laureato brillantemente in giurisprudenza, ha una gran voglia di incontrare e di guadagnarsi la stima di questo luminare.

In una delle prime lettere troviamo un’espressione, che suona come una sorta di giuramento:
“Questo dono (l’amicizia), tanto apprezzabile anche per la sua rarità, è veramente impagabile e per me tanto più caro in quanto che non avrebbe mai potuto toccarmi per i miei meriti personali. Vivrà sempre nel mio petto l’ardente desiderio di coltivare diligentemente tutte le amicizie!”

La prima caratteristica dell’amicizia è la comunicazione, il dare notizie, il condividere stati d’animo.

A inizio dicembre 1593 nasce a Francesco l’ultima sorellina, Giovanna, e ne dà prontamente notizia all’amico:
“Vengo a sapere che mia carissima madre, che è nel suo quarantaduesimo anno d’età, darà presto alla luce il suo tredicesimo figlio. Corro da lei, sapendo che suole rallegrarsi moltissimo per la mia presenza”.

Siamo a pochi giorni dall’ordinazione sacerdotale e Francesco confida all’amico:
“Voi siete l’unico uomo ch’io stimo capace di comprendere pienamente il turbamento del mio spirito; è infatti tremendo presiedere la celebrazione della Messa ed è cosa molto difficile celebrarla con la dovuta dignità”.

Dopo neppure un anno dalla ordinazione troviamo Francesco “missionario” nel Chiablese; comunica la sua fatica e la sua amarezza all’amico:
“Oggi comincio a predicare l’Avvento a quattro o cinque umili persone: tutti gli altri ignorano maliziosamente che cosa voglia dire Avvento”.
Qualche mese dopo con gioia gli dà notizia dei suoi primi successi apostolici:
“Finalmente cominciano a biondeggiare le prime spighe!”

Un altro grande amico di Francesco fu Giovenale Ancina. I due si incontrano a Roma (1599); saranno entrambi consacrati vescovi alcuni anni dopo. Francesco gli scrive varie lettere; in questa prega l’amico, vescovo di Saluzzo, di tenerlo “strettamente unito seco nel suo cuore e anche si degni spesso darmi gli avvisi e i ricordi che lo Spirito Santo gli ispirerà”.

Tra gli amici incontrati a Parigi spicca quella con il celebre padre Pietro de Bérulle, incontrato al circolo di Madame Acarie. A lui Francesco scrive pochi giorni dopo la sua consacrazione episcopale:
“Io sono vescovo consacrato dall’8 di questo mese, giorno di Nostra Signora. Questo mi spinge a scongiurarvi d’aiutarmi tanto più cordialmente con le vostre preghiere. Non c’è rimedio: avremo sempre bisogno di lavarci i piedi, poiché camminiamo nella polvere. Il nostro buon Dio ci conceda la grazia di vivere e di morire nel suo servizio”.

Un altro grande amico di Francesco fu Vincenzo de’ Paoli. Tra loro nacque un’amicizia che continuò oltre la morte del fondatore della Visitazione, in quanto che Vincenzo prese a cuore l’Ordine e ne divenne il punto di riferimento fino alla fine dei suoi giorni (1660). Vincenzo rimase sempre riconoscente al santo vescovo dal quale aveva ricevuto salutari rimproveri sul suo carattere irruente e suscettibile. Ne fece tesoro e poco per volta si corresse e pensando al suo amico non esitava a definirlo “la persona che più di ogni altro aveva rappresentato al vivo l’immagine del Salvatore”.

Leggendo queste lettere scopriamo alcune qualità che devono reggere una vera amicizia: la comunicazione, la preghiera e il servizio (perdono, correzione …).

Ci imbattiamo ora in tanti uomini e donne, cui Francesco indirizza lettere di amicizia spirituale. Alcuni esempi:

Alla signora de la Fléchère scrive:
“Abbiate pazienza con tutti, ma principalmente con voi stessa. Voglio dire che non vi dovete punto turbare per le vostre imperfezioni e avere sempre il coraggio di riprendervi prontamente”.

San Vincenzo de’ Paoli – Fondatore della Congregazione della Missione (lazzaristi)
Ritratto, Simon François de Tours; Fonte: Wikipedia

Alla signora di Charmoisy scrive:
“Dovete stare attenta a cominciare con dolcezza, e di quando in quando dare uno sguardo al vostro cuore per vedere se si è conservato dolce. Se non si è conservato così, raddolcirlo prima di fare qualsiasi cosa”

Queste lettere sono un trattato di amicizia, non perché si parli di amicizia, ma perché chi scrive vive una relazione di amicizia, sapendo creare un clima e uno stile in modo che questa si percepisca e porti frutti di vita buona.

La stessa cosa vale per la corrispondenza con le sue Figlie, le Visitandine.

Alla Madre Favre che sente il peso della sua carica scrive:
“Occorre armarsi di una coraggiosa umiltà e rigettare tutte le tentazioni di scoraggiamento nella santa fiducia che abbiamo in Dio. Siccome questa carica vi è stata imposta per volontà di coloro ai quali dovete obbedire, Dio si metterà alla vostra destra e la porterà con voi, o meglio, la porterà Lui, ma la porterete anche voi”

Alla Madre di Bréchard scrive:
“Chi sa conservare la dolcezza fra i dolori e le infermità e la pace fra il disordine delle sue molteplici occupazioni è quasi perfetto. Questa costanza d’umore, questa dolcezza e soavità di cuore è più rara che la perfetta castità, ma ne è tanto più desiderabile. Da questa, come dall’olio della lampada, dipende la fiamma del buon esempio, perché non vi è altra cosa che edifichi tanto come la bontà caritatevole”.

Santa Giovanna Francesca FRÉMIOT DE CHANTAL, cofondatrice dell’Ordine della Visitazione di Santa Maria
Autore sconosciuto, Monastero della Visitazione di Maria Santissima a Toledo, Ohio (USA); Fonte: Wikipedia

Tra le varie Madri fondatrici un posto particolare spetta alla Fondatrice, Giovanna di Chantal alla quale fin dall’inizio Francesco scrive:
“Credete fermamente che io ho una viva e straordinaria volontà di servire il vostro spirito con tutta la capacità delle mie forze. Mettete a profitto il mio affetto e usate di tutto quello che Dio mi ha dato per il servizio del vostro spirito. Eccomi qui tutto vostro”

E lo dichiara a Giovanna:
“Amo questo amore. Esso è forte, ampio, senza misura né riserva, ma dolce, forte, purissimo e tranquillissimo; in una parola è un amore che vive solo in Dio. Dio che vede tutte le pieghe del mio cuore, sa che in questo non v’è nulla che non sia per Lui e secondo Lui, senza il quale non voglio essere nulla per nessuno”.

Questo Dio che Francesco e Giovanna intendono servire è sempre presente, è la garanzia, perché questo amore resti sempre una consacrazione a Lui solo:
“Vorrei potervi esprimere il sentimento che oggi, mentre mi comunicavo, ho avuto della nostra cara unità, perché è stato un sentimento grande, perfetto, dolce, potente e tale da potersi quasi dire un voto, una consacrazione”.
“Chi mai avrebbe potuto fondere due spiriti in modo così perfetto, che non fossero più che un solo spirito indivisibile e inseparabile, se non Colui che è unità per essenza? […]. Mille e mille volte ogni giorno il mio cuore si trova vicino a voi con mille e mille auguri che presenta a Dio per vostra consolazione”.
“La santa unità che Dio ha operata è più forte che tutte le separazioni, e la distanza dei luoghi non le può nuocere minimamente. Dunque Dio ci benedica sempre con il suo santo amore. Egli ci ha fatti un cuore unico nello spirito e nella vita”.

Termino con un augurio, quello che Francesco scrive ad una delle prime Visitandine, Jacqueline Favre:
“Come sta il povero cuore tanto amato? È sempre coraggioso e vigilante per evitare le sorprese della tristezza? Vi prego: non tormentatelo, neppure quando vi ha giocato qualche piccolo brutto tiro, ma riprendetelo dolcemente e riconducetelo sulla sua strada. Questo cuore diventerà un grande cuore, fatto secondo il cuore di Dio”.

(continua)







Artemide ZATTI – Santo

VITA E OPERE

            San Artemide Zatti nacque a Boretto (Reggio Emilia) il 12 ottobre 1880. Sperimentò presto la durezza del sacrificio, tanto che a nove anni già si guadagnava la giornata da bracciante. Costretta dalla povertà, la famiglia Zatti, agli inizi del 1897 (Artemide aveva quindi 17 anni), emigrò in Argentina e si stabilì a Bahía Blanca.

            Il giovane Artemide cominciò subito a lavorare, prima in un albergo e poi in una fabbrica di mattoni. Prese a frequentare la parrocchia retta dai Salesiani. A quel tempo era parroco il salesiano don Carlo Cavalli, uomo pio e di una bontà straordinaria. Artemide trovò in lui il suo direttore spirituale e il parroco trovò in Artemide un collaboratore eccellente. Non tardò ad orientarsi verso la vita salesiana. Aveva 20 anni quando partì per l’aspirantato di Bernal. Quelli furono anni molto duri per Artemide, che era più avanti dei suoi compagni per età ma più indietro di loro per i pochi studi fatti. Vinse però tutte le difficoltà, grazie alla sua volontà tenace, alla sua acuta intelligenza e ad una solida pietà.

            Assistendo un giovane sacerdote tubercolotico, egli ne contrasse purtroppo la malattia. L’interessamento paterno di don Cavalli – che lo seguiva da lontano – fece sì che si scegliesse per lui la Casa salesiana di Viedma dove c’era un clima più adatto e soprattutto un ospedale missionario con un bravo infermiere salesiano che in pratica fungeva da “medico”: Padre Evasio Garrone. Questi si rese subito conto del grave stato di salute del giovane e nello stesso tempo intuì le sue virtù non comuni. Invitò Artemide a pregare Maria Ausiliatrice per ottenere la guarigione, ma suggerì anche di fare una promessa: “Se Lei ti guarisce, tu ti dedicherai per tutta la tua vita a questi infermi”. Artemide fece volentieri questa promessa e misteriosamente guarì. Accettò con umiltà e docilità la non piccola sofferenza di rinunziare al sacerdozio (a causa della malattia contratta). Dalla sua bocca né allora né in seguito, uscì mai un lamento per questa meta non raggiunta.

            Emise come confratello laico la sua prima Professione l’11 gennaio 1908 e quella Perpetua il 18 febbraio 1911. Coerentemente alla promessa fatta alla Madonna, egli si consacrò subito e totalmente all’ospedale, occupandosi in un primo tempo della farmacia annessa dopo aver conseguito il titolo di “idoneo in farmacia”. Quando nel 1913 morì padre Garrone, tutta la responsabilità dell’ospedale cadde sulle sue spalle. Ne divenne infatti vicedirettore, amministratore, esperto infermiere stimato da tutti gli ammalati e dagli stessi sanitari che gli lasciavano man mano sempre più libertà d’azione. L’ospedale fu per tutta la sua vita il luogo dove esercitò, giorno dopo giorno, la sua virtù fino al grado eroico.

            Il suo servizio, non si limitava all’ospedale ma si estendeva a tutta la città anzi alle due località situate sulle rive del fiume Negro: Viedma e Patagones. Usciva abitualmente con il suo camice bianco e il borsello delle medicine più comuni. Una mano al manubrio e l’altra col rosario. Preferiva le famiglie povere, ma era chiamato anche dai ricchi. In caso di necessità si muoveva ad ogni ora del giorno e della notte, con qualunque tempo. Non si fermava al centro della città, ma andava anche nei tuguri della periferia. Faceva tutto gratuitamente, e se riceveva qualcosa, andava per l’ospedale.

            San Artemide Zatti amò i suoi ammalati in modo davvero commovente, vedeva in loro Gesù stesso. Fu sempre ossequiente verso i medici e i titolari dell’ospedale. Ma la situazione non era sempre facile, sia per il carattere di alcuni di loro sia per i contrasti che potevano sorgere tra i dirigenti legali e lui che lo era di fatto. Egli però li seppe conquistare tutti e col suo equilibrio riusciva a risolvere anche le situazioni più delicate. Solo un profondo dominio di sé poté rendergli possibile la vittoria sull’affanno e sulla facile irregolarità di orario.

            Egli fu un edificante testimone della fedeltà alla vita comune. Meravigliava tutti come potesse questo santo religioso, così indaffarato nei suoi molteplici impegni all’ospedale, essere nello stesso tempo il rappresentante esemplare della regolarità. Era lui a suonare la campana, era lui a precedere tutti gli altri confratelli negli appuntamenti comunitari. Fedele allo spirito salesiano e al motto – “lavoro e temperanza” – lasciato in eredità da Don Bosco ai suoi figli, egli svolse un’attività prodigiosa con abituale prontezza d’animo, con spirito di sacrificio specie durante il servizio notturno, con distacco assoluto da ogni soddisfazione personale, senza mai prendersi vacanze e riposo. Da buon salesiano seppe fare dell’allegria, una componente della sua santità. Appariva sempre simpaticamente sorridente: così lo ritraggono tutte le foto pervenuteci. Fu un uomo di facile rapporto umano, con una visibile carica di simpatia, sempre lieto di potersi intrattenere con l’umile gente. Ma fu soprattutto un uomo di Dio. Lo irraggiava. Uno dei medici dell’ospedale ha detto: “Quando vedevo il Sig. Zatti la mia incredulità vacillava”. E un altro: “Credo in Dio da quando ho conosciuto il Sig. Zatti”.

            Nel 1950 il santo cadde da una scala e fu in occasione di questo incidente che si manifestarono i sintomi di un cancro che egli stesso lucidamente diagnosticò. Continuò tuttavia ad attendere alla sua missione ancora per un anno, finché dopo sofferenze eroicamente accettate, si spense il 15 marzo 1951 in piena coscienza, circondato dall’affetto e gratitudine di una popolazione che da quel momento cominciò a invocarlo come intercessore presso Dio. Al suo funerale accorsero tutti gli abitanti di Viedma e Patagones in un corteo senza precedenti.

            La fama di santità si estese rapidamente e la sua tomba cominciò ad essere molto venerata. Ancora oggi, quando la gente va al cimitero per i funerali, passa sempre a visitare la tomba di Artemide Zatti. Beatificato da S. Giovanni Paolo II il 14 aprile 2002, san Artemide Zatti fu il primo salesiano coadiutore non martire ad essere elevato agli onori degli altari.

MESSAGGIO

            La cronaca del collegio salesiano di Viedma ricorda che, secondo l’usanza, il 15 marzo 1951 al mattino il campanone annuncia il volo al cielo del confratello coadiutore Artemide Zatti con queste parole profetiche: «Un fratello in meno in casa e un santo in più in cielo».

            La canonizzazione di Artemide è un dono di grazia che il Signore ci dona attraverso questo fratello, salesiano coadiutore, che ha vissuto la sua vita nello spirito di famiglia tipico del carisma salesiano, incarnando la fraternità verso i confratelli e la comunità, e la prossimità verso i poveri e gli ammalati e verso chiunque incontrava sulla sua strada.

            Le tappe e le stagioni della vita di Artemide Zatti: l’infanzia e la prima giovinezza in Italia a Boretto; l’emigrazione della famiglia e la permanenza a Bahía Bianca (Argentina); l’aspirantato salesiano a Bernal; la malattia e il trasferimento a Viedma, che sarà la patria del cuore; la formazione e la professione religiosa come Salesiano coadiutore; la missione per 40 anni nell’Ospedale San José prima e presso la Quinta San Isidro poi; gli ultimi anni e la morte vissuta come incontro con il Signore della vita, mettono in evidenza l’esercizio eroico delle virtù e l’azione purificatrice e trasformante dello Spirito Santo, artefice di ogni santità.

            Sant’Artemide Zatti risulta modello, intercessore e compagno di vita cristiana, vicino a ciascuno. Infatti, la sua avventura ce lo presenta come persona che ha sperimentato la fatica quotidiana dell’esistenza con i suoi successi e i suoi fallimenti. Basta ricordare il distacco dal paese natale per emigrare in Argentina; la malattia della tubercolosi che irrompe come un uragano nella sua giovane esistenza frantumando ogni sogno e ogni prospettiva di futuro; il vedere demolire l’ospedale che aveva costruito con tanti sacrifici e che era diventato santuario dell’amore misericordioso di Dio. Ma Zatti trova sempre nel Signore la forza di rialzarsi e proseguire il cammino.

            La testimonianza di Artemide Zatti ci illumina, ci attrae e ci mette anche in discussione, perché è “Parola di Dio” incarnata nella storia e vicina a noi. Egli ha trasformato la vita in dono, operando con generosità e intelligenza, superando difficoltà di ogni genere con la sua incrollabile fiducia nella Provvidenza divina. La lezione di fede, speranza e carità che ci lascia diventa, se opportunamente conosciuta e motivata, un’opera coraggiosa di salvaguardia e di promozione dei più autentici valori umani e cristiani.

            Attraverso la parabola della vita di Artemide Zatti risalta anzitutto la sua esperienza dell’amore incondizionato e gratuito di Dio. In primo luogo, non ci sono le opere che lui ha compiuto, ma lo stupore di scoprirsi amato e la fede in questo amore provvidenziale in ogni stagione della vita. È da questa certezza vissuta che sgorga la totalità di donazione al prossimo per amore di Dio. L’amore che riceve dal Signore è la forza che trasforma la sua vita, dilata il suo cuore e lo predispone ad amare. Con lo stesso Spirito, lo Spirito di santità, amore che ci guarisce e ci trasforma, fin da ragazzo fa scelte e compie gesti di amore in ogni situazione e con ogni fratello e sorella che incontra, perché si sente amato e ha la forza di amare:

  • ancora adolescente in Italia egli sperimenta i disagi della povertà e del lavoro, ma pone il fondamento di una solida vita cristiana, dando le prime prove della sua carità generosa;
  • emigrato con la famiglia in Argentina sa custodire e far crescere la sua fede resistendo ad un ambiente spesso immorale e anticristiano e maturando, grazie all’incontro con i Salesiani e all’accompagnamento spirituale del padre Carlo Cavalli, l’aspirazione al sacerdozio, accettando di ritornare sui banchi di scuola con ragazzini di dodici anni, lui che di anni ne aveva già venti;
  • si offre con pronta disponibilità ad assistere un sacerdote malato di tubercolosi e ne contrae il male, senza dire una parola di lamento o di recriminazione, ma vivendo la malattia come un tempo di prova e di purificazione, portandone con fortezza e serenità le conseguenze;
  • guarito in modo straordinario, per intercessione di Maria Ausiliatrice, dopo aver fatto la promessa di dedicare la sua vita agli ammalati e ai poveri, accetta generosamente la rinuncia al sacerdozio e si dedica con tutte le sue forze alla nuova missione come Salesiano laico;
  • vive in forma straordinaria il ritmo ordinario delle sue giornate: pratica fedele ed edificante della vita religiosa in gioiosa fraternità; servizio sacrificato a tutte le ore e con tutte le prestazioni più umili ai malati e ai poveri; lotta continua contro la povertà, nella ricerca di risorse e di benefattori per far fronte ai debiti, confidando esclusivamente nella Provvidenza; disponibilità pronta a tutte le sventure umane che chiedono il suo intervento; resistenza ad ogni difficoltà e accettazione di ogni caso avverso; dominio di sé e serenità gioiosa e ottimistica che si comunica a tutti coloro che lo avvicinano.

            Settantun anni di questa vita di fronte a Dio e di fronte agli uomini: una vita consegnata con gioia e fedeltà fino alla fine, testimoniando una santità accessibile e alla portata di tutti, come insegnano San Francesco di Sales e Don Bosco: non una meta impervia, separata dalla vita di tutti i giorni, ma incarnata nella quotidianità, nelle corsie dell’ospedale, in bicicletta per le strade di Viedma, nei travagli della vita concreta per far fronte a esigenze e bisogni di ogni genere, vivendo le cose di ogni giorno in spirito di servizio, con amore e senza clamore, senza rivendicare niente, con la gioia della donazione, abbracciando con entusiasmo la vocazione di Salesiano laico e diventando riflesso luminoso del Signore.




Volontariato internazionale a Benediktbeuern

Don Bosco Volunteers: l’impegno dei giovani per un futuro migliore

Da più di vent’anni l‘Ispettoria tedesca dei Salesiani di Don Bosco è impegnata nel campo del volontariato giovanile. Tramite il programma “Don Bosco Volunteers” i Salesiani in Germania offrono ogni anno a circa 90 giovani un’esperienza formativa e di vita nelle case salesiane dell’Ispettoria e in diversi paesi del mondo.

Per molti giovani tedeschi è consuetudine, una volta completato il percorso formativo scolastico, dedicare un anno della loro vita ad attività nel sociale. Il profilo dei Salesiani rappresenta per molti giovani tedeschi una fonte d’ispirazione nella scelta di un’organizzazione, che li accompagni durante questa esperienza. Nonostante la secolarizzazione della società tedesca e una costante perdita di fedeli da parte della Chiesa negli ultimi anni, molti giovani bussano alla porta dei Salesiani con la chiara intenzione di aiutare il prossimo e dare un piccolo contributo per un mondo migliore. Questi giovani trovano nella figura di don Bosco una forma di fede e un esempio di vita.

Non tutti coloro i quali fanno richiesta d’ammissione al programma di volontariato presso gli uffici competenti dell’Ispettoria a Benediktbeuern e a Bonn hanno avuto nel corso della loro vita esperienze in gruppi giovanili legati alla Chiesa e in particolar modo con i Salesiani. Alcuni di loro non sono battezzati, ma riconoscono nell’offerta formativa dei Salesiani una possibilità di crescita personale, basata su valori fondamentali per il proprio sviluppo. È per questo che ogni anno tantissimi giovani cominciano un’esperienza di volontariato con il programma “Don Bosco Volunteers”: nell’ambito di weekend formativi, i giovani apprendono non solo utili informazioni sui progetti, ma si confrontano con il sistema preventivo e la spiritualità salesiana, preparandosi in questo modo al periodo che metteranno a servizio di altri giovani.

I volontari e le volontarie vengono accompagnati durante la loro esperienza da un team di coordinatori e coordinatrici, che si prende cura non solo degli aspetti organizzativi, ma soprattutto del supporto prima, durante e dopo l’esperienza di volontariato. E sì, perché l’anno di volontariato non finisce l’ultimo giorno di servizio presso la casa salesiana ospitante, ma continua per tutta la vita. Quest’anno al servizio degli altri rappresenta una base di valori che ha un forte impatto sullo sviluppo futuro delle volontarie e dei volontari. Don Bosco educava i giovani per far di loro degli onesti cittadini e dei buoni cristiani: l’offerta di volontariato del programma Don Bosco Volunteers s’ispira proprio a questo principio fondamentale della pedagogia salesiana e cerca di gettare le basi per una società migliore, in cui i valori cristiani ritornino a caratterizzare la nostra vita.

L’Ispettoria tedesca mette a disposizione possibilità d’incontro per i giovani in tutte le fasi dell’esperienza di volontariato: incontri d’orientamento, offerte informative online, corsi di formazione, feste e incontri annuali di scambio d’esperienze sono attività di base su cui si costruisce il successo del programma “Don Bosco Volunteers”.

Un gruppo di coordinamento formato da collaboratori e collaboratrici del centro di formazione giovanile Aktionszentrum di Benediktbeuern e della Procura Missionaria di Bonn, affiancato dall’economo ispettoriale padre Stefan Stöhr e dall’incaricato per la pastorale giovanile padre Johannes Kaufmann, gestisce e dirige ciascuna attività, sviluppando il programma in tutte le sue componenti. L’esperienza dei volontari inizia con la richiesta d’ammissione all’iniziativa: i giovani che prendono parte al programma nazionale cominciano il servizio a settembre e partecipano a 25 giornate formative durante l’anno di volontariato. Per i volontari e le volontarie che intendono andare all’estero il percorso è un po’ più articolato: dopo un incontro d’orientamento, in autunno vengono effettuate le selezioni e le candidate e i candidati ricevono informazioni da ex volontarie e volontari che hanno già preso parte al programma in passato. La fase formativa comincia nei primi mesi dell’anno e prevede in tutto 12 giorni di preparazione, durante i quali le volontarie e i volontari ricevono informazioni sulla pedagogia di don Bosco, sul lavoro dei Salesiani nel mondo, su temi importanti come la comunicazione interculturale e le procedure da seguire in caso d’emergenza durante l’esperienza all’estero. A luglio le volontarie e i volontari ricevono la benedizione e una medaglia di don Bosco come simbolo dell’appartenenza alla Famiglia Salesiana.

La partenza dei giovani è prevista a settembre e, verso la metà del servizio, nelle diverse regioni in cui operano i volontari vengono offerti degli incontri di riflessione tenuti dal team di coordinamento dell’Ispettoria tedesca. L’esperienza si chiude con un seminario conclusivo, poco dopo il rientro dall’attività all’estero, in cui vengono gettate le basi per un impegno futuro nella Famiglia Salesiana. A cadenza annuale nell’Ispettoria vengono organizzati due incontri per tutti coloro che hanno preso parte al programma sin dall’inizio delle attività negli anni Novanta. Il team di coordinamento dell’Ispettoria si prende cura di tutti gli aspetti organizzativi tra i quali: ricerca di case salesiane interessate a collaborare nel campo del volontariato; finanziamento delle attività tramite i fondi ministeriali ed europei; supporto in caso d’emergenza; organizzazione degli aspetti legati all’assicurazione sanitaria dei volontari; comunicazioni con le famiglie delle volontarie e dei volontari.

Negli ultimi 25 anni, sono già più di mille i giovani che hanno preso parte al programma “Don Bosco Volunteers” in Germania e all’estero.

Nell’ambito di uno studio condotto alcuni mesi fa dall’Ispettoria tedesca, a cui hanno partecipato circa 180 ex volontarie e volontari, si è potuto riscontrare un costante impegno nel sociale dei giovani anche molti anni dopo l’esperienza di volontariato. In modo particolare, è evidente l’attenzione degli intervistati riguardo a temi come l’ingiustizia sociale, il razzismo, l’ecologia e lo sviluppo sostenibile. Tale studio ha confermato tutta la bontà di questo programma, non solo per l’aiuto immediato che le volontarie e i volontari possono fornire alle comunità ospitanti durante il proprio anno di servizio, ma anche per gli effetti positivi che si possono registrare a lungo termine, una volta conclusi gli studi accademici o dopo aver intrapreso il proprio cammino professionale.

Un aspetto importante del programma “Don Bosco Volunteers” è il suo inquadramento in programmi nazionali ed europei, come ad esempio il “Corpo europeo di solidarietà” della Commissione Europea, i programmi di volontariato nazionale del Ministero per la famiglia e la gioventù o del programma “weltwärts” del Ministero Federale per la Cooperazione Economica, in modo da poter rendere più visibile alle istituzioni l’offerta formativa dei Salesiani. Costanti controlli di qualità, condotti da associazioni competenti, certificano su base biennale l’efficienza e la trasparenza dell’offerta formativa del programma “Don Bosco Volunteers”. Un aspetto di questi controlli di qualità riguarda in particolare la cooperazione tra i nostri uffici competenti e le strutture ospitanti in Germania e nei diversi Paesi del mondo. Questo particolare distingue l’offerta dei Salesiani da molte altre agenzie private di volontariato, che collaborano con diverse organizzazioni dai profili più svariati.

Le nostre volontarie e i nostri volontari operano esclusivamente in strutture salesiane e vengono preparati in modo specifico per questa esperienza di vita. Non ha importanza se un volontario sia impiegato in un piccolo villaggio nel sud dell’India o in una metropoli europea. C’è qualcosa che unisce tutti questi giovani e li fa sentire a casa durante la loro esperienza: don Bosco con la sua presenza nelle comunità ospitanti offre loro un punto di riferimento nella quotidianità e dà loro conforto e protezione nei momenti più difficili. Ovviamente sarebbe semplicistico raccontare che un’esperienza di volontariato si svolge sempre senza intoppi o problemi: la fase d’ambientamento, in particolare, può creare diversi problemi d’integrazione per le volontarie e i volontari. Ma è proprio in queste situazioni che si può constatare una crescita dei giovani, i quali imparano a conoscere meglio se stessi, i propri limiti e le proprie risorse. L’accompagnamento fornito dalle comunità salesiane ospitanti e dal personale dei centri di coordinamento dell’Ispettoria tedesca ha il fine di trasformare anche le fasi più difficili di questo cammino in opportunità di riflessione e crescita personale. Molte sfide ci attendono nel futuro: gli ultimi due anni ci hanno mostrato che il mondo sta cambiando e il timore che la guerra cancelli la prospettiva di una società più equa sembra crescere nelle nuove generazioni. Il programma “Don Bosco Volunteers” vuole essere un barlume di luce e una fonte di speranza, affinché i nostri giovani possano costruire, attraverso il loro impegno, un futuro migliore per il nostro pianeta.
           
            Francesco BAGIOLINI
            Benediktbeuern, Germania

Galleria fotografica Voluntariato internazionale a Benediktbeuern

1 / 6

2 / 6

3 / 6

4 / 6

5 / 6

6 / 6


Voluntariato internazionale a Benediktbeuern
Voluntariato internazionale a Benediktbeuern
Voluntariato internazionale a Benediktbeuern
Voluntariato internazionale a Benediktbeuern
Voluntariato internazionale a Benediktbeuern
Voluntariato internazionale a Benediktbeuern





In memoriam. Don Davide FACCHINELLO, sdb

Una vita spesa per gli altri. Don Davide FACCHINELLO, sdb

            Nato nella millenaria città di Treviso il 21 maggio 1974, è stato battezzato nella chiesa parrocchiale di Loria (Treviso) dove risiedeva la sua famiglia. Frequenta la scuola dell’obbligo nei suoi luoghi natali e continua da interno il biennio della scuola grafica dell’Istituto San Giorgio di Venezia dove conosce i salesiani. Inizia un’esperienza nella Comunità Proposta salesiana di Mogliano Veneto, continuando gli studi grafici a Noventa Padovana da dove riceve i suoi titoli di studio. Questa esperienza lo porta a conoscere le attività dell’oratorio parrocchiale di Mogliano, l’animazione estiva, i gruppi formativi, che diventeranno catalizzatori per la sua risposta ad una chiamata divina, entrando in noviziato nel 1993. La sua prima destinazione pastorale fu nella casa di Mogliano Veneto Astori con l’incarico di catechista della scuola media, dove fino al 2011. Di seguito riceve una nuova destinazione nella casa di Este con i compiti di vicario in comunità e di animatore pastorale tra gli allievi del Centro di Formazione Professionale. Nel suo cuore nasce il desiderio di svolgere un’esperienza pastorale in terra di missione e si mette alla disposizione delle necessità della Congregazione Salesiana a questo scopo. Come i superiori gli indicano come destinazione il Perù, subito comincia a studiare la lingua spagnola, lingua che continua ad approfondire nella realtà della missione, nello stesso tempo che si inserisce nella cultura locale.

            Dal suo arrivo a Perù nel 2017, dopo un periodo di accomodamento, è stato inviato alla comunità missionaria di Monte Salvado, nella regione di Cusco. Lì ha iniziato come vicario parrocchiale della Parrocchia Maria Ausiliatrice di Quebrada Honda, nella Valle di Yanatile, nella selva alta, dove i salesiani accompagniamo le missioni andine. Dopo quasi due anni è stato nominato parroco della stessa il 12 aprile 2019.

            Appena arrivato, si è dedicato a conoscere le persone e mettersi al loro servizio pastorale, essendo fedele alle indicazioni dell’Arcidiocesi di Cusco e in collaborazione don la comunità locale. Essendo una parrocchia missionaria, ha voluto e ha visitato periodicamente tutte le settantatré comunità, si è recato nei villaggi più remoti e ha raggiunto le case più umili e lontane di una vasta regione. Desideroso di avvicinarsi ancora di più alle anime che serviva, si era messo a imparare la lingua quechua.

            Ha avviato progetti di assistenza e promozione, come la mensa parrocchiale e un programma completo di assistenza psicologica, e, da buon salesiano, ha dato impulso a molti oratori nei vari villaggi. Ha sviluppato intensamente il rinnovamento della catechesi sulla linea dell’Iniziazione alla Vita Cristiana, in profonda sintonia con il Progetto Educativo-Pastorale dell’Ispettoria. Il suo impegno nella Chiesa locale era così grande che fu nominato dall’Arcivescovo di Cuzco decano della regione. Tra le testimonianze del popolo, spicca la particolare cura che egli ebbe per alcune persone (i più poveri tra i poveri) che David accompagnò e promosse in modo speciale e molto discreto.

            Le testimonianze ricevute, confermano che era gentile e attento ai fratelli della comunità, un religioso esemplare e un apostolo laborioso e impegnato. Fin dal primo momento ha conquistato il cuore di tutti con la sua gentilezza e la sua serena allegria; ha saputo conquistare la stima e la fiducia delle persone: compagni, collaboratori, parrocchiani e giovani, grazie al suo ottimismo, buon senso, prudenza e disponibilità.

            Oltre a tutto questo lavoro apostolico, Davide era un fratello molto amato: amava stare nella comunità salesiana, i fratelli apprezzavano il suo buon umore e la sua capacità di creare legami stretti.

            I giovani di Monte Salvado (la scuola per i giovani della giungla che frequentano la comunità missionaria salesiana) gli volevano molto bene, apprezzavano il fatto che fosse felice di passare del tempo con loro durante la pausa e rimanevano colpiti dal suo entusiasmo quando insegnava la catechesi: era un vero sacramento della presenza.

            Il suo percorso terreno finisce là: dopo aver condiviso con la comunità parrocchiale la festa della Madre Ausiliatrice nel 24 maggio 2022, nel viaggio di ritorno, parte per il cielo da un incidente stradale successo intorno alla mezzanotte. L’ultima sua celebrazione alla Madonna lo accompagni nel Paradiso.

            Due tratti fondamentali che Don Bosco avevo visto in San Francesco di Sales – carità apostolica e amorevolezza – sono quelli cha ha incarnato di più. È quasi un riflesso di quello che diceva un suo compaesano, don Antonio Cojazzi: “Faccia allegra, cuore in mano, ecco fatto il salesiano”.

            Speriamo che dal Cielo, ci ottenga molte e sante vocazioni per accompagnare i giovani nel loro cammino terreno. Intanto, preghiamo per lui.

            L’eterno riposo dona a lui, o Signore, e splenda a lui la luce perpetua. Riposi in pace.


Video commemorativo




San Francesco di Sales. Vita (1/8)

VITA DI SAN FRANCESCO DI SALES (1/8)

1. I primi anni

            Francesco nasce nel castello di famiglia a Thorens (20 km circa da Annecy). È settimino e “fu un miracolo che, in un parto così pericoloso, la mamma non avesse perso la vita”. È il primogenito cui faranno seguito sette tra fratelli e sorelle. La mamma, Francesca de Sionnaz, ha appena 15 anni mentre il papà, il Sig. de Boisy, ne ha 43! All’epoca il matrimonio, nelle classi nobili, era un’occasione per salire nella scala sociale (mettere insieme titoli nobiliari, terre, castelli…). Il resto, amore compreso, veniva dopo!

                                 Chiesa di San Maurizio di Thorens, Francia

            È battezzato nella piccola chiesa di San Maurizio di Thorens. Francesco anni dopo sceglierà quell’umile chiesetta per la sua consacrazione episcopale (8 dicembre 1602).
            I primi anni Francesco li vive insieme ai suoi tre cugini nello stesso castello: con loro gioca, si diverte e contempla la splendida natura che lo circonda e che per lui diventa il grande libro da cui attingerà mille esempi per i suoi libri. L’educazione che riceve dai Genitori è di chiaro stampo cattolico. “Si deve sempre pensare a Dio ed essere uomini di Dio” ripeteva il padre e Francesco farà tesoro di questo consiglio. I genitori frequentano con assiduità la parrocchia e trattano con correttezza i dipendenti e sanno fare generosa carità quando occorre. I primi ricordi di Francesco non sono solo quelli legati alla bellezza di quella meravigliosa natura, ma sono anche gli spettacoli di distruzione e di morte, dovuti alle guerre fratricide in nome del Vangelo.

            Arriva l’ora di andare a scuola: Francesco lascia la sua casa e si reca in collegio prima a La Roche per circa due anni e poi per tre ad Annecy in compagnia dei suoi cugini. Questo tempo è segnato da alcuni fatti importanti:
            – nella chiesa di S. Domenico (attuale chiesa di San Maurizio) riceve la prima Comunione e la Cresima e da allora in poi si comunicherà spesso.
            – si iscrive alla confraternita del Rosario e da allora prende l’abitudine a recitarlo ogni giorno.
            – chiede di ricevere la tonsura: il padre gli concede il permesso, dal momento che questo passo non implicava l’inizio della carriera ecclesiastica.
            Francesco è un ragazzo normale, studioso, obbediente con un tratto caratteristico: “non lo si vedeva mai prendere in giro nessuno!”.
            Ormai la Savoia gli aveva insegnato tutto quello che poteva. E così nel 1578 Francesco, con gli inseparabili cugini e sotto l’occhio vigile del precettore Déage, parte alla volta di Parigi, dove resterà per dieci anni, allievo del collegio del Clermont, gestito dai gesuiti.

2. I dieci anni che contano: 1578-1588

            L’orario del Collegio è severo e anche le prescrizioni religiose sono esigenti. In questi anni Francesco studia il latino, il greco, l’ebraico, familiarizza con i classici, si perfeziona nella lingua francese. Ha ottimi insegnanti.
            Nel tempo libero frequenta ambienti altolocati, ha libero accesso alla Corte, eccelle nelle arti della nobiltà, segue alcuni corsi di teologia alla Sorbona. Ascolta, in particolare, il Commento al Cantico dei Cantici del P. Génébrard e ne esce sconvolto: scopre dentro l’allegoria dell’amore di un uomo per una donna la passione di Dio per l’umanità. Si sente amato da Dio! Ma in pari tempo matura nella sua mente l’idea di essere escluso da questo amore. Si sente dannato! Entra in crisi e per sei settimane non dorme, non mangia, piange, si ammala. Esce da questo stato affidandosi alla Madonna nella chiesa di S. Etienne des Grès con l’atto di abbandono eroico alla misericordia e bontà di Dio. Recita una Salve Regina e la tentazione svanisce.
            Finalmente, terminati gli esami conclusivi, può lasciare Parigi, non senza rincrescimento. Quale gioia per Francesco ritornare a casa e riabbracciare i genitori, i fratellini e le sorelline che nel frattempo erano arrivati a rallegrare la famiglia.
            Il tutto per pochi mesi soltanto, perché bisogna ripartire per completare “il sogno di papà”: diventare un grande nel campo del diritto.

3. Gli anni di Padova: 1588-1591

            Sono gli anni decisivi per Francesco sul piano umano, culturale e spirituale.
            Padova è la capitale del Rinascimento italiano con migliaia di studenti che provengono da tutta Europa: nelle università si trovano i più celebri insegnanti, gli spiriti migliori del tempo.
            Qui Francesco studia diritto e al tempo stesso approfondisce la teologia, legge i Padri della Chiesa, si mette nelle mani di un saggio direttore spirituale, il gesuita P. Possevino. Probabilmente a causa di una febbre tifoidea, viene ridotto in fin di vita; riceve i sacramenti e fa testamento: “Il mio corpo, quando sarò spirato, consegnatelo agli studenti di medicina”. Era tale il fervore per lo studio e la sete di conoscere il corpo umano che gli studenti di medicina, a corto di cadaveri, andavano a dissotterrarli al cimitero!
            Importante questo testamento di Francesco perché dice la sensibilità, che conserverà per tutta la vita, nei confronti della cultura, delle novità scientifiche tipiche del Rinascimento.
            Guarisce, conclude brillantemente i suoi studi il 5 settembre 1591 e lascia Padova “laureato a pieni voti in utroque” (diritto civile ed ecclesiastico). Il padre ne è fiero.

4. Verso il sacerdozio: 1593

            Nel cuore di Francesco ci sono altri sogni, molto lontani da quelli di suo padre, ma come dirglielo? Il Signor di Boisy ha posto in Francesco tutte le sue speranze!
Viene nominato Prevosto della cattedrale di Annecy. Forte di questo titolo onorifico si incontra con il padre per dirgli la sua intenzione di diventare sacerdote. Fu uno scontro durissimo e comprensibile.
             “Pensavo e speravo che sareste stato il bastone della mia vecchiaia e il sostegno della famiglia…Non condivido le vostre intenzioni, ma non vi nego la mia benedizione” concluse il padre.
            La via del sacerdozio è aperta: in pochi mesi Francesco riceve gli ordini minori, il suddiaconato, il diaconato e finalmente il 18 dicembre l’ordinazione sacerdotale. Si prepara tre giorni per celebrare la prima messa il 21 dicembre.
            Alcuni giorni dopo Natale, Francesco di Sales può essere ufficialmente “insediato” prevosto della cattedrale e in quell’occasione pronunciò uno dei suoi discorsi più famosi, una vera e propria arringa. Si sente già fin d’ora l’ardore e lo zelo del pastore, in sintonia con quanto il Concilio di Trento aveva indicato come via alla riforma.

5. Missionario nel Chiablese: 1594-1598

            Il Chiablese è il territorio che si affaccia al lago di Ginevra. I sacerdoti di questa zona della Savoia erano stati cacciati dai Calvinisti di Ginevra e le chiese erano senza pastori. Ora però, nel 1594, il Duca Carlo Emanuele ha riconquistato quelle terre e sollecita il vescovo di Annecy ad inviare nuovi missionari. La proposta rimbalza sul clero, ma nessuno ha il coraggio di andare in quelle terre così ostili, rischiando la propria vita. Solo Francesco si dichiara disponibile e il 14 settembre, con il cugino Luigi, parte per questa missione.
            Prende dimora nel castello degli Allinges, dove il Barone Hermanance veglia sulla sua incolumità. Così ogni mattina, dopo la messa, scende alla ricerca dei Signori di Thonon. La domenica predica nella chiesa di S. Ippolito, ma i fedeli sono poche persone.

                                 Capella del castello degli Allinges, Francia

            Allora decide di scrivere e far stampare le sue prediche: le affigge nei luoghi pubblici e le fa scivolare sotto la porta di cattolici e protestanti.
            Il suo modello è Gesù per le strade della Palestina: si ispira alla sua dolcezza e bontà, alla sua franchezza e sincerità. Non mancano ostilità e chiusure, ma arrivano anche “le prime spighe”, cioè le prime conversioni.
            Era severo e inflessibile verso l’errore e verso coloro che diffondevano l’eresia, ma di una pazienza senza limiti nei confronti di tutti coloro che riteneva vittime delle teorie degli eretici.
             “Io amo la predicazione che si affida più all’amore del prossimo che all’indignazione, persino degli ugonotti, che occorre trattare con grande compassione, non già lusingandoli, bensì deplorandoli”. Lo spirito salesiano sembra concentrata in questa espressione di Francesco: “La verità che non è caritatevole sgorga da una carità che non è vera”.
            Di questo periodo straordinario per lo zelo, la bontà e il coraggio di Francesco va ancora ricordato l’iniziativa di celebrare nella chiesa di s. Ippolito le tre messe di Natale nel 1596.
            Ma l’iniziativa che maggiormente contribuì a smantellare l’eresia dal territorio del Chiablese fu quella delle Sante Quarantore, promosse e animate da un nuovo collaboratore di Francesco, padre Cherubino della Maurienne. Nel 1597 furono celebrate ad Annemasse, alle porte di Ginevra.
            L’anno seguente le Sante Quarantore si tennero a Thonon (inizio di ottobre 1598).
            A fine anno Francesco deve lasciare la “missione” e scendere a Roma per trattare vari problemi della Diocesi.
            A Roma contrae amicizie importanti (Bellarmio, Baronio, Ancina…) e incontra i preti dell’Oratorio di S. Filippo Neri e si innamora del loro spirito.
Ritorna ad Annecy passando per Loreto, quindi in nave risale fino a Venezia; si ferma a Bologna e a Torino dove discute con il Duca quanto concesso dal Papa a favore delle parrocchie della diocesi.
            Nel 1602 si reca a Parigi sempre per trattare con il nunzio e con il Re delicate questioni diplomatiche concernenti la diocesi e i rapporti con i calvinisti. Qui si fermerà per nove lunghi mesi e tornerà a casa con un pugno di mosche. Se questo è il risultato diplomatico, molto ricco e importante è invece il profitto spirituale e umano che ne sa trarre.
Decisivo per la vita di Francesco è l’incontro con il famoso “Circolo della Signora Acarie”: è una sorta di cenacolo spirituale dove si leggono le opere di S. Teresa d’Avila e di S. Giovanni della Croce e grazie a questo movimento spirituale verrà introdotto in Francia il Carmelo riformato.
            Sulla via del ritorno, Francesco riceve la notizia della morte del suo amato vescovo.

6. Francesco, vescovo di Ginevra: 1602 – 1622

            L’8 dicembre 1602 nella piccola chiesetta di Thorens Francesco viene consacrato vescovo e resterà alla guida della sua diocesi per venti anni. “Quel giorno Dio mi aveva tolto da me stesso per prendermi per sé e quindi darmi al popolo, intendendo dire che mi aveva trasformato da ciò che ero per me in ciò che dovevo essere per loro”.
            Di questo periodo metto in risalto tre aspetti importanti:

6.1 Francesco pastore

            In questi anni brilla il suo zelo concentrato nelle parole: Da mihi animas che diventano il suo programma.
             “Il prete è tutto per Dio e tutto per il popolo” soleva ripetere e lui ne era il modello, per primo!
            I problemi della diocesi sono tanti e molto gravi: riguardano il clero, i monasteri, la formazione dei futuri ministri, il seminario inesistente, la catechesi, la mancanza di risorse economiche.
            Francesco inizia subito la visita alle oltre quattrocento parrocchie, visita che si protrae per cinque o sei anni: parla con i sacerdoti, conforta, incoraggia, risolve i problemi più spinosi, predica, amministra il sacramento della cresima ai ragazzi o ai futuri sposi, celebra matrimoni…
            Per ovviare all’ignoranza del clero fa scuola di teologia in casa sua, ogni anno raduna i suoi preti in Sinodo, predica… “Per alcuni anni insegnò ad Annecy molti argomenti di indole teologica ai suoi canonici e dettava loro lezioni in latino.
            Erano molti coloro che aspiravano alla vita religiosa o al sacerdozio: non erano le vocazioni che mancavano. Molto spesso mancava la vocazione!
            Scrive un opuscolo Avvertimenti ai confessori, un gioiello di zelo pastorale dove si intrecciano dottrina, esperienza personale, consigli…
            Visita i numerosi monasteri della diocesi: alcuni li chiude, in altri sposta il personale, ne fonda di nuovi.
            Lotterà fino alla fine per avere un Seminario: mancano i fondi per l’egoismo dei Cavalieri di S. Lazzaro e di S. Maurizio, che trattengono le rendite dovute alla diocesi.
            La caratteristica dominante in Francesco pastore è la sua capacità di accompagnare le persone.
             “È una fatica guidare le anime singole, ma una fatica che fa sentire leggeri come quella dei mietitori e dei vendemmiatori, i quali non sono mai tanto contenti come quando hanno molto lavoro e molto da portare”.
            Caratteristiche di questa educazione individualizzata:
            Ricchezza di umanità: “Penso che nel mondo non vi siano anime che amino più cordialmente e più teneramente e, per dire tutto molto alla buona, più amorosamente di me, perché a Dio è piaciuto fare così il mio cuore”.
            Padre e fratello: sa essere molto esigente, ma sempre con dolcezza e serenità. Non abbassa la posta in gioco: basta leggere la prima parte della Filotea per rendersene conto.
            Prudenza e concretezza: “Usatevi molti riguardi durante questa gravidanza… se vi stancate a stare inginocchiata, mettetevi a sedere e se non avete l’attenzione sufficiente per pregare mezz’ora, pregate solo per un quarto d’ora…” (Madame de la Fléchère)
            Senso di Dio: “Occorre fare tutto per amore e nulla per forza; occorre amare l’obbedienza più di quanto si tema la disobbedienza”. “Dio sia il Dio del vostro cuore”.
            Francesco fu definito la copia più vera di Gesù in terra (S. Vincenzo di Paoli)

6.2 Francesco scrittore:

            Nonostante gli impegni legati al suo essere vescovo, Francesco trova il tempo per dedicarsi a scrivere. Che cosa? Migliaia di lettere a persone che chiedono la sua guida spirituale, ai monasteri della Visitazione di recente fondazione, a personaggi di spicco della nobiltà o della Chiesa per tentare di risolvere problemi, ai suoi familiari ed amici.
            Nel 1608 viene pubblicata la Introduzione alla vita devota: è lo scritto più noto di Francesco.
            “È nel carattere, nel genio, ma soprattutto nel cuore di Francesco di Sales che occorre cercare la vera origine e la preparazione remota dell’Introduzione alla Vita Devota o Filotea”: così scrive nell’introduzione all’edizione critica di Annecy don Machey, un uomo che ha dedicato la vita allo studio delle opere del Santo.
            La prefazione porta la data dell’8 agosto 1608.
            Questo libro ricevette un’accoglienza entusiasta.
            La Chantal parla di questo libro come “di un libro dettato dallo Spirito Santo”. In 400 anni di vita, il libro ha avuto oltre 1300 edizioni con milioni di copie, tradotto in tutte le lingue del mondo.
            A distanza di quattro secoli queste pagine conservano intatto il loro fascino e la loro attualità.

            Nel 1616 appare un altro scritto di Francesco: Il Trattato dell’amor di Dio, il suo capolavoro, scritto per coloro che vogliono puntare alle vette! Li guida con sapienza e con esperienza a vivere l’abbandono totale alla volontà di Dio fino al punto “dove si incontrano gli amanti!” cioè al Calvario. Solo i santi sanno guidare alla santità.

6.3 Francesco fondatore

            Nel 1604 Francesco si reca a Digione a predicare la Quaresima, invitato dall’arcivescovo di Bourges, Andrea Fremyot. Fin dai primi giorni rimane colpito dall’attenzione e dal comportamento devoto di una dama presente. È la baronessa Giovanna Francesca Fremyot de Chantal, sorella dell’arcivescovo.
            Dal 1604, anno dell’incontro di Giovanna con Francesco, al 1610, data dell’entrata di Giovanna in noviziato ad Annecy, i due santi si incontrano quattro o cinque volte, ogni volta per una settimana o una decina di giorni. Gli incontri sono rallegrati dalla presenza di varie persone di famiglia (la mamma, la sorella di Francesco) o amiche (la Signora Brulart, la badessa di Puy d’Orbe…).
            Giovanna vorrebbe accelerare i tempi, ma Francesco procede con prudenza.
Poco alla volta i vari nodi si allentano, giungono consensi, la serenità e la pace crescono e questo permette di risolvere meglio i problemi.
            Dio ha preso possesso del suo cuore e l’ha resa donna pronta a dare la sua vita per Lui. Il suo sogno, a lungo coltivato, si realizza il 6 giugno 1610: giornata storica! Giovanna e le sue due amiche (Giacomina Favre e Carlotta di Bréchard) entrano in una casetta, “la Galerie”, e iniziano l’anno di noviziato.
            Il 6 giugno dell’anno seguente le prime tre professioni nelle mani di Francesco. Intanto altre giovani e altre donne chiedevano di essere accolte. Prende così il via la famiglia religiosa che si ispira alla Visitazione di Maria.
            L’espansione del nuovo Ordine ha del prodigioso. Alcune cifre: dal 1611 (anno di fondazione) al 1622 (anno della morte di Francesco) le fondazioni sono tredici: Annecy, Lione, Moulins, Grenoble, Bourges, Parigi…. Alla morte di Giovanna, nel 1641, i monasteri saranno 87 con una media di oltre 3 all’anno! Tra questi anche due in Piemonte: a Torino e a Pinerolo!

7. Ultimi anni

            Francesco negli ultimi anni di vita deve prendere per due volte la strada di Parigi: viaggi importanti sul piano diplomatico e spirituale, viaggi faticosi per lui stanco e malandato in salute.
            La fama della santità di Francesco è nota a Parigi al punto che il cardinale Henri de Gondi pensa a lui come a suo successore e glielo propone. Nota è la simpatica risposta di Francesco: “Io ho sposato una povera donna (la diocesi di Annecy); non posso divorziare per sposarne una ricca (la diocesi di Parigi)!”
            Nel suo ultimo anno di vita intraprende un nuovo viaggio a Pinerolo, in Piemonte, su richiesta del Papa per riportare la pace in un monastero di Foglianti (Cistercensi riformati) che non riescono a mettersi d’accordo sul superiore generale. Francesco riuscì a rappacificare menti e cuori con soddisfazione unanime.
            Un altro ordine del Duca impone a Francesco di accompagnare il cardinal Maurizio di Savoia ad Avignone per incontrare il re Luigi XIII.
            Al ritorno si ferma a Lione nel monastero delle Visitandine. Qui incontra per l’ultima volta Giovanna de Chantal. È stremato, ma predica ancora fino alla fine, che sopraggiunge il 28 dicembre 1622.
            Francesco è morto con un sogno: ritirarsi dagli affari della diocesi e trascorrere gli ultimi anni di vita nel quieto Monastero di Talloires, sulle sponde del lago, a scrivere il suo ultimo libro Trattato dell’amore del prossimo e a recitare il Rosario. Siamo certi che il libro l’aveva già scritto con l’esempio della sua vita; quanto alla recita del Rosario, ora non gli mancano né il tempo, né la tranquillità.

(continua)







Nuovi missionari

Il messaggio del rettor maggiore, don Ángel FERNÁNDEZ ARTIME

La prima spedizione missionaria fu benedetta dalle lacrime di don Bosco che disse:

«Noi diamo principio ad una grand’opera. Chi sa, che non sia questa partenza come un seme da cui abbia a sorgere una grande pianta?».

La profezia si è avverata.

La prima volta fu indimenticabile. Era la festa di San Martino del 1875. Il mondo non lo sapeva, ma in quell’angolo di Torino chiamato Valdocco cominciava un’impresa straordinaria: dieci giovani salesiani partivano per l’Argentina. Erano i primi missionari salesiani.

Le Memorie Biografiche raccontano quel momento con accenti epici: «Scoccavano le 4 ed echeggiavano le prime note del concerto campanario, quando sorse nella Casa un impetuoso rumore con un violento sbattersi di porte e di finestre. Erasi levato un vento così forte, che sembrava volesse atterrare l’Oratorio. Sarà stato un caso; ma il fatto è che un vento uguale soffiò nell’ora in cui si pose la pietra angolare della chiesa di Maria Ausiliatrice; un vento simile si ripeté alla consacrazione del Santuario».

La Basilica era affollata. Don Bosco salì sul pulpito. «Al suo apparire si fece in quel mare di gente profondo silenzio; un fremito di commozione passò per tutta l’udienza, che ne bevette avidamente le parole. Ogni volta che accennava direttamente ai Missionari, la voce gli si velava fin quasi a morirgli sulle labbra. Egli con isforzi virili frenava le lagrime, ma l’uditorio piangeva».

La voce mi manca, le lagrime soffocano la parola. Soltanto vi dico che se l’animo mio in questo momento è commosso per la vostra partenza, il mio cuore gode di una grande consolazione nel mirare rassodata la nostra Congregazione; nel vedere che nella nostra pochezza anche noi mettiamo in questo momento il nostro sassolino nel grande edifizio della Chiesa. Sì, partite pure coraggiosi; ma ricordatevi che vi è una sola Chiesa che si estende in Europa ed in America e in tutto il mondo, e riceve gli abitanti di tutte le nazioni che vogliono venire a rifugiarsi nel suo materno abbraccio. Come Salesiani, in qualunque rimota parte del globo vi troviate, non dimenticate che qui in Italia avete un padre che vi ama nel Signore, una Congregazione che ad ogni evenienza a voi pensa, a voi provvede e sempre vi accoglierà come fratelli. Andate adunque; voi dovrete affrontare ogni genere di fatiche, di stenti, di pericoli; ma non temete, Dio è con voi. Andrete, ma non andrete soli; tutti vi accompagneranno. Addio! Forse tutti non potremo più vederci su questa terra» (MB XI,381-390).

Abbracciandoli, don Bosco consegnò a ciascuno un foglietto con venti ricordi speciali, quasi un paterno testamento a figli che forse non avrebbe più riveduti. Li aveva scritti a matita nel suo taccuino durante un recente viaggio in treno.

L’albero cresce

Il 25 settembre abbiamo rivissuto quel momento di grazia per la 153esima volta. Oggi Si chiamano Oscar, Sébastien, Jean-Marie, Tony, Carlos… Sono 25, giovani, preparati ma portano negli occhi e nel cuore la consapevolezza e il coraggio dei primi. Sono le avanguardie di quanto ho chiesto a tutta la famiglia salesiana per questo sessennio: audacia, profezia e fedeltà.

Don Bosco aveva fatto una piccola profezia: «Noi diamo principio ad una grand’opera, non perché si abbiano pretensioni o si creda di convertire l’universo intero in pochi giorni, no; ma chi sa, che non sia questa partenza e questo poco come un seme da cui abbia a sorgere una grande pianta? Chi sa, che non sia come un granellino di miglio o di senapa, che a poco a poco vada estendendosi e non sia per fare un gran bene? Chi sa che questa partenza non abbia svegliato nel cuore di molti il desiderio di consacrarsi a Dio nelle Missioni, facendo corpo con noi e rinforzando le nostre file? Io lo spero. Ho visto il numero stragrande di coloro che chiesero di essere prescelti» (MB XI, 385).

«Essere missionario. Che parola!» testimonia un salesiano dopo quarant’anni di vita missionaria. «Una persona anziana mi disse: «Non parlarmi di Cristo; siediti qui accanto a me, voglio sentire il tuo odore e se questo è il Suo odore allora mi potrai battezzare».

Il quinto dei consigli di don Bosco ai missionari era: “prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri”.

Viviamo un tempo da affrontare con una mentalità rinnovata, che “sappia superare le frontiere”. In un mondo in cui le frontiere rischiano di chiudersi sempre più, la profezia della nostra vita consiste anche in questo: mostrare che per noi non ci sono frontiere. L’unica realtà che abbiamo è Dio, il Vangelo e la missione.

Sogno che dire oggi e nei prossimi anni “Salesiani di Don Bosco” significhi, per le persone che ascoltano il nostro nome, che siamo consacrati un po’ “pazzi”, cioè “pazzi” perché amano i giovani, soprattutto i più poveri, i più abbandonati e indifesi, con un vero cuore salesiano. Questa mi sembra la definizione più bella che si possa dare oggi dei figli di don Bosco. Sono convinto che il nostro Padre vorrebbe proprio questo.

Ancora partono per donare la vita a Dio. Non solo a parole. La Congregazione ha pagato anche il tributo del sangue. Il motto sacerdotale che il martire Rudolf Lunkenbein aveva scelto per l’Ordinazione era “Sono venuto per servire e dare la vita”. Nella sua ultima visita in Germania, nel 1974, sua madre lo pregava di fare attenzione, perché l’avevano informata dei rischi che correva suo figlio. Lui rispose: «Mamma, perché ti preoccupi? Non c’è niente di più bello che morire per la causa di Dio. Questo sarebbe il mio sogno”.

Ho la ferma convinzione che la nostra Famiglia deve camminare nei prossimi sei anni verso una maggiore universalità e senza frontiere. Le nazioni hanno confini. La nostra generosità, che sostiene la missione, non può né deve conoscere limiti. La profezia di cui dobbiamo essere testimoni come Congregazione non comprende i confini.

Un missionario raccontava di aver celebrato la messa per gli indigeni delle montagne vicine a Cochabamba, in Bolivia. Era un giovane prete e quasi non conosceva la lingua quechua, e alla fine, mentre si incamminava verso casa, sentì di essere stato un fiasco e di non essere riuscito per nulla a comunicare. Ma si presentò un vecchio contadino, vestito poveramente, e ringraziò il giovane missionario per essere venuto.

Poi fece una mossa incredibile: «Prima che io riesca ad aprire bocca, il vecchio campesino mette le mani nelle tasche del suo mantello e ne trae due manciate di variopinti petali di rosa. Si alza in punta di piedi e a gesti mi chiede di aiutarlo abbassando la testa. Così mi fa cadere i petali sulla testa, e io resto senza parole. Fruga di nuovo nelle tasche e riesce a estrarne altre due manciate di petali. Continua a ripetere il gesto, e la scorta di petali di rosa rossi, rosa e gialli sembra infinita. Io sto semplicemente lì e lo lascio fare, guardando i miei huaraches (sandali di cuoio), bagnati dalle mie lacrime e coperti di petali di rosa. Alla fine si congeda e io resto solo. Solo con la fresca fragranza delle rose».

Vi posso dire per esperienza che milioni di famiglie in tutto il mondo sono pieni di riconoscenza verso i Salesiani che sono diventati “vangelo” in mezzo a loro.




Lettera Rettor Maggiore. Appello missionario 2023

Ricordiamo il giorno in cui 163 anni fa – 18 dicembre 1859 – Don Bosco fondò la nostra “Pia Società di San Francesco di Sales”. Da allora essa non ha mai smesso di diffondersi. Grazie ai nostri missionari oggi il carisma di Don Bosco è presente in 134 paesi, e stiamo preparando ad iniziare nuove presenze in Niger e Algeria per l’anno prossimo. Già il 6° successore di Don Bosco, Don Luigi Ricceri, ci ha ricordato che lo spirito e l’impegno missionario non erano solo un interesse personale del nostro fondatore ma un vero charisma fundationis che egli ha trasmesso a noi e a tutta la Famiglia Salesiana (ACG 267, p.14). Ecco perché oggi è una bella occasione per inviarvi questo appello missionario.

All’invio della prima spedizione missionaria nel 1875 Don Bosco aveva fatto una profezia: “… Chi sa, che non sia questa partenza e questo poco come un seme da cui abbia a sorgere una grande pianta? … Chi sa che questa partenza non abbia svegliato nel cuore di molti il desiderio di consacrarsi a Dio nelle Missioni, facendo corpo con noi e rinforzando le nostre file? Io lo spero. …” (MB XI, 385). Infatti, nonostante che nel 1875 ci fossero solo 171 salesiani (64 professi perpetui di cui 49 sacerdoti, e 107 professi temporanei) e 81 novizi, Don Bosco aveva inviato 11 salesiani in Argentina. Alla sua morte c’erano 773 salesiani di cui 137 erano missionari inviati da Don Bosco stesso in 11 spedizioni missionarie.

Oggi ci troviamo in un contesto molto diverso dal tempo di Don Bosco. Oggi le missioni’ non possono essere comprese solo come movimento verso le terre di missione’, come una volta. Oggi i missionari salesiani provengono dai cinque continenti e sono inviati dal Rettor Maggiore ai cinque continenti. In un mondo in cui le frontiere rischiano di chiudersi sempre più, i missionari salesiani sono inviati non solo per rispondere al bisogno di personale ma, soprattutto, per testimoniare che per noi non ci sono frontiere, per contribuire al dialogo interculturale, all’inculturazione della fede e del nostro carisma e per innescare processi che possano generare nuove vocazioni locali.

Nella mia prima lettera come Rettor Maggiore ho manifestato la mia convinzione che “una grande ricchezza della nostra Congregazione sia proprio la sua capacità missionaria” (ACG 419, p. 24). Ho la ferma convinzione che noi salesiani abbiamo bisogno di camminare verso una maggiore consapevolezza della nostra internazionalità. E la generosità missionaria dei confratelli è una testimonianza profetica che la nostra Congregazione è senza frontiere. Infatti, la presenza dei missionari nell’Ispettoria aiuta a riflettere meglio l’internazionalità della nostra Congregazione e a capire che il carisma salesiano non è monocolore e che le differenze e la multiculturalità arricchiscono l’Ispettoria e tutta la nostra Congregazione.

Al contrario, un’Ispettoria composta solo da confratelli della stessa cultura rischia di ridursi a un’enclave etnica, meno sensibile alla sfida d’interculturalità e meno capace di vedere oltre i confini del proprio mondo culturale. E per questo che ho insistito varie volte che noi non facciamo professione religiosa per un paese o per un’Ispettoria. Siamo Salesiani di Don Bosco nella Congregazione e per la missione, là dove ci sia più bisogno di noi e dove sia possibile il nostro servizio.

Già nel 1972 il nostro Capitolo Generale Speciale aveva considerato il rilancio missionario come “un termometro della vitalità pastorale della Congregazione e un mezzo efficace contro il pericolo dell’imborghesimento” (CGS, 296). La capacità dei confratelli di accogliere e accompagnare i nuovi missionari inviati nella propria Ispettoria è altrettanto un termometro del proprio spirito missionario.

Grazie allo spirito missionario nella nostra Congregazione, ci sono ancora confratelli che partono per donare la propria vita a Dio come missionari. Al mio appello del 18 dicembre 2021 scorso 36 salesiani hanno risposto inviandomi la lettera della loro disponibilità missionaria. Dopo un attento discernimento, 25 sono stati scelti come membri della 153a spedizione missionaria quest’anno. Gli altri continuano il loro discernimento.

Dunque, con questa lettera, invito voi, cari confratelli, a pregare e fare un attento discernimento per scoprire se il Signore vi chiama, dentro la nostra comune vocazione salesiana, ad essere missionari, scelta che implica un impegno per tutta la vita (ad vitam).

Invito gli Ispettori, con loro Delegati per l’animazione missionaria (DIAM), ad essere i primi ad aiutare i confratelli a coltivare il desiderio missionario e a facilitare il loro discernimento, invitandoli, dopo il dialogo personale, a mettersi a disposizione del Rettor Maggiore per rispondere ai bisogni missionari della Congregazione. Poi il Consigliere Generale per le Missioni, a nome mio, continuerà il discernimento che porterà alla scelta dei missionari per la 154 spedizione missionaria che si terrà, Dio volendo, domenica 24 settembre 2023, nella Basilica di Maria Ausiliatrice di Valdocco, come si è fatto sin dal tempo di Don Bosco.

Il dialogo con il Consigliere Generale per le Missioni e la riflessione condivisa all’interno del Consiglio Generale mi permette di precisare le urgenze individuate per il 2023, dove vorrei che un numero significativo di confratelli potesse essere inviato:
• in Sudafrica, Mozambico e nelle nuove frontiere nel continente Africano;
• in Albania, Kosovo, Slovenia e in altre nuove frontiere del Progetto Europa;
• in Azerbaijan, Bangladesh, Nepal, Mongolia e Yakutia;
• nelle nostre numerose presenze nelle isole dell’Oceania;
• nelle frontiere missionarie dell’America Latina e con i popoli indigeni.

Vi saluto, cari confratelli, con vero affetto e con un ricordo davanti l’Ausiliatrice e Don Bosco qui a Valdocco.

Torino Valdocco, 18 dicembre 2022




Gli invisibili altri don Bosco

I lettori del Bollettino Salesiano sanno già del viaggio intercontinentale che ha fatto l’urna di don Bosco alcuni anni fa. I resti mortali del nostro santo hanno raggiunto decine e decine di nazioni in tutto il mondo e si sono soffermati in un migliaio di città e paesi, accolti ovunque con ammirazione e simpatia. Non so quale salma di santo abbia viaggiato tanto e quale salma di italiano sia stata accolta con tanto entusiasmo oltre i confini del proprio paese. Forse nessuna.

Se questo “viaggio” è storia conosciuta, non lo è certamente il viaggio intercontinentale fatto dell’ACSSA (Associazione dei Cultori di Storia Salesiana) dal novembre 2018 al marzo 2019 per coordinare una serie di quattro Seminari di studio promossi dalla stessa Associazione nelle città di Bratislava (Slovacchia), Bangkok (Thailandia), Nairobi (Kenia), Buenos Aires (Argentina). Il quinto era stato celebrato a Hyderabad (India) nel giugno 2018.

Ebbene: in questi viaggi non ho visto le case, i collegi, le scuole, le parrocchie, le missioni salesiane, come ho fatto altre volte e come può fare chiunque viaggi un po’ ovunque dal nord al sud, dall’est all’ovest del mondo; ho invece incontrato una storia di don Bosco, tutta da scrivere.

Gli altri don Bosco

Il tema dei Seminari di studio era infatti quello di presentare figure di Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice, defunti, che, in un periodo breve o lungo della loro vita, si fossero segnalate come particolarmente significative e rilevanti, e soprattutto abbiano lasciato traccia dopo la loro morte. Alcuni di loro poi, sono stati degli autentici “innovatori” del carisma salesiano, capaci di inculturarlo nelle modalità più varie, ovviamente nella più assoluta fedeltà a don Bosco e al suo spirito.

Ne è sorta una galleria di un centinaio di uomini e donne del XX secolo, tutti diversi fra loro, che hanno saputo farsi “altri don Bosco”: aprire cioè gli occhi sulla loro terra di nascita o di missione, rendersi conto dei bisogni materiali, culturali, spirituali dei giovani colà residenti, soprattutto dei più poveri, ed “inventarsi” il modo di soddisfarli il meglio possibile.

Vescovi, preti, suore, salesiani laici, membri della Famiglia salesiana: tutti personaggi, uomini e donne, che senza essere santi – nelle nostre ricerche abbiamo escluso per principio i santi e quelli già avviati agli altari – hanno realizzato in pienezza la missione educativa di don Bosco in ambiti e ruoli diversi: come educatori e sacerdoti, come professori e maestri, animatori di oratori e centri giovanili, fondatori e direttori di opere educative, formatori di vocazioni e di nuovi istituti religiosi, come scrittori e musici, architetti e  costruttori di chiese e collegi, artisti del legno e della pittura, missionari ad gentes, testimoni della fede in carcere, semplici salesiani e semplici Figlie di Maria Ausiliatrice. Fra loro non pochi hanno vissuto spesso una vita di duri sacrifici, superando ostacoli di ogni genere, imparando lingue difficilissime, rischiando sovente la morte per mancanza di condizioni igienico-sanitarie accettabili, per condizioni climatiche impossibili, per regimi politici ostili e persecutori, anche per attentati veri e propri. L’ultimo di questi è avvenuto proprio mentre ero in partenza per Nairobi: il salesiano spagnolo, don Cesare Fernández, assassinato a sangue freddo il 15 febbraio 2018 alla frontiera fra Togo e Burkina Faso. Uno dei più recenti “martiri” salesiani, potremmo definirlo con cognizione di causa, conoscendone la persona.

Una storia da conoscere

La Boca, quartiere di Buenos Aires, Argentina; prima missione fra gli emigrati

Che dire allora? Che anche questa è storia sconosciuta di don Bosco, o, se vogliamo, dei Figli e delle Figlie del santo. Se la l’urna del santo è stata accolta, come dicevamo, con tanto rispetto e stima da autorità pubbliche e dalla popolazione semplice anche in paesi non cristiani, significa che i suoi Figli e Figlie non ne hanno solo cantate le lodi – anche questo è stato fatto di sicuro, visto che l’immagine di don Bosco si ritrova un po’ ovunque –  ma ne hanno realizzato i sogni: far conoscere l’amore di Dio per i giovani, portare la buona novella del Vangelo dovunque, fino alla fine del mondo (nella Terra del Fuoco!).

Chi, come me ed i miei colleghi dell’ACSSA, ha potuto in febbraio e marzo del 2018 ascoltare esperienze di vita salesiana vissuta nel secolo XX in una cinquantina di paesi di quattro continenti, non può che affermare, come fece sovente don Bosco guardando lo sviluppo impressionante della congregazione sotto i suoi occhi: “Qui c’è il dito di Dio”.  Se il dito di Dio c’è stato nelle opere e fondazioni salesiane, c’è stato anche negli uomini e donne che all’ideale evangelico realizzato alla maniera di don Bosco hanno consacrato l’intera loro esistenza.

“Santi della porta accanto” questi personaggi presentati? Qualcuno certamente, pur considerando i loro limiti personali, i loro caratteri, i loro capricci, e, perché no, i loro peccati (ma che solo Dio conosce). Tutti però erano muniti di immensa fede, di tanta speranza, di forte carità e generosità, di tanto amore a don Bosco e alle anime. Alcuni poi – si pensi ai missionari e missionarie pionieri in Patagonia – si è tentati di definirli veri “pazzi”, pazzi per Dio e per le anime ovviamente.

Gli esiti concreti di questa storia sono sotto gli occhi di tutti, ma i nomi di molti protagonisti sono rimasti finora pressoché “invisibili”. Possiamo conoscerli leggendo “Volti di uno stesso carisma: Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice nel XX secolo”, un libro multilingue, dalla Editrice LAS, dentro la Collana, “Associazione Cultori Storia Salesiana – Studi”.

Se il male trascina, il bene fa altrettanto. “Bonum est diffusivum sui” scriveva san Tommaso d’Aquino secoli fa. I salesiani e le salesiane presentate nel corso dei nostri Seminari ne sono la prova; accanto a loro o al loro seguito altri hanno poi fatto altrettanto, fino ad oggi.

Presentiamo brevemente questi nuovi volti di don Bosco.

1 Antonio COJAZZI, don 1880-1953 educatore geniale Educatori sul campo EU
2 Domenico MORETTI, don 1900-1989 esperienza negli oratori salesiani con i giovani più poveri Educatori sul campo EU
3 Samuele VOSTI, don 1874-1939 ideatore e promotore di un rinnovato oratorio festivo a Valdocco Educatori sul campo EU
4 Karl ZIEGLER, don 1914-1990 amante della natura e scout Educatori sul campo EU
5 Alfonsina FINCO, suor 1869-1934 dedizione per l’infanzia abbandonata Educatori sul campo EU
6 Margherita MARIANI, suor 1858-1939 Figlie di Maria Ausiliatrice a Roma Educatori sul campo EU
7 Sisto COLOMBO, don 1878-1938 uomo di cultura e di animo mistico Educatori sul campo EU
8 Franc WALLAND, don 1887-1975 teologo e ispettore Educatori sul campo EU
9 Maria ZUCCHI, suor 1875-1949 l’impronta salesiana nell’Istituto Don Bosco di Messina Educatori sul campo EU
10 Clotilde MORANO, suor 1885-1963 l’insegnamento dell’educazione fisica femminile Educatori sul campo EU
11 Annetta URI, suor 1903-1989 dalla cattedra ai cantieri: il coraggio di costruire il futuro della scuola Educatori sul campo EU
12 Frances PEDRICK, suor 1887-1981 la prima Figlia di Maria Ausiliatrice a laurearsi all’Università di Oxford Educatori sul campo EU
13 Giuseppe CACCIA, coadiutore 1881-1963 una vita dedicata all’editoria salesiana Educatori sul campo EU
14 Rufillo UGUCCIONI, don 1891-1966 scrittore per ragazzi, evangelizzatore e divulgatore di valori salesiani Educatori sul campo EU
15 Flora FORNARA, suor 1902-1971 una vita per il teatro educativo Educatori sul campo EU
16 Gaspar MESTRE, coadiutore 1888-1962 la scuola salesiana di intaglio, scultura e decorazione di Sarriá (Barcellona) Educatori sul campo EU
17 Wictor GRABELSKI, don 1857-1902 un precursore dell’opera salesiana in Polonia Educatori sul campo EU
18 Antoni HLOND, don 1884-1963 musicista, compositore, fondatore di scuola per organisti Iniziatori EU
19 Carlo TORELLO, don 1886-1967 devozione popolare e memoria civica a Latina Iniziatori EU
20 Jan KAJZER coadiutore 1892-1976 ingegnere coautore dello stile polacco “art decò” e modernizzatore della scuola salesiana professionale di Oświęcim Iniziatori EU
21 Antonio CAVOLI, don 1888-1972 fondatore di congregazione religiosa in Giappone ispirata al carisma salesiano Iniziatori EU
22 Iside MALGRATI, suor 1904-1992 salesiana innovativa nella stampa, nella scuola e nella formazione professionale Iniziatori EU
23 Anna JUZEK, suor 1879-1957 contributo all’impianto delle opere delle Figlie di Maria Ausiliatrice in Polonia Iniziatori EU
24 Mária ČERNÁ, suor 1928-2011 fondamento della rinascita delle Figlie di Maria Ausiliatrice in Slovacchia Iniziatori EU
25 Antonio SALA, don 1836-1895 economo di Valdocco ed economo generale della prima ora salesiana SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
26 Francesco SCALONI, don 1861-1926 una straordinaria figura di superiore salesiano SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
27 Luigi TERRONE, don 1875-1968 maestro dei novizi e direttore SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
28 Marcelino OLAECHEA, monsignore 1889-1972 promotore di alloggi per lavoratori SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
29 Stefano TROCHTA, cardinale 1905-1974 martire del nazismo e del comunismo SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
30 Alba DEAMBROSIS, suor 1887-1964 costruttrice dell’opera salesiana femminile nell’area di lingua tedesca SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
31 Virginia FERRARO ORTÍ, suor 1894-1963 da sindacalista a direttrice salesiana SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
32 Raffaele PIPERNI, don 1842-1930 parroco “mediatore” dell’integrazione degli immigrati italiani nella mainstream di San Francisco Pionieri in missione AM, AS, AF
33 Remigio RIZZARDI, don 1863-1912 il padre dell’apicoltura in Colombia Pionieri in missione AM, AS, AF
34 Carlos PANE, don 1856-1923 pioniere della presenza salesiana in Spagna e Perù Pionieri in missione AM, AS, AF
35 Florencio José MARTÍNEZ EMBODAS, don 1894-1971 un modo salesiano di costruire Pionieri in missione AM, AS, AF
36 Martina PETRINI PRADO, suor 1874-1965 Figlie di Maria Ausiliatrice; origini in un Uruguay in via di modernizzazione Pionieri in missione AM, AS, AF
37 Anna María COPPA, suor 1891-1973 fondatrice e volto della prima scuola cattolica dell’Ecuador Pionieri in missione AM, AS, AF
38 Rose MOORE, suor 1911-1996 pioniera nella riabilitazione dei giovani tailandesi non vedenti Pionieri in missione AM, AS, AF
39 Mirta MONDIN, suor 1922-1977 alle origini della prima scuola cattolica femminile a Gwangju (Korea) Pionieri in missione AM, AS, AF
40 Terezija MEDVEŠEK, suor 1906-2001 una valorosa missionaria nel nord-est dell’India Pionieri in missione AM, AS, AF
41 Nancy PEREIRA, suor 1923-2010 instancabile dedizione per i poveri Pionieri in missione AM, AS, AF
42 Jeanne VINCENT, suor 1915-1997 una delle prime missionarie di Port-Gentil, Gabon Pionieri in missione AM, AS, AF
43 Maria Gertrudes DA ROCHA, suor 1933-2017 missionaria ed economa in Mozambico Pionieri in missione AM, AS, AF
44 Pietro GIACOMINI, monsignore 1904-1982 fioritura di un’obbedienza SDB e FMA in ruoli dirigenziali AM, AS, AF
45 José Luis CARREÑO ECHANDIA, don 1905-1986 un missionario poliedrico con un’opzione preferenziale per i poveri SDB e FMA in ruoli dirigenziali AM, AS, AF
46 Catherine MANIA, suor 1903-1983 prima ispettrice dell’India nordorientale SDB e FMA in ruoli dirigenziali AM, AS, AF
47 William Richard AINSWORTH, don 1908-2005 un saggio sulla leadership salesiana moderna SDB e FMA in ruoli dirigenziali AM, AS, AF
48 Blandine ROCHE, suor 1906-1999 la presenza salesiana negli anni difficili della Tunisia post-indipendenza SDB e FMA in ruoli dirigenziali AM, AS, AF



Lettera Rettor Maggiore. Artemide ZATTI

«CREDETTI, PROMISI, GUARII!»
Artemide Zatti: Vangelo della Vocazione e Chiesa della Cura




«Il
mosaico dei nostri santi e beati, pur essendo abbastanza ricco quanto
a rappresentatività -Fondatore, Cofondatrice, Rettori
Maggiori, missionari, martiri, sacerdoti, giovani – era ancora privo
del tassello prezioso della figura di un coadiutore. Ora anche questo
si sta realizzando»1.

Così
don Juan Edmundo Vecchi, ottavo Successore di don Bosco, cominciava
la sua lettera in occasione della beatificazione di Artemide Zatti.

Se
al “mosaico dei nostri santi” mancava una tessera, oggi
questo mosaico ha una lucentezza del tutto particolare perché,
tra poche settimane, ci sarà dato di vivere un grande dono del
Signore: vedere uno dei figli di Don Bosco, coadiutore salesiano,
emigrato italiano in Argentina e infermiere, canonizzato da Papa
Francesco il prossimo 9 ottobre 2022.

Artemide
Zatti sarà, dunque, il primo
santo salesiano non martire ad essere canonizzato
.
Senza dubbio la canonizzazione del primo santo salesiano e di un
salesiano coadiutore dà e darà un tocco di completezza
alla serie di modelli di spiritualità salesiana, che la Chiesa
dichiara ufficialmente tali.

Riporto
la bellissima testimonianza personale, piena di profondità
spirituale e di fede, resa da Artemide Zatti nel 1915 a Viedma, in
occasione dell’inaugurazione di un monumento funerario posto
sulla tomba del Padre Evasio Garrone (1861-1911), salesiano
missionario benemerito e considerato da Artemide insigne benefattore.

«Se
io sto bene, sono sano e in condizione di fare un po’ di bene
al mio prossimo infermo, lo debbo al Padre Garrone, Dottore, che
vedendo peggiorare di giorno in giorno la mia salute, essendo io
affetto da tubercolosi con frequenti emottisi, mi disse decisamente
che, se non volevo finire come molti altri, facessi una promessa a
Maria Ausiliatrice di rimanere sempre al fianco suo, aiutandolo nella
cura degli infermi, che egli, confidando in Maria, m’avrebbe
guarito.

CREDETTI,
perché sapevo per fama che Maria Ausiliatrice lo aiutava in
modo visibile.

PROMISI,
perché sempre fu mio desiderio essere d’aiuto in
qualcosa al mio prossimo.

E,
avendo Dio ascoltato il suo servo, GUARII.
[Firmato]
Artemide Zatti».

Vediamo
che la vita salesiana di Artemide Zatti, secondo questa
testimonianza, si fonda su tre verbi che ne testimoniano la solidità
generosa e confidente. Per valorizzare il dono della santità
di questo grande salesiano coadiutore, vorremmo meditare su questi
tre verbi e sui loro straordinari frutti di bene, perché
tocchino in profondità i desideri, i sogni, gli impegni della
nostra Congregazione e di ciascuno di noi e promuovano in tutti una
rinnovata e feconda fedeltà al carisma di don Bosco.

Profilo
di Artemide Zatti2

Artemide
Zatti nasce a Boretto (Reggio Emilia) il 12 dicembre 1880 da Albina
Vecchi e Luigi Zatti. La famiglia contadina lo educa ad una vita
povera e laboriosa, illuminata da una fede semplice, schietta e
robusta, che guida e nutre la vita.

A
nove anni Artemide, per contribuire all’economia familiare,
lavora come bracciante presso una famiglia benestante.

Nel
1897 gli Zatti emigrano in Argentina e si stabiliscono a Bahia
Blanca. Artemide giunge in questa Città all’età
di diciassette anni e nell’ambiente familiare impara presto ad
affrontare le fatiche e le responsabilità del lavoro. Trova
lavoro in una fabbrica di mattoni e, nello stesso tempo, coltiva e
matura una profonda relazione con Dio, sotto la guida del salesiano
don Carlo Cavalli, suo Parroco e Direttore spirituale. Artemide trova
in lui un vero amico, un confessore saggio e un autentico ed esperto
direttore spirituale, che lo forma al ritmo quotidiano della
preghiera e alla vita sacramentale settimanale. Con don Cavalli
stabilisce un rapporto spirituale e di collaborazione3.
Nella biblioteca del suo parroco ha la possibilità di leggere
la biografia di Don Bosco e ne rimane affascinato. Fu
il vero inizio della sua vocazione salesiana.

Nel
1900, ormai ventenne, Artemide, invitato da don Cavalli, chiede di
entrare nell’aspirantato salesiano di Bernal, località
vicina a Buenos Aires.

Nel
1902, ormai prossimo all’ingresso in noviziato, Artemide
contrae però la tubercolosi. Racconta don Vecchi nella sua
lettera: «Sicuri della sua responsabilità, i superiori
gli affidarono l’assistenza di un giovane sacerdote malato di
tubercolosi. Zatti svolse con generosità l’incarico, ma
dopo denunziò la stessa malattia»4.

Gravemente
malato, fa ritorno
a Bahía Blanca
e don Cavalli lo invia a Viedma, affidandolo alle cure del salesiano
don Evasio Garrone, competente – grazie a lunga esperienza –
nell’arte medica e direttore dell’ospedale San José
fondato da mons. Cagliero.

Trovo
molto significativo ricordare che Artemide a Viedma incontra Zefirino
Namuncurá-oggi beato-proveniente da Buenos Aires e come lui
affetto da tubercolosi. I due, pur con età diversa, vivono in
cordiale amichevole rapporto, finché Zefferino parte nel 1904
per l’Italia con Mons. Giovanni Cagliero.

Dopo
due anni di cure a Viedma con risultati insoddisfacenti, don Garrone
invita Artemide a chiedere la guarigione per intercessione della
Vergine Santa, facendo voto di dedicare tutta la vita alla cura dei
malati. Formulato il voto con viva fede, Artemide ottiene la
guarigione e, nel 1906, inizia il noviziato.

Per
i rischi associati alla pregressa condizione di salute, Artemide deve
rinunciare al proposito di diventare sacerdote e professa come
coadiutore tra i Salesiani di don Bosco l’11 gennaio 1908.
Questo fatto comporta per Artemide una grande crescita nella fede.
Infatti, egli non abbandona il desiderio di essere salesiano prete e
continua a pensare alla vocazione sacerdotale nella Congregazione
Salesiana, soprattutto quando la salute sembrava migliorare. Perciò
«è commovente constatare l’attaccamento
incrollabile alla propria vocazione, manifestato anche quando la
malattia sembrava precludere assolutamente questo cammino. Leggiamo,
ad esempio, quello che scrive ai suoi il 7 agosto 1902: “Vi fò
sapere che non solo era mio desiderio, ma anche dei miei Superiori di
mettermi il sacro abito; ma c’è un articolo della Santa
Regola che dice di non poter ricevere l’abito uno che abbia la
più piccola cosa rispetto alla salute. Così è
che se Dio non mi trovò degno dell’abito finora, confido
nelle vostre orazioni di sanare presto e così appagare i miei
desideri”»5.

Ma
alla fine i Superiori, date tutte le circostanze di malattia e anche
l’età (23-24 anni) devono proporre a Zatti di professare
come salesiano coadiutore. È certo che «era la donazione
totale a Dio nella vita salesiana cui Artemide aspirava in primo
luogo»6.

Anche
su questo punto decisivo nella sua vita, Zatti compie un camino di
maturità. Leggiamo ancora nella lettera di don Vecchi:
«Sacerdote? Coadiutore? Diceva egli stesso ad un confratello:
“Si può servire Dio sia come sacerdote sia come
coadiutore: davanti a Dio una cosa vale tanto come l’altra,
purché la si viva come una vocazione con amore”»7.

L’11
febbraio 1911 emette i voti perpetui e, nello stesso anno, dopo la
morte di don Garrone, gli subentra, dapprima come incaricato della
farmacia annessa all’ospedale San José di Viedma, e poi
– dal 1915 – come responsabile dello stesso ospedale.
Ospedale e farmacia diverranno il campo di lavoro di Artemide.

Così,
dal 1915, per 25 anni, con grande energia, sacrificio e
professionalità Zatti sarà l’anima dell’ospedale
che però, nel 1941, dovrà essere demolito: i superiori
salesiani decidono di utilizzare il terreno fino ad allora occupato
dalla struttura sanitaria per la costruzione della sede vescovile.
Artemide soffre intensamente al pensiero della demolizione, ma in
spirito di obbedienza accetta la decisione e trasferisce gli ammalati
negli ambienti della Scuola Agricola Sant’Isidro dove crea una
nuova struttura per la cura e l’assistenza di infermi e poveri.

Dopo
altri anni di intenso servizio, ormai esonerato dalle responsabilità
dell’amministrazione sanitaria, nel 1950, a seguito di una
caduta durante un lavoro di riparazione, gli esami clinici gli
riscontrano un tumore al fegato per il quale sono vane le cure.
Accoglie e vive con consapevolezza l’evoluzione della malattia.
Di fatto, egli stesso prepara per il medico il certificato della
propria morte! Non sono poche le sofferenze, ma trascorre gli ultimi
mesi nell’attesa del momento finale preparato per l’incontro
con il Signore. Lui stesso dice: «Cinquant’anni fa sono
venuto qui per morire e sono arrivato fino a questo momento, che cosa
posso desiderare di più? D’altra parte, ho trascorso
tutta la vita preparandomi per questo momento…»8.

La
morte sopravviene il 15 marzo 1951 e la diffusione della notizia
mobilita la popolazione di tutta Viedma per un tributo di gratitudine
a questo salesiano che ha dedicato l’intera vita ai malati,
soprattutto più poveri. Di fatto, “tutta Viedma salutò
il “parente
di tutti i poveri”
,
come lo chiamavano da tempo; colui che era sempre disponibile per
accogliere i malati speciali e la gente che veniva dalla lontana
campagna; colui che poteva entrare nella più ambigua delle
case a qualsiasi ora del giorno o della notte, senza che alcuno
potesse insinuare il minimo sospetto su di lui; colui che, pur
essendo sempre “in rosso”, aveva mantenuto un rapporto
singolare con le istituzioni finanziarie della città, sempre
aperte all’amicizia ed alla collaborazione generosa con coloro
che componevano il corpo medico della cittadina»9.

I
funerali, con l’imponente afflusso di popolo, confermano la
fama di santità che circonda Artemide Zatti e che sollecita
l’apertura a Viedma del processo diocesano (22 marzo 1980). Il
7 luglio 1997 Zatti viene dichiarato Venerabile e il 14 aprile 2002 è
proclamato Beato da San Giovanni Paolo II.

La
pedagogia di Dio nei suoi santi

Per
accostare la figura di Artemide Zatti è preziosa la guida di
un principio teologico, denso di significato e ripetuto da Hans Urs
von Balthasar:

«Soltanto
l’immagine [di Gesù] che lo Spirito presenta alla Chiesa
ha saputo, lungo millenni di storia, trasformare uomini peccatori in
santi. Proprio in base a questo criterio della potenza di
trasformazione si dovrebbe misurare il valore di un’interpretazione
di Gesù che pretenda trasmetterci una conoscenza di Lui»10.

Con
queste parole, Balthasar rimarca un’evidenza che ha sempre
accompagnato la storia della Chiesa: l’azione dello Spirito si
manifesta come potenza di trasformazione della vita umana, a
testimonianza della perenne attualità e vitalità del
Vangelo. In questo modo la buona notizia di Gesù continua a
vivere e diffondersi secondo la regola dell’Incarnazione e,
specie nella carne e nella vita dei santi, per il loro profondo
consentire allo Spirito, la Pasqua sfolgora nell’attualità
storica di qui
ed ora
sempre nuovi, ove maturano prodigi che confermano la fede della
Chiesa.

I
santi sono allora realizzazioni dello Spirito che offrono, con la
semplicità di una vita trasfigurata, lineamenti precisi del
Figlio, donati dal Padre alla fatica del mondo, nell’attualità
di un tempo e nella prossimità di luoghi bisognosi di salvezza
e di speranza.

Se
Dio guida la sua Chiesa attraverso la vita obbediente dei suoi figli
più docili e audaci, nella storia di ciascuno di loro devono
anzitutto brillare riflessi di Vangelo che trasformano una
feriale biografia in agiografia

e poi si debbono riconoscere semi pasquali, capaci di innescare
rinnovati cammini ecclesiali nel popolo di Dio.

Artemide
Zatti conferma questa regola della santità: l’agiografia
è luce dello Spirito sprigionata dalla semplicità della
sua biografia, tanto convincente perché abitata in pienezza
d’umanità, e tanto sorprendente da rendere visibili «un
nuovo
cielo e una nuova terra» (Ap
21,1); così i semi pasquali, regalati dalla vita di questo
salesiano coadiutore al campo del mondo, hanno trasformato luoghi di
sofferenza – gli ospedali di San José e di Sant’Isidro
– in vivai della speranza cristiana straordinariamente
irradianti. «Si è trattato di un’attiva presenza
nel sociale, tutta animata dalla carità di Cristo che lo
spingeva interiormente»11.

È
possibile allora meditare sul dono che lo Spirito fa al mondo, alla
Chiesa, alla Famiglia Salesiana con la santità di Zatti,
sostando dapprima sulla luminosità della sua biografia –
un Vangelo, pienamente incarnato, della vocazione, della confidenza e
della dedizione – per considerare poi la forza pasquale del suo
apostolato che ha edificato, nei suoi ospedali, la chiesa della cura,
della prossimità, della salvezza, della corredenzione, per
nutrire la fede del popolo di Dio.

Se
vogliamo esprimere in modo sintetico il segreto che ha ispirato e
guidato la vita, i passi, i lavori, gli impegni, la gioia, le
lacrime…, di Artemide Zatti, le parole di don Vecchi a tale
fine sono esaustive: «Al
seguito di Gesù, con Don Bosco e come Don Bosco, dovunque e
sempre
»12.

1.
UN UOMO DI VANGELO

1.1
Il Vangelo della vocazione: «Credetti»

La
vicenda di Artemide Zatti colpisce anzitutto per la sua particolarità
vocazionale. Una vocazione luminosa perché purificata da una
misteriosa pedagogia di Dio che si dispiega nella sua vita attraverso
mediazioni e situazioni diverse e impegnative. La vita cristiana è
il respiro condiviso della famiglia di Artemide, che tutto legge
nella luce del mistero di Dio; sarà la seconda patria
argentina, raggiunta con l’emigrazione, a mostrare il
radicamento degli Zatti in una fede non comune. Il Card. Cagliero
scrive:

«I
nostri compatrioti, anche quelli che appartengono alle popolazioni
più religiose d’Italia, giunti qui pare che mutino
natura. L’amore smodato al lavoro, l’indifferenza
religiosa dominante in quei paesi, i pessimi esempi frequentissimi
[…] operano un’incredibile trasformazione nello spirito
e nel cuore dei nostri buoni contadini ed artigiani, che in cambio di
qualche scudo che guadagnano, perdono la fede, la moralità, la
religione»13.

La
famiglia Zatti non cederà all’influsso dell’ambiente,
segnalandosi al contrario per una pratica religiosa fervente,
schietta, coraggiosa, libera dal rispetto umano; e Artemide
continuerà a nutrire in famiglia un intenso rapporto con Dio,
sostanziato di preghiera, laboriosità, rettitudine, così

«tutto
fa credere […] che la formazione religiosa che il Servo di Dio
ricevette da fanciullo e nella prima giovinezza […] dovette
essere privilegiata e tale da spiegare gli atteggiamenti spirituali
che egli mantenne poi per tutta la vita»14.

L’esperienza
di Artemide riflette la discrezione luminosa della «“misura
alta” della vita cristiana ordinaria» (Novo
Millennio ineunte
,
31) frutto di un esclusivo radicamento in Dio, di una fede vissuta
come obbedienza coraggiosa e irraggiante perché libera, lieta
e feconda.

Quando
il salesiano don Cavalli, parroco e guida di Artemide sui sentieri
dello Spirito, dovrà sostenerne l’orientamento
definitivo di vita, il discernimento sarà sobrio e limpido:
constaterà che la chiamata a darsi a Dio totalmente, come
sacerdote, risuona nel cuore di quel giovane in modo integro e puro,
non contaminata dalla ricerca di sé e del proprio interesse,
ma accesa dal desiderio di servire il Vangelo del Regno.

E
Dio, per la singolare disponibilità di Artemide al dono di sé,
non si limita a chiamare, ma può dilagare, con il segno
incontrovertibile della sua presenza: la croce del Figlio. Così
proprio al cuore del discernimento vocazionale di questo giovane
desideroso di diventare sacerdote si rende riconoscibile il sigillo
della predilezione di Dio: Artemide, accolto a Bernal come aspirante,
viene richiesto di un servizio rischioso, la cura di un sacerdote
malato di tubercolosi-come ricordato in precedenza. Il servizio senza
calcolo porta Artemide a contrarre a propria volta la malattia che
esigerà il sacrificio del sogno vocazionale: Zatti sarà
salesiano, ma non sacerdote.

Qui
riconosciamo la potenza del Vangelo accolta senza condizioni nella
vita dei santi; una potenza che suscita una risposta vocazionale pura
perché custodita da un cuore non solo distaccato dal male
-condizione essenziale per l’ascolto della voce di Dio-ma
capace di libertà anche rispetto al bene, condizione
essenziale di una fede rocciosa nell’Assoluto di Dio.

Camminando
nell’oscurità luminosa della fede, Artemide sacrifica il
desiderio di servire la Chiesa nella forma ministeriale del
sacerdozio, abbracciandone però l’essenza, secondo
Cristo, «il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì sé
stesso senza macchia a Dio» (Eb
9,14).

I
caratteri del vangelo della vocazione si riconoscono così,
indelebili, nella pienezza del sacrificio di sé che sigilla il
principio della vita salesiana di Zatti ben prima di coronarne la
pienezza.

E
la fedeltà alla forma laicale della vita salesiana,
abbracciata per puro amore di Dio, sarà piena e convinta,
lontana da ogni rammarico, dispiegata in un’esistenza
convincente e contenta.

Questo
è il vangelo della vocazione, la buona notizia della chiamata
di Dio riservata singolarmente a ciascuno dei suoi figli, chiamata
della quale Dio solo conosce la portata, le ragioni, la destinazione,
lo svolgimento concreto. Chiamata che si rende percepibile solo nella
corrispondenza pura dell’amore che, a propria volta «vuole
disfarsi dell’avversario più pericoloso: la propria
libertà di scelta. Ogni vero amore ha perciò la forma
interna del voto: esso si lega all’amato, a motivo dell’amore
e nello spirito dell’amore»15.

Il
vangelo della vocazione
,
nella santità di Zatti, è il vangelo della pura fede:
la buona notizia del respiro sano del cuore che assapora la libertà
nell’obbedienza al disegno di Dio, custode del mistero di ogni
vita chiamata ad essere tralcio fecondo della vera Vite, affidata
alla sapienza dell’«Agricoltore» (Gv
15,1).

La
santità di Artemide Zatti provoca in questo modo la paura
vocazionale del nostro tempo, paura che stringe il cuore nella
sfiducia davanti al mistero di Dio. Il
vangelo della vocazione

annunciato dalla vita di questo santo salesiano coadiutore mostra che
solo corrispondendo al sogno di Dio è possibile, ad ogni età
e in ogni situazione, sconfiggere la paralisi dell’io, con la
povertà del suo sguardo e delle sue misure, con l’angustia
della sua incertezza e del suo timore.

Quando
don Garrone – salesiano a propria volta di eminente virtù,
oltre che di grande competenza medica, acquisita attraverso il
servizio generoso ai malati – esorta Artemide malato di
tubercolosi a chiedere la grazia della guarigione per intercessione
della Vergine e con il voto di dedicarsi per tutta la vita ai malati,
la fede di Zatti dà buona prova di sé: semplice,
disinteressata, senza riserve, racchiusa in una parola: “Credetti!”.

“Credetti”,
ovvero quando basta una parola a dire la fede, perché la fede
è pura; e solo questa fede è vocazionalmente generosa,
per la levità della sua purezza che “mette ali al cuore
e non catene ai piedi”.

La
santità di Artemide Zatti raggiunge i nostri cammini
vocazionali, talvolta stanchi e grevi, con la forza dirompente di un
«credetti» che non è mai venuto meno: il presente
della fede che si fa continuo lungo la vita e la rende credibile. La
sua è stata una fede con una continua
unione con Dio
.
Nelle testimonianze raccolte così si esprimeva Mons. M. Pérez:
«L’impressione che io ricevetti fu quella di un uomo
unito al Signore. L’orazione era come il respiro della sua
anima, tutto il suo comportamento dimostrava che viveva pienamente il
primo comandamento di Dio: lo amava con tutto il cuore, con tutta la
sua mente e con tutta la sua anima»16.

Siamo
chiamati a valorizzare la testimonianza di Zatti per rinnovare
l’ardore della nostra pastorale vocazionale e per offrire ai
giovani l’esempio di una vita che la solidità della fede
rende piena, semplice, coraggiosa, per la potenza dello Spirito e la
docilità del chiamato.

1.2
Il Vangelo della confidenza: «Promisi»

Il
Vangelo della vocazione
,
del quale Zatti è testimone, anima un secondo verbo di
importanza fondamentale: promettere.

Delle
promesse umane oggi si sperimenta spesso la debolezza, si teme
l’inaffidabilità, si constata l’incapacità
ad essere definitive: di qui gli inverni vocazionali che stanno
colpendo la famiglia, le Congregazione in molte parti del mondo, la
Chiesa, e che rendono urgente l’annuncio del vangelo della
chiamata di Dio e della risposta del credente.

Von
Balthasar, riflettendo sull’essenza della vocazione, frutto di
un credere autentico, così scrive: «Non c’è
nessun camminare incontro all’amore senza almeno un accenno di
questo gesto
di consegna
.
[…] [L’amore] vuole definitivamente rimettersi,
consegnarsi, affidarsi, racchiudersi. Vuole depositare presso l’amato
una volta per tutte la sua libertà di circolazione, per
lasciargli un pegno d’amore. Appena l’amore si desta
veramente alla vita, l’attimo temporale vuole essere
superato in una forma di eternità
.
Amore a tempo, amore ad interruzione non è mai vero amore»17.

Artemide
Zatti, pur in giovane età e proprio in un grande momento di
prova, sente la chiamata alla pienezza dell’impegno di sé
in una promessa irrevocabile e radicale; quando in età matura,
testimoniando la sua gratitudine verso il Padre Evasio Garrone, suo
benefattore, rievocherà i primordi del proprio cammino di
consacrazione, Zatti potrà essere lapidario nel presentare il
cuore della sua adesione giovanile alla chiamata del Signore:
«credetti, promisi».

Il
promisi
di Zatti segue il suo “credetti
ma anche ne plasma la radicalità e la qualità umana e
cristiana. Artemide crede perché promette e non solo promette
perché crede: in lui vediamo realizzata la regola della fede
che, se non può contare sulla disponibilità alla
promessa, alla consegna di sé, decade ad interesse spirituale,
a previdenza e contratto religioso.

Zatti
non attende garanzie per dedicare rischiosamente la sua vita, non
chiede di riscuotere il diritto al “centuplo quaggiù”
come condizione previa al suo gettare le reti; piuttosto «si
offerse con pronta disponibilità ad assistere un sacerdote
malato di tisi e ne contrasse il male: non disse una parola di
lamento, accolse la malattia come dono di Dio e ne portò con
fortezza e serenità le conseguenze»18.

Così
la generosità di Artemide, è pagata prima ancora della
professione religiosa, e il prezzo è alto: una malattia
debilitante, un sogno vocazionale infranto, una sofferenza acuta, e –
soprattutto – una totale incertezza. Ma al crocevia di fede e
promessa il vangelo della vocazione realizza in questa vita, sin
dalla giovinezza, prodigi di santità.

La
promessa di Zatti è pura, disinteressata, come la sua fede e
fa brillare l’integrità dell’abbandono al disegno
di Dio e la generosità del dono e dell’impegno di sé
che mostrano autentico spessore teologale: Artemide fa sua la vita
del Figlio obbediente che si lascia totalmente decidere e destinare
dall’amore del Padre per la salvezza del mondo.

L’alfabeto
vocazionale di Zatti è tanto profondo quanto semplice e
chiaro: «Credetti, promisi. Zatti crede e promette con
radicalità evangelica perché già ha praticato la
Passione del Signore quale regola della sua fede e della sua
dedizione, come non si stanca di ripetere nelle sue lettere ai
familiari: “Le nostre gioie sono le croci, il nostro conforto è
il patire, la nostra vita sono le lacrime, ma con a fianco la sempre
cara e inseparabile compagna, la speranza di raggiungere al bel
paradiso, quando sarà compiuto il nostro pellegrinaggio in
terra”»19.

La
croce è la regola della fede, e insegna come il credere
cristiano non sia un semplice conoscere qualcosa, ma affidarsi a
Qualcuno promettendoGli non qualcosa, ma se stessi. Formato dalla
croce Artemide prima ancora di intraprendere il cammino della vita
religiosa, non promette
ma
si
promette
,
non fa
voto
,
si
vota
,
e così riflette i lineamenti del Figlio che «entrando
nel mondo, […] dice: Tu non hai voluto né sacrificio né
offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né
olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco,
io vengo -poiché di me sta scritto nel rotolo del libro- per
fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb
10, 5-7).

E,
sempre alla scuola del Signore Gesù, Zatti impara che alla
radicalità della promessa di sé corrisponde l’audacia
crescente della fede. Chi si dà completamente a Dio può
abbandonarsi alla certezza di ricevere tutto da Lui, e Artemide non
si stanca di ricordarlo nelle sue lettere: «Mi raccomando che
non abbiate paura o vergogna di domandare grazie. Domandate pure ed
otterrete; e più domandate, più otterrete; poiché
chi domanda molto riceve molto, chi poco, riceve poco, e chi niente
domanda, nulla riceve. […] Io non starò lì a
enumerare le grazie che dovete chiedere; ben voi lo sapete. Solo vi
metto sotto gli occhi una: ed è quella, che noi tutti possiamo
amare e servire Dio in questo mondo e poi goderlo nell’altro»20.

1.3
Il Vangelo della dedizione: «Guarii»

«Guarii»
è il verbo con il quale Zatti sigilla l’evento che lo
introduce nella vita salesiana.

Cosa
significa «Guarii»?
Certamente la tubercolosi che ne aveva minato la salute fu superata
da Zatti e in un modo che sorprese i medici: «Nel processo di
Viedma il Tribunale si domanda se la guarigione fu miracolosa. A
quanto ci è dato sapere, mancò per qualificarla tale la
istantaneità, ma, a detta dei dottori […] che conobbero
bene Zatti fino alla sua morte, fu straordinaria per la scarsezza e
la poca efficacia delle cure di allora, per la continuità
della guarigione e per la più che normale robustezza fisica di
cui godette poi sempre il Servo di Dio, nonostante la sua vita di
strapazzo. L’intervento della Madonna sembra innegabile, sia
che si trattasse di miracolo sia che fosse grazia straordinaria»21.

Il
dito di Dio però agì secondo il suo stile
inconfondibile: non estirpò il male riportando la vita di
Artemide alle condizioni previe alla malattia, e neppure dipanò
il mistero tipico di ogni disegno divino e di ogni esistenza umana.
Così, come sappiamo, «i Superiori, pur constatando i
miglioramenti della salute del Servo di Dio, non dovettero essere
pienamente persuasi sulle sue future possibilità. La
tubercolosi, a quei tempi, non dava mai sicurezza di guarigione e di
guarigione definitiva; il curriculum
di studi che il Servo di Dio avrebbe dovuto affrontare, alla sua età
(23-24 anni), era ancora lungo e non certo adatto ad un
tubercolotico; egli, d’altra parte, aveva già
incominciato a lavorare, e tutto fa credere con successo e con
reciproca soddisfazione, nella Farmacia in una occupazione adatta ad
un laico; forse Padre Garrone faceva qualche pressione per tenerlo
con sé nel suo lavoro. I Superiori allora, date tutte queste
circostanze, dovettero proporre al Servo di Dio – che
certamente, da tutto quello che appare nei suoi scritti, aveva deciso
di lasciare il mondo e di consacrarsi a Dio – di farsi
religioso salesiano, ma come coadiutore (confratello laico): la
soluzione sembrava la più prudente in vista della sua ancora
incerta salute: un lavoro materiale richiedeva meno sforzi di quanti
non se ne esigessero per un lungo periodo di studi severi»22.

Il
mistero di Dio si infittisce con la guarigione, e alla fede di
Artemide viene chiesta una purificazione forse più severa di
quella imposta dalla perdita della salute: il sacrificio
dell’orientamento vocazionale. Così Artemide è
condotto ad approfondire il cammino di svuotamento che Dio gli
richiede: la liberazione dalla malattia non è una riconquista
di forze, che permette a un giovane intraprendente di “riprendere
in mano la vita”. La guarigione, a suo modo, è il
deserto di una nuova povertà, perché la vita di Zatti
sia spazio libero per Dio, nella radicalità di un nuovo
abbandono.

Dio
guarisce Artemide dalla tubercolosi per rinnovare in lui il prodigio
della salvezza dall’attaccamento a se stesso, del distacco
anche dai propri progetti di bene: «C’è da
ritenere che abbandonare l’aspirazione al sacerdozio sia stata
per il Servo di Dio una grande sofferenza spirituale, tanto era lo
slancio e lo spirito di sacrificio con cui aveva intrapreso il
cammino verso questa meta. È però meraviglioso, e
indice di straordinaria forza spirituale, il fatto che non appaia mai
una parola di lamento od anche solo di rammarico e nostalgia […]
per questo capovolgimento nella prospettiva della sua vita»23.

«Guarii»:
è allora la voce della coerenza dell’alfabeto
vocazionale di Zatti. Quando Dio chiama e la sua creatura risponde,
lo Spirito non si limita a riparare la precarietà umana ma
compie il sogno di Dio «Ecco, io faccio nuove tutte le cose»
(Ap
21,5). Così, se la malattia inclina il cuore umano a
ripiegarsi su di sé, il credere e il promettere di Zatti,
nutriti dall’amore al Signore Gesù e alla Croce,
producono vera salute: una più grande dimenticanza di sé
e condiscendenza incondizionata a Dio, che lo porta ad essere l’umile
apostolo dei più poveri, dei malati e, tra questi, a diventare
l’apostolo dei casi più difficili; in breve, degli
abbandonati e degli scartati di questo mondo.

Artemide
rinato a più grande povertà è più arreso,
in confidenza piena e operosa, al disegno del Padre: «Ex
auditu

posso dire che [nella vita del Servo di Dio] c’è stata
una volontà generale che Dio fosse glorificato. In quel che lo
conobbi posso assicurare che vivesse per la gloria di Dio»24.

La
subordinazione di tutto alla gloria di Dio e il sacrificio delle
proprie vedute – compresi i progetti di bene – per
assecondare la sapienza di Dio che sola realizza la pienezza
dell’Amore, saranno essenziali non solo all’esperienza
spirituale di questo salesiano straordinario, ma pure alla pedagogia
del dolore

che dovrà praticare per la specificità della sua
missione.

Nel
“guarii” di Zatti si compie non solo una grazia ma una
scuola, ed entrambe plasmate dal dito di Dio per il bene dei
fratelli: libero dalla malattia Artemide servirà per una vita
i malati, dopo essere passato attraverso il vero
guarire

che lo renderà vero
medico

delle creature sulle quali si chinerà.

«Faceva
spesso il segno della Santa Croce e lo faceva fare agli infermi,
amava insegnarlo ai bambini. In lui la fede e i medicamenti formavano
una simbiosi, senza la fede non curava e nemmeno senza medicine.
Ugualmente non vedeva una dicotomia tra l’anima e il corpo; era
una sola cosa l’uomo, e curava questo uomo: corpo e anima»25.

Solo
perché condotto dalla mano di Dio a vivere il guarire come
morire a se stesso Zatti potrà farsi prossimo ai malati con il
farmaco dell’Amore Incarnato e Crocifisso, dispensando
conforto, luce e speranza.

2.
UN TESTIMONE DELLA PASQUA

Se
nella vita di Zatti – per il modo in cui fu raggiunto dalla
chiamata di Dio – brilla in forma originale e attualissima il
Vangelo della vocazione
,
la sua semina apostolica si compie come arte della cura nella luce
della Pasqua.

La
coerenza pasquale è la regola di fedeltà di ogni
apostolato cristiano: nei santi la pratica di questa regola raggiunge
il fulgore, portando la vita di Dio dentro le fatiche degli uomini,
della storia, del mondo, edificando così la Chiesa.

Zatti
ha praticato con passione pasquale la fatica della sofferenza umana
ed ha così edificato la Chiesa come vero ospedale da campo
(come oggi continua a ripetere Papa Francesco), proprio trasformando
due ospedali sorti “alla fine del mondo” in cellule vive
della Chiesa.

Gli
ospedali di San José prima e poi di Sant’Isidro furono
tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento una
risorsa sanitaria preziosa e unica per la cura soprattutto dei poveri
di Viedma e della regione del Rio Negro: l’eroismo di Zatti ne
fece luoghi di irradiazione dell’amore di Dio dove la cura
della salute diventa esperienza di salvezza.

Zatti
ha consegnato la sua vita alla parabola del buon Samaritano. Il
Samaritano è Cristo, il Dio vicino (nel suo Figlio Amato) che
non conosce indifferenza e disprezzo, ma offre se stesso, in
anticipo, per guarire fin l’ultimo dei suoi figli e figlie, per
mezzo della prossimità dell’amore, così che il
male della storia non condanni nessuno di questi piccoli a perire
fuori da Gerusalemme.

Ecco
il miracolo di Dio: in quel fazzoletto di terra patagonica, dove
scorre la vita di Zatti, ha preso vita una pagina del Vangelo. Il
Buon Samaritano ha trovato volto, mani e passione, anzitutto per i
piccoli, i poveri, i peccatori, gli ultimi. Così un ospedale è
diventato la Locanda del Padre, è diventato segno di una
Chiesa che voleva essere ricca di doni di umanità e di Grazia,
dimora del comandamento dell’Amore di Dio e del Fratello, luogo
di salute quale pegno di Salvezza.

Sono
numerosi i testimoni che permettono di contemplare l’esperienza
di Chiesa accessibile in quell’ospedale da campo reso vivo dal
cuore infiammato di Zatti: dando loro la parola emerge di nuovo il
fascino di Artemide preoccupato di curare quanti a lui si affidavano,
sia con i rimedi dell’arte medica, sia con la presenza, la
simpatia, la preghiera per tutti e con tutti, e con l’espressione
di fede di tutti giorni di questo umile salesiano. Tutto questo si
rivelò certamente più efficace di tante medicine.

2.1.
Cura pasquale e servizio (
diakonia)
della vita ferita

Dove
c’è santità la Chiesa si diffonde, e dove si
edifica la Chiesa c’è santità. Chi ha incontrato
Zatti, chi è stato accolto nel suo ospedale, ha fatto
esperienza di fraternità e in questa fraternità
esperienza di Chiesa.

Zatti
ha vissuto con radicalità evangelica la certezza che il
servizio, che è stata la sua caratteristica vocazionale – a
diakonia
– rende credibile, riconoscibile, amabile, il volto della Chiesa. La
porta del servizio attrae il cuore umano, specie quando è
provato dalla vita e dalla sofferenza, e apre all’esperienza
dell’incontro con Gesù, il vero Buon Samaritano, e Zatti
ha fatto del suo meglio per vivere come un buon samaritano.
«L’ospedale e le case dei poveri, visitati notte e giorno
viaggiando su una bicicletta, considerata ormai elemento storico
della città di Viedma, furono la frontiera della sua missione.
Visse la donazione totale di sé a Dio e la consacrazione di
tutte le sue forze al bene del prossimo»26.

Zatti
è testimone di servizio, e così come Gesù ha
donato se stesso sino alla fine, Zatti ha realizzato fino
all’eroismo, sui passi del suo Signore, una donazione e una
diakonia
pienamente cristiana. Meritano di essere sottolineati, con le parole
unanimi dei testimoni, i caratteri straordinari della diakonia
evangelica
di Zatti: l’universalità della sua dedicazione, la
totalità del dono di sé, la generosità nata con
Dio accanto, in obbedienza a Lui, compiuta in Lui e per Lui.

Che
il servizio di Zatti non conoscesse particolarismi e non facesse
preferenza di persone è sotto gli occhi di quanti lo hanno
conosciuto: «So che ha visitato la prigione per curare i
malati. Con gli increduli e i nemici della Chiesa era disponibile e
amabile. Ricordo la frase di un medico che commentando il titolo del
libro del Padre Entraigas “Il parente di tutti i poveri”
diceva che avrebbe dovuto essere corretto in “parente di tutti”
per l’equità con la quale [Zatti] non faceva distinzione
tra tutti quelli che lo cercavano»27.

Se
nel servizio e
nella
donazione di se stesso
da parte di Zatti c’era una preferenza per qualcuno, questa era
la preferenza insegnata dal Buon Pastore, sensibile soprattutto alla
sorte delle pecore più ferite e smarrite: «Fu una delle
predilezioni [di Zatti] la sua totale donazione a Dio in queste
persone umili, indifese o con infermità ripugnanti a tal punto
che quando qualcuno voleva mandarle a un ospizio perché erano
state molti anni nell’Ospedale San José rispondeva che
non si dovevano abbandonare questi veri parafulmini
dell’Ospedale»28.

Zatti
poi serviva con tutto se stesso, consumandosi in una generosità
senza calcolo nelle forme più disparate di un’attività
febbrile, orientata soltanto a corrispondere alle richieste di tutti:
«Siccome era a tutti nota la sua bontà e la sua buona
volontà nel servire gli altri, tutti si rivolgevano a lui per
le cose più disparate. […] I direttori delle Case
dell’Ispettoria scrivevano per consigli medici, gli mandavano
confratelli da assistere, affidavano al suo ospedale-cronicario
persone di servizio diventate inabili. Le Figlie di Maria
Ausiliatrice non erano da meno dei Salesiani nel chiedere favori. Gli
emigranti italiani chiedevano aiuti, facevano scrivere in Italia,
sollecitavano pratiche, coloro che erano stati ben curati
all’Ospedale, quasi fosse espressione di gratitudine, gli
inviavano parenti e amici da assistere per la stima che avevano delle
sue cure. Le autorità civili avevano spesso persone inabili da
sistemare e ricorrevano a Zatti. I carcerati e altre persone,
vedendolo in buoni rapporti con le autorità, si raccomandavano
perché chiedesse clemenza per loro o facesse procedere la
soluzione dei loro problemi»29.

Il
servizio di Zatti era poi continuativo e dimentico di sé e,
proprio per questo, non frenato da suscettibilità,
ingratitudini, corrispondenze mancate o richieste assillanti: «Nel
servo di Dio la preoccupazione per il prossimo era straordinaria nel
lavoro quotidiano; dalla mattina alla sera viveva per i suoi amati
infermi. Queste circostanze si moltiplicavano la notte, quando, a
qualunque ora lo chiamassero, egli accorreva rapidamente. […]
Mi consta che spesso abbia dovuto soffrire di pretese eccessive di
alcuni infermi, esigenze smodate, capricci, come il caso […]
di pazienti con infermità mentali. Il Servo di Dio non perdeva
mai la pazienza. Ricordo di averlo visto in più di una
occasione salire con cattivo tempo, freddo e pioggia con il suo
veicolo, una bicicletta non ultimo modello, per curare infermi tra la
popolazione andando per strade molto poco transitabili»30.

A
segnare poi profondamente la diakonia,
il
servizio a tutti,
di Zatti era il suo svolgersi in compagnia del Signore. A nessuno
sfuggiva la competenza di questo generoso infermiere, ma altrettanto
evidente era il suo essere in missione con Gesù: «Un
fatto personale molto concreto: essendo io novizio e poi sacerdote
novello, venni a Viedma per alcune pustole che mi uscivano
soprattutto sul collo e sulla faccia e il Servo di Dio sempre mi
accoglieva sorridente, mi curava cauterizzandomi con una punta
rovente canticchiando il Magnificat
mentre operava e incoraggiandomi poi a offrire quelle sofferenze per
la santa perseveranza nella vocazione»31.

Ancora,
in Zatti rifulgeva l’obbedienza a Dio e al suo disegno come
anima di un servizio umile e fiducioso, che doveva ispirare nei
poveri e nei malati sentimenti di abbandono in Dio. Tutto trovava in
Dio ispirazione, e tutto Zatti svolgeva secondo il comando di Dio,
così che il servizio di questo grande salesiano era una
pratica continua e affascinante del precetto dell’amore: egli
«amò Dio sopra ogni cosa. Per lui tutte le cose di
questa terra erano transitorie e secondarie. Per me Zatti era
costante, senza cedimenti nel suo amore a Dio e nella sua pietà.
Non solo negli atti di pietà ma in ogni servizio al prossimo
teneva sempre il nome di Dio sulla bocca. Esortò tutti coloro
che gli furono vicini a vivere la pietà. Zatti era
permanentemente un esempio, la sua pietà era superiore
all’ordinario»32.

Quella
di Zatti però, come accade sempre nei santi, è una
diakonia,
un
servizio
compiuto certo in obbedienza a Dio, ma soprattutto in nome di Dio,
prestando a Dio il volto, il cuore, le mani, nella certezza –
fonte di grande audacia – di essere piccolo strumento della sua
grande Potenza e Provvidenza. Così Zatti opera con generosità
straordinaria, ma con abbandono totale perché sa che ad agire,
in lui, è il suo Signore: «Sperò e confidò
sempre in Dio. La serenità con la quale superava le difficoltà
era una dimostrazione della sua speranza in Dio. Sempre diceva: “Dio
provvederà”, però lo diceva con piena confidenza
e speranza»33.

Zatti,
credente e uomo vero, è «mosso dalla carità verso
il prossimo perché in ogni malato vedeva Cristo sofferente.
Tanta era la bontà che usava con gli infermi che non negava
loro nulla»34;
«per il Servo di Dio l’amore si manifestava nella carità
con la quale assisteva gli “altri Cristi”. Nella sua
concezione evangelica che tutto quello che faranno i suoi discepoli
al loro prossimo lo staranno facendo allo stesso Cristo, il Servo di
Dio si comportò abitualmente con tutti con carità,
anche quando si trattava di increduli o indifferenti»35.

O
vivendo in uscita una Chiesa del servizio, capace di raggiungere in
bicicletta i suoi poveri, o servendo quanti bussavano al suo ospedale
– di San José prima e di sant’Isidro poi –
perché vi incontrassero l’amore di Dio Zatti ha dato
tutto se stesso a Dio, divenendo servo del Signore, missionario
autentico della Chiesa nel nome del Signore Gesù.

2.2
Fraternità pasquale e comunione (
koinonia)
nella vita condivisa

La
santità di Zatti ci porta nel cuore della Chiesa non solo per
la singolarità della sua diakonia,
ma anche per la qualità della comunione fiorita per il suo
donarsi agli altri. Cosa fosse per Zatti la comunione è
attestato tanto dalle testimonianze di chi ne ha visto l’azione,
quanto dal modo in cui attraversò i momenti più
faticosi che ne segnarono la vita.

Un
fatto per lui particolarmente doloroso si verificò quando i
superiori si orientarono per la demolizione dell’Ospedale di
San José, al quale Artemide aveva consacrato ogni energia; a
Viedma mancavano gli ambienti per l’episcopio e per edificare
una confacente dimora vescovile fu deciso l’abbattimento del
vecchio ospedale, con l’onere del trasferimento di tutti i
servizi sanitari negli spazi della Scuola agricola di Sant’Isidro,
sede di un’altra opera salesiana a Viedma.

Per
Zatti la demolizione non era una semplice operazione edile, era una
prova cruda e crocifiggente: davanti agli occhi non aveva solo le
macerie di un vecchio ospedale, ma il dubbio che con quelle mura
fosse crollata la sua vita e lì fossero finite anche le sue
rinunce e privazioni, incomprensioni e veglie, grattacapi e sudori,
dedizione agli altri e sacrificio di sé. A Zatti il calice non
fu risparmiato, ma rimase in piedi, con fortezza e dolcezza
cristiana: «All’epoca della demolizione dell’ospedale
san José aveva prima proposto che il palazzo vescovile fosse
costruito in altro luogo e il terreno fosse permutato; poi, data
l’inesorabilità della demolizione, che […]
sentiva enormemente data la sua estrema sensibilità umana, non
si ribellò né protestò; anzi, calmava coloro che
cercavano di farlo ribellare»36.

Come
sempre accade nella vita dei santi, la prova è insieme
crogiolo oscuro e dimostrazione luminosa: Zatti con la sua serenità
d’animo e con l’alacrità posta nell’allestire
la nuova sede dei servizi sanitari, dimostrò quale fosse il
fondamento della sua dedizione: il vero ospedale da lui edificato non
poteva essere ridotto in macerie perché era un’invenzione
della carità, di quella carità che «non avrà
mai fine» (1Cor 13,8), e che esprime il miracolo della
comunione, riflesso dell’eterna Vita di Dio. Il vero ospedale
di Zatti non era un edificio terreno, dedicato a San José o a
Sant’Isidro; in quegli ambienti la sua professionalità
accoglieva tutti, attraverso la porta del servizio, perché
facessero però esperienza vera e piena della tenerezza di Dio.

Zatti
non ha predicato il catechismo della comunione, ma con la sua santità
lo ha incarnato; e il suo ospedale non era un fabbricato imponente,
ma un miracolo evidente, quotidiano, di servizio e comunione. Qui «il
Servo di Dio dirigeva il personale, che era composto da persone varie
che abitavano nell’ospedale, come un superiore di una comunità
religiosa […] Il personale lo amava, lo venerò e ne
seguì alla lettera le regole. A ciascuno non è mai
mancato il necessario: morale, spirituale e tecnico per il disbrigo
dei suoi impegni e questo per la personale preoccupazione del Servo
di Dio»37.

Che
proprio la statura spirituale di Zatti ne facesse l’artefice
della comunione è persuasione di tutti: «Negli anni in
cui sono stato a scuola nel Collegio san Francesco di Sales,
l’Ospedale era una dipendenza del Collegio e si sapeva tutto
ciò che accadeva qui come là. Non ho mai sentito
parlare di liti o incomprensioni tra i collaboratori di Zatti che
potessero avere qualche rilievo ed essere causa di pettegolezzi in
paese o nella scuola»38.

La
comunione cristiana, quando si realizza, non passa inosservata per la
sua bellezza che sconvolge il mondo prostrato dal rancore e dalla
divisione; sono solo i santi però a conoscere fino in fondo il
prezzo della comunione, la sua estraneità allo spontaneismo,
all’immediatezza della simpatia, alla facilità senza
sacrificio. I santi sanno quanto costa la comunione perché
sanno qual è la sua fonte: il Costato squarciato del Signore,
che compie l’opera della riconciliazione tra gli uomini e con
gli uomini.

Zatti
sa che solo il Sangue del Signore crea comunione, e sceglie la via
della partecipazione fedele e quotidiana al sacrificio del Figlio,
con il sorriso sul volto, la fortezza nell’animo, la pace nel
cuore, le mani trafitte dal lavoro e dalla fatica. Rendendo quasi
impercettibile l’impegno richiesto dalla sua immolazione, Zatti
«era un uomo che irradiava pace, [uomo] di azione, dinamico,
non mostrava nervosismo, allegro. Era frequente una sua battuta […]
per rallegrare un malato […]. Era un uomo che non ha vacillato
nelle sue pratiche religiose, […] segno del suo sforzo per
migliorare sé stesso. Personalmente, ciò che ho notato
di più di lui sono state la sua carità e umiltà»39.

L’umiltà
di Zatti costruisce la Chiesa e rende cristiana la comunione della
quale egli stesso è artefice; chi non muore ogni giorno a se
stesso porta con sé la pesantezza dell’egoismo che
ferisce la comunione; solo l’umiltà guarisce le
relazioni e vince le lusinghe del potere, del controllo, della
seduzione, della prevaricazione. Zatti, senza moltiplicare parole o
discorsi, sa che solo con l’umiltà può essere
artefice di vera koinonia
frutto e condizione di una diakonia
efficace e discreta, che non crea dipendenza ma restituisce dignità;
solo l’umiltà serve in modo generativo, promuovendo una
comunione che cura il legame e promuove l’autonomia. L’umiltà
è la virtù di Dio perché è il segreto di
ogni padre, la speranza di ogni figlio, lo spirito di ogni vita vera.

Zatti
può essere servo e artefice di comunione per l’umiltà
che lo rende semplice figlio di Dio, vivo della Vita dello Spirito e
padre di tutti: «Penso che nel rapporto di Zatti con i
collaboratori non ci siano mai stati problemi perché era come
il padre di tutti. Ricordo che a tutti mancava molto quando era
assente per essere andato a Roma alla Canonizzazione di don Bosco»40;
«il rapporto di don Zatti con l’ospedale era come quello
di un padre. Non conosco malintesi o difficoltà: se ci sono
state, credo non siano state da parte sua. Dalle infermiere con le
quali ho trattato […], non ho sentito altro che lodi e nessuna
lamentela»41.

2.3
Prossimità pasquale e
martyria
della vita senza fine

Il
nostro confratello Artemide Zatti ha realmente testimoniato con la
sua vita (martyria)
che il Signore è risorto. «Io sono la luce del mondo»
(Gv
8,12) dice di sé il Signore. Il Vangelo è Luce che
vuole penetrare la vita degli uomini, e Luce per il mondo è la
Chiesa, sacramento vivente di Dio. Anche la santità di Zatti,
alimentata dalla Pasqua di Gesù, è luce, e ne fanno
esperienza soprattutto i poveri e i malati di Viedma. Zatti li
accoglie attraverso la porta del servizio, li custodisce tra le mura
della comunione ma per offrire loro, con la sua testimonianza di
vita, la luce del Vangelo, lo splendore della Pasqua che illumina la
Chiesa.

Credenti
e non credenti sono folgorati dalle parole e dai gesti di Zatti; la
sua testimonianza è senza ombre, straordinariamente salesiana,
raggiunge tutti e annuncia, attraverso due nomi, due lineamenti
decisivi del Dio di Gesù: Provvidenza e Paradiso.

Non
c’è Chiesa dove non c’è annuncio esplicito
del nome di Dio, annuncio pagato con il martirio della vita, nel
segno del sangue o della carità; dove si spingono il servizio
e la comunione di Zatti risuona l’annuncio del nome di Dio, di
questi due nomi, tanto cristiani e tanto salesiani: Provvidenza e
Paradiso.

Zatti
annuncia con la sua vita che tutto in Dio è amore, ma amore
concreto, attento, sconfinato e minuto, per ciascuna creatura:
l’amore di Dio è Provvidenza. La Provvidenza di Dio però
non è a tempo, bensì eterna, ed ecco il secondo nome:
Paradiso; Paradiso è il nome proprio del desiderio di Dio che
nella storia provvede alle sue creature per averle con sé per
sempre, per l’eternità.

Zatti
è maestro di questo alfabeto cristiano: «Era
suo costante desiderio che il Signore fosse conosciuto e amato. Lo
attestava la gioia che esprimeva quando un nuovo paziente, che non
sapeva nulla di Dio diventava devoto cristiano. La sua prima
sollecitudine era curare premurosamente e ispirare fiducia nella
divina Provvidenza»42.

Il
senso della Provvidenza non era la risposta obbligata a condizioni di
precarietà, una sorta di ultima spiaggia offerta ai naufraghi
per non affondare nei momenti difficili. Testimoniare la Provvidenza
per Zatti significava insegnare a parlare con Dio, a chiamarlo per
nome, con fiducia cristiana, perché «era molto convinto
dei principi evangelici e uno che era ben scolpito nel suo cuore e
nella sua mente era “cercare prima il Regno di Dio e la sua
giustizia e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt
6,33). Aveva imparato alla scuola di Don Bosco – avendo letto
molto la sua vita – a non diffidare mai dell’aiuto di
Dio, soprattutto quando è onorato come vuole, in ogni nostro
prossimo»43.

Ma
una Provvidenza senza Paradiso non consentirebbe all’annuncio
del nome di Dio di reggere l’urto della storia, con il suo
carico di fatica, sofferenza, morte. Zatti animava, dentro e fuori
l’ospedale, una Chiesa sempre visitata dal dolore e dalla
morte, e questo chiedeva pienezza di fede e di testimonianza,
chiedeva di annunciare il nome dell’unico desiderio di Dio per
l’uomo: Paradiso. Quando testimoniava il Paradiso Zatti
mostrava la certezza «della vita eterna e della sua
acquisizione per grazia e buone opere; questo manifestava soprattutto
di fronte alla morte […]. L’ho ascoltato personalmente
gioire per aver potuto prestare aiuto religioso ai malati ed
esclamare […] “Oggi ne abbiamo mandati due o tre in
cielo”»44.

Con
questi due nomi di Dio Zatti ha evangelizzato la vita e la morte, la
gioia e il dolore, la salute e la malattia da vero testimone
cristiano, da martire, nel martirio quotidiano della carità.
L’annuncio e la martyria
di Zatti non divulgano un vangelo di circostanza o di opportunità,
ma diffondono Sale, Luce, Lievito, prestano volto, cuore e mani a un
Vangelo che chiede la vita e tutta la pervade, scioglie gli enigmi e
vince l’angoscia con il calore della Verità: «Da
quando l’ho conosciuto, ha sempre dato più importanza
alle pratiche religiose che al suo lavoro, sebbene lo facesse con
perseveranza. Citava spesso le Scritture, soprattutto i vangeli, per
consolare i malati o incoraggiare la virtù […]. Era
molto difficile per lui non mettere un pensiero spirituale nelle sue
conversazioni. Una volta, parlando con lui, accennavo alla scoperta
di alcune nuove medicine come la penicillina e i sulfamidici; il
Servo di Dio mi ha ascoltato e, quando ho finito di parlare, mi ha
detto: “È vero, è vero, ma la gente continuerà
comunque a morire”»45.

E
la verità del vangelo, tutta intera, illumina l’ospedale
di Zatti, come aveva illuminato l’Oratorio al tempo di don
Bosco: per questo nell’ospedale di Viedma come tra le mura di
Valdocco, non si teme la morte e non si moltiplicano gli espedienti
per addolcirne lo scandalo o nasconderne l’evidenza, inganni
pericolosi per il cuore umano. Zatti affrontava la morte con la
testimonianza del Vangelo della vita: una vita con i piedi per terra,
per questo operosa e concreta, ma con il cuore in cielo, e per questo
fiduciosa e serena: «L’unico motivo della sua vita è
stato proprio l’attesa di un premio celeste, non ha mai agito
per guadagnare denaro o reputazione, ha fatto tutto nella speranza
della felicità futura»46.

Il
suo impegno è stato, pur nella semplicità, quello di
vivere il Vangelo con il cuore radicato nel Premio finale è
portare il Dio della Provvidenza e del Paradiso dentro ogni piaga e
ogni morte umana, perché vi fioriscano Vita e Resurrezione.
Questo rendeva benedetta la testimonianza di Zatti e ne invocava la
presenza quando indispensabili erano le medicine preziose e rare
della speranza e della consolazione. Tutta la città di Viedma
lo sapeva, come hanno confermato con sorprendente unanimità i
testimoni: si chiamava sempre Zatti, e lui accorreva a rincuorare e
consolare, donando questa medicina cristiana che attingeva, per la
sua vita in Grazia di Dio, dallo Spirito stesso, il Consolatore. Così
diventava «straordinaria nel Servo di Dio la capacità di
infondere speranza negli infermi, fatto che contribuiva quasi
miracolosamente alla guarigione sollevando l’animo del
sofferente»47.
Zatti testimonia, fino al martirio della carità, che il
Signore è Dio del cielo e della terra. Zatti ne è
testimone, con la passione dei santi, che non conosce misura:
«Ricordo che un paziente disse a Zatti che lo preparava sempre
al cielo e che doveva prepararlo un po’ per la terra. Un altro
fatto mostra l’atmosfera dell’Ospedale: un’infermiera,
una volta, insistette per preparare alla morte un paziente che non
stava così male e che in effetti è ancora vivo»48.

2.4
Gioia pasquale e liturgia della vita redenta

Artemide
Zatti, con la sua fedeltà straordinaria agli appuntamenti
centrali della vita cristiana, si nutre del Pane della Parola, del
Pane del Perdono, del Pane del Cielo, e la sua vita si trasfigura,
sempre più profondamente, a beneficio di una missione ricca di
frutti crescenti. Così, la vita di Grazia, intensamente
vissuta da questo figlio di don Bosco, raggiunge quanti lo
incontrano, indistintamente: malati e collaboratori, confratelli e
autorità, poveri e benefattori, in Zatti toccano la vita del
Signore, per la forza del mistero sacramentale che si partecipa tra
le persone nella comunione del popolo di Dio. E così la Chiesa
tutta, nei sacramenti, per la potenza dello Spirito Santo, celebra il
mistero Pasquale e assicura agli uomini il nutrimento, per il cammino
e i rimedi che guariscono le ferite del male e della morte.

all’umanità
ferita dal male e dalla morte.

Questa
è la Chiesa: fiorisce e cresce dove il servizio e la comunione
annunciano il nome di Dio, testimoniano la Parola di Gesù,
sono nutriti dal suo Corpo, guariti dal suo Perdono. Zatti non
semplicemente fa tutto questo, ma è tutto questo; per la
corrispondenza alla Grazia, che rende santa la sua vita, in lui si
riconoscono non solo i gesti e le parole del Signore, ma si fa
esperienza della Sua stessa Vita: Zatti è un “tabernacolo
vivente”, e la sua testimonianza irradiante suscita domande,
propositi, conversione, anche in chi è lontano da una
partecipazione intima al mistero del Signore.

La
dedizione di Zatti, rivelando una radice più che umana,
diventa una prova, universalmente convincente, della forza
soprannaturale dei sacramenti; il suo, infatti, è «un
amore soprannaturale e straordinario per il prossimo. […] Era
disposto a qualsiasi sacrificio ed è per questo che in lui il
difficile sembrava facile. Penso che le circostanze ardue della sua
azione caritativa siano state: la carenza di personale, la richiesta
di assistenza in ogni momento, non farsi condizionare dalle
intemperie, servire ogni tipo di persone. Ricordo di un mio parente,
ammalato, cui venne a far visita in una giornata di pessimo tempo e
quando gli fu detto: “Con questo tempo esce, signor Zatti?”,
lui rispose: “Non ne ho un altro!”»49.

È
una regola della liturgia cristiana saper dare buona prova di sé
nella vita del credente con l’ordine, l’armonia, il
dinamismo efficace, e soprannaturale. Zatti è un cristiano, un
consacrato laico salesiano di don Bosco, è una pietra viva
della chiesa, è un testimone della Pasqua, perché nelle
sue opere diviene visibile il comandamento dell’Amore, che fa
riconoscere Dio nel prossimo e il prossimo in Dio; ma Zatti insegna,
con la sua vita, che la forza necessaria alla pratica di quel
comandamento è soprannaturale, e può venire solo da
Dio, dai suoi sacramenti e della preghiera e unione con Lui. «Zatti
esercitò la carità in circostanze difficili per la
carenza di risorse economiche. Anche perché la sua attività
eccedeva l’ordinario, per la quantità di ore che
dedicava ai suoi impegni senza omettere i suoi obblighi religiosi.
Per come lo conoscevamo ci chiedevamo come potesse sostenere uno
sforzo così grande senza il riposo che solitamente si
considera necessario»50.

Due
episodi meritano di essere ricordati, a esempio della liturgia della
vita per la quale Zatti è prima discepolo e poi apostolo del
Signore Crocifisso e Risorto; anzitutto la demolizione del vecchio
ospedale San José, con la necessità di trasferire i
malati a Sant’Isidro: «Non ho notizie che a Zatti sia
stata comunicata una data di sfratto, e di certo non aveva ricevuto
nulla dal suo Ispettore, altrimenti l’avrei saputo […].
Lo stato emotivo in cui è caduto Zatti quando è stato
necessario rimuovere i malati, perché le macerie non
crollassero su di loro, poteva essere psicologicamente fatale. Pianse
amaramente, ma dopo aver pregato davanti al Santissimo, si mise al
lavoro con serena energia»51;
e poi il servizio ai morenti: «Stava per morire un giovanotto,
e Zatti conversava con lui dopo avergli fatto fare la comunione; a un
certo punto il ragazzo cominciò a gridare “Zatti, io
muoio!” e nello stesso momento si sollevava dal letto; Zatti,
guardandolo negli occhi, sorridendo gli disse: “Che bello, vai
in paradiso!” e il giovane si lasciò cadere con un
sorriso che ritraeva quello di Zatti, e che gli rimase impresso sul
volto»52.

Ecco
cosa accade quando l’Eucarestia diventa vita e il Mistero
pasquale pratica quotidiana: le grandezze umane si trasformano, per
la potenza dello Spirito, e ogni azione di un credente si compie in
Cristo, per Cristo e con Cristo, rendendo la vita una liturgia e
trasfondendo i doni santi della liturgia nella vita.

Il
nostro caro Artemide Zatti, debitore in tutto dei Misteri del
Signore, sa che tutto può solo grazie a Lui; di qui la sua
umiltà: «Ricordo che, essendo molto malato di febbre
tifoidea mio fratello Salvador, il Servo di Dio lo andava a curare
più volte al giorno. In una occasione, incontrandomi con lui
che si dirigeva alla casa di Salvador, afflitto gli dissi: “Signor
Zatti, per favore, salvi mio fratello!”. Egli voltandosi e
fissandomi negli occhi, con severità mi disse: “Non sia
blasfemo, solo Dio salva!”»53.

Quella
di Artemide Zatti è stata una vita fatta di donazione,
comunione, testimonianza del Signore risorto. Una vita piena di
grazie che l’ha portato ad una morte pienamente cristiana:
«Chiedendogli se i suoi dolori fossero continui, forti o no,
senza rispondere direttamente mi disse: “Sono un mezzo di
purificazione e sono contento perché mi rendo conto che sto
completando la Passione di Cristo, cosa che ho tanto inculcato negli
infermi”»54.

E
l’offerta di Zatti fu piena, discreta, serena e gioiosa, come
sigillo della sua liturgia. Merita di essere ripreso un fioretto, nel
quale, dietro il velo della simpatia, Zatti regala a chi lo assiste
il senso della sua vita, che Dio ha potuto spremere fino in fondo,
perché matura e piena. Pochi mesi prima della morte,
sorridendo della sua malattia – un tumore al fegato che
ingiallisce il volto – Zatti dice a un’infermiera che
sarà presto colorato, anche lui, con il trucco! Il suo sarà
però, come nei limoni, il colore della maturità, che
rende quel frutto pronto per essere spremuto, fino in fondo: «Voi
vi truccate? Anche io! Entro sei mesi vi darò la
dimostrazione. Il limone non serve se non è giallo»55.

3.
UN INVITO AD UN IMPEGNO STRAORDINARIO

Questo
era il titolo dell’ultima parte della lettera di don Vecchi, a
cui ho fatto riferimento più volte, e che vorrei conservare e
condividere ora. Nelle pagine precedenti ho cercato di delineare in
modo semplice ma incisivo la straordinaria figura del nostro
confratello salesiano coadiutore Artemide Zatti. Il suo percorso di
vita, impregnato e riempito di Dio, è un esempio per tutti.
Così come la sua santità. Davanti a questa grande
figura, nella nostra Congregazione si accende la coscienza più
viva della necessità e dell’importanza di uno speciale
impegno per promuovere oggi questa bella vocazione. Faccio mie le
parole di don Vecchi per chiedere ad ogni Ispettoria, ad ogni
comunità, e a ciascun confratello nei prossimi anni, fin da
ora, «un
impegno rinnovato, straordinario e specifico per la vocazione del
salesiano coadiutore,
all’interno
della pastorale vocazionale, nel pregare per essa, nell’annunciarla
e proporla, nel chiamare, nell’accogliere e accompagnare, nel
viverla personalmente e insieme nella comunità»56.
Non mancano ricche pubblicazioni sulla figura del salesiano
coadiutore57;
forse ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento è
rendere il nostro impegno più convincente. Ho ricordato spesso
nelle mie visite alle ispettorie e anche nelle mie lettere che
dobbiamo essere prima di tutto uomini di fede, oggi più che
mai abbandonati al Signore. Molte altre strategie e piani possono
aiutarci, ma ci faranno uscire da una difficoltà profonda solo
la fiducia
nel Signore e il ricorso a Lui.

La seguente testimonianza di un confratello coadiutore ha, a mio
avviso, una forza particolare: «Anche oggi risuona il “Vieni
e seguimi”. Ed
è sempre uno stupore constatare che anche oggi ci sono giovani
a cui nulla mancherebbe per orientarsi verso il sacerdozio e invece
fanno la scelta del laico consacrato anche nella Congregazione
Salesiana. Perciò nella pastorale vocazionale bisogna credere
in questa vocazione in sé completa e trasmetterne per osmosi
la stima, senza operare forzature e distorsioni in direzione della
figura clericale. Bisogna essere convinti che ci sono giovani che non
si identificano nel modello presbiterale, mentre si sentono attratti
dal modello del laico consacrato. Quali i motivi di questa scelta?
Tutte le motivazioni sono insufficienti: al fondo resta il mistero
della Grazia e della libertà»58.

A
questo punto vorrei invitarvi ad approfondire le prossime
pubblicazioni che usciranno sia su Sant’Artemide Zatti che
sulla vocazione del coadiutore salesiano nella nostra Congregazione,
nelle varie Regioni, e nelle proposte di entrambi i Settori della
Pastorale Giovanile e della Formazione.

Non
mancheranno gli stimoli, le riflessioni, e soprattutto i doni di
intercessione del nuovo santo in modo particolare per i suoi
confratelli salesiani coadiutori nel mondo, per quelli che già
ci sono e per quelli che verranno con la Grazia di Dio.

La
forza e la bellezza di un invito

Credo
che non si possa terminare il confronto con la vita di Artemide Zatti
senza evocare, ancora una volta, una lettera del 1986, del cardinale
Jorge Mario Bergoglio, oggi Papa Francesco, scritta a un salesiano, a
testimonianza di una grazia ricevuta per intercessione di Zatti.

La
vicenda è nota: quand’era Provinciale dei Gesuiti
dell’Argentina, padre Bergoglio affidò a Zatti la
richiesta al Signore di sante vocazioni alla vita consacrata laicale
per la Compagnia di Gesù e la sua Provincia ebbe la grazia, in
un decennio, di ventitré nuove vocazioni di religiosi
fratelli.

L’episodio
è rilevante non solo per i protagonisti della vicenda –
il Padrone della Messe, un Santo coadiutore salesiano, l’attuale
Successore di Pietro – ma per il suo contenuto: la forza
vocazionale della testimonianza di Zatti.

Stupisce
che il primo salesiano canonizzato non per il martirio del sangue sia
un coadiutore, e un coadiutore che rinuncia, in radicale obbedienza a
Dio, alla stessa forma della vocazione dalla quale era stato
affascinato, quella presbiterale, per stare con don Bosco, svolgendo
poi un servizio sacrificato nel mondo della malattia e della
sofferenza.

Non
può sfuggire però la forte bellezza di questa
testimonianza; in lui brillano gli amori fondamentali che devono
infiammare il cuore del Salesiano: l’amore per Dio e per la sua
volontà, l’amore per il prossimo, che nelle sue membra
sofferenti è il Volto vicino di Gesù Crocifisso,
l’amore alla Madre del Signore, Mediatrice di ogni grazia,
l’amore a don Bosco che ad ogni salesiano promette pane, lavoro
e Paradiso.

Questi
amori brillano nella luminosa grandezza della vita religiosa di
Artemide, abbracciata con gioiosa radicalità e intraprendenza
generosa.

Il
nostro confratello Artemide Zatti ci mostra quanto il mondo sia
sensibile alla testimonianza della vita religiosa, purché tale
testimonianza sia vera, credibile, autentica: il trionfo dei suoi
funerali, la fama di santità, la venerazione della sua tomba
sono segni chiari di quanto tutti abbiano riconosciuto il dito di Dio
in azione in questo salesiano generoso e fedele: «in
proporzione agli abitanti di Viedma fu impressionante la quantità
di gente che accorse ai funerali. Da ogni dove accorreva gente umile
con piccoli mazzi di fiori. Oltre alle autorità molte altre
persone. Nei giorni [successivi alla morte] le persone, erano
convinte che fosse morto un santo; alcuni si recavano alla tomba
sperando miracoli: pregavano, portavano fiori»59.

La
vita di Artemide Zatti ha svegliato una città, e oggi tocca
l’intero mondo, perché ha parlato di Dio: ha portato tra
i poveri e i malati, con una pratica esemplare della castità,
il profumo dell’amore verginale e fecondo di Dio; ha donato a
tutti la ricchezza della fede, pagandola con una povertà amata
fino a cedere la propria camera a un infermo o a portarvi un morto
per sottrarlo alla vista degli altri malati in un ultimo gesto di
tenerezza e pietà; ha insegnato la libertà vera,
obbedendo a prezzo di lacrime amare alla volontà dei superiori
riconoscendoli mediatori del disegno di Dio.

Religioso
esemplare, con questa testimonianza, insegna a tutti che la salute da
custodire sopra ogni bene è quella dell’anima, di quella
nostra anima tanto preziosa perché da Dio viene e a Lui
aspira, spesso inconsapevolmente, nel desiderio di trovare, tra le
sue braccia, Amore eterno.

Possano
gli amori di Zatti accendere i nostri amori; possano la sua
testimonianza dell’Assoluto di Dio, della grandezza dell’anima
e della nostra vera Patria ispirare i nostri gesti e la nostra
passione pastorale, per una nuova fedeltà apostolica e
rinnovata fecondità vocazionale. Che non ci manchi mai, come
ha sempre cercato Artemide Zatti, la protezione materna
dell’Ausiliatrice, e che la devozione alla Madre in ogni casa
salesiana del mondo, e in ogni angolo dove è presente la
Famiglia di Don Bosco, sia una strada sicura che ci aiuti a vivere
una santità come quella del nostro confratello.

Concludo
queste parole proponendo una preghiera al Padre per intercessione del
nuovo santo coadiutore salesiano, sant’Artemide Zatti.

Preghiera
di intercessione

per
chiedere vocazioni di salesiani laici

O
Dio, che in sant’Artemide Zatti
ci
hai dato un modello di salesiano coadiutore,
che
docile alla tua chiamata,
con
la compassione del Buon samaritano,
si
è fatto prossimo a ogni uomo,
aiutaci
a riconoscere il dono di questa vocazione,
che
testimonia al mondo la bellezza della vita consacrata.
Donaci
il coraggio di proporre ai giovani
questa
forma di vita evangelica
al
servizio dei piccoli e dei poveri,
e
fa’ che coloro che tu chiami per questa via,
rispondano
generosamente al tuo invito.
Te
lo chiediamo per l’intercessione di Sant’Artemide Zatti
e
per la mediazione di Cristo Signore.
Amen.

Con
vero affetto e uniti nel Signore con la mutua preghiera vi saluto

Ángel
Fernández Artime, sdb
Rettor
Maggiore

1
J.E. Vecchi, Beatificazione del coadiutore Artemide Zatti: Una
novità dirompente,
in ACG 376 (2001), 3.
2
Ho deciso di tracciare un profilo breve e sobrio. Coloro che
volessero conoscere di più la vita di Artemide Zatti possono
trovare parecchie biografie sul prossimo Santo e anche leggere il
profilo biografico della lettera di don Vecchi alla quale mi sono
riferito precedentemente.
3
Cf. Positio, p.35.
4
Cfr. J.E. Vecchi,
o.c., p. 15 e Cf. Positio, p. 47.
5
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 17 e Positio, p. 79.
6
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 18.
7
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 20 e Summarium, p. 310, n. 1224.
8
Positio, p. 198.
9
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 25.
10
H.U. von Balthasar,
Gesù ci conosce? Noi conosciamo Gesù?
Morcelliana (= Il Pellicano), Brescia 1981, 95.
11
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 26.
12
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 27.
13
Positio, 31.
14
Positio, 21.
15
H.U. von Balthasar,
Gli stati di vita del cristiano, Jaca Book, Milano 1985, 34.
16
Summarium, p. 43, n. 160.
17
H.U. von Balthasar,
Gli stati di vita del cristiano, 34.
18
Positio, 206 (Profilo spirituale del servo di Dio).
19
Positio super scriptis 12.
20
Lettera
al padre
,
Viedma 15 giugno 1908.
21
Positio, 75-76.
22
Positio, 80.
23
Positio, 81.
24
Summarium
15.
25
Summarium
80.
26
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 21.
27
Testimonianza di Tassara Carlo, Summ.
126-127.
28
Testimonianza di mons. Peréz Carlo Mariano, Summ. 52.
29
Fiora Luigi, Biografia, Positio 132.
30
Testimonianza di mons. Peréz Carlo Mariano, Summ.
43-47.
31
Testimonianza di mons. Peréz Carlo Mariano, Summ. 43.
32
Testimonianza di García Oscar Giovanni, Summ. 113.
33
Testimonianza di Molinari Ferdinando Enrique, Summ.
151.
34
Testimone Morero Noelia de Tofoni, Summ. 259.
35
Testimonianza di don De Roia Luigi, Summ. 271.
36
Testimonianza di Kossman Enrico Mario, Summ. 10
37
Testimonianza di don Prieto Antonio F. Fernández, Summ.
61.
38
Testimonianza di don Brizzola Mario, Summ. 75.
39
Testimonianza di García Oscar Giovanni, Summ. 113.
40
Testimonianza di Costanzo Giuseppe Nicola, Summ. 103.
41
Testimonianza di Giraudini Amalia Teresa, Summ. 117.
42
Testimonianza di Linares Manuel, Summ. 92.
43
Testimonianza di mons. Peréz Carlo Mariano, Summ. 36.
44
Testimonianza di Kossman Enrico Mario, Summ.
14.
45
Testimonianza di don Brizzola Mario, Summ. 79-80.
46
Testimonianza di don Brizzola Mario, Summ.
80.
47
Testimonianza di Cadorna Guidi Giovanni, Summ. 218.
48
Testimonianza del dott. Guidi Pasquale Attilio, Summ. 100.
49
Testimonianza di García Oscar Giovanni, Summ.
114.
50
Testimonianza di De Palma Luigi, Summ. 135.
51
Testimonianza di don López Feliciano, Summ. 178.
52
Testimonianza di don López Feliciano, Summ. 174.
53
Testimonianza di Echay Pietro, Summ. 211-212.
54
Testimonianza di Geronazzo Francesco Erasmo, Summ. 274.
55
Testimonianza di don López Feliciano, Summ. 193.
56
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 47.
57
Quelli offerti da Don Vecchi sono disponibili in ACG 373
(2000) e in La Vocazione del salesiano coadiutore nella pastorale
vocazionale,
in Il salesiano coadiutore. Storia, identità,
pastorale vocazionale e formazione
, Editrice SDB, Roma 1989,
133-161.
58
J.E. Vecchi, o.c.,
pp. 49-50.
59
Testimonianza di Giraudini Amalia Teresa, Summ.
115-116.