Mons. Giuseppe Malandrino e il Servo di Dio Nino Baglieri

È tornato alla Casa del Padre, lo scorso 3 agosto 2025, nel giorno in cui si celebra la festa della Patrona della Diocesi di Noto, Maria Scala del Paradiso, monsignor Giuseppe Malandrino, IX vescovo della diocesi netina. 94 anni di età, 70 anni di sacerdozio e 45 anni di consacrazione episcopale sono numeri di tutto rispetto per un uomo che ha servito la Chiesa da Pastore con “l’odore delle pecore” come sottolineava spesso Papa Francesco.

Parafulmine dell’umanità
Nell’esperienza di pastore della Diocesi di Noto (19.06.1998 – 15.07.2007) ha avuto modo di coltivare l’amicizia con il Servo di Dio Nino Baglieri. Non mancava quasi mai una “sosta” a casa di Nino quando i motivi pastorali lo portavano a Modica. In una sua testimonianza mons. Malandrino dice: “…trovandomi al capezzale di Nino, avevo la percezione viva che questo nostro amato fratello infermo fosse veramente “parafulmine dell’umanità”, secondo una concezione dei sofferenti a me tanto cara e che ho voluto proporre anche nella Lettera Pastorale sulla missione permanente Mi sarete testimoni” (2003). Scrive mons. Malandrino: “È necessario riconoscere nei malati e sofferenti il volto di Cristo sofferente e assisterli con la stessa premura e con lo stesso amore di Gesù nella sua passione, vissuta in spirito di ubbidienza al Padre e di solidarietà ai fratelli”. Ciò è stato, pienamente incarnato dalla carissima mamma di Nino, la signora Peppina. Lei tipica donna siciliana, con un carattere forte e tanta determinazione, risponde al medico che gli propone l’eutanasia per suo figlio (viste le gravi condizioni di salute e la prospettiva di una vita da paralitico): “se il Signore lo vuole lo prende, ma se me lo lascia così sono contenta di accudirlo per tutta la vita”. La mamma di Nino, in quel momento era consapevole di quello a cui andava incontro? Maria, la madre di Gesù era consapevole di quanto dolore avrebbe dovuto soffrire, per il Figlio di Dio? La risposta, a leggerla con gli occhi umani, sembra non facile, soprattutto nella nostra società del XXI secolo dove tutto è labile, fluttuante, si consuma in un “istante”. Il Fiat di mamma Peppina divenne, come quello di Maria, un Sì di Fede e di adesione a quella volontà di Dio che trova compimento nel saper portate la Croce, nel saper dare “anima e corpo” alla realizzazione del Piano di Dio.

Dalla sofferenza alla gioia
Il rapporto di amicizia tra Nino e mons. Malandrino era già avviato quando quest’ultimo era ancora vescovo di Acireale, infatti già nel lontano 1993, per il tramite di Padre Attilio Balbinot, un camilliano molto vicino a Nino, lo omaggia del suo primo libro: “Dalla sofferenza alla gioia”. Nell’esperienza di Nino il rapporto con il Vescovo della sua diocesi era un rapporto di filiazione totale. Sin dal momento della sua accettazione del Piano di Dio su di lui, egli faceva sentire la propria presenza “attiva” offrendo le sofferenze per la Chiesa, il Papa e i Vescovi (nonché i sacerdoti e i missionari). Questo rapporto di filiazione veniva annualmente rinnovato in occasione del 6 maggio, giorno della caduta visto poi come inizio misterioso d’una rinascita. L’8 maggio 2004, pochi giorni dopo aver festeggiato Nino il 36.mo anniversario di Croce, mons. Malandrino si reca a casa sua. Egli in ricordo di quell’incontro scrive nelle sue memorie: “è sempre una grande gioia ogni volta che la vedo e ricevo tanta carica e forza per portare la mia Croce e offrila con tanto Amore per i bisogni della Santa Chiesa e in particolare per il mio Vescovo e per la nostra Diocesi, il Signore gli dia sempre più santità per guidarci per tanti anni sempre con più ardore e amore…”. Ancora: “… la Croce è pesante ma il Signore mi dona tante Grazie che rendono la sofferenza meno amara e diventa leggera e soave, la Croce si fa Dono, offerta al Signore con tanto Amore per la salvezza delle anime e la Conversione dei Peccatori…”. Infine, è da sottolineare come, in queste occasioni di grazia, non mancasse mai la pressante e costante richiesta di “aiuto a farsi Santo con la Croce di ogni giorno”. Nino, infatti, vuole assolutamente farsi santo.

Una beatificazione anticipata
Momento di grande rilevanza hanno rappresentato, in tal senso, le esequie del Servo di Dio il 3 marzo 2007, quando proprio mons. Malandrino, all’inizio della Celebrazione Eucaristica, con devozione si china, anche se con difficoltà, a baciare la bara che conteneva le spoglie mortali di Nino. Era un ossequio a un uomo che aveva vissuto 39 anni della sua esistenza in un corpo che “non sentiva” ma che sprigionava gioia di vivere a 360 gradi. Mons. Malandrino sottolineò che la celebrazione della Messa, nel cortile dei Salesiani divenuto per l’occasione “cattedrale” a cielo aperto, era stata un’autentica apoteosi (hanno partecipato migliaia di persone in lacrime) e si percepiva chiaramente e comunitariamente di trovarsi dinanzi non a un funerale, ma a una vera “beatificazione”. Nino, con la sua testimonianza di vita, era infatti diventato un punto di riferimento per tanti, giovani o meno giovani, laici o consacrati, madri o padri di famiglia, che grazie alla sua preziosa testimonianza riuscivano a leggere la propria esistenza e trovare risposte che non riuscivano a trovare altrove. Anche mons. Malandrino ha più volte sottolineato questo aspetto: «in effetti, ogni incontro con il carissimo Nino è stato per me, come per tutti, una forte e viva esperienza di edificazione e un potente – nella sua dolcezza – sprone alla paziente e generosa donazione. La presenza del Vescovo conferiva a lui ogni volta immensa gioia perché, oltre l’affetto dell’amico che veniva a visitarlo, vi percepiva la comunione ecclesiale. È ovvio che quanto ricevevo da lui era sempre molto di più quel poco che potevo donargli». Il “chiodo” fisso di Nino, era “farsi santo”: l’aver vissuto e incarnato appieno l’evangelo della Gioia nella Sofferenza, con i suoi patimenti fisici e il suo dono totale per l’amata Chiesa, hanno fatto sì che tutto non finisse con la sua dipartita verso la Gerusalemme del Cielo, ma continuasse ancora, come sottolineò mons. Malandrino alle esequie: “… la missione di Nino continua ora anche attraverso i suoi scritti, Egli stesso lo aveva preannunciato nel suo Testamento spirituale”: “… i miei scritti continueranno la mia testimonianza, continuerò a dare Gioia a tutti e a parlare del Grande Amore di Dio e delle Meraviglie che ha fatto nella mia vita”. Questo ancora si sta avverando perché non può stare nascosta “una città posta sopra un monte e non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candeliere, perché faccia luce a tutti coloro che sono in casa” (Matteo 5,14-16). Metaforicamente si vuole sottolineare che la “luce” (intesa in senso lato) deve essere visibile, prima o poi: ciò che è importante verrà alla luce e sarà riconosciuto.
Riandare in questi giorni – segnati dalla morte di mons. Malandrino, dai suoi funerali ad Acireale (5 agosto, Madonna della Neve) e a Noto (7 agosto) con tumulazione a seguire nella cattedrale di cui egli stesso volle fortemente la ristrutturazione dopo il crollo del 13 marzo1996 e che fu riaperta nel marzo 2007 (mese in cui Nino Baglieri morì) – significa ripercorrere questo legame tra due grandi figure della Chiesa netina, fortemente intrecciate ed entrambe capaci di lasciare in essa un segno che non passa.

Roberto Chiaramonte




Il Venerabile mons. Stefano Ferrando

Mons. Stefano Ferrando è stato un esempio straordinario di dedizione missionaria e servizio episcopale, coniugando il carisma salesiano con una vocazione profonda al servizio dei più poveri. Nato nel 1895 in Piemonte, entrò giovane nella Congregazione salesiana e, dopo aver prestato servizio militare durante la Prima guerra mondiale, che gli valse la medaglia d’argento al valore, si dedicò all’apostolato in India. Vescovo di Krishnagar e poi di Shillong per oltre trent’anni, camminò instancabilmente fra le popolazioni, promuovendo l’evangelizzazione con umiltà e profondo amore pastorale. Fondò istituzioni, sostenne i catechisti laici e incarnò nel suo vivere il motto “Apostolo di Cristo”. La sua vita fu un esempio di fede, abbandono a Dio e totale donazione, lasciando un’eredità spirituale che continua ad ispirare la missione salesiana nel mondo.

            Il venerabile Mons. Stefano Ferrando seppe coniugare la propria vocazione salesiana con il carisma missionario e il ministero episcopale. Nato il 28 settembre 1895 a Rossiglione (Genova, diocesi di Acqui) da Agostino e Giuseppina Salvi, si contraddistinse per un ardente amore a Dio e una tenera devozione alla beata Vergine Maria. Nel 1904 entrò nelle scuole salesiane, prima a Fossano e poi a Torino – Valdocco, dove conobbe i successori di Don Bosco e la prima generazione di Salesiani, e intraprese gli studi sacerdotali; nel frattempo nutrì il desiderio di partire missionario. Il 13 settembre 1912, a Foglizzo fece la sua prima professione religiosa nella Congregazione salesiana. Chiamato alle armi nel 1915, partecipò alla Prima guerra mondiale. Per il coraggio dimostrato gli venne conferita la medaglia d’argento al valore. Tornato a casa nel 1918, il 26 dicembre 1920 emise i voti perpetui.
            Fu ordinato sacerdote a Borgo San Martino (Alessandria) il 18 marzo 1923. Il 2 dicembre dello stesso anno, con nove compagni, s’imbarcò a Venezia come missionario in India. Il 18 dicembre, dopo 16 giorni di viaggio, il gruppo arrivò a Bombay e il 23 dicembre a Shillong, luogo del suo nuovo apostolato. Maestro dei novizi, educò i giovani salesiani all’amore per Gesù e Maria ed ebbe un grande spirito di apostolato.
            Il 9 agosto 1934 papa Pio XI lo nominò vescovo di Krishnagar. Il suo motto fu “Apostolo di Cristo”. Nel 1935, il 26 novembre, venne trasferito a Shillong dove rimarrà vescovo per 34 anni. Pur operando in una gravosa situazione di impatto culturale, religioso e sociale, Mons. Ferrando si prodigò instancabilmente per stare accanto al popolo che gli era stato affidato, lavorando con zelo nella vasta diocesi che comprendeva l’intera regione dell’India del Nord Est. Preferì alla macchina, di cui avrebbe potuto disporre, muoversi a piedi: questo gli permetteva infatti di incontrare le persone, fermarsi a parlare con loro, essere reso partecipe della loro vita. Tale contatto in diretta con la vita delle persone fu una delle principali ragioni della fecondità del suo annuncio evangelico: umiltà, semplicità, amore per i poveri spingono molti a convertirsi e a richiedere il Battesimo. Istituì un seminario per la formazione dei giovani salesiani indiani, costruì un ospedale, edificò un santuario dedicato a Maria Ausiliatrice e fondò la prima Congregazione di suore autoctone, la Congregazione delle Suore Missionarie di Maria Aiuto dei Cristiani (1942).

            Uomo dal carattere forte, non si scoraggiò di fronte alle innumerevoli difficoltà, che affrontò con il sorriso e la mitezza. La perseveranza di fronte agli ostacoli fu una delle sue caratteristiche principali. Cercò di unire il messaggio evangelico alla cultura locale nella quale esso andava inserito. Fu intrepido nelle visite pastorali, che compì nei luoghi più sperduti della diocesi, pur di ricuperare l’ultima pecorella smarrita. Manifestò una particolare sensibilità e promozione per i catechisti laici, che considerava complementari alla missione del vescovo e da cui dipese buona parte della fecondità dell’annuncio del Vangelo e della sua penetrazione nel territorio. Immensa anche la sua attenzione alla pastorale familiare. Nonostante i numerosi impegni, il venerabile fu un uomo dalla ricca vita interiore, alimentata dalla preghiera e dal raccoglimento. Come Pastore fu apprezzato dalle sue suore, dai sacerdoti, dai confratelli salesiani e nell’episcopato, nonché dal popolo che lo sentì profondamente vicino. Si donò in maniera creativa al suo gregge, occupandosi dei poveri, difendendo gli intoccabili, curando i malati di colera.
            I punti-cardine della sua spiritualità furono il legame filiale con la Vergine Maria, lo zelo missionario, il continuo riferimento a Don Bosco, come emerge dai suoi scritti e in tutta la sua attività missionaria. Il momento più luminoso ed eroico della sua vita virtuosa fu l’abbandono della diocesi di Shillong. Mons. Ferrando dovette presentare al Santo Padre le dimissioni quando era ancora nel pieno delle proprie facoltà fisiche e intellettive, per consentire la nomina del suo successore, che andava scelto, secondo le superiori indicazioni, fra i sacerdoti indigeni da lui stesso formati. Fu un momento particolarmente doloroso, vissuto dal grande vescovo con umiltà e obbedienza. Egli comprese che era tempo di ritirarsi in preghiera secondo la volontà del Signore.
            Tornato a Genova nel 1969, continuò la sua attività pastorale, presiedendo le cerimonie per il conferimento della Cresima e dedicandosi al sacramento della Penitenza.
            Fu sino all’ultimo fedele alla vita religiosa salesiana, decidendo di vivere in comunità e rinunciando ai privilegi che la sua posizione di vescovo poteva riservargli. Egli in Italia continuò ad essere «a missionary». Non «a missionary who moves, but […] a missionary who is»: non un missionario che si muove, ma un missionario che è. La sua vita in questa ultima stagione diventò un “irradiare”. Egli diventa un “missionario della preghiera” che dice: «Sono contento di essere venuto via perché altri subentrassero a compiere opere così meravigliose».
            Da Genova Quarto, continuò ad animare la missione dell’Assam, sensibilizzando le coscienze ed inviando aiuti economici. Visse quest’ora di purificazione con spirito di fede, di abbandono alla volontà di Dio e di obbedienza, toccando con mano tutto il senso dell’espressione evangelica «siamo solo servi inutili», e confermando con la sua vita il caetera tolle, l’aspetto oblativo-sacrificale della vocazione salesiana. Morì il 20 giugno 1978 e venne sepolto a Rossiglione, sua terra natale. Nel 1987 le sue spoglie mortali furono riportate in India.

            Nella docilità allo Spirito svolse una feconda azione pastorale, che si manifestò nel grande amore per i poveri, nell’umiltà di spirito e nella carità fraterna, nella gioia e nell’ottimismo dello spirito salesiano.
            Mons. Ferrando ha inaugurato, insieme a tanti missionari che con lui hanno condiviso l’avventura dello Spirito nella terra dell’India, tra i quali i Servi di Dio Francesco Convertini, Costantino Vendrame e Oreste Marengo, un nuovo metodo missionario: essere missionario itinerante. Tale esempio è un provvidenziale monito, soprattutto per le congregazioni religiose tentate da un processo di istituzionalizzazione e di chiusura, a non perdere la passione di andare incontro alle persone e alle situazioni di maggior povertà e indigenza materiale e spirituale, andando là dove nessuno vuole andare e affidandosi come lei fece. «Guardo con fiducia all’avvenire fidando in Maria Ausiliatrice… Mi affiderò all’Ausiliatrice che mi salvò già da tanti pericoli».




Santa Monica, madre di Sant’Agostino, testimone di speranza

Una donna dalla fede incrollabile, dalle lacrime feconde, esaudita da Dio dopo diciassette lunghi anni. Un modello di cristiana, sposa e madre per tutta la Chiesa. Una testimone di speranza che si è trasformata in potente intercessora nel Cielo. Lo stesso don Bosco raccomandava alle madri, afflitte per la vita poco cristiana dei loro figli, di affidarsi a lei nelle preghiere.

Nella grande galleria dei santi e delle sante che hanno segnato la storia della Chiesa, Santa Monica (331-387) occupa un posto singolare. Non per miracoli spettacolari, non per la fondazione di comunità religiose, non per imprese sociali o politiche di rilievo. Monica è ricordata e venerata anzitutto come madre, la madre di Agostino, il giovane inquieto che grazie alle sue preghiere, alle sue lacrime e alla sua testimonianza di fede divenne uno dei più grandi Padri della Chiesa e Dottori della fede cattolica.
Ma limitare la sua figura al ruolo materno sarebbe ingiusto e riduttivo. Monica è una donna che seppe vivere la sua vita ordinaria — moglie, madre, credente — in modo straordinario, trasfigurando la quotidianità attraverso la forza della fede. È un esempio di perseveranza nella preghiera, di pazienza nel matrimonio, di speranza incrollabile di fronte alle deviazioni del figlio.
Le notizie sulla sua vita ci giungono quasi esclusivamente dalle Confessioni di Agostino, un testo che non è una cronaca, ma una lettura teologica e spirituale dell’esistenza. Eppure, in quelle pagine Agostino traccia un ritratto indimenticabile della madre: non solo una donna buona e pia, ma un autentico modello di fede cristiana, una “madre delle lacrime” che diventano sorgente di grazia.

Le origini a Tagaste
Monica nacque nel 331 a Tagaste, città della Numidia, Souk Ahras nell’attuale Algeria. Era un centro vivace, segnato dalla presenza romana e da una comunità cristiana già radicata. Proveniva da una famiglia cristiana agiata: la fede era già parte del suo orizzonte culturale e spirituale.
La sua formazione fu segnata dall’influenza di una nutrice austera, che la educò alla sobrietà e alla temperanza. San Agostino scriverà di lei: “Non discorrerò per questo di doni suoi, ma di doni tuoi a lei, che non si era fatta da sé sola, né da sé sola educata. Tu la creasti senza che neppure il padre e la madre sapessero quale figlia avrebbero avuto; e l’ammaestrò nel tuo timore la verga del tuo Cristo, ossia la disciplina del tuo Unigenito, in una casa di credenti, membro sano della tua Chiesa.” (Confessioni IX, 8, 17).

Nelle stesse Confessioni Agostino racconta anche un episodio significativo: la giovane Monica aveva preso l’abitudine di bere piccoli sorsi di vino dalla cantina, finché una serva la rimproverò chiamandola “ubriacona”. Quel rimprovero le basto per correggersi definitivamente. Questo aneddoto, apparentemente minore, mostra la sua onestà di riconoscere i propri peccati, di lasciarsi correggere e di crescere in virtù.

A età di 23 anni Monica fu data in sposa a Patrizio, un funzionario municipale pagano, noto per il suo carattere collerico e la sua infedeltà coniugale. La vita matrimoniale non fu facile: la convivenza con un uomo impulsivo e distante dalla fede cristiana mise a dura prova la sua pazienza.
Eppure, Monica non cadde mai nello scoraggiamento. Con un atteggiamento fatto di mitezza e rispetto, seppe conquistare progressivamente il cuore del marito. Non rispondeva con durezza agli scatti d’ira, non alimentava conflitti inutili. Con il tempo, la sua costanza ottenne frutto: Patrizio si convertì e ricevette il battesimo poco prima di morire.
La testimonianza di Monica mostra come la santità non si esprima necessariamente in gesti clamorosi, ma nella fedeltà quotidiana, nell’amore che sa trasformare lentamente le situazioni difficili. In questo senso, è un modello per tante spose e madri che vivono matrimoni segnati da tensioni o differenze di fede.

Monica madre
Dal matrimonio nacquero tre figli: Agostino, Navigio e una figlia di cui non conosciamo il nome. Monica riversò su di loro tutto il suo amore, ma soprattutto la sua fede. Navigio e la figlia seguirono un cammino cristiano lineare: Navigio divenne sacerdote; la figlia intraprese la via della verginità consacrata. Agostino invece divenne presto il centro delle sue preoccupazioni e delle sue lacrime.
Già da ragazzo, Agostino mostrava un’intelligenza straordinaria. Monica lo mandò a studiare retorica a Cartagine, desiderosa di assicurargli un futuro brillante. Ma insieme ai progressi intellettuali arrivarono anche le tentazioni: la sensualità, la mondanità, le compagnie sbagliate. Agostino abbracciò la dottrina manichea, convinto di trovarvi risposte razionali al problema del male. Inoltre cominciò a convivere senza sposarsi con una donna dalla quale ebbe un figlio, Adeodato. Le deviazioni del figlio indussero Monica a negargli l’accoglienza nella propria casa. Pero non per questo cesso di pregare per lui e di offrire sacrifici: “dal cuore sanguinante di mia madre ti si offriva per me notte e giorno il sacrificio delle sue lacrime”. (Confessioni V, 7,13) e “versava più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli” (Confessioni III, 11,19).

Per Monica fu una ferita profonda: il figlio, che aveva consacrato a Cristo nel grembo, si stava smarrendo. Il dolore era indicibile, ma non smise mai di sperare. Agostino stesso scriverà: “Il cuore di mia madre, colpito da una tale ferita, non si sarebbe mai più risanato: perché non so esprimere adeguatamente i suoi sentimenti verso di me e quanto il suo travaglio nel partorirmi in spirito fosse maggiore di quello con cui mi aveva partorito nella carne.” (Confessioni V, 9,16).

Viene spontanea la domanda: perché Monica non fece battezzare Agostino subito dopo la nascita?
In realtà, benché il battesimo dei bambini fosse già conosciuto e praticato, non era ancora una prassi universale. Molti genitori preferivano rimandarlo all’età adulta, considerandolo un “lavacro definitivo”: temevano che, se il battezzato avesse peccato gravemente, la salvezza sarebbe stata compromessa. Inoltre Patrizio, ancora pagano, non aveva alcun interesse a educare il figlio nella fede cristiana.
Oggi vediamo chiaramente che si trattò di una scelta infelice, poiché il battesimo non solo ci rende figli di Dio, ma ci dona la grazia di vincere le tentazioni e il peccato.
Una cosa però è certa: se fosse stato battezzato da bambino, Monica avrebbe risparmiato a sé e al figlio tante sofferenze.

L’immagine più forte di Monica è quella di una madre che prega e piange. Le Confessioni la descrivono come donna instancabile nell’intercedere presso Dio per il figlio.
Un giorno, un vescovo di Tagaste — secondo alcuni, lo stesso Ambrogio — la rassicurò con parole rimaste celebri: “Va’, non può andare perduto il figlio di tante lacrime”. Quella frase divenne la stella polare di Monica, la conferma che il suo dolore materno non era vano, ma parte di un misterioso disegno di grazia.

Tenacità di una madre
La vita di Monica fu anche un pellegrinaggio sulle orme di Agostino. Quando il figlio decise di partire di nascosto per Roma, Monica non risparmia nessuna fatica; non dà la causa come perduta, ma lo segue e lo cerca fino quando non lo trova. Lo raggiunse a Milano, dove Agostino aveva ottenuto una cattedra di retorica. Qui trovò una guida spirituale in sant’Ambrogio, vescovo della città. Tra Monica e Ambrogio nacque una profonda sintonia: ella riconosceva in lui il pastore capace di guidare il figlio, mentre Ambrogio ammirava la sua fede incrollabile.
A Milano, la predicazione di Ambrogio aprì nuove prospettive ad Agostino. Egli abbandonò progressivamente il manicheismo e iniziò a guardare al cristianesimo con occhi nuovi. Monica accompagnava silenziosamente questo processo: non forzava i tempi, non pretendeva conversioni immediate, ma pregava e sosteneva e li rimane a fianco fino alla sua conversione.

La conversione di Agostino
Dio sembrava non ascoltarla, ma Monica non smise mai di pregare e di offrire sacrifici per il figlio. Dopo diciassette anni, finalmente le sue suppliche furono esaudite — e come! Agostino non solo si fece cristiano, ma divenne sacerdote, vescovo, dottore e padre della Chiesa.
Egli stesso lo riconosce: “Tu però nella profondità dei tuoi disegni esaudisti il punto vitale del suo desiderio, senza curarti dell’oggetto momentaneo della sua richiesta, ma badando a fare di me ciò che sempre ti chiedeva di fare.” (Confessioni V, 8,15).

Il momento decisivo arrivò nel 386. Agostino, tormentato interiormente, lottava contro le passioni e le resistenze della sua volontà. Nel celebre episodio del giardino di Milano, al sentire la voce di un bambino che diceva “Tolle, lege” (“Prendi, leggi”), aprì la Lettera ai Romani e lesse le parole che gli cambiarono la vita: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,14).
Fu l’inizio della sua conversione. Insieme al figlio Adeodato e ad alcuni amici si ritirò a Cassiciaco per prepararsi al battesimo. Monica era con loro, partecipe della gioia di vedere finalmente esaudite le preghiere di tanti anni.
La notte di Pasqua del 387, nella cattedrale di Milano, Ambrogio battezzò Agostino, Adeodato e gli altri catecumeni. Le lacrime di dolore di Monica si trasformarono in lacrime di gioia. Continua a rimanere al suo servizio, tanto che a Cassiciaco Agostino dirà: “Ebbe cura come se di tutti fosse stata madre e ci servì come se di tutti fosse stata figlia.”.

Ostia: l’estasi e la morte
Dopo il battesimo, Monica e Agostino si prepararono a tornare in Africa. Fermatisi a Ostia, in attesa della nave, vissero un momento di intensissima spiritualità. Le Confessioni narrano l’estasi di Ostia: madre e figlio, affacciati a una finestra, contemplarono insieme la bellezza del creato e si elevarono verso Dio, pregustando la beatitudine del cielo.
Monica dirà: “Figlio, quanto a me non trovo ormai più alcuna attrattiva per questa vita. Non so che cosa io stia a fare ancora quaggiù e perché mi trovi qui. Questo mondo non è più oggetto di desideri per me. C’era un solo motivo per cui desideravo rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico, prima di morire. Dio mi ha esaudito oltre ogni mia aspettativa, mi ha concesso di vederti al suo servizio e affrancato dalle aspirazioni di felicità terrene. Che sto a fare qui?” (Confessioni IX, 10,11). Aveva raggiunto la sua meta terrena.
Alcuni giorni dopo Monica si ammalò gravemente. Sentendo vicina la fine, disse ai figli: “Figli miei, seppellirete qui vostra madre: non vi preoccupate di dove. Solo di questo vi prego: ricordatevi di me all’altare del Signore, dovunque sarete”. Era la sintesi della sua vita: non l’importava il luogo della sepoltura, ma il legame nella preghiera e nell’Eucaristia.
Morì a 56 anni, nel 12 novembre del 387, e fu sepolta a Ostia. Nel VI secolo, le sue reliquie furono trasferite in una cripta nascosta nella stessa chiesa di Sant’Aurea. Nel 1425, le reliquie furono traslatate a Roma, nella basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio, dove ancora oggi sono venerate.

Il profilo spirituale di Monica
Agostino descrive sua madre con parole ben misurate:
“[…] muliebre nell’aspetto, virile nella fede, vegliarda nella pacatezza, materna nell’amore, cristiana nella pietà […]”. (Confessioni IX, 4, 8).
E ancora:
“[…] vedova casta e sobria, assidua nell’elemosina, devota e sottomessa ai tuoi santi; che non lasciava passare giornata senza recare l’offerta al tuo altare, che due volte al giorno, mattino e sera, senza fallo visitava la tua chiesa, e non per confabulare vanamente e chiacchierare come le altre vecchie, ma per udire le tue parole e farti udire le sue orazioni. Le lacrime di una tale donna, che con esse ti chiedeva non oro né argento, né beni labili o volubili, ma la salvezza dell’anima di suo figlio, avresti potuto sdegnarle tu, che così l’avevi fatta con la tua grazia, rifiutandole il tuo soccorso? Certamente no, Signore. Tu anzi le eri accanto e l’esaudivi, operando secondo l’ordine con cui avevi predestinato di dover operare.” (Confessioni V, 9,17).

Da questa testimonianza agostiniana, emerge una figura di sorprendente attualità.
Fu una donna di preghiera: non smise mai di invocare Dio per la salvezza dei suoi cari. Le sue lacrime diventano modello di intercessione perseverante.
Fu una sposa fedele: in un matrimonio difficile, non rispose mai con risentimento alla durezza del marito. La sua pazienza e la sua mitezza furono strumenti di evangelizzazione.
Fu una madre coraggiosa: non abbandonò il figlio nelle sue deviazioni, ma lo accompagnò con amore tenace, capace di fidarsi dei tempi di Dio.
Fu una testimone di speranza: la sua vita mostra che nessuna situazione è disperata, se vissuta nella fede.
Il messaggio di Monica non appartiene solo al IV secolo. Parla ancora oggi, in un contesto in cui molte famiglie vivono tensioni, figli si allontanano dalla fede, genitori sperimentano la fatica dell’attesa.
Ai genitori, insegna a non arrendersi, a credere che la grazia opera in modi misteriosi.
Alle donne cristiane, mostra come la mitezza e la fedeltà possano trasformare relazioni difficili.
A chiunque si senta scoraggiato nella preghiera, testimonia che Dio ascolta, anche se i tempi non coincidono con i nostri.
Non è un caso che molte associazioni e movimenti abbiano scelto Monica come patrona delle madri cristiane e delle donne che pregano per i figli lontani dalla fede.

Una donna semplice e straordinaria
La vita di santa Monica è la storia di una donna semplice e straordinaria insieme. Semplice perché vissuta nel quotidiano di una famiglia, straordinaria perché trasfigurata dalla fede. Le sue lacrime e le sue preghiere hanno plasmato un santo e, attraverso di lui, hanno inciso profondamente nella storia della Chiesa.
La sua memoria, celebrata il 27 agosto, alla vigilia della festa di sant’Agostino, ci ricorda che la santità passa spesso attraverso la perseveranza nascosta, il sacrificio silenzioso, la speranza che non delude.
Nelle parole di Agostino, rivolte a Dio per la madre, troviamo la sintesi della sua eredità spirituale: “Non posso dire abbastanza di quanto la mia anima sia debitrice a lei, mio Dio; ma tu sai tutto. Ripagale con la tua misericordia quanto ti chiese con tante lacrime per me” (Conf., IX, 13).

Santa Monica attraverso le vicende della sua vita ha raggiunto la felicità eterna che lei stessa ha definito: “La felicità consiste senza dubbio nel raggiungimento del fine e si deve aver fiducia che ad esso possiamo esser condotti da una ferma fede, da una viva speranza, da un’ardente carità”. (La Felicità 4,35).




Verso l’alto! San Pier Giorgio Frassati

“Carissimi giovani, la nostra speranza è Gesù. È Lui, come diceva San Giovanni Paolo II, «che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande […], per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna» (XV Giornata Mondiale della Gioventù, Veglia Di Preghiera, 19 agosto 2000). Teniamoci uniti a Lui, rimaniamo nella sua amicizia, sempre, coltivandola con la preghiera, l’adorazione, la Comunione eucaristica, la Confessione frequente, la carità generosa, come ci hanno insegnato i beati Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, che presto saranno proclamati Santi. Aspirate a cose grandi, alla santità, ovunque siate. Non accontentatevi di meno. Allora vedrete crescere ogni giorno, in voi e attorno a voi, la luce del Vangelo” (Papa Leone XIV – omelia Giubileo dei giovani – 3 agosto 2025).

Pier Giorgio e don Cojazzi
Il senatore Alfredo Frassati, ambasciatore del Regno d’Italia a Berlino, era il proprietario e direttore del quotidiano La Stampa di Torino. I Salesiani avevano un grosso debito di riconoscenza verso di lui. In occasione della grande montatura scandalistica nota come “I fatti di Varazze”, in cui si era cercato di gettare fango sulla onorabilità dei Salesiani, Frassati ne aveva preso le difese. Mentre persino alcuni giornali cattolici sembravano smarriti e disorientati di fronte alle pesanti e penose accuse, La Stampa, condotta una rapida inchiesta, aveva precorso le conclusioni della magistratura proclamando l’innocenza dei Salesiani. Così, quando da casa Frassati giunse la richiesta di un salesiano che si occupasse di seguire negli studi i due figli del senatore, Pier Giorgio e Luciana, don Paolo Albera, Rettor Maggiore, si sentì in obbligo di accettare. Inviò don Antonio Cojazzi (1880-1953). Era l’uomo adatto: buona cultura, temperamento giovanile di un’eccezionale capacità comunicativa. Don Cojazzi si era laureato in lettere nel 1905, in filosofia nel 1906, e aveva conseguito il diploma di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese dopo un serio perfezionamento in Inghilterra.
In casa Frassati don Cojazzi diventò qualcosa di più del ‘precettore’ che segue i ragazzi. Diventò un amico, specialmente di Pier Giorgio, di cui dirà: “Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e il liceo con lezioni che nei primi anni erano quotidiane; lo seguii con crescente interesse e affetto”. Pier Giorgio, diventato uno dei giovani di punta dell’Azione Cattolica torinese, ascoltava le conferenze e le lezioni che don Cojazzi teneva ai soci del Circolo C. Balbo, seguiva con interesse la Rivista dei Giovani, saliva talvolta a Valsalice in cerca di luce e di consiglio nei momenti decisivi.

Un momento di notorietà
Pier Giorgio lo ebbe durante il Congresso Nazionale della Gioventù Cattolica italiana, nel 1921: cinquantamila giovani che sfilavano per Roma, cantando e pregando. Pier Giorgio, studente del politecnico, reggeva la bandiera tricolore del circolo torinese C. Balbo. Le truppe regie, ad un tratto, circondarono l’enorme corteo e lo presero d’assalto per strappare le bandiere. Si volevano impedire disordini. Un testimone raccontò: “Picchiano con i calci dei moschetti, afferrano, spezzano, strappano le nostre bandiere. Vedo Pier Giorgio alle prese con due guardie. Accorriamo in suo aiuto, e la bandiera, con l’asta spezzata, resta nelle sue mani. Imprigionati a forza in un cortile, i giovani cattolici vengono interrogati dalla polizia. Il testimone ricorda il dialogo condotto con i modi e le cortesie che usano in simili contingenze:
– E tu, come ti chiami?
– Pier Giorgio Frassati di Alfredo.
– Che cosa fa tuo padre?
– Ambasciatore d’Italia a Berlino.
Stupore, cambiamento di tono, scuse, offerta di immediata libertà.
– Uscirò quando usciranno gli altri.
Intanto lo spettacolo bestiale continua. Un sacerdote è buttato, letteralmente buttato nel cortile con l’abito talare strappato e una guancia sanguinante… Insieme ci inginocchiammo per terra, nel cortile, quando quel prete lacero alzò il rosario e disse: Ragazzi, per noi e per quelli che ci hanno percosso, preghiamo!”.

Amava i poveri
Pier Giorgio amava i poveri, li andava a cercare nei quartieri più lontani della città; saliva le scale strette e oscure; entrava nelle soffitte dove soltanto abitano la miseria e il dolore. Tutto quello che aveva in tasca era per gli altri, come tutto quello che teneva nel cuore. Arrivava a passare le notti al capezzale di ammalati sconosciuti. Una notte che non rincasava, il padre sempre più ansioso telefonò alla questura, agli ospedali. Alle due si sentì girare la chiave nella porta e Pier Giorgio entrò. Papà esplose:
– Senti, puoi stare fuori di giorno, di notte, nessuno ti dice niente. Ma quando fai così tardi, avverti, telefona!
Pier Giorgio lo guardò, e con la solita semplicità rispose:
– Babbo, dov’ero io, non c’era telefono.
Le Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli lo videro assiduo cooperatore; i poveri lo conobbero consolatore e soccorritore; le misere soffitte lo accolsero sovente fra le loro squallide mura come un raggio di sole per i suoi derelitti abitanti. Dominato da una profonda umiltà, quello che faceva non voleva che fosse conosciuto da alcuno.

Giorgetto bello e santo
Nei primi giorni del luglio 1925 Pier Giorgio fu assalito e stroncato da un violento attacco di poliomielite. Aveva 24 anni. Sul letto di morte, mentre un male terribile gli devastava la schiena, pensò ancora ai suoi poveri. Su un biglietto, con grafia ormai quasi indecifrabile, scrisse per l’ingegnere Grimaldi, suo amico: Ecco le iniezioni di Converso, la polizza è di Sappa. L’ho dimenticata, rinnovala tu.
Di ritorno dal funerale di Pier Giorgio, don Cojazzi scrive di getto un articolo per la Rivista dei Giovani: “Ripeterò la vecchia frase, ma sincerissima: non credevo di amarlo tanto. Giorgetto bello e santo! Perché mi cantano in cuore insistenti queste parole? Perché le udii ripetere, le udii pronunciare per quasi due giorni, dal padre, dalla madre, dalla sorella, con voce che diceva sempre e non ripeteva mai. E perché affiorano certi versi d’una ballata del Deroulède: «Si parlerà di lui a lungo, nei palazzi dorati e nei casolari sperduti! Perché di lui parleranno anche i tuguri e le soffitte, dove passò tante volte angelo consolatore». Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e parte del liceo… lo seguii con crescente interesse e affetto fino alla sua odierna trasfigurazione… Scriverò la sua vita. Si tratta della raccolta di testimonianze che presentano la figura di questo giovane nella pienezza della sua luce, nella verità spirituale e morale, nella testimonianza luminosa e contagiosa di bontà e di generosità”.

Il best-seller dell’editoria cattolica
Incoraggiato e spinto anche dall’arcivescovo di Torino, Mons. Giuseppe Gamba, don Cojazzi si mise al lavoro di buona lena. Le testimonianze arrivarono numerose e qualificate, furono ordinate e vagliate con cura. La mamma di Pier Giorgio seguiva il lavoro, dava suggerimenti, forniva materiale. Nel marzo del 1928 esce la vita di Pier Giorgio. Scrive Luigi Gedda: “Fu un successo strepitoso. In soli nove mesi vennero esaurite 30 mila copie del libro. Nel 1932 erano già state diffuse 70 mila copie. Nel giro di 15 anni il libro su Pier Giorgio raggiunse 11 edizioni, e forse fu il best-seller dell’editoria cattolica in quel periodo”.
La figura illuminata da don Cojazzi fu una bandiera per l’Azione Cattolica durante il difficile tempo del fascismo. Nel 1942 avevano preso il nome di Pier Giorgio Frassati: 771 associazioni giovanili di Azione Cattolica, 178 sezioni aspiranti, 21 associazioni universitarie, 6o gruppi di studenti medi, 29 conferenze di S. Vincenzo, 23 gruppi del Vangelo… Il libro fu tradotto almeno in 19 lingue.
Il libro di don Cojazzi segnò una svolta nella storia della gioventù italiana. Pier Giorgio, fu l’ideale additato senza alcuna riserva: uno che ha saputo dimostrare che essere cristiano fino in fondo non è affatto utopistico, né fantastico.
Pier Giorgio Frassati segnò una svolta anche nella storia di don Cojazzi. Quel biglietto scritto da Pier Giorgio sul letto di morte gli rivelò in maniera concreta, quasi brutale, il mondo dei poveri. Scrive lo stesso don Cojazzi: “Il Venerdì Santo di quest’anno (1928) con due universitari visitai per quattro ore i poveri fuori Porta Metronia. Quella visita mi procurò una salutarissima lezione e umiliazione. Io avevo scritto e parlato moltissimo sulle Conferenze di S. Vincenzo… eppure non ero mai andato una sola volta a visitare i poveri. In quei luridi capannoni mi vennero spesso le lacrime agli occhi… La conclusione? Eccola chiara e cruda per me e per voi: meno parole belle e più opere buone”.
Il contatto vivo con i poveri non solo un’attuazione immediata del Vangelo, ma una scuola di vita per i giovani. Sono la migliore scuola per i giovani, per educarli e tenerli nella serietà della vita. Chi si reca a visitare i poveri e ne tocca con mano le piaghe materiali e morali, come può sprecare il suo denaro, il suo tempo, la sua giovinezza? Come può lamentarsi dei propri lavori e dolori, quando ha conosciuto, per diretta esperienza, che altri soffrono più di lui?

Non vivacchiare, ma vivere!
Pier Giorgio Frassati è un esempio luminoso di santità giovanile, attuale, «inquadrato» nel nostro tempo. Egli attesta ancora una volta che la fede in Gesù Cristo è la religione dei forti e dei veramente giovani, che sola può illuminare tutte le verità con la luce del «mistero» e che soltanto essa può regalare la perfetta letizia. La sua esistenza è il perfetto modello della vita normale alla portata di tutti. Egli, come tutti i seguaci di Gesù e del Vangelo, incominciò dalle piccole cose; giunse alle altezze più sublimi a forza di sottrarsi ai compromessi di una vita mediocre e senza senso e impiegando la naturale testardaggine nei suoi fermi propositi. Tutto, nella sua vita, gli fu gradino per salire; anche ciò che gli avrebbe dovuto essere di inciampo. Fra i compagni era l’intrepido ed esuberante animatore di ogni impresa facendo convergere intorno a sé tanta simpatia e tanta ammirazione. La natura gli era stata larga di favori: di famiglia rinomata, ricco, d’ingegno sodo e pratico, fisico prestante e robusto, educazione completa, nulla gli mancava per farsi largo nella vita. Ma egli non intendeva vivacchiare, bensì conquistarsi il suo posto al sole, lottando. Era una tempra di uomo ed un’anima di cristiano.
La sua vita aveva in sé stessa una coerenza che riposava nell’unità dello spirito e della esistenza, della fede e delle opere. La sorgente di questa personalità così luminosa era nella profonda vita interiore. Frassati pregava. La sua sete della Grazia gli faceva amare tutto ciò che riempie e arricchisce lo spirito. S’accostava ogni giorno alla Santa Comunione, poi restava ai piedi dell’altare, a lungo, senza che nulla valesse a distrarlo. Pregava sui monti e per la via. Non era però, la sua, una fede ostentata, anche se i segni di croce fatti sulla pubblica strada passando davanti alle chiese erano grandi e sicuri, anche se il Rosario era detto ad alta voce, in una carrozza ferroviaria o nella camera di un albergo. Ma era piuttosto una fede vissuta così intensamente e schiettamente che erompeva dalla sua anima generosa e franca con una semplicità di atteggiamento che convinceva e commoveva. La sua formazione spirituale si irrobustì nelle adorazioni notturne di cui fu fervido propugnatore ed immancabile partecipante. Fece più di una volta gli esercizi spirituali traendone serenità e vigoria spirituale.
Il libro di don Cojazzi si chiude con la frase: «Averlo conosciuto o averne udito parlare significa amarlo, ed amarlo significa seguirlo». L’augurio che la testimonianza di Piergiorgio Frassati sia “sale e luce” per tutti, soprattutto per i giovani di oggi.




Il cardinale Augusto Hlond

            Secondo di 11 figli, suo padre era un operaio delle ferrovie. Ricevuta dai genitori una fede semplice ma forte, a 12 anni, attratto dalla fama di Don Bosco, seguì in Italia il fratello Ignazio per consacrarsi al Signore nella Società Salesiana, e vi attirò presto altri due fratelli: Antonio, che diventerà salesiano e rinomato musicista, e Clemente, che sarà missionario. Lo accolse il collegio di Valsalice per gli studi ginnasiali. Ammesso quindi al noviziato, ricevette l’abito talare dal beato Michele Rua (1896). Fatta la professione religiosa nel 1897, i superiori lo destinarono a Roma all’Università Gregoriana per il corso di filosofia che coronò con la laurea. Da Roma tornò in Polonia a esercitare il tirocinio pratico nel collegio di Oświęcim. La sua fedeltà al sistema educativo di Don Bosco, il suo impegno nell’assistenza e nella scuola, la sua dedizione ai giovani e l’amabilità del suo tratto gli acquistarono grande ascendente. Si affermò subito anche per il talento musicale.
            Compiuti gli studi di teologia, ricevette il 23 settembre 1905 l’ordinazione sacerdotale, conferitagli in Cracovia da Mons. Nowak. Negli anni 1905-09 frequentò la facoltà di lettere presso le università di Cracovia e di Leopoli. Nel 1907 fu preposto alla direzione della nuova casa di Przemyśl (1907-09), da dove passò alla direzione della casa di Vienna (1909-19). Qui il suo valore e la sua abilità personale ebbero un campo ancor più vasto per le particolari difficoltà in cui si trovava l’istituto nella capitale imperiale. Don Augusto Hlond, con la sua virtù e col suo tatto, riuscì in breve non solo a sistemare la situazione economica, ma anche a suscitare una fioritura di opere giovanili da attirare l’ammirazione di ogni ceto di persone. La cura dei poveri, degli operai, dei figli del popolo gli attirava l’affetto delle classi più umili. Carissimo ai vescovi e ai nunzi apostolici, godeva la stima delle autorità e della stessa famiglia imperiale. Come riconoscimento di tale opera sociale ed educativa ricevette per tre volte alcune delle onorificenze più prestigiose.
            Nel 1919 lo sviluppo dell’Ispettoria Austro-Ungarica consigliò una divisione proporzionata al numero delle case, e i superiori nominarono don Hlond ispettore dell’Ispettoria tedesco-ungarica, con sede a Vienna (191922), affidandogli la cura dei confratelli austriaci, tedeschi e ungheresi. In nemmeno tre anni, il giovane ispettore aprì una decina di nuove presenze salesiane, e le formò al più genuino spirito salesiano, suscitando numerose vocazioni.
            Era nel pieno fervore della sua attività salesiana, quando, nel 1922, dovendo la Santa Sede provvedere alla sistemazione religiosa della Slesia Polacca, ancor sanguinante per le lotte politiche e nazionali, il Santo Padre Pio XI affidò a lui la delicatissima missione, nominandolo Amministratore Apostolico. Dalla sua mediazione tra tedeschi e polacchi nacque nel 1925 la diocesi di Katowice, di cui diventò vescovo. Nel 1926 è arcivescovo di Gniezno e Poznań e primate di Polonia. L’anno successivo il Papa lo crea cardinale. Nel 1932 fonda la Società di Cristo per gli emigrati polacchi, volta ad assistere i tanti compatrioti che hanno lasciato il Paese.
            Nel marzo del 1939 partecipa al Conclave che elegge Pio XII. Il primo settembre dello stesso anno i nazisti invadono la Polonia: inizia la Seconda guerra mondiale. Il cardinale alza la voce contro le violazioni dei diritti umani e della libertà religiosa compiute da Hitler. Costretto all’esilio si rifugia in Francia, presso l’Abbazia di Hautecombe, denunciando le persecuzioni contro gli Ebrei in Polonia. La Gestapo penetra nell’Abbazia e lo arresta, deportandolo a Parigi. Il porporato si rifiuta categoricamente di appoggiare la formazione di un governo polacco filonazista. Viene internato prima in Lorena e poi in Westfalia. Liberato dalle truppe alleate, nel 1945 torna in Patria.
            Nella nuova Polonia liberata dal nazismo, trova il comunismo. Con coraggio difende i Polacchi dall’oppressione atea marxista, scampando anche ad alcuni attentati. Muore il 22 ottobre 1948 a causa di una polmonite, all’età di 67 anni. Ai funerali accorrono migliaia di persone.
            Il cardinale Hlond fu un uomo virtuoso, un luminoso esempio di religioso salesiano e un pastore generoso, austero, capace di visioni profetiche. Obbediente alla Chiesa e fermo nell’esercizio dell’autorità, dimostrò umiltà eroica e inequivocabile costanza nei momenti di maggiore prova. Coltivò la povertà e praticò la giustizia verso i poveri e i bisognosi. Le due colonne della sua vita spirituale, alla scuola di san Giovanni Bosco, furono l’Eucaristia e Maria Ausiliatrice.
            Nella storia della Chiesa di Polonia, il cardinale Augusto Hlond è stato una delle figure più eminenti per la testimonianza religiosa della sua vita, per la grandezza, la varietà e l’originalità del suo ministero pastorale, per le sofferenze che affrontò con intrepido animo cristiano per il Regno di Dio. L’ardore apostolico distinse l’opera pastorale e la fisionomia spirituale del venerabile Augusto Hlond, che assumendo come motto episcopale Da mihi animas coetera tolle, da vero figlio di san Giovanni Bosco lo confermò con la sua vita di consacrato e di vescovo, dando testimonianza di instancabile carità pastorale.
            Va ricordato il suo grande amore alla Madonna, appreso nella sua famiglia e nella grande devozione del popolo polacco alla Madre di Dio, venerata nel santuario di Częstochowa. Inoltre da Torino, dove iniziò il suo cammino come salesiano, diffuse in Polonia il culto a Maria Ausiliatrice e consacrò la Polonia al Cuore Immacolato di Maria. L’affidamento a Maria lo sostenne sempre nelle avversità e nell’ora dell’incontro estremo con il Signore. Morì con la corona del Rosario fra le mani dicendo ai presenti che la vittoria, quando sarebbe venuta, sarebbe stata la vittoria di Maria Immacolata.
            Il venerabile cardinale Augusto Hlond è testimone singolare di come dobbiamo accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, difficoltà, anche persecuzioni: questo è santità. «Gesù ricorda quanta gente è perseguitata ed è stata perseguitata semplicemente per aver lottato per la giustizia, per aver vissuto i propri impegni con Dio e con gli altri. Se non vogliamo sprofondare in una oscura mediocrità, non pretendiamo una vita comoda, perché “chi vuol salvare la propria vita, la perderà” (Mt 16,25). Non si può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto intorno a noi sia favorevole, perché molte volte le ambizioni del potere e gli interessi mondani giocano contro di noi… La croce, soprattutto le stanchezze e i patimenti che sopportiamo per vivere il comandamento dell’amore e il cammino della giustizia, è fonte di maturazione e di santificazione» (Francesco, Gaudete et Exsultate, nn. 90-92).




Don José-Luis Carreño, missionario salesiano

Don José Luis Carreño (1905-1986) è stato descritto dallo storico Joseph Thekkedath come “il salesiano più amato dell’India del Sud” nella prima parte del ventesimo secolo. In ogni luogo in cui ha vissuto – sia in India britannica, nella colonia portoghese di Goa, nelle Filippine o in Spagna – troviamo salesiani che custodiscono con affetto la sua memoria. Stranamente, però, non disponiamo ancora di una biografia adeguata di questo grande salesiano, eccetto la corposa lettera mortuaria redatta da don José Antonio Rico: “José Luis Carreño Etxeandía, obrero de Dios”. Speriamo che presto si possa colmare questa lacuna. Don Carreño è stato uno degli artefici della regione dell’Asia Sud, e non possiamo permetterci di dimenticarlo.

            José-Luis Carreño Etxeandía nacque a Bilbao, in Spagna, il 23 ottobre 1905. Rimasto orfano di madre alla tenera età di otto anni, fu accolto nella casa salesiana di Santander. Nel 1917, all’età di dodici anni, entrò nell’aspirantato di Campello. Ricorda che a quei tempi “non si parlava molto di Don Bosco… Ma per noi un Don Binelli era un Don Bosco, per non parlare di Don Rinaldi, allora Prefetto Generale, le cui visite ci lasciavano una sensazione soprannaturale, come quando i messaggeri di Yahweh visitarono la tenda di Abramo”.
            Dopo il noviziato e postnoviziato, svolse il tirocinio come assistente dei novizi. Doveva essere un chierico brillante, perché di lui scrive don Pedro Escursell al Rettor Maggiore: “Sto parlando proprio in questo momento con uno dei chierici modello di questa casa. È un assistente nella formazione del personale di questa Ispettoria; mi dice che da tempo chiede di essere mandato nelle missioni e dice che ha rinunciato a chiederlo perché non riceve risposta. È un giovane di grande valore intellettuale e morale.”
            Alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale, nel 1932, il giovane José-Luis scrisse direttamente al Rettor Maggiore, offrendosi per le missioni. L’offerta fu accettata, e fu inviato in India, dove sbarcò a Mumbai nel 1933. Appena un anno dopo, quando fu eretta l’Ispettoria dell’India del Sud, fu nominato maestro dei novizi a Tirupattur: aveva appena 28 anni. Con le sue straordinarie qualità di mente e di cuore, divenne rapidamente l’anima della casa e lasciò una profonda impressione nei suoi novizi. “Ci conquistò con il suo cuore paterno”, scrive uno di loro, l’arcivescovo Hubert D’Rosario di Shillong.
            Don Joseph Vaz, un altro novizio, raccontava spesso come Carreño si fosse accorto che lui tremava di freddo durante una conferenza. “Aspetta un momento, hombre,” disse il maestro dei novizi, e uscì. Poco dopo rientrò con un maglione blu che consegnò a Joe. Joe notò che il maglione era stranamente caldo. Poi si ricordò che sotto la talare il suo maestro indossava qualcosa di blu… che adesso non c’era più. Carreño gli aveva dato il suo stesso maglione.
            Nel 1942, quando il governo britannico in India internò tutti gli stranieri provenienti da paesi in guerra con la Gran Bretagna, Carreño, essendo cittadino di un paese neutrale, non fu disturbato. Nel 1943 ricevette un messaggio tramite la Radio Vaticana: doveva prendere il posto di don Eligio Cinato, ispettore dell’ispettoria dell’India del Sud, anche egli internato. Nello stesso periodo, arcivescovo salesiano Louis Mathias di Madras-Mylapore lo invitò a essere suo vicario generale.
            Nel 1945 fu ufficialmente nominato ispettore, incarico che ricoprì dal 1945 al 1951. Uno dei suoi primissimi atti fu consacrare l’Ispettoria al Sacro Cuore di Gesù. Molti salesiani erano convinti che la straordinaria crescita dell’Ispettoria del Sud fosse dovuta proprio a questo gesto. Sotto la guida di don Carreño, le opere salesiane raddoppiarono. Uno dei suoi atti più lungimiranti fu l’avvio di un college universitario nel remoto e povero villaggio di Tirupattur. Il Sacred Heart College avrebbe finito per trasformare l’intero distretto.
            Fu anche Carreño l’artefice principale della “indianizzazione” del volto salesiano in India, cercando fin da subito vocazioni locali, invece di fare affidamento esclusivo sui missionari stranieri. Una scelta che si rivelò provvidenziale: prima, perché il flusso di missionari stranieri cessò, si interruppe durante la Guerra; poi, perché l’India indipendente decise di non concedere più visti a nuovi missionari stranieri. “Se oggi i salesiani in India sono più di duemila, il merito di questa crescita va attribuito alle politiche avviate da don Carreño,” scrive don Thekkedath nella sua storia dei salesiani in India.
            Don Carreño, come abbiamo detto, non era solo ispettore, ma anche vicario di mons. Mathias. Questi due grandi uomini, che si stimavano profondamente, erano però molto diversi per temperamento. L’arcivescovo era fautore di misure disciplinari severe nei confronti dei confratelli in difficoltà, mentre don Carreño preferiva procedimenti più miti. Il visitatore straordinario, don Albino Fedrigotti, sembra aver dato ragione all’arcivescovo, definendo don Carreño “un eccellente religioso, un uomo dal cuore grande”, ma anche “un po’ troppo poeta”.
            Non mancò neppure l’accusa di essere un cattivo amministratore, ma è significativo che una figura come don Aurelio Maschio, grande procuratore e architetto delle opere salesiane di Mumbai, abbia respinto con decisione tale accusa. In realtà, don Carreño era un innovatore e un visionario. Alcune delle sue idee – come quella di coinvolgere volontari non salesiani per un servizio di qualche anno – erano, all’epoca, guardate con sospetto, ma oggi sono largamente accettate e attivamente promosse.
            Nel 1951, al termine del suo mandato ufficiale come ispettore, a Carreño fu chiesto di rientrare in Spagna per occuparsi dei Salesiani Cooperatori. Non era questo il vero motivo della sua partenza, dopo diciotto anni in India, ma Carreno accettò con serenità, anche se non senza dolore.
            Nel 1952 gli fu invece chiesto di andare a Goa, dove rimase fino al 1960. “Goa fu amore a prima vista,” scrisse in Urdimbre en el telar. Goa, da parte sua, lo accolse nel cuore. Proseguì la tradizione dei salesiani che prestavano servizio come direttori spirituali e confessori del clero diocesano, e fu persino patrono dell’associazione degli scrittori in lingua konkani. Soprattutto, governò la comunità di Don Bosco Panjim con amore, si prese cura con straordinaria paternità dei tanti ragazzi poveri e, ancora una volta, si dedicò attivamente alla ricerca di vocazioni alla vita salesiana. I primi salesiani di Goa – persone come Thomas Fernandes, Elias Diaz e Romulo Noronha – raccontavano con le lacrime agli occhi come Carreño e altri passassero dal Goa Medical College, proprio accanto alla casa salesiana, per donare il sangue e così ottenere qualche rupia con cui comprare viveri e altri beni per i ragazzi.
            Nel 1961 ebbero luogo l’azione militare indiana e l’annessione di Goa. In quel momento don Carreño si trovava in Spagna e non poté più fare ritorno all’amata terra. Nel 1962 fu inviato nelle Filippine come maestro dei novizi. Accompagnò solo tre gruppi di novizi, perché nel 1965 chiese di rientrare in Spagna. All’origine della sua decisione vi era una seria divergenza di visione tra lui e i missionari salesiani provenienti dalla Cina, e specialmente con don Carlo Braga, superiore della visitatoria. Carreño si oppose con forza alla politica di inviare i giovani Salesiani filippini appena professi a Hong Kong per gli studi di filosofia. Come accadde, alla fine i superiori accettarono la proposta di trattenere i giovani salesiani nelle Filippine, ma a quel punto la richiesta di Carreño di rientrare in patria era già stata accolta.

            Don Carreño trascorse solo quattro anni nelle Filippine, ma anche qui, come in India, lasciò un’impronta indelebile, “un contributo incommensurabile e cruciale alla presenza salesiana nelle Filippine”, secondo le parole dello storico salesiano Nestor Impelido.
            Rientrato in Spagna, ha collaborato con le Procure Missionarie di Madrid e di New Rochelle, e all’animazione delle ispettorie iberiche. Molti in Spagna ricordano ancora il vecchio missionario che visitava le case salesiane, contagiando i giovani con il suo entusiasmo missionario, le sue canzoni e la sua musica.
            Ma nella sua fantasia creativa stava prendendo forma un nuovo progetto. Carreño si dedicò con tutto il cuore al sogno di fondare un Pueblo Misionero con due obiettivi: preparare giovani missionari – per lo più provenienti dall’Europa dell’Est – per l’America Latina; e offrire un rifugio per missionari “pensionati” come lui, i quali avrebbero potuto servire anche come formatori. Dopo una lunga e sofferta corrispondenza con i superiori, il progetto prese finalmente forma nell’Hogar del Misionero ad Alzuza, a pochi chilometri da Pamplona. La componente vocazionale missionaria non decollò mai, e furono pochissimi i missionari anziani che si unirono effettivamente a Carreño. Il suo principale apostolato in questi ultimi anni rimase quello della penna. Lasciò più di trenta libri, tra i quali cinque dedicati alla Santa Sindone, alla quale era particolarmente devoto.
            Don José-Luis Carreño morì nel 1986 a Pamplona, all’età di 81 anni. Nonostante gli alti e bassi della sua vita, questo grande amante del Sacro Cuore di Gesù poté affermare, nel giubileo d’oro della sua ordinazione sacerdotale: “Se cinquant’anni fa il mio motto da giovane prete era ‘Cristo è tutto’, oggi, vecchio e sopraffatto dal suo amore, lo scriverei in lettere d’oro, perché in realtà CRISTO È TUTTO”.

don Ivo COELHO, sdb




L’oratorio festivo di Valdocco

Nel 1935, a seguito della canonizzazione di don Bosco nel 1934, i salesiani si premurarono di raccogliere testimonianze su di lui. Un certo Pietro Pons, che fanciullo aveva frequentato l’oratorio festivo di Valdocco per una decina di anni (dal 1871 al 1882), e che pure aveva frequentato due anni di scuole elementari (con le aule sotto la basilica di Maria Ausiliatrice) l’8 novembre rilasciò una bella testimonianza di quegli anni. Ne stralciamo alcuni passi, quasi tutti inediti.

La figura di don Bosco
Era il centro di attrazione di tutto l’Oratorio. Così lo ricorda il nostro antico oratoriano Pietro Pons sul finire degli anni settanta: “Non aveva più vigore, ma era sempre pacato e sorridente. Aveva due occhi, che foravano, e penetravano nella mente. Compariva tra di noi: era una gioia per tutti. D. Rua, D. Lazzero gli stavano ai fianchi come se avessero in mezzo a loro il Signore. D. Barberis e tutti i ragazzi gli correvano incontro, lo circondavano, chi camminando sui fianchi, chi dietro per aver la faccia rivolta a lui. Era una fortuna, un ambito privilegio il poter stargli vicino, il parlare con lui. Egli passeggiava adagio parlando, e guardando tutti con quei due occhi che giravano da ogni parte, elettrizzavano di gioia i cuori”.
Fra gli episodi rimasti impressi nella mente a 60 anni di distanza ne ricorda due in particolare: “Un giorno… compare soletto dalla porta d’ingresso presso il santuario. Allora uno stuolo di ragazzi piglia la corsa per investirlo come una folata di vento. Ma egli tiene in mano l’ombrello, che ha il manico ed il fusto grosso come quello dei contadini. Lo alza e servendosene come una spada si destreggia a respingere quell’affettuoso assalto ora a destra ora a sinistra per aprirsi il passo. Tocca uno colla punta, un altro di fianco, ma intanto s’accostano gli altri dall’altra parte. Così il gioco, lo scherzo continua portando la gioia nei cuori, desiderosi di vedere il buon Padre ritornare dal suo viaggio. Sembrava un parroco di paese, ma di quelli alla buona”.

I giochi e il teatrino
Un oratorio salesiano senza gioco è impensabile. Ricorda l’anziano exallievo: “il cortile era occupato da un fabbricato, dalla chiesa di Maria A. e al termine di un muretto… appoggiava all’angolo a sinistra una specie di capanna, presso cui c’era sempre qualcuno a controllare chi entrava… Appena entrato a destra c’era l’altalena con un posto solo, le parallele poi e la sbarra fissa per i più grandicelli, che si divertivano a fare le loro giravolte e capriole, ed anche il trapezio, ed il passo volante unico, che si trovavano però presso le sacrestie oltre la cappella di S. Giuseppe”. Ed ancora: “Questo cortile era di una bella lunghezza e si prestava assai bene a fare le corse di velocità partendo dal lato della chiesa e tornando ivi al ritorno. Si giocava pure a bara rotta, alle corse dei sacchi, alle pignatte. Questi ultimi giochi erano annunziati fin dalla domenica precedente. Così pure la cuccagna; ma l’albero si piantava con la parte sottile in basso perché fosse più difficile l’ascendere. C’erano delle lotterie, ed il biglietto si pagava un soldo o due. Dentro alla casetta c’era una piccola biblioteca contenuta in un armadietto”.

Al gioco si univa il famoso “teatrino” su cui si svolgevano autentici drammi come “il figlio del Crociato”, si cantavano le romanze di don Cagliero e si presentavano “musical” come il Ciabattino personificato dal mitico Carlo Gastini [brillantissimo animatore degli exallievi]. La recita, presenti gratuitamente i genitori, si teneva nel salone sotto la navata centrale della chiesa di Maria A., ma il vecchio ex oratorio ricorda anche che “una volta si recitò presso la casa Moretta [attuale chiesa parrocchiale presso la piazza]. Ivi abitava della povera gente nella più squallida miseria. Nelle cantine che si vedono sotto il poggiolo c’era una povera madre, che sul mezzogiorno portava sulle spalle il suo Carlo, che per un morbo aveva il corpo rigido, a pigliare il sole”.

Le funzioni religiose e le riunioni formative
All’oratorio festivo non mancavano le funzioni religiose della domenica mattina: santa Messa con santa comunione, preghiere del buon cristiano; seguiva al pomeriggio la ricreazione, il catechismo, la predica di don Giulio Barberis. Ormai anziano “D. Bosco non veniva mai a dir messa o a far la predica, ma solo per visitare e trattenersi coi ragazzi durante la ricreazione… I catechisti e assistenti avevano con sé in chiesa durante le funzioni i loro allievi a cui insegnavano il catechismo. La dottrina piccola era regalata a tutti. Si esigeva la lezione a memoria ogni festa e poi anche la spiegazione”. Le feste solenni si concludevano con una processione e una merenda per tutti: “uscendo di chiesa dopo la messa c’era la colazione. Un giovane a destra fuori della porta dava la pagnotta, un altro a sinistra con una forchetta vi metteva sopra due fette di salame”. Si accontentavano di poco quei ragazzi, ma erano contentissimi. Quando poi i ragazzi interni si univano agli oratoriani per il canto dei vespri si potevano udire le loro voci in via Milano e in via Corte d’appello!
All’oratorio festivo si tenevano anche riunioni di gruppi formativi. Nella casetta presso la chiesetta di S. Francesco vi era “una stanza piccola e bassa che poteva contenere circa una ventina di persone…Nella stanza c’era un tavolinetto per il conferenziere, c’erano le panche per le adunanze e conferenze dei più grandi in genere, e della Compagnia di S. Luigi, quasi tutte le domeniche”.

Chi erano gli oratoriani?
Dei suoi circa 200 compagni – ma il loro numero diminuiva in inverno per il ritorno in famiglia degli stagionali – il nostro arzillo vecchietto ricordava che molti erano biellesi “quasi tutti ‘ bic’, portavano cioè la secchia di legno piena di calce e il cesto di vimini pieno di mattoni ai muratori delle costruzioni”. Altri erano “apprendisti muratori, meccanici, lattonieri”. Poveri garzoni: lavoravano da mattina a sera tutti i giorni e solo la domenica si potevano permettere un po’ di svago “da don Bosco” (come veniva definito il suo oratorio): “Si giocava all’Asino vola, sotto la direzione dell’allora sig. Milanesio [futuro sacerdote grande missionario in Patagonia.]. Il sig. Ponzano, poi sacerdote, era maestro di ginnastica. Egli ci faceva fare esercizi a corpo libero, coi bastoni, agli attrezzi”.
I ricordi di Pietro Pons sono molto più ampi, tanto ricchi di suggestioni lontane, quanto pervasi da un’ombra di nostalgia; attendono di essere conosciuti per intero. Speriamo di farlo presto.




Casa Salesiana di Castel Gandolfo

Tra le colline verdi dei Castelli Romani e le acque tranquille del Lago Albano, sorge un luogo dove storia, natura e spiritualità si incontrano in modo singolare: Castel Gandolfo. In questo contesto ricco di memoria imperiale, fede cristiana e bellezza paesaggistica, la presenza salesiana rappresenta un punto fermo di accoglienza, formazione e vita pastorale. La Casa Salesiana, con la sua attività parrocchiale, educativa e culturale, continua la missione di san Giovanni Bosco, offrendo ai fedeli e ai visitatori un’esperienza di Chiesa viva e aperta, immersa in un ambiente che invita alla contemplazione e alla fraternità. È una comunità che, da quasi un secolo, cammina al servizio del Vangelo nel cuore stesso della tradizione cattolica.

Un luogo benedetto dalla storia e dalla natura
Castel Gandolfo è un gioiello dei Castelli Romani, situato a circa 25 km da Roma, immerso nella bellezza naturale dei Colli Albani e affacciato sul suggestivo Lago Albano. A circa 426 metri di altitudine, questo luogo si distingue per il suo clima mite e accogliente, un microclima che sembra preparato dalla Provvidenza per accogliere chi cerca ristoro, bellezza e silenzio.

Già in epoca romana questo territorio era parte dell’Albanum Caesaris, un’antica tenuta imperiale frequentata dagli imperatori sin dai tempi di Augusto. Fu però l’imperatore Tiberio il primo a risiedervi stabilmente, mentre più tardi Domiziano vi fece costruire una splendida villa, i cui resti sono oggi visibili nei giardini pontifici. La storia cristiana del luogo ha inizio con la donazione di Costantino alla Chiesa di Albano: un gesto che segna simbolicamente il passaggio dalla gloria imperiale alla luce del Vangelo.

Il nome Castel Gandolfo deriva dal latino Castrum Gandulphi, il castello costruito dalla famiglia Gandolfi nel XII secolo. Quando nel 1596 il castello passò alla Santa Sede, diventò residenza estiva dei Pontefici, e il legame tra questo luogo e il ministero del Successore di Pietro si fece profondo e duraturo.

La Specola Vaticana: contemplare il cielo, lodare il Creatore
Di particolare rilievo spirituale è la Specola Vaticana, fondata da papa Leone XIII nel 1891 e trasferita negli anni ’30 a Castel Gandolfo a causa dell’inquinamento luminoso di Roma. Essa testimonia come anche la scienza, quando orientata al vero, conduca a lodare il Creatore.
Nel corso degli anni, la Specola ha contribuito a progetti astronomici di grande rilievo come la Carte du Ciel e alla scoperta di numerosi oggetti celesti.

Con l’ulteriore peggioramento delle condizioni di osservazione anche nei Castelli Romani, negli anni Ottanta l’attività scientifica si spostò principalmente presso il Mount Graham Observatory in Arizona (USA), dove il Vatican Observatory Research Group prosegue le ricerche astrofisiche. Castel Gandolfo resta però un importante centro di studi: dal 1986 ospita ogni due anni la Vatican Observatory Summer School, dedicata a studenti e laureati in astronomia di tutto il mondo. La Specola organizza anche convegni specialistici, eventi divulgativi, mostre di meteoriti e presentazioni di materiali storici e artistici a tema astronomico, tutto in uno spirito di ricerca, dialogo e contemplazione del mistero della creazione.

Una chiesa nel cuore della città e della fede
Nel XVII secolo, papa Alessandro VII affidò a Gian Lorenzo Bernini la costruzione di una cappella palatina per i dipendenti delle Ville Pontificie. Il progetto, concepito inizialmente in onore di san Nicola di Bari, fu dedicato infine a san Tommaso da Villanova, agostiniano canonizzato nel 1658. La chiesa fu consacrata nel 1661 e affidata agli Agostiniani, che la ressero fino al 1929. Con la firma dei Patti Lateranensi, papa Pio XI affidò agli stessi Agostiniani la cura pastorale della nuova Pontificia Parrocchia di Sant’Anna in Vaticano, mentre la chiesa di San Tommaso da Villanova venne successivamente affidata ai Salesiani.

La bellezza architettonica di questa chiesa, frutto del genio barocco, è al servizio della fede e dell’incontro tra Dio e l’uomo: vi si celebrano oggi numerosi matrimoni, battesimi e liturgie, richiamando fedeli da ogni parte del mondo.

La casa salesiana
I Salesiani sono presenti a Castel Gandolfo dal 1929. In quegli anni il borgo conobbe un notevole sviluppo, sia demografico che turistico, ulteriormente anche grazie all’inizio delle celebrazioni papali nella chiesa di San Tommaso da Villanova. Ogni anno, nella solennità dell’Assunta, il papa celebrava la Santa Messa nella parrocchia pontificia, una tradizione iniziata da san Giovanni XXIII il 15 agosto 1959, quando uscì a piedi dal Palazzo Pontificio per celebrare l’Eucaristia tra la gente. Questa consuetudine si è mantenuta fino al pontificato di papa Francesco, che ha interrotto i soggiorni estivi a Castel Gandolfo. Nel 2016, infatti, l’intero complesso delle Ville Pontificie è stato trasformato in museo e aperto al pubblico.

La casa salesiana ha fatto parte dell’Ispettoria Romana e, dal 2009 al 2021, della Circoscrizione Salesiana Italia Centrale. Dal 2021 è passata sotto la diretta responsabilità della Sede Centrale, con direttore e comunità nominati dal Rettor Maggiore. Attualmente i salesiani presenti provengono da diverse nazioni (Brasile, India, Italia, Polonia) e sono attivi nella parrocchia, nelle cappellanie e nell’oratorio.

Gli spazi pastorali, pur appartenendo allo Stato della Città del Vaticano e quindi considerati zone extraterritoriali, fanno parte della diocesi di Albano, alla cui vita pastorale i Salesiani partecipano attivamente. Sono coinvolti nella catechesi diocesana per adulti, nell’insegnamento presso la scuola teologica diocesana, e nel Consiglio Presbiterale come rappresentanti della vita consacrata.

Oltre alla parrocchia di San Tommaso da Villanova, i Salesiani gestiscono anche due altre chiese: Maria Ausiliatrice (detta anche “San Paolo”, dal nome del quartiere) e Madonna del Lago, voluta da san Paolo VI. Entrambe furono costruite tra gli anni Sessanta e Settanta per rispondere alle esigenze pastorali della crescente popolazione.

La chiesa parrocchiale progettata da Bernini è oggi meta di numerosi matrimoni e battesimi celebrati da fedeli provenienti da tutto il mondo. Ogni anno, con le dovute autorizzazioni, vi si tengono decine, talvolta centinaia, di celebrazioni.

Il parroco, oltre a guidare la comunità parrocchiale, è anche cappellano delle Ville Pontificie e accompagna spiritualmente i dipendenti vaticani che vi lavorano.

L’oratorio, attualmente gestito da laici, vede il coinvolgimento diretto dei Salesiani, specialmente nella catechesi. In occasione di fine settimana, feste e attività estive come l’Estate Ragazzi, vi collaborano anche studenti salesiani residenti a Roma, offrendo un prezioso supporto. Presso la chiesa di Maria Ausiliatrice esiste anche un teatro attivo, con gruppi parrocchiali che organizzano spettacoli, luogo di incontro, cultura e evangelizzazione.

Vita pastorale e tradizioni
La vita pastorale è scandita dalle principali feste dell’anno: san Giovanni Bosco a gennaio, Maria Ausiliatrice a maggio con una processione nel quartiere di San Paolo, la festa della Madonna del Lago – e quindi la festa del Lago – l’ultimo sabato di agosto, con la statua portata in processione su una barca sul lago. Quest’ultima celebrazione sta coinvolgendo sempre più anche le comunità dei dintorni, attirando numerosi partecipanti, tra cui molti motociclisti, con cui sono stati avviati momenti di incontro.

Il primo sabato di settembre si celebra la festa patronale di Castel Gandolfo in onore di san Sebastiano, con una grande processione cittadina. La devozione a san Sebastiano risale al 1867, quando la città fu risparmiata da un’epidemia che colpì duramente i paesi vicini. Sebbene la memoria liturgica cada il 20 gennaio, la festa locale viene celebrata a settembre, sia in ricordo della protezione ottenuta che per ragioni climatiche e pratiche.

L’8 settembre si celebra il patrono della chiesa, san Tommaso da Villanova, in coincidenza con la Natività della Beata Vergine Maria. In questa occasione si tiene anche la festa delle famiglie, rivolta alle coppie che si sono sposate nella chiesa di Bernini: sono invitate a tornare per una celebrazione comunitaria, una processione e un momento conviviale. L’iniziativa ha avuto ottimi riscontri e si sta consolidando nel tempo.

Una curiosità: la buca delle lettere
Accanto all’ingresso della casa salesiana si trova una casella postale, nota come “Buca delle corrispondenze”, considerata la più antica ancora in uso. Risale infatti al 1820, vent’anni prima dell’introduzione del primo francobollo al mondo, il famoso Penny Black (1840). È una cassetta ufficiale delle Poste Italiane tuttora attiva, ma anche un simbolo eloquente: un invito alla comunicazione, al dialogo, all’apertura del cuore. Il ritorno del papa Leone XIV alla sua sede estiva, sicuramente lo aumenterà.

Castel Gandolfo resta un luogo dove il Creatore parla attraverso la bellezza del creato, la Parola proclamata e la testimonianza di una comunità salesiana che, nella semplicità dello stile di Don Bosco, continua a offrire accoglienza, formazione, liturgia e fraternità, ricordando a coloro che si avvicinano a queste terre in cerca di pace e serenità che la vera pace e serenità si trova solo in Dio e nella sua grazia.




Giuseppe Augusto Arribat: un Giusto tra le Nazioni

1. Profilo biografico
            Il venerabile Giuseppe Augusto Arribat nacque il 17 dicembre 1879 a Trédou (Rouergue – Francia). La povertà della famiglia costrinse il giovane Augusto ad iniziare la scuola media presso l’oratorio salesiano di Marsiglia solamente all’età di 18 anni. Per la situazione politica di inizio secolo, egli cominciò la vita salesiana in Italia e ricevette la veste talare dalle mani del beato Michele Rua. Tornato in Francia cominciò, come tutti i suoi confratelli, la vita salesiana in una condizione di semi clandestinità, prima a Marsiglia e poi a La Navarre, fondata da Don Bosco nel 1878.
            Ordinato sacerdote nel 1912, venne chiamato alle armi durante la Prima guerra mondiale e fece l’infermiere barelliere. Terminata la guerra don Arribat continuò a lavorare intensamente a La Navarre fino al 1926, dopo di che andò a Nizza dove stette fino al 1931. Ritornò a La Navarre come direttore e contemporaneamente incaricato della parrocchia Sant`Isidoro nella valle di Sauvebonne. I suoi parrocchiani lo chiameranno “Il santo della valle”.
            Al termine del terzo anno fu mandato a Morges, nel cantone di Vaud, in Svizzera. Ricevette poi tre mandati successivi di sei anni ciascuno, prima a Millau, poi a Villemur e infine a Thonon nella diocesi di Annecy. Il periodo più carico di pericoli e di grazie fu probabilmente quello del suo incarico a Villemur durante la Seconda guerra mondiale. Tornato a La Navarre nel 1953, don Arribat vi resterà sino alla sua morte avvenuta il 19 marzo 1963.

2. Profondamente uomo di Dio
            Uomo del dovere quotidiano, nulla per lui era secondario, e tutti sapevano che si alzava per primo molto presto per pulire i bagni degli allievi e il cortile. Fatto direttore della casa salesiana, e volendo fare il suo dovere fino alla fine e alla perfezione, per rispetto e amore agli altri, spesso finiva le sue giornate molto tardi, abbreviando le sue ore di riposo. D’altra parte, era sempre disponibile, accogliente verso tutti, sapendo adattarsi a tutti, sia ai benefattori e grandi proprietari terrieri, sia ai servitori di casa, mantenendo una preoccupazione permanente per i novizi e i confratelli, e soprattutto per i giovani a lui affidati.
            Questo dono totale di sé si manifestò fino all’eroismo. Durante la Seconda guerra mondiale egli non esitò a ospitare famiglie e giovani ebrei, esponendosi al grave rischio di un’indiscrezione o di una denuncia. Trentatré anni dopo la sua morte, coloro che erano stati testimoni diretti del suo eroismo, fecero riconoscere il valore del suo coraggio e del sacrificio della sua vita. Il suo nome è iscritto a Gerusalemme, dove è stato ufficialmente riconosciuto come un «Giusto tra le Nazioni».
            Fu riconosciuto da tutti come un vero uomo di Dio, che faceva «tutto per amore, e nulla per forza», come diceva san Francesco di Sales. Ecco il segreto di un’irradiazione, di cui forse lui stesso non intuiva tutta la portata.
            Tutti i testimoni hanno rilevato la fede viva di questo servo di Dio, uomo di preghiera, senza ostentazione. La sua fede era la fede irradiante di un uomo sempre unito a Dio, un vero uomo di Dio, e in particolare un uomo dell’Eucaristia.
            Nel celebrare la Messa o quando pregava, emanava dalla sua persona una sorta di fervore che non poteva passare inosservato. Un confratello ha dichiarato che: «vedendolo tracciare su di sé il suo gran segno della croce, ognuno sentiva un opportuno richiamo alla presenza di Dio. Il suo raccoglimento all’altare era impressionante». Un altro salesiano ricorda che «s’imponeva di fare alla perfezione le sue genuflessioni con un coraggio, un’espressione di adorazione che mi portavano alla devozione». Lo stesso aggiunge: «Egli ha rafforzato la mia fede».
            La sua visione di fede traspariva in confessionale e nelle conversazioni spirituali. Egli comunicava la sua fede. Uomo della speranza, contava in ogni momento su Dio e la sua Provvidenza, mantenendo la calma nella tempesta e diffondendo ovunque un senso di pace.
            Questa profonda fede si è ulteriormente perfezionata in lui durante gli ultimi dieci anni della sua vita. Non aveva più alcuna responsabilità e non poteva più leggere facilmente. Viveva soltanto dell’essenziale e lo testimoniava con semplicità accogliendo tutti quelli che sapevano bene che la sua semicecità non gli impediva di vedere chiaro nei loro cuori. In fondo alla cappella, il suo confessionale era un luogo assediato dai giovani e dai vicini della valle.

3. «Non sono venuto per essere servito…»
            L’immagine che i testimoni hanno conservato di don Augusto è quella del servitore del Vangelo, ma nel senso più umile. Spazzare il cortile, pulire i bagni degli allievi, lavare i piatti, curare e vegliare i malati, vangare il giardino, rastrellare il parco, decorare la cappella, allacciare le scarpe dei piccoli, pettinare i loro capelli, niente gli ripugnava ed era impossibile distoglierlo da questi umili esercizi di carità. Il “buon padre” Arribat, è stato più generoso con le azioni concrete che con le parole: dava volentieri la sua stanza al visitatore occasionale, che rischiava di essere alloggiato meno comodamente di lui. La sua disponibilità era permanente, di ogni momento. La sua preoccupazione per la pulizia e la dignitosa povertà non lo lasciavano in pace, perché la casa doveva essere accogliente. Come uomo dal contatto facile, approfittava delle sue lunghe marce per salutare tutti e avviare un dialogo, anche con i “mangia preti”.
            Don Arribat è vissuto oltre trent’anni alla Navarre, nella casa che Don Bosco stesso volle mettere sotto la protezione di san Giuseppe, capo e servitore della Sacra Famiglia, modello di fede nel nascondimento e nella discrezione. Nella sua sollecitudine per i bisogni materiali della casa e attraverso la sua vicinanza a tutte le persone dedite ai lavori manuali, contadini, giardinieri, operai, impiegati, uomini tuttofare, persone di cucina o di lavanderia, questo sacerdote faceva pensare a san Giuseppe, di cui portava anche il nome. E poi non è forse morto il 19 marzo, festa di san Giuseppe?

4. Un autentico educatore salesiano
            «La Provvidenza mi ha assegnato in modo speciale la cura dell’infanzia», ha detto per riassumere la sua specifica vocazione di salesiano, discepolo di Don Bosco, al servizio dei giovani, specialmente dei più bisognosi.
            Don Arribat non aveva esteriormente nessuna delle qualità particolari che s’impongono facilmente alla gioventù. Non era un grande sportivo, né un brillante intellettuale, né un parlatore che trascina le folle, né un musicista, né un uomo di teatro o di cinema, niente di tutto questo! Come spiegare l’influenza che esercitò sui giovani? Il suo segreto non è altro che quello che aveva imparato da Don Bosco, che conquistò il suo piccolo mondo con tre cose ritenute fondamentali nell’educazione della gioventù: la ragione, la religione e l’amorevolezza. Come il “padre e maestro della gioventù” egli ha saputo parlare con i giovani il linguaggio della ragione, per motivare, spiegare, persuadere, convincere i suoi allievi, evitando i moti della passione e dell’ira. Ha messo al centro della sua vita e della sua azione la religione, non nel senso dell’imposizione forzata, ma della testimonianza luminosa del suo rapporto con Dio, con Gesù e con Maria. Quanto all’amorevolezza, con la quale si guadagna il cuore dei giovani, vale la pena richiamare alla memoria a proposito del servo di Dio ciò che diceva san Francesco di Sales: «Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con un barile di aceto».
            Particolarmente autorevole la testimonianza di don Pietro Ricaldone, futuro successore di Don Bosco, che scriveva dopo la sua visita canonica del 1923-1924: «Don Arribat Augusto è catechista, confessore e legge i voti di condotta! Si tratta di un santo confratello. Solo la sua bontà può rendere meno incompatibili tra di loro le sue diverse mansioni». Poi ripete l’elogio: «È un ottimo confratello, non troppa salute. Per le sue belle maniere gode della confidenza dei giovani più grandi che vanno quasi tutti da lui».
            Una cosa che colpiva era il rispetto quasi cerimonioso che manifestava verso tutti, ma soprattutto per i fanciulli. A un ometto di otto anni dava del “voi” chiamandolo “Monsieur”. Una signora ha testimoniato: «Lui rispettava talmente l’altro che l’altro era quasi costretto a innalzarsi alla dignità che gli era testimoniata in quanto figlio di Dio, e tutto ciò senza nemmeno parlare di religione».
            Viso aperto e sorridente, questo figlio di san Francesco di Sales e di Don Bosco non dava fastidio a nessuno. Se la magrezza della persona e l’ascetismo richiamavano il santo curato d’Ars e don Rua, il suo sorriso e la sua dolcezza erano di marca tipicamente salesiana. Come dichiara un testimone: «Era l’uomo più naturale del mondo, pieno di umorismo, spontaneo nelle sue reazioni, giovane di cuore».
            Le sue parole, che non erano quelle di un grande oratore, risultavano efficaci perché promanavano dalla semplicità e dal fervore della sua anima.
            Uno dei suoi exallievi testimoniò: «Nelle nostre teste di bambini, nelle nostre conversazioni infantili, dopo aver sentito le storie della vita di Giovanni Maria Vianney, ci rappresentavamo don Arribat come se fosse il Santo curato d’Ars per noi. Le ore di catechismo, presentato in linguaggio semplice ma vero, erano seguite con grande attenzione. Durante la Messa, le panche sul retro della cappella erano sempre piene. Avevamo l’impressione di incontrare Dio nella sua bontà e ciò ha segnato la nostra gioventù».

5. Don Arribat ecologista?
            Ecco un tratto originale per completare il quadro di questa figura che sembra del tutto ordinaria. È stato ritenuto quasi come un ecologista prima che questo termine fosse molto diffuso. Piccolo contadino, aveva imparato ad amare e rispettare profondamente la natura. Le sue composizioni giovanili sono piene di freschezza e di osservazioni molto fini, con un tocco di poesia. Ha condiviso spontaneamente il lavorare di questo mondo rurale, dove ha vissuto gran parte della sua lunga esistenza.
            A proposito del suo amore per gli animali, quante volte venne visto «il buon padre, con una scatola sotto il braccio, piena di briciole di pane, facendo faticosamente a piccoli passi molto dolorosi il percorso dal refettorio fino alle sue colombe». Fatto incredibile per chi non ha visto, narra la persona che ha assistito alla scena, le colombe appena lo vedevano si sono fatte avanti verso la grata come per accoglierlo. Lui ha aperto la gabbia e subito sono venute da lui, alcune si sono poste sulle sue spalle. «Egli parlava loro con espressioni che non posso ricordare, era come se le conoscesse tutte». Quando un ragazzino gli portava un passerotto che aveva preso dal nido, gli diceva: «Tu devi rendergli la libertà». Si racconta anche la storia di un cane lupo abbastanza feroce, che solo lui fu in grado di ammansire, e che venne a coricarsi accanto alla sua bara dopo la sua morte.
            Il rapido profilo spirituale di don Augusto Arribat ci ha riproposto alcuni lineamenti spirituali del volto di santi cui si sentiva vicino: l’amorevolezza di Don Bosco, l’ascesi di don Rua, la dolcezza di san Francesco di Sales, la pietà sacerdotale del santo curato d’Ars, l’amore della natura di san Francesco d’Assisi e il lavoro costante e fedele di san Giuseppe.




Il saggio

All’imperatore Ciro il Grande piaceva moltissimo conversare amabilmente con un amico molto saggio di nome Akkad.
Un giorno, appena tornato stanchissimo da una campagna di guerra contro i Medi, Ciro si fermò dal suo vecchio amico per passare qualche giorno con lui.
«Sono spossato, caro Akkad. Tutte queste battaglie mi stanno consumando. Come vorrei fermarmi a passare il tempo con te, chiacchierando sulle rive dell’Eufrate…».
«Ma, caro sire, ormai hai sconfitto i Medi, che cosa farai?».
«Voglio impadronirmi di Babilonia e sottometterla».
«E dopo Babilonia?».
«Sottometterò la Grecia».
«E dopo la Grecia?».
«Conquisterò Roma».
«E dopo?».
«Mi fermerò. Tornerò qui e passeremo giorni felici a conversare amabilmente sulle rive dell’Eufrate…».
«E perché, sire, amico mio, non incominciamo subito?».

Ci sarà sempre un altro giorno per dire «Ti voglio bene».
Ricordati dei tuoi cari oggi, e sussurra loro nell’orecchio, di’ loro quanto li ami. Prenditi il tempo per dire «Mi dispiace», «Ti prego ascoltami», «Grazie».
Domani non ti pentirai di quello che hai fatto oggi.