Strenna 2025. Ancorati alla speranza, pellegrini con i giovani

INTRODUZIONE. ANCORATI ALLA SPERANZA, PELLEGRINI CON I GIOVANI
1. INCONTRO A CRISTO NOSTRA SPERANZA PER RINNOVARE IL SOGNO DI DON BOSCO
1.1 Il Giubileo
1.2 L’anniversario della prima spedizione missionaria salesiana
2. IL GIUBILEO: CRISTO NOSTRA SPERANZA
2.1 Pellegrini, ancorati alla speranza cristiana
2.2 Speranza come cammino verso Cristo, cammino verso la vita eterna
2.3 Caratteristiche della speranza
2.3.1 La speranza, tensione continua, pronta, visionaria e profetica
2.3.2 La speranza è scommessa sul futuro
2.3.3 La speranza non è un fatto privato
3. LA SPERANZA COME FONDAMENTO DELLA MISSIONE
3.1 La speranza è un invito alla responsabilità
3.2 La speranza domanda coraggio alla comunità cristiana nell’evangelizzazione.
3.3 «Da mihi animas»: lo “spirito” della missione
3.3.1 Gli atteggiamenti dell’inviato
3.3.2 Riconoscere, Ripensare e Rilanciare
4. UNA SPERANZA GIUBILARE E MISSIONARIA CHE SI TRADUCE IN VITA CONCRETA E QUOTIDIANA
4.1 La speranza forza nel quotidiano che esige testimonianza
4.2 La speranza è arte della pazienza
5. L’ORIGINE DELLA NOSTRA SPERANZA: DA DIO A DON BOSCO
5.1 Dio è l’origine della nostra speranza
5.1.1 Breve richiamo al sogno
5.1.2 Don Bosco “gigante” della speranza
5.1.3 Caratteristiche della speranza in Don Bosco
5.1.4 I “frutti” della speranza in Don Bosco
5.2 La fedeltà di Dio: fino alla fine
6. CON… MARIA, SPERANZA E PRESENZA MATERNA

INTRODUZIONE. ANCORATI ALLA SPERANZA, PELLEGRINI CON I GIOVANI

Carissime sorelle e fratelli appartenenti ai diversi gruppi della Famiglia Salesiana di don Bosco, vi giunga il saluto più cordiale all’inizio di questo nuovo anno 2025!

Non è senza emozione che mi rivolgo a tutti e a ciascuno in questo tempo di grazia segnato da due importanti avvenimenti per la vita della Chiesa e per quella della nostra Famiglia: il Giubileo dell’anno 2025, iniziato solennemente il 24 dicembre scorso con l’apertura della porta santa della Basilica di San Pietro in Vaticano, e la ricorrenza del 150° anniversario della prima spedizione missionaria voluta dal nostro padre don Bosco, partita l’11 novembre 1875 alla volta dell’Argentina e di altri paesi del continente americano.

Si tratta di due importanti eventi che trovano nella speranza il loro punto di incontro. Infatti, papa Francesco ha indicato esattamente questa virtù come prospettiva nell’indire il Giubileo; allo stesso modo l’esperienza missionaria è foriera di speranza per tutti: per coloro che sono partiti (e partono) e per coloro che sono stati raggiunti dai missionari.

L’anno che ci è donato si presenta, dunque, ricco di spunti per la nostra crescita concreta e quotidiana, affinché la nostra umanità diventi feconda nell’attenzione agli altri… Questo avverrà solo nei cuori che mettono Dio al centro, al punto tale da poter affermare: «Prima di me ho messo te».

In questo mio commento cercherò di mettere in evidenza questi elementi, per approfondire, in chiave carismatica, quanto la Chiesa è invitata a vivere lungo questo anno, e porre l’accento su ciò che per noi, Famiglia di don Bosco, deve guidarci verso nuovi orizzonti.

1. INCONTRO A CRISTO NOSTRA SPERANZA PER RINNOVARE IL SOGNO DI DON BOSCO

Il titolo della Strenna comporta l’intreccio di due eventi: il giubileo ordinario dell’anno 2025 e il 150° anniversario della prima spedizione missionaria inviata da don Bosco in Argentina.

La concomitanza, che oso definire “provvidenziale”, dei due eventi rende il 2025 un anno decisamente straordinario per tutti noi e per i Salesiani di Don Bosco ancora di più. Infatti, nei mesi di febbraio, marzo e aprile ci sarà la celebrazione del Capitolo Generale 29° che porterà, tra le altre cose, all’elezione del nuovo Rettor Maggiore e del nuovo Consiglio generale.

Eventi globali e particolari, quindi, che ci coinvolgono a diverso titolo e che vogliamo vivere con profondità e intensità. Perché è proprio grazie a questi eventi che possiamo sperimentare la gioia di andare incontro a Cristo e l’importanza di rimanere ancorati alla speranza.

1.1 Il Giubileo

«Spes non confundit! La speranza non delude!»[1].

Così papa Francesco ci presenta il Giubileo. Che meraviglia! Che indicazione “profetica”!

Il Giubileo un pellegrinaggio per rimettere al centro della nostra vita e della vita del mondo Gesù Cristo. Perché lui è la nostra speranza. Lui è la Speranza della Chiesa e del mondo intero!

Siamo tutti consapevoli che oggi il mondo ha bisogno di quella speranza che ci mette in relazione con Gesù Cristo e con gli altri fratelli e sorelle. Serve quella speranza che ci rende pellegrini, che ci mette in movimento e che ci fa camminare.

Parliamo della speranza come riscoperta della presenza di Dio. Scrive Papa Francesco: «La speranza ricolmi il cuore!»[2], non solo scaldi il cuore, ma lo riempia, lo riempia in una misura traboccante!

1.2 L’anniversario della prima spedizione missionaria salesiana

E di questa speranza traboccante erano pieni i cuori dei partecipanti alla prima spedizione missionaria Salesiana in Argentina 150 anni fa.

Don Bosco da Valdocco getta il cuore oltre ogni confine, mandando i suoi figli dall’altra parte del mondo! Li manda oltre ogni sicurezza umana, li manda per portare avanti ciò che lui aveva cominciato. Si mette in cammino con gli altri, sperando e infondendo speranza. Li manda e basta e i primi (giovani) confratelli partono e vanno. Dove? Nemmeno loro sanno! Ma si affidano alla speranza, obbediscono. Perché è la presenza di Dio che ci guida.

In quell’obbedienza ricca di entusiasmo trova nuova energia anche la nostra attuale speranza e ci spinge a metterci in cammino come pellegrini.

Ecco perché questo anniversario va celebrato: perché ci aiuta a riconoscere un dono (non una conquista personale, ma un dono gratuito, del Signore), ci permette di ricordare e, dal ricordo, di prendere forza per affrontare e costruire il futuro.

Viviamo quindi, oggi, per rendere possibile questo futuro e facciamolo nell’unico modo che riteniamo grande: condividendo con i giovani e con tutte le persone dei nostri ambienti (cominciando dai più poveri e dimenticati) il viaggio per andare incontro a Cristo nostra sola Speranza.

2. IL GIUBILEO: CRISTO NOSTRA SPERANZA

Giubileo è camminare insieme, ancorati in Cristo nostra speranza. Ma cosa vuol dire davvero?

Riprendo gli elementi della Bolla di indizione del Giubileo 2025 che mettono in evidenza alcune caratteristiche della speranza.

2.1 Pellegrini, ancorati alla speranza cristiana

Siamo convinti che niente e nessuno potrà separarci da Cristo[3]. Perché è a lui che vogliamo e dobbiamo rimanere aggrappati, ancorati. Non possiamo camminare senza la nostra ancora.

L’ancora della speranza è, dunque, Cristo stesso, che porta le sofferenze e le ferite dell’umanità sulla croce in presenza del Padre.

L’ancora, infatti, ha la forma della croce, e per questo veniva raffigurata anche nelle catacombe per simboleggiare l’appartenenza dei fedeli defunti a Cristo Salvatore.

Quest’ancora è già saldamente attaccata al porto della salvezza. Il nostro compito è quello di attaccare la nostra vita ad essa, la corda che lega la nostra nave all’àncora di Cristo.

Noi navighiamo sulle onde agitate del mare e abbiamo bisogno di ancorarci a qualcosa di solido. Ma il compito ormai non è più quello di gettare l’àncora e di fissarla al fondo marino. Il compito è quello di attaccare la nostra nave alla corda che, per così dire, pende dal Cielo, là dove l’àncora di Cristo è saldamente fissata. Attaccandoci a questa corda, ci attacchiamo all’àncora della salvezza e rendiamo la nostra speranza certa.

La speranza è certa quando la barca della nostra vita si attacca a quella corda che ci lega all’àncora che è fissata in Cristo crocifisso che sta alla destra del Padre cioè nella comunione eterna del Padre, nell’amore dello Spirito Santo[4].

Tutto è ben espresso nell’orazione liturgica della solennità dell’Ascensione del Signore:

«Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria»[5].

Lo scrittore e politico ceco Vaclay Havel definisce la speranza come uno stato d’animo, una dimensione dell’anima. Non dipende dall’osservazione preventiva del mondo, non si tratta di una previsione.

Byung-Chul Han aggiunge: “La speranza è un orientamento del cuore che trascende il mondo immediato dell’esperienza, è un ancoraggio da qualche parte oltre all’orizzonte.

Le radici della speranza si trovano dentro il trascendente: ecco perché non è la stessa cosa avere Speranza o essere soddisfatto perché le cose vanno bene. Potremmo pensare che sperare sia semplicemente voler sorridere alla vita perché lei a sua volta ti sorrida e invece no, dobbiamo andare più a fondo, dobbiamo percorrere quella corda che ci porta verso l’ancora.

La speranza è la capacità di ognuno di noi di lavorare per qualcosa perché è giusto farlo, non perché quel qualcosa avrà un successo garantito. Potrebbe essere un fallimento, potrebbe andar male: noi non speriamo vada bene, non siamo ottimisti. Lavoriamo perché questo accada. Ecco perché la speranza non è uguale all’ottimismo. La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene ma la certezza che qualcosa ha senso indipendentemente dal suo risultato.

Fare qualcosa perché ha senso: ecco, in questo consiste la speranza che presuppone dei valori e presuppone la fede.

È questo che le dà la forza per vivere, e ci dà la forza per provare qualcosa ancora e ancora, anche nella disperazione[6].”

Ma come si può camminare restando ancorati? L’ancora ti zavorra, ti frena, ti fissa. Dove porta questo cammino? Porta all’eternità.

2.2 Speranza come cammino verso Cristo, cammino verso la vita eterna

La promessa di vita eterna, proprio per come è fatta a ciascuno di noi, non scavalca il cammino della vita, non è un salto in alto, non propone di salire su un razzo che si stacca da terra e vola nello spazio lasciando a terra la strada, la polvere del cammino, né lascia andare la nave alla deriva in mezzo al mare senza di noi.

Questa promessa è appunto un’ancora che si fissa nell’eterno, ma alla quale rimaniamo attaccati da una corda che viene a rendere salda la nave che attraversa il mare. Ed è proprio il fatto che essa è fissata in Cielo che permette alla nave di non rimanere ferma in mezzo al mare, ma di avanzare attraverso i flutti.

Se l’ancora di Cristo fissasse l’uomo al fondo del mare, tutti noi rimarremmo fermi dove siamo, magari tranquilli, senza problemi, ma fermi, senza viaggiare, senza andare avanti. Invece, proprio l’ancoraggio della vita al Cielo fa sì che la promessa che suscita la nostra speranza non arresta il cammino, non dà la sicurezza di un rifugio nel quale rinchiuderci e arrestarci, ma dona a noi una certezza nel camminare e nel continuare il cammino. La promessa di una meta certa, già raggiunta per noi da Cristo, rende saldo e deciso ogni passo nel cammino della vita.

È importante intendere il Giubileo come pellegrinaggio, come invito a mettersi in movimento, ad uscire da sé per andare verso Cristo.

Giubileo, allora, è da sempre sinonimo di cammino. Se desideri veramente Dio ti devi muovere, devi camminare. Perché il desiderio di Dio, la nostalgia di Dio ti muove per trovarLo e, contemporaneamente, conduce a ritrovare te stesso e gli altri.

«Siamo nati e non moriremo mai più»[7].

È bello e significativo il titolo della biografia della serva di Dio Chiara Corbella Petrillo. Sì, perché il nostro venire al mondo è orientato alla vita eterna. La vita eterna è una promessa che sfonda la porta della morte, aprendoci al “faccia a faccia con Dio”, per sempre. La morte è una porta che si chiude e allo stesso tempo un portone che si spalanca all’incontro definitivo con Dio!

Sappiamo quanto vivo in Don Bosco sia stato il desiderio del Cielo, proposto e condiviso gioiosamente con i giovani dell’Oratorio.

2.3 Caratteristiche della speranza

2.3.1 La speranza, tensione continua, pronta, visionaria e profetica

Gabriel Marcel[8], il cosiddetto filosofo della speranza ci insegna che la speranza si trova nel tessuto di un’esperienza continua, sperare significa dare credito ad una realtà in quanto portatrice di futuro.

Eric Fromm[9] scrive che la speranza non è un’attesa passiva, bensì una tensione continua, costante. È come una tigre, accovacciata che salta solo quando è il momento preciso.

Avere speranza è essere vigili in ogni momento, per ogni cosa che ancora non è successa. Speravano le vergini che attendevano lo sposo con le lampade accese, sperava don Bosco di fronte alle difficoltà e si inginocchiava a pregare.

La speranza è pronta nel momento in cui ogni cosa sta in procinto di nascere.

È vigile, attenta, in ascolto, in grado di guidare nel creare qualcosa di nuovo, nel dar vita al futuro in terra.

Per questo è “visionaria e profetica”. Focalizza la nostra attenzione verso ciò che non è ancora, è colei che aiuta a partorire qualcosa di nuovo.

2.3.2 La speranza è scommessa sul futuro

Senza speranza non c’è rivoluzione, né futuro, c’è solo un presente fatto di sterile ottimismo.

Spesso si pensa che chi spera sia un ottimista mentre il pessimista sia essenzialmente il suo opposto. Non è così. È importante non confondere la speranza con l’ottimismo. La speranza è molto più profonda, perché non dipende da umori, sensazioni o sentimentalismi. L’essenza dell’ottimismo è la positività innata. L’ottimista vive convinto che in qualche modo le cose miglioreranno. Per un ottimista il tempo è chiuso, non contempla il futuro: tutto andrà bene e basta.

Paradossalmente anche per il pessimista il tempo è chiuso: si ritrova intrappolato nel presente come in una prigione, nega tutto senza avventurarsi in altri mondi possibili. Il pessimista è testardo quanto l’ottimista, entrambi sono ciechi alle possibilità, perché il possibile gli risulta alieno, manca loro la passione per il possibile.

A differenza di entrambi la speranza scommette su quello che può andare oltre su quello che potrebbe essere.

E ancora, l’ottimista (così come il pessimista), non agisce, perché ogni azione comporta un rischio e dal momento che non vuole correre questo rischio, è fermo, non vuole fare esperienza del fallimento.

La speranza invece si muove per cercare, tenta di trovare una direzione, si dirige verso ciò che non conosce, fa rotta verso cose nuove. Questo è il pellegrinare di un cristiano.

2.3.3 La speranza non è un fatto privato

Tutti noi portiamo nel cuore delle speranze. Non è possibile non sperare, ma è anche vero che ci si può illudere, considerando prospettive e ideali che non si realizzeranno mai, che sono solo delle chimere e specchietti per le allodole.

Molto della nostra cultura, specialmente occidentale, è piena di false speranze che illudono e distruggono o possono rovinare irrimediabilmente l’esistenza di singoli e di intere società.

Secondo il pensiero positivo basta sostituire i pensieri negativi con altri positivi per vivere più felici. Attraverso questo semplice meccanismo gli aspetti negativi della vita vengono omessi completamente e il mondo appare come un mercato di Amazon che ci fornirà qualunque cosa vogliamo grazie al nostro atteggiamento positivo.

Conclusione, se bastasse la nostra volontà di pensare positivamente per essere felice, allora ognuno sarebbe l’unico responsabile della propria felicità.

Paradossalmente, il culto alla positività isola le persone, le rende egoiste e distrugge l’empatia, perché le persone sono sempre più impegnate solo con sé stesse e non si interessano della sofferenza degli altri.

La speranza a differenza del pensiero positivo non evita la negatività della vita, non isola ma unisce e riconcilia, perché il protagonista della Speranza non sono io, focalizzato sul mio ego, trincerato esclusivamente su me stesso, il segreto della Speranza siamo noi.

Per questo, sorelle alla Speranza sono l’Amore, la Fede e la Trascendenza.

3. LA SPERANZA COME FONDAMENTO DELLA MISSIONE

3.1 La speranza è un invito alla responsabilità

La speranza è un dono e, come tale, va trasmesso a chiunque incontriamo lungo la nostra strada.

San Pietro lo afferma chiaramente: «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi»[10]. Ci invita a non aver paura, ad agire nella quotidianità, a rendere ragione – quanto spirito salesiano in questa parola “ragione”! – della speranza. È questa una responsabilità per il cristiano. Se siamo donne e uomini di speranza, si vede!

«Rendere ragione della speranza che è in noi», diventa annuncio della “buona novella” di Gesù e del suo Vangelo.

Ma perché è necessario rispondere a chiunque ci chieda conto della speranza che è in noi? E perché sentiamo il bisogno di ritrovare speranza?

Nella Bolla di indizione del Giubileo Spes non confundit, Papa Francesco ricorda che «tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti»[11].

Un’osservazione che colpisce perché descrive tutta la tristezza che si respira nelle nostre società e nelle nostre comunità. È una tristezza mascherata di falsa gioia, quella che costantemente ci viene annunciata, promessa e assicurata dai media, dalla pubblicità, dalla propaganda dei politici, da tanti falsi profeti del benessere. Accontentarsi del benessere ci impedisce di aprirci a un bene ben più grande, ben più vero, ben più eterno: quello che Gesù e gli apostoli chiamano “la salvezza dell’anima, la salvezza della vita”; un bene per il quale Gesù ci invita a non temere di perdere la vita, i beni materiali, le false sicurezze che spesso crollano in un istante.

Su queste “domande”, più o meno espresse (anche dai giovani), abbiamo il compito di «rendere ragione». Cosa desidero per i giovani e per tutte le persone che incontro sul mio cammino? Cosa vorrei chiedere a Dio per loro? Come vorrei che cambiasse la loro vita?

Esiste solo una risposta: la vita eterna. Non solo la vita eterna come uno stato sublime che possiamo raggiungere dopo la morte, ma la vita eterna possibile qui e ora, la vita eterna come la definisce Gesù̀: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo»[12], cioè una vita definita, illuminata dalla comunione con Cristo e, tramite Lui, con il Padre.

E a noi spetta il compito di accompagnare le generazioni più giovani in questo cammino verso la vita eterna, nell’azione educativa che ci contraddistingue. Un’azione che per noi Famiglia Salesiana è una missione. E cosa muove questa nostra missione? Sempre Cristo, nostra speranza.

La missione educativa, infatti, ha al centro la speranza.

In definitiva, la speranza di Dio non è mai speranza solo per sé. È sempre speranza per altri: non ci isola, ci rende solidali e ci stimola a educarci reciprocamente alla verità e all’amore.

3.2 La speranza domanda coraggio alla comunità cristiana nell’evangelizzazione.

Coraggio e speranza sono un abbinamento interessante. Infatti, se è vero che è impossibile non sperare, è altrettanto vero che per sperare è necessario il coraggio. Il coraggio nasce dall’avere lo stesso sguardo di Cristo, capace di sperare contro ogni speranza[13], di vedere soluzione anche là dove apparentemente sembrano non esserci vie d’uscita. E quanto è “salesiano” questo atteggiamento!

Tutto ciò richiede il coraggio di esser se stessi, di riconoscere la propria identità nel dono di Dio e investire le proprie energie in una responsabilità precisa. Consapevoli del fatto che, ciò che ci è stato affidato, non è nostro, e che abbiamo il compito di trasmetterlo alle prossime generazioni. Questo è il cuore di Dio questa è la vita della Chiesa.

Un atteggiamento che ritroviamo nella prima spedizione missionaria.

Ritengo molto utile il riferimento all’art. 34 delle Costituzioni dei Salesiani di Don Bosco: esso mette in evidenza ciò che sta al cuore del nostro movimento carismatico e apostolico. Suggerisco a ciascuno dei gruppi della nostra articolata e bella Famiglia di riprendere gli stessi elementi che qui offro, rileggendo le rispettive Costituzioni e Statuti.

L’articolo ha come titolo: Evangelizzazione e catechesi e recita così:

«“Questa società nel suo principio era un semplice catechismo”. Anche per noi l’evangelizzazione e la catechesi sono la dimensione fondamentale della nostra missione.

Come don Bosco, siamo chiamati tutti e in ogni occasione a esser educatori alla fede. La nostra scienza più eminente è quindi conoscere Gesù Cristo e la gioia più profonda è rivelare a tutti le insondabili ricchezze del suo mistero.

Camminiamo con i giovani per condurli alla persona del Signore risorto, affinché, scoprendo in Lui e nel suo Vangelo il senso supremo della propria esistenza, crescano come uomini nuovi.

La Vergine Maria è una presenza materna in questo cammino. La facciamo conoscere e amare come Colei che ha creduto, aiuta ed infonde speranza».

Questo articolo rappresenta il cuore pulsante che delinea bene, anche per questa Strenna, quali siano le energie e le opportunità come compimento e attualizzazione del “sogno globale” che Dio ha ispirato a Don Bosco.

Se vivere il Giubileo è anzitutto fare in modo che Gesù sia e torni ad essere al primo posto, lo spirito missionario è la conseguenza di questo riconosciuto primato, che, rafforza la nostra speranza e si traduce in quella carità educativa e pastorale che fa annunciare a tutti la persona di Gesù Cristo. Questo è il cuore dell’evangelizzazione e caratterizza l’autentica missione.

È significativo richiamare l’inizio della prima enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est:

«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»[14].

Quindi, prioritario e fondamentale è l’incontro con Cristo, non la “semplice” diffusione di una dottrina, ma una profonda esperienza personale di Dio che spinge a comunicarLo, a farLo conoscere e sperimentare diventando veri “mistagoghi” della vita dei giovani.

3.3 «Da mihi animas»: lo “spirito” della missione

Don Bosco teneva sempre davanti agli occhi una frase che i giovani potevano leggere passando davanti alla sua camera, un’espressione che colpì particolarmente Domenico Savio: «Da mihi animas cetera tolle».

C’è un fondamentale equilibrio che unisce, in questo motto, le due priorità che hanno guidato la vita di don Bosco – e che significativamente chiamiamo “grazia di unità” – che ci consentono di salvaguardare sempre l’interiorità e l’azione apostolica.

Se nel cuore mancasse l’amore di Dio come potrà esserci vera carità pastorale? E allo stesso tempo, se l’apostolo non scoprisse il volto di Dio nel prossimo, come si potrebbe dire che ama Dio?

Il segreto di don Bosco è quello di aver vissuto personalmente l’unico «movimento di carità verso Dio e verso i fratelli»[15] che caratterizza lo spirito salesiano.

3.3.1 Gli atteggiamenti dell’inviato

Due i sogni-chiave della vita di Don Bosco, nei quali sono evidenti gli atteggiamenti dell’apostolo, di colui che è inviato:

  • il “sogno dei nove anni” nel quale a Giovannino Gesù e Maria chiedono di rendersi umile, forte e robusto con l’obbedienza e la scienza, raccomandandogli sempre la bontà per conquistare il cuore dei giovani e tenendo sempre Maria come maestra e guida;
  • il “sogno del pergolato di rose” che indica la “passione” nella vita salesiana che richiede di avere le “buone scarpe” della mortificazione e della carità.

3.3.2 Riconoscere, Ripensare e Rilanciare

Celebrare il 150° anniversario della prima spedizione missionaria di don Bosco rappresenta un grande dono per

  • Riconoscere e ringraziare Dio.

La riconoscenza rende palese la paternità di ogni bella realizzazione. Senza riconoscenza non c’è capacità di accogliere. Tutte le volte che nella nostra vita personale ed istituzionale non riconosciamo un dono, rischiamo seriamente di vanificarlo e di “impadronircene.

  • Ripensare, perché “nulla è per sempre”.

La fedeltà comporta la capacità, di cambiare nell’obbedienza, verso una visione che viene da Dio e dalla lettura dei “segni dei tempi”. Nulla è per sempre: dal punto di vista personale e istituzionale la vera fedeltà è la capacità di cambiare, riconoscendo in cosa il Signore chiama ciascuno di noi.

Ripensare, allora, diventa un atto generativo, in cui si uniscono fede e vita; un momento nel quale chiedersi: cosa vuoi dirci Signore con questa persona, con questa situazione alla luce dei segni dei tempi che, per esser letti, chiedono di avere il cuore stesso di Dio?

  • Rilanciare, ricominciare ogni giorno.

La riconoscenza porta a guardare lontano e ad accogliere le nuove sfide, rilanciando la missione con speranza. Missione è portare la speranza di Cristo con la consapevolezza lucida e chiara, legata alla fede, che fa riconoscere che quanto vedo e vivo “non è roba mia”.

4. UNA SPERANZA GIUBILARE E MISSIONARIA CHE SI TRADUCE IN VITA CONCRETA E QUOTIDIANA

4.1 La speranza forza nel quotidiano che esige testimonianza

San Tommaso D’Aquino scrive: «Spes introducit ad caritatem»[16], la speranza prepara e predispone alla carità la nostra vita, la nostra umanità. Una carità che è anche giustizia, azione sociale.

La speranza ha bisogno della testimonianza. Siamo al cuore della missione, perché la missione non è fare cose, prima di tutto, ma è testimonianza di colui che ha vissuto un’esperienza e la racconta. Il testimone è portatore di una memoria, sollecita domande a chi lo incontra, porta stupore.

La testimonianza della speranza richiede una comunità, è opera di un soggetto collettivo ed è contagiosa, come è contagiosa la nostra umanità, perché la testimonianza è legame con il Signore.

La speranza nella testimonianza della missione è da costruire di generazione in generazione, tra adulti e giovani: questa è via di futuro. Nella nostra cultura il consumismo mangia il futuro, l’ideologia del consumo spegne tutto nel “qui ed ora”, nel “tutto e subito”. Il futuro però non puoi consumarlo, non puoi appropriarti di quanto è altro da te, non puoi appropriarti dell’altro[17].

Nella costruzione del futuro la speranza è la capacità di promettere e di mantenere le promesse… cosa splendida e rara nel nostro mondo. Promettere è sperare, mettere in movimento, per questo – come detto – la speranza è cammino, è l’energia stessa del cammino.

4.2 La speranza è arte della pazienza

Ogni vita, ogni dono, ogni cosa, per crescere, ha bisogno di tempo. Così anche i doni di Dio, richiedono tempo per maturare. Ecco perché nella nostra epoca in cui, tutto e subito, nel nostro “consumare” il tempo e la vita, ci è chiesto di dare fiato e forza alla virtù della pazienza: perché la speranza si realizza nella pazienza[18]. Speranza e pazienza, infatti, sono intimamente collegate.

La speranza comporta la capacità di saper aspettare, di attendere la crescita, quasi a dire che “una virtù tira l’altra”!

Affinché la speranza divenga realtà, si manifesti in senso compiuto, occorre pazienza. Nulla si manifesta in modo miracolistico, perché tutto è sottomesso alla legge del tempo. La pazienza è l’arte del contadino che semina e sa aspettare che il seme gettato cresca e porti frutto.

La speranza inizia in noi come attesa, e si esercita come attesa vissuta coscientemente nella nostra umanità. L’attesa è una dimensione molto importante dell’esperienza umana. L’uomo sa attendere, l’uomo è sempre in una dimensione di attesa, perché è la creatura che vive nel tempo in modo cosciente.

L’attesa umana è la vera misura del tempo, una misura che non è numerica, non è cronologica. Noi ci siamo abituati a calcolare l’attesa, a dire che abbiamo aspettato un’ora, che il treno è in ritardo di cinque minuti, che Internet ci ha fatto attendere quattordici interminabili secondi prima di rispondere al nostro clic, ma quando la misuriamo così, snaturiamo l’attesa, ne facciamo una cosa, un fenomeno staccato da noi stessi e da ciò che attendiamo. È come se l’attesa fosse qualcosa a sé, in sé, senza relazione. Invece l’attesa – siamo al punto cruciale – è relazione, è una dimensione del mistero della relazione.

Solo chi ha speranza, ha pazienza. Solo chi ha speranza diventa capace di “sopportare”, di “sostenere dal basso” le differenti situazioni che l’esistenza presenta. Chi sopporta attende, spera, e riesce a sopportare tutto, perché la sua fatica ha il senso dell’attesa, ha la tensione dell’attesa, l’energia amante dell’attesa.

Sappiamo che il richiamo alla pazienza e all’attesa comportano, a volte, l’esperienza della fatica, del lavoro, del dolore e della morte[19]. Ebbene, fatica, dolore e morte smascherano l’illusione di possedere il tempo, il senso del tempo, il valore del tempo, il senso e il valore della nostra vita. Sono esperienze negative, ma anche positive, perché la fatica, il dolore e la morte possono essere occasioni per ritrovare il vero senso del tempo della vita.

E, ancora una volta, «rendere ragione della speranza che è in noi», diventando annuncio della “buona novella” di Gesù e del suo Vangelo.

5. L’ORIGINE DELLA NOSTRA SPERANZA: DA DIO A DON BOSCO

Don Egidio Viganò ha offerto alla Congregazione e alla Famiglia Salesiana un’interessante riflessione sul tema della speranza, attingendo alla nostra ricchissima tradizione ed evidenziando alcuni caratteri specifici dello spirito salesiano letti alla luce di questa virtù teologale. In modo particolare fece questo, commentando, per le partecipanti al Capitolo Generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, il sogno dei dieci diamanti di don Bosco[20].

Vista la profondità dei contenuti proposti, mi pare utile ricordare il contributo del VII Successore di don Bosco per richiamare alla nostra memoria ciò che, sempre nella prospettiva della speranza, siamo tutti chiamati a vivere.

5.1 Dio è l’origine della nostra speranza

5.1.1 Breve richiamo al sogno

È a tutti nota la narrazione di questo straordinario sogno che don Bosco ebbe a San Benigno Canavese la notte tra il 10 e l’11 settembre 1881. Ne richiamo sinteticamente la struttura.[21]

Il Sogno si svolge in tre scene. Nella prima il Personaggio incarna il profilo del salesiano: nel lato anteriore del suo manto presenta cinque diamanti, tre sul petto, che sono «Fede» «Speranza» e «Carità», e due sulle spalle, che sono «Lavoro» e «Temperanza»; nel lato posteriore presenta altri cinque diamanti, che indicano «Obbedienza» «Voto di Povertà» «Premio» «Voto di Castità» «Digiuno».

Don Rinaldi definisce questo Personaggio coi dieci diamanti: «Il modello del vero Salesiano».

Nella seconda scena il Personaggio mostra l’adulterazione del modello: il suo manto «era divenuto scolorato, tarlato e sdruscito. Nel sito dove stavano fissi i diamanti eravi invece un profondo guasto cagionato dal tarlo e da altri piccoli insetti».

Questa scena tanto triste e deprimente mostra «il rovescio del vero salesiano», l’antisalesiano.

Nella terza scena appare «un avvenente giovanetto vestito di abito bianco lavorato con fili d’oro e d’argento [… dall’] aspetto maestoso, ma dolce ed amabile». Egli è portatore di un messaggio. Esorta i Salesiani ad «ascoltare», a «intendere», a mantenersi «forti e animosi», a «testimoniare» con le parole e con la vita, ad «essere oculati» nell’accettazione e nella formazione delle nuove generazioni, a far crescere sanamente la loro Congregazione.

Le tre scene del sogno sono vivaci e provocatorie; ci presentano una sintesi agile, personalizzata e drammatizzata della spiritualità salesiana. Il contenuto del sogno comporta certamente, nella mente di Don Bosco, un importante quadro di riferimento per la nostra identità vocazionale.

Ebbene, il personaggio del sogno – come noto – porta sulla parte frontale il diamante della speranza, che sta a segnalare la certezza dell’aiuto dall’alto in una vita tutta creativa, impegnata cioè a progettare quotidianamente delle attività pratiche per la salvezza, soprattutto della gioventù. Insieme agli altri simboli legati alle virtù teologali, emerge la fisionomia di una persona saggia e ottimista per la fede che lo anima, dinamica e creativa per la speranza che lo muove, sempre orante e umanamente buono per la carità che lo permea.

In corrispondenza al diamante della speranza, sul retro della figura troviamo il diamante del “premio”. Se la speranza mette in luce visibilmente il dinamismo e l’attività del salesiano nella costruzione del Regno, la costanza dei suoi sforzi e l’entusiasmo del suo impegno si fondano sulla certezza dell’aiuto di Dio, reso presente dalla mediazione e dall’intercessione di Cristo e di Maria, il diamante del “premio” sottolinea piuttosto un atteggiamento costante della coscienza che permea ed anima tutto lo sforzo ascetico, secondo la familiare massima di don Bosco: «Un pezzo di paradiso aggiusta tutto!»[22].

5.1.2 Don Bosco “gigante” della speranza

Il salesiano – diceva Don Bosco – «è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime»[23]; il sostegno interiore di questa esigente capacità ascetica è il pensiero del paradiso come riflesso della buona coscienza con cui lavora e vive. «In ogni nostro ufficio, in ogni nostro lavoro, pena o dispiacere, non dimentichiamo mai che […] Egli tiene minutissimo conto di ogni più piccola cosa fatta pel suo santo nome, ed è di fede, che a suo tempo ci compenserà con abbondante misura. In fin di vita, quando ci presenteremo al suo divin tribunale, mirandoci con volto amorevole, Egli ci dirà: “Bene, servo buono e fedele; perché nel poco sei stato fedele, ti farò padrone del molto; entra nel gaudio del tuo Signore” (Mt 25,2l)»[24]. «Nelle fatiche e nei patimenti non dimenticare mai che abbiamo un gran premio preparato in cielo»[25]. E quando il nostro Padre dice che il salesiano stremato dal troppo lavoro rappresenta una vittoria per tutta la Congregazione, sembra suggerire addirittura una dimensione di fraterna comunione nel premio, quasi un senso comunitario del paradiso!

Il pensiero e la coscienza continua del paradiso sono una delle idee sovrane e uno dei valori di spinta della tipica spiritualità e anche della pedagogia di Don Bosco. È come un far luce e un approfondire l’istinto fondamentale dell’anima che tende vitalmente al proprio fine ultimo.

In un mondo soggetto alla secolarizzazione e alla progressiva perdita del senso di Dio – specialmente a causa del benessere e di certo progresso – è importante resistere alla tentazione – per noi e per i giovani con i quali camminiamo – che ci impedisce di alzare lo sguardo verso il Paradiso e non ci fa sentire il bisogno di sostenere e nutrire un impegno di ascesi vissuto nel lavoro quotidiano. Al suo posto va crescendo uno sguardo temporale, secondo un più o meno elegante orizzontalismo, che crede di saper scoprire l’ideale di tutto all’interno stesso del divenire umano e nella vita presente. Tutto il contrario della speranza!

Don Bosco è stato uno dei grandi della speranza. Ci sono tanti elementi per dimostrarlo. Il suo spirito salesiano è tutto permeato dalle certezze e dall’operosità caratteristiche di questo dinamismo audace di Spirito Santo.

Mi soffermo brevemente a ricordare come don Bosco abbia saputo tradurre nella sua vita l’energia della speranza sui due versanti: l’impegno per la santificazione personale e la missione di salvezza per gli altri; o meglio – e qui risiede una caratteristica centrale del suo spirito – la santificazione personale attraverso la salvezza degli altri. Ricordiamo la famosa formula delle tre “S”: «Salve, salvando salvati»[26]. Sembra un gioco mnemonico detto così semplicemente, a mo’ di slogan pedagogico, ma è profondo e indica come i due versanti della santificazione personale e della salvezza del prossimo siano strettamente legati tra loro.

Nel binomio “lavoro” e “temperanza” si percepisce che la speranza è stata vissuta da Don Bosco come progettazione pratica e quotidiana di un’instancabile operosità di santificazione e di salvezza. La sua fede lo porta a prediligere, nella contemplazione del mistero di Dio, il suo ineffabile disegno di salvezza. Vede nel Cristo il Salvatore dell’uomo e il Signore della storia; in sua Madre, Maria, l’Ausiliatrice dei cristiani; nella Chiesa, il grande Sacramento della salvezza; nella propria maturazione cristiana e nella gioventù bisognosa, il vasto campo del «non-ancora». Perciò il suo cuore erompe nel grido: «Da mihi animas», Signore concedimi di salvare la gioventù e toglimi pure il resto! La sequela del Cristo e la missione giovanile si fondono, nel suo spirito, in un unico dinamismo teologale che costituisce la struttura portante del tutto.

Sappiamo bene che la dimensione della speranza cristiana coniuga la prospettiva del “già” e del “non ancora”: qualcosa di presente e qualcosa in divenire che, tuttavia, a partire dall’oggi comincia a manifestarsi anche se “non ancora” in pienezza.

5.1.3 Caratteristiche della speranza in Don Bosco

La certezza del “già”

Quando noi domandiamo alla teologia qual è l’oggetto formale della speranza, ci risponde che è l’intima convinzione della presenza di Dio che aiuta, che soccorre e assiste; la certezza interiore circa la potenza dello Spirito Santo; l’amicizia con Cristo vittorioso che ci fa dire con San Paolo: «Tutto posso in Colui che mi dà forza» (Fil 4,13).

Il primo elemento costitutivo della speranza è, dunque, la certezza del «già». La speranza stimola la fede a esercitarsi nella considerazione della presenza salvatrice di Dio nelle vicissitudini umane, della potenza dello Spirito nella Chiesa e nel mondo, della regalità di Cristo sulla storia, dei valori battesimali che in noi hanno iniziato la vita della risurrezione.

Il primo elemento costitutivo della speranza è, perciò, un esercizio della fede sull’essenza di Dio come Padre misericordioso e salvatore, su ciò che ha già fatto Gesù Cristo per noi, sulla Pentecoste come inizio dell’epoca dello Spirito Santo, su ciò che c’è già dentro di noi per il Battesimo, per i sacramenti, per la vita nella Chiesa, per l’appello personale della nostra vocazione.

Occorre riflettere che fede e speranza si interscambiano in noi, i loro dinamismi si stimolano e si completano a vicenda e ci fanno vivere nel clima creativo e trascendente della potenza dello Spirito Santo.

La chiara coscienza del “non-ancora”

Il secondo elemento costitutivo della speranza è la coscienza del «non-ancora». Non sembra molto difficile averla; però la speranza esige una chiara coscienza non tanto di ciò che è male e ingiusto, quanto di ciò che manca alla statura di Cristo nel tempo, e, quindi, di ciò che è ingiusto e peccato e anche di ciò che è immaturo, parziale o rachitico nella costruzione del Regno.

Ciò suppone, come quadro di riferimento, una chiara conoscenza del progetto divino di salvezza, su cui s’innesta la capacità critica e di discernimento da parte di colui che spera. Così la critica dell’uomo di speranza non è semplicemente psicologica o sociologica, ma trascendente, secondo l’orbita teologale della «nuova creatura»; si serve anche degli apporti delle scienze umane, e di gran lunga le oltrepassa.

Con la coscienza del «non-ancora», chi spera percepisce ciò che è male, ciò che non è ancora maturo, ciò che è seme in ordine al Regno di Dio e s’impegna per far crescere il bene e per combattere il peccato con la prospettiva storica di Cristo. La capacità di discernimento del «non-ancora» è misurata sempre dalla certezza del «già». Quindi e direi soprattutto nei tempi difficili, chi spera spinge e stimola la sua fede a scoprire i segni della presenza di Dio e le mediazioni che ci guidano nell’orbita da Lui tracciata. È questa una qualità molto importante oggi: saper individuare i semi per aiutarli a schiudersi e a crescere.

Come si fa a sperare se non c’è questa capacità di discernimento? Non basta saper percepire tutto il peso del male, bisogna essere sensibili anche alla primavera «che brilla d’intorno». Quindi in questi tempi, che noi diciamo difficili (e lo sono realmente, paragonandoli con quelli che abbiamo vissuto prima di una certa tranquillità), la speranza ci aiuta a percepire che c’è anche tanto bene nel mondo e che qualcosa sta crescendo.

L’operosità salvifica

Un terzo elemento costitutivo della speranza è la sua esigenza operativa accompagnata dall’impegno concreto di santificazione, di inventiva e di sacrificio apostolici. Bisogna collaborare con il “già” in crescita, urge muoversi per lottare contro il male in noi e negli altri, soprattutto nella gioventù bisognosa.

Il discernimento del “già” e del “non-ancora” ha bisogno di tradursi nella pratica della vita, aprendosi ai propositi, ai progetti, alla revisione, all’inventiva, alla pazienza e alla costanza. Non tutto risulterà “come speravamo”: ci saranno degli insuccessi, dei contrattempi, delle cadute, delle incomprensioni. La speranza cristiana partecipa connaturalmente anche alle oscurità della fede.

5.1.4 I “frutti” della speranza in Don Bosco

Dai tre elementi costitutivi della speranza, che ho appena indicato, derivano alcuni frutti particolarmente significativi per lo spirito salesiano di Don Bosco.

La gioia

Dal primo elemento costitutivo – la certezza del “già” – deriva come frutto più caratteristico la gioia. Ogni vera speranza esplode in gioia.

Lo spirito salesiano assume la gioia della speranza per una affinità tutta propria. Persino la biologia ce ne suggerisce qualche esempio. La gioventù che è speranza umana (e quindi suggerisce una certa analogia con il mistero della speranza cristiana), è avida di gioia. E noi vediamo Don Bosco tradurre la speranza in un clima di gioia per la gioventù da salvare. Domenico Savio, cresciuto alla sua scuola, diceva: «Noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri». Non si tratta di un’ilarità superficiale propria del mondo, ma di un gaudio interiore, di un substrato di vittoria cristiana, di una sintonia vitale con la speranza, che esplode in allegria. Una gioia che procede, in definitiva, dalle profondità della fede e della speranza.

C’è poco da fare. Se siamo tristi è perché siamo superficiali. Capisco che c’è una tristezza cristiana: Gesù Cristo l’ha vissuta. Nel Getsemani la sua anima si è rattristata fino alla morte, ha sudato sangue. Si tratta certamente di un altro tipo di tristezza.

Però, l’afflizione o la malinconia per cui una suora ha l’impressione di non essere capita da nessuno, che le altre non la prendano in considerazione, che abbiano invidia o incomprensione delle sue qualità, ecc. è una tristezza che non si deve alimentare. A questa bisogna contrapporre la profondità della speranza: Dio è con me e mi vuole bene; che importa che altri non mi considerino tanto?

La gioia, nello spirito salesiano, è clima quotidiano; deriva da una fede che spera e da una speranza che crede, ossia da quel dinamismo di Spirito Santo che in noi proclama la vittoria che vince il mondo!… È indispensabile la gioia per testimoniare con autenticità quello in cui crediamo e speriamo.

Lo spirito salesiano è anzitutto e soprattutto questo e non una riduzione a sole osservanze e mortificazioni. La speranza ci porterà anche a fare molte mortificazioni, ma come allenamenti di volo e non come punzecchiature da prigione! Quindi: dalla speranza tanta gioia!

Il mondo cerca di superare la sua limitatezza e il suo disorientamento con una vita riempita di sensazioni eccitanti. Coltiva la promozione e la soddisfazione dei sensi, il film pungente, l’erotismo, la droga, ecc. È una maniera di evadere da una situazione caduca che sembra non avere senso, per cercare qualche cosa che sconfini verso una “caricatura di trascendenza”.

La pazienza

Un altro “frutto” della speranza – che procede dalla coscienza del “non-ancora” – è la pazienza. Ogni speranza comporta un indispensabile corredo di pazienza. La pazienza è un atteggiamento cristiano, legato intrinsecamente con la speranza nel suo non breve “non-ancora”, con i suoi guai, le sue difficoltà e le sue oscurità. Credere alla risurrezione e operare per la vittoria della fede, mentre si è mortali e immersi nel caduco, esige una struttura interiore di speranza che porta alla pazienza.

L’espressione più sublime di pazienza cristiana l’ha vissuta Gesù soprattutto durante la sua passione e morte. È una pazienza fruttuosa, precisamente per la speranza che la anima. Qui, nella pazienza, più che di iniziativa e di azione, si tratta di cosciente accettazione e di passività virtuosa che sopporta in vista della realizzazione del piano di Dio.

Lo spirito salesiano di Don Bosco ci ricorda sovente la pazienza. Nell’introduzione alle Costituzioni Don Bosco ricorda, alludendo a san Paolo, che le pene che dobbiamo sopportare in questa vita non hanno confronto con il premio che ci attende: «Era solito dire: “Coraggio! La speranza ci sorregga, quando la pazienza vorrebbe mancare”»[27]. «Ciò che sostiene la pazienza, dev’essere la speranza del premio»[28].

Anche madre Mazzarello insisteva su questo punto. Uno dei suoi primi biografi, il Maccono, afferma che la speranza la confortò sempre sostenendola nei suoi patimenti, nelle sue infermità, nei dubbi, e la rallegrò nell’ora della morte: «La sua speranza era molto viva e attiva. Mi pare – testificò una suora – che la speranza l’animasse in tutto e che ella cercasse di infonderla nelle altre. Ci esortava a portare bene le piccole croci giornaliere, e a fare tutto con grande purità d’intenzione»[29].

La speranza è madre della pazienza e la pazienza è difesa e scudo della speranza.

La sensibilità educativa

Dal terzo elemento costitutivo della speranza – “l’operosità salvifica” – procede un altro frutto: la sensibilità pedagogica. È una iniziativa d’impegno adeguato, sia nell’ambito della propria santificazione (sequela del Cristo), sia nell’ambito della salvezza degli altri (missione). Comporta impegno pratico, misurato e costante, tradotto da Don Bosco in una metodologia concreta che comporta queste attenzioni:

  • l’avvedutezza (o santa «furbizia»): quando si tratta di avere iniziative, di risolvere problemi, Don Bosco ce la mette tutta senza pretese di perfezionismo, ma con umile praticità; è ripetuta da lui molte volte la frase: «L’ottimo è nemico del bene»[30].
  • l’ardimento. Il male è organizzato, i figli delle tenebre agiscono con intelligenza. Il Vangelo ci dice che i figli della luce devono essere più scaltri e coraggiosi. Quindi, per lavorare nel mondo, bisogna armarsi di genuina prudenza, ossia di quell’«auriga virtutum» che ci rende agili, tempestivi e penetranti nell’applicazione di una vera intrepidezza nel bene.
  • la magnanimità. Non dobbiamo rinchiudere il nostro sguardo dentro le pareti di casa. Siamo stati chiamati dal Signore a salvare il mondo, abbiamo una missione storica più importante di quella degli astronauti o degli uomini di scienza… Siamo impegnati nella liberazione integrale dell’uomo. Il nostro animo deve aprirsi a visioni molto ampie. Don Bosco voleva che fossimo «all’avanguardia del progresso» (e si trattava, quando disse questa frase, di mezzi di comunicazione sociale).

Conosciamo la magnanimità di Don Bosco nel lanciare i giovani alle responsabilità apostoliche; pensiamo, per esempio, ai primi missionari partiti per l’America. Sia i Salesiani sia le Figlie di Maria Ausiliatrice erano poco più che ragazzi e ragazze!

Don Bosco si muoveva in orizzonti vasti. Non gli bastava né Valdocco né Mornese; non poteva rimanere solo dentro i limiti di Torino, del Piemonte, dell’Italia o dell’Europa. Il suo cuore palpitava con quello della Chiesa universale, perché si sentiva quasi investito della responsabilità di salvezza di tutta la gioventù bisognosa del mondo. Voleva che i Salesiani sentissero come propri tutti i più grandi e urgenti problemi giovanili della Chiesa per essere disponibili ovunque. E, mentre coltivava la magnanimità dei progetti e delle iniziative, era concreto e pratico nella loro realizzazione, con il senso della gradualità e con la modestia degli inizi.

Ecco sul volto del Salesiano deve sempre brillare, come nota di simpatia, la magnanimità: non deve essere una testolina senza visioni, ma avere grandezza d’animo perché ha un cuore abitato dalla speranza.

Péguy, con la sua acutezza un po’ violenta, ha scritto: «Una capitolazione è in sostanza un’operazione in cui si incomincia a spiegare invece di attuare. I codardi sono stati sempre delle persone di molte spiegazioni». Sul volto salesiano deve sempre brillare, come nota di simpatia, anche la mistica della decisione e l’ardimento umile della praticità. Don Bosco era deciso negli impegni di bene, anche se non poteva incominciare con l’ottimo; diceva che le sue opere si iniziavano magari nel disordine per tendere poi verso l’ordine!

La speranza mette sul volto del Salesiano, accanto alla profondità della contemplazione, alla gioia della filiazione divina, all’entusiasmo della gratitudine e dell’ottimismo (che provengono dalla “fede”), anche il coraggio dell’iniziativa, lo spirito di sacrificio della pazienza, la saggezza della gradualità pedagogica, l’utopia della magnanimità, la modestia della praticità, la prudenza della furbizia e il sorriso dell’allegria.

5.2 La fedeltà di Dio: fino alla fine

Finora abbiamo dato uno sguardo a ciò che don Bosco e i nostri santi e beati hanno espresso chiaramente nelle loro esistenze. Si tratta di elementi che spingono ciascuno di noi personalmente e come Famiglia Salesiana a far emergere o – per riprendere le parole di don Egidio Viganò – far brillare quella speranza della quale siamo chiamati a «rendere ragione», soprattutto ai giovani e, tra questi, i più poveri.

È giunto il momento di “sbirciare” un po’ oltre ciò che è “immediatamente visibile” e cercare di conoscere ciò che attende la nostra vita e ci dà il coraggio di aspettare operosamente mentre collaboriamo alla venuta del “giorno del Signore”.

Quindi, sempre riprendendo l’analisi schietta e intensa del VII Successore di don Bosco, concentriamo la nostra attenzione sulla prospettiva del “premio”.

Il diamante del “premio” è collocato con altri quattro nella parte posteriore del manto del personaggio del sogno. È quasi un segreto, una forza che opera dal di dentro, che ci dà la spinta e ci aiuta a sorreggere e difendere i grandi valori visti nella parte anteriore. È interessante osservare che il diamante del “premio” è collocato sotto quello della “povertà”, perché ha certamente una relazione con le “privazioni” legate ad essa.

Sui suoi raggi si leggono le seguenti parole: «Se vi attrae la grandezza dei premi, non vi spaventi la quantità delle fatiche». «Chi soffre con Me, con Me godrà». «È momentaneo ciò che soffriamo sulla terra, eterno è ciò che farà gioire i miei amici nel Cielo».

Il vero Salesiano ha nella fantasia, nel cuore, nei desideri, negli orizzonti di vita la visione del premio, come pienezza dei valori proclamati dal Vangelo. Per questa ragione «è sempre lieto. Diffonde questa gioia e sa educare alla letizia della vita cristiana e al senso della festa»[31].

Nella casa di Don Bosco e nelle nostre case salesiane si parlava molto del Paradiso. Era un’idea permanente e onnipresente riassunta in alcuni famosi detti: «Pane, lavoro e Paradiso»[32]; «Un pezzo di Paradiso aggiusta tutto»[33]. Sono frasi ricorrenti a Valdocco e a Mornese.

Certamente molte Figlie di Maria Ausiliatrice ricorderanno la descrizione fatta da madre Enrichetta Sorbone sullo spirito di Mornese: «Qui siamo in Paradiso, nella casa c’è un ambiente di Paradiso!»[34]. E non era certo a causa delle privazioni o della mancanza di problemi. Era come la traduzione spontanea, balzata dal cuore, del cartello che aveva fatto mettere Don Bosco: «Servite Domino in laetitia»[35].

Anche Domenico Savio aveva percepito lo stesso caldo e trascendente clima di vita: «Noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri»[36].

Nelle biografie di Domenico Savio, Francesco Besucco e Michele Magone, Don Bosco, anche descrivendone l’agonia, ci tiene a sottolineare questa ineffabile gioia, unita a una vera ansia di Paradiso. Molto più che l’orrore della morte, i suoi ragazzi sentono l’attrattiva della Pasqua.

Il pensiero del premio è uno dei frutti della presenza dello Spirito Santo, ossia, dell’intensità della fede, della speranza e della carità, tutte e tre insieme, anche se è più strettamente legato alla speranza. Infonde nel cuore una gioia e una allegria che vengono dall’Alto e trovano una bella sintonia con le stesse tendenze innate del cuore umano. Lo constatiamo vivendo tra i ragazzi e le ragazze: la gioventù intuisce con maggior freschezza che l’uomo è nato per la felicità.

Ma non abbiamo neppure bisogno di andare a cercarlo tra i giovani. Prendiamo uno specchio e guardiamoci: ci basta ascoltare i battiti del nostro cuore. Siamo nati per raggiungere la felicità, l’aspettiamo anche senza confessarlo.

L’idea del Paradiso, sempre presente nella casa di Don Bosco, non è un’utopia per ingenui inganni, non è la carota che inganna il cavallo perché cammini più in fretta, è l’ansia sostanziale del nostro essere; ed è soprattutto la realtà dell’amore di Dio, della risurrezione di Gesù Cristo operante nella storia; è la presenza viva dello Spirito Santo che spingono, di fatto, verso il premio.

Don Bosco non disprezza nessuna gioia dei giovani. Al contrario, la suscita, la incrementa, la sviluppa. La famosa “allegria” in cui fa consistere la santità non è solo una gioia intima, nascosta nel cuore come frutto della grazia. Questa ne è la radice. Essa si esprime anche all’esterno, nella vita, nel cortile e nel senso della festa.

Come preparava le solennità religiose, gli onomastici, i giorni festivi dell’Oratorio! Si preoccupava persino di organizzare la celebrazione del proprio onomastico, non per sé, ma per creare un clima di riconoscenza gioiosa nell’ambiente.

Pensiamo alle coraggiose passeggiate autunnali: due o tre mesi per prepararle, 15 o 20 giorni per viverle; poi i prolungati ricordi e commenti: una gioia molto distesa nel tempo. Che fantasia e che coraggio! Da Torino ai Becchi, a Genova, a Mornese, a tanti paesi del Piemonte, con decine e decine di ragazzi… La passeggiata, il gioco, la musica, il canto, il teatro: sono elementi sostanziali del Sistema Preventivo che, anche come metodo pedagogico, suppone una spiritualità appropriata ed esplosiva, frutto di una fede, una speranza e una carità convinte, valori del cielo proprio qui sulla terra.

Sul firmamento di Valdocco s’affacciava sempre, di giorno e di notte, con nubi o senza nubi, il Paradiso. Testimoniare oggi i valori del premio è una profezia urgente per il mondo e soprattutto per la gioventù. La civiltà tecnico-industriale che cosa ha apportato alla società del consumo? Una enorme possibilità di comodità e di piacere, con una conseguente e pesante tristezza.

Tra l’altro leggiamo nelle Costituzioni dei Salesiani di Don Bosco – ma vale per ogni cristiano – che «il salesiano [è] un segno della forza della resurrezione» e che «nella semplicità e laboriosità della vita quotidiana» è «educatore che annuncia ai giovani “cieli nuovi e terra nuova”, stimolando in loro gli impegni e la gioia della speranza»[37].

A Mornese e a Valdocco non c’erano né comodità, né dittature e tutto respirava spontaneità e allegria. Il progresso tecnico ha facilitato oggi tante cose, ma non è aumentata la vera gioia dell’uomo. È cresciuta, invece, l’angustia, la nausea, si è acuita la mancanza di senso dell’esistenza che purtroppo continuiamo a rilevare – specialmente nelle società opulente – con la tragica statistica dei suicidi adolescenziali e giovanili.

Oggi oltre alla povertà materiale che affligge ancora una grandissima porzione di umanità, diventa urgente trovare il modo di far percepire alla gioventù il senso della vita, gli ideali superiori, l’originalità di Gesù Cristo.

Si cerca la felicità, tendenza fondamentale dell’uomo, ma non se ne conosce più la giusta strada, e allora va crescendo un’immensa disillusione.

I giovani, anche a causa della mancanza di adulti significativi, si sentono incapaci di affrontare la sofferenza, il dovere e l’impegno costante. Il problema della fedeltà agli ideali e alla propria vocazione è diventato cruciale. La gioventù si sente incapace di assumere sofferenze e sacrifici. Vive in un’atmosfera in cui trionfa il divorzio tra amore e sacrificio, in modo tale che la ricerca e il conseguimento del solo benessere finisce per asfissiare la capacità di amare e, quindi, di sognare il futuro.

Giustamente, come dicevamo, il diamante del premio è collocato sotto quello della povertà, quasi a indicarci che i due si completano e si sostengono a vicenda. Di fatto la povertà evangelica comporta una visione concreta e trascendente di tutta la realtà con un’ottica realista anche circa le rinunce, le sofferenze, i contrattempi, le privazioni e le pene.

Qual è l’energia interiore che fa affrontare tutto con fiducia e con volto ilare, senza scoraggiarsi? È, in definitiva, il senso della presenza del cielo sulla terra. Questo senso procede dalla fede, dalla speranza e dalla carità, che ci fanno rileggere tutta l’esistenza con l’ottica dello Spirito Santo.

Il mondo ha urgente bisogno di profeti che proclamino con la vita la grande verità del Paradiso. Non un’evasione alienante, ma un’intensa realtà stimolante!

Dunque, nello spirito di Don Bosco è costante la preoccupazione di curare la dimestichezza con il Paradiso, quasi a costituirne il firmamento della mente, l’orizzonte del cuore salesiano: lavoriamo e lottiamo sicuri di un premio, guardando alla Patria, alla casa di Dio, alla Terra promessa.

È bene precisare che la prospettiva del premio non consiste riduttivamente nel conseguimento di una “ricompensa”, di una sorta di consolazione per una vita vissuta in mezzo a tanti sacrifici, sopportazioni… Niente di tutto questo! Se fosse solo “ricompensa”, assomiglierebbe a un ricatto. Ma Dio non opera in questo modo. Nel Suo amore non può che offrire all’uomo Sé stesso. Questa – come afferma Gesù – è la vita eterna: la conoscenza del Padre. Dove “conoscere” significa “amare”, divenire pienamente partecipi di Dio, in continuità con l’esistenza terrena vissuta “in grazia”, ossia nell’amore a Dio e ai fratelli e alle sorelle.

In questo cammino siamo invitati a volgere lo sguardo a Maria, la quale si fa presente come aiuto quotidiano, come Madre precorritrice e ausiliatrice. Don Bosco è sicuro di questa sua presenza tra noi e vuole dei segni che ce lo ricordino.

Per Lei ha edificato una Basilica, centro di animazione e diffusione della vocazione salesiana. Voleva la Sua immagine nei nostri ambienti di vita; vincolava ogni iniziativa apostolica alla Sua intercessione e ne commentava con commozione la reale e materna efficacia. Ricordiamo, ad esempio, ciò che disse alle Figlie di Maria Ausiliatrice nella casa di Nizza: «La Madonna è veramente qui, qui in mezzo a voi! La Madonna passeggia in questa casa e la copre col suo manto»[38].

Oltre a Lei, cerchiamo nella casa di Dio anche altri amici. I nostri Santi e Beati, a cominciare dai volti a noi più familiari e che fanno parte del cosiddetto “giardino salesiano”.

Non facciamo queste scelte per dividere la grande casa di Dio in piccoli appartamenti privati, ma piuttosto per sentirci in essa più facilmente a casa nostra e poter parlare di Dio, del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, di Cristo e di Maria, della creazione e della storia, non con la trepidazione di chi ha ascoltato l’alta lezione di un pensatore denso, difficile e anche ermetico, ma con quel senso di familiarità e di gioiosa semplicità con cui si conversa con coloro che sono stati i nostri parenti, i nostri fratelli e le nostre sorelle, i nostri colleghi e i nostri compagni di lavoro. Alcuni di essi non li abbiamo conosciuti in vita, ma li sentiamo vicini e ci ispirano particolare fiducia. Parlare con san Giuseppe, con Don Bosco, con madre Mazzarello, con don Rua, con Domenico Savio, con Laura Vicuña, con don Rinaldi, con mons. Versiglia e don Caravario, con suor Teresa Valsè, con suor Eusebia Palomino, ecc., è proprio un dialogo “di casa”, di famiglia.

Ecco quanto ci suggerisce il diamante del premio: sentirsi a casa con Dio, con Cristo, con Maria, con i Santi; sentire la loro presenza nella propria casa, in un clima di famiglia che dà senso di Paradiso all’ambiente quotidiano di vita.

6. CON… MARIA, SPERANZA E PRESENZA MATERNA

Al termine di questo commento non possiamo che volgere il nostro cuore e il nostro sguardo alla vergine Maria, come ci ha insegnato don Bosco.

La speranza domanda fiducia, capacità di consegnarsi e di affidarsi.

In tutto ciò abbiamo una guida e una maestra in Maria Santissima.

Lei ci testimonia che sperare è affidarsi e consegnarsi, ed è vero tanto per l’esistenza come per la vita eterna.

In questo cammino la Madonna ci prende per mano, ci insegna come fidarci di Dio, come consegnarci liberamente all’amore trasmesso da suo Figlio Gesù.

L’indicazione e la “carta di navigazione” che ci presenta, è sempre la stessa: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela»[39]. Un invito che ogni giorno assumiamo nella nostra vita.

In Maria scorgiamo la realizzazione del premio.

Maria incarna in sé l’attrattiva e la concretezza del Premio: Essa,

«finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria col suo corpo e con la sua anima, e dal Signore esaltata come la Regina dell’universo, perché fosse più pienamente conformata al Figlio suo, il Signore dei dominanti, il vincitore del peccato e della morte»[40].

Possiamo leggere sulle Sue labbra alcune belle espressioni provenienti da San Paolo. Siccome sono ispirate dallo Spirito Santo, Sposo di Maria, certamente sono da Lei condivise.

Eccole:

«Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?

Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze,né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore»[41].

Carissimi sorelle e fratelli, carissimi giovani,

Maria Ausiliatrice, Don Bosco e tutti i nostri Santi e Beati ci sono vicini in questo anno così straordinario. Siano loro ad accompagnarci a vivere con profondità le istanze del Giubileo, aiutandoci a mettere al centro della vita la persona di Gesù Cristo «il Salvatore annunciato nel Vangelo, che vive oggi nella Chiesa e nel mondo»[42].

Ci spingano, sull’esempio delle prime e dei primi missionari inviati da don Bosco, a fare sempre e ovunque della nostra vita un dono gratuito per gli altri, soprattutto per i giovani e tra loro quelli più poveri.

Per ultimo, un augurio: che quest’anno faccia crescere in noi la preghiera per la pace, per un’umanità pacificata. Invochiamo il dono della pace – lo shalom biblico – che contiene tutti gli altri e trova compimento solo nella speranza.

Un abbraccio fraterno

Don Stefano Martoglio S.D.B.

Vicario del Rettor Maggiore

Roma, 31 dicembre 2024


[1] Francesco, Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, Città del Vaticano 9 maggio 2024.

[2] Ibi.

[3] Cf. Rm 8,39.

[4] Rm 5,3-5

[5] Messale romano, LEV, Roma 20203, 240.

[6] Byung-Chul Han, El espìritu de la esperanza, p.18, Herder, Barcellona 2024.

[7] C. Paccini – S. Troisi, Siamo nati e non moriremo mai più. Storia di Chiara Corbella Petrillo, Porziuncola, Assisi (PG) 2001.

[8] Gabriel Marcel, Philosophie der Hoffnung, Mùnich, List 1964.

[9] Erich Fromm, La revolucìonde la esperanza, Ciudad de México 1970.

[10] 1Pt 3,15.

[11] Francesco, Spes non confundit, 9.

[12] Gv 17,3.

[13] Cf. Rm 4,18.

[14] Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus caritas est, Città del Vaticano 25 dicembre 2005, 1.

[15] Cost. SDB, 3.

[16] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIª-IIae q. 17 a. 8 co.

[17] Cf. E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 2023.

[18] Per queste riflessioni ho attinto alla ricca riflessione dell’Abate generale dell’Ordine dei Cistercensi M. G. Lepori, Capitoli dell’Abate Generale OCist al CFM 2024. Sperare in Cristo reperibile in più lingue al sito: www.ocist.org

[19] Cfr Rm, 5,3-5

[20] E. Viganò, Un progetto evangelico di vita attiva, Elle Di Ci, Leumann (TO) 1982, 68-84.

[21] Cf. E. Viganò, Profilo del Salesiano nel sogno del personaggio dai dieci diamanti, in ACS 300 (1981), 3-37. L’intera narrazione del sogno è reperibile in ACS 300 (1981), 40-44; oppure in MB XV, 182-187.

[22] MB VIII, 444.

[23] Cost. SDB, 18.

[24] P. Braido (a cura di), Don Bosco Fondatore “Ai Soci Salesiani”(1875-1885). Introduzione e testi critici, LAS, Roma 1995, 159.

[25] MB V, 442.

[26] MB V, 409.

[27] MB XII, 458.

[28] Ibi.

[29] F. Maccono, Santa Maria Domenica Mazzarello. Confondatrice e prima Superiora Generale delle FMA. Vol. I, FMA, Torino 1960, 398.

[30] MB X, 893.

[31] Cost. SDB, 17.

[32] MB XII, 600.

[33] MB VIII, 444.

[34] Citato in E. Viganò, Riscoprire lo spirito di Mornese, in ACS (1981), 62.

[35] Sal 99.

[36] MB V, 356.

[37] Cost. SDB, 63. Si veda anche E. Viganò, «Rendere ragione della gioia e degli impegni della speranza, testimoniando le insondabili ricchezze di Cristo». Strenna 1994. Commento del Rettor Maggiore, Istituto Figlie di Maria Ausiliatrice, Roma 1993.

[38] G. Capetti, Il cammino dell’Istituto nel corso di un secolo. Vol. I, FMA, Roma 1972-1976, 122.

[39] Gv 2,5.

[40] LG, 59.

[41] Rm 8,34-39.

[42] Cost. SDB, 196.




Il nostro annuale regalo

Tradizionalmente come Famiglia Salesiana riceviamo ogni anno la Strenna; un regalo di inizio anno, ed in queste poche righe mi è caro guardare dentro a questo dono per accoglierlo come merita, senza perder nulla della freschezza del dono.

Un dono, perché prima di tutto, strenna vuol dire: ti faccio un regalo! Ti regalo una cosa importante per celebrare un tempo nuovo, un anno nuovo. Così la pensò don Bosco e la consegnò a tutti i giovani e gli adulti che stavano con lui.
Questo dono, la strenna, voglio consegnartela per l’inizio dell’anno nuovo, di un tempo nuovo.
Bello ed importante questo: un anno nuovo, un tempo nuovo è un contenitore in cui staranno tutti gli altri contenuti. L’anno che verrà non è uguale a quelli che hai vissuto fin ora, l’anno nuovo necessita uno sguardo nuovo per viverlo in pienezza; perché l’anno nuovo non tornerà! Ogni tempo è unico perché noi siamo diversi dallo scorso anno, da come eravamo l’anno scorso.
La Strenna è prepararsi a questo tempo nuovo, cominciando a guardare dentro a questo nuovo anno, mettendo in luce alcune cose che di questo anno saranno parte importante.

Il filo rosso
Il dono del tempo, della vita; nella vita il dono di Dio e tutti gli altri doni dentro: persone situazioni, occasioni, relazioni umane. Dentro questo provvidenziale modo di vedere il dono del tempo e della vita la strenna, dono che Don Bosco… e dopo di lui i suoi successori fanno ogni anno a tutta la famiglia salesiana… è uno sguardo sull’anno nuovo, sul tempo nuovo, per vederlo con occhi nuovi.
La strenna è un aiuto a vedere il tempo che verrà mettendo a fuoco un filo rosso che guida questo tempo nuovo: il filo rosso che la strenna ci dona è la Speranza. Importante anche questo! L’anno nuovo sicuramente avrà moltissime cose, ma tu non disperderti! Comincia a pensare su quanto è importante…non disperderti, raccogli!
La strenna che il nostro don Angel ci ha imbastito, come un abito nuovo, mette in luce degli eventi che tutti vivremo, e li unisce con un filo rosso, la Speranza!
Gli eventi che la strenna del 2025 mette in risalto sono eventi globali o particolari che ci coinvolgono, perché li viviamo bene:

• Il giubileo ordinario dell’anno 2025: un Giubileo è un evento di Chiesa che, nella tradizione Cattolica, il Santo Padre ci dona. Vivere il Giubileo è vivere questo pellegrinaggio che la Chiesa ci offre per rimettere al centro della nostra vita e della vita del Mondo la presenza del Cristo. Il giubileo che Papa Francesco ha un tema generatore: Spes non confundit! La Speranza non delude! Che meraviglia di tema generatore! Se di una cosa ha bisogno il Mondo in questo momento difficile è proprio la Speranza, ma non la speranza di quanto crediamo di poter fare da soli noi stessi, con il rischio che diventi una illusione. La Speranza della ri-scoperta della Presenza di Dio. Scrive Papa Francesco: “La Speranza ricolmi il cuore!” Non solo scaldi il cuore, lo riempia. Lo riempia in una misura traboccante!
• La Speranza ci rende pellegrini, il Giubileo è pellegrinaggio! Ti mette in moto dentro, altrimenti non è Giubileo. Dentro questo evento di Chiesa che ci fa sentire Chiesa noi, come Congregazione Salesiana e come Famiglia Salesiana, abbiamo un anniversario importante: nel 2025 ricorre
• il 150° della prima spedizione missionaria in Argentina
Don Bosco, a Valdocco, butta il cuore oltre ogni confine: manda i suoi figli dall’altra parte del mondo! Li manda, oltre ogni sicurezza umana, li manda quando non ha nemmeno quelli che gli servirebbero per portare avanti ciò che aveva cominciato.
Li manda e basta! Alla Speranza si obbedisce, perché la Speranza guida la Fede e mette in moto la Carità. Li manda ed i primi confratelli partono e vanno, dove nemmeno loro sapevano! Da lì siamo nati tutti noi, dalla Speranza che ci mette in cammino e ci rende pellegrini.
Questo anniversario va celebrato, come ogni anniversario, perché ci aiuta a riconoscere il Dono, (non è una tua proprietà, ti è stato dato in dono) a ricordare e a dare forza per il tempo che verrà della energia della Missione.
La Speranza fonda la Missione, perché la Speranza è una responsabilità che non puoi nascondere né tenere per te! Non tenere nascosto quanto ti è donato; riconosci il donatore e consegna con la tua vita quanto ti è stato donato alle generazioni successive! Questa è la vita della Chiesa, la vita di ciascuno di noi.
San Pietro che vedeva lungo, nella sua prima lettera scrive: “siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chieda conto della speranza che è in voi!” (1 Pt, 3,15). Dobbiamo pensare che rispondere non sono parole, è la vita che risponde!
Con la speranza che è in te, vivi e prepari questo nuovo anno che verrà, un cammino con i giovani, con i fratelli per rinnovare il Sogno di Don Bosco ed il Sogno di Dio.

Il nostro stemma
«Sul mio labaro brilla una stella» si cantava un tempo. Sul nostro stemma oltre alla stella, campeggiano una grande ancora e un cuore infiammato.
Ecco alcune immagini semplici per cominciare a muovere il nostro cuore verso il tempo che verrà, “Ancorati nella speranza, pellegrini con giovani”. Ancorati è un termine molto forte: l’ancora è la salvezza della nave nella tempesta, fermi, forti, radicati nella Speranza!
Dentro questo tema generatore ci sarà tutta la nostra vita quotidiana: persone, situazioni, decisioni…il “micro” di ognuno di noi che si salda con il “macro” di quanto tutti insieme vivremo…consegnando a Dio il dono di questo tempo che ci è donato. Perché alla Strenna che tutti riceveremo devi aggiungere la tua parte; il tuo quotidiano che saprai illuminare con quanto abbiamo scritto e riceveremo, altrimenti non è una Speranza, non è ciò su cui si fonda la tua vita e non ti mette in “movimento” rendendoti Pellegrino.
Questo cammino lo affidiamo alla Madre del Signore, Madre della Chiesa e Ausiliatrice nostra; Pellegrina di Speranza insieme a noi.




Strenna 2024. «Il sogno che fa sognare»

Un cuore che trasforma i “lupi” in “agnelli”

Durante il mio servizio come Rettor Maggiore ho potuto constatare che la Strenna è uno dei doni più belli che don Bosco e i suoi successori offrono ogni anno a tutta la Famiglia Salesiana. Essa è un aiuto a camminare insieme e raggiunge in modo capillare i luoghi più lontani e, allo stesso tempo, lascia alle singole realtà la libertà di accogliere, integrare, valorizzare quanto proposto per il cammino proprio delle singole comunità educative pastorali.

In questo 2024 celebreremo il secondo centenario del «sogno-visione avuto da Giovannino tra i nove e dieci anni nella casetta dei Becchi»[1] nel 1824: il sogno dei nove anni.

Ritengo che la ricorrenza bicentenaria del sogno che «condizionò tutto il modo di vivere e di pensare di don Bosco. E in particolare, il modo di sentire la presenza di Dio nella vita di ciascuno e nella storia del mondo»[2], meriti di essere messo al centro della Strenna, che guiderà l’anno educativo pastorale di tutta la Famiglia Salesiana. Esso potrà essere ripreso e approfondito nella missione evangelizzatrice, negli interventi educativi e nelle azioni di promozione sociale che in ogni parte del mondo fanno capo ai gruppi della nostra Famiglia, che trova in Don Bosco il padre ispiratore.

«Vorrei qui richiamare il “sogno dei nove anni”. Mi sembra infatti che questa pagina autobiografica offra una presentazione semplice, ma al tempo stesso profetica, dello spirito e della missione di Don Bosco. In esso viene definito il campo di azione che gli viene affidato: i giovani; viene indicato l’obiettivo della sua azione apostolica: farli crescere come persone attraverso l’educazione; viene offerto il metodo educativo che risulterà efficace: il Sistema Preventivo; viene presentato l’orizzonte in cui si muove tutto il suo e nostro operare: il disegno meraviglioso di Dio, che prima di tutti e più di ogni altro, ama i giovani»[3]. Così scriveva don Pascual Chávez Villanueva, Rettor Maggiore emerito, a conclusione del commento alla Strenna 2012, offerta alla Famiglia Salesiana per il primo anno del triennio in preparazione al bicentenario (anno 2015) della nascita di don Bosco.

Tale testo rappresenta una bella sintesi che presenta l’essenza di ciò che il sogno dei nove anni è nella sua semplicità e profezia, nel suo valore carismatico ed educativo. È un sogno emblematico che, lungo quest’anno, cercheremo di avvicinare ancor più al cuore e alla vita di tutta la Famiglia di Don Bosco. È un sogno, un «famosissimo sogno-visione che sarebbe diventato e tuttora costituisce un pilastro importante, quasi un mito fondativo, nell’immaginifico della Famiglia salesiana»[4], che, certamente, richiede una contestualizzazione e un’attenzione critica – cosa che Don Bosco stesso fece e che i nostri esperti di storia salesiana hanno compiuto -per poterne offrire una lettura e dare un’interpretazione attuale, vitale ed esistenziale. Indubbiamente è un sogno che Don Bosco ha conservato nella mente e nel cuore per tutta la vita, come lui stesso dichiara: «A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita»[5]. Si tratta quindi di un sogno che è stato presente in lui e in tutto il cammino della Congregazione Salesiana fino ad oggi e che indubbiamente raggiunge l’intera nostra Famiglia Salesiana.

Nelle parole di don Rinaldi, riferite in occasione del primo centenario del sogno, leggiamo: «Il suo contenuto infatti è di tanta importanza che, in questa centenaria ricorrenza, dobbiamo farci uno stretto dovere di approfondirlo con più assidua meditazione in ogni suo particolare, e di metterne con generosità in pratica gli ammaestramenti, se vogliamo meritarci il nome di veri figli di Don Bosco e perfetti Salesiani»[6]. Stiamo vivendo con intensità l’evento straordinario di questo secondo centenario che avrà senza dubbio molte manifestazioni in tutto il mondo salesiano. L’espressione di tutto questo raggiunga il momento più celebrativo, festoso e anche più profondo nella revisione speranzosa della nostra vita, facendo proposte coraggiose ai giovani per aiutarli a sognare “in grande”, certi della presenza del Signore Gesù e “mano nella mano” con la Maestra, la Signora nostra Madre.

1. «HO FATTO UN SOGNO…»: UN SOGNO MOLTO SPECIALE
Proprio così, duecento anni fa Giovannino Bosco fece un sogno che lo avrebbe “segnato” per tutta la vita; un sogno che avrebbe lasciato in lui una traccia indelebile, il cui significato don Bosco comprese pienamente solo al termine della vita. Ecco, allora, il sogno raccontato dallo stesso Don Bosco secondo l’edizione critica di Antonio da Silva Ferreira, da cui ci discostiamo solo per due piccole varianti[7].

[Cornice iniziale] A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita.

[Visione dei ragazzi e intervento di Giovanni] Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All’udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere.

[Apparizione dell’uomo venerando] In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona, ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole: «Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti adunque immediatamente a fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù». Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que’ giovanetti. In quel momento que’ ragazzi cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui che parlava.

[Dialogo sull’identità del personaggio] Quasi senza sapere che mi dicessi, «Chi siete voi», soggiunsi, «che mi comandate cosa impossibile?». «Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza». «Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza?». «Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza». «Ma chi siete voi, che parlate in questo modo?». «Io sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno». «Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò, ditemi il vostro nome». «Il mio nome dimandalo a Mia Madre».

[Apparizione della donna di aspetto maestoso] In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle mie dimande e risposte, mi accennò di avvicinarmi a Lei, che presemi con bontà per mano, e «guarda», mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali. «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei». Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando come per fare festa a quell’uomo e a quella signora. A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare. Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi: «A suo tempo tutto comprenderai».

[Cornice conclusiva] Ciò detto un rumore mi svegliò ed ogni cosa disparve. Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi duolesse per gli schiaffi ricevuti; di poi quel personaggio, quella donna, le cose dette e le cose udite mi occuparono talmente la mente, che per quella notte non mi fu possibile prendere sonno. Al mattino ho tosto con premura raccontato quel sogno prima a’ miei fratelli, che si misero a ridere, poi a mia madre ed alla nonna. Ognuno dava al medesimo la sua interpretazione. Il fratello Giuseppe diceva: «Tu diventerai guardiano di capre, di pecore o di altri animali». Mia madre: «Chi sa che non abbi a diventar prete». Antonio con secco accento: «Forse sarai capo di briganti». Ma la nonna, che sapeva assai di teologia, era del tutto analfabeta, diede sentenza definitiva dicendo: «Non bisogna badare ai sogni». Io era del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile di togliermi quel sogno dalla mente. Le cose che esporrò in appresso daranno a ciò qualche significato. Io ho sempre taciuto ogni cosa; i miei parenti non ne fecero caso. Ma quando, nel 1858, andai a Roma per trattar col Papa della congregazione salesiana, egli si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali. Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto in età di nove in dieci anni. Il Papa mi comandò di scriverlo nel suo senso letterale, minuto e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione, che formava lo scopo di quella gita a Roma.

Lo stesso sogno si ripresenterà più volte nella vita di don Bosco e lui stesso, che ci ha narrato di suo pugno nelle Memorie quel primo evento di cui ora ricorre il bicentenario, racconta a più riprese quanto a distanza di tanti anni nuovamente sogna. Infatti, il sogno dei nove anni non è un sogno isolato, ma appartiene a una lunga e complementare sequenza di episodi onirici che hanno accompagnato la vita di Don Bosco. Egli stesso collega, integrandoli tra loro, tre sogni fondamentali: quello del 1824 (ai Becchi), quello del 1844 (nel Convitto ecclesiastico) e quello del 1845 (nelle opere della Marchesa di Barolo), in cui vi sono elementi di continuità e altri di novità. Nel sogno sempre si riconosce in filigrana quel primo quadro e scena del prato dei Becchi, ma con nuovi particolari, reazioni, messaggi, legati alle stagioni della vita che, non il Giovannino dei nove anni ma il Don Bosco nel pieno sviluppo della sua missione, sta vivendo.

In un’altra occasione, molti anni dopo, fu Don Bosco stesso a raccontarlo a don Barberis nell’anno 1875, quando aveva già sessant’anni. In quel tempo don Bosco aveva assistito alla nascita della Congregazione Salesiana (18 dicembre 1859), dell’Arciconfraternita di Maria Ausiliatrice (18 aprile 1869), dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (5 agosto 1872) e della Pia Società dei Cooperatori Salesiani – secondo il nome originario dato da Don Bosco – approvata il 9 maggio 1876.

Quando questo sogno si presenta l’ultima volta Don Bosco è, come ho già detto, un uomo maturo: ha sperimentato tante situazioni, ha affrontato e superato numerose difficoltà, ha constatato di persona cosa la Grazia e l’Amore della Vergine Maria hanno operato nei suoi ragazzi; ha visto tanti miracoli della Provvidenza e ha sofferto non poco. «“Un giorno tutto comprenderai” gli aveva profetato il primo sogno; e nel 1887 alla Messa di consacrazione del tempio al Sacro Cuore in Roma, sentì riecheggiare al suo orecchio quella voce e pianse di gioia, pianse contemplando gli effetti mirabili della sua fede invitta»[8].

2. UN SOGNO A CUI TUTTI I RETTORI MAGGIORI HANNO FATTO RIFERIMENTO
Sono particolarmente colpito dal fatto che tutti i Rettori Maggiori, ad eccezione di don Rua da chi non sono riuscito a trovare alcuna citazione, hanno fatto riferimento al sogno, a questo sogno di Don Bosco che ha segnato la nostra Congregazione e la Famiglia Salesiana. Mi avvalgo in questo momento di un magnifico lavoro di ricerca svolto dal signor Marco Bay[9].

Don Paolo Albera, secondo successore di Don Bosco, riferendosi all’Oratorio di Valdocco come all’Oratorio di Don Bosco, opera prima e per molti anni unica, si riferisce al sogno come al sogno misterioso in cui la Provvidenza gli affida la missione:

«L’Opera prima, anzi per molti anni unica, di D. Bosco è stato l’Oratorio festivo, il suo Oratorio festivo, quale egli lo aveva già intraveduto nel misterioso sogno fatto a nove anni e nei susseguenti che progressivamente gli illustrarono la mente circa l’Opera della Provvidenza affidatagli»[10].

Don Filippo Rinaldi, terzo successore di Bosco, è colui che ha l’opportunità di vivere il primo centenario di questo sogno e cerca di fare in modo che tutta la Congregazione sia impregnata della grazia di vivere questo evento. Per questo incoraggia nel modo seguente:

«Nella mia circolare sul Giubileo delle nostre Costituzioni vi ho già accennato, miei cari figli, alla ricorrenza del centenario del primo sogno di Don Bosco, invitandovi a meditare questo sogno e a praticarlo (…) Rileggiamo assieme, o miei carissimi, la pagina scritta dal Ven. Padre per nostro ammaestramento, in obbedienza al Vicario di Gesù Cristo; sì, rileggiamola con grande venerazione, e fissiamocela in mente parola per parola, questa pagina che ci descrive evangelicamente l’origine soprannaturale, la natura intima e la forma specifica della nostra vocazione. Più si legge e più diventa nuova e luminosa»[11].

E in questo stesso scritto lascia intendere ai confratelli che, come con il sogno dei nove anni Don Bosco fu chiamato a una missione, così anche noi, sotto la guida della Vergine, siamo stati chiamati, con la benevole guida della Vergine stessa che ci prende per mano, ci mostra il nostro campo d’azione e ci stimola in mille modi ad acquisire i doni dell’umiltà, della forza e della salute. Comprendiamo perfettamente come sia applicato a noi il perentorio invito di essere forti, umili e robusti. Invito che la Signora del sogno consegnò a Giovannino Bosco.

«Anche noi abbiamo avuto l’ordine di acquistare i mezzi necessari a mettere in pratica questo metodo, cioè l’obbedienza e la scienza, sotto la guida della Vergine; il che abbiamo fatto (o stiamo facendo) negli anni della nostra formazione religiosa e sacerdotale. Durante tutti questi anni felici la Vergine SS. prese anche noi con bontà per mano e, additandoci il futuro campo della nostra azione, ci stimolò in tutti i modi all’acquisto dell’umiltà, della fortezza e della salute, che sono le qualità strettamente necessarie per ogni vero figlio di Don Bosco. Anche a noi infine sarà dato vedere moltitudini di giovani, prima ignoranti affatto delle cose di Dio, e forse già vittime infelici del male, correre illuminati, risanati e gioiosi a far festa a Gesù e a Maria SS. Ausiliatrice»[12].

E, quasi come incoraggiamento a celebrare questo bicentenario in modo grande e significativo, riprendo il Bollettino Salesiano dei tempi di don Rinaldi, che racconta la celebrazione a Roma avvenuta alla sua presenza:

«Per un sogno – scriveva il Corriere d’Italia il 2 maggio u.s. – per la bellezza ideale di un sogno – ieri nell’ampio cortile delle Opere di Don Bosco a Roma si sono ritrovate in folla migliaia di anime anelanti e plaudenti, e il Cardinale Cagliero, il venerando Missionario, e il Successore stesso di Don Bosco, Don Rinaldi, e il Ministro della P. I. Pietro Fedele, a rendere gli omaggi commossi di tutte le potenze dello spirito al Maestro incomparabile che, nell’umiltà luminosa della Fede, aveva seguito le vie raggianti di quel sogno sublime (…) Una corona viva di giovani, di fanciulli e di fanciulle, gli allievi di Don Bosco; una schiera folta di uomini d’ogni ceto – professionisti, insegnanti, soldati, sacerdoti – adunati tutti nel nome del soave Maestro».
«Cent’anni fa (un altro Anno Santo, perché dimenticare?) Don Bosco fanciullo sognava il sogno dolce e misterioso; vedeva, prima, un gruppo di ragazzi della strada che rissavano fra loro bestemmiando ed imprecando; e tentava di richiamarli all’ordine con il bastone; vedeva, poi, una Signora e un Signore che lo conducevano presso un altro gruppo, di bestie, questa volta, di cani e di gatti che rissavano anch’essi, latrando e ghignando – ma che ad un cenno arcano dei Due si tramutavano in gregge di pacifici agnelli».
«Dopo cent’anni, quel sogno è una realtà – splendida, palpitante, grandiosa; – è una storia mirifica che impegna già il destino di milioni di creature, nelle Scuole, nelle Missioni, nella vita, nella preghiera, nella speranza; tutte le creature che hanno salutato e salutano Don Bosco il più grande e il più santo maestro di vita che la Chiesa e l’Italia abbiano dato al mondo nel secolo nostro»[13].

E Don Pietro Ricaldone, quarto successore di Don Bosco, vede il germe dell’Oratorio festivo e di tutta l’Opera salesiana nel sogno che Giovannino fece all’età di nove anni. Seguiranno molte altre tappe, dice don Ricaldone, molte stazioni di un pellegrinaggio, prima di arrivare a Pinardi, nella sua terra.

«Non v’ha dubbio che il primo germe dell’Oratorio festivo e di tutta l’Opera Salesiana noi dobbiamo rintracciarlo, come dissi or ora, nel fatidico sogno che Giovannino ebbe all’età di nove anni. Fin d’allora la Donna di maestoso aspetto disse al pastorello dei Becchi: “Ecco il tuo campo: renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei”.
I Becchi, Moncucco, Castelnuovo, Chieri, sono altrettante tappe: ma Giovannino Bosco è appena sulla sua via; egli cammina verso una mèta ulteriore. L’8 dicembre 1841 è, più che un punto d’arrivo, un altro punto di partenza. Nuovi pellegrinaggi egli deve compiere prima di arrivare alla tettoia Pinardi, a Valdocco, alla sua terra promessa. Per tornare alla prima immagine, la tenera pianticella ha trovato alfine la terra propria; da oggi in poi noi la vedremo irrobustirsi e ingigantire oltre ogni umana previsione»[14].

Don Ricaldone ritiene addirittura che anche l’amore e lo zelo di Don Bosco per le vocazioni abbiano origine dal sogno dei nove anni:

«L’amore e lo zelo di Don Bosco per le vocazioni ha la sua prima origine nel fatidico sogno che egli ebbe all’età di nove anni, riprodottosi in diversi modi sostanzialmente uniformi per lo spazio di quasi vent’anni (…) Infatti dopo quel sogno, si accrebbe in Giovanni il desiderio di studiare per diventar sacerdote e consacrarsi alla salvezza dei giovani»[15].

Don Renato Ziggiotti, quinto successore di Bosco, sottolinea, in modo del tutto particolare, il grande dono che la Maestra è stata per Don Bosco. Infatti, è il Signore che fa il dono della propria Madre a Giovannino, soprattutto come guida. Così si esprime:

«“Io ti darò la Maestra, sotto la cui disciplina puoi diventare sapiente e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza” è la parola fatidica del primo sogno, pronunciata dal personaggio misterioso, “il Figlio di Colei che tua madre ti ammaestro di salutare tre volte al giorno”. È dunque Gesù che dona a Don Bosco la Madre sua come Maestra e guida infallibile nel duro cammino dell’intera sua vita. Come ringraziare abbastanza di questo dono straordinario che fu fatto dal Cielo alla nostra Famiglia?»[16].

E lei, la Madre, la Madonna, la Signora del sogno sarà tutto per don Bosco. Questa certezza era molto forte e totalizzante in Don Ziggiotti ed è ciò che lo portava a chiedere ad ogni salesiano:

«La Madonna, a cui fu consacrato dalla mamma sul nascere, che illuminò l’avvenire suo nel sogno dei nove anni e poi tornò a confortarlo e consigliarlo, sotto mille forme, nei sogni, nello spirito profetico, nella visione interiore dello stato delle anime, nei miracoli e grazie senza numero, che operò invocandola; la Madonna è tutto per Don Bosco; e il Salesiano che vuole acquistare lo spirito del Fondatore deve imitarlo in questa devozione»[17].

E Don Luigi Ricceri, sesto successore di Don Bosco ha delle magnifiche espressioni sul significato del sogno dei nove anni. Don Ricceri sottolinea quanto questo sogno sia stato importante per Don Bosco al punto da rimanere impresso nel suo cuore e nella sua mente per sempre, e come attraverso questo, si sia sentito chiamato da Dio:

«Il sogno dei nove anni. È il sogno — scrive Don Bosco nelle sue “Memorie” — che “mi rimase impresso nella mente per tutta la vita” (MO, 20).
L’impressione incancellabile di questo sogno-visione è dovuta al fatto che è stato come una luce improvvisa che chiariva il senso della sua giovane esistenza e ne tracciava il cammino. Come il piccolo Samuele, Don Bosco si sente chiamato e mandato da Dio in vista di una missione: salvare i giovani di tutti i luoghi, di tutti i tempi: quelli dei paesi cristiani e la «moltitudine» di quelli che nelle regioni non cristiane vivono ancora l’attesa del grande avvento del Signore»[18].

È questo il sogno, racconta Don Ricceri, in cui Don Bosco, ancora senza piena lucidità a causa della sua giovane età, intuisce il grande valore del vivere per salvare le anime, e questa convinzione prende forma nella sua vita, nella sua mente, nel suo spirito, sempre più come dono di grazia. Ed è attraverso questo evento decisivo della sua vita che Don Bosco ebbe la prima grande intuizione di ciò che il sistema preventivo sarebbe stato in futuro. «Non colle percosse, ma con la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici», scrive Don Bosco nella narrazione dell’evento, sentendolo dalle labbra della Signora. Tanto che in futuro si potrà parlare di un rapporto prezioso tra Don Bosco e la Madre del Signore. Così si esprime magnificamente don Ricceri:

«A partire da questo sogno si stringe tra Don Bosco e la Madre di Gesù quel rapporto a due, quella collaborazione permanente, che caratterizza la vita del futuro apostolo»[19].

Don Egidio Viganò, settimo successore di Don Bosco ci offre altre riflessioni non meno stimolanti. Sono felice di vedere questa magnifica linea di continuità di tutti i rettori maggiori nel leggere, meditare e interpretare il sogno per eccellenza, ricavandone spunti utili anche per il momento attuale. Don Viganò conferma, come altri successori di Don Bosco prima di lui, che Maria è la vera ispiratrice, Maestra e guida della vocazione di Giovanni, del nostro Padre Don Bosco.

«Mi pare di particolare interesse fare osservare che già ai nove anni, nel famoso sogno (che si ripeterà più volte e a cui Don Bosco annette particolare incidenza nella sua vita) Maria si affaccia alla sua coscienza di fede come un personaggio importante interessato direttamente a un progetto di missione per la sua vita; è una Signora che dimostra particolari preoccupazioni “pastorali” verso la gioventù: gli si è presentata, infatti, “a foggia di Pastorella”. Notiamo subito, qui, che non è Giovannino a scegliere Maria, ma che è proprio Maria che si presenta con l’iniziativa della scelta: Essa, su richiesta del suo Figlio, sarà l’Ispiratrice e la Maestra della sua vocazione»[20].

La meravigliosa esperienza vissuta da Giovanni gli ha consentito di stringere una relazione molto personale con Maria – la Signora del sogno – ed è per questa ragione che Don Bosco sperimenterà intimamente, lungo l’intero corso della vita e per più volte, l’affetto molto speciale e grande da parte di Maria. Si tratta di una relazione davvero particolare con la Vergine Maria.

E anche Don Juan Edmundo Vecchi, ottavo successore di don Bosco, nota che, convinto come era Don Bosco di essere stato mandato ai giovani, tutto deve essere concentrato a quell’unico sacro scopo, i giovani, e a loro deve dedicare tutte le proprie energie. Tale è il filo del racconto che Don Bosco fa della sua vita nelle Memorie dell’Oratorio a partire dal primo sogno: «Il Signore mi ha mandato per i giovani, perciò bisogna che mi risparmi nelle altre cose estranee e conservi la mia salute per loro»[21], sempre convinto di essere uno strumento del Signore e che tutta la sua vita sia segnata da questa chiamata e missione in mezzo ai giovani. Lo conferma un altro grande esperto di Don Bosco: «La fede di essere strumento del Signore per una missione singolarissima fu in Lui profonda e salda. Ciò fondava in Lui l’atteggiamento religioso caratteristico del servo biblico, del profeta che non può sottrarsi al volere divino»[22].

Infine, Don Pascual Chávez, nono successore di don Bosco, tra una grande quantità di testi, ce ne offre uno che mi commuove. È un inno alla figura materna di mamma Margherita, che con la grazia di Dio, ha saputo accompagnare Giovannino interpretando e intuendo come, nel sogno dei nove anni, il Signore e la Vergine Maria stessero chiamando suo figlio a una vocazione molto speciale. Si potrebbe parlare, afferma don Pascual, di mamma Margherita come di una vera educatrice “salesiana”.

«È stata quest’arte educativa a permettere a Mamma Margherita di individuare le energie nascoste nei suoi figli, portarle alla luce, svilupparle e consegnarle quasi visibilmente nelle loro mani. Ciò va detto soprattutto nei riguardi del suo frutto più ricco: Giovanni. Quanto è impressionante notare in Mamma Margherita questo cosciente e chiaro senso di “responsabilità materna” nel seguire cristianamente e da vicino il proprio figlio, pur lasciandolo nella sua autonomia vocazionale, ma accompagnandolo ininterrottamente in tutte le tappe della sua vita fino alla propria morte!
Il sogno che Giovannino fece a nove anni, se fu rivelatore per lui, lo fu certamente anche (se non prima) per Mamma Margherita; è stata lei ad avere e a manifestare l’interpretazione: “Chissà che tu non abbia a diventar prete!”. E qualche anno dopo, quando comprese che l’ambiente di casa era negativo per Giovanni a causa dell’ostilità del fratellastro Antonio, ella fece il sacrificio di mandarlo a fare il garzone di campagna nella cascina Moglia di Moncucco. Una mamma che si priva del giovanissimo figlio per mandarlo a lavorare la terra lontano da casa, fa un vero sacrificio, ma ella lo fece, oltre che per eliminare un dissidio familiare, per indirizzare Giovanni su quella strada che le (e gli) aveva rivelato il sogno (…) La divina Provvidenza le fece la grazia di essere un’educatrice “salesiana”»[23].

3. IL SOGNO PROFETICO: un gioiello prezioso nel carisma della Famiglia di Don Bosco
Nei punti precedenti abbiamo letto come Don Filippo Rinaldi invitasse i confratelli, e certamente in quel momento le Figlie di Maria Ausiliatrice, i Salesiani Cooperatori, i Devoti di Maria Ausiliatrice e immagino anche gli Exallievi, a leggere il sogno, ad approfondirlo, a interiorizzarlo e a sentirne l’eco, nel cuore. Non ho dubbi al riguardo. Certamente c’è unanimità in tutti gli scritti – siano essi ricerche storiche, studi storico-critici, riflessioni sulla spiritualità salesiana o letture educativo-pastorali – nel riconoscere che questo sogno è molto più di un semplice sogno. Contiene, infatti, così tanti elementi carismatici che oso definirlo un gioiello prezioso del nostro carisma e una vera e propria “road map” per la Famiglia di Don Bosco.

Si potrebbe davvero dire che in esso non manca nulla e non c’è nulla di superfluo. È a questo che ora voglio riferirmi.

Guardando al sogno
Dove guardare in questo momento? Innanzitutto, al sogno stesso, poiché contiene una sorprendente ricchezza carismatica. Come ho già detto, non c’è una parola di troppo e certamente non manca nulla. È più che evidente lo sforzo che Don Bosco ha fatto nello scriverlo per trasmetterci il fatto che non si tratta solo di “un” sogno, ma che dobbiamo vederlo come “il” sogno che avrebbe segnato tutta la sua vita – anche se allora, da bambino, non poteva immaginarlo. Infatti, «Don Bosco quasi sessantenne – si sentiva ormai anziano e lo era per l’epoca – dovette porsi il problema di dare una fondazione storico-spirituale alla sua Congregazione, con il ricordarne le origini provvidenziali che la giustificavano. Che cosa di meglio che “narrare” ai suoi figli come la culla della “Congregazione degli Oratori” nella sua genesi, sviluppo, finalità e metodo, fosse un’istituzione voluta da Dio come strumento per la salvezza della gioventù nei tempi nuovi?»[24]. Infatti, le Memorie dell’Oratorio, in cui Don Bosco narra il sogno, non sono altro che il sogno dispiegato nella sua storia di vita, nell’Oratorio e nella Congregazione. Per questo egli dice anche nell’introduzione al suo manoscritto:

«Mi fo qui ad esporre le cose minute confidenziali che possono servire di lume o tornare di utilità a quella istituzione che la divina provvidenza si degnò di affidare alla Società di S. Francesco di Sales»[25]. E «A che dunque potrà servire questo lavoro? Servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre, e le leggeranno assai più volentieri quando, chiamato da Dio a rendere conto delle mie azioni, non sarò più tra loro»[26].

La narrazione delle Memorie dell’Oratorio (e del sogno dei nove anni che ne fa parte) è stata di tale importanza da coinvolgere nel suo studio, per tutta la vita, significativi esperti salesiani, cogliendo negli anni diverse prospettive. Un esempio ricco e degno di nota è costituito, ad esempio dalle varie sottolineature che il grande studioso di pedagogia salesiana, don Pietro Braido, ha svolto nel corso di diversi decenni. Si tratterebbe di «una storia edificante lasciata da un fondatore ai membri della Società di apostoli e di educatori, che dovevano perpetuarne l’opera e lo stile, seguendone le direttive, gli orientamenti e le lezioni» (1965); o «una storia dell’oratorio più “teologica” e pedagogica che reale, forse il documento “teorico” di animazione più lungamente meditato e voluto da don Bosco» (1989); «forse il libro più ricco di contenuti e di orientamenti preventivi» che don Bosco abbia scritto: “un manuale di pedagogia e di spiritualità “raccontata”, in chiara prospettiva oratoriana” (1999); o anche uno scritto in cui “la parabola e il messaggio” vengono prima e “al di sopra della storia”, per illustrare l’azione di Dio nelle vicende umane, e così, rallegrando e ricreando, “confortare e confermare i discepoli” in chiara prospettiva “oratoriana” (1999).[27]

Una delle pietre preziose di questo gioiello, a cui mi riferisco, è quella che consente a noi che entriamo nel sogno con cuore salesiano, qualunque sia il nostro cammino cristiano-salesiano o nella Famiglia di Don Bosco, di essere interpellati nel nostro cuore: siamo pronti ad imparare, siamo disposti a lasciarci sorprendere da Dio che accompagna la nostra vita, così come ha guidato la vita di Don Bosco, e a sentirci figli e figlie davanti a quella immensa paternità che emana dalla figura del nostro padre? Perché:

Se non si diventa CREDENTI e se non si è convinti che Dio opera nella storia, nella storia di Don Bosco e nella storia personale di ciascuno, si capirà poco o nulla delle Memorie dell’Oratorio e del sogno, e tutto questo sarà solo una “bella storia”.
Se non si diventa FIGLIo FIGLIE, non si riuscirà a sintonizzarsi con la paternità che don Bosco intende comunicare attraverso le Memorie dell’Oratorio.
Se non si diventa DISCEPOLI, disposti a imparare, non si entra veramente nello spirito delle Memorie dell’Oratorio e del sogno.

Mi sembra che queste tre disposizioni iniziali (fede, figliolanza e discepolato) siano “chiavi essenziali” per comprendere e assumere, per noi stessi, ciò che Don Bosco ha narrato e ci ha lasciato come eredità spirituale. Ciò che è avvenuto nella sua vita, e l’ha segnato e illuminato per sempre, don Bosco ha voluto che fosse un’eredità che aiutasse profondamente i suoi Salesiani e tutti noi che, per grazia, ci sentiamo e facciamo parte della sua Famiglia.

I giovani, protagonisti del sogno…
Fin dal primo momento del sogno, la “missione oratoriana” affidata a Giovannino Bosco è evidente, anche se egli non sa bene come svolgerla o come esprimerla. Come possiamo vedere, la scena è piena di ragazzi, ragazzi che sono assolutamente reali nel sogno di Giovannino.

Pertanto, mi sembra possibile affermare che i giovani sono i protagonisti centrali del sogno, e che, anche se non pronunciano una parola, tutto ruota intorno a loro. Inoltre, gli stessi personaggi “celesti” e lo stesso Giovannino Bosco sono lì grazie a loro e per loro. L’intero sogno, dunque, è loro e per loro: per i ragazzi. Se escludessimo i giovani da questo sogno, non rimarrebbe nulla di significativo per la nostra missione.

Ma quello che è interessante è che essi non sono come una fotografia che fissa un’immagine in un istante. Questi ragazzi sono in perenne movimento e azione: sia quando sono aggressivi (come lupi) e quando non riescono a sopportarsi, sia quando, trasformati nel modo che la Signora del sogno chiede a Giovannino, diventeranno (come agnelli) ragazzi sereni, amichevoli e cordiali. La cosa più importante che accade nel sogno e che Don Bosco stesso impara e, successivamente, tutti i suoi seguaci, è scoprire che il processo di trasformazione è sempre possibile. Si tratta di un movimento – permettetemi di dire – “pasquale” di conversione e di trasformazione, di lupi in agnelli e degli agnelli in una – diremmo nel linguaggio di oggi – comunità giovanile che celebra Gesù e Maria. Mi sembra certamente un elemento essenziale e centrale del sogno.

…dove c’è una chiara chiamata vocazionale
«Ecco il tuo campo: renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo per i figli miei»[28]. Ciò che accade nel sogno è soprattutto una chiamata, un invito, una vocazione, che sembra impossibile, irraggiungibile. Giovannino Bosco si sveglia stanco, ha persino pianto; e quando la chiamata viene da Dio (il personaggio di maestoso aspetto nel sogno è Gesù), la direzione che tale chiamata può prendere è imprevedibile e sconcertante.

Questo richiamo è qualcosa di molto speciale nel sogno, è di una ricchezza unica. Dico questo perché sembrerebbe che, a causa dell’età, del suo essere senza padre, della quasi totale mancanza di risorse, della povertà, dei problemi interni alla famiglia, dei litigi con il fratellastro Antonio, delle difficoltà di accesso alla scuola a causa della distanza e della necessità di lavorare nei campi, per Giovanni non ci sia un futuro possibile se non quello di rimanere lì, a coltivare i campi e a badare agli animali. Anche a noi potrebbe apparire un sogno irrealizzabile, lontano, forse destinato a qualcun altro, ma non a lui. È la stessa interpretazione che del sogno danno anche i familiari di Giovannino, come confermano le parole della nonna: «Non bisogna badare ai sogni»[29].

Tuttavia, è proprio questa situazione difficile che rende Don Bosco (in questo momento Giovannino) molto umano, bisognoso di aiuto, ma anche forte ed entusiasta. La sua forza di volontà, il carattere, la tempra, la forza d’animo e la determinazione di sua madre, Mamma Margherita, una profonda fede sia da parte di sua madre che di Giovanni stesso, rendono tutto ciò possibile. Il sogno sarà sempre lì, ma lui lo scoprirà attraverso la vita: l’ho capito come, a poco a poco, tutto si è avverato… Non c’è magia, non è un sogno “fatato”, non c’è predestinazione, ma una vita piena di significato, di richieste, di sacrifici, ma anche di fede e di speranza che ci spinge a scoprirla e a viverla ogni giorno.

Nel sogno appare un uomo molto rispettabile, di aspetto virile, che parla a Giovanni, lo interroga, lo mette nelle mani di sua Madre, la Signora. C’è sicuramente un invio in missione. Una missione di pastore-educatore in cui è indicato anche un metodo: la mitezza e la carità. Ecco un esempio della sua risposta vocazionale:

«Giovanni, fedele fin dalla più tenera età all’ispirazione divina, incomincia a lavorare nel campo assegnatogli dalla Provvidenza. Ancor non ha compiuto i dieci anni ed è già apostolo tra i suoi conterranei della borgata di Murialdo. Non è esso forse un Oratorio Festivo, sia pure in embrione, in abbozzo, quello che nel 1825 il piccolo Giovanni inizia, servendosi dei mezzi compatibili con la sua età e con la sua istruzione?
Dotato di memoria prodigiosa, amante dei libri, assiduo alle prediche, egli di tutto fa tesoro, istruzioni, fatti, esempi, per ripeterli al suo piccolo uditorio, instillando con mirabile efficacia l’amore alla virtù in quanti accorrono ad ammirarne l’abilità dei giochi e a udirne l’infantile ma calda parola»[30].

E lei, Maria, segnerà per sempre il sogno di Giovannino e la vita di Don Bosco
Arriviamo al momento centrale del sogno: la mediazione materna della Signora (legata al mistero del nome). Per Giovanni Bosco, sua madre e la Madre di colui che saluta tre volte al giorno, sarà un luogo di umanità in cui riposare, in cui trovare sicurezza e rifugio nei momenti più difficili.

«Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza». È lei, infatti, che gli indica sia il campo dove dovrà lavorare sia la metodologia da utilizzare: «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto». Maria è fin dall’inizio interpellata per la nascita di un nuovo carisma, in quanto è esattamente la sua specialità quella di portare in grembo e dare alla luce: per questo quando si tratta di un Fondatore, che deve ricevere dallo Spirito Santo la luce originaria del carisma, il Signore dispone che sia la sua stessa madre, Vergine della Pentecoste e modello immacolato della Chiesa, a fargli da Maestra. Lei sola, la “piena di grazia”, comprende infatti dal di dentro tutti i carismi, come una persona che conosca tutte le lingue e le parli come fossero la propria[31]. È come se il Signore del sogno dicesse al giovanissimo Giovanni Bosco: «D’ora in poi, vai d’accordo con lei».

«Notiamo subito, qui, che non è Giovannino a scegliere Maria, ma che è proprio Maria che si presenta con l’iniziativa della scelta: Essa, su richiesta del suo Figlio, sarà l’Ispiratrice e la Maestra della sua vocazione»[32].

Questa dimensione femminile-materna-mariana è forse una delle dimensioni più impegnative del sogno. Quando guardiamo a questa realtà con serenità, questo aspetto si trasforma in qualcosa di bello. È Gesù stesso che gli dà una maestra, che è sua Madre, e che «il suo nome deve chiederlo a Lei»; Giovannino deve lavorare “con i suoi figli”, e sarà “Lei” che si occuperà della continuità del sogno nella vita, che lo prenderà per mano fino alla fine dei suoi giorni, fino al momento in cui capirà veramente tutto.

C’è un’enorme intenzionalità nel voler dire che, nel carisma salesiano a favore dei ragazzi più poveri, deprivati e privi di affetti, la dimensione del trattare con “dolcezza”, con mitezza e carità, così come la dimensione “mariana”, sono elementi imprescindibili per chi vuole vivere questo carisma. La Madonna ha a che fare con la formazione alla “sapienza del carisma”. Ed è per questo che è difficile capire che nel carisma salesiano ci sia qualcuno (persona, gruppo o istituzione) che lasci in secondo piano la presenza mariana. Senza Maria di Nazareth parleremmo di un altro carisma, non del carisma salesiano, né dei figli e delle figlie di Don Bosco. Don Ziggiotti lo dice in modo meraviglioso, in questa ricerca che abbiamo fatto sui commenti dei maggiori rettori sul sogno:

«Vorrei far persuasi tutti i Salesiani di questo fatto importantissimo, che illumina di luce celeste tutta l’esistenza del Santo e dà quindi un valore indiscutibile a tutto ciò che Egli fece e disse nella sua vita: la Madonna, a cui fu consacrato dalla Mamma sul nascere, che illuminò l’avvenire suo nel sogno dei nove anni e poi tornò a confortarlo e consigliarlo, sotto mille forme, nei sogni, nello spirito profetico, nella visione interiore dello stato delle anime, nei miracoli e grazie senza numero, che operò invocandola; la Madonna è tutto per Don Bosco; e il Salesiano che vuole acquistare lo spirito del Fondatore deve imitarlo in questa devozione»[33].

Docile allo Spirito, confidando nella Provvidenza
Certamente c’è molto da imparare. Diventare umili, forti e robusti significa prepararsi a ciò che ci aspetta. Giovanni Bosco dovrà essere obbediente, docile alla saggezza del Maestro. Dovrà imparare a vedere e scoprire i processi di trasformazione; capire che l’itinerario, il percorso fatto con questi ragazzi porta alla vita, e all’incontro con il Signore del sogno e con sua madre, porta a Gesù e a Maria. Giovanni Bosco ha scoperto tutto questo.

La posta in gioco è l’obbedienza a Dio, la docilità allo Spirito. Come Maria è colei che “lascia che le cose accadano”, che lascia che ciò che Dio ha pensato e sognato avvenga in lei, fino a proclamare quel “fiat” a Dio, che il Signore ha fatto grandi cose in me, così anche il salesiano, la figlia di Maria Ausiliatrice, ogni cooperatore salesiano, ogni devoto di Maria Ausiliatrice, ogni membro della nostra Famiglia Salesiana, che è la Famiglia di Don Bosco, dovrà imparare e fare proprio questo stile di docilità allo Spirito. Aggiungo che vorrei che questo stile diventasse carne e vita in tutte le fasi della formazione iniziale e permanente in ogni gruppo, congregazione e istituzione salesiana. E non dimentichiamo che i “formatori”, i “formandi”, dovrebbero essere, dovremmo essere i primi a “lasciarci formare” dallo Spirito, come Maria.

Il sogno offre, come nessun altro elemento, come nessun’altra realtà, quelli che credo si possano definire indizi “inalienabili” del DNA del carisma. Sono questi indizi o “principi” che possono aiutarci a leggere, discernere e agire in sintonia con la fedeltà creativa.

E non dimentichiamo che questo è un compito comunitario, dobbiamo svolgerlo insieme, “sinodalmente” – potremmo dire oggi in linea con i recenti lavori sinodali – come Famiglia Salesiana.

Accompagnare Don Bosco nella riflessione sul suo sogno dei nove anni è anche sottolineare il suo abbandono alla Provvidenza, per collocarci, come lui, nel «a suo tempo tutto comprenderai». Lo stesso sogno era per Don Bosco un’azione della Provvidenza. Questa è la convinzione radicale, la scelta fondamentale della vita, “l’essenza dell’anima di Don Bosco”, il punto centrale, la parte più profonda e intima di lui. Non c’è dubbio che l’abbandono alla Divina Provvidenza, come aveva imparato dalla madre, è stato decisivo per il nostro padre e deve essere per noi la garanzia della continuità della spiritualità salesiana. È l’abbandono a Dio, la fiducia in Dio, perché il Dio che Don Bosco ha imparato ad amare è un Dio affidabile. Egli agisce realmente nella storia, e lo ha fatto nella storia dell’Oratorio, al punto che Don Bosco arrivò a dire ai direttori salesiani il 2 febbraio 1876:

«Le altre Congregazioni e Ordini religiosi ebbero nei loro inizii qualche ispirazione, qualche visione, qualche fatto soprannaturale, che diede la spinta alla fondazione e ne assicurò lo stabilimento; ma per lo più la cosa si fermò ad uno o a pochi di questi fatti. Invece qui tra noi la cosa procede ben diversamente. Si può dire che non vi sia cosa che non sia stata conosciuta prima. Non diede passo la Congregazione, senza che qualche fatto soprannaturale non lo consigliasse; non mutamento o perfezionamento, o ingrandimento che non sia stato preceduto da un ordine del Signore… Noi, per esempio, avremmo potuto scrivere tutte le cose che avvennero a noi prima che avvenissero e scriverle minutamente e con precisione»[34].

Però, «non con le percosse». L’arte della dolcezza e della pazienza educativa
Il sogno non ci parla solo di un passato, ma anche di un presente, di un oggi che è estremamente attuale. Il «non con le percosse» che la Madonna dice a Giovannino nel sogno ci interpella anche oggi, e rende più che mai necessario riflettere sul nostro modo salesiano di educare i giovani, perché il discorso dell’odio e della violenza continua ad aumentare. Il nostro mondo sta diventando sempre più violento e noi, educatori ed evangelizzatori dei giovani, dobbiamo essere un’alternativa a ciò che tanto angosciava Giovannino nel suo sogno e che tanto ci ferisce oggi. Come già una volta ha dichiarato il Rettor Maggiore don Pascual Chávez nella Strenna del 2012[35], senza dubbio dovremo “affrontare i lupi” che vogliono divorare il gregge: l’indifferentismo, il relativismo etico, il consumismo che distrugge il valore di cose ed esperienze, le false ideologie, e altro che veramente colpisce ed è vera violenza.

Credo che questo messaggio sia attuale oggi come lo era quando Giovannino (il nostro futuro Don Bosco, padre e maestro) lo ricevette.

Il «non con le percosse» è un “no assoluto”. È molto chiaro, ed è l’unica correzione – potremmo quasi dire rimprovero – che Giovanni Bosco riceve nel sogno. E prima di ogni altra cosa, è per noi una certezza, la grande certezza che la strada della forza e della violenza non porta nella giusta direzione del carisma. Le «percosse» del sogno possono assumere oggi mille forme; infatti, mi sono interessato a leggere, riflettere e specificare molte delle forme più o meno sottili di violenza che ci circondano e che devono essere bandite dal nostro orizzonte educativo pastorale e dal nostro universo carismatico.

«Non con le percosse» significa combattere consapevolmente, senza alcuna giustificazione, ogni tipo di violenza:

Violenza fisica che danneggia il corpo (spingere, calciare, schiaffeggiare, mettere alle strette o immobilizzare, lanciare oggetti).

Violenza psicologica e verbale che danneggia l’autostima. Quella violenza che insulta e squalifica, che isola, che monitora e controlla senza rispetto. Quella violenza e quell’abuso psicologico che fanno sì che alcune persone sentano di non dare mai abbastanza di sé; quella violenza che fa sì che le persone si considerino sempre diverse e sbagliate, addirittura immature per aver pensato ciò che si pensa onestamente; quella violenza e quell’abuso da parte di chi si interessa all’altro solo quando vuole trarne profitto.

Violenza affettivo-sessuale che lede il corpo, il cuore e gli affetti più intimi; che lascia segni indelebili di dolore e può manifestarsi verbalmente o per iscritto, con sguardi o segni che denotano oscenità, molestie, prepotenze e persino abusi.

Violenza economica per la quale il denaro che è tuo o che serve per fare del bene viene trattenuto, sottratto, rubato.

Violenza è anche cyber-violenza, “cyberbullismo” con molestie attuate attraverso internet, i siti web, i blog, con messaggi di testo o di posta elettronica, o video.

Violenza che nasce dall’esclusione sociale che vede persone, studenti, adolescenti esclusi, o umiliati pubblicamente, senza alcun rispetto.

Violenza caratterizzata da maltrattamenti, da verbi come minacciare, manipolare, svalutare, rifiutare, negare, mettere in discussione, umiliare, insultare, squalificare, deridere, mostrare indifferenza.

Non c’è dubbio che carismaticamente possediamo l’antidoto per queste situazioni che danneggiano la vita. Si tratta del genio pastorale di Don Bosco: «Ricordando, d’altra parte, che l’intervento di Maria nel primo sogno di Giovannino Bosco è stato quello che ha configurato inizialmente quel “genio apostolico” che ci caratterizza nella Chiesa, vi invito a concentrare insieme la nostra riflessione sul progetto che caratterizza la nostra genialità pastorale: il Sistema Preventivo»[36].

LEI, la Signora: Maestra e Madre
La Signora del sogno si presenta come Maestra e Madre. È la madre di entrambi: del maestoso Signore del sogno e di Giovannino stesso; una madre – permettetemi la parafrasi – che, prendendolo per mano, gli dice:

Guarda”: quanto è importante per noi saper guardare, e quanto è grave quando non riusciamo a “vedere” i giovani nella loro realtà, in ciò che sono; quando non riusciamo a vedere ciò che di più autentico c’è in loro, e ciò che di più tragico e doloroso è presente in loro e nella loro vita. “Guarda” è la prima parola che dice «la donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella».

Senza voler “interpretare” troppo un singolo verbo, mi pare ci sia un segnale “preventivo” di quello che sarà di fatto la strada che nostro padre dovrà seguire, fatta soprattutto di apprendimento esperienziale. Pensiamo quanto gli occhi contano nella vita di Don Bosco… È quello che vede, arrivato a Torino – o meglio che il Cafasso lo aiuta a vedere – che fa nascere la nostra missione. È da come vede ogni ragazzo (ricordiamo i primi incontri nelle biografie che scrive): lì c’è l’incipit che è come un miracolo a cui segue tutto il resto, sia per Savio, che per Magone, che per Cagliero, per Rua… C’è nel museo di Chieri una scultura che rappresenta gli occhi e gli sguardi di don Bosco, che era rimasta accanto al suo altare nel 1988. C’è qualcosa di unico nel suo sguardo e quel “guarda” detto dalla Signora non è meno originale e unico.

Proprio attorno al “guardare” è possibile trovare un esplicito riferimento ad una parola per noi così fondamentale come l’assistenza. E tutti sappiamo come è essenziale.

La mia attenzione però non si allontana molto dal prato dei sogni ai Becchi, perché di fatto, senza che Giovannino se ne accorga, si formerà attraverso l’esperienza: imparerà dalla vita, soprattutto nei momenti di estrema difficoltà e fatica.

Guarda porta la persona a decentrarsi, a cogliere qualcosa che va oltre il proprio orizzonte e supera la propria immaginazione e che diventa invito, sfida, provocazione, appello e guida. Perché chiede un coinvolgimento pieno e totale mediante il quale Giovanni si prodigherà a favore dei ragazzi. Da qui si coglie anche l’importanza dell’ambiente in tutta la pedagogia salesiana.

Non si toglie nulla all’indispensabile cura dell’interiorità e del silenzio. Siamo chiamati ad alzare lo sguardo, sia quando lo fissiamo sul mistero di Dio, sia quando passiamo accanto all’uomo che «scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti» (Lc 10,30). Ed è ciò che sempre ha caratterizzato la persona di Don Bosco, dall’infanzia alla fine della vita.

Impara”: diventare umili, forti e robusti, perché c’è bisogno di semplicità di fronte a tanta arroganza; di forza di fronte a tante cose che si devono affrontare nella vita; e di quella robustezza che è la resilienza, ovvero la capacità di non scoraggiarsi, di non “lasciarsi cadere le braccia” quando sembra di non essere in grado poter fare qualcosa.

È interessante notare che a rendere “mite” (umile forte robusto) Giovannino sono gli eventi (l’esperienza) che la Provvidenza (Maria) mette sul suo cammino. Ad esempio, quando qualche tempo dopo il sogno, nel febbraio 1828 (e aveva soltanto dodici anni) mamma Margherita è costretta ad allontanarlo da casa a causa dei contrasti con Antonio. Giovanni alla sera giunge alla cascina Moglia, dove è accolto più per pietà che per un reale bisogno – non è d’inverno che si cercavano garzoni. In ogni caso, la cascina è abbastanza lontana ma allo stesso tempo abbastanza vicina a Moncucco dove c’è uno dei migliori parroci che la diocesi di Torino avesse, don Francesco Cottino (di cui per ora la nostra letteratura salesiana dice ancora pochissimo). Con lui Giovanni si incontra ogni domenica. È il primo “a tu per tu”, il primo incontro con una vera guida per Giovanni. Così una stagione che poteva essere solo triste e buia diventa un’occasione importantissima per il suo cammino. Sappiamo poi che il 3 novembre 1829 lo zio Michele lo riporterà in famiglia, ai Becchi. E che il 5 novembre Giovanni incontrerà don Calosso di ritorno dalla missione di Buttigliera.

Ritengo perciò molto importante sottolineare con forza l’incredibile regia-accompagnamento della Provvidenza. Giovanni corrisponde ad essa coinvolgendosi liberamente. Tuttavia, eventi e persone che al momento giusto si susseguono, sono gli artefici di quell’«umile, forte e robusto» indispensabile per la missione che intanto in lui matura sempre più.

È quindi evidente un primato della Grazia, che vale anzitutto per noi se siamo in grado di lasciarci formare e che diventa così fecondo per la missione. Al punto che non ci sono più limiti o difficoltà tali da impedire la crescita verso quella pienezza della vita che è la santità, qualunque sia il contesto, anche il più sfidante.

Ovviamente tutto ciò non ci esonera dal mettere tutto l’impegno per migliorare le situazioni e superare le ingiustizie. Infatti, Don Bosco si “alleerà” con la Provvidenza senza limitare i propri sforzi, gli incontri, la stesura di contratti di lavoro per difendere e tutelare i giovani apprendisti ospiti del primo oratorio. Soprattutto Don Bosco non toglie loro il cielo! Indicando come ci sia sempre “un di più”, una meta più alta a cui tutti possono accedere.

Analoga lezione suggerita da Santa Madre Teresa di Calcutta con il suo “inutile” prodigarsi per i moribondi di Calcutta. Tra l’altro, su un cartellone da lei scritto a mano e appeso nella sua camera all’inizio della sua nuova vita per i più poveri dei poveri, aveva fissato nero su bianco queste parole: “Da mihi animas cetera tolle”.

“E siate pazienti”, cioè diamo tempo a tutto e lasciamo che Dio sia Dio.

4. UN SOGNO CHE FA SOGNARE
Cari membri della Famiglia Salesiana, non posso concludere il mio commento alla Strenna, senza esprimere per i giovani e per noi, i tanti sogni che porto nel cuore. Possono identificarsi nel desiderio di continuare a crescere nella fedeltà carismatica; o con l’anelito e la provocazione serena davanti a cambiamenti che si presentano per noi difficili, con resistenze che possono soffocare il fuoco vivo del nostro carisma. Oppure spinte che vogliono tradurre in realtà lo stesso sogno di Don Bosco, ma duecento anni dopo!

Li condivido con voi, nella speranza che chiunque mi legga, in qualsiasi parte del vasto mondo salesiano sia, possa sentire che qualcosa di ciò che è scritto qui, è destinato anche a lui o a lei. Questi mi paiono alcuni elementi concreti per l’attualizzazione del sogno dei nove anni:

Don Bosco ci ha mostrato nel corso della sua vita che solo le relazioni autentiche trasformano e salvano. Papa Francesco ci dice la stessa cosa: «Non basta dunque avere delle strutture se in esse non si sviluppano relazione autentiche; è la qualità di tali relazioni, infatti, che evangelizza»[37]. Per questo esprimo il desiderio che ogni casa della nostra Famiglia salesiana nel mondo sia o diventi uno spazio veramente educativo, uno spazio di relazioni rispettose, uno spazio che aiuti a crescere in modo sano. In questo possiamo e dobbiamo fare la differenza, perché le relazioni autentiche sono all’origine del nostro carisma, all’origine dell’incontro con Bartolomeo Garelli, all’origine della vocazione stessa di Don Bosco.

Ogni scelta fatta da Don Bosco faceva parte di un progetto più grande: il progetto di Dio su di lui. Pertanto, nessuna scelta è stata superficiale o banale per Don Bosco. Il suo sogno non era un aneddoto della sua vita, o un semplice evento, ma una risposta vocazionale, una scelta, un percorso, un programma di vita che prendeva forma man mano che veniva vissuto. Sogno, quindi, che ogni salesiano, ogni membro della Famiglia di Don Bosco, senta, per vocazione e scelta, di essere a disagio e di sperimentare sulla propria pelle il dolore, la stanchezza e la fatica di tante famiglie e di tanti giovani che lottano ogni giorno per sopravvivere, o per vivere con un po’ più di dignità. E che nessuno di noi si riduca ad essere spettatore passivo o indifferente di fronte al dolore e all’angoscia di tanti giovani.

«Il sogno primordiale, il sogno creatore di Dio nostro Padre, precede e accompagna la vita di tutti i suoi figli»[38]. Il nostro Dio ha un sogno per ciascuno di noi, per ciascuno dei nostri giovani, un progetto pensato, “disegnato” per noi da Dio stesso. Il segreto della tanto desiderata felicità di ciascuno sarà proprio quello di scoprire la corrispondenza e l’incontro tra questi due sogni: il nostro e quello di Dio. E allora capire qual è il sogno di Dio per ciascuno di noi significa, innanzitutto, rendersi conto che il Signore ci ha dato la vita perché ci ama, al di là di quello che siamo, compresi i nostri limiti. Dobbiamo credere, allora, che il nostro Dio vuole fare grandi cose in ciascuno di noi! Siamo tutti preziosi, abbiamo un grande valore, perché, senza ognuno di noi, mancherà qualcosa al mondo e alla Chiesa. Infatti, ci saranno persone che solo io potrò amare, parole che solo io potrò dire, momenti che solo io potrò condividere.

E senza sogni non c’è vita. Per gli esseri umani, per tutti noi, sognare significa proiettarsi, avere un ideale, un senso nella vita. La peggiore povertà dei giovani è impedire loro di sognare, privarli dei propri sogni o imporre loro sogni inventati. Ognuno di noi è un sogno di Dio. È importante scoprire qual è il mio, quale sogno Dio ha per me. E dobbiamo cercare di svilupparlo, di realizzarlo, perché ne va della nostra felicità e di quella dei nostri fratelli e sorelle.
Ricordiamo come Don Bosco pianse di commozione e di gioia quando, quel 16 maggio 1887, “vide realizzato” il sogno che definiva la sua vita, la sua vocazione, la sua missione.

Dio fa grandi cose con “strumenti semplici” e ci parla in molti modi, anche nel profondo del cuore, attraverso i sentimenti che si muovono dentro di noi, attraverso la Parola di Dio accolta con fede, approfondita con pazienza, interiorizzata con amore, seguita con fiducia. Aiutiamo noi stessi e i nostri ragazzi, le ragazze e giovani ad ascoltare il proprio cuore, a decifrare i movimenti interiori, a dare voce a ciò che si agita dentro di loro e in noi, a riconoscere quali segni o “sogni” rivelano la voce di Dio e quali, invece, sono l’esito di scelte sbagliate.

«Le fatiche e fragilità dei giovani ci aiutano a essere migliori, le loro domande ci sfidano, i loro dubbi ci interpellano sulla qualità della nostra fede. Anche le loro critiche ci sono necessarie, perché non di rado attraverso di esse ascoltiamo la voce del Signore che ci chiede conversione del cuore e rinnovamento delle strutture»[39]. Un autentico educatore sa scoprire con intelligenza e pazienza ciò che ogni giovane porta dentro di sé, e come tale agirà con comprensione e affetto, cercando di farsi amare[40]. Sogno e desidero incontrare ogni giorno, in ogni casa salesiana del mondo salesiani e laici che credono nel miracolo che l’educazione e l’evangelizzazione salesiana hanno il potere di realizzare.

Vivere umanamente è “diventare”, è realizzarsi, è godere degli esiti frutto di pazienti processi con cui Dio opera e interviene nella nostra vita. Quanto desidero che la nostra passione educativa assomigli a quella di Don Bosco, “padre dell’amorevolezza salesiana”, affinché in tutte le nostre presenze nel mondo, i ragazzi e le ragazze possano incontrare non solo professionisti formati, ma veri educatori, fratelli, amici, padri e madri.

Don Bosco, “prete di strada” ante litteram, si è letteralmente consumato in questa impresa. I salesiani (e coloro che si ispirano a Don Bosco) sono sì “figli di un sognatore di futuro”, ma di un futuro che si costruisce nella fiducia in Dio e nel quotidiano immergersi e operare nella vita dei giovani, fra le fatiche e le incertezze di ogni giorno[41]. Ed è per questo che l’incontro con il Signore della Vita, aiutando ogni giovane a scoprire il proprio sogno, il sogno di Dio in ognuno, e sostenendolo nel suo cammino di realizzazione, è il dono più prezioso che possiamo offrire ai giovani. Quanto desidero che questo si realizzi in tutte le nostre case.

Mentre il cuore di Don Bosco batteva in ogni momento, noi, «convinti che ciascun giovane porta inscritto nel cuore il desiderio di Dio, siamo chiamati ad offrire occasioni di incontro con Gesù, fonte di vita e di gioia per ogni giovane»[42]. Don Bosco non poteva tollerare che nelle sue case i suoi figli e le sue figlie non proponessero ai ragazzi, alle ragazze, agli adolescenti e ai giovani – pur nella libertà con cui oggi educhiamo alla fede nei contesti più diversi – l’incontro con Gesù. Anche oggi siamo chiamati a farlo conoscere, a scoprire come Egli affascina ogni persona e aiutando i giovani di altre religioni ad essere buoni credenti a partire dalla propria fede e ideali. Sogno che questo diventi realtà in tutte le case salesiane del mondo.

«Dappertutto l’Opera Salesiana deve mirare ai giovani più poveri e bisognosi della Società, e deve usar con loro i mille mezzi che ispira la carità che previene. Don Bosco piangeva al vedere tanta gioventù crescere corrotta e miscredente; ed avrebbe voluto poter estendere le sue cure – vigilando, ammonendo, istruendo in una parola, prevenendo, – a tutti i giovani del mondo (…) Per questo nell’accettazione di nuove fondazioni dava la preferenza a quei luoghi dove la gioventù si guastava per l’abbandono»[43]. Sogno davvero di vedere un giorno l’intera Congregazione Salesiana con la stessa dedizione che Don Bosco ebbe verso i suoi ragazzi più poveri. Sogno di vedere ciascuno dei miei confratelli donare con gioia la propria vita a favore degli ultimi. In molti casi è già così. Sogno che ciascuna delle nostre case sia piena di quell’«odore di pecore» a cui Papa Francesco fa oggi riferimento per ogni chiamato ad una vocazione apostolica. E lo auguro anche a tutta la nostra Famiglia Salesiana: nessuno deve sentirsi escluso da questa chiamata.

«La vita di Giovanni prima dell’ordinazione presbiterale è davvero un capolavoro di itinerario per la vocazione»[44]. Dice Papa Francesco parlando ai giovani della vocazione: «Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Di conseguenza, dobbiamo pensare che ogni pastorale è vocazionale, ogni formazione è vocazionale e ogni spiritualità è vocazionale»[45]. Come ha sempre fatto Don Bosco, considero un dovere per noi aiutare ogni giovane, in ogni nostra proposta, a scoprire ciò che Dio si aspetta da lui, ad avere ideali che lo facciano “volare alto”, a dare il meglio di sé, a desiderare di vivere la vita come consegna e donazione.

Maria risplende per il suo essere madre e custode. Quando, giovanissima, ricevette l’annuncio dell’angelo, non si trattenne dal fare domande. Quando ha accettato e ha detto “sì”, ha puntato tutto, rischiando. Quando sua cugina ebbe bisogno di lei, mise da parte i suoi progetti e le sue necessità e partì, senza indugio. Quando il dolore di suo Figlio l’ha colpita, è stata la donna forte che lo ha sostenuto e accompagnato fino alla fine. Lei, che è Madre e Maestra, guarda il mondo dei giovani che la cercano, anche se lungo il cammino c’è tanto rumore e buio; parla nel silenzio e tiene accesa la luce della speranza[46]. Sogno davvero che nella fedeltà a Don Bosco faremo innamorare i nostri ragazzi, ragazze e giovani di quella Madre, non meno di lui, poiché «la Madonna è tutto per Don Bosco; e il Salesiano che vuole acquistare lo spirito del Fondatore deve imitarlo in questa devozione»[47].

5. DAL SOGNO DI NOVE ANNI ALL’ALTARE DEL PIANTO
Sono giunto alla fine di questo commento. Potrei aggiungere altro, ma ritengo che quanto ho scritto possa raggiungere il cuore di ciascuno. Già questo sarebbe un’ottima notizia.

Voglio semplicemente invitarvi a un minuto di interiorizzazione e contemplazione davanti a questo testo delle Memorie Biografiche che descrive in poche righe ciò che Don Bosco ha provato, versando copiose lacrime, davanti all’altare di Maria Ausiliatrice nella Basilica del Sacro Cuore di Gesù pochi giorni dopo la sua consacrazione.

In quei momenti Don Bosco vide e sentì le voci di sua madre Margherita, i commenti dei fratelli e della nonna che valutavano il sogno, mettendolo addirittura in discussione. Proprio lì, in quel momento, sessantadue anni dopo, capì tutto, proprio come la Maestra aveva preannunciato.

Questa narrazione mi commuove ogni volta ed è per questa ragione che vi invito a rileggerla e a meditarla personalmente. Ancora una volta.

«Non meno di 15 volte durante il divin sacrificio — annotano le Memorie Biografiche — si arrestò preso da forte commozione e versando lacrime. Viglietti, che lo assisteva, dovette di quando in quando distrarlo, affinché potesse andare avanti.
(Avendogli domandato) quale fosse stata la causa di tanta emozione, rispose: — Avevo dinanzi agli occhi viva la scena di quando sui dieci anni sognai della Congregazione. Vedevo proprio e udivo la mamma e i fratelli questionare sul sogno…
Allora la Madonna gli aveva detto: “A suo tempo tutto comprenderai”. Trascorsi ormai da quel giorno sessantadue anni di fatiche, di sacrifici, di lotte, ecco che un lampo improvviso gli aveva rivelato nell’erezione della chiesa del S. Cuore a Roma il coronamento della missione adombratagli misteriosamente sull’esordire della vita»[48].

Credo veramente che Maria Ausiliatrice continui ad essere anche oggi una vera Madre e Maestra per tutta la nostra Famiglia. Sono convinto che le parole profetiche del primo sogno pronunciate dal Signore Gesù e da Maria continuano ad essere realtà in tutti i luoghi dove il carisma del nostro Padre, dono dello Spirito, ha messo radici. E sono certo che in ogni casa, al di là delle nostre fatiche e dei nostri sforzi, si può applicare ciò che Don Bosco diceva del Santuario di Valdocco:

«Ogni mattone è una grazia di Maria Ausiliatrice; nulla abbiamo fatto senza il diretto intervento di Lei; Essa si è edificata la sua casa ed è una meraviglia agli occhi nostri».

Lei, Immacolata e Ausiliatrice, continui a guidarci tutti per mano. Amen.

Torino-Valdocco, 8 dicembre 2023

Don Ángel Card. Fernández Artime, S.D.B.
Rettor Maggiore


[1] F. Motto, Il sogno dei nove anni. Redazione, storia, criteri di lettura, in «Note di pastorale giovanile» 5 (2020), 6.

[2] P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. 1. Vita e opere, LAS, Roma 1979, 31s.

[3] P. Chávez V., Conoscendo e imitando Don Bosco, facciamo dei giovani la missione della nostra vita, in ACG 412 (2012), 35-36.

[4] F. Motto, o.c.,6.

[5] G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, in Istituto Storico Salesiano, Fonti salesiane 1. Don Bosco e la sua opera, LAS, Roma 2014, 1176.

[6] Cfr. F. Rinaldi, Lettera circolare pubblicata su ACS Anno V – N. 26 (24 Ottobre 1924), 312-317.

[7] G. Bosco, Memorie dell’oratorio di san Francesco di Sales dal 1815 al 1855, in Istituto Storico Salesiano, (saggio introduttivo e note storiche a cura di A. da Silva Ferreira), “Fonti”, serie prima, 4, marzo 1991. Cfr. A. Bozzolo, Il sogno dei nove anni3.1 Struttura narrativa e movimento onirico in A. Bozzolo (a cura di), I sogni di Don Bosco. Esperienza spirituale e sapienza educativa, LAS-Roma, 2017, p. 235.

[8] R. Ziggiotti (a cura di Marco Bay), Tenaci, audaci e amorevoli. Lettere circolari ai salesiani di don Renato Ziggiotti, LAS, Roma 2015, 575.

[9] Il coadiutore salesiano Marco Bay è stato professore all’Università Pontificia Salesiana di Roma e attualmente è direttore dell’Archivio Centrale Salesiano di Roma (UPS). Egli ha generosamente messo nelle mie mani la ricerca che aveva svolto sui riferimenti che i precedenti Rettori Maggiori avevano fatto sul sogno dei nove anni.

Vorrei anche cogliere l’occasione per ringraziare don Luis Timossi, sdb, del Centro di Formazione Permanente di Quito, e don Silvio Roggia, sdb, direttore della comunità del Beato Ceferino Namuncurá di Roma, per le loro note e i loro suggerimenti.

[10] P. Albera, Direzione Generale delle Opere Salesiane, Lettere Circolari di don Paolo Albera ai salesiani, Torino 1965, 123; 315; 339.

[11] F. Rinaldi, Lettera circolare pubblicata su ACS Anno V – N. 26 (24 Ottobre 1924), 312-317.

[12] Ibidem.

[13] La commemorazione di un “sogno”, in BS Anno XLIX, 6 (Giugno 1925), 147.

[14] P. Ricaldone, Anno XVII. 24 Marzo 1936 N. 74.

[15] P. Ricaldone, o.c., N. 78.

[16] R. Ziggiotti, o.c., 129.

[17] R. Ziggiotti, o.c., 264.

[18] L. Ricceri, La parola del Rettor Maggiore. Conferenze, Omelie Buone notti, v. 9, Ispettoria Centrale Salesiana, Torino 1978, 27.

[19] Ibid, 28.

[20] E. Viganò, Lettere circolari di don Egidio Viganò ai salesiani, vol. 1, Roma, Direzione Generale Opere Don Bosco, 1996, 10.

[21] MB VII, 291. Citato in J. E. Vecchi, Educatori appassionati esperti e consacrati per i giovani. Lettere circolari ai Salesiani di don Juan E. Vecchi. Introduzione, parole chiave e indici a cura di Marco Bay, LAS, Roma 2013, 380.

[22] P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. Vol. II, p. 32. Citato in J. E. VECCHI, o.c., 381.

[23] P. Chávez Villanueva, Lettere circolari ai salesiani (2002-2014). Introduzione e indici a cura di Marco Bay. Presentazione di don Ángel Fernández Artime, Roma, LAS, 2021, p. 450.

[24] F. Motto, o.c. 8.

[25] Ibid, 10.

[26] G. Bosco, Memorie del Oratorio, citato in F. Motto, o.c., 9.

[27] F. Motto, o.c., 10.

[28] Citato in P. Ricaldone, Anno XVII. 24 Marzo 1936 N. 74.

[29] G. Bosco, o.c., 1177.

[30] P. Ricaldone, Anno XX Novembre–Dicembre 1939 N. 96

[31] A. Bozzolo (ed), Il Sogno dei nove anni. Questioni ermeneutiche e lettura teologica, LAS, Roma 2017, 264.

[32] E. Viganò, Lettere circolari di don Egidio Viganò ai salesiani, vol. 1, Roma, Direzione Generale Opere Don Bosco, 1996, p. 10.

[33] R. Ziggiotti, o.c., 264.

[34] F. Motto, o.c., 7.

[35] Cfr. P. Chávez, «Conoscendo e imitando Don Bosco facciamo dei giovani la missione della nostra vita». Primo anno di preparazione al Bicentenario della sua nascita. Strenna 2012, in ACG 412 (2012), 3-39.

[36] E. Viganò, Lettere circolari di don Egidio Viganò ai salesiani, vol. 1, Roma, Direzione Generale Opere Don Bosco, 1996, p. 31.

[37] Sinodo dei Vescovi, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Documento finale. Elledici, Torino, 2018, nº128.

[38] Francesco, Christus vivit. Esortazione apostolica Postsinodale ai giovani e a tutto il Popolo di Dio, LEV, Città del Vaticano 2019, nº194.

[39] Sinodo dei Vescovi, I giovani…. o.c., nº116.

[40] Cfr. XXIII Capitolo Generale Salesiano, Educare ai giovani nella fede, CCS, Madrid, 1990, nº 99.

[41] Cfr. F. Motto, o.c. 14.

[42] R. Sala, Il sogno dei nove anni. Redazione, storia, criteri di lettura, in «Note di pastorale giovanile» 5 (2020), 21.

[43] F. Rinaldi, Il sac. Filippo Rinaldi ai Cooperatori ed alle Cooperatrici Salesiane. Un’altra data memoranda, in BS Anno XLIX, 1 (Gennaio 1925), 6.

[44] E. Viganò, Lettere circolari di don Egidio Viganò ai salesiani, vol. 2, Roma, Direzione Generale Opere Don Bosco, 1996, p. 589.

[45] Francesco, Christus vivit, nº254.

[46] Cfr. Francesco, o.c., 43-48, 298.

[47] R. Ziggiotti, o.c., 264.

[48] MB XVIII, 341.




Un anno di sogni dall’alto

Cari amici e amiche: ci troviamo alle porte di un nuovo anno, il 2024, un anno veramente speciale perché ricordiamo il bicentenario del Sogno dei 9 anni di don Bosco. Questo sogno era molto più di un grazioso episodio di un bambino di 9 anni; era come un sogno-visione e una premonizione di ciò che avrebbe dovuto fare nel corso della sua vita.

62 anni dopo, celebrando la sua prima e ultima messa nella Basilica del Sacro Cuore di Roma, consacrata due giorni prima, Don Bosco scoppiò in lacrime più di 15 volte perché, come in un film in rapida successione, vedeva scorrere tutte le scene della sua vita, comprendendo di essere stato sempre guidato dalla Divina Provvidenza e in particolare condotto dalla mano di Lei, l’Ausiliatrice, al punto da dire: “Ha fatto tutto Lei”.

Quel Capodanno del 1862
Questa commemorazione mi porta a pensare a un Capodanno significativo nella vita di Don Bosco. Si tratta del primo gennaio 1862.
Le Memorie Biografiche raccontano che don Bosco, ammalato fino al giorno primo, annunciò di avere una importante notizia da dare a tutti gli abitanti dell’Oratorio, grandi e piccoli. «Non si può descrivere la commozione, cagionata dalla promessa di don Bosco, che intanto agitava tutti i giovanetti. Con quale impazienza passarono la notte dal 31 dicembre al primo gennaio, ed il giorno seguente! Con quale ansietà aspettarono la sera per udire quanto loro avrebbe detto il buon padre!» racconta don Lemoyne. «Finalmente dopo le orazioni i giovani in silenzio profondo attesero don Bosco, il quale salita la cattedra svelò il mistero e disse: – la strenna che vi dò non è mia. Che direste se la Madonna stessa in persona venisse ad uno per uno di voi a dirvi una parola? Se Ella avesse preparato per ciascuno un suo biglietto per indicargli ciò di cui egli più abbisogna, o quello che Essa vuole da lui? Ebbene, la cosa è appunto cosi. La Madonna dà a ciascuno una strenna! Vedo che alcuno vorrà sapere e domanderà: – Come è avvenuto questo? La Madonna ha scritto essa i biglietti? La Madonna in persona ha parlato a don Bosco? Don Bosco è il segretario della Madonna? – Io rispondo: non vi dico niente di più di ciò che vi ho detto. I biglietti gli ho scritti io, ma come ciò sia avvenuto non lo posso dire: né vi sia alcuno che si prenda l’incarico d’interrogarmi, perché mi metterebbe negli imbrogli. Ciascuno si contenti di sapere che il biglietto viene dalla Madonna. È una cosa singolare! Sono più anni che domando questa grazia e finalmente l’ho ottenuta. Ognuno di voi perciò consideri quell’avviso come se procedesse dalla bocca stessa di Maria Vergine. Venite dunque in mia camera e darò a ciascuno il proprio biglietto». Don Bosco poteva dire questo perché lui stesso aveva ricevuto dalla Madonna, all’età di 9 anni, il messaggio che avrebbe segnato l’intero corso della sua vita.
Allora, continuando la narrazione di quella sera stessa, i salesiani cominciarono a passare nella camera di don Bosco per ritirare il loro biglietto. Molti lo rivelarono. Quello intestato a don Bonetti, che scriveva la cronaca quotidiana, diceva: Accresci il numero de’ miei figli.  Il buon prete trascrisse nella sua cronaca tale raccomandazione e vi aggiunse: “Voi intanto, dolcissima Mamma mia, che mi deste un sì caro consiglio, datemi pure i mezzi per metterlo in esecuzione, e fate che io accresca veramente questo bel numero, ma che vi sia io pure compreso”.
Quello di don Rua diceva: «Ricorri a me con fiducia nei bisogni dell’anima tua».
Dal mattino dopo, i giovani si affollarono sulla porta della camera di D. Bosco, per ricevere il proprio biglietto. Posso facilmente immaginare come Don Bosco sapesse arrivare al cuore di ogni salesiano e di ogni ragazzo dell’Oratorio, non con un’invenzione ma con la convinzione profonda di ciò che la Madonna voleva per ciascuno di loro, e allo stesso tempo riuscisse a farlo in quel modo in cui Don Bosco fu sempre un vero maestro e un vero genio: mi riferisco all’arte dell’incontro personale, del dialogo, dello sguardo che arriva al profondo del cuore.
E mentre leggevo questo, mi sono chiesto se non fosse possibile che capitasse a noi. Abbiamo mandato biglietti di auguri a molte persone. Se Maria Santissima avesse mandato un biglietto di auguri alla Congregazione salesiana e a ciascuno di noi, alla bella e grande Famiglia Salesiana, famiglia di Don Bosco, che cosa avrebbe scritto?

Camminare come don Bosco
È bello immaginarlo. Vi assicuro che nella mia immaginazione ci sono tante cose belle che la Madonna potrebbe chiedere a noi sia personalmente che come famiglia di Don Bosco, nata per accompagnare i ragazzi e le ragazze del mondo – soprattutto i più poveri e bisognosi – nel loro processo di crescita, maturazione, trasformazione…
Il mistero del nuovo anno, che in fondo sviluppa il mistero del Natale, ci dice: «Non sei condizionato dal passato. Oggi stesso puoi cominciare da capo, perché in te c’è qualcosa di nuovo. Prendi in braccio il Bambino divino, che ti porta a contatto con tutto il nuovo che è a disposizione, genuino e intatto, nella tua anima. Ricomincia dai piccoli, dai giovani. Abbi fiducia nel nuovo in te! Ogni giorno è il primo giorno».
Forse basterebbe fare nostre le parole che Maria dice a Giovanni Bosco nel suo sogno: «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte e robusto». Forse ci si aspettava un consiglio più “spirituale”, ma solo chi è umile può essere gentile perché riesce a godere della presenza degli altri. L’umiltà è la porta dell’amore verso i più piccoli, gli indifesi, i feriti dalla vita.
Solo che è solido e forte, può camminare dietro a Gesù oggi nonostante tutto. Perché noi vogliamo vedere i prigionieri liberi, e gli oppressi che non sono più oppressi; e in quale messaggio possano credere ancora i poveri.
È ascoltare la voce del roveto ardente che non si consumerà mai: «Io romperò le vostre catene e vi farò camminare a testa alta». Maria vuole che i Salesiani, e tutta la sua Famiglia, la bella famiglia di Don Bosco di tutti i tempi camminino come don Bosco. E per ciò la migliore garanzia sarà sempre avere Lei come vera Maestra che è anzitutto Madre. Una vera grazia per la nostra famiglia.
Così lo hanno espresso i Rettori Maggiori in tutta la nostra storia. Come fece il mio predecessore don Ziggiotti: «Io ti darò la Maestra, sotto la cui disciplina puoi diventare sapiente e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza» è la parola fatidica del primo sogno, pronunciata dal personaggio misterioso, «il Figlio di Colei che tua madre ti ammaestro di salutare tre volte al giorno». È dunque Gesù che dona a Don Bosco la Madre sua come Maestra e guida infallibile nel duro cammino dell’intera sua vita. Come ringraziare abbastanza di questo dono straordinario che fu fatto dal Cielo alla nostra Famiglia?».
Buon Anno 2024 con i miei migliori desideri per ciascuno e le vostre famiglie. Che sia un anno bello per tutti noi e un anno di Pace per questa umanità ancora tanto sofferente.