Mons. Giuseppe Malandrino e il Servo di Dio Nino Baglieri

È tornato alla Casa del Padre, lo scorso 3 agosto 2025, nel giorno in cui si celebra la festa della Patrona della Diocesi di Noto, Maria Scala del Paradiso, monsignor Giuseppe Malandrino, IX vescovo della diocesi netina. 94 anni di età, 70 anni di sacerdozio e 45 anni di consacrazione episcopale sono numeri di tutto rispetto per un uomo che ha servito la Chiesa da Pastore con “l’odore delle pecore” come sottolineava spesso Papa Francesco.

Parafulmine dell’umanità
Nell’esperienza di pastore della Diocesi di Noto (19.06.1998 – 15.07.2007) ha avuto modo di coltivare l’amicizia con il Servo di Dio Nino Baglieri. Non mancava quasi mai una “sosta” a casa di Nino quando i motivi pastorali lo portavano a Modica. In una sua testimonianza mons. Malandrino dice: “…trovandomi al capezzale di Nino, avevo la percezione viva che questo nostro amato fratello infermo fosse veramente “parafulmine dell’umanità”, secondo una concezione dei sofferenti a me tanto cara e che ho voluto proporre anche nella Lettera Pastorale sulla missione permanente Mi sarete testimoni” (2003). Scrive mons. Malandrino: “È necessario riconoscere nei malati e sofferenti il volto di Cristo sofferente e assisterli con la stessa premura e con lo stesso amore di Gesù nella sua passione, vissuta in spirito di ubbidienza al Padre e di solidarietà ai fratelli”. Ciò è stato, pienamente incarnato dalla carissima mamma di Nino, la signora Peppina. Lei tipica donna siciliana, con un carattere forte e tanta determinazione, risponde al medico che gli propone l’eutanasia per suo figlio (viste le gravi condizioni di salute e la prospettiva di una vita da paralitico): “se il Signore lo vuole lo prende, ma se me lo lascia così sono contenta di accudirlo per tutta la vita”. La mamma di Nino, in quel momento era consapevole di quello a cui andava incontro? Maria, la madre di Gesù era consapevole di quanto dolore avrebbe dovuto soffrire, per il Figlio di Dio? La risposta, a leggerla con gli occhi umani, sembra non facile, soprattutto nella nostra società del XXI secolo dove tutto è labile, fluttuante, si consuma in un “istante”. Il Fiat di mamma Peppina divenne, come quello di Maria, un Sì di Fede e di adesione a quella volontà di Dio che trova compimento nel saper portate la Croce, nel saper dare “anima e corpo” alla realizzazione del Piano di Dio.

Dalla sofferenza alla gioia
Il rapporto di amicizia tra Nino e mons. Malandrino era già avviato quando quest’ultimo era ancora vescovo di Acireale, infatti già nel lontano 1993, per il tramite di Padre Attilio Balbinot, un camilliano molto vicino a Nino, lo omaggia del suo primo libro: “Dalla sofferenza alla gioia”. Nell’esperienza di Nino il rapporto con il Vescovo della sua diocesi era un rapporto di filiazione totale. Sin dal momento della sua accettazione del Piano di Dio su di lui, egli faceva sentire la propria presenza “attiva” offrendo le sofferenze per la Chiesa, il Papa e i Vescovi (nonché i sacerdoti e i missionari). Questo rapporto di filiazione veniva annualmente rinnovato in occasione del 6 maggio, giorno della caduta visto poi come inizio misterioso d’una rinascita. L’8 maggio 2004, pochi giorni dopo aver festeggiato Nino il 36.mo anniversario di Croce, mons. Malandrino si reca a casa sua. Egli in ricordo di quell’incontro scrive nelle sue memorie: “è sempre una grande gioia ogni volta che la vedo e ricevo tanta carica e forza per portare la mia Croce e offrila con tanto Amore per i bisogni della Santa Chiesa e in particolare per il mio Vescovo e per la nostra Diocesi, il Signore gli dia sempre più santità per guidarci per tanti anni sempre con più ardore e amore…”. Ancora: “… la Croce è pesante ma il Signore mi dona tante Grazie che rendono la sofferenza meno amara e diventa leggera e soave, la Croce si fa Dono, offerta al Signore con tanto Amore per la salvezza delle anime e la Conversione dei Peccatori…”. Infine, è da sottolineare come, in queste occasioni di grazia, non mancasse mai la pressante e costante richiesta di “aiuto a farsi Santo con la Croce di ogni giorno”. Nino, infatti, vuole assolutamente farsi santo.

Una beatificazione anticipata
Momento di grande rilevanza hanno rappresentato, in tal senso, le esequie del Servo di Dio il 3 marzo 2007, quando proprio mons. Malandrino, all’inizio della Celebrazione Eucaristica, con devozione si china, anche se con difficoltà, a baciare la bara che conteneva le spoglie mortali di Nino. Era un ossequio a un uomo che aveva vissuto 39 anni della sua esistenza in un corpo che “non sentiva” ma che sprigionava gioia di vivere a 360 gradi. Mons. Malandrino sottolineò che la celebrazione della Messa, nel cortile dei Salesiani divenuto per l’occasione “cattedrale” a cielo aperto, era stata un’autentica apoteosi (hanno partecipato migliaia di persone in lacrime) e si percepiva chiaramente e comunitariamente di trovarsi dinanzi non a un funerale, ma a una vera “beatificazione”. Nino, con la sua testimonianza di vita, era infatti diventato un punto di riferimento per tanti, giovani o meno giovani, laici o consacrati, madri o padri di famiglia, che grazie alla sua preziosa testimonianza riuscivano a leggere la propria esistenza e trovare risposte che non riuscivano a trovare altrove. Anche mons. Malandrino ha più volte sottolineato questo aspetto: «in effetti, ogni incontro con il carissimo Nino è stato per me, come per tutti, una forte e viva esperienza di edificazione e un potente – nella sua dolcezza – sprone alla paziente e generosa donazione. La presenza del Vescovo conferiva a lui ogni volta immensa gioia perché, oltre l’affetto dell’amico che veniva a visitarlo, vi percepiva la comunione ecclesiale. È ovvio che quanto ricevevo da lui era sempre molto di più quel poco che potevo donargli». Il “chiodo” fisso di Nino, era “farsi santo”: l’aver vissuto e incarnato appieno l’evangelo della Gioia nella Sofferenza, con i suoi patimenti fisici e il suo dono totale per l’amata Chiesa, hanno fatto sì che tutto non finisse con la sua dipartita verso la Gerusalemme del Cielo, ma continuasse ancora, come sottolineò mons. Malandrino alle esequie: “… la missione di Nino continua ora anche attraverso i suoi scritti, Egli stesso lo aveva preannunciato nel suo Testamento spirituale”: “… i miei scritti continueranno la mia testimonianza, continuerò a dare Gioia a tutti e a parlare del Grande Amore di Dio e delle Meraviglie che ha fatto nella mia vita”. Questo ancora si sta avverando perché non può stare nascosta “una città posta sopra un monte e non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candeliere, perché faccia luce a tutti coloro che sono in casa” (Matteo 5,14-16). Metaforicamente si vuole sottolineare che la “luce” (intesa in senso lato) deve essere visibile, prima o poi: ciò che è importante verrà alla luce e sarà riconosciuto.
Riandare in questi giorni – segnati dalla morte di mons. Malandrino, dai suoi funerali ad Acireale (5 agosto, Madonna della Neve) e a Noto (7 agosto) con tumulazione a seguire nella cattedrale di cui egli stesso volle fortemente la ristrutturazione dopo il crollo del 13 marzo1996 e che fu riaperta nel marzo 2007 (mese in cui Nino Baglieri morì) – significa ripercorrere questo legame tra due grandi figure della Chiesa netina, fortemente intrecciate ed entrambe capaci di lasciare in essa un segno che non passa.

Roberto Chiaramonte




Con Nino Baglieri pellegrino di Speranza, nel cammino del Giubileo

Il percorso del Giubileo 2025, dedicato alla Speranza, trova un testimone luminoso nella vicenda del Servo di Dio Nino Baglieri. Dalla drammatica caduta che lo rese tetraplegico a diciassette anni fino alla rinascita interiore del 1978, Baglieri è passato dall’ombra della disperazione alla luce di una fede operosa, trasformando il suo letto di dolore in cattedra di gioia. La sua storia intreccia i cinque segni giubilari – pellegrinaggio, porta, professione di fede, carità e riconciliazione – mostrando che la speranza cristiana non è evasione, ma forza che apre il futuro e sostiene ogni cammino.

1. Sperare come attesa
            La speranza, secondo il vocabolario online Treccani, è un sentimento di “aspettazione fiduciosa nella realizzazione, presente o futura, di quanto si desidera”. L’etimologia del sostantivo “speranza” deriva dal latino spes, a sua volta derivato dalla radice sanscrita spa– che significa tendere verso una meta. Nella lingua spagnola “sperare” e “aspettare” vengono tradotti con il verbo esperar, che racchiude in un unico lemma entrambi i significati: quasi si potesse aspettare solo ciò che si spera. Questo stato d’animo ci permette di affrontare la vita e le sue sfide con coraggio e una luce nel cuore sempre ardente. La speranza viene espressa – in positivo o in negativo – anche in alcuni proverbi della saggezza popolare: “La speranza è l’ultima a morire”, “Finché c’è vita c’è speranza”, “Chi di speranza vive, disperato muore”.
            Quasi raccogliendo questo “sentire condiviso” sulla speranza, ma consapevole di dover aiutare a riscoprire la speranza nella sua dimensione più piena e vera, Papa Francesco ha voluto dedicare il Giubileo Ordinario del 2025 alla Speranza (Spes non confundit [La speranza non delude] ne è la bolla di indizione) e già nel 2014 diceva: “La risurrezione di Gesù non è il finale lieto di una bella favola, non è l’happy end di un film; ma è l’intervento di Dio Padre e là dove si infrange la speranza umana. Nel momento nel quale tutto sembra perduto, nel momento del dolore, nel quale tante persone sentono come il bisogno di scendere dalla croce, è il momento più vicino alla risurrezione. La notte diventa più oscura proprio prima che incominci il mattino, prima che incominci la luce. Nel momento più oscuro interviene Dio e risuscita” (cf. Udienza del 16 aprile 2014).
            In questo contesto cade a pennello la vicenda del Servo di Dio Nino Baglieri (Modica, 1° maggio 1951 – 2 marzo 2007) che giovane muratore diciassettenne, cadendo da un’impalcatura alta diciassette metri per il cedimento improvviso di un tavolone, si schiantò al suolo rimanendo tetraplegico: da quella caduta, il 6 maggio 1968, potrà muovere solo testa e collo, dovendo dipendere a vita dagli altri in tutto, anche nelle cose più semplici e umili. Nino non può nemmeno stringere la mano a un amico, o fare una carezza alla mamma… e vede svanire la possibilità di realizzare i suoi sogni. Quale speranza di vita ha ora questo giovane? Con quali sentimenti può fare i conti? Quale futuro lo attende? La prima risposta di Nino è la disperazione, il buio più totale davanti a una richiesta di senso che non trova risposta: dapprima un lungo peregrinare in ospedali di regioni italiane diverse, poi il compatirlo di amici e conoscenti portano Nino a ribellarsi e a rinchiudersi in dieci lunghi anni di solitudine e rabbia, mentre il tunnel della vita si fa sempre più profondo.
            Nella mitologia greca, Zeus affida a Pandora un vaso che contiene tutti i mali del mondo: scoperchiato, gli uomini perdono l’immortalità e iniziano una vita di sofferenza. Per salvarli, Pandora riapre allora il vaso e libera elpis, la speranza, rimasta sul fondo: era l’unico antidoto agli affanni della vita. Guardando invece al Datore di ogni bene, sappiamo che «la speranza non delude» (Rm 5,5). Papa Francesco nella Spes non confundit scrive: “Nel segno di questa speranza l’apostolo Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma […] Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza” (ivi, 1).

2. Da Testimone della “disperazione” ad “ambasciatore” di speranza
            Ritorniamo allora alla vicenda del nostro Servo di Dio, Nino Baglieri.
            Devono passare dieci lunghi anni prima che Nino esca dal tunnel della disperazione, le fitte tenebre si diradino ed entri la Luce. Era il pomeriggio del 24 marzo, Venerdì Santo del 1978, quando padre Aldo Modica con un gruppetto di giovani si recò a casa di Nino sollecitato dalla sua mamma Peppina e da alcune persone che frequentavano il cammino del Rinnovamento nello Spirito, allora agli albori nella vicina parrocchia salesiana. Scrive Nino: “mentre invocavano lo Spirito Santo sentii una sensazione stranissima, un grande calore invadeva il mio corpo, un forte formicolio in tutte le [mie] membra, come se una forza nuova entrasse in me e qualcosa di vecchio uscisse. In quel momento dissi il mio “sì” al Signore, accettai la mia croce e rinacqui a vita nuova, diventai un uomo nuovo. Dieci anni di disperazione cancellati in pochi istanti, perché una gioia sconosciuta entrò nel mio cuore. Io desideravo la guarigione del mio corpo e invece il Signore mi graziava con una gioia ancora più grande: la guarigione spirituale”.
            Inizia per Nino un nuovo cammino: da “testimone della disperazione” diventa “pellegrino di speranza”. Non più isolato all’interno della sua stanzetta ma “ambasciatore” di questa speranza, racconta il suo vissuto attraverso una trasmissione messa in onda da una radio locale e – grazia ancora più grande – il buon Dio gli dona la gioia di poter scrivere con la bocca. Nino confida: “Nel mese di marzo del 1979 il Signore mi fece un grande Miracolo imparai a scrivere, con la bocca, incominciai così, ero con i miei amici che si stavano facendo i compiti dissi di darmi una matita e un quaderno, incominciai a fare dei segni e a disegnare qualcosa, ma poi scoprii che potevo scrivere e così incominciai a scrivere”. Inizia allora a redigere le sue memorie e ad avere contatti tramite lettera con persone di ogni categoria e in varie parti del mondo, per migliaia di lettere a tutt’oggi custodite. La ritrovata speranza lo rende creativo, ora Nino riscopre il gusto delle relazioni e vuole rendersi – come può – indipendente: con l’ausilio di un’asticella che usa con la bocca, e di un elastico applicato al telefono, compone i numeri telefonici per mettersi in comunicazione con tante persone ammalate, per rivolgere loro una parola di conforto. Scopre un nuovo modo di affrontare la propria condizione di sofferenza, che lo fa uscire dall’isolamento e lo avvia a diventare testimone del Vangelo della gioia e della speranza: “Adesso c’è tanta gioia nel mio cuore, in me non esiste più dolore, nel mio cuore c’è il Tuo amore. Grazie Gesù mio Signore, dal mio letto di dolore ti voglio lodare e con tutto il mio cuore ti voglio ringraziare perché mi hai chiamato per conoscere la vita per conoscere la vera vita”.
            Nino ha cambiato prospettiva, ha effettuato una virata di 360° – il Signore gli ha regalato la conversione – ha posto la sua fiducia in quel Dio misericordioso che, attraverso la “disgrazia”, l’ha chiamato a lavorare nella sua vigna, per essere segno e strumento di salvezza e speranza. Così, tante persone che andavano a trovarlo per consolarlo uscivano consolati, con le lacrime agli occhi: non trovavano su quel lettuccio un uomo triste e mesto, ma un volto sorridente che sprigionava – nonostante tante sofferenze, tra cui le piaghe e i problemi respiratori – gioia di vivere: il sorriso era una costante sul suo volto e Nino si sentiva “utile da un letto di croce”. Nino Baglieri è l’opposto di tante persone di oggi, perennemente alla ricerca del senso della vita, che puntano al successo facile e alla felicità di cose effimere e senza valore, vivono on-line, consumano la vita in un click, vogliono tutto e subito ma hanno gli occhi tristi, spenti. Nino in apparenza non aveva niente, eppure aveva la pace e la gioia nel cuore: non ha vissuto isolato, ma sostenuto dall’amore di Dio espresso dall’abbraccio e dalla presenza di tutta la sua famiglia e di sempre più persone che lo conoscono ed entrano in rapporto con lui.

3. Ravvivare la speranza
            Costruire la speranza è: ogni volta che non mi accontento della mia vita e mi impegno per cambiarla. Ogni volta che non mi lascio indurire dalle esperienze negative e impedisco che esse mi rendano diffidente. Ogni volta che cado e provo a rialzarmi, che non permetto che le paure abbiano l’ultima parola. Ogni volta che, in un mondo segnato dai conflitti, scelgo la fiducia e di rilanciare sempre, con tutti. Ogni volta che non sfuggo al sogno di Dio che mi dice: “voglio che tu sia felice”, “voglio che tu abbia una vita piena… piena anche di santità”. Il culmine della virtù della speranza è infatti uno sguardo al Cielo per abitare bene la terra o, come direbbe Don Bosco, un camminare con i piedi per terra e il cuore in Cielo.
            In questo solco di speranza trova compimento il giubileo che, con i suoi segni, ci chiede di metterci in cammino, di varcare alcune frontiere.
            Primo segno, il pellegrinaggio: quando ci si muove da un luogo all’altro si è aperti al nuovo, al cambiamento. Tutta la vita di Gesù è stata “un mettersi in viaggio”, un cammino di evangelizzazione che si compie nel dono della vita e poi oltre, con la Risurrezione e l’Ascensione.
            Secondo segno, la porta: in Gv 10,9 Gesù afferma «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo». Passare la porta è lasciarsi accogliere, essere comunità. Nel vangelo si parla anche della “porta stretta”: il Giubileo diventa cammino di conversione.
            Terzo segno, la professione di fede: esprimere l’appartenenza a Cristo e alla Chiesa e il dichiararlo pubblicamente.
            Quarto segno la carità: la carità è la password per il cielo, in 1Pt 4,8 l’apostolo Pietro ammonisce «conservate tra voi una grande carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati».
            Quinto segno, dunque, la riconciliazione e l’indulgenza giubilare: si tratta di un “tempo favorevole” (cf. 2Cor 6,2) per sperimentare la grande misericordia di Dio e percorrere cammini di riavvicinamento e perdono verso i fratelli; per vivere la preghiera del Padre Nostro dove si chiede “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. È diventare creature nuove.
            Anche nella vita di Nino ci sono episodi che lo collegano – sul “filo” della speranza – a queste dimensioni giubilari. Per esempio il pentimento per alcune bravate della sua infanzia, come quando, in tre (lui racconta), “rubavamo le offerte delle Messe in sacrestia, ci servivano per giocare al bigliardino. Quando incontri cattivi compagni ti portano nelle male vie. Poi uno ha preso il mazzo di chiavi dell’Oratorio e l’ha nascosto nella mia borsa dei libri che era nello studio; hanno trovato le chiavi, hanno chiamato i genitori, ci hanno dato due schiaffoni e ci hanno cacciato alla scuola. Vergogna!”. Ma soprattutto nella vita di Nino c’è la carità, l’aiutare il fratello povero, nella prova fisica e morale, il farsi vivo con chi ha fatiche anche psicologiche e il raggiungere per iscritto i fratelli in carcere per testimoniare loro la bontà e l’amore di Dio. A Nino, che prima della caduta era stato muratore, “[mi] piaceva costruire con le mie mani qualcosa che restasse nel tempo: anche ora – scrive – mi sento di essere un muratore che lavora nel Regno di Dio, per lasciare qualcosa che resti nel tempo, per vedere le Opere Meravigliose di Dio che compie nella nostra Vita». Confida: «il mio corpo sembra morto, ma nel mio petto continua a battere il mio cuore. Le gambe non si muovono, eppure, per le vie del mondo io cammino”.

4. Pellegrino verso il cielo
            Nino, consacrato cooperatore salesiano della grande Famiglia Salesiana, conclude il suo “pellegrinaggio” terreno venerdì 2 marzo 2007 alle ore 8.00 del mattino, a soli 55 anni, di cui 39 trascorsi da tetraplegico tra letto e carrozzina, dopo aver chiesto scusa alla famiglia per le fatiche che ha dovuto affrontare per la sua condizione. Lascia la scena di questo mondo in tuta e scarpette, come ha espressamente chiesto, per correre nei verdi prati fioriti e saltellare come una cerva lungo i corsi d’acqua. Leggiamo nel suo Testamento spirituale: “non finirò mai di ringraziarti, o Signore, per avermi chiamato a Te attraverso la Croce il 6 maggio 1968. Una croce pesante per le mie giovani forze…”. Il 2 marzo la vita – continuo dono che parte dai genitori e viene piano piano alimentato con stupore e bellezza – inserisce per Nino Baglieri il suo tassello più importante: quello dell’abbraccio con il suo Signore e Dio, accompagnato dalla Madonna.
            Alla notizia della sua dipartita da più parti si leva un coro unanime: «è morto un santo», un uomo che ha fatto del suo letto di croce il vessillo della vita piena, dono per tutti. Quindi un grande testimone di speranza.
            Trascorsi 5 anni dalla morte così, come previsto dalle Normae Servandae in Inquisitionibus ab Episcopis faciendis in Causis Sanctorum del 1983, il vescovo della Diocesi di Noto, su richiesta del Postulatore Generale della Congregazione Salesiana, sentita la Conferenza Episcopale Siciliana e ottenuto il Nihil obstat della Santa Sede, apre l’Inchiesta Diocesana della Causa di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio Nino Baglieri.
            Il processo diocesano, durato 12 anni, si è svolto lungo due direttrici portanti: il lavoro della Commissione Storia che ha ricercato, raccolto, studiato e presentato tante fonti, soprattutto Scritti “del” e “sul” Servo di Dio; il Tribunale Ecclesiastico, titolare dell’Inchiesta, che ha altresì ascoltato sotto giuramento i testimoni.
            Questo percorso si è concluso lo scorso 5 maggio 2024 alla presenza di mons. Salvatore Rumeo, attuale vescovo della diocesi di Noto. Pochi giorni dopo gli Atti processuali sono stati consegnati al Dicastero delle Cause dei Santi che ha proceduto alla loro apertura in data 21 giugno 2024. All’inizio del 2025, il medesimo Dicastero ne ha decretato la “Validità Giuridica”, con cui la Fase romana della Causa può entrare nel vivo.
            Ora l’apporto alla Causa prosegue anche continuando a far conoscere la figura di Nino che al termine del suo cammino terreno ha raccomandato: “non lasciatemi senza far nulla. Io continuerò dal cielo la mia missione. Vi scriverò dal Paradiso”.
            Il cammino della speranza in sua compagnia diventa così desiderio del Cielo, quando “ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio (cfr 1Cor 13,12) e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero dell’universo, che parteciperà insieme a noi della pienezza senza fine […]. Nell’attesa, ci uniamo per farci carico di questa casa che ci è stata affidata, sapendo che ciò che di buono vi è in essa verrà assunto nella festa del cielo. Insieme a tutte le creature, camminiamo su questa terra cercando Dio […] Camminiamo cantando!” (cf. Laudato Sì, 243-244).

Roberto Chiaramonte




I ragazzi del cimitero

Il dramma dei giovani abbandonati continua a far rumore nel mondo contemporaneo. Le statistiche parlano di circa 150 milioni di ragazzi costretti a vivere per strada, una realtà che si manifesta in maniera drammatica anche a Monrovia, capitale della Liberia. In occasione della festa di San Giovanni Bosco, a Vienna, si è svolta una campagna di sensibilizzazione promossa da Jugend Eine Welt, un’iniziativa che ha messo in luce non solo la situazione locale ma anche le difficoltà incontrate in paesi lontani, come la Liberia, dove il salesiano Lothar Wagner dedica la sua vita a dare una speranza a questi giovani.

Lothar Wagner: un salesiano che dedica la sua vita ai ragazzi di strada in Liberia
Lothar Wagner, salesiano coadiutore tedesco, ha dedicato oltre vent’anni della sua vita al sostegno dei ragazzi in Africa Occidentale. Dopo aver maturato esperienze significative in Ghana e Sierra Leone, negli ultimi quattro anni si è concentrato con passione sulla Liberia, un paese segnato da conflitti prolungati, crisi sanitarie e devastazioni come l’epidemia di Ebola. Lothar si è fatto portavoce di una realtà spesso ignorata, dove le cicatrici sociali ed economiche compromettono le opportunità di crescita per i giovani.

La Liberia, con una popolazione di 5,4 milioni di abitanti, è un paese in cui la povertà estrema si accompagna a istituzioni fragili e a una corruzione diffusa. Le conseguenze di decenni di conflitti armati e crisi sanitarie hanno lasciato il sistema educativo tra i peggiori al mondo, mentre il tessuto sociale si è logorato sotto il peso di difficoltà economiche e mancanza di servizi essenziali. Molte famiglie non riescono a garantire ai propri figli i bisogni primari, spingendo così un gran numero di giovani a cercare rifugio per strada.

In particolare, a Monrovia, alcuni ragazzi trovano rifugio nei luoghi più inaspettati: i cimiteri della città. Conosciuti come “ragazzi del cimitero”, questi giovani, privi di un’abitazione sicura, si rifugiano tra le tombe, luogo che diventa simbolo di un abbandono totale. Dormire all’aperto, nei parchi, nelle discariche, persino nelle fogne o all’interno di tombe, è diventato il tragico rifugio quotidiano per chi non ha altra scelta.

“È davvero molto commovente quando si cammina per il cimitero e si vedono ragazzi che escono dalle tombe. Si sdraiano con i morti perché non hanno più un posto nella società. Una situazione del genere è scandalosa.”

Un approccio multiplo: dal cimitero alle celle di detenzione
Non solo i ragazzi dei cimiteri sono al centro dell’attenzione di Lothar. Il salesiano si dedica anche a un’altra realtà drammatica: quella dei detenuti minorenni nelle prigioni liberiane. La prigione di Monrovia, costruita per 325 detenuti, ospita oggi oltre 1.500 prigionieri, tra cui molti giovani incarcerati senza una formale accusa. Le celle, estremamente sovraffollate, sono un chiaro esempio di come la dignità umana venga spesso sacrificata.

“Manca cibo, acqua pulita, standard igienici, assistenza medica e psicologica. La fame costante e la drammatica situazione spaziale a causa del sovraffollamento indeboliscono enormemente la salute dei ragazzi. In una piccola cella, progettata per due detenuti, sono rinchiusi otto-dieci giovani. Si dorme a turno, perché questa dimensione della cella offre spazio solo in piedi ai suoi numerosi abitanti”.

Per far fronte a questa situazione, organizza visite quotidiane nella prigione, portando acqua potabile, pasti caldi e un supporto psicosociale che diventa un’ancora di salvezza. La sua presenza costante è fondamentale per cercare di ristabilire un dialogo con le autorità e le famiglie, sensibilizzando anche sull’importanza di tutelare i diritti dei minori, spesso dimenticati e abbandonati a un destino infausto. “Non li lasciamo soli nella loro solitudine, ma cerchiamo di donare loro una speranza,” sottolinea Lothar con la fermezza di chi conosce il dolore quotidiano di queste giovani vite.

Una giornata di sensibilizzazione a Vienna
Il sostegno a queste iniziative passa anche dall’attenzione internazionale. Il 31 gennaio, a Vienna, Jugend Eine Welt ha organizzato una giornata dedicata a evidenziare la precaria situazione dei ragazzi di strada, non solo in Liberia, ma in tutto il mondo. Durante l’evento, Lothar Wagner ha condiviso le sue esperienze con studenti e partecipanti, coinvolgendoli in attività pratiche – come l’uso di un nastro segnaletico per simulare le condizioni di una cella sovraffollata – per far comprendere in prima persona le difficoltà e l’angoscia dei giovani che vivono quotidianamente in spazi minimi e in condizioni degradanti.

Oltre alle emergenze quotidiane, il lavoro di Lothar e dei suoi collaboratori si concentra anche su interventi a lungo termine. I missionari salesiani, infatti, sono impegnati in programmi di riabilitazione che spaziano dal supporto educativo alla formazione professionale per i giovani detenuti, fino all’assistenza legale e spirituale. Questi interventi mirano a reintegrare i ragazzi nella società una volta rilasciati, aiutandoli a costruire un futuro dignitoso e pieno di possibilità. L’obiettivo è chiaro: offrire non solo un aiuto immediato, ma creare un percorso che consenta ai giovani di sviluppare le proprie potenzialità e contribuire attivamente alla rinascita del paese.

Le iniziative si estendono anche alla costruzione di centri di formazione professionale, scuole e strutture di accoglienza, con la speranza di ampliare il numero di giovani beneficiari e garantire un sostegno costante, giorno e notte. La testimonianza di successo di molti ex “ragazzi del cimitero” – alcuni dei quali sono diventati insegnanti, medici, avvocati e imprenditori – è la conferma tangibile che, con il giusto sostegno, la trasformazione è possibile.

Nonostante l’impegno e la dedizione, il percorso è costellato di ostacoli: la burocrazia, la corruzione, la diffidenza dei ragazzi e la mancanza di risorse rappresentano sfide quotidiane. Molti giovani, segnati da abusi e sfruttamento, faticano a fidarsi degli adulti, rendendo ancor più arduo il compito di instaurare un rapporto di fiducia e di offerta di un supporto reale e duraturo. Tuttavia, ogni piccolo successo – ogni giovane che ritrova la speranza e inizia a costruire un futuro – conferma l’importanza di questo lavoro umanitario.

Il percorso intrapreso da Lothar e dai suoi collaboratori testimonia che, nonostante le difficoltà, è possibile fare la differenza nella vita dei ragazzi abbandonati. La visione di una Liberia in cui ogni giovane possa realizzare il proprio potenziale si traduce in azioni concrete, dalla sensibilizzazione internazionale alla riabilitazione dei detenuti, passando per programmi educativi e progetti di accoglienza. Il lavoro, improntato su amore, solidarietà e una presenza costante, rappresenta un faro di speranza in un contesto in cui la disperazione sembra prevalere.

In un mondo segnato dall’abbandono e dalla povertà, le storie di rinascita dei ragazzi di strada e dei giovani detenuti sono un invito a credere che, con il giusto sostegno, ogni vita possa risorgere. Lothar Wagner continua a lottare per garantire a questi giovani non solo un riparo, ma anche la possibilità di riscrivere il proprio destino, dimostrando che la solidarietà può davvero cambiare il mondo.




Profili di famiglie ferite nella storia della santità salesiana

1. Storie di famiglie ferite
            Siamo abituati ad immaginare la famiglia come una realtà armoniosa, contraddistinta dalla compresenza di più generazioni e dal ruolo-guida di genitori che danno la norma e di figli i quali – nell’apprenderla – vengono da loro guidati nell’esperienza della realtà. Tuttavia spesso le famiglie si trovano attraversate da drammi e incomprensioni, o segnate da ferite che ne aggrediscono la configurazione ottimale e ne restituiscono un’immagine distorta, falsata e falsante.
            Anche la storia della santità salesiana è attraversata da storie di famiglie ferite: famiglie dove vien meno almeno una delle figure genitoriali, oppure la presenza della mamma e del papà diventa, per ragioni diverse (fisiche, psichiche, morali e spirituali), penalizzante per i loro figli, oggi incamminati verso gli onori degli altari. Lo stesso Don Bosco, che aveva sperimentato la morte prematura del padre e l’allontanamento dalla famiglia per la prudente volontà di Mamma Margherita, vuole – non è un caso – l’opera salesiana particolarmente dedicata alla «gioventù povera e abbandonata» e non esita a raggiungere i giovani che si sono formati nel suo oratorio con una intensa pastorale vocazionale (dimostrando che nessuna ferita del passato è ostacolo a una vita umana e cristiana piena). È pertanto naturale che la stessa santità salesiana, che attinge alle esistenze di molti giovani di Don Bosco poi consacrati per suo tramite alla causa del Vangelo, porti in sé – quale logica conseguenza – traccia di famiglie ferite.
Di questi ragazzi e ragazze cresciuti a contatto con le opere salesiane se ne vogliono presentare tre, di cui “innestare” la vicenda nel solco biografico di Don Bosco. I protagonisti sono:
            – la beata Laura Vicuña, nata nel Cile del 1891, orfana di padre e la cui mamma inizia in Argentina una convivenza con il ricco possidente Manuel Mora; Laura dunque, ferita dalla situazione di irregolarità morale della mamma, è pronta ad offrire la vita per lei;
            – il servo di Dio Carlo Braga, valtellinese classe 1889, abbandonato piccolissimo dal padre e la cui mamma viene allontanata perché ritenuta, per un misto di ignoranza e maldicenza, psichicamente labile; Carlo dunque che incontra grandi umiliazioni e vedrà messa più volte in difficoltà la propria vocazione salesiana da quanti temono in lui un compromettente ripresentarsi del disagio psichico falsamente attribuito alla mamma;
            – infine la serva di Dio Anna Maria Lozano, che nasce nel 1883 in Colombia, segue con la propria famiglia il papà nel lazzaretto, ove è costretto a trasferirsi in seguito alla comparsa della terribile lebbra, sarà ostacolata nella propria vocazione religiosa, ma potrà infine realizzarla grazie all’incontro provvidenziale con il salesiano Luigi Variara, beato.

2. Don Bosco e la ricerca del padre
            Come Laura, Carlo e Anna Maria – segnati dall’assenza o dalle “ferite” di una o più figure genitoriali – prima di loro, e in certo senso “per loro”, anche Don Bosco sperimenta il venir meno di un nucleo familiare forte.
            Le Memorie dell’Oratorio devono ben presto soffermarsi sulla precoce perdita del padre: Francesco muore a 34 anni e Don Bosco – non senza ricorrere a un’espressione per certi aspetti sconcertante – riconosce che «Dio misericordioso li colpì tutti con grave sciagura». Così, tra i primissimi ricordi del futuro santo dei giovani si fa strada un’esperienza lacerante: quella della salma del padre, da cui la mamma tenta di allontanarlo incontrando però la sua resistenza: «Io ci voleva assolutamente rimanere», spiega Don Bosco, che allora aveva aggiunto: «Se non viene papà non ci voglio andare [via]». Margherita gli risponde allora: «Povero figlio, vieni meco, tu non hai più padre». Ella piange e Giovannino, che manca d’una comprensione razionale della situazione, ma ne intuisce tutto il dramma con un’intuizione affettiva ed immedesimante, fa propria la tristezza della mamma: «Io piangeva perché ella piangeva, giacché in quell’età non poteva certamente comprendere quanto grande infortunio fosse la perdita del padre».

            Di fronte al papà morto, Giovannino dimostra di considerarlo ancora il centro della propria vita. Dice infatti: «non ci voglio andare [con te, mamma]» e non, come ci aspetterebbe: «non ci voglio venire». Il suo punto di riferimento è il padre – punto di partenza ed auspicabile punto di ritorno –, rispetto al quale ogni allontanamento appare destabilizzante. Nella drammaticità di quei momenti, inoltre, Giovannino non ha ancora capito che cosa significhi la morte del genitore. Spera infatti («se papà non viene…») che il padre possa ancora restargli vicino: eppure ne intuisce già l’immobilismo, il mutismo, l’incapacità di proteggerlo e di difenderlo, l’impossibilità d’essere da lui preso per mano per diventare a propria volta un uomo. Le vicende immediatamente successive, poi, confermano Giovanni nella certezza che il padre amorevolmente protegga, indirizzi e guidi e che, quando gli manca, anche la migliore delle madri, come Margherita è, possa provvedere solo in parte. Sulla sua strada di ragazzo esuberante, il futuro Don Bosco incontra però altri “padri”: i quasi-coetanei Luigi Comollo, che risveglia in lui l’emulazione delle virtù, e san Giuseppe Cafasso, che lo chiama «mio caro amico», gli fa «grazioso cenno di avvicinarsi» e, così facendo, lo conferma nella persuasione che paternità sia vicinanza, confidenza e interessamento concreto. Ma c’è soprattutto don Calosso, il sacerdote che “intercetta” il ricciuto Giovannino in occasione d’una “missione popolare” e diventa determinante per la sua crescita umana e spirituale. I gesti di don Calosso operano nel preadolescente Giovanni una vera e propria rivoluzione. Don Calosso innanzitutto gli parla. Quindi gli dà parola. Poi lo incoraggia. Ancora: si interessa alla storia della famiglia Bosco, dimostrando di saper contestualizzare l’“ora” di quel ragazzo nel “tutto” della sua vicenda. Inoltre gli svela il mondo, anzi in qualche modo lo rimette al mondo, facendogli conoscere cose nuove, regalandogli nuove parole e dimostrandogli che ha le capacità per fare molto e bene. Infine lo custodisce con il gesto e con lo sguardo, e provvede a lui nei suoi bisogni più urgenti e reali: «Mentre io parlavo, non mi tolse mai di dosso lo sguardo.
“Sta di buon animo amico, io penserò a te e al tuo studio”».

            In don Calosso, Giovanni Bosco fa dunque esperienza che la vera paternità merita un affidamento totale e totalizzante; conduce alla consapevolezza di sé; dischiude un “mondo ordinato” dove la regola dà sicurezza ed educa alla libertà:

            «Io mi sono tosto messo nelle mani di don Calosso. Conobbi allora che cosa voglia dire avere una guida stabile […], un fedele amico dell’anima… Egli mi incoraggiò; tutto il tempo che io poteva lo passava presso di lui…. Da quell’epoca ho cominciato a gustare che cosa sia la vita spirituale, giacché prima agiva piuttosto materialmente e come macchina che fa una cosa, senza saperne la ragione».

            Il padre terreno però è pure colui che vorrebbe sempre essere presso il figlio, ma ad un certo punto non riesce più a farlo. Anche don Calosso muore; anche il padre migliore a un certo punto si fa da parte, per donare al figlio la forza del distacco e dell’autonomia tipiche dell’età adulta.
            Qual è allora, per Don Bosco, la differenza tra famiglie riuscite o fallite? Si sarebbe tentati di dire che sta tutta qui: “riuscita” è la famiglia contraddistinta da genitori che educano i figli alla libertà e, se li lasciano, è solo per una sopraggiunta impossibilità o per il loro bene. “Ferita” invece è la famiglia dove il genitore non genera più alla vita, ma porta in sé problemi di varia natura che ostacolano la crescita del figlio: un genitore che si disinteressa a lui e, davanti alle difficoltà, persino lo abbandona, con un atteggiamento così diverso da quello del Buon Pastore.
            Le vicende biografiche di Laura, Carlo e Anna Maria lo confermano.

3. Laura: una figlia che “genera” la propria madre
            Nata a Santiago del Cile il 5 aprile 1891, e battezzata il 24 maggio successivo, Laura è la figlia maggiore di José D. Vicuña, un nobile decaduto che aveva sposato Mercedes Pino, figlia di modesti agricoltori. Tre anni dopo arriva una sorellina, Julia Amanda, ma ben presto il papà muore, dopo avere subíto una sconfitta politica che ne ha minato la salute e compromesso, con il sostentamento economico della famiglia, anche l’onore. Priva di qualsiasi «protezione e prospettiva di futuro», la mamma approda in Argentina, dove ricorre alla tutela del proprietario terriero Manuel Mora: un uomo «di carattere superbo e altero», che «non dissimula odio e disprezzo per chiunque avversasse i suoi disegni». Un uomo insomma che solo in apparenza garantisce protezione, ma è in realtà abituato a prendere, se necessario con la forza, quello che vuole, strumentalizzando le persone. Intanto paga gli studi presso il collegio delle Figlie di Maria Ausiliatrice a Laura e alla sorella e la loro madre – che subisce l’influsso psicologico di Mora – convive con lui senza trovare la forza di rompere il legame. Quando però Mora inizia a mostrare segni di disonesto interesse verso la stessa Laura, e soprattutto quando quest’ultima intraprende il percorso di preparazione alla Prima Comunione, lei d’un tratto comprende tutta la gravità della situazione. A differenza della mamma – che giustifica un male (la convivenza) in vista di un bene (l’educazione delle figlie in collegio) – Laura capisce che si tratta di una argomentazione moralmente illegittima, che mette in grave pericolo l’anima della madre. In questo periodo, poi, Laura vorrebbe diventare ella stessa suora di Maria Ausiliatrice: ma la sua domanda è respinta, perché figlia di una «pubblica concubina». Ed è a questo punto che proprio in Laura – accolta in collegio quando in lei dominavano ancora «impulsività, facilità di risentimento, irritabilità, impazienza e propensione ad apparire» – si manifesta un cambiamento che solo la Grazia, unita all’impegno della persona, può operare: chiede a Dio la conversione della madre, offrendo se stessa per lei. In quel momento, Laura non può muoversi né “in avanti” (entrando tra le Figlie di Maria Ausiliatrice) né “indietro” (tornando dalla madre e dal Mora). Con un gesto allora carico della creatività tipica dei santi, Laura intraprende l’unica strada che le è ancora accessibile: quella dell’altezza e della profondità. Nei propositi della Prima Comunione aveva annotato:

            Propongo di fare quanto so e posso per […] riparare le offese che voi, Signore, ricevete ogni giorno dagli uomini, specie dalle persone della mia famiglia; mio Dio, datemi una vita di amore, di mortificazione e di sacrificio.

            Ora finalizza il proposito in “Atto di offerta”, che include il sacrificio della vita stessa. Il confessore, riconoscendo che l’ispirazione è da Dio ma ignorandone le conseguenze, acconsente, e conferma che Laura è «consapevole dell’offerta che ha appena compiuto». Lei vive gli ultimi due anni con silenzio, allegria e sorriso e una indole ricca di calore umano. Eppure lo sguardo che posa sul mondo – come conferma un ritratto fotografico, molto diverso dalla stilizzazione agiografica nota – dice anche tutta la sofferta consapevolezza e il dolore che la abitano. In una situazione dove le manca sia la “libertà da” (condizionamenti, ostacoli, fatiche), sia la “libertà di” fare tante cose, questa preadolescente testimonia la “libertà per”: quella del dono totale di sé.
            Laura non disprezza, ma ama la vita: la propria e quella della mamma. Per questo si offre. Il 13 aprile 1902, Domenica del Buon Pastore, si chiede: «Se Lui dà la vita… cosa lo impedisce a me per la mamma?». Morente, aggiunge: «Mamma, io muoio, io stessa l’ho chiesto a Gesù… sono quasi due anni che gli offersi la vita per te…, per ottenere la grazia del tuo ritorno!».

            Sono parole prive di rimpianto e di rimprovero, ma cariche di una grande forza, una grande speranza e una grande fede. Laura ha imparato ad accogliere la mamma per quello che è. Offre anzi sé stessa per donarle ciò che lei sola non riesce a conseguire. Quando Laura muore, la mamma si converte. Laurita de los Andes, la figlia, ha così contribuito a generare la madre nella vita di fede e di grazia.

4. Carlo Braga e l’ombra della madre
            Anche Carlo Braga, che nasce due anni prima di Laura, nel 1889, è segnato dalla fragilità della mamma: quando infatti il marito abbandona lei e i figli, Matilde «non mangiava quasi più e declinava a vista d’occhio». Condotta quindi a Como, vi muore quattro anni più tardi di tubercolosi, anche se tutti sono convinti che la depressione si fosse trasformata per lei in una vera e propria pazzia. Carlo inizia allora ad essere «compatito come il figlio di un incosciente [il padre] e d’una madre infelice». Lo soccorrono però tre provvidenziali avvenimenti.
            Del primo, occorso quando era piccolissimo, egli riscopre più tardi il senso: era caduto nel focolare e la mamma Matilde, nel trarlo in salvo, l’aveva in quell’istante consacrato alla Madonna. Così, il pensiero della mamma assente diventa per Carlo bambino «un ricordo doloroso e consolante insieme»: dolore per la sua assenza; ma anche certezza che ella lo abbia affidato alla Madre di tutte le madri, Maria Santissima. Scrive don Braga, anni dopo, a un confratello salesiano colpito dalla perdita della propria mamma:

            Ora la mamma ti appartiene assai più di quando era viva. Lascia che io ti parli della mia personale esperienza. Mia madre mi lasciò quando avevo sei anni […]. Ma ti devo confessare che essa mi seguì passo passo e, quando piangevo desolato al mormorio dell’Adda, mentre, pastorello, mi sentivo chiamato ad una vocazione più alta, mi sembrava che la Mamma mi sorridesse e mi asciugasse le lacrime.

            Carlo incontra poi suor Giuditta Torelli, una Figlia di Maria Ausiliatrice che «salvò il piccolo Carlo dalla disgregazione della sua personalità quando a nove anni si accorse di essere tollerato e sentì talvolta la gente dire a suo riguardo: “Povero figliolo, perché poi è al mondo?”». C’è infatti chi sosteneva che suo padre avrebbe meritato d’esser fucilato per il tradimento dell’abbandono e, quanto alla mamma, molti compagni di scuola gli replicano: «Tu sta’ zitto, tanto tua madre era una matta». Ma suor Giuditta lo ama o lo aiuta in modo speciale; posa su di lui uno sguardo “nuovo”; inoltre crede nella sua vocazione e la incoraggia.
            Entrato quindi nel collegio salesiano di Sondrio, Carlo vive la terza e decisiva esperienza: conosce don Rua, di cui ha l’onore di essere il piccolo segretario per un giorno. Don Rua sorride a Carlo e, ripetendo il gesto che Don Bosco aveva compiuto un tempo con lui («Michelino, io e te faremo sempre tutto a metà»), «mette la sua mano dentro la propria e gli dice: “noi saremo sempre amici”»: se suor Giuditta aveva creduto nella vocazione di Carlo, don Rua gli permette ora di realizzarla, «facendolo passare sopra a tutti gli ostacoli». Certo a Carlo Braga le difficoltà non mancheranno ad ogni tappa di vita – da novizio, chierico, addirittura ispettore –, concretizzandosi in rinvii prudenziali e assumendo talvolta la forma della maldicenza: ma egli avrà ormai imparato ad affrontarle. Diventa intanto un uomo capace di irradiare una straordinaria gioia, umile, attivo e di delicata ironia: tutte caratteristiche che dicono l’equilibrio della persona e il suo senso di realtà. Sotto l’azione dello Spirito Santo, don Braga sviluppa egli stesso un’irradiante paternità, cui si unisce una grande tenerezza per i giovani a lui affidati. Don Braga riscopre l’amore per il proprio papà, lo perdona e intraprende un viaggio per riconciliarsi con lui. Si sottopone a fatiche senza numero pur di essere sempre tra i suoi Salesiani e ragazzi. Si definisce come colui che è «stato messo nella vigna a far da palo», cioè in ombra ma per il bene degli altri. Un padre, nell’affidargli il proprio figlio come aspirante salesiano, dice: «Con un uomo simile ti lascio andare anche al Polo Nord!». Don Carlo non si scandalizza dei bisogni dei figli, anzi li educa a manifestarli, ad accrescere il desiderio: «Hai bisogno di qualche libro? Non avere paura, scrivi una lista più lunga». Soprattutto, don Carlo ha imparato a posare sugli altri quello sguardo d’amore dal quale lui stesso si era sentito raggiunto un tempo grazie a suor Giuditta e don Rua. Testimonia don Giuseppe Zen, oggi cardinale, in un passo lungo che merita però di essere letto integralmente e che inizia con le parole della propria mamma a don Braga:

            «Guardi, Padre, questo ragazzo non è più tanto bravo. Forse non è adatto per essere accettato in questo istituto. Io non vorrei che lei fosse ingannato. Ah, sapesse come mi ha fatto disperare in questo ultimo anno! Non sapevo proprio più come fare. E se farà disperare anche qui, me lo dica pure, che lo vengo a riprendere subito». Don Braga, invece di rispondere, mi guardava negli occhi; io pure lo guardavo, ma a testa bassa. Mi sentivo come un imputato accusato dal Pubblico Ministero, anziché difeso dal proprio avvocato. Ma il giudice era dalla mia parte. Con lo sguardo mi ha profondamente capito, subito e meglio di tutte le spiegazioni di mia madre. Egli stesso, scrivendomi molti anni più tardi, si applicava le parole del Vangelo: «Intuitus dilexit eum (“guardatolo lo amò”)». E da quel giorno non ebbi più dubbi sulla mia vocazione.

5. Anna Maria Lozano Díaz e la feconda malattia del padre
            I genitori di Laura e di Carlo si erano – a vario titolo – rivelati dei “lontani” e degli “assenti”. Un’ultima figura, quella di Anna Maria, attesta invece il dinamismo opposto: quello d’un padre troppo presente, che con la sua presenza dischiude però alla figlia un nuovo cammino di santificazione. Anna nasce il 24 settembre 1883 a Oicatà, in Colombia, in una famiglia numerosa, contraddistinta dall’esemplare vita cristiana dei genitori. Quando Anna è giovanissima il papà – un giorno, nel lavarsi – scopre una macchia sospetta sulla gamba. È la terribile lebbra, che egli riesce per qualche tempo a nascondere, ma è costretto infine a riconoscere, accettando dapprima di separarsi dalla famiglia, quindi di ricongiungersi con essa presso il lazzaretto di Agua de Dios. La moglie gli aveva detto eroicamente: «La tua sorte è la nostra». Così, i sani accettano i condizionamenti che vengono loro dall’assumere il ritmo dei malati. In questo frangente, la malattia del padre condiziona la libertà di scelta di Anna Maria, costretta a progettare la propria vita nel lazzaretto. Lei inoltre – come era già successo a Laura – si trova impossibilitata nel realizzare la propria vocazione religiosa a causa della malattia paterna: sperimenta allora, interiormente, quella lacerazione che la lebbra opera sui malati. Anna Maria però non è sola. Come Don Bosco grazie al Calosso, Laura nel confessore e Carlo in don Rua, trova un amico dell’anima. È il beato don Luigi Variara, salesiano, che la assicura: «Se avete vocazione religiosa, si realizzerà», e la coinvolge nella fondazione delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, nel 1905. È il primo Istituto ad accogliere al proprio interno lebbrose o figlie di lebbrosi. Quando la Lozano muore, il 5 marzo 1982 a quasi 99 anni, Madre generale per più di mezzo secolo, l’intuizione del salesiano don Variara si è ormai concretizzata in un’esperienza che ha confermato e rafforzato la dimensione vittimale-riparatrice del carisma salesiano.

6. I santi insegnano
            Nella loro ineliminabile differenza, le vicende di Laura Vicuña (beata), Carlo Braga e Anna Maria Lozano (servi di Dio) sono accomunate da alcuni aspetti degni di nota:

            a) Laura, Anna e Carlo, come già Don Bosco, soffrono situazioni di di-sagio e di difficoltà, a vario titolo ricollegate ai loro genitori. Non ci si può dimenticare di Mamma Margherita, che si vede costretta ad allontanare Giovannino da casa quando l’assenza dell’autorità paterna facilita la contrapposizione con il fratello Antonio; né scordare che Laura si vide insidiata dal Mora e respinta dalle Figlie di Maria Ausiliatrice come loro aspirante; che Carlo Braga subì incomprensioni e calunnie; o che la lebbra del padre sembra ad un certo punto sottrarre ad Anna Maria ogni speranza di futuro.
Una famiglia a vario titolo ferita arreca perciò un danno oggettivo a chi ne fa parte: misconoscere o tentare di ridurre la portata di questo danno sarebbe una impresa altrettanto illusoria quanto ingiusta. Ad ogni sofferenza si associa infatti un elemento di perdita che i “santi”, con il loro realismo, intercettano e imparano a chiamare per nome.

            b) Giovannino, Laura, Anna Maria e Carlo compiono a questo punto un secondo passaggio, più arduo del primo: invece di subire passivamente la situazione, o di gemere su di essa, muovono con accresciuta consapevolezza incontro al problema. Oltre a un vivo realismo, attestano la capacità, tipica dei santi, di reagire con prontezza, evitando il ripiegarsi autoreferenziale. Si dilatano nel dono, e innestano questo dono nelle condizioni concrete di vita. Così facendo, saldano il «da mihi animas» al «caetera tolle».

            c) I limiti e le ferite, così, non sono mai rimossi: ma sempre riconosciuti e chiamati per nome; addirittura, sono “abitati”. Anche la beata Alexandrina Maria da Costa e il servo di Dio Nino Baglieri, il venerabile Andrea Beltrami e il beato Augusto Czartoryski, “raggiunti” dal Signore nelle condizioni invalidanti della loro malattia, il beato Tito Zeman, il venerabile José Vandor e il servo di Dio Ignazio Stuchlý – parte di vicende storiche più grandi di loro e che paiono sopraffarli – insegnano la difficile arte di sostare nelle difficoltà e permettere al Signore di fare fiorire la persona in esse. La libertà di scelta assume qui la forma altissima di una libertà di adesione, nel «fiat!».

Nota Bibliografica:
            Per preservare il carattere di “testimonianza” e non di “relazione” di questo scritto, si è evitato un apparato critico di note. Si segnala però che le citazioni presenti nel testo sono tratte dalle Memorie dell’Oratorio del Sac. Giovanni Bosco; da Maria Dosio, Laura Vicuña. Un cammino di santità giovanile salesiana, LAS, Roma 2004; da Don Carlo Braga racconta la sua esperienza missionaria e pedagogica (testimonianza autobiografica del servo di Dio) e dalla Vita di Don Carlo Braga, “Il Don Bosco della Cina”, scritta dal salesiano don Mario Rassiga e oggi disponibile in ciclostilato. A queste fonti si aggiungono poi i materiali dei Processi di beatificazione e canonizzazione, accessibili per Don Bosco e Laura, ancora riservati per i servi di Dio.




Il Beato Alberto Marvelli. Un faro di fede e impegno sociale nel XX secolo

Nel panorama dei grandi testimoni di fede del XX secolo, il nome di Alberto Marvelli risplende come un esempio luminoso di dedizione cristiana e impegno sociale. Nato a Ferrara nel 1918 e vissuto nella Rimini del dopoguerra, Alberto ha incarnato i valori del Vangelo attraverso una vita spesa al servizio dei più deboli e bisognosi. Beatificato da Papa Giovanni Paolo II nel 2004, la sua figura continua a ispirare giovani e adulti nel cammino della fede e dell’azione sociale.

Un’infanzia di valori e spiritualità
Alberto Marvelli nacque il 21 marzo 1918, secondo di sette figli di Alfredo Marvelli e Maria Mayr. La famiglia, profondamente cristiana, instillò in lui fin da piccolo valori di fede, carità e servizio. La madre, in particolare, ebbe una grande influenza sulla sua formazione spirituale, trasmettendogli l’amore per la preghiera e l’attenzione verso i bisognosi. La famiglia Marvelli era nota per la generosità e l’ospitalità, spesso aprendo la propria casa a chiunque avesse bisogno.
Durante gli anni del liceo a Rimini, Alberto si distinse non solo per l’eccellenza negli studi, ma anche per l’impegno nelle attività sportive e sociali. Appassionato di ciclismo e atletica, vedeva nello sport un mezzo per rafforzare il carattere e promuovere valori come la lealtà e la disciplina.

Gli anni universitari e la vocazione sociale
Iscritto alla Facoltà di Ingegneria Meccanica dell’Università di Bologna, Alberto affrontò gli studi con serietà e passione. Ma oltre all’impegno accademico, dedicò tempo ed energie all’Azione Cattolica, movimento che giocò un ruolo fondamentale nella sua crescita spirituale e nel suo impegno sociale. Organizzava gruppi di studio, incontri spirituali e progetti di volontariato, coinvolgendo i colleghi universitari in iniziative a favore dei meno fortunati.
La sua camera divenne un luogo di ritrovo per discussioni su tematiche sociali e religiose. Qui, Alberto incoraggiava i compagni a riflettere sul ruolo dei laici nella Chiesa e nella società, promuovendo l’idea che ogni cristiano è chiamato a essere testimone attivo del Vangelo nel mondo.

La guerra: prova di fede e coraggio
Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Alberto fu chiamato alle armi. Anche nell’ambiente militare, non smise di testimoniare la propria fede, condividendo con i commilitoni momenti di preghiera e offrendo sostegno morale in un periodo di grande incertezza e paura.
Dopo l’8 settembre 1943, con l’armistizio italiano, tornò a Rimini, trovando una città devastata dai bombardamenti e dall’occupazione nazista. In questo contesto drammatico, Alberto si impegnò attivamente nella Resistenza, aiutando prigionieri alleati ed ebrei a fuggire dalle mani dei nazisti. Rischiò la propria vita in numerose occasioni, mostrando un coraggio straordinario e una fede incrollabile.

La carità senza confini
Una delle immagini più emblematiche di Alberto è quella che lo vede girare in bicicletta per le strade distrutte di Rimini, carico di cibo, vestiti e medicine da distribuire a chi ne aveva bisogno. La sua bicicletta divenne simbolo di speranza per molti cittadini. Non faceva distinzioni tra le persone: aiutava italiani, stranieri, amici e nemici, vedendo in ognuno il volto di Cristo sofferente.
Aprì le porte della propria casa agli sfollati, organizzò mense per i poveri e si adoperò per trovare alloggi a chi era rimasto senza casa. La sua dedizione era totale e incondizionata. Come scrisse nel suo diario: “Ogni povero è Gesù. Ogni atto di carità è un atto d’amore verso di Lui”.

La vita interiore e la spiritualità profonda
Nonostante gli impegni sociali e politici, Alberto non trascurò mai la propria vita spirituale. Partecipava quotidianamente all’Eucaristia, dedicava tempo alla preghiera e alla meditazione, e si affidava costantemente alla Provvidenza divina. Il suo diario personale rivela una profonda unione con Dio e un desiderio ardente di conformarsi alla volontà divina in ogni aspetto della sua vita.
Scriveva: “Dio è la mia felicità infinita. Devo essere santo altrimenti nulla”. Questa tensione verso la santità permeava ogni suo gesto, piccolo o grande che fosse. La confessione regolare, l’adorazione eucaristica e la lettura delle Sacre Scritture erano per lui momenti imprescindibili di crescita spirituale.

L’impegno politico come forma di carità
Nel dopoguerra, Alberto si impegnò attivamente nella ricostruzione morale e materiale della società. Entrò a far parte della Democrazia Cristiana, vedendo nella politica un mezzo per promuovere il bene comune e la giustizia sociale. Per lui, la politica era una forma alta di carità, un servizio disinteressato alla comunità.
Come assessore ai Lavori Pubblici di Rimini, lavorò instancabilmente per migliorare le condizioni abitative dei meno abbienti, promosse la ricostruzione di scuole e ospedali, e sostenne iniziative per il rilancio economico della città. Rifiutò qualsiasi forma di corruzione o compromesso morale, mettendo sempre al centro le esigenze delle persone più vulnerabili.

Testimonianze di una vita straordinaria
Molte sono le testimonianze di chi conobbe Alberto personalmente. Amici e colleghi ricordano il suo sorriso, la sua disponibilità e la capacità di ascolto. Era solito dire: “Non possiamo amare Dio se non amiamo i nostri fratelli”. Questa convinzione si traduceva in gesti concreti, come ospitare in casa propria famiglie sfollate o rinunciare al proprio pasto per darlo a chi aveva fame.
Il suo stile di vita semplice e austero, unito a una profonda gioia interiore, attirava l’ammirazione di molti. Non cercava mai il riconoscimento o la gloria personale, ma agiva sempre con umiltà e discrezione.

La tragedia e la beatificazione
Il 5 ottobre 1946, a soli 28 anni, Alberto morì tragicamente in un incidente stradale mentre si recava in bicicletta a un comizio elettorale. La sua morte improvvisa fu un duro colpo per la comunità. Tuttavia, il suo funerale divenne una manifestazione di affetto e riconoscenza: migliaia di persone si unirono per rendere omaggio a un giovane che aveva dato tutto sé stesso per gli altri.
La fama di santità che circondava la sua figura portò all’avvio del processo di beatificazione negli anni ’90. Il 5 settembre 2004, durante una cerimonia a Loreto, Papa Giovanni Paolo II lo proclamò Beato. La beatificazione non fu solo un riconoscimento personale, ma anche un messaggio per i giovani di tutto il mondo: la santità è possibile in ogni stato di vita, anche nel laicato e nell’impegno sociale e politico.

Eredità e attualità
La figura di Alberto Marvelli continua a essere un punto di riferimento per chiunque desideri coniugare fede e azione sociale. La sua vita testimonia che è possibile vivere il Vangelo nella quotidianità, impegnandosi per la giustizia, la solidarietà e il bene comune. In un’epoca caratterizzata da individualismo e indifferenza, l’esempio di Alberto invita a riscoprire il valore dell’amore verso il prossimo e della responsabilità sociale.
Oggi, diverse associazioni e iniziative portano il suo nome, promuovendo progetti di solidarietà, formazione spirituale e impegno civile. La sua vita è spesso citata come esempio nei percorsi educativi e catechetici, ispirando nuove generazioni a seguire il suo cammino.

Riflessioni finali
Il messaggio di Alberto Marvelli è di straordinaria attualità. La sua capacità di unire fede profonda e azione concreta rappresenta una risposta alle sfide del nostro tempo. Egli dimostra che la santità non è riservata a pochi eletti, ma è un cammino accessibile a chiunque si apra all’amore di Dio e al servizio dei fratelli.
In un passaggio del suo diario, Alberto scriveva: “Ogni giorno è un dono prezioso per amare di più”. Questa frase racchiude l’essenza della sua spiritualità e può essere un faro per tutti coloro che desiderano vivere una vita piena di senso e orientata al bene.

Il Beato Alberto Marvelli rappresenta un modello di santità laicale, un giovane che ha saputo trasformare la propria fede in azioni concrete a favore degli altri. La sua vita, seppur breve, è stata un inno all’amore, alla giustizia e alla speranza. Oggi più che mai, la sua testimonianza invita ognuno di noi a riflettere sul proprio ruolo nella società e sulla possibilità di essere strumenti di pace e di bene nel mondo.

Alberto Marvelli continua a ispirare con la sua vita semplice e straordinaria. Un invito a tutti noi a pedalare, come lui, sulle strade della solidarietà e dell’amore fraterno.




San Francesco de Sales studente universitario a Padova (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

Medicina
            Accanto alle facoltà di diritto e di teologia, a Padova gli studi di medicina e di botanica godevano di un prestigio straordinario, soprattutto dopo che il medico fiammingo Andrea Vesalio, padre dell’anatomia moderna, aveva inferto un colpo mortale alle vecchie teorie d’Ippocrate e di Galieno, grazie alla pratica della dissezione del corpo umano, che scandalizzava le autorità stabilite. Vesalio aveva pubblicato nel 1543 il suo De humani corporis fabrica, che rivoluzionò le conoscenze dell’anatomia umana. Per procurarsi cadaveri, si chiedevano i corpi dei giustiziati o si dissotterravano i morti, il che non avveniva senza provocare delle contese talvolta cruente dei becchini.
            Ciò nonostante è possibile avanzare parecchie costatazioni. Innanzi tutto, si sa che durante la grave malattia che lo prostrerà a Padova sul finire del 1590, aveva deciso di donare il suo corpo alla scienza, qualora fosse morto, e ciò allo scopo di evitare litigi tra gli studenti di medicina, intenti a cercare cadaveri. Approvava pertanto il nuovo metodo della dissezione del corpo umano? Sembrava in ogni caso incoraggiarla con questo gesto di scottante attualità. Inoltre, è rilevabile in lui un costante interesse per i problemi della salute, per i medici e per i chirurgi. Esiste una grande differenza, scriverà per esempio, tra il brigante e il chirurgo: «Il brigante e il chirurgo incidono le membra e fanno sgorgare il sangue, l’uno per uccidere, l’altro per guarire».
            Sempre a Padova all’inizio del secolo XVII, un medico inglese, William Harvey, scoprirà le regole della circolazione del sangue. Il cuore diveniva veramente l’autore della vita, il centro di tutto, il sole, come il principe nel suo Stato. Anche se il medico inglese pubblicherà le sue scoperte solo nel 1628, è possibile supporre che al tempo in cui Francesco era studente, tali ricerche fossero già avviate. Egli stesso scriverà per esempio che «cor habet motum in se proprium et alia movere facit», cioè che «il cuore ha in sé un movimento che gli è proprio e che fa muovere tutto il resto». Citando Aristotele, affermerà che «il cuore è il primo membro che vive in noi e l’ultimo che muore».

Botanica
            Probabilmente durante il suo soggiorno a Padova, Francesco si interessò anche delle scienze naturali. Non poteva ignorare che in città c’era il primo giardino botanico, creato per coltivare, osservare e sperimentare piante indigene ed esotiche. Le piante erano ingredienti che entravano nella maggioranza dei medicinali e il loro uso a scopo terapeutico si basava principalmente su testi di autori antichi, non sempre affidabili. Possediamo di Francesco otto raccolte di Similitudini, redatte probabilmente tra il 1594 e il 1614, ma la cui origine può risalire a Padova. Il titolo di queste piccole raccolte di immagini e di paragoni tratti dalla natura manifesta certamente il loro carattere utilitario; il loro contenuto, invece, testimonia in ogni caso un interesse quasi enciclopedico, non soltanto per il mondo vegetale, ma anche per quello minerale e animale.
            Francesco di Sales ha consultato gli autori antichi, che al suo tempo godevano di un’indiscussa autorità in materia: Plinio il Vecchio, autore di una vasta Storia naturale, vera enciclopedia di quell’epoca, ma anche Aristotele (quello della Storia degli animali e de La generazione degli animali), Plutarco, Teofrasto (autore di una Storia delle piante), e perfino sant’Agostino e sant’Alberto Magno. Conosceva pure gli autori contemporanei, in particolare i Commentari a Dioscoride del naturalista italiano Pietro Andrea Mattioli.
            Ciò che affascinava Francesco di Sales era il rapporto misterioso tra la storia naturale e la vita spirituale dell’uomo. Per lui, scrive A. Ravier, «ogni scoperta è portatrice di un segreto della creazione». Meravigliose sono le virtù particolari di alcune piante: «Plinio e Mattioli descrivono un’erba salutare contro la peste, la colica, i calcoli renali, invitandoci a coltivarla proprio nei nostri giardini». Lungo i numerosi sentieri che ha percorso durante la sua vita, lo scorgiamo attento alla natura, al mondo che lo circonda, al succedersi delle stagioni e al loro significato misterioso. Il libro della natura gli appariva come un’immensa Bibbia che occorreva imparare a interpretare, ragion per cui chiamava i Padri della Chiesa «erboristi spirituali». Quando eserciterà la direzione spirituale di persone assai differenti, rammenterà che «nel giardino, ogni erba e ogni fiore richiede una cura particolare».

Programma di vita personale
            Durante il suo soggiorno a Padova, città dove, tra monasteri e conventi, se ne contavano oltre quaranta, Francesco si rivolse di nuovo ai gesuiti per la sua direzione spirituale. Sottolineato come conviene il ruolo di primo piano dei gesuiti nella formazione del giovane Francesco di Sales, va detto però che essi non furono i soli. Una grande ammirazione e amicizia lo legava al padre Filippo Gesualdi, predicatore francescano del celebre convento di sant’Antonio di Padova. Frequentava il convento dei Teatini, dove il padre Lorenzo Scupoli veniva di tanto in tanto a predicare. Là appunto ne scoprì il libro intitolato Combattimento spirituale, che gli insegnerà a dominare le inclinazioni della parte inferiore dell’anima. Francesco di Sales «ha scritto non poche cose – asseriva il Camus –, di cui scopro subito il seme e il germe in qualche passo di detto Combattimento». Sempre nel suo soggiorno padovano, pare inoltre che si sia dedicato a un’attività educativa in un orfanotrofio.
            Si deve senza dubbio al benefico influsso di questi maestri, in particolare del padre Possevino, il fatto che Francesco scrisse vari regolamenti di vita, dei quali sono rimasti dei frammenti significativi. Il primo, intitolato Esercizio della preparazione, era un esercizio mentale da compiere al mattino: «Mi sforzerò, per mezzo suo – scriveva –, a dispormi per trattare e compiere, nella forma più lodevole, il mio dovere». Consisteva nell’immaginare tutto quello che gli poteva capitare durante la giornata: «Penserò dunque seriamente agli imprevisti che mi potranno capitare, alle compagnie dove forse sarò costretto d’intervenire, ai fatti che mi si potranno presentare, ai luoghi dove si cercherà di convincermi d’andare». Ed ecco lo scopo dell’esercizio:

            Studierò con diligenza e cercherò le vie migliori per evitare dei passi falsi. Disporrò così e stabilirò dentro di me quello che mi converrà fare, l’ordine e il comportamento che dovrò tenere in questa o in quella circostanza, ciò che sarà opportuno dire in compagnia, il contegno che dovrò osservare e ciò che bisognerà fuggire e desiderare.

            Nella Condotta particolare per passare bene la giornata, lo studente individuava le principali pratiche di pietà che intendeva compiere: preghiere del mattino, messa quotidiana, tempo di «riposo spirituale», preghiere e invocazioni durante la notte. Nell’Esercizio del sonno o del riposo spirituale, precisava i soggetti su cui doveva concentrare le sue meditazioni. Accanto ai temi classici, quali la vanità di questo mondo, il detestare il peccato, la giustizia divina, vi aveva ritagliato uno spazio per considerazioni, dal sapore umanista, sulla «eccellenza della virtù», che «rende l’uomo bello interiormente e anche esteriormente», sulla bellezza della ragione umana, questa «divina fiaccola» che diffonde un «meraviglioso splendore», come pure sulla «sapienza infinita, l’onnipotenza e l’incomprensibile bontà» di Dio. Un’altra pratica di pietà era consacrata alla Comunione frequente, alla preparazione e al relativo ringraziamento. Vi si nota un progresso nella frequenza della comunione rispetto al periodo parigino.
            Quanto alle Regole per le conversazioni e gli incontri, esse hanno un interesse particolare dal punto di vista dell’educazione sociale. Contengono sei punti che lo studente si proponeva di osservare. Prima di tutto occorreva distinguere bene tra il semplice incontro, dove «la compagnia è momentanea», e la «conversazione», dove entra in gioco l’affettività. Per quanto concerne gli incontri, vi si legge questa regola generale:

            Non disprezzerò mai, né darò l’impressione di fuggire completamente l’incontro di qualsiasi persona; questo potrebbe dar motivo d’apparire superbo, altero, severo, arrogante, censore, ambizioso e controllore. […] Non mi prenderò la libertà di dire o di fare qualcosa che non entri nella misura, per non apparire un insolente, lasciandomi trasportare da una familiarità troppo facile. Soprattutto starò attento a non mordere, o pungere o motteggiare qualcuno […]. Rispetterò ognuno in particolare, osserverò la modestia, parlerò poco e bene, in modo che i compagni desiderino tornare ad un nuovo incontro con piacere e non con noia.

            A proposito delle conversazioni, termine che all’epoca aveva un significato ampio di abituale frequentazione o di compagnia, Francesco si imponeva una maggiore prudenza. Voleva essere «amico di tutti e familiare di pochi», e sempre fedele all’unica regola che non consentiva eccezione: «Niente contro Dio».
            Per il resto, scriveva, «sarò modesto senza insolenza, libero senza austerità, dolce senza affettazione, arrendevole senza contraddizione, a meno che la ragione non suggerisca diversamente, cordiale senza dissimulazione». Si comporterà in maniera differente verso i superiori, gli uguali e gli inferiori. Era sua regola generale quella di «adattarsi alla varietà delle compagnie, senza pregiudicare però in nessun modo la virtù». Lo studente aveva diviso le persone in tre categorie: le persone sfacciate, quelle libere e le chiuse. Resterà imperturbabile davanti agli insolenti, sarà aperto con le persone libere (cioè semplici, accoglienti) e si mostrerà assai prudente con soggetti melanconici, sovente pieni di curiosità e di sospetti. Con i grandi, infine, si imporrà di stare in guardia, di trattare con loro «come con il fuoco» e di non avvicinarsi troppo. Certo, si potrebbe testimoniare loro dell’amore, perché l’amore «genera la libertà», ma ciò che dovrà dominare è il rispetto che «genera la modestia».
            È facile costatare a quale grado di maturità umana e spirituale lo studente di diritto era allora giunto. Prudenza, saggezza, modestia, discernimento e carità sono le qualità che balzano agli occhi nel suo programma di vita, ma vi si trova anche un’«onesta libertà», un atteggiamento benevolo verso tutti, un fervore spirituale fuori del comune. Ciò non impedì che a Padova conoscesse momenti difficili, dei quali si trovano forse delle reminiscenze in un passo della Filotea dove afferma che «un giovanotto o una signorina che non assecondino nel linguaggio, nel gioco, nel ballo, nel bere o nel vestire la sregolatezza di una compagnia debosciata verranno beffeggiati e scherniti dagli altri, e la loro modestia chiamata bigotteria o affettazione».

Ritorno in Savoia
            Il 5 settembre 1591 Francesco di Sales coronò l’insieme dei suoi studi con un brillante dottorato in utroque jure. Prendendo congedo dall’università di Padova, si allontanava, diceva, da «quella collina sulla cui cima abitano, senza dubbio, le Muse come in un altro Parnaso».
            Prima di lasciare l’Italia, era opportuno visitare questo paese così ricco di storia, di cultura e di religione. Con Déage, Gallois e qualche amico savoiardo, partì sul finire di ottobre alla volta di Venezia, poi di là fino ad Ancona e al santuario di Loreto. Loro meta finale era quella di giungere a Roma. Purtroppo la presenza di briganti, inorgogliti dalla morte del papa Gregorio XIV, ed anche la mancanza di denaro non glielo consentirono.
            Di ritorno a Padova, riprese per qualche tempo lo studio del Codice, inserendovi il racconto del viaggio. Ma alla fine dell’anno 1591, si arrese per la fatica. Era tempo di pensare a tornare in patria. Effettivamente, il ritorno in Savoia avvenne verso la fine di febbraio del 1592.




San Francesco de Sales studente universitario a Padova (1/2)

            Francesco si recò a Padova, città appartenente alla repubblica di Venezia, nell’ottobre del 1588, accompagnato dal fratello cadetto Gallois, un ragazzo di dodici anni che studierà dai gesuiti, e dal loro fedele precettore, don Déage. Alla fine del secolo XVI, la facoltà di diritto dell’università di Padova godeva di una fama straordinaria, che superava perfino quella del celebre Studium di Bologna. Quando pronuncerà il suo Discorso di ringraziamento in seguito alla promozione a dottore, Francesco di Sales ne tesserà gli elogi in forma ditirambica:

            Fino allora, io non avevo consacrato nessun lavoro alla santa e sacra scienza del Diritto: ma allorché, in seguito, decisi di impegnarmi in tale studio, non ebbi assolutamente bisogno di cercare dove rivolgermi o dove recarmi; questo collegio di Padova mi attirò subito per la sua celebrità e, sotto i più favorevoli auspici, infatti, in quel tempo, aveva dottori e lettori quali non ebbe mai e non avrà giammai di più grandi.

            Checché egli ne dica, è certo che la decisione di studiare il diritto non partiva da lui, ma gli venne imposta dal padre. Altre ragioni hanno potuto giocare a favore di Padova, e, precisamente, il bisogno che il Senato di uno Stato bilingue aveva di poter disporre di magistrati provvisti di una duplice cultura, francese e italiana.

Nella patria dell’umanesimo
            Valicando per la prima volta le Alpi, Francesco di Sales metteva piede nella patria dell’umanesimo. A Padova poté non solamente ammirare i palazzi e le chiese, specialmente la basilica di Sant’Antonio, ma anche gli affreschi di Giotto, i bronzi di Donatello, le pitture del Mantegna, o ancora gli affreschi del Tiziano. Il suo soggiorno nella penisola italiana gli consentirà inoltre di conoscere parecchie città d’arte, in particolare, Venezia, Milano e Torino.
            Sul piano letterario, non poteva mancare d’essere in contatto con alcune produzioni tra le più celebri. Ha avuto forse tra mano la Divina Commedia di Dante Alighieri, i poemi del Petrarca, precursore dell’umanesimo e primo poeta del suo tempo, le novelle del Boccaccio, fondatore della prosa italiana, l’Orlando furioso dell’Ariosto, o la Gerusalemme liberata del Tasso? Le sue preferenze andavano alla letteratura spirituale, in particolare alla lettura meditata del Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli. Riconoscerà modestamente: «Non penso di parlare un italiano perfetto».
            A Padova, Francesco ebbe la fortuna di incontrare un insigne gesuita nella persona del padre Antonio Possevino. Questo «umanista errante dalla vita epica», che era stato incaricato dal papa di missioni diplomatiche in Svezia, Danimarca, Russia, Polonia e Francia, aveva preso dimora fissa a Padova poco prima dell’arrivo di Francesco. Divenne suo direttore spirituale e sua guida negli studi e nella conoscenza del mondo.

L’università di Padova
            Fondata nel 1222, quella di Padova era la più antica università d’Italia dopo quella di Bologna, di cui era una derivazione. Vi si insegnava con successo non soltanto il diritto, considerato come la scientia scientiarum, ma anche la teologia, la filosofia e la medicina. I circa millecinquecento studenti provenivano dall’intera Europa e non erano tutti cattolici, il che ingenerava a volte preoccupazioni e disordini.
            Le risse erano frequenti, talvolta sanguinose. Uno dei giochi pericolosi preferiti era la «caccia ai Padovani». Francesco di Sales racconterà un giorno a un amico, Jean-Pierre Camus, «che uno studente, dopo aver sferrato un colpo di spada contro uno sconosciuto, si rifugiò presso una donna che scoprì essere la madre del giovane appena assassinato». Lui stesso, che non circolava senza la spada, un giorno venne coinvolto in una lotta da compagni, che giudicavano la sua dolcezza come una forma di vigliaccheria.
            Professori e studenti sapevano apprezzare la proverbiale patavinam libertatem, che oltre ad essere coltivata nella ricerca intellettuale, incitava anche un buon numero di studenti a «svolazzare» dandosi alla bella vita. Anche i discepoli più vicini a Francesco non erano modelli di virtù. La vedova di uno di loro racconterà più tardi, col suo linguaggio pittoresco, come il suo futuro marito aveva messo in scena una farsa di cattivo gusto con alcuni complici, destinata a gettare Francesco tra le braccia di una «miserabile puttana».

Gli studi di diritto
            Per obbedire al padre, Francesco si dedicò con coraggio allo studio del diritto civile, cui volle aggiungere quello del diritto ecclesiastico, che farà di lui un futuro dottore in utroque jure. Lo studio della legge comportava anche quello della giurisprudenza, che è «la scienza per mezzo della quale si amministra il diritto».
            Lo studio era concentrato sulle fonti del diritto, cioè, l’antico diritto romano, raccolto e interpretato nel secolo VI dai giuristi dell’imperatore Giustiniano. In tutta la sua vita si ricorderà della definizione della giustizia, letta all’inizio del Digesto: «una perpetua, forte e costante volontà di rendere a ciascuno ciò che gli appartiene».
            Esaminando i quaderni di appunti di Francesco, possiamo individuare alcune sue reazioni di fronte a certe leggi. Si manifesta pienamente d’accordo con il titolo del Codice che apre la serie delle leggi: Della Sovrana Trinità e della Fede cattolica, e con la difesa che segue immediatamente: Che nessuno si deve permettere di discuterne in pubblico. «Questo titolo – così annotava – è prezioso, direi sublime, e degno di essere letto sovente contro i riformatori, i saccenti e i politici».
            La formazione giuridica di Francesco di Sales poggiava su basi che all’epoca parevano indiscutibili. Per i cattolici del suo tempo, «tollerare» il protestantesimo non poteva assumere altro significato se non quello di essere complici dell’errore; di qui la necessità di combatterlo e con tutti i mezzi, ivi compresi quelli forniti dal diritto in vigore. In nessun caso ci si voleva rassegnare alla presenza dell’eresia, la quale appariva non soltanto come un errore sul piano della fede, ma anche come una fonte di divisione e di disturbo della cristianità. Nella foga dei suoi vent’anni, Francesco di Sales condivideva questo modo di vedere.
            Ma tale foga aveva libero corso anche nei confronti di quanti favorivano l’ingiustizia e le persecuzioni, dato che, a proposito del titolo XXVI del libro III, scriveva: «È preziosa come l’oro e degna di essere scritta con lettere maiuscole la IX legge, che recita: Siano puniti col fuoco i familiari del principe se perseguitano gli abitanti delle province».
            Più tardi, Francesco farà appello a colui che designava come «nostro Giustiniano» per denunciare la lentezza della giustizia da parte del giudice, il quale «si scusa invocando mille ragioni di costume, di stile, di teoria, di pratica e di cautela». Nelle lezioni di diritto ecclesiastico studierà la raccolta delle leggi che utilizzerà più tardi, in particolare quelle del canonista medievale Graziano, tra l’altro per dimostrare che il vescovo di Roma è «vero successore di san Pietro e capo della Chiesa militante», e che i religiosi e le religiose devono essere posti «sotto l’obbedienza dei vescovi».
            Consultando gli appunti manoscritti presi da Francesco durante il suo soggiorno a Padova, si resta colpiti dalla scrittura estremamente curata. È passato dalla scrittura gotica, ancora utilizzata a Parigi, alla scrittura moderna degli umanisti.
            Ma alla fin fine, gli studi di diritto devono averlo piuttosto annoiato. In un torrido giorno d’estate, di fronte alla freddezza delle leggi e alla loro lontananza nel tempo, scriverà, disilluso, questo commento: «Dato che queste questioni sono vecchie, non pareva proficuo dedicarsi ad esaminarle in questo tempo canicolare, troppo caldo per affrontare con comodo discussioni fredde e agghiaccianti».

Studi teologici e crisi intellettuale
            Mentre era dedito agli studi del diritto, Francesco continuò a interessarsi da vicino della teologia. Secondo suo nipote, giunto di fresco a Padova, «si mise tosto al lavoro con tutta la diligenza possibile, e pose sul leggio della sua stanza la Somma del dottore angelico, san Tommaso, per averla ogni giorno davanti agli occhi e poterla consultare facilmente per comprendere altri libri. Godeva molto nel leggere i libri di san Bonaventura. Acquisterà una buona conoscenza dei Padri latini, in modo particolare dei «due brillanti luminari della Chiesa», «il grande sant’Agostino» e san Girolamo, che furono anche «due grandi capitani dell’antica Chiesa», senza dimenticare il «glorioso sant’Ambrogio» e san Gregorio Magno. Tra i Padri greci ammirava san Giovanni Crisostomo «che, per la sua eccelsa eloquenza, venne lodato e denominato Bocca d’oro». Inoltre, citerà di frequente san Gregorio Nazianzeno, san Basilio, san Gregorio di Nissa, sant’Atanasio, Origene e altri ancora.
            Consultando i frammenti di appunti pervenutici, si viene a sapere che leggeva anche gli autori più importanti del suo tempo, in particolare, il grande esegeta e teologo spagnolo Juan Maldonado, un gesuita che aveva impostato con successo nuovi metodi nello studio dei testi della Scrittura e dei Padri della Chiesa. Oltre allo studio personale, Francesco ha potuto seguire corsi di teologia all’università, dove don Déage preparava il dottorato, e approfittare dell’aiuto e del consiglio del padre Possevino. Si sa anche che si recava spesso dai francescani, presso la basilica di Sant’Antonio.
            La sua riflessione si concentrava di nuovo sul problema della predestinazione e della grazia, al punto da fargli riempire cinque quaderni di appunti. In realtà, Francesco si trovò posto davanti a un dilemma: restare fedele a convinzioni che furono sempre sue, oppure attenersi alle classiche posizioni di sant’Agostino e di san Tommaso, «dottore massimo e senza pari». Ora gli tornava difficile «simpatizzare» per una dottrina tanto scoraggiante di questi due maestri, o perlomeno per l’interpretazione corrente, secondo cui gli uomini non hanno alcun diritto alla salvezza, perché essa dipende totalmente da una libera decisione da parte di Dio.
            A partire dalla sua adolescenza, Francesco si era fatto un’idea più ottimista del disegno di Dio. Le sue convinzioni personali vennero rinforzate dopo la comparsa nel 1588 del libro del gesuita spagnolo Luis Molina, il cui titolo latino Concordia riassumeva bene la tesi: Concordia del libero arbitrio con il dono della grazia. In quest’opera, la predestinazione in senso stretto era sostituita con una predestinazione che teneva conto dei meriti dell’uomo, cioè delle sue buone o cattive azioni. In altri termini, Molina affermava sia l’agire sovrano di Dio sia il ruolo determinante della libertà da lui donata all’uomo.
            Nel 1606, il vescovo di Ginevra avrà l’onore di essere consultato dal papa a proposito della disputa teologica che opponeva, sempre sullo stesso problema, i partigiani del gesuita Molina e quelli del domenicano Domingo Báñez, per il quale la dottrina del Molina concedeva troppa autonomia alla libertà umana, col rischio di mettere a repentaglio la sovranità di Dio.
            Il Teotimo, che apparirà nel 1616, contiene al capitolo 5 del libro III il pensiero di Francesco di Sales, riassunto in «quattordici righe», le quali, secondo Jean-Pierre Camus, gli erano costate «la lettura di mille duecento pagine di un grosso volume». Con un lodevole sforzo per essere conciso ed esatto, Francesco affermava sia la liberalità e generosità divina, sia la libertà e responsabilità umana all’atto di redigere questa soppesata frase: «Dipende da noi essere suoi: infatti, benché sia un dono di Dio appartenere a Dio, tuttavia è un dono che Dio non rifiuta mai ad alcuno, anzi l’offre a tutti, per concederlo a coloro che di buon cuore acconsentiranno a riceverlo».
            Facendo sue le idee dei gesuiti, che agli occhi di molti apparivano come dei «novatori», e che ben presto i giansenisti con Blaise Pascal tacceranno di cattivi teologi, di lassisti, Francesco di Sales innestava la sua teologia nella corrente dell’umanesimo cristiano e optava per il «Dio del cuore umano». La «teologia salesiana», che poggia sulla bontà di Dio, il quale vuole la salvezza di tutti, si presenterà ugualmente con un pressante invito alla persona umana a rispondere con tutto il «cuore» agli appelli della grazia.

(continua)




Nino, un giovane come tanti… incontra nel suo Signore lo scopo della vita

            Nino Baglieri nasce a Modica Alta il 1° maggio 1951 da mamma Giuseppa e papà Pietro. Dopo appena quattro giorni è battezzato nella Parrocchia di Sant’Antonio da Padova. Cresce come tanti ragazzi, con il gruppo di amici, qualche fatica negli anni della scuola e il sogno di un futuro fatto di lavoro e della possibilità di formarsi una famiglia.
            Pochi giorni dopo il suo diciassettesimo compleanno, festeggiato al mare con gli amici, il 6 maggio 1968, memoria liturgica di san Domenico Savio, Nino durante una giornata di ordinario lavoro come muratore cade da 17 metri di altezza quando cede l’impalcatura del palazzo – non lontano da casa – al quale stava lavorando: 17 metri, precisa Nino, nel suo Quaderno-Diario, «1 metro per ogni anno di vita». «Le mie condizioni», racconta, «erano così gravi che i medici si aspettavano il mio decesso da un momento all’altro (ricevetti addirittura l’estrema unzione). [Un medico] fece un’insolita proposta ai miei genitori: “se vostro figlio riuscisse a superare questi momenti, il che sarebbe solo frutto di un miracolo, sarebbe destinato a passare la sua vita su un letto; se voi credete, con una puntura letale, sia a voi che a lui risparmierete tante sofferenze”. “Se Dio lo vuole con sé – rispose la mamma – lo prenda, ma se lo lascia vivere sarò felice di accudirlo per tutta la vita”. Così la mia mamma, che è sempre stata una donna di grande fede e coraggio, aprì le braccia e il cuore ed abbracciò per prima la croce».
Nino affronterà anni difficili anche per il peregrinare in diversi Ospedali, dove dolorose terapie e operazioni lo proveranno duramente, non sortendo la guarigione desiderata. Resterà tetraplegico per tutta la vita.
            Ritornato a casa, seguito dall’affetto della famiglia e dal sacrificio eroico della mamma che gli è sempre accanto, Nino Baglieri ritrova gli sguardi di amici e conoscenti, ma vede in essi troppo spesso un compatire che lo disturba: “mischinu poviru Ninuzzu…” (“poveretto povero Nino…”). Finisce così per chiudersi in sé stesso, in dieci dolorosi anni di solitudine e rabbia. Sono anni di disperazione e bestemmie per la non accettazione del suo stato e di domande come: “Perché proprio a me è capitato tutto questo?”.
            La svolta arriva il 24 marzo 1978, vigilia dell’Annunciazione e – quell’anno – Venerdì Santo: un sacerdote del Rinnovamento nello Spirito Santo va a trovarlo con alcune persone ed essi pregano su di lui. La mattina Nino, sempre allettato, aveva chiesto alla mamma di vestirlo: «Se il Signore mi guarisce non sarò nudo davanti alle persone». Leggiamo dal suo Quaderno-Diario: “Padre Aldo cominciò subito la Preghiera, io ero ansioso ed emozionato, mi pose le mani sulla testa, io non capivo questo gesto; cominciò ad invocare lo Spirito Santo affinché scendesse su di me. Dopo qualche minuto, sotto l’imposizione delle mani, sentii un grande calore in tutto il corpo, un grande formicolio, come una forza nuova entrare in me, una forza rigeneratrice, una forza Viva e qualcosa di vecchio uscire. Lo Spirito Santo era sceso su di me, con potere è entrato nel mio cuore, è stata un’Effusione d’Amore e di Vita, in quell’istante ho accettato la Croce, ho detto il mio Sì a Gesù e sono rinato a Vita Nuova, sono diventato un uomo nuovo, con un cuore nuovo; tutta la disperazione di 10 anni cancellata in pochi secondi, il mio cuore è stato riempito di una gioia nuova e vera che io non avevo mai conosciuto. Il Signore mi ha guarito, io volevo la guarigione fisica ed invece il Signore ha operato qualcosa di più grande, la Guarigione dello Spirito, così ho trovato la Pace, la Gioia, la Serenità, e tanta forza e tanta voglia di vivere. Finì la preghiera, il mio cuore traboccava di gioia, i miei occhi brillavano e il mio viso era raggiante; pur restando nelle stesse condizioni di sofferente ero felice».
            Per Nino Baglieri e la sua famiglia comincia allora un nuovo periodo, un periodo di rinascita segnato in Nino dalla riscoperta della fede e dall’amore per la Parola di Dio, che egli legge per un anno di seguito. Si apre a quei rapporti umani dai quali si era sottratto senza che gli altri invece avessero mai smesso di volergli bene.
            Un giorno Nino, sollecitato da alcuni bambini che erano vicino a lui e gli chiedono aiuto per fare un disegno, si accorge di avere il dono di scrivere con la bocca: in breve tempo sarà in grado di scrivere molto bene – meglio di come quando scrivesse a mano – e questo gli permette di oggettivare il proprio vissuto, sia nella forma personalissima di numerosi Quaderni-Diario, sia attraverso poesie / brevi componimenti che inizierà a leggere alla Radio. Arriveranno poi, con il dilatarsi della rete relazionale, migliaia di lettere, amicizie, incontri…, attraverso i quali Nino espliciterà una particolare forma di apostolato, sino al termine della vita.
Approfondisce intanto il cammino spirituale attraverso tre direttrici, che ritmano la sua esperienza ecclesiale, dentro l’obbedienza agli incontri che Dio mette sul suo cammino: la vicinanza al Rinnovamento nello Spirito Santo; il legame con la realtà dei Camilliani (Ministri degli Infermi); il cammino con i Salesiani, diventando dapprima Salesiano Cooperatore e poi consacrato laico nell’Istituto Secolare dei Volontari con Don Bosco (interpellato dai delegati del Rettor Maggiore, dà anche un contributo nella stesura del Progetto di vita dei CDB). Saranno i Camilliani per primi a proporgli una forma di consacrazione: essa, umanamente parlando, sembrava intercettare lo specifico della sua esistenza, segnata dalla sofferenza. Il posto di Nino però è a casa di Don Bosco ed egli lo scopre nel tempo, non senza momenti di fatica, sempre però affidandosi a chi lo guida e imparando a confrontare i propri desideri con le modalità attraverso cui la Chiesa chiama. E mentre Nino percorre le tappe di formazione e consacrazione (fino alla professione perpetua, il 31 agosto 2004), sono tante le vocazioni – anche al sacerdozio e alla vita consacrata femminile – che da lui traggono ispirazione, forza, luce.
            Il responsabile Mondiale dei “CDB” così si esprime sul senso della consacrazione laicale oggi, vissuta anche da Nino: «Nino Baglieri è stato per noi Volontari Con Don Bosco un dono speciale del cielo: è il primo di noi fratelli che ci mostra un cammino di santità attraverso una testimonianza umile, discreta, gioiosa. Nino ha realizzato in pienezza la vocazione alla secolarità consacrata salesiana e ci insegna che la santità è possibile in ogni condizione di vita, anche quelle segnate dall’incontro con la croce e la sofferenza. Nino ci ricorda che tutti possiamo vincere in Colui che ci dà forza: la Croce che lui ha tanto amato, come uno sposo fedele, è stata il ponte attraverso cui ha unito la sua storia personale di uomo con la storia della salvezza; è stata l’altare su cui ha celebrato il suo sacrificio di lode al Signore della vita; è stata la scala per il paradiso. Animati dal suo esempio anche noi, come Nino, possiamo diventare capaci di trasformare come lievito buono tutte le realtà quotidiane, certi di trovare in lui un modello e un potente intercessore presso Dio».
            Nino, che non può muoversi, è Nino che nel tempo apprende a non scappare, a non sottrarsi alle richieste e diventa sempre più accessibile e semplice come il suo Signore. Il suo letto, la sua stanzetta o la sedia a rotelle si trasfigurano così in quell’“altare” dove tanti portano gioie e dolori: egli le accoglie, si offre e offre le proprie sofferenze per essi. Nino “che sta” è l’amico sul quale si possono “scaricare” tante preoccupazioni e “deporre” i pesi: lui accoglie col sorriso, anche se alla sua vita – custoditi nel riserbo – non mancheranno momenti di grande prova morale e spirituale.
            Nelle lettere, negli incontri, nelle amicizie attesta grande realismo e sa essere sempre vero, riconoscendo la propria piccolezza ma anche la grandezza del dono di Dio in lui e attraverso di lui.
            Durante un incontro con i giovani a Loreto, alla presenza del Card. Angelo Comastri, dirà: «Se qualcuno di voi è in peccato mortale, sta molto peggio di me!»: è la consapevolezza, tutta salesiana, che è meglio “la morte, ma non i peccati”, e che veri amici devono essere Gesù e Maria, da cui non separarsi mai.
            Il Vescovo della diocesi di Noto, Mons. Salvatore Rumeo, sottolinea che «la divina avventura di Nino Baglieri ricorda a tutti noi che la santità è possibile e non appartiene ai secoli passati: la santità è la via per raggiungere il Cuore di Dio. Nella vita cristiana non ci sono altre soluzioni. Abbracciare la Croce vuol dire stare con Gesù nella stagione della sofferenza per partecipare alla Sua Luce. E Nino è nella luce di Dio».
            Nino è nato al Cielo il 2 marzo 2007, dopo aver ininterrottamente festeggiato dal 1982 il 6 maggio (giorno della caduta) quale “anniversario della Croce”.
            Dopo la morte, viene vestito con la tuta e le scarpe da ginnastica, affinché, come aveva detto, «nel mio ultimo viaggio verso Dio, potrò corrergli incontro».
            Don Giovanni d’Andrea, ispettore dei Salesiani di Sicilia ci invita così a «… conoscere sempre meglio e sempre più la persona di Nino ed il suo messaggio di speranza. Anche noi come Nino vogliamo indossare “tuta e scarpette” e “correre” sulla strada della santità che vuol dire realizzare il Sogno di Dio per ciascuno di noi, un Sogno che ognuno di noi è: l’essere “felici nel tempo e nell’eternità”, come don Bosco scrisse nella sua Lettera da Roma, il 10 maggio 1884».
            Nel suo testamento spirituale Nino ci esorta a «non lasciarlo senza far nulla»: la sua Causa di Beatificazione e Canonizzazione è, ora, lo strumento, messo a disposizione dalla Chiesa per imparare a conoscerlo e ad amarlo sempre più, a incontrarlo come amico ed esempio nella sequela di Gesù, a rivolgersi a lui nella preghiera, chiedendogli quelle grazie che sono arrivate già numerosissime.
            «La testimonianza di Nino – auspica il Postulatore Generale don Pierluigi Cameroni sdb – sia segno di speranza per quanti sono nella prova e nel dolore, e per le nuove generazioni, perché possano imparare ad affrontare la vita con fede e coraggio, senza scoraggiarsi e abbattersi. Nino ci sorride e ci sostiene perché, come lui, possiamo fare la nostra “corsa” verso la gioia del cielo».
            Infine il vescovo Rumeo, al termine della Sessione di chiusura dell’Inchiesta diocesana, ha detto: «È una gioia grande aver raggiunto questo traguardo per Nino e soprattutto per la Chiesa di Noto, dobbiamo pregare Nino, bisogna intensificare la preghiera, dobbiamo chiedere qualche grazia a Nino perché possa intercedere dal cielo. È un invito a noi a camminare sulla via della santità. Quella della santità è un’arte difficile perché il cuore della santità è il Vangelo. Essere santi significa accogliere la parola del Signore: a chi ti percuote la guancia, porgi anche l’altra, a chi ti chiede il mantello offri anche la tunica. Questa è la santità! […] In un mondo dove prevale l’individualismo dobbiamo scegliere come intendere la vita: o scegliamo la ricompensa degli uomini, o riceviamo la ricompensa di Dio. Lo ha detto Gesù, lui è venuto e rimane segno di contraddizione perché è lo spartiacque, l’anno zero. La venuta di Cristo diventa l’ago della bilancia: o con lui, o contro di lui. Amare e amarci e il claim che deve guidare la nostra esistenza».

Roberto Chiaramonte




San Francesco di Sales giovane studente a Parigi

            Nel 1578 François de Sales aveva 11 anni. Suo padre, desideroso di fare del suo primogenito una figura di spicco in Savoia, lo mandò a Parigi per continuare i suoi studi nella capitale intellettuale dell’epoca. Il collegio che voleva fargli frequentare era il collegio dei nobili, ma François preferì il quello dei Gesuiti. Con l’aiuto della madre, vinse la causa e divenne allievo dei gesuiti nel loro collegio di Clermont.
            Ricordando un giorno gli studi compiuti a Parigi, Francesco di Sales non sarà parco di elogi: la Savoia gli aveva garantito «gli inizi nelle belle lettere», scriverà, ma è all’università di Parigi, «molto fiorente e assai frequentata», dove si era «applicato sul serio dapprima alle belle lettere, poi a tutte le aree della filosofia, con una facilità e un profitto, favoriti dal fatto che perfino i tetti, per così dire, e le mura sembrano filosofare».
            In una pagina del Teotimo, Francesco di Sales racconterà un ricordo della Parigi di quell’epoca, nel quale ricostruisce il clima in cui era immersa la gioventù studentesca della capitale, strattonata dai piaceri proibiti, dall’eresia di moda e dalla devozione monastica:

            Quando ero giovane a Parigi, due studenti, di cui uno era eretico, mentre passavano la notte nel sobborgo di Saint-Jacques, gozzovigliando in modo dissoluto, udirono suonare la campana del mattutino nella chiesa dei certosini; avendo l’eretico chiesto al compagno cattolico perché suonasse quella campana, questi gli illustrò con quanta devozione in quel monastero si celebravano i santi uffici; o Dio, disse, quant’è diverso dal nostro l’esercizio di quei religiosi! Essi compiono quello degli angeli e noi quello degli animali bruti. Il giorno seguente, volendo verificare di persona quello che aveva appreso dal racconto del compagno, vide quei padri nei loro stalli, allineati come statue di marmo nelle loro nicchie, immobili, senza compiere alcun gesto eccetto quello di salmodiare, cosa che facevano con un’attenzione ed una devozione veramente angelica, secondo il costume di quel santo ordine. Allora quel giovane, rapito d’ammirazione, fu preso da un’estrema consolazione nel vedere Dio adorato così bene dai cattolici e decise, cosa che poi fece, di entrare in seno alla Chiesa, vera ed unica sposa di colui che l’aveva visitato con la sua ispirazione nel letto disonorevole dell’infamia sul quale giaceva.

            Un altro aneddoto mostra inoltre che Francesco di Sales non ignorava lo spirito ribelle dei parigini, che faceva loro «aborrire le azioni comandate». Si trattava di un uomo «che dopo aver vissuto ottant’anni nella città di Parigi, senza mai uscirne, non appena gli fu ingiunto da parte del re di rimanervi anche il resto dei suoi giorni, uscì subito per vedere la campagna, cosa che non aveva mai desiderato in tutta la vita».

Gli studi umanistici
            I gesuiti erano animati allora dallo slancio delle origini. Francesco di Sales passerà dieci anni nel loro collegio, percorrendo l’intero curricolo di studi previsto, passando dalla grammatica agli studi classici fino alla retorica e alla filosofia. In quanto allievo esterno, abitava non lontano dal collegio col suo precettore, don Déage, e con i suoi tre cugini, Amé, Louis et Gaspard.
            Il metodo dei gesuiti comprendeva la lezione del professore (praelectio), seguita da numerosi esercizi da parte degli studenti come la composizione di versi e discorsi, la ripetizione delle lezioni, le declamazioni, i temi, le conversazioni e le dispute (disputatio) in latino. Per motivare i loro studenti, i professori facevano appello a due «inclinazioni» presenti nell’animo umano: il piacere, alimentato dall’imitazione degli antichi, dal senso del bello e la ricerca dalla perfezione letteraria; e la lotta o l’emulazione, stimolata dal senso dell’onore e dal premio per i vincitori. Quanto alle motivazioni religiose, esse riguardavano prima di tutto la ricerca della maggior gloria di Dio (ad maiorem Dei gloriam).
            Percorrendo gli scritti di Francesco ci si rende conto fino a che punto la sua cultura latina era estesa e profonda, anche se non leggeva sempre gli autori nel testo originale. Cicerone vi ha il suo posto, ma piuttosto come filosofo; è uno spirito grande, se non il più grande «tra i filosofi pagani». Virgilio, principe dei poeti latini, non è dimenticato: a metà di un periodare appare d’un tratto un verso dell’Eneide o delle Egloghe, che abbellisce la frase e stimola la curiosità. Plinio il Vecchio, autore della Storia naturale, fornirà a Francesco di Sales una riserva pressoché inesauribile di paragoni, «similitudini» e dati curiosi sovente fantasmagorici.
            Al termine dei suoi studi letterari, ottenne il diploma di «baccellierato» che gli apriva l’accesso alla filosofia e alle «arti liberali».

Filosofia e «arti liberali»
            Le «arti liberali» comprendevano non solamente la filosofia propriamente detta, ma anche la matematica, la cosmografia, la storia naturale, la musica, la fisica, l’astronomia, la chimica, il tutto «frammisto a considerazioni metafisiche». Va notato altresì l’interesse dei gesuiti per le scienze esatte, più vicino in ciò all’umanesimo italiano che a quello francese.
            Gli scritti di Francesco di Sales mostrano che i suoi studi di filosofia hanno lasciato delle tracce nel suo universo mentale. Aristotele, «il più grande cervello» dell’antichità è ovunque presente in Francesco. Ad Aristotele, scriverà, si deve questo «antico assioma tra i filosofi, che ogni uomo desidera conoscere». Di Aristotele ciò che l’ha colpito di più è l’aver redatto «un mirabile trattato delle virtù». Quanto a Platone, egli lo considera come un «grande spirito», se non «il più grande. Stimerà parecchio Epitteto, «l’uomo migliore di tutto il paganesimo».
            Le conoscenze riguardanti la cosmografia, corrispondente alla nostra geografia, erano favorite dai viaggi e dalle scoperte dell’epoca. Ignorando del tutto la causa del fenomeno del nord magnetico, sapeva bene che «questa stella polare» è quella «verso cui tende costantemente l’ago della bussola; è grazie ad essa che i nocchieri sono guidati sul mare e possono sapere dove li portano le loro rotte». Lo studio dell’astronomia gli aprirà lo spirito alla conoscenza delle nuove teorie copernicane.
            Per quanto riguarda la musica, ci confiderà che senza esserne un conoscitore, tuttavia la gustava «moltissimo». Dotato di un senso innato dell’armonia in ogni cosa, ammetteva tuttavia conosceva l’importanza della discordanza che è alla base della polifonia: «Perché una musica sia bella, si richiede non soltanto che le voci siano nitide, chiare e ben distinte, ma che siano anche legate tra loro in modo tale da costituire una piacevole consonanza e armonia, in forza dell’unione esistente nella distinzione e della distinzione delle voci che, non senza ragione, viene chiamata accordo discordante, o meglio, discordia concorde». Sovente nei suoi scritti si parla del liuto, il che non può meravigliare, sapendo che il secolo XVI fu l’epoca d’oro di detto strumento.

Attività extrascolastiche
            La scuola non assorbiva interamente la vita del nostro giovanotto, che aveva anche bisogno di distensione. A partire dal 1560 i gesuiti avviarono nuovi orientamenti come la riduzione dell’orario giornaliero, l’inserimento di una ricreazione tra le ore di scuola e quelle di studio, la distensione dopo il pasto, la creazione di uno spazioso «cortile» per la ricreazione, il passeggio una volta alla settimana e le escursioni. L’autore della Filotea richiamerà alla memoria i giochi cui dovette partecipare negli anni della sua giovinezza, quando elencherà «il gioco della pallacorda, della palla, della pallamaglio, le corse all’anello, gli scacchi e altri giochi da tavolo». Una volta alla settimana, il giovedì, oppure nel caso in cui ciò non era possibile, la domenica, era previsto un pomeriggio intero riservato al divertimento in campagna.
            Il giovane Francesco ha assistito e anche partecipato a rappresentazioni teatrali al collegio di Clermont? È più che probabile, perché i gesuiti furono i promotori di recitazioni e di commedie morali presentate in pubblico su un palco, o su pedane sistemate su cavalletti, persino nella chiesa del collegio. Il repertorio si ispirava generalmente alla Bibbia, alla vita dei santi, in particolare agli atti dei martiri, o alla storia della Chiesa, senza escludere delle scene allegoriche come la lotta delle virtù contro i vizi, i dialoghi tra la fede e la Chiesa, tra l’eresia e la ragione. Si riteneva in generale che uno spettacolo di questo genere valeva bene una predica ben tornita.

Equitazione, scherma e danza
            Il padre vigilava sulla formazione completa di perfetto gentiluomo di Francesco e la prova sta nel fatto che gli impose di impegnarsi nell’apprendere le «arti della nobiltà» o le arti cavalleresche in cui lui stesso eccelleva. Francesco dovette esercitarsi nella pratica dell’equitazione, della scherma e della danza.
            Per quanto riguarda la pratica della scherma, si sa che essa distingueva il gentiluomo compito, come d’altronde il portare la spada faceva parte dei privilegi della nobiltà. La scherma moderna, nata in Spagna all’inizio del secolo XV, era stata codificata dagli italiani, che la fecero conoscere in Francia.
            Francesco di Sales avrà a volte l’occasione di mostrare il suo valore nel maneggiare la spada durante aggressioni reali o simulate, ma durante tutta la sua vita lotterà contro le sfide a duello che sovente finivano con la morte di un contendente. Il suo nipote ha raccontato che durante la missione a Thonon, non riuscendo a fermare due «miserabili» che «schermavano a spade nude» e «continuavano a incrociare la spada l’uno contro l’altro», «l’uomo di Dio, confidando nella sua maestria, appresa a dovere da lungo tempo, si scagliò contro di loro e li sconfisse talmente da farli pentire della loro azione indegna».
            Quanto alla danza che aveva acquisito titoli nobiliari nelle corti italiane, sembra che essa sia stata introdotta alla corte di Francia da Caterina de’ Medici, sposa di Enrico II. Francesco di Sales ha partecipato a qualche balletto, danza figurativa, accompagnata dalla musica? Non è impossibile, perché aveva le sue conoscenze presso alcune grandi famiglie.
            In sé stessi, scriverà in seguito nella Filotea, i balli non sono cosa cattiva; tutto dipende dall’uso che se ne fa: «Giocare, danzare è lecito quando si fa per divertimento e non per affetto». Aggiungiamo a tutti questi esercizi l’apprendimento della cortesia e delle buone maniere, specialmente presso i gesuiti che badavano molto alla «civiltà», alla «modestia» e all’«onestà».

La formazione religiosa e morale
            Sul piano religioso, l’insegnamento della dottrina cristiana e del catechismo rivestiva una grande importanza nei collegi dei gesuiti. Il catechismo era insegnato in tutte le classi, imparato a memoria in quelle inferiori seguendo il metodo della disputatio e con premi per i migliori. Talvolta erano organizzati concorsi pubblici con una messa in scena a carattere religioso. Si coltivava il canto sacro, che i luterani e i calvinisti avevano sviluppato molto. Si dava particolare risalto all’anno liturgico e alle feste, utilizzando le «storie» tratte dalla sacra Scrittura.
            Impegnati a restaurare la pratica dei sacramenti, i gesuiti incoraggiavano i loro allievi non solamente alla quotidiana assistenza alla messa, uso per nulla eccezionale nel secolo XVI, ma anche alla frequente comunione eucaristica, alla confessione frequente, alla devozione alla Vergine e ai santi. Francesco rispose con fervore alle esortazioni dei suoi maestri spirituali, impegnandosi a ricevere la comunione «il più sovente possibile», «almeno tutti i mesi».
            Col Rinascimento, la virtus degli antichi, debitamente cristianizzata, tornava in primo piano. I gesuiti ne divennero protagonisti, invogliando i loro allievi allo sforzo, alla disciplina personale e alla riforma di sé stessi. Francesco aderì indubbiamente all’ideale delle virtù cristiane più stimate, quali l’obbedienza, l’umiltà, la pietà, la pratica del dovere del proprio stato, il lavoro, le buone maniere e la castità. Più tardi consacrerà l’intera parte centrale della sua Filotea a «l’esercizio delle virtù».

Studio della Bibbia e della teologia
            La domenica di carnevale del 1584, mentre tutta Parigi andava a divertirsi, il suo precettore vide Francesco con un’aria preoccupata. Non sapendo se era malato oppure melanconico, gli propose di assistere agli spettacoli di carnevale. A tale proposta il giovane rispose con questa preghiera tratta dalla Scrittura: «Distogli i miei occhi dalle cose vane», e aggiunse: «Domine, fac ut videam». Vedere che cosa? «La sacra teologia», fu la sua risposta; «essa mi insegnerà ciò che Dio vuole che la mia anima impari». Don Déage, che preparava il suo dottorato alla Sorbona, ebbe la saggezza di non opporsi al desiderio del cuore del suo assistito. Francesco si entusiasmò delle scienze sacre fino al punto di saltare i pasti. Il suo precettore gli diede i propri appunti dei corsi e gli consentì di assistere alle dispute pubbliche di teologia.
            La sorgente di tale devozione stava per trovarla non tanto nei corsi teologici della Sorbona, quanto piuttosto nelle lezioni di esegesi che si tenevano al Collegio reale. Dopo la sua fondazione nel 1530, questo Collegio assisteva al trionfo di nuove tendenze nello studio della Bibbia. Nel 1584, Gilbert Genebrard, un benedettino di Cluny, commentava il Cantico dei Cantici. Più tardi, quando comporrà il suo Teotimo, il vescovo di Ginevra si ricorderà di questo maestro e lo nominerà «con riverenza e commozione, perché – scriverà – sono stato suo alunno, benché senza frutto quando insegnava al collegio reale a Parigi». Nonostante il suo rigore filologico, Genebrard gli trasmise un’interpretazione allegorica e mistica del Cantico dei Cantici, che lo incantò. Come scrive padre Lajeunie, Francesco trovò in questo libro sacro «l’inspirazione della sua vita, il tema del suo capolavoro e la migliore fonte del suo ottimismo».
            Gli effetti di tale scoperta non si fecero attendere. Il giovane studente conobbe un periodo segnato da un fervore eccezionale. Entrò nella Congregazione di Maria, associazione promossa dai gesuiti, che riuniva l’élite spirituale degli studenti del loro collegio, della quale diventerà ben presto l’assistente e poi il «prefetto». Il suo cuore si infiammò d’amor di Dio. Citando il salmista, si diceva «ebbro dell’abbondanza» della casa di Dio, ricolmo del torrente della «voluttà» divina. Il suo più grande affetto era riservato alla Vergine Maria, «bella come la luna, splendente come il sole».

La devozione in crisi
            Questo fervore sensibile durò per un certo tempo.  Poi sopraggiunse una crisi, uno «strano tormento», accompagnato dalla «paura della morte subitanea e del giudizio di Dio». Secondo la testimonianza della madre di Chantal, «cessò quasi completamente dal mangiare e dal dormire e divenne assai magro e pallido come la cera». Due spiegazioni hanno attirato l’attenzione dei commentatori: le tentazioni contro la castità e la questione della predestinazione. Non è necessario attardarsi sulle tentazioni. Il modo di pensare e di agire del mondo circostante, le abitudini di certi compagni che frequentavano «donne disoneste», gli offrivano esempi e inviti capaci di attirare qualsiasi giovane della sua età e della sua condizione.
            Un altro motivo di crisi era dovuto alla questione della predestinazione, un tema che era all’ordine del giorno tra i teologi. Lutero e Calvino ne avevano fatto un loro cavallo di battaglia nella disputa sulla giustificazione per la sola fede, indipendentemente dai «meriti» che l’uomo può acquistare con le buone opere. Calvino aveva affermato in modo decisivo che Dio «ha determinato ciò che intendeva fare per ogni singolo uomo; perché non li crea tutti nella stessa condizione, ma destina gli uni alla vita eterna, gli altri all’eterna dannazione». Alla stessa Sorbona, dove Francesco seguiva dei corsi, si insegnava, in base all’autorità di sant’Agostino e di san Tommaso, che Dio non aveva decretato la salvezza di tutti gli uomini.
            Francesco credette di essere riprovato da Dio e destinato alla dannazione eterna e all’inferno. Giunto al colmo dell’angoscia, fece un atto eroico di amore disinteressato e di abbandono alla misericordia di Dio. Giungerà perfino alla conclusione, assurda da un punto di vista logico, di accettare di buon animo di andare all’inferno ma a condizione di non maledire il Sommo Bene. La soluzione del suo «strano tormento» la si conosce, in particolare, tramite le confidenze da lui fatte alla madre di Chantal: un giorno del mese di gennaio del 1587, entrò in una chiesa vicina e, dopo aver pregato nella cappella della Vergine, gli parve che il suo male gli fosse caduto ai piedi come «squame di lebbra».
            Al dire il vero, questa crisi ebbe degli effetti realmente positivi nello sviluppo spirituale di Francesco. Da una parte, lo aiutò a passare da una devozione sensibile, forse egoista e perfino narcisista, all’amore puro, spoglio di ogni gratifica interessata e infantile. E dall’altra, gli aprì lo spirito a una nuova comprensione dell’amore di Dio, che vuole la salvezza di tutti gli esseri umani.  Certamente, egli difenderà sempre la dottrina cattolica circa la necessità delle opere per salvarsi, fedele in ciò alle definizioni del concilio di Trento, ma il termine «merito» non godrà delle sue simpatie. La vera ricompensa dell’amore non può essere che l’amore. Siamo qui alla radice dell’ottimismo salesiano.

Bilancio
            È difficile esagerare l’importanza dei dieci anni vissuti dal giovane Francesco di Sales a Parigi. Vi concluse i suoi studi nel 1588 con la licenza e il magistero «nelle arti», che gli aprivano la via agli studi superiori di teologia, di diritto e di medicina. Quali sceglierà, o piuttosto, quali gli saranno imposti dal padre? Conoscendo i progetti ambiziosi che il padre nutriva per il suo primogenito, si comprende che lo studio del diritto godeva delle sue preferenze. Francesco andrà a studiare il diritto nell’università di Padova, nella repubblica di Venezia.
            Da undici anni a ventun anni, ossia durante i dieci anni dell’adolescenza e della giovinezza, Francesco è stato allievo dei gesuiti a Parigi. La formazione intellettuale, morale e religiosa ricevuta dai padri della Compagnia di Gesù lascerà un’impronta che conserverà per tutta la vita. Ma Francesco di Sales manterrà la sua originalità. Non fu tentato di farsi gesuita, ma piuttosto cappuccino. La «salesianità» avrà sempre dei tratti troppo particolari per essere assimilata semplicemente a altri modi di essere e di reagire davanti agli uomini e agli avvenimenti.




Canillitas. Minorenni lavoratori nella Repubblica Dominicana (video)

Il lavoro minorile non è una realtà del passato, purtroppo. Nel mondo ci sono ancora circa 160 milioni di ragazzi che lavorano, e quasi la metà di loro sono impiegati in varie forme di lavoro a rischio; alcuni di loro iniziano a lavorare a 5 anni! Questo fatto li allontana dall’istruzione e ha gravi conseguenze negative sullo sviluppo cognitivo, volitivo, emotivo e sociale, incidendo sulla salute e sulla qualità della loro vita.

Prima di parlare del lavoro minorile, bisogna riconoscere che non tutti i lavori svolti dai minori si possono classificare come tali. La partecipazione dei ragazzi a certe attività familiari, scolastiche o sociali che non ostacolano la loro scolarizzazione, non solo non danneggia la loro salute e il loro sviluppo, ma risulta proficua. Tali attività fanno parte dell’educazione integrale, aiutano i ragazzi ad apprendere delle abilità molto utili nella loro vita e li preparano alle responsabilità.

La definizione di lavoro minorile fatta dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro è l’attività lavorativa che priva i bambini della loro infanzia, del loro potenziale e della loro dignità e che è dannosa per il loro sviluppo fisico e psicologico. Si tratta di lavori in strada, nelle fabbriche, nelle miniere, con lunghe ore di lavoro che tante volte privano anche del riposo necessario. Sono lavori che fisicamente, mentalmente, socialmente o moralmente sono rischiosi o dannosi per i ragazzi, e che interferiscono con la loro scolarizzazione privandoli dell’opportunità di andare a scuola, costringendoli ad abbandonare la scuola prima del tempo o obbligandoli a cercare di conciliare la frequenza scolastica con lunghe ore di duro lavoro.
È una definizione di lavoro minorile non condivisa da tutti i paesi. Però ci sono dei parametri che la possono definire: l’età, la difficoltà o pericolosità del lavoro, il numero di ore lavorate, le condizioni in cui viene svolto il lavoro e anche il livello di sviluppo del paese. Quanto all’età, è comunemente accettato che non si deve lavorare sotto i 12 anni: le norme internazionali parlano di età minima per l’ammissione al lavoro, cioè non inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo.

Le statistiche recenti parlano di circa 160 milioni di ragazzi che lavorano, e questa cifra nella realtà può essere sensibilmente più alta, dato che è difficile calcolare la situazione reale. Concretamente, un ragazzo su 10 nel mondo è vittima del lavoro minorile. E bisogna tener presente che questa statistica comprende anche lavori degradanti – se si possono chiamare lavori – come il reclutamento forzato nei conflitti armati, la schiavitù o lo sfruttamento sessuale. Ed è preoccupante il fatto che le statistiche indichino che oggi ci sono 8 milioni i ragazzi in più che lavorano rispetto al 2016, e che questo aumento si riscontri soprattutto nei ragazzi tra i 5 e gli 11 anni. Le organizzazioni internazionali avvertono che se la tendenza continuerà così, il numero di bambini impiegati nel lavoro minorile potrebbe aumentare di 46 milioni nei prossimi anni, se non verranno adottate adeguate misure di protezione sociale.

La causa del lavoro minorile è soprattutto la povertà, ma lo sono anche il mancato accesso all’istruzione e la vulnerabilità nel caso dei ragazzi orfani o abbandonati.
Questi lavori nella stragrande maggioranza dei casi comportano anche delle conseguenze fisiche (malattie e patologie croniche, mutilazioni), psicologiche (da abusati, i ragazzi diventano abusatori, dopo aver vissuto in ambienti ostili e violenti diventano a loro volta ostili e violenti, sviluppano bassa autostima e mancanza di speranza per il futuro) e sociali (corruzione dei costumi, alcool, droga, prostituzione, infrazioni).

Non è un fenomeno nuovo, è accaduto anche ai tempi di don Bosco quando tanti ragazzi, spinti dalla povertà, cercavano nelle grandi città espedienti per la sopravvivenza. La risposta del santo è stata quella di accoglierli, assicurare loro vito e alloggio, alfabetizzare, istruire, trovare un lavoro degno e fare sentire a quei ragazzi abbandonati che erano parte di una famiglia.
Anche oggi questi ragazzi mostrano grande insicurezza e sfiducia, sono malnutriti e con gravi carenze emotive. Anche oggi bisogna cercarli, incontrarli, offrendo loro gradualmente ciò che amano per dare loro finalmente ciò di cui hanno bisogno: una casa, un’istruzione, un ambiente familiare e in prospettiva nel futuro un degno lavoro.
Si cerca di conoscere la situazione particolare di ognuno di loro, si va alla ricerca dei famigliari per reinserire i ragazzi in famiglia quando possibile, si propone di abbandonare il lavoro minorile, di socializzare, di frequentare la scuola, accompagnandoli in modo che possano realizzare il loro sogno e il progetto di vita grazie all’istruzione, e di diventare testimoni per altri ragazzi che si trovano nella loro stessa situazione.

In 70 paesi del mondo i salesiani sono attivi nel campo del lavoro minorile. Presentiamo uno di loro, quello della Repubblica Dominicana.

Canillitas erano denominati i ragazzi venditori ambulanti di giornali, che per la povertà avevano pantaloni rimasti corti, lasciando scoperte le loro “canillas”, ossia le gambe. Simili a questi, i ragazzi di oggi devono muovere le gambe per strada ogni giorno per guadagnarsi da vivere, perciò il progetto a loro favore si è chiamato Canillitas con Don Bosco.
Si tratta di un progetto nato come progetto salesiano oratoriano, che poi è arrivato a essere un’attività permanente: il Centro Canillitas con Don Bosco di Santo Domingo.

Il progetto è partito nell’8 dicembre 1985 con tre giovani dell’ambiente salesiano che si sono dedicati a tempo pieno, rinunciando alle loro occupazioni. Avevano chiare le quattro tappe del percorso da seguire: Ricerca, Accoglienza, Socializzazione e Accompagnamento. Hanno iniziato a cercare ragazzi sulle strade e nei parchi di Santo Domingo, a contattarli, a conquistare la loro fiducia e a stabilire legami di amicizia. Dopo due mesi li hanno invitati a passare una domenica insieme e sono stati sorpresi quando più di 300 minori si presentarono all’incontro. Fu un pomeriggio di festa con giochi, musica e merende che ha spinto i ragazzi a chiedere spontaneamente quando potevano tornare. La risposta non poteva essere altra che: “domenica prossima”.
Il loro numero crebbe costantemente, dopo aver capito che l’accoglienza, gli spazi e le attività erano a misura loro. Al campo organizzato nell’estate hanno partecipato un centinaio dei più fedeli. Qui i ragazzi hanno ricevuto una tessera di canillitas nel campo, per dare un’identità e un senso di appartenenza, anche perché tanti di loro non conoscevano neanche la loro data di nascita.
Con la crescita dei numeri dei ragazzi è arrivata anche la crescita delle spese. Questo ha condotto a dover ricercare dei finanziamenti e implicitamente a far conoscere il progetto con questi ragazzi.

Il 2 maggio 1986, la comunità salesiana ha presentato il progetto ai superiori salesiani dell’Ispettoria Salesiana delle Antille, progetto che ottenne un sostegno unanime. Così, il programma Canillitas con Don Bosco fu ufficialmente lanciato e continua anche oggi dopo quasi 38 anni di esistenza. E non solo continua ma è cresciuto e si è ampliato, essendo un modello per altre iniziative. È così che è nato anche il programma Canillitas con Laura Vicuña, sviluppato dalle Figlie di Maria Ausiliatrice per le ragazze lavoratrici, i programmi Chiriperos con Don Bosco, per aiutare i giovani che – per guadagnarsi da vivere – facevano qualsiasi “lavoretto” (come portare l’acqua, buttare la spazzatura, fare commissioni…), e il programma Apprendisti con Don Bosco che si occupa dei minori che lavoravano nelle numerose officine meccaniche, sfruttati da certi imprenditori. Per questi ultimi, i salesiani hanno costruito un’officina con l’aiuto di alcuni bravi industriali e della Prima Donna della Repubblica, in modo da essere liberi di imparare un mestiere e non essere in balia delle ingiustizie.
In seguito a questo successo, tutte queste iniziative e altre sono confluite nella Rete dei Ragazzi e delle Ragazze con Don Bosco, attualmente composta da 11 centri con programmi adeguati alle fasce d’età dei ragazzi, diventati un esempio nella lotta al lavoro minorile nel paese caraibico. Di questa rete fanno parte: Canillitas con Don Bosco, Chiriperos con Don Bosco, Aprendices con Don Bosco, Hogar Escuela de Niñas Doña Chucha, Hogar de Niñas Nuestra Señora de la Altagracia, Hogar Escuela Santo Domingo Savio, Quédate con Nosotros, Don Bosco Amigo, Amigos y Amigas de Domingo Savio, Mano a Mano con Don Bosco e Sur Joven.
La rete ha svolto programmi incentrati sullo sviluppo di abilità nei ragazzi e nei giovani, favorendo la loro formazione e crescita integrale. Ha accompagnato direttamente circa 93.000 ragazzi, adolescenti e giovani, ha raggiunto più di 70.000 famiglie e, indirettamente, ha avuto più di 150.000 beneficiari, lavorando ogni anno con una media di oltre 2500 beneficiari. Tutto ciò è stato realizzato avendo come base il Sistema Preventivo di Don Bosco che ha portato i ragazzi e i giovani a recuperare la propria autostima, a essere protagonisti della propria vita per diventare “onesti cittadini e buoni cristiani”.

Questo lavoro ha avuto anche un impatto socio-politico. Ha contribuito alla crescita della sensibilità sociale verso questi poveri ragazzi che facevano quello che potevano per sopravvivere. L’eco del programma salesiano nei mass-media della Repubblica Dominicana ha dato la possibilità a un gruppo di Canillitas di partecipare a una sessione del Congresso Nazionale del paese e alla redazione del Codice del Sistema di Protezione e dei Diritti Fondamentali dei Ragazzi e degli Adolescenti della Repubblica Dominicana (Legge 136-03), promulgato il 7 agosto 2003.
In seguito, sono stati firmati diversi accordi con l’Istituto di Formazione Tecnico Professionale, con il Consiglio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza e con la Scuola della Magistratura.
Grazie al sostegno di molti imprenditori e della società civile sono state avviate collaborazioni e interrelazioni con l’UNICEF, con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, con il governo nazionale, con la Coalizione delle ONG per l’infanzia della Repubblica Dominicana e si è perfino arrivati a partecipare alla Conferenza delle Americhe alla Casa Bianca nel 2007, con il ricevimento del presidente George Bush e del Segretario di Stato Condoleezza Rice.

Il lavoro salesiano ha contribuito alla riduzione del lavoro minorile e all’aumento del tasso di istruzione nel paese. Il salesiano missionario promotore, don Juan Linares, è stato nominato Uomo dell’Anno della Repubblica Dominicana nel 2011, e per 10 anni è stato membro del consiglio di amministrazione del Consiglio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, l’organo di governo del Sistema Nazionale per la Protezione dei Diritti dei Ragazzi e degli Adolescenti.

Recentemente è stato realizzato un documentario, “Canillitas”, che vuole informare, denunciare e sensibilizzare l’opinione pubblica sul lavoro minorile. Il breve documentario riflette la vita quotidiana di sei ragazzi lavoratori nella Repubblica Dominicana, nonché il lavoro dei missionari salesiani per cambiare questa realtà, grazie all’istruzione.

Presentiamo la scheda del film.

Titolo: Canillitas
Anno di produzione: 2022
Durata: 21 minuti
Genere: Documentario
Pubblico adatto: Tutti
Paese: Spagna
Regia: Raúl de la Fuente, Premio Goya 2014 per “Minerita” e nel 2019 per “Un día más con vida”
Produzione: Kanaki Films
Versioni e sottotitoli: spagnolo, inglese, francese, italiano, portoghese, tedesco e polacco

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(Articolo realizzato con il materiale inviato da Missiones Salesianas di Madrid, Spagna.)