Il sogno di don Bosco è più vivo che mai

Davanti a tutto quello che sto vedendo nel mondo salesiano, mi sento di dire con un po’ di autorità: amato Don Bosco, il tuo Sogno continua a realizzarsi.

            Cari amici, lettori del Bollettino Salesiano, come ogni mese, vi invio il mio personale saluto dal cuore e dalle mie riflessioni, motivate da ciò che sto vivendo, perché credo che la vita arrivi a tutti noi e che ciò che condividiamo, se è buono, ci fa bene e ci dona nuovo entusiasmo.
            Quaresima e Pasqua ci invitano a rinascere. Ogni giorno. Rinascere alla fiducia, alla speranza, alla serena pace, alla voglia di amare, di lavorare e creare, di custodire e coltivare persone e talenti e creature, tutto intero il piccolo o grande giardino che Dio ci ha affidato.
            A noi salesiani la festa di Pasqua ricorda sempre quella del 1846 a Valdocco, quando don Bosco passò dalle lacrime del prato Filippi alla povera tettoia Pinardi e alla striscia di terreno intorno, dove il sogno cominciò a diventare realtà.
            Ho visto il sogno continuare a realizzarsi.
            Vi scrivo in questo momento da Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana. Ho fatto in precedenza una visita magnifica, molto significativa a Juazeiro do Norte (nel nord-est brasiliano di Recife) e questi ultimi giorni sono stati dominicani.
            Tra poche ore proseguirò per il Vietnam, e in mezzo a questo “trambusto”, che può essere vissuto anche con molta tranquillità, ho nutrito il mio cuore salesiano di belle esperienze e di confortanti certezze.
            Ve le racconterò, perché parlano della missione salesiana, ma permettetemi di iniziare con un aneddoto che un salesiano mi ha raccontato ieri, che mi ha fatto ridere, mi ha commosso e mi ha parlato di “cuore salesiano”.

Un piccolo lanciatore di sassi
            Un confratello mi ha raccontato che qualche giorno fa, mentre viaggiava lungo una delle strade dell’interno di questo Paese, è passato vicino a un luogo dove alcuni bambini avevano preso l’abitudine di lanciare sassi contro le auto per provocare piccoli incidenti – come rompere un finestrino – e nella confusione rubare qualcosa al viaggiatore.
            Ebbene, è così che gli è successo. Stava attraversando il villaggio e un bambino ha tirato una pietra per rompere un finestrino della sua auto e ci è riuscito. Il salesiano scese dall’auto, prese in braccio il bambino e si fece portare dai suoi genitori. Solo che in quella famiglia non c’era un padre (li aveva abbandonati da tempo).  C’era solo una madre sofferente che era rimasta sola con questo figlio e una bambina più piccola. Quando il salesiano disse alla madre che il figlio aveva rotto il finestrino dell’auto (cosa che il ragazzo riconobbe), e che costava parecchio, e che avrebbe dovuto ripagarlo, la povera donna tra le lacrime si scusò, chiedendo perdono, ma facendogli capire che non aveva alcun modo di pagarlo, che era povera, che avrebbe rimproverato il figlio… In quel momento, la bambina, la sorellina del “piccolo Magone di Don Bosco”, si avvicinò timidamente con il pugnetto chiuso, lo aprì e porse al salesiano l’unica moneta, quasi senza valore, che aveva. Era tutto il suo tesoro e gli disse: “Ecco, signore, per pagare il vetro”. Il mio confratello mi disse che era così commosso che non riusciva più a parlare e finì per dare alla donna un po’ di soldi per un piccolo aiuto alla famiglia.
            Non sapevo come interpretare la storia, ma era così piena di vita, dolore, bisogno e umanità che mi sono ripromesso di condividerla con voi. E poche ore dopo, molto vicino a dove alloggiavo nella casa salesiana, mi è stata mostrata un’altra piccola casa salesiana dove accogliamo i bambini senza nessuno che vivono per strada.
            La maggior parte di loro sono haitiani. Conosciamo bene la tragedia che si sta consumando ad Haiti, dove non c’è ordine, non c’è governo, non c’è legge… Solo le mafie dominano su tutto. Ebbene, sapere che questi bambini, minori arrivati qui non si sa come, che non hanno un posto dove stare,  vengono accolti nella nostra casa (in tutto 20 al momento), per passare poi in altre case, una volta stabilizzati, con altri obiettivi educativi (dove abbiamo, tra varie case e sempre con salesiani ed educatori laici, altri 90 minori), mi ha riempito il cuore di gioia e mi ha fatto pensare che Valdocco a Torino, con Don Bosco, è nato così, e così siamo nati noi salesiani, e un piccolo gruppo di quei ragazzi di Valdocco, insieme a Don Bosco, ha dato vita “de facto” alla congregazione salesiana quel 18 dicembre 1859.
            Come non vedere “la mano di Dio in tutto questo”? Come non vedere che tutto questo lavoro è il risultato di molto più di una strategia umana? Come non vedere che qui e in migliaia di altri luoghi salesiani nel mondo si continua a fare del bene, sempre con l’aiuto di tante persone generose e di tante altre che condividono la passione per l’educazione?
            Quest’anno, in Spagna-Madrid e in altri luoghi (anche in America), è stato presentato il magnifico cortometraggio “Canillitas”, che mostra la vita di tanti di questi giovani. Sono stato felice di toccare con mano e con gli occhi questa realtà. Ed è proprio vero, amici miei, che il sogno di Don Bosco si sta realizzando ancora oggi, 200 anni dopo.
            Ieri ho poi trascorso l’intera giornata con giovani del mondo salesiano che si definiscono e si sentono leader in tutta l’America Latina salesiana di un movimento che cerca di far sì che almeno il mondo educativo salesiano prenda molto sul serio la cura del creato e l’ecologia con la sensibilità di Papa Francesco espressa nella “Laudato Si’“. I giovani di 12 Paesi dell’America Latina erano presenti (di persona o online) nel loro movimento “America Latina Sostenibile”. È bello che i giovani sognino e si impegnino in qualcosa che è buono per loro, per il mondo e per tutti noi. Perché il mondo sia salvato: salvare vuol dire conservare, e nulla andrà perduto, non un sospiro, non una lacrima, non un filo d’erba; non va perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza, nessun gesto di cura per quanto piccolo e nascosto: se potremo impedire a un Cuore di spezzarsi, non avremo vissuto invano. Se potremo alleviare il Dolore di una Vita o lenire una Pena, o aiutare un bambino a crescere non avremo vissuto invano.
            Mi sento, di fronte a tutto questo, di dire con un po’ di autorità: amato Don Bosco, il tuo Sogno è ancora MOLTO VIVO.
            State bene e siate felici.




E la stella si fermò su una sedia a rotelle

Incontri nel giorno dell’Epifania con persone stupende dal cuore buono e una fede luminosa

Carissimi amici del Bollettino Salesiano, insieme al mio affettuoso saluto vi porgo i migliori auguri per il nuovo Anno 2024 che abbiamo da poco inaugurato. Spero sinceramente che sia un anno pieno di presenza di Dio nella nostra vita e ricco di benedizioni.
Ho l’abitudine, quando mi è possibile, di scrivere questo saluto condividendo qualcosa che ho vissuto e che mi ha colpito per un motivo o per l’altro. Ebbene, il giorno dell’Epifania del Signore, mi trovavo nella mia città natale, Luanco-Asturias. In quel magnifico angolo di terra, respiravo piacevolmente in contatto con le mie radici e con il mare e la natura che mi hanno visto nascere e crescere, oltre che con i miei compaesani.  Quel giorno sono andato a celebrare l’Eucaristia. Il parroco del paese mi aveva gentilmente concesso questo privilegio, mentre lui si recava in un’altra delle parrocchie a lui affidate. Così abbiamo potuto celebrare questa solennità in più comunità cristiane.
Ebbene, quello che voglio dirvi è che è stata una mattinata in cui il Signore ha preparato per me degli incontri inaspettati in cui, venendo a conoscenza della situazione di alcune persone, il mio cuore si è riempito della certezza di come il Signore consola e conforta anche quando il dolore, la malattia o la limitazione si sono insediati in alcune vite.
Ho iniziato la mia giornata, prima di celebrare l’Eucaristia, facendo visita a una persona anziana che per molti anni è stata medico del mio paese. Era un grande medico di famiglia e un credente. Tra l’altro, era stato studente salesiano a Salamanca. Per anni e anni è stato uno dei personaggi di cui mi parlavano i miei genitori quando andavano dal medico.
Ebbene, in questa visita familiare che gli feci, rispondendo all’invito di sua figlia, incontrai un uomo di fede che mi disse che come medico poteva dare solo una parte del molto che aveva ricevuto da Dio e che ora, con una pesante malattia, chiedeva solo al buon Dio di prepararlo all’Incontro con Lui. Tale era la sua convinzione e la sua pace che andai a celebrare l’Eucaristia avendo già ricevuto la mia dose di “parola buona nell’orecchio”.

Nelle mani di Dio
E all’Eucaristia ho incontrato, come in altre occasioni, un giovane di una trentina di anni che, a causa di un incidente, è da anni su una sedia a rotelle. Anche in sedia a rotelle è andato con sua madre in India per entrare in contatto con i più poveri tra i poveri. E il mio giovane amico mi colpisce per la serenità, il sorriso e la gioia con cui vive nel suo cuore; la stessa gioia con cui partecipa all’Eucaristia quotidiana e con cui riceve il Signore. E questo giovane amico avrebbe sicuramente tutto per lamentarsi della “sua sfortuna”, o peggio ancora: potrebbe dare la colpa a Dio, come tendiamo a fare quando qualcosa ha la meglio su di noi. Invece no, lui vive semplicemente senza piangersi addosso ed è grato per il dono della vita anche su una sedia a rotelle. Alla fine delle celebrazioni, quando lo vedo, ci salutiamo sempre e le sue parole sono sempre parole di ringraziamento, ma sono piuttosto io che dovrei ringraziarlo per la grande testimonianza di vita e di fede nel Signore della vita che dà a tutti noi.
Ecco quanto è stato bello e suggestivo il mio giorno dell’Epifania quando, uscendo dalla chiesa, una coppia di mezza età mi ha salutato e mi ha fatto gli auguri per il nuovo anno. Anche loro con volti gioiosi; ho visto più gioia e serenità nel marito (malato di cancro) che nella sua amata moglie (che soffriva per lui). Ma entrambi mi hanno parlato della loro certezza di dover vivere questo momento e la malattia fidandosi e abbandonandosi a Dio.

Fede di madre
Infine, tra tutti i saluti me ne è sfuggito un ultimo. Una mamma anziana che, presentandosi, mi ha ricordato che qualche anno fa aveva perso uno dei suoi figli, morto di malattia, e che attualmente era malata di cancro. Mi ha chiesto di tenerla presente davanti al Signore. Le ho chiesto come si sentiva e mi ha detto che soffriva, ma era molto confortata dalla fede. Vi assicuro che non avevo parole da dire, perché l’emozione che ho provato durante la mattinata e le testimonianze di vita che mi sono arrivate e che mi hanno travolto sono state così intense.
E non potevo non promettere le mie preghiere a ciascuno, e l’ho fatto, e allo stesso tempo mi sono reso conto, ancora una volta e in modo più forte, di come il Signore continui a fare grandi cose negli umili, nelle persone più colpite dalle situazioni della vita, in coloro che sentono che solo Lui è veramente consolazione e aiuto.
E tutto questo mi sembra così importante che non posso tenerlo per me. Sembrerebbe addirittura che non sia qualcosa di cui scrivere, forse perché non è di moda, forse perché oggi si parla di altre cose, ma io mi ribello a tutto ciò che mi impedisce di condividere e testimoniare ciò che è importante, profondo e di speranza nella nostra vita.
E non so perché, ma ho l’intuizione che molti lettori si sentiranno in sintonia con quello che racconto e con quello che io stesso ho vissuto, perché quello vi racconto, avvenuto in una mattina dell’Epifania in un piccolo paese vicino al mare, non accade solo lì. In altre parole, fa parte della nostra condizione umana e in essa il Signore è sempre al nostro fianco, se glielo permettiamo.
Vi auguro ogni bene, cari amici. E continuiamo a credere che in ogni momento, anche in quelli più difficili, abbiamo motivo di sperare.




Strenna 2024. «Il sogno che fa sognare»

Un cuore che trasforma i “lupi” in “agnelli”

Durante il mio servizio come Rettor Maggiore ho potuto constatare che la Strenna è uno dei doni più belli che don Bosco e i suoi successori offrono ogni anno a tutta la Famiglia Salesiana. Essa è un aiuto a camminare insieme e raggiunge in modo capillare i luoghi più lontani e, allo stesso tempo, lascia alle singole realtà la libertà di accogliere, integrare, valorizzare quanto proposto per il cammino proprio delle singole comunità educative pastorali.

In questo 2024 celebreremo il secondo centenario del «sogno-visione avuto da Giovannino tra i nove e dieci anni nella casetta dei Becchi»[1] nel 1824: il sogno dei nove anni.

Ritengo che la ricorrenza bicentenaria del sogno che «condizionò tutto il modo di vivere e di pensare di don Bosco. E in particolare, il modo di sentire la presenza di Dio nella vita di ciascuno e nella storia del mondo»[2], meriti di essere messo al centro della Strenna, che guiderà l’anno educativo pastorale di tutta la Famiglia Salesiana. Esso potrà essere ripreso e approfondito nella missione evangelizzatrice, negli interventi educativi e nelle azioni di promozione sociale che in ogni parte del mondo fanno capo ai gruppi della nostra Famiglia, che trova in Don Bosco il padre ispiratore.

«Vorrei qui richiamare il “sogno dei nove anni”. Mi sembra infatti che questa pagina autobiografica offra una presentazione semplice, ma al tempo stesso profetica, dello spirito e della missione di Don Bosco. In esso viene definito il campo di azione che gli viene affidato: i giovani; viene indicato l’obiettivo della sua azione apostolica: farli crescere come persone attraverso l’educazione; viene offerto il metodo educativo che risulterà efficace: il Sistema Preventivo; viene presentato l’orizzonte in cui si muove tutto il suo e nostro operare: il disegno meraviglioso di Dio, che prima di tutti e più di ogni altro, ama i giovani»[3]. Così scriveva don Pascual Chávez Villanueva, Rettor Maggiore emerito, a conclusione del commento alla Strenna 2012, offerta alla Famiglia Salesiana per il primo anno del triennio in preparazione al bicentenario (anno 2015) della nascita di don Bosco.

Tale testo rappresenta una bella sintesi che presenta l’essenza di ciò che il sogno dei nove anni è nella sua semplicità e profezia, nel suo valore carismatico ed educativo. È un sogno emblematico che, lungo quest’anno, cercheremo di avvicinare ancor più al cuore e alla vita di tutta la Famiglia di Don Bosco. È un sogno, un «famosissimo sogno-visione che sarebbe diventato e tuttora costituisce un pilastro importante, quasi un mito fondativo, nell’immaginifico della Famiglia salesiana»[4], che, certamente, richiede una contestualizzazione e un’attenzione critica – cosa che Don Bosco stesso fece e che i nostri esperti di storia salesiana hanno compiuto -per poterne offrire una lettura e dare un’interpretazione attuale, vitale ed esistenziale. Indubbiamente è un sogno che Don Bosco ha conservato nella mente e nel cuore per tutta la vita, come lui stesso dichiara: «A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita»[5]. Si tratta quindi di un sogno che è stato presente in lui e in tutto il cammino della Congregazione Salesiana fino ad oggi e che indubbiamente raggiunge l’intera nostra Famiglia Salesiana.

Nelle parole di don Rinaldi, riferite in occasione del primo centenario del sogno, leggiamo: «Il suo contenuto infatti è di tanta importanza che, in questa centenaria ricorrenza, dobbiamo farci uno stretto dovere di approfondirlo con più assidua meditazione in ogni suo particolare, e di metterne con generosità in pratica gli ammaestramenti, se vogliamo meritarci il nome di veri figli di Don Bosco e perfetti Salesiani»[6]. Stiamo vivendo con intensità l’evento straordinario di questo secondo centenario che avrà senza dubbio molte manifestazioni in tutto il mondo salesiano. L’espressione di tutto questo raggiunga il momento più celebrativo, festoso e anche più profondo nella revisione speranzosa della nostra vita, facendo proposte coraggiose ai giovani per aiutarli a sognare “in grande”, certi della presenza del Signore Gesù e “mano nella mano” con la Maestra, la Signora nostra Madre.

1. «HO FATTO UN SOGNO…»: UN SOGNO MOLTO SPECIALE
Proprio così, duecento anni fa Giovannino Bosco fece un sogno che lo avrebbe “segnato” per tutta la vita; un sogno che avrebbe lasciato in lui una traccia indelebile, il cui significato don Bosco comprese pienamente solo al termine della vita. Ecco, allora, il sogno raccontato dallo stesso Don Bosco secondo l’edizione critica di Antonio da Silva Ferreira, da cui ci discostiamo solo per due piccole varianti[7].

[Cornice iniziale] A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita.

[Visione dei ragazzi e intervento di Giovanni] Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All’udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere.

[Apparizione dell’uomo venerando] In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona, ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole: «Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti adunque immediatamente a fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù». Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que’ giovanetti. In quel momento que’ ragazzi cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui che parlava.

[Dialogo sull’identità del personaggio] Quasi senza sapere che mi dicessi, «Chi siete voi», soggiunsi, «che mi comandate cosa impossibile?». «Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza». «Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza?». «Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza». «Ma chi siete voi, che parlate in questo modo?». «Io sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno». «Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò, ditemi il vostro nome». «Il mio nome dimandalo a Mia Madre».

[Apparizione della donna di aspetto maestoso] In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle mie dimande e risposte, mi accennò di avvicinarmi a Lei, che presemi con bontà per mano, e «guarda», mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali. «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei». Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando come per fare festa a quell’uomo e a quella signora. A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare. Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi: «A suo tempo tutto comprenderai».

[Cornice conclusiva] Ciò detto un rumore mi svegliò ed ogni cosa disparve. Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi duolesse per gli schiaffi ricevuti; di poi quel personaggio, quella donna, le cose dette e le cose udite mi occuparono talmente la mente, che per quella notte non mi fu possibile prendere sonno. Al mattino ho tosto con premura raccontato quel sogno prima a’ miei fratelli, che si misero a ridere, poi a mia madre ed alla nonna. Ognuno dava al medesimo la sua interpretazione. Il fratello Giuseppe diceva: «Tu diventerai guardiano di capre, di pecore o di altri animali». Mia madre: «Chi sa che non abbi a diventar prete». Antonio con secco accento: «Forse sarai capo di briganti». Ma la nonna, che sapeva assai di teologia, era del tutto analfabeta, diede sentenza definitiva dicendo: «Non bisogna badare ai sogni». Io era del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile di togliermi quel sogno dalla mente. Le cose che esporrò in appresso daranno a ciò qualche significato. Io ho sempre taciuto ogni cosa; i miei parenti non ne fecero caso. Ma quando, nel 1858, andai a Roma per trattar col Papa della congregazione salesiana, egli si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali. Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto in età di nove in dieci anni. Il Papa mi comandò di scriverlo nel suo senso letterale, minuto e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione, che formava lo scopo di quella gita a Roma.

Lo stesso sogno si ripresenterà più volte nella vita di don Bosco e lui stesso, che ci ha narrato di suo pugno nelle Memorie quel primo evento di cui ora ricorre il bicentenario, racconta a più riprese quanto a distanza di tanti anni nuovamente sogna. Infatti, il sogno dei nove anni non è un sogno isolato, ma appartiene a una lunga e complementare sequenza di episodi onirici che hanno accompagnato la vita di Don Bosco. Egli stesso collega, integrandoli tra loro, tre sogni fondamentali: quello del 1824 (ai Becchi), quello del 1844 (nel Convitto ecclesiastico) e quello del 1845 (nelle opere della Marchesa di Barolo), in cui vi sono elementi di continuità e altri di novità. Nel sogno sempre si riconosce in filigrana quel primo quadro e scena del prato dei Becchi, ma con nuovi particolari, reazioni, messaggi, legati alle stagioni della vita che, non il Giovannino dei nove anni ma il Don Bosco nel pieno sviluppo della sua missione, sta vivendo.

In un’altra occasione, molti anni dopo, fu Don Bosco stesso a raccontarlo a don Barberis nell’anno 1875, quando aveva già sessant’anni. In quel tempo don Bosco aveva assistito alla nascita della Congregazione Salesiana (18 dicembre 1859), dell’Arciconfraternita di Maria Ausiliatrice (18 aprile 1869), dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (5 agosto 1872) e della Pia Società dei Cooperatori Salesiani – secondo il nome originario dato da Don Bosco – approvata il 9 maggio 1876.

Quando questo sogno si presenta l’ultima volta Don Bosco è, come ho già detto, un uomo maturo: ha sperimentato tante situazioni, ha affrontato e superato numerose difficoltà, ha constatato di persona cosa la Grazia e l’Amore della Vergine Maria hanno operato nei suoi ragazzi; ha visto tanti miracoli della Provvidenza e ha sofferto non poco. «“Un giorno tutto comprenderai” gli aveva profetato il primo sogno; e nel 1887 alla Messa di consacrazione del tempio al Sacro Cuore in Roma, sentì riecheggiare al suo orecchio quella voce e pianse di gioia, pianse contemplando gli effetti mirabili della sua fede invitta»[8].

2. UN SOGNO A CUI TUTTI I RETTORI MAGGIORI HANNO FATTO RIFERIMENTO
Sono particolarmente colpito dal fatto che tutti i Rettori Maggiori, ad eccezione di don Rua da chi non sono riuscito a trovare alcuna citazione, hanno fatto riferimento al sogno, a questo sogno di Don Bosco che ha segnato la nostra Congregazione e la Famiglia Salesiana. Mi avvalgo in questo momento di un magnifico lavoro di ricerca svolto dal signor Marco Bay[9].

Don Paolo Albera, secondo successore di Don Bosco, riferendosi all’Oratorio di Valdocco come all’Oratorio di Don Bosco, opera prima e per molti anni unica, si riferisce al sogno come al sogno misterioso in cui la Provvidenza gli affida la missione:

«L’Opera prima, anzi per molti anni unica, di D. Bosco è stato l’Oratorio festivo, il suo Oratorio festivo, quale egli lo aveva già intraveduto nel misterioso sogno fatto a nove anni e nei susseguenti che progressivamente gli illustrarono la mente circa l’Opera della Provvidenza affidatagli»[10].

Don Filippo Rinaldi, terzo successore di Bosco, è colui che ha l’opportunità di vivere il primo centenario di questo sogno e cerca di fare in modo che tutta la Congregazione sia impregnata della grazia di vivere questo evento. Per questo incoraggia nel modo seguente:

«Nella mia circolare sul Giubileo delle nostre Costituzioni vi ho già accennato, miei cari figli, alla ricorrenza del centenario del primo sogno di Don Bosco, invitandovi a meditare questo sogno e a praticarlo (…) Rileggiamo assieme, o miei carissimi, la pagina scritta dal Ven. Padre per nostro ammaestramento, in obbedienza al Vicario di Gesù Cristo; sì, rileggiamola con grande venerazione, e fissiamocela in mente parola per parola, questa pagina che ci descrive evangelicamente l’origine soprannaturale, la natura intima e la forma specifica della nostra vocazione. Più si legge e più diventa nuova e luminosa»[11].

E in questo stesso scritto lascia intendere ai confratelli che, come con il sogno dei nove anni Don Bosco fu chiamato a una missione, così anche noi, sotto la guida della Vergine, siamo stati chiamati, con la benevole guida della Vergine stessa che ci prende per mano, ci mostra il nostro campo d’azione e ci stimola in mille modi ad acquisire i doni dell’umiltà, della forza e della salute. Comprendiamo perfettamente come sia applicato a noi il perentorio invito di essere forti, umili e robusti. Invito che la Signora del sogno consegnò a Giovannino Bosco.

«Anche noi abbiamo avuto l’ordine di acquistare i mezzi necessari a mettere in pratica questo metodo, cioè l’obbedienza e la scienza, sotto la guida della Vergine; il che abbiamo fatto (o stiamo facendo) negli anni della nostra formazione religiosa e sacerdotale. Durante tutti questi anni felici la Vergine SS. prese anche noi con bontà per mano e, additandoci il futuro campo della nostra azione, ci stimolò in tutti i modi all’acquisto dell’umiltà, della fortezza e della salute, che sono le qualità strettamente necessarie per ogni vero figlio di Don Bosco. Anche a noi infine sarà dato vedere moltitudini di giovani, prima ignoranti affatto delle cose di Dio, e forse già vittime infelici del male, correre illuminati, risanati e gioiosi a far festa a Gesù e a Maria SS. Ausiliatrice»[12].

E, quasi come incoraggiamento a celebrare questo bicentenario in modo grande e significativo, riprendo il Bollettino Salesiano dei tempi di don Rinaldi, che racconta la celebrazione a Roma avvenuta alla sua presenza:

«Per un sogno – scriveva il Corriere d’Italia il 2 maggio u.s. – per la bellezza ideale di un sogno – ieri nell’ampio cortile delle Opere di Don Bosco a Roma si sono ritrovate in folla migliaia di anime anelanti e plaudenti, e il Cardinale Cagliero, il venerando Missionario, e il Successore stesso di Don Bosco, Don Rinaldi, e il Ministro della P. I. Pietro Fedele, a rendere gli omaggi commossi di tutte le potenze dello spirito al Maestro incomparabile che, nell’umiltà luminosa della Fede, aveva seguito le vie raggianti di quel sogno sublime (…) Una corona viva di giovani, di fanciulli e di fanciulle, gli allievi di Don Bosco; una schiera folta di uomini d’ogni ceto – professionisti, insegnanti, soldati, sacerdoti – adunati tutti nel nome del soave Maestro».
«Cent’anni fa (un altro Anno Santo, perché dimenticare?) Don Bosco fanciullo sognava il sogno dolce e misterioso; vedeva, prima, un gruppo di ragazzi della strada che rissavano fra loro bestemmiando ed imprecando; e tentava di richiamarli all’ordine con il bastone; vedeva, poi, una Signora e un Signore che lo conducevano presso un altro gruppo, di bestie, questa volta, di cani e di gatti che rissavano anch’essi, latrando e ghignando – ma che ad un cenno arcano dei Due si tramutavano in gregge di pacifici agnelli».
«Dopo cent’anni, quel sogno è una realtà – splendida, palpitante, grandiosa; – è una storia mirifica che impegna già il destino di milioni di creature, nelle Scuole, nelle Missioni, nella vita, nella preghiera, nella speranza; tutte le creature che hanno salutato e salutano Don Bosco il più grande e il più santo maestro di vita che la Chiesa e l’Italia abbiano dato al mondo nel secolo nostro»[13].

E Don Pietro Ricaldone, quarto successore di Don Bosco, vede il germe dell’Oratorio festivo e di tutta l’Opera salesiana nel sogno che Giovannino fece all’età di nove anni. Seguiranno molte altre tappe, dice don Ricaldone, molte stazioni di un pellegrinaggio, prima di arrivare a Pinardi, nella sua terra.

«Non v’ha dubbio che il primo germe dell’Oratorio festivo e di tutta l’Opera Salesiana noi dobbiamo rintracciarlo, come dissi or ora, nel fatidico sogno che Giovannino ebbe all’età di nove anni. Fin d’allora la Donna di maestoso aspetto disse al pastorello dei Becchi: “Ecco il tuo campo: renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei”.
I Becchi, Moncucco, Castelnuovo, Chieri, sono altrettante tappe: ma Giovannino Bosco è appena sulla sua via; egli cammina verso una mèta ulteriore. L’8 dicembre 1841 è, più che un punto d’arrivo, un altro punto di partenza. Nuovi pellegrinaggi egli deve compiere prima di arrivare alla tettoia Pinardi, a Valdocco, alla sua terra promessa. Per tornare alla prima immagine, la tenera pianticella ha trovato alfine la terra propria; da oggi in poi noi la vedremo irrobustirsi e ingigantire oltre ogni umana previsione»[14].

Don Ricaldone ritiene addirittura che anche l’amore e lo zelo di Don Bosco per le vocazioni abbiano origine dal sogno dei nove anni:

«L’amore e lo zelo di Don Bosco per le vocazioni ha la sua prima origine nel fatidico sogno che egli ebbe all’età di nove anni, riprodottosi in diversi modi sostanzialmente uniformi per lo spazio di quasi vent’anni (…) Infatti dopo quel sogno, si accrebbe in Giovanni il desiderio di studiare per diventar sacerdote e consacrarsi alla salvezza dei giovani»[15].

Don Renato Ziggiotti, quinto successore di Bosco, sottolinea, in modo del tutto particolare, il grande dono che la Maestra è stata per Don Bosco. Infatti, è il Signore che fa il dono della propria Madre a Giovannino, soprattutto come guida. Così si esprime:

«“Io ti darò la Maestra, sotto la cui disciplina puoi diventare sapiente e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza” è la parola fatidica del primo sogno, pronunciata dal personaggio misterioso, “il Figlio di Colei che tua madre ti ammaestro di salutare tre volte al giorno”. È dunque Gesù che dona a Don Bosco la Madre sua come Maestra e guida infallibile nel duro cammino dell’intera sua vita. Come ringraziare abbastanza di questo dono straordinario che fu fatto dal Cielo alla nostra Famiglia?»[16].

E lei, la Madre, la Madonna, la Signora del sogno sarà tutto per don Bosco. Questa certezza era molto forte e totalizzante in Don Ziggiotti ed è ciò che lo portava a chiedere ad ogni salesiano:

«La Madonna, a cui fu consacrato dalla mamma sul nascere, che illuminò l’avvenire suo nel sogno dei nove anni e poi tornò a confortarlo e consigliarlo, sotto mille forme, nei sogni, nello spirito profetico, nella visione interiore dello stato delle anime, nei miracoli e grazie senza numero, che operò invocandola; la Madonna è tutto per Don Bosco; e il Salesiano che vuole acquistare lo spirito del Fondatore deve imitarlo in questa devozione»[17].

E Don Luigi Ricceri, sesto successore di Don Bosco ha delle magnifiche espressioni sul significato del sogno dei nove anni. Don Ricceri sottolinea quanto questo sogno sia stato importante per Don Bosco al punto da rimanere impresso nel suo cuore e nella sua mente per sempre, e come attraverso questo, si sia sentito chiamato da Dio:

«Il sogno dei nove anni. È il sogno — scrive Don Bosco nelle sue “Memorie” — che “mi rimase impresso nella mente per tutta la vita” (MO, 20).
L’impressione incancellabile di questo sogno-visione è dovuta al fatto che è stato come una luce improvvisa che chiariva il senso della sua giovane esistenza e ne tracciava il cammino. Come il piccolo Samuele, Don Bosco si sente chiamato e mandato da Dio in vista di una missione: salvare i giovani di tutti i luoghi, di tutti i tempi: quelli dei paesi cristiani e la «moltitudine» di quelli che nelle regioni non cristiane vivono ancora l’attesa del grande avvento del Signore»[18].

È questo il sogno, racconta Don Ricceri, in cui Don Bosco, ancora senza piena lucidità a causa della sua giovane età, intuisce il grande valore del vivere per salvare le anime, e questa convinzione prende forma nella sua vita, nella sua mente, nel suo spirito, sempre più come dono di grazia. Ed è attraverso questo evento decisivo della sua vita che Don Bosco ebbe la prima grande intuizione di ciò che il sistema preventivo sarebbe stato in futuro. «Non colle percosse, ma con la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici», scrive Don Bosco nella narrazione dell’evento, sentendolo dalle labbra della Signora. Tanto che in futuro si potrà parlare di un rapporto prezioso tra Don Bosco e la Madre del Signore. Così si esprime magnificamente don Ricceri:

«A partire da questo sogno si stringe tra Don Bosco e la Madre di Gesù quel rapporto a due, quella collaborazione permanente, che caratterizza la vita del futuro apostolo»[19].

Don Egidio Viganò, settimo successore di Don Bosco ci offre altre riflessioni non meno stimolanti. Sono felice di vedere questa magnifica linea di continuità di tutti i rettori maggiori nel leggere, meditare e interpretare il sogno per eccellenza, ricavandone spunti utili anche per il momento attuale. Don Viganò conferma, come altri successori di Don Bosco prima di lui, che Maria è la vera ispiratrice, Maestra e guida della vocazione di Giovanni, del nostro Padre Don Bosco.

«Mi pare di particolare interesse fare osservare che già ai nove anni, nel famoso sogno (che si ripeterà più volte e a cui Don Bosco annette particolare incidenza nella sua vita) Maria si affaccia alla sua coscienza di fede come un personaggio importante interessato direttamente a un progetto di missione per la sua vita; è una Signora che dimostra particolari preoccupazioni “pastorali” verso la gioventù: gli si è presentata, infatti, “a foggia di Pastorella”. Notiamo subito, qui, che non è Giovannino a scegliere Maria, ma che è proprio Maria che si presenta con l’iniziativa della scelta: Essa, su richiesta del suo Figlio, sarà l’Ispiratrice e la Maestra della sua vocazione»[20].

La meravigliosa esperienza vissuta da Giovanni gli ha consentito di stringere una relazione molto personale con Maria – la Signora del sogno – ed è per questa ragione che Don Bosco sperimenterà intimamente, lungo l’intero corso della vita e per più volte, l’affetto molto speciale e grande da parte di Maria. Si tratta di una relazione davvero particolare con la Vergine Maria.

E anche Don Juan Edmundo Vecchi, ottavo successore di don Bosco, nota che, convinto come era Don Bosco di essere stato mandato ai giovani, tutto deve essere concentrato a quell’unico sacro scopo, i giovani, e a loro deve dedicare tutte le proprie energie. Tale è il filo del racconto che Don Bosco fa della sua vita nelle Memorie dell’Oratorio a partire dal primo sogno: «Il Signore mi ha mandato per i giovani, perciò bisogna che mi risparmi nelle altre cose estranee e conservi la mia salute per loro»[21], sempre convinto di essere uno strumento del Signore e che tutta la sua vita sia segnata da questa chiamata e missione in mezzo ai giovani. Lo conferma un altro grande esperto di Don Bosco: «La fede di essere strumento del Signore per una missione singolarissima fu in Lui profonda e salda. Ciò fondava in Lui l’atteggiamento religioso caratteristico del servo biblico, del profeta che non può sottrarsi al volere divino»[22].

Infine, Don Pascual Chávez, nono successore di don Bosco, tra una grande quantità di testi, ce ne offre uno che mi commuove. È un inno alla figura materna di mamma Margherita, che con la grazia di Dio, ha saputo accompagnare Giovannino interpretando e intuendo come, nel sogno dei nove anni, il Signore e la Vergine Maria stessero chiamando suo figlio a una vocazione molto speciale. Si potrebbe parlare, afferma don Pascual, di mamma Margherita come di una vera educatrice “salesiana”.

«È stata quest’arte educativa a permettere a Mamma Margherita di individuare le energie nascoste nei suoi figli, portarle alla luce, svilupparle e consegnarle quasi visibilmente nelle loro mani. Ciò va detto soprattutto nei riguardi del suo frutto più ricco: Giovanni. Quanto è impressionante notare in Mamma Margherita questo cosciente e chiaro senso di “responsabilità materna” nel seguire cristianamente e da vicino il proprio figlio, pur lasciandolo nella sua autonomia vocazionale, ma accompagnandolo ininterrottamente in tutte le tappe della sua vita fino alla propria morte!
Il sogno che Giovannino fece a nove anni, se fu rivelatore per lui, lo fu certamente anche (se non prima) per Mamma Margherita; è stata lei ad avere e a manifestare l’interpretazione: “Chissà che tu non abbia a diventar prete!”. E qualche anno dopo, quando comprese che l’ambiente di casa era negativo per Giovanni a causa dell’ostilità del fratellastro Antonio, ella fece il sacrificio di mandarlo a fare il garzone di campagna nella cascina Moglia di Moncucco. Una mamma che si priva del giovanissimo figlio per mandarlo a lavorare la terra lontano da casa, fa un vero sacrificio, ma ella lo fece, oltre che per eliminare un dissidio familiare, per indirizzare Giovanni su quella strada che le (e gli) aveva rivelato il sogno (…) La divina Provvidenza le fece la grazia di essere un’educatrice “salesiana”»[23].

3. IL SOGNO PROFETICO: un gioiello prezioso nel carisma della Famiglia di Don Bosco
Nei punti precedenti abbiamo letto come Don Filippo Rinaldi invitasse i confratelli, e certamente in quel momento le Figlie di Maria Ausiliatrice, i Salesiani Cooperatori, i Devoti di Maria Ausiliatrice e immagino anche gli Exallievi, a leggere il sogno, ad approfondirlo, a interiorizzarlo e a sentirne l’eco, nel cuore. Non ho dubbi al riguardo. Certamente c’è unanimità in tutti gli scritti – siano essi ricerche storiche, studi storico-critici, riflessioni sulla spiritualità salesiana o letture educativo-pastorali – nel riconoscere che questo sogno è molto più di un semplice sogno. Contiene, infatti, così tanti elementi carismatici che oso definirlo un gioiello prezioso del nostro carisma e una vera e propria “road map” per la Famiglia di Don Bosco.

Si potrebbe davvero dire che in esso non manca nulla e non c’è nulla di superfluo. È a questo che ora voglio riferirmi.

Guardando al sogno
Dove guardare in questo momento? Innanzitutto, al sogno stesso, poiché contiene una sorprendente ricchezza carismatica. Come ho già detto, non c’è una parola di troppo e certamente non manca nulla. È più che evidente lo sforzo che Don Bosco ha fatto nello scriverlo per trasmetterci il fatto che non si tratta solo di “un” sogno, ma che dobbiamo vederlo come “il” sogno che avrebbe segnato tutta la sua vita – anche se allora, da bambino, non poteva immaginarlo. Infatti, «Don Bosco quasi sessantenne – si sentiva ormai anziano e lo era per l’epoca – dovette porsi il problema di dare una fondazione storico-spirituale alla sua Congregazione, con il ricordarne le origini provvidenziali che la giustificavano. Che cosa di meglio che “narrare” ai suoi figli come la culla della “Congregazione degli Oratori” nella sua genesi, sviluppo, finalità e metodo, fosse un’istituzione voluta da Dio come strumento per la salvezza della gioventù nei tempi nuovi?»[24]. Infatti, le Memorie dell’Oratorio, in cui Don Bosco narra il sogno, non sono altro che il sogno dispiegato nella sua storia di vita, nell’Oratorio e nella Congregazione. Per questo egli dice anche nell’introduzione al suo manoscritto:

«Mi fo qui ad esporre le cose minute confidenziali che possono servire di lume o tornare di utilità a quella istituzione che la divina provvidenza si degnò di affidare alla Società di S. Francesco di Sales»[25]. E «A che dunque potrà servire questo lavoro? Servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre, e le leggeranno assai più volentieri quando, chiamato da Dio a rendere conto delle mie azioni, non sarò più tra loro»[26].

La narrazione delle Memorie dell’Oratorio (e del sogno dei nove anni che ne fa parte) è stata di tale importanza da coinvolgere nel suo studio, per tutta la vita, significativi esperti salesiani, cogliendo negli anni diverse prospettive. Un esempio ricco e degno di nota è costituito, ad esempio dalle varie sottolineature che il grande studioso di pedagogia salesiana, don Pietro Braido, ha svolto nel corso di diversi decenni. Si tratterebbe di «una storia edificante lasciata da un fondatore ai membri della Società di apostoli e di educatori, che dovevano perpetuarne l’opera e lo stile, seguendone le direttive, gli orientamenti e le lezioni» (1965); o «una storia dell’oratorio più “teologica” e pedagogica che reale, forse il documento “teorico” di animazione più lungamente meditato e voluto da don Bosco» (1989); «forse il libro più ricco di contenuti e di orientamenti preventivi» che don Bosco abbia scritto: “un manuale di pedagogia e di spiritualità “raccontata”, in chiara prospettiva oratoriana” (1999); o anche uno scritto in cui “la parabola e il messaggio” vengono prima e “al di sopra della storia”, per illustrare l’azione di Dio nelle vicende umane, e così, rallegrando e ricreando, “confortare e confermare i discepoli” in chiara prospettiva “oratoriana” (1999).[27]

Una delle pietre preziose di questo gioiello, a cui mi riferisco, è quella che consente a noi che entriamo nel sogno con cuore salesiano, qualunque sia il nostro cammino cristiano-salesiano o nella Famiglia di Don Bosco, di essere interpellati nel nostro cuore: siamo pronti ad imparare, siamo disposti a lasciarci sorprendere da Dio che accompagna la nostra vita, così come ha guidato la vita di Don Bosco, e a sentirci figli e figlie davanti a quella immensa paternità che emana dalla figura del nostro padre? Perché:

Se non si diventa CREDENTI e se non si è convinti che Dio opera nella storia, nella storia di Don Bosco e nella storia personale di ciascuno, si capirà poco o nulla delle Memorie dell’Oratorio e del sogno, e tutto questo sarà solo una “bella storia”.
Se non si diventa FIGLIo FIGLIE, non si riuscirà a sintonizzarsi con la paternità che don Bosco intende comunicare attraverso le Memorie dell’Oratorio.
Se non si diventa DISCEPOLI, disposti a imparare, non si entra veramente nello spirito delle Memorie dell’Oratorio e del sogno.

Mi sembra che queste tre disposizioni iniziali (fede, figliolanza e discepolato) siano “chiavi essenziali” per comprendere e assumere, per noi stessi, ciò che Don Bosco ha narrato e ci ha lasciato come eredità spirituale. Ciò che è avvenuto nella sua vita, e l’ha segnato e illuminato per sempre, don Bosco ha voluto che fosse un’eredità che aiutasse profondamente i suoi Salesiani e tutti noi che, per grazia, ci sentiamo e facciamo parte della sua Famiglia.

I giovani, protagonisti del sogno…
Fin dal primo momento del sogno, la “missione oratoriana” affidata a Giovannino Bosco è evidente, anche se egli non sa bene come svolgerla o come esprimerla. Come possiamo vedere, la scena è piena di ragazzi, ragazzi che sono assolutamente reali nel sogno di Giovannino.

Pertanto, mi sembra possibile affermare che i giovani sono i protagonisti centrali del sogno, e che, anche se non pronunciano una parola, tutto ruota intorno a loro. Inoltre, gli stessi personaggi “celesti” e lo stesso Giovannino Bosco sono lì grazie a loro e per loro. L’intero sogno, dunque, è loro e per loro: per i ragazzi. Se escludessimo i giovani da questo sogno, non rimarrebbe nulla di significativo per la nostra missione.

Ma quello che è interessante è che essi non sono come una fotografia che fissa un’immagine in un istante. Questi ragazzi sono in perenne movimento e azione: sia quando sono aggressivi (come lupi) e quando non riescono a sopportarsi, sia quando, trasformati nel modo che la Signora del sogno chiede a Giovannino, diventeranno (come agnelli) ragazzi sereni, amichevoli e cordiali. La cosa più importante che accade nel sogno e che Don Bosco stesso impara e, successivamente, tutti i suoi seguaci, è scoprire che il processo di trasformazione è sempre possibile. Si tratta di un movimento – permettetemi di dire – “pasquale” di conversione e di trasformazione, di lupi in agnelli e degli agnelli in una – diremmo nel linguaggio di oggi – comunità giovanile che celebra Gesù e Maria. Mi sembra certamente un elemento essenziale e centrale del sogno.

…dove c’è una chiara chiamata vocazionale
«Ecco il tuo campo: renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo per i figli miei»[28]. Ciò che accade nel sogno è soprattutto una chiamata, un invito, una vocazione, che sembra impossibile, irraggiungibile. Giovannino Bosco si sveglia stanco, ha persino pianto; e quando la chiamata viene da Dio (il personaggio di maestoso aspetto nel sogno è Gesù), la direzione che tale chiamata può prendere è imprevedibile e sconcertante.

Questo richiamo è qualcosa di molto speciale nel sogno, è di una ricchezza unica. Dico questo perché sembrerebbe che, a causa dell’età, del suo essere senza padre, della quasi totale mancanza di risorse, della povertà, dei problemi interni alla famiglia, dei litigi con il fratellastro Antonio, delle difficoltà di accesso alla scuola a causa della distanza e della necessità di lavorare nei campi, per Giovanni non ci sia un futuro possibile se non quello di rimanere lì, a coltivare i campi e a badare agli animali. Anche a noi potrebbe apparire un sogno irrealizzabile, lontano, forse destinato a qualcun altro, ma non a lui. È la stessa interpretazione che del sogno danno anche i familiari di Giovannino, come confermano le parole della nonna: «Non bisogna badare ai sogni»[29].

Tuttavia, è proprio questa situazione difficile che rende Don Bosco (in questo momento Giovannino) molto umano, bisognoso di aiuto, ma anche forte ed entusiasta. La sua forza di volontà, il carattere, la tempra, la forza d’animo e la determinazione di sua madre, Mamma Margherita, una profonda fede sia da parte di sua madre che di Giovanni stesso, rendono tutto ciò possibile. Il sogno sarà sempre lì, ma lui lo scoprirà attraverso la vita: l’ho capito come, a poco a poco, tutto si è avverato… Non c’è magia, non è un sogno “fatato”, non c’è predestinazione, ma una vita piena di significato, di richieste, di sacrifici, ma anche di fede e di speranza che ci spinge a scoprirla e a viverla ogni giorno.

Nel sogno appare un uomo molto rispettabile, di aspetto virile, che parla a Giovanni, lo interroga, lo mette nelle mani di sua Madre, la Signora. C’è sicuramente un invio in missione. Una missione di pastore-educatore in cui è indicato anche un metodo: la mitezza e la carità. Ecco un esempio della sua risposta vocazionale:

«Giovanni, fedele fin dalla più tenera età all’ispirazione divina, incomincia a lavorare nel campo assegnatogli dalla Provvidenza. Ancor non ha compiuto i dieci anni ed è già apostolo tra i suoi conterranei della borgata di Murialdo. Non è esso forse un Oratorio Festivo, sia pure in embrione, in abbozzo, quello che nel 1825 il piccolo Giovanni inizia, servendosi dei mezzi compatibili con la sua età e con la sua istruzione?
Dotato di memoria prodigiosa, amante dei libri, assiduo alle prediche, egli di tutto fa tesoro, istruzioni, fatti, esempi, per ripeterli al suo piccolo uditorio, instillando con mirabile efficacia l’amore alla virtù in quanti accorrono ad ammirarne l’abilità dei giochi e a udirne l’infantile ma calda parola»[30].

E lei, Maria, segnerà per sempre il sogno di Giovannino e la vita di Don Bosco
Arriviamo al momento centrale del sogno: la mediazione materna della Signora (legata al mistero del nome). Per Giovanni Bosco, sua madre e la Madre di colui che saluta tre volte al giorno, sarà un luogo di umanità in cui riposare, in cui trovare sicurezza e rifugio nei momenti più difficili.

«Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza». È lei, infatti, che gli indica sia il campo dove dovrà lavorare sia la metodologia da utilizzare: «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto». Maria è fin dall’inizio interpellata per la nascita di un nuovo carisma, in quanto è esattamente la sua specialità quella di portare in grembo e dare alla luce: per questo quando si tratta di un Fondatore, che deve ricevere dallo Spirito Santo la luce originaria del carisma, il Signore dispone che sia la sua stessa madre, Vergine della Pentecoste e modello immacolato della Chiesa, a fargli da Maestra. Lei sola, la “piena di grazia”, comprende infatti dal di dentro tutti i carismi, come una persona che conosca tutte le lingue e le parli come fossero la propria[31]. È come se il Signore del sogno dicesse al giovanissimo Giovanni Bosco: «D’ora in poi, vai d’accordo con lei».

«Notiamo subito, qui, che non è Giovannino a scegliere Maria, ma che è proprio Maria che si presenta con l’iniziativa della scelta: Essa, su richiesta del suo Figlio, sarà l’Ispiratrice e la Maestra della sua vocazione»[32].

Questa dimensione femminile-materna-mariana è forse una delle dimensioni più impegnative del sogno. Quando guardiamo a questa realtà con serenità, questo aspetto si trasforma in qualcosa di bello. È Gesù stesso che gli dà una maestra, che è sua Madre, e che «il suo nome deve chiederlo a Lei»; Giovannino deve lavorare “con i suoi figli”, e sarà “Lei” che si occuperà della continuità del sogno nella vita, che lo prenderà per mano fino alla fine dei suoi giorni, fino al momento in cui capirà veramente tutto.

C’è un’enorme intenzionalità nel voler dire che, nel carisma salesiano a favore dei ragazzi più poveri, deprivati e privi di affetti, la dimensione del trattare con “dolcezza”, con mitezza e carità, così come la dimensione “mariana”, sono elementi imprescindibili per chi vuole vivere questo carisma. La Madonna ha a che fare con la formazione alla “sapienza del carisma”. Ed è per questo che è difficile capire che nel carisma salesiano ci sia qualcuno (persona, gruppo o istituzione) che lasci in secondo piano la presenza mariana. Senza Maria di Nazareth parleremmo di un altro carisma, non del carisma salesiano, né dei figli e delle figlie di Don Bosco. Don Ziggiotti lo dice in modo meraviglioso, in questa ricerca che abbiamo fatto sui commenti dei maggiori rettori sul sogno:

«Vorrei far persuasi tutti i Salesiani di questo fatto importantissimo, che illumina di luce celeste tutta l’esistenza del Santo e dà quindi un valore indiscutibile a tutto ciò che Egli fece e disse nella sua vita: la Madonna, a cui fu consacrato dalla Mamma sul nascere, che illuminò l’avvenire suo nel sogno dei nove anni e poi tornò a confortarlo e consigliarlo, sotto mille forme, nei sogni, nello spirito profetico, nella visione interiore dello stato delle anime, nei miracoli e grazie senza numero, che operò invocandola; la Madonna è tutto per Don Bosco; e il Salesiano che vuole acquistare lo spirito del Fondatore deve imitarlo in questa devozione»[33].

Docile allo Spirito, confidando nella Provvidenza
Certamente c’è molto da imparare. Diventare umili, forti e robusti significa prepararsi a ciò che ci aspetta. Giovanni Bosco dovrà essere obbediente, docile alla saggezza del Maestro. Dovrà imparare a vedere e scoprire i processi di trasformazione; capire che l’itinerario, il percorso fatto con questi ragazzi porta alla vita, e all’incontro con il Signore del sogno e con sua madre, porta a Gesù e a Maria. Giovanni Bosco ha scoperto tutto questo.

La posta in gioco è l’obbedienza a Dio, la docilità allo Spirito. Come Maria è colei che “lascia che le cose accadano”, che lascia che ciò che Dio ha pensato e sognato avvenga in lei, fino a proclamare quel “fiat” a Dio, che il Signore ha fatto grandi cose in me, così anche il salesiano, la figlia di Maria Ausiliatrice, ogni cooperatore salesiano, ogni devoto di Maria Ausiliatrice, ogni membro della nostra Famiglia Salesiana, che è la Famiglia di Don Bosco, dovrà imparare e fare proprio questo stile di docilità allo Spirito. Aggiungo che vorrei che questo stile diventasse carne e vita in tutte le fasi della formazione iniziale e permanente in ogni gruppo, congregazione e istituzione salesiana. E non dimentichiamo che i “formatori”, i “formandi”, dovrebbero essere, dovremmo essere i primi a “lasciarci formare” dallo Spirito, come Maria.

Il sogno offre, come nessun altro elemento, come nessun’altra realtà, quelli che credo si possano definire indizi “inalienabili” del DNA del carisma. Sono questi indizi o “principi” che possono aiutarci a leggere, discernere e agire in sintonia con la fedeltà creativa.

E non dimentichiamo che questo è un compito comunitario, dobbiamo svolgerlo insieme, “sinodalmente” – potremmo dire oggi in linea con i recenti lavori sinodali – come Famiglia Salesiana.

Accompagnare Don Bosco nella riflessione sul suo sogno dei nove anni è anche sottolineare il suo abbandono alla Provvidenza, per collocarci, come lui, nel «a suo tempo tutto comprenderai». Lo stesso sogno era per Don Bosco un’azione della Provvidenza. Questa è la convinzione radicale, la scelta fondamentale della vita, “l’essenza dell’anima di Don Bosco”, il punto centrale, la parte più profonda e intima di lui. Non c’è dubbio che l’abbandono alla Divina Provvidenza, come aveva imparato dalla madre, è stato decisivo per il nostro padre e deve essere per noi la garanzia della continuità della spiritualità salesiana. È l’abbandono a Dio, la fiducia in Dio, perché il Dio che Don Bosco ha imparato ad amare è un Dio affidabile. Egli agisce realmente nella storia, e lo ha fatto nella storia dell’Oratorio, al punto che Don Bosco arrivò a dire ai direttori salesiani il 2 febbraio 1876:

«Le altre Congregazioni e Ordini religiosi ebbero nei loro inizii qualche ispirazione, qualche visione, qualche fatto soprannaturale, che diede la spinta alla fondazione e ne assicurò lo stabilimento; ma per lo più la cosa si fermò ad uno o a pochi di questi fatti. Invece qui tra noi la cosa procede ben diversamente. Si può dire che non vi sia cosa che non sia stata conosciuta prima. Non diede passo la Congregazione, senza che qualche fatto soprannaturale non lo consigliasse; non mutamento o perfezionamento, o ingrandimento che non sia stato preceduto da un ordine del Signore… Noi, per esempio, avremmo potuto scrivere tutte le cose che avvennero a noi prima che avvenissero e scriverle minutamente e con precisione»[34].

Però, «non con le percosse». L’arte della dolcezza e della pazienza educativa
Il sogno non ci parla solo di un passato, ma anche di un presente, di un oggi che è estremamente attuale. Il «non con le percosse» che la Madonna dice a Giovannino nel sogno ci interpella anche oggi, e rende più che mai necessario riflettere sul nostro modo salesiano di educare i giovani, perché il discorso dell’odio e della violenza continua ad aumentare. Il nostro mondo sta diventando sempre più violento e noi, educatori ed evangelizzatori dei giovani, dobbiamo essere un’alternativa a ciò che tanto angosciava Giovannino nel suo sogno e che tanto ci ferisce oggi. Come già una volta ha dichiarato il Rettor Maggiore don Pascual Chávez nella Strenna del 2012[35], senza dubbio dovremo “affrontare i lupi” che vogliono divorare il gregge: l’indifferentismo, il relativismo etico, il consumismo che distrugge il valore di cose ed esperienze, le false ideologie, e altro che veramente colpisce ed è vera violenza.

Credo che questo messaggio sia attuale oggi come lo era quando Giovannino (il nostro futuro Don Bosco, padre e maestro) lo ricevette.

Il «non con le percosse» è un “no assoluto”. È molto chiaro, ed è l’unica correzione – potremmo quasi dire rimprovero – che Giovanni Bosco riceve nel sogno. E prima di ogni altra cosa, è per noi una certezza, la grande certezza che la strada della forza e della violenza non porta nella giusta direzione del carisma. Le «percosse» del sogno possono assumere oggi mille forme; infatti, mi sono interessato a leggere, riflettere e specificare molte delle forme più o meno sottili di violenza che ci circondano e che devono essere bandite dal nostro orizzonte educativo pastorale e dal nostro universo carismatico.

«Non con le percosse» significa combattere consapevolmente, senza alcuna giustificazione, ogni tipo di violenza:

Violenza fisica che danneggia il corpo (spingere, calciare, schiaffeggiare, mettere alle strette o immobilizzare, lanciare oggetti).

Violenza psicologica e verbale che danneggia l’autostima. Quella violenza che insulta e squalifica, che isola, che monitora e controlla senza rispetto. Quella violenza e quell’abuso psicologico che fanno sì che alcune persone sentano di non dare mai abbastanza di sé; quella violenza che fa sì che le persone si considerino sempre diverse e sbagliate, addirittura immature per aver pensato ciò che si pensa onestamente; quella violenza e quell’abuso da parte di chi si interessa all’altro solo quando vuole trarne profitto.

Violenza affettivo-sessuale che lede il corpo, il cuore e gli affetti più intimi; che lascia segni indelebili di dolore e può manifestarsi verbalmente o per iscritto, con sguardi o segni che denotano oscenità, molestie, prepotenze e persino abusi.

Violenza economica per la quale il denaro che è tuo o che serve per fare del bene viene trattenuto, sottratto, rubato.

Violenza è anche cyber-violenza, “cyberbullismo” con molestie attuate attraverso internet, i siti web, i blog, con messaggi di testo o di posta elettronica, o video.

Violenza che nasce dall’esclusione sociale che vede persone, studenti, adolescenti esclusi, o umiliati pubblicamente, senza alcun rispetto.

Violenza caratterizzata da maltrattamenti, da verbi come minacciare, manipolare, svalutare, rifiutare, negare, mettere in discussione, umiliare, insultare, squalificare, deridere, mostrare indifferenza.

Non c’è dubbio che carismaticamente possediamo l’antidoto per queste situazioni che danneggiano la vita. Si tratta del genio pastorale di Don Bosco: «Ricordando, d’altra parte, che l’intervento di Maria nel primo sogno di Giovannino Bosco è stato quello che ha configurato inizialmente quel “genio apostolico” che ci caratterizza nella Chiesa, vi invito a concentrare insieme la nostra riflessione sul progetto che caratterizza la nostra genialità pastorale: il Sistema Preventivo»[36].

LEI, la Signora: Maestra e Madre
La Signora del sogno si presenta come Maestra e Madre. È la madre di entrambi: del maestoso Signore del sogno e di Giovannino stesso; una madre – permettetemi la parafrasi – che, prendendolo per mano, gli dice:

Guarda”: quanto è importante per noi saper guardare, e quanto è grave quando non riusciamo a “vedere” i giovani nella loro realtà, in ciò che sono; quando non riusciamo a vedere ciò che di più autentico c’è in loro, e ciò che di più tragico e doloroso è presente in loro e nella loro vita. “Guarda” è la prima parola che dice «la donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella».

Senza voler “interpretare” troppo un singolo verbo, mi pare ci sia un segnale “preventivo” di quello che sarà di fatto la strada che nostro padre dovrà seguire, fatta soprattutto di apprendimento esperienziale. Pensiamo quanto gli occhi contano nella vita di Don Bosco… È quello che vede, arrivato a Torino – o meglio che il Cafasso lo aiuta a vedere – che fa nascere la nostra missione. È da come vede ogni ragazzo (ricordiamo i primi incontri nelle biografie che scrive): lì c’è l’incipit che è come un miracolo a cui segue tutto il resto, sia per Savio, che per Magone, che per Cagliero, per Rua… C’è nel museo di Chieri una scultura che rappresenta gli occhi e gli sguardi di don Bosco, che era rimasta accanto al suo altare nel 1988. C’è qualcosa di unico nel suo sguardo e quel “guarda” detto dalla Signora non è meno originale e unico.

Proprio attorno al “guardare” è possibile trovare un esplicito riferimento ad una parola per noi così fondamentale come l’assistenza. E tutti sappiamo come è essenziale.

La mia attenzione però non si allontana molto dal prato dei sogni ai Becchi, perché di fatto, senza che Giovannino se ne accorga, si formerà attraverso l’esperienza: imparerà dalla vita, soprattutto nei momenti di estrema difficoltà e fatica.

Guarda porta la persona a decentrarsi, a cogliere qualcosa che va oltre il proprio orizzonte e supera la propria immaginazione e che diventa invito, sfida, provocazione, appello e guida. Perché chiede un coinvolgimento pieno e totale mediante il quale Giovanni si prodigherà a favore dei ragazzi. Da qui si coglie anche l’importanza dell’ambiente in tutta la pedagogia salesiana.

Non si toglie nulla all’indispensabile cura dell’interiorità e del silenzio. Siamo chiamati ad alzare lo sguardo, sia quando lo fissiamo sul mistero di Dio, sia quando passiamo accanto all’uomo che «scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti» (Lc 10,30). Ed è ciò che sempre ha caratterizzato la persona di Don Bosco, dall’infanzia alla fine della vita.

Impara”: diventare umili, forti e robusti, perché c’è bisogno di semplicità di fronte a tanta arroganza; di forza di fronte a tante cose che si devono affrontare nella vita; e di quella robustezza che è la resilienza, ovvero la capacità di non scoraggiarsi, di non “lasciarsi cadere le braccia” quando sembra di non essere in grado poter fare qualcosa.

È interessante notare che a rendere “mite” (umile forte robusto) Giovannino sono gli eventi (l’esperienza) che la Provvidenza (Maria) mette sul suo cammino. Ad esempio, quando qualche tempo dopo il sogno, nel febbraio 1828 (e aveva soltanto dodici anni) mamma Margherita è costretta ad allontanarlo da casa a causa dei contrasti con Antonio. Giovanni alla sera giunge alla cascina Moglia, dove è accolto più per pietà che per un reale bisogno – non è d’inverno che si cercavano garzoni. In ogni caso, la cascina è abbastanza lontana ma allo stesso tempo abbastanza vicina a Moncucco dove c’è uno dei migliori parroci che la diocesi di Torino avesse, don Francesco Cottino (di cui per ora la nostra letteratura salesiana dice ancora pochissimo). Con lui Giovanni si incontra ogni domenica. È il primo “a tu per tu”, il primo incontro con una vera guida per Giovanni. Così una stagione che poteva essere solo triste e buia diventa un’occasione importantissima per il suo cammino. Sappiamo poi che il 3 novembre 1829 lo zio Michele lo riporterà in famiglia, ai Becchi. E che il 5 novembre Giovanni incontrerà don Calosso di ritorno dalla missione di Buttigliera.

Ritengo perciò molto importante sottolineare con forza l’incredibile regia-accompagnamento della Provvidenza. Giovanni corrisponde ad essa coinvolgendosi liberamente. Tuttavia, eventi e persone che al momento giusto si susseguono, sono gli artefici di quell’«umile, forte e robusto» indispensabile per la missione che intanto in lui matura sempre più.

È quindi evidente un primato della Grazia, che vale anzitutto per noi se siamo in grado di lasciarci formare e che diventa così fecondo per la missione. Al punto che non ci sono più limiti o difficoltà tali da impedire la crescita verso quella pienezza della vita che è la santità, qualunque sia il contesto, anche il più sfidante.

Ovviamente tutto ciò non ci esonera dal mettere tutto l’impegno per migliorare le situazioni e superare le ingiustizie. Infatti, Don Bosco si “alleerà” con la Provvidenza senza limitare i propri sforzi, gli incontri, la stesura di contratti di lavoro per difendere e tutelare i giovani apprendisti ospiti del primo oratorio. Soprattutto Don Bosco non toglie loro il cielo! Indicando come ci sia sempre “un di più”, una meta più alta a cui tutti possono accedere.

Analoga lezione suggerita da Santa Madre Teresa di Calcutta con il suo “inutile” prodigarsi per i moribondi di Calcutta. Tra l’altro, su un cartellone da lei scritto a mano e appeso nella sua camera all’inizio della sua nuova vita per i più poveri dei poveri, aveva fissato nero su bianco queste parole: “Da mihi animas cetera tolle”.

“E siate pazienti”, cioè diamo tempo a tutto e lasciamo che Dio sia Dio.

4. UN SOGNO CHE FA SOGNARE
Cari membri della Famiglia Salesiana, non posso concludere il mio commento alla Strenna, senza esprimere per i giovani e per noi, i tanti sogni che porto nel cuore. Possono identificarsi nel desiderio di continuare a crescere nella fedeltà carismatica; o con l’anelito e la provocazione serena davanti a cambiamenti che si presentano per noi difficili, con resistenze che possono soffocare il fuoco vivo del nostro carisma. Oppure spinte che vogliono tradurre in realtà lo stesso sogno di Don Bosco, ma duecento anni dopo!

Li condivido con voi, nella speranza che chiunque mi legga, in qualsiasi parte del vasto mondo salesiano sia, possa sentire che qualcosa di ciò che è scritto qui, è destinato anche a lui o a lei. Questi mi paiono alcuni elementi concreti per l’attualizzazione del sogno dei nove anni:

Don Bosco ci ha mostrato nel corso della sua vita che solo le relazioni autentiche trasformano e salvano. Papa Francesco ci dice la stessa cosa: «Non basta dunque avere delle strutture se in esse non si sviluppano relazione autentiche; è la qualità di tali relazioni, infatti, che evangelizza»[37]. Per questo esprimo il desiderio che ogni casa della nostra Famiglia salesiana nel mondo sia o diventi uno spazio veramente educativo, uno spazio di relazioni rispettose, uno spazio che aiuti a crescere in modo sano. In questo possiamo e dobbiamo fare la differenza, perché le relazioni autentiche sono all’origine del nostro carisma, all’origine dell’incontro con Bartolomeo Garelli, all’origine della vocazione stessa di Don Bosco.

Ogni scelta fatta da Don Bosco faceva parte di un progetto più grande: il progetto di Dio su di lui. Pertanto, nessuna scelta è stata superficiale o banale per Don Bosco. Il suo sogno non era un aneddoto della sua vita, o un semplice evento, ma una risposta vocazionale, una scelta, un percorso, un programma di vita che prendeva forma man mano che veniva vissuto. Sogno, quindi, che ogni salesiano, ogni membro della Famiglia di Don Bosco, senta, per vocazione e scelta, di essere a disagio e di sperimentare sulla propria pelle il dolore, la stanchezza e la fatica di tante famiglie e di tanti giovani che lottano ogni giorno per sopravvivere, o per vivere con un po’ più di dignità. E che nessuno di noi si riduca ad essere spettatore passivo o indifferente di fronte al dolore e all’angoscia di tanti giovani.

«Il sogno primordiale, il sogno creatore di Dio nostro Padre, precede e accompagna la vita di tutti i suoi figli»[38]. Il nostro Dio ha un sogno per ciascuno di noi, per ciascuno dei nostri giovani, un progetto pensato, “disegnato” per noi da Dio stesso. Il segreto della tanto desiderata felicità di ciascuno sarà proprio quello di scoprire la corrispondenza e l’incontro tra questi due sogni: il nostro e quello di Dio. E allora capire qual è il sogno di Dio per ciascuno di noi significa, innanzitutto, rendersi conto che il Signore ci ha dato la vita perché ci ama, al di là di quello che siamo, compresi i nostri limiti. Dobbiamo credere, allora, che il nostro Dio vuole fare grandi cose in ciascuno di noi! Siamo tutti preziosi, abbiamo un grande valore, perché, senza ognuno di noi, mancherà qualcosa al mondo e alla Chiesa. Infatti, ci saranno persone che solo io potrò amare, parole che solo io potrò dire, momenti che solo io potrò condividere.

E senza sogni non c’è vita. Per gli esseri umani, per tutti noi, sognare significa proiettarsi, avere un ideale, un senso nella vita. La peggiore povertà dei giovani è impedire loro di sognare, privarli dei propri sogni o imporre loro sogni inventati. Ognuno di noi è un sogno di Dio. È importante scoprire qual è il mio, quale sogno Dio ha per me. E dobbiamo cercare di svilupparlo, di realizzarlo, perché ne va della nostra felicità e di quella dei nostri fratelli e sorelle.
Ricordiamo come Don Bosco pianse di commozione e di gioia quando, quel 16 maggio 1887, “vide realizzato” il sogno che definiva la sua vita, la sua vocazione, la sua missione.

Dio fa grandi cose con “strumenti semplici” e ci parla in molti modi, anche nel profondo del cuore, attraverso i sentimenti che si muovono dentro di noi, attraverso la Parola di Dio accolta con fede, approfondita con pazienza, interiorizzata con amore, seguita con fiducia. Aiutiamo noi stessi e i nostri ragazzi, le ragazze e giovani ad ascoltare il proprio cuore, a decifrare i movimenti interiori, a dare voce a ciò che si agita dentro di loro e in noi, a riconoscere quali segni o “sogni” rivelano la voce di Dio e quali, invece, sono l’esito di scelte sbagliate.

«Le fatiche e fragilità dei giovani ci aiutano a essere migliori, le loro domande ci sfidano, i loro dubbi ci interpellano sulla qualità della nostra fede. Anche le loro critiche ci sono necessarie, perché non di rado attraverso di esse ascoltiamo la voce del Signore che ci chiede conversione del cuore e rinnovamento delle strutture»[39]. Un autentico educatore sa scoprire con intelligenza e pazienza ciò che ogni giovane porta dentro di sé, e come tale agirà con comprensione e affetto, cercando di farsi amare[40]. Sogno e desidero incontrare ogni giorno, in ogni casa salesiana del mondo salesiani e laici che credono nel miracolo che l’educazione e l’evangelizzazione salesiana hanno il potere di realizzare.

Vivere umanamente è “diventare”, è realizzarsi, è godere degli esiti frutto di pazienti processi con cui Dio opera e interviene nella nostra vita. Quanto desidero che la nostra passione educativa assomigli a quella di Don Bosco, “padre dell’amorevolezza salesiana”, affinché in tutte le nostre presenze nel mondo, i ragazzi e le ragazze possano incontrare non solo professionisti formati, ma veri educatori, fratelli, amici, padri e madri.

Don Bosco, “prete di strada” ante litteram, si è letteralmente consumato in questa impresa. I salesiani (e coloro che si ispirano a Don Bosco) sono sì “figli di un sognatore di futuro”, ma di un futuro che si costruisce nella fiducia in Dio e nel quotidiano immergersi e operare nella vita dei giovani, fra le fatiche e le incertezze di ogni giorno[41]. Ed è per questo che l’incontro con il Signore della Vita, aiutando ogni giovane a scoprire il proprio sogno, il sogno di Dio in ognuno, e sostenendolo nel suo cammino di realizzazione, è il dono più prezioso che possiamo offrire ai giovani. Quanto desidero che questo si realizzi in tutte le nostre case.

Mentre il cuore di Don Bosco batteva in ogni momento, noi, «convinti che ciascun giovane porta inscritto nel cuore il desiderio di Dio, siamo chiamati ad offrire occasioni di incontro con Gesù, fonte di vita e di gioia per ogni giovane»[42]. Don Bosco non poteva tollerare che nelle sue case i suoi figli e le sue figlie non proponessero ai ragazzi, alle ragazze, agli adolescenti e ai giovani – pur nella libertà con cui oggi educhiamo alla fede nei contesti più diversi – l’incontro con Gesù. Anche oggi siamo chiamati a farlo conoscere, a scoprire come Egli affascina ogni persona e aiutando i giovani di altre religioni ad essere buoni credenti a partire dalla propria fede e ideali. Sogno che questo diventi realtà in tutte le case salesiane del mondo.

«Dappertutto l’Opera Salesiana deve mirare ai giovani più poveri e bisognosi della Società, e deve usar con loro i mille mezzi che ispira la carità che previene. Don Bosco piangeva al vedere tanta gioventù crescere corrotta e miscredente; ed avrebbe voluto poter estendere le sue cure – vigilando, ammonendo, istruendo in una parola, prevenendo, – a tutti i giovani del mondo (…) Per questo nell’accettazione di nuove fondazioni dava la preferenza a quei luoghi dove la gioventù si guastava per l’abbandono»[43]. Sogno davvero di vedere un giorno l’intera Congregazione Salesiana con la stessa dedizione che Don Bosco ebbe verso i suoi ragazzi più poveri. Sogno di vedere ciascuno dei miei confratelli donare con gioia la propria vita a favore degli ultimi. In molti casi è già così. Sogno che ciascuna delle nostre case sia piena di quell’«odore di pecore» a cui Papa Francesco fa oggi riferimento per ogni chiamato ad una vocazione apostolica. E lo auguro anche a tutta la nostra Famiglia Salesiana: nessuno deve sentirsi escluso da questa chiamata.

«La vita di Giovanni prima dell’ordinazione presbiterale è davvero un capolavoro di itinerario per la vocazione»[44]. Dice Papa Francesco parlando ai giovani della vocazione: «Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Di conseguenza, dobbiamo pensare che ogni pastorale è vocazionale, ogni formazione è vocazionale e ogni spiritualità è vocazionale»[45]. Come ha sempre fatto Don Bosco, considero un dovere per noi aiutare ogni giovane, in ogni nostra proposta, a scoprire ciò che Dio si aspetta da lui, ad avere ideali che lo facciano “volare alto”, a dare il meglio di sé, a desiderare di vivere la vita come consegna e donazione.

Maria risplende per il suo essere madre e custode. Quando, giovanissima, ricevette l’annuncio dell’angelo, non si trattenne dal fare domande. Quando ha accettato e ha detto “sì”, ha puntato tutto, rischiando. Quando sua cugina ebbe bisogno di lei, mise da parte i suoi progetti e le sue necessità e partì, senza indugio. Quando il dolore di suo Figlio l’ha colpita, è stata la donna forte che lo ha sostenuto e accompagnato fino alla fine. Lei, che è Madre e Maestra, guarda il mondo dei giovani che la cercano, anche se lungo il cammino c’è tanto rumore e buio; parla nel silenzio e tiene accesa la luce della speranza[46]. Sogno davvero che nella fedeltà a Don Bosco faremo innamorare i nostri ragazzi, ragazze e giovani di quella Madre, non meno di lui, poiché «la Madonna è tutto per Don Bosco; e il Salesiano che vuole acquistare lo spirito del Fondatore deve imitarlo in questa devozione»[47].

5. DAL SOGNO DI NOVE ANNI ALL’ALTARE DEL PIANTO
Sono giunto alla fine di questo commento. Potrei aggiungere altro, ma ritengo che quanto ho scritto possa raggiungere il cuore di ciascuno. Già questo sarebbe un’ottima notizia.

Voglio semplicemente invitarvi a un minuto di interiorizzazione e contemplazione davanti a questo testo delle Memorie Biografiche che descrive in poche righe ciò che Don Bosco ha provato, versando copiose lacrime, davanti all’altare di Maria Ausiliatrice nella Basilica del Sacro Cuore di Gesù pochi giorni dopo la sua consacrazione.

In quei momenti Don Bosco vide e sentì le voci di sua madre Margherita, i commenti dei fratelli e della nonna che valutavano il sogno, mettendolo addirittura in discussione. Proprio lì, in quel momento, sessantadue anni dopo, capì tutto, proprio come la Maestra aveva preannunciato.

Questa narrazione mi commuove ogni volta ed è per questa ragione che vi invito a rileggerla e a meditarla personalmente. Ancora una volta.

«Non meno di 15 volte durante il divin sacrificio — annotano le Memorie Biografiche — si arrestò preso da forte commozione e versando lacrime. Viglietti, che lo assisteva, dovette di quando in quando distrarlo, affinché potesse andare avanti.
(Avendogli domandato) quale fosse stata la causa di tanta emozione, rispose: — Avevo dinanzi agli occhi viva la scena di quando sui dieci anni sognai della Congregazione. Vedevo proprio e udivo la mamma e i fratelli questionare sul sogno…
Allora la Madonna gli aveva detto: “A suo tempo tutto comprenderai”. Trascorsi ormai da quel giorno sessantadue anni di fatiche, di sacrifici, di lotte, ecco che un lampo improvviso gli aveva rivelato nell’erezione della chiesa del S. Cuore a Roma il coronamento della missione adombratagli misteriosamente sull’esordire della vita»[48].

Credo veramente che Maria Ausiliatrice continui ad essere anche oggi una vera Madre e Maestra per tutta la nostra Famiglia. Sono convinto che le parole profetiche del primo sogno pronunciate dal Signore Gesù e da Maria continuano ad essere realtà in tutti i luoghi dove il carisma del nostro Padre, dono dello Spirito, ha messo radici. E sono certo che in ogni casa, al di là delle nostre fatiche e dei nostri sforzi, si può applicare ciò che Don Bosco diceva del Santuario di Valdocco:

«Ogni mattone è una grazia di Maria Ausiliatrice; nulla abbiamo fatto senza il diretto intervento di Lei; Essa si è edificata la sua casa ed è una meraviglia agli occhi nostri».

Lei, Immacolata e Ausiliatrice, continui a guidarci tutti per mano. Amen.

Torino-Valdocco, 8 dicembre 2023

Don Ángel Card. Fernández Artime, S.D.B.
Rettor Maggiore


[1] F. Motto, Il sogno dei nove anni. Redazione, storia, criteri di lettura, in «Note di pastorale giovanile» 5 (2020), 6.

[2] P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. 1. Vita e opere, LAS, Roma 1979, 31s.

[3] P. Chávez V., Conoscendo e imitando Don Bosco, facciamo dei giovani la missione della nostra vita, in ACG 412 (2012), 35-36.

[4] F. Motto, o.c.,6.

[5] G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, in Istituto Storico Salesiano, Fonti salesiane 1. Don Bosco e la sua opera, LAS, Roma 2014, 1176.

[6] Cfr. F. Rinaldi, Lettera circolare pubblicata su ACS Anno V – N. 26 (24 Ottobre 1924), 312-317.

[7] G. Bosco, Memorie dell’oratorio di san Francesco di Sales dal 1815 al 1855, in Istituto Storico Salesiano, (saggio introduttivo e note storiche a cura di A. da Silva Ferreira), “Fonti”, serie prima, 4, marzo 1991. Cfr. A. Bozzolo, Il sogno dei nove anni3.1 Struttura narrativa e movimento onirico in A. Bozzolo (a cura di), I sogni di Don Bosco. Esperienza spirituale e sapienza educativa, LAS-Roma, 2017, p. 235.

[8] R. Ziggiotti (a cura di Marco Bay), Tenaci, audaci e amorevoli. Lettere circolari ai salesiani di don Renato Ziggiotti, LAS, Roma 2015, 575.

[9] Il coadiutore salesiano Marco Bay è stato professore all’Università Pontificia Salesiana di Roma e attualmente è direttore dell’Archivio Centrale Salesiano di Roma (UPS). Egli ha generosamente messo nelle mie mani la ricerca che aveva svolto sui riferimenti che i precedenti Rettori Maggiori avevano fatto sul sogno dei nove anni.

Vorrei anche cogliere l’occasione per ringraziare don Luis Timossi, sdb, del Centro di Formazione Permanente di Quito, e don Silvio Roggia, sdb, direttore della comunità del Beato Ceferino Namuncurá di Roma, per le loro note e i loro suggerimenti.

[10] P. Albera, Direzione Generale delle Opere Salesiane, Lettere Circolari di don Paolo Albera ai salesiani, Torino 1965, 123; 315; 339.

[11] F. Rinaldi, Lettera circolare pubblicata su ACS Anno V – N. 26 (24 Ottobre 1924), 312-317.

[12] Ibidem.

[13] La commemorazione di un “sogno”, in BS Anno XLIX, 6 (Giugno 1925), 147.

[14] P. Ricaldone, Anno XVII. 24 Marzo 1936 N. 74.

[15] P. Ricaldone, o.c., N. 78.

[16] R. Ziggiotti, o.c., 129.

[17] R. Ziggiotti, o.c., 264.

[18] L. Ricceri, La parola del Rettor Maggiore. Conferenze, Omelie Buone notti, v. 9, Ispettoria Centrale Salesiana, Torino 1978, 27.

[19] Ibid, 28.

[20] E. Viganò, Lettere circolari di don Egidio Viganò ai salesiani, vol. 1, Roma, Direzione Generale Opere Don Bosco, 1996, 10.

[21] MB VII, 291. Citato in J. E. Vecchi, Educatori appassionati esperti e consacrati per i giovani. Lettere circolari ai Salesiani di don Juan E. Vecchi. Introduzione, parole chiave e indici a cura di Marco Bay, LAS, Roma 2013, 380.

[22] P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. Vol. II, p. 32. Citato in J. E. VECCHI, o.c., 381.

[23] P. Chávez Villanueva, Lettere circolari ai salesiani (2002-2014). Introduzione e indici a cura di Marco Bay. Presentazione di don Ángel Fernández Artime, Roma, LAS, 2021, p. 450.

[24] F. Motto, o.c. 8.

[25] Ibid, 10.

[26] G. Bosco, Memorie del Oratorio, citato in F. Motto, o.c., 9.

[27] F. Motto, o.c., 10.

[28] Citato in P. Ricaldone, Anno XVII. 24 Marzo 1936 N. 74.

[29] G. Bosco, o.c., 1177.

[30] P. Ricaldone, Anno XX Novembre–Dicembre 1939 N. 96

[31] A. Bozzolo (ed), Il Sogno dei nove anni. Questioni ermeneutiche e lettura teologica, LAS, Roma 2017, 264.

[32] E. Viganò, Lettere circolari di don Egidio Viganò ai salesiani, vol. 1, Roma, Direzione Generale Opere Don Bosco, 1996, p. 10.

[33] R. Ziggiotti, o.c., 264.

[34] F. Motto, o.c., 7.

[35] Cfr. P. Chávez, «Conoscendo e imitando Don Bosco facciamo dei giovani la missione della nostra vita». Primo anno di preparazione al Bicentenario della sua nascita. Strenna 2012, in ACG 412 (2012), 3-39.

[36] E. Viganò, Lettere circolari di don Egidio Viganò ai salesiani, vol. 1, Roma, Direzione Generale Opere Don Bosco, 1996, p. 31.

[37] Sinodo dei Vescovi, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Documento finale. Elledici, Torino, 2018, nº128.

[38] Francesco, Christus vivit. Esortazione apostolica Postsinodale ai giovani e a tutto il Popolo di Dio, LEV, Città del Vaticano 2019, nº194.

[39] Sinodo dei Vescovi, I giovani…. o.c., nº116.

[40] Cfr. XXIII Capitolo Generale Salesiano, Educare ai giovani nella fede, CCS, Madrid, 1990, nº 99.

[41] Cfr. F. Motto, o.c. 14.

[42] R. Sala, Il sogno dei nove anni. Redazione, storia, criteri di lettura, in «Note di pastorale giovanile» 5 (2020), 21.

[43] F. Rinaldi, Il sac. Filippo Rinaldi ai Cooperatori ed alle Cooperatrici Salesiane. Un’altra data memoranda, in BS Anno XLIX, 1 (Gennaio 1925), 6.

[44] E. Viganò, Lettere circolari di don Egidio Viganò ai salesiani, vol. 2, Roma, Direzione Generale Opere Don Bosco, 1996, p. 589.

[45] Francesco, Christus vivit, nº254.

[46] Cfr. Francesco, o.c., 43-48, 298.

[47] R. Ziggiotti, o.c., 264.

[48] MB XVIII, 341.




Zatti buon samaritano, per malati, medici e infermieri (video)

«Zatti-hospital»
Zatti e l’ospedale erano un binomio inscindibile. Padre Entraigas ricorda che quando c’era una chiamata telefonica il coadiutore rispondeva quasi a scatto: «Zatti-Hospital». Senza darsene conto egli esprimeva la realtà inscindibile tra la sua persona e l’ospedale. Divenuto responsabile dell’ospedale nel 1913 dopo la morte di padre Garrone e l’abbandono della Congregazione da parte di Giacinto Massini, egli poco a poco ne assunse ogni compito, ma fu prima di tutto e inconfondibilmente l’«infermiere» del San José. Non procedette alla buona nella preparazione, ma cercò di perfezionare anche con lo studio personale quanto aveva appreso empiricamente. Continuò a studiare per tutta la vita e soprattutto acquisì un’esperienza di grande livello grazie ai 48 anni di pratica al San José. Il dottor Sussini, che fu tra coloro che lo praticarono più a lungo, dopo aver affermato che Zatti curava i malati «con santa vocación» aggiunge: «Per quanto ne so, il Sig. Zatti, da quando lo conobbi, essendo uomo maturo, già formato, non aveva trascurato la sua cultura generale, né le sue conoscenze di infermieristica e di farmacista preparatore».
Padre De Roia così parla dell’aggiornamento professionale di Zatti: «A proposito di formazione culturale e professionale ricordo di aver visto libri e pubblicazioni di medicina e di avergli chiesto una volta quando li leggesse, mi rispose che lo faceva di notte o durante l’ora della siesta dei malati, una volta che aveva finito i suoi compiti in ospedale. Mi ha anche detto che il dottor Sussini a volte gli prestava qualche libro e ho visto che consultava spesso il “Vademecum e ricettari”».
Il dottor Pietro Echay afferma che per Zatti «el Hospital era un Santuario». Padre FelicianoLópez così descrive la posizione di Zatti all’ospedale, dopo lunga consuetudine con lui: «Zatti era un uomo di governo, sapeva esprimere con chiarezza quello che voleva, ma accompagnava l’azione di governo con dolcezza, rispetto e gioia. Mai perdeva la calma, anzi, bonariamente minimizzava le cose, ma il suo esempio di operosità era travolgente e più che un direttore, senza titolo, era diventato una specie di lavoratore universale; a parte questo, avanzò rapidamente in competenza professionale, fino a raggiungere anche il rispetto dei medici e ancor più dei subordinati: per questo non ho mai sentito dire che in quel piccolo mondo di 60 o 70 ricoverati, nei primi tempi parecchie suore, donne che prestavano il loro servizio ed alcune infermiere, non regnasse sempre la pace, e anche se, come è logico, a volte c’erano delle liti, queste non degeneravano grazie alla prudenza di Zatti che sapeva rimediare alle deviazioni».
L’Ospedale San José era un particolare santuario della sofferenza umana dove Artemide in ogni fratello e sorella in difficoltà abbracciava e curava la carne sofferente di Cristo, dando senso e speranza al soffrire umano. Zatti – e con lui tanti uomini e donne di buona volontà – ha incarnato la parabola del Buon Samaritano: si è fatto prossimo, ha teso la mano, ha sollevato, ha curato. Per lui ogni infermo era come un figlio da amare. Uomini e donne, grandi e piccoli, ricchi e poveri, intelligenti e ignoranti tutti erano trattati in modo rispettoso e amabile, senza infastidirsi o respingere quelli insolenti e poco simpatici. Era solito dire: «A volte ti può capitare uno con una faccia simpatica, altre volte uno antipatico, però davanti a Dio siamo tutti uguali».
Se c’era povertà di mezzi, e se poveri erano molti di coloro che erano ricoverati, tuttavia Zatti all’ospedale, dati i tempi, i luoghi e le situazioni di tutti gli ospedali anche nazionali di allora, seguiva le corrette norme di sanità e igiene. Si procedeva allora con criteri più larghi, ma non risulta affatto che il salesiano coadiutore, come infermiere, verso i malati abbia mancato di giustizia e di carità. Aveva buona cultura per il suo compito e buona esperienza, sapeva quello che doveva fare e i limiti delle sue competenze, non c’è ricordo di qualche errore, di qualche trascuratezza o di qualche accusa contro di lui. Il dottor Sussini ha affermato: «Negli interventi con i malati sempre rispettava le norme legali, senza eccedere nei suoi poteri […]. Tengo a precisare che in tutti i suoi interventi consultava qualche medico tra quelli che stavano sempre al suo fianco per sostenerlo. Per quanto ne so, non ha effettuato nessun intervento difficile […]. È certo che usava le prescrizioni igieniche stabilite, anche se talvolta, data la sua grande fede, le riteneva eccessive. Lo scenario socioeconomico in cui il Sig. Zatti svolse principalmente la sua attività era di scarsa economia e istruzione e in genere di bassa istruzione. Nella sua azione all’interno dell’ospedale metteva in pratica le consolidate conoscenze di igiene e tecnica che già conosceva e altre che apprendeva chiedendo ai professionisti. Fuori dall’ospedale, la sua azione era più difficile poiché modificare l’ambiente esistente era molto difficile e al di là dei suoi sforzi».
Luigi Palma allarga la sua considerazione: «Era voce corrente a Viedma la discrezione e la prudenza del comporta-mento del Sig. Zatti; d’altra parte, qualsiasi abuso in questa materia sarebbe rapidamente risaputo in un piccolo agglomerato come Viedma e non si è mai sentito nulla. Il Sig. Zatti non ha mai ecceduto dalla sua competenza. Non credo che abbia eseguito operazioni difficili. Se ci fosse stato qualche abuso, i medici l’avrebbero segnalato, ma questi non hanno fatto altro che elogiare l’opera di Zatti […]. Il Sig. Zatti utilizzava le dovute precauzioni igieniche. Lo so perché mi ha curato in più occasioni: iniezioni o piccole cure con tutta la diligenza del caso».
A un uomo che ha speso tutta la vita con enorme sacrificio per i malati, che era ricercato da loro come una benedizione, che ha conquistato la stima di tutti i dottori che hanno collaborato con lui e contro cui mai poté essere elevata una voce di accusa, risulterebbe ingiusto rinfacciare qualche libertà che la sua esperienza e prudenza gli potevano permettere in qualche particolare circostanza: l’esercizio sublime della carità, anche in questo caso, valeva più dell’osservanza di una prescrizione formale.

Con il cuore di don Bosco
In Zatti si realizzato ciò che Don Bosco aveva raccomandato ai primi missionari salesiani in partenza per l’Argentina: «Prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri, e guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini». Zatti come Buon Samaritano ha accolto nella locanda del suo cuore e nell’Ospedale San José di Viedma i poveri, gli infermi, gli scartati dalla società. In ciascuno di essi ha visitato Cristo, ha curato Cristo, ha alimentato Cristo, ha vestito Cristo, ha ospitato Cristo, ha onorato Cristo. Come testimoniò un medico dell’ospedale: «L’unico miracolo che ho visto nella mia vita è il Sig. Zatti, per la straordinarietà del suo carattere, la capacità di servizio al prossimo e la straordinaria pazienza con gli infermi».
Zatti seppe riconoscere in ogni fratello, in ogni sorella, in ogni persona soprattutto povera e bisognosa che incontrava un dono: riuscirà a vedere in ciascuno di loro il volto luminoso di Gesù. Quante volte esclamerà accogliendo un povero o un infermo: «Gesù viene! – Cristo arriva!». Questo tener fisso lo sguardo su Gesù, soprattutto nell’ora della prova e della notte dello spirito, sarà la forza che gli permetterà di non cadere prigioniero dei propri pensieri e delle proprie paure.
Nell’esercizio di tale carità, Zatti faceva trasparire l’abbraccio di Dio per ogni uomo, in particolare per gli ultimi e i sofferenti, coinvolgendo cuore, anima e tutto il suo essere, perché viveva con i poveri e per i poveri. Non era semplice prestazione di servizi, ma manifestazione tangibile dell’amore di Dio, riconoscendo e servendo nel povero e nell’ammalato il volto del Cristo sofferente con la delicatezza e la tenerezza di una madre. Vivendo con i poveri praticava la carità con spirito di povertà. Non era un funzionario o un burocrate, un prestatore di servizi, ma un autentico operatore di carità: e nel vedere, riconoscere e servire Cristo nei poveri e negli esclusi, educava anche gli altri. Quando chiedeva qualcosa, lo chiedeva per Gesù: «Mi dia un vestito per un Gesù vecchietto»; «Mi dia dei vestiti per un Gesù di 12 anni!».
Impossibile non ricordare le sue avventure in bicicletta, i suoi giri instancabili, con il suo classico spolverino bianco con le estremità annodate e allacciato in vita, salutato con tenero affetto da quanti incontrava sul suo cammino. Nel lento procedere con la bicicletta aveva tempo per tutto: il saluto affettuoso, la parola cordiale, il consiglio misurato, qualche indicazione terapeutica, un aiuto spontaneo e disinteressato: le sue ampie tasche erano sempre piene di medicinali, che distribuiva a piene mani ai bisognosi. Raggiungeva personalmente coloro che lo chiamavano, prodigando non solo le sue conoscenze mediche, che possedeva ben solide, ma anche la fiducia, l’ottimismo, la fede che irradiava il suo sorriso costante, ampio e dolce e la bontà del suo sguardo; l’infermo gravemente ammalato che riceveva la visita del Sig. Zatti ne sentiva il sollievo imponderabile che gli dispensava colui che stava al suo fianco; l’infermo che moriva con la presenza di Zatti lo faceva senza angosce né contorsioni. La carità dispensata tanto generosamente per le strade fangose di Viedma ha ben meritato che Artemide Zatti fosse ricordato in città con una via, un ospedale e un monumento a suo nome.
Esercitava un apostolato spicciolo che dava la misura della sua carità, ma che comportava per lui tempo, lavoro, difficoltà e fastidi molteplici. Siccome era a tutti nota la sua bontà e la sua buona volontà nel servire gli altri, tutti si rivolgevano a lui per le cose più disparate. I direttori salesiani delle case dell’ispettoria scrivevano per consigli medici, gli mandavano confratelli da assistere, affidavano al suo ospedale persone di servizio diventate inabili. Le Figlie di Maria Ausiliatrice non erano da meno dei salesiani nel chiedere favori. Gli emigranti italiani chiedevano aiuti, facevano scrivere in Italia, sollecitavano pratiche. Coloro che erano stati ben curati all’ospedale, quasi fosse espressione di gratitudine, gli inviavano parenti e amici da assistere per la stima che avevano delle sue cure. Le autorità civili avevano spesso persone inabili da sistemare e ricorrevano a Zatti. I carcerati e altre persone, vedendolo in buoni rapporti con le autorità, si raccomandavano perché chiedesse clemenza per loro o facesse procedere la soluzione dei loro problemi.
Un fatto che esprime bene la forza autorevole di Zatti nell’incidere nella vita delle persone con la sua testimonianza evangelica e la parola persuasiva è la conversione di Lautaro Montalva. Costui, detto il Cileno dal paese d’origine, era un rivoluzionario, sfruttato dai soliti agitatori politici. Diffondeva riviste contro la religione. Abbandonato infine da tutti, cadde in miseria e fu ridotto in fin di vita, con una numerosa famiglia. Solo Zatti ebbe il coraggio di entrare nella sua stamberga di legno, resistere alla sua prima reazione di ribellione e conquistarlo con la sua carità. Il rivoluzionario si ammansì e chiese di essere battezzato: furono battezzati anche i suoi figli. Zatti lo ricoverò all’ospedale. Poco prima di morire aveva chiesto al parroco: «Datemi i sacramenti che deve ricevere un cristiano!». La conversione del Montalva fu una conquista della carità e del coraggio cristiano di Zatti.
Zatti fa della missione a servizio dei malati il proprio spazio educativo dove incarnare quotidianamente il Sistema preventivo di Don Bosco – ragione, religione, amorevolezza – nella vicinanza e assistenza ai bisognosi, nell’aiuto a comprendere e accettare le situazioni dolorose della vita, nella testimonianza viva della presenza del Signore.

Zatti infermiere
Il profilo professionale di Artemide Zatti, iniziato con una promessa, era radicato nella fiducia nella Provvidenza e si sviluppò una volta guarito dalla malattia. La frase “Credetti, Promisi, Guarii”, motto della sua canonizzazione, mostra la totale dedizione che Zatti aveva per i suoi fratelli malati, i più poveri e bisognosi.
Questo impegno lo portò avanti quotidianamente fino alla sua morte nell’ospedale di San José, fondato dai primi salesiani arrivati in Patagonia, e lo ribadiva durante in ogni visita domiciliare, urgente o meno, che faceva ai malati che avevano bisogno di lui.
In bicicletta, nel suo ufficio di amministratore, in sala operatoria, nel cortile durante la ricreazione con i suoi poveri “parenti”, nei reparti dell’ospedale che visitava ogni giorno, era sempre un infermiere; un santo infermiere dedito a curare e alleviare, portando la migliore medicina: la presenza allegra e ottimista dell’empatia.

Una persona e una squadra che fanno del bene
Era la fede che spingeva Artemide Zatti ad un’attività instancabile, ma ragionevole. La sua consacrazione religiosa lo aveva introdotto direttamente e completamente nella cura dei poveri, dei malati e di coloro che hanno bisogno della salute e della consolazione misericordiosa di Dio.
Il sig. Zatti lavorava nel mondo della sanità a fianco di medici, infermieri, personale sanitario, Figlie di Maria Ausiliatrice e di tante persone che collaborarono con lui al sostegno dell’ospedale San José, il primo della Patagonia argentina, nella Viedma della prima metà del XX secolo.
La tubercolosi che contrasse all’età di vent’anni non fu un ostacolo a perseverare nella sua scelta professionale. Egli trovò nella figura del salesiano coadiutore lo stile dell’impegno a lavorare direttamente con i poveri. La sua consacrazione religiosa, vissuta nella sua professione di infermiere, è stata la combinazione della sua vita dedicata a Dio e ai fratelli. Naturalmente questo si è manifestato in una personalità peculiare, unica e irripetibile. Artemide Zatti era una persona buona, che lavorava direttamente con i poveri, facendo del bene.

Il contatto diretto con i poveri era finalizzato alla salute, cioè a lenire il dolore, a sopportare la sofferenza, ad accompagnare gli ultimi momenti della loro vita, ad offrire un sorriso di fronte all’irreversibile, a dare una mano con speranza. Per questo motivo, Zatti divenne una “presenza-medicina”: curava direttamente con la sua gradevole presenza.
Il suo principale biografo, il salesiano Raul Entraigas, ha fatto una scoperta originale. Individuò nella frase di un compaesano la sintesi della vita di Artemide Zatti: sembra essere “il parente di tutti i poveri”. Zatti vede Gesù stesso negli orfani, nei malati e negli indigeni. E li trattava con tanta vicinanza, apprezzamento e amore, che sembrava che fossero tutti suoi familiari.

Formarsi per aiutare
Vedendo i bisogni del villaggio, Zatti perfezionò la sua professione. Gradualmente divenne responsabile dell’ospedale, studiò e convalidò le sue conoscenze con lo Stato quando gli venne richiesto. I medici che lavoravano con Artemide, come i dottori Molinari e Sussini, testimoniano che Zatti possedeva una grande conoscenza medica, frutto non solo della sua esperienza, ma anche dei suoi studi.
Don De Roia aggiunge: “Per quanto riguarda la sua formazione culturale e professionale, ricordo di aver visto libri e pubblicazioni di medicina e, chiedendogli una volta quando li leggeva, mi disse che lo faceva la sera o durante il riposo pomeridiano dei pazienti, una volta finite tutte le mansioni all’Ospedale”.
Esiste a tal proposito un documento, “Credenziali Professionali”, rilasciato dalla Segreteria della Salute Pubblica della Nazione Argentina con tanto di matricola professionale di infermiere numero 07253. Furono gli studi che aveva realizzato all’Università Nazionale di La Plata nel 1948, all’età di 67 anni. A ciò si aggiunge una precedente certificazione, nel 1917, come “Idoneo” in Farmacia.
Il suo stile di vita lo portò ad un impegno in cui incontrava direttamente i poveri, i malati, i più bisognosi. Per questo la professione infermieristica aveva un valore aggiunto: la sua presenza era una testimonianza della bontà di Dio. Questo semplice modo di guardare la realtà possa aiutare a capire meglio la vita di Zatti, prestando particolare attenzione al termine “direttamente”.
In questa prospettiva troviamo ciò che di più genuino c’è in Zatti, che evidenzia ciò che si definisce “vita religiosa” o “consacrazione”. Per questo Artemide è un salesiano santo. È un infermiere santo. Questa è l’eredità che ha lasciato a tutti. E questa è la sfida che lancia a tutti e che invita a raccogliere.

1908
Guarita la salute, Zatti entrò nella Congregazione Salesiana come coadiutore. Inizia ad occuparsi della farmacia dell’ospedale San José, l’unico a Viedma.
1911
Dopo la morte di don Evasio Garrone, direttore dell’ospedale, Zatti resta a capo della farmacia e dell’ospedale, il primo in Patagonia. Ci ha lavorato per quarant’anni.
1917
Ha conseguito il titolo di “Idóneo in Farmacia” presso l’Università di La Plata.
1941
L’edificio dell’ospedale viene demolito. Pazienti e professionisti si trasferiscono con Zatti alla scuola agraria “San Isidro”.
1948
Zatti ottiene l’iscrizione all’Infermieristica presso l’Università di La Plata.

Zatti con i medici: era un padre!
Tra i principali collaboratori di Zatti all’Ospedale San José vi furono i medici. I rapporti erano delicati, perché un medico era il direttore dell’ospedale dal punto di vista legale e aveva la responsabilità professionale sui malati. Zatti aveva la responsabilità organizzativa e infermieristica e potevano sorgere contrasti. Dopo i primi anni, a Viedma, capitale del Rio Negro, e a Patagones vennero parecchi medici e Zatti doveva servirsi delle loro specializzazioni all’ospedale senza destare rivalità. Agì in modo tale da conquistare la stima di tutti per la sua bontà e competenza. Nella documentazione troviamo i nomi dei direttori dottor Riccardo Spurr e dottor Francesco Pietrafraccia; poi di Antonio Gumersindo Sussini, di Ferdinando Molinari, di Pietro Echay, di Pasquale Attilio Guidi e Giovanni Cadorna Guidi, che deporranno circa la santità di Zatti; e infine di Harosteguy, di Quaranta e Cessi. Altri certo ce ne furono, più di passaggio, perché, dopo un periodo di tirocinio, i medici aspiravano a sedi più centrali e sviluppate. È unanime il riconoscimento che Zatti, come infermiere, era sottomesso alle indicazioni e norme dei dottori: presso tutti aveva un gran prestigio per la sua bontà e non destava rimostranze per l’assistenza da lui prestata ai malati degenti nella propria casa. Il dottor Sussini che lo seguì fino alla morte ha dichiarato: «Tutti i medici, nessuno escluso, gli manifestavano affetto e rispetto per le sue virtù personali, per la sua bontà, la sua misericordia e la sua fede pura, sincera e disinteressata»[i].
Il dottor Pasquale Attilio Guidi ha precisato: «Sempre corretto, seguiva le disposizioni dei medici. Ricordo che il dottor Harosteguy, che era abbastanza “contestatore”, nervoso, quando ero presente durante un’operazione, a volte incolpava il Sig. Zatti dei suoi problemi; ma alla fine delle operazioni lo accarezzava e gli chiedeva scusa. Così capivamo che non c’era tanta lamentela contro Zatti. Zatti era una persona stimata da tutti»[ii]. La figlia del dottor Harosteguy e il dottor Echay confermano il carattere forte di Harosteguy e gli ingiustificati scatti contro Zatti che lo conquistava con la sua sopportazione. Anzi proprio il dottor Harosteguy, quando si ammalerà, solo a Zatti permetterà di vistarlo, gradendo e apprezzando la sua presenza e vicinanza.
Il dottor Molinari testimoniò: «Il Sig. Zatti rispettava il corpo medico e ne seguiva rigorosamente le istruzioni. Ma dato il gran numero di pazienti che richiedevano esclusivamente il suo intervento, dovette agire molte volte spontaneamente, ma sempre sulla base delle sue grandi conoscenze, della sua esperienza e secondo le proprie conoscenze mediche. Mai osò un intervento chirurgico difficile. Sempre chiamava il dottore. Noi medici abbiamo avuto affetto, rispetto e ammirazione per il Sig. Zatti. Era generale questo sentimento […] Direi che i pazienti “adoravano” il Sig. Zatti e avevano cieca fiducia in lui»[iii].
Il dottor Echay fa questa singolare constatazione: «Con tutto il personale dell’ospedale Zatti era un padre; anche con noi medici più giovani era un buon consigliere»[iv]. A proposito delle visite che Zatti faceva in città, dice il dottor Guidi: «I medici non hanno mai visto negativamente quest’opera di Zatti, ma come collaborazione. […]. I pazienti da lui assistiti gli eleverebbero un monumento»[v].
Anche gli estranei videro sempre stretti rapporti di collaborazione e di stima tra Zatti e i dottori, come testimonia padre López: «Il comportamento del Sig. Zatti verso i dottori era da loro giudicato con spirito di cordiale accoglienza. Tutti i medici con cui ho parlato ne erano, senza eccezione, suoi ammiratori»[vi]. E ancora lo stesso padre López: «C’è sempre stata fama di amabilità di Zatti nei confronti dei dottori, la sua tolleranza e umanità di fronte alle scortesie tipiche di molti medici; in particolare il dottor Harosteguy era un uomo violento e la virtù di Zatti nei suoi confronti si può dedurre perché divenne un ammiratore di Zatti, con sfumature di venerazione»[vii]. Oscar Garcia usa un’espressione efficace: «I medici collaboravano con l’ospedale in buona parte perché lì c’era il Sig. Zatti con una carità che trascinava i cuori»[viii]. La sua vita scuoteva l’indifferenza religiosa di qualcuno di essi: «Quando vedo Zatti vacilla la mia incredulità»[ix]. In non pochi casi c’erano conversioni e inizi di vita cristiana.

Zatti e le infermiere: per noi era tutto!
Il gruppo più numeroso per il servizio dell’ospedale era costituito dalle collaboratrici femminili. Il San José aveva in certi momenti fino a 70 letti: è naturale che fossero necessarie infermiere professionalmente preparate, aiutanti di cucina, lavandaie e stiratrici, incaricate della pulizia e altro personale. Per le occupazioni più umili e ordinarie non era difficile trovare personale, perché la popolazione aveva molti elementi poveri e una sistemazione di lavoro all’ospedale sembrava apparire particolarmente ambita e sicura. Più difficile doveva essere trovare le infermiere per le quali, forse in tutta la nazione e certamente in Patagonia, non esistevano scuole di preparazione. Zatti dovette provvedere da sé: scegliere, formare, organizzare, assistere le infermiere, procurare i mezzi di lavoro, pensare a una ricompensa, a tal punto che egli risulta essere iniziatore nella formazione del personale femminile dell’ospedale.
La Provvidenza faceva giungere all’ospedale diverse giovani buone, ma povere, che dopo essere state assistite e guarite cercavano una sistemazione nella vita. Zatti si rendeva conto della loro bontà e disponibilità; mostrava col suo esempio e con la sua parola come fosse bello servire il Signore nei fratelli malati; e poi avanzava la proposta discreta di fermarsi con lui e condividere la missione all’ospedale. Le ragazze più buone sentivano la grandezza e la gioia di questo ideale e restavano al San José. Zatti si prendeva la responsabilità di prepararle professionalmente e – da buon religioso –ne curava la formazione spirituale. Esse vennero così a costituire in gruppo una specie di congregazione senza voti, di anime elette che sceglievano di servire i poveri. Zatti dava loro tutto il necessario per la vita, anche se ordinariamente non le pagava, e pensava a una buona sistemazione qualora volessero lasciare il servizio all’ospedale. Non dobbiamo pensare che la situazione in quei tempi richiedesse tutte le garanzie che oggi esigono le strutture ospedaliere. Per quelle ragazze la soluzione offerta da Zatti dal punto di vista materiale era invidiabile non meno che dal punto di vista spirituale. Di fatto esse erano contente e quando fu chiuso l’Ospedale San José, o prima, per nessuna fu difficile trovare una buona sistemazione. Coralmente manifestarono sempre espressioni di riconoscenza.
Padre Entraigas ricorda 13 nomi del personale femminile che in tempi diversi ha lavorato all’ospedale. Tra i documenti sono raccolte le relazioni delle infermiere: Noelia Morero, Teodolinda Acosta, Felisa Botte, Andrea Rafaela Morales, Maria Danielis. Noelia Morero racconta la sua storia, che fu identica a quella di parecchie altre infermiere. Giunse al San José malata: «Qui sono stata malata e poi ho iniziato a collaborare fino alla fine del 1944, quando mi sono trasferita all’Ospedale Nazionale Regionale di Viedma, aperto nel 1945 […]. Zatti era molto amato e rispettato da tutto il personale e dai pazienti; era “il panno delle lacrime” di tutti. Non ricordo lamentele di alcun genere contro di lui. Quando Zatti entrava nelle stanze, sembrava che entrasse “Dio stesso!”. Non saprei come dirlo. Per noi era tutto. Non ho conosciuto particolari difficoltà; da malata non mi è mai mancato nulla: né cibo, né medicine, né vestiti. Il Sig. Zatti si preoccupava soprattutto della formazione morale del personale. Ricordo che ci ha fatto imparare con lezioni pratiche, accompagnandolo nei momenti in cui visitava gli infermi e dopo una o due volte ce lo faceva fare soprattutto con i casi più gravi»[x].

Film visto prima della conferenza



Video de la conferenza: Zatti buon samaritano, per malati, medici e infermieri
Conferenza tenuta da don Pierluigi CAMERONI, Postulatore Generale della Società Salesiana di san Giovanni Bosco a Valdocco, nel 15.11.2023.




[i] Testimonianza del dottor Antonio Gumersindo Sussini. Positio – Summarium, p. 139, § 561.

[ii] Testimonianza di Attilio Guidi, farmacista. Conobbe Zatti dal 1926 al 1951. Positio – Summarium, p. 99, § 386.

[iii] Testimonianza del dottor Ferdinando Molinari. Conobbe Zatti dal 1942 al 1951. Divenne medico dell’Ospedale San José e nell’ultima malattia lo curò. Tenne il discorso ufficiale in occasione dell’inaugurazione del monumento a Zatti. Positio – Summarium, p. 147, § 600.

[iv] Testimonianza del dottor Pietro Echay. Positio – Informatio, p. 108.

[v] Testimonianza di Attilio Guidi. Positio – Summarium, p. 100, § 391.

[vi] Testimonianza di padre Feliciano López. Positio – Summarium, p. 171, § 694.

[vii] Ivi, p. 166, § 676.

[viii] Testimonianza di Oscar García, impiegato di polizia. Conobbe Zatti nel 1925, ma trattò con lui soprattutto dopo il 1935, sia come dirigente degli ex-allievi, sia come membro del Circolo Operaio. Positio – Summarium, p. 111, § 440.

[ix] Testimonianza di padre Feliciano López. Positio – Summarium, p. 181, § 737.

[x] Testimonianza di Noelia Morero, infermiera. Positio – Informatio, p. 112.




Salesiani in Azerbaigian, seminatori di speranza

Il racconto di un ragazzo che esprime gratitudine per l’operato dell’unica comunità salesiana dell’Azerbaigian, punto di riferimento per tanti giovani della capitale.

L’Azerbaigian (ufficialmente Repubblica dell’Azerbaigian), è un paese localizzato nella regione transcaucasica, che confina con il Mar Caspio a est, con la Russia a nord, la Georgia e l’Armenia a ovest e l’Iran a sud. Ospita una popolazione di circa 10 milioni di abitanti, che parla la lingua azera, appartenente alla famiglia delle lingue turche. La ricchezza principale del paese è rappresentata dal petrolio e dal gas. Diventato indipendente nel 1918, è stato il primo stato laico democratico a maggioranza musulmana. La sua indipendenza però duro solo due anni, dato che nel 1920 venne incorporato dalla nuova Unione Sovietica appena costituita. Con la caduta dell’impero sovietico, ha riconquistato l’indipendenza nel 1991. In questo periodo, la regione del Nagorno Karabakh, abitata principalmente da armeni, dichiarò la sua indipendenza sotto in nome di Repubblica dell’Artsakh, evento che portò a varie guerre. È riapparsa nei notiziari internazionali dopo il recente attacco dell’Azerbaigian, il 19 settembre 2023, che ha condotto alla soppressione della sopraddetta repubblica e all’esodo di quasi tutti gli abitanti armeni da questa regione verso l’Armenia.

La presenza dei cristiani in quest’area geografica è menzionata fin dai primi secoli dopo Cristo. Nel sec. IV il re caucasico Urnayr dichiarò ufficialmente il cristianesimo religione di stato e rimase così fino all’VIII secolo quando, in seguito ad una guerra, si impose l’islam. Attualmente la religione maggioritaria è proprio l’islam a predominanza sciita, e i cristiani di tutte le confessioni rappresentano il 2,6% della popolazione.
La presenza dei cattolici nel paese risale al 1882 quando fu fondata una parrocchia; nel 1915 fu costruita una chiesa nella capitale Baku, demolita dai comunisti sovietici nel 1931, dissolvendo la comunità e arrestando il parroco, che morì un anno dopo in un campo di lavoro forzato.

In seguito alla caduta del comunismo, si ricostituì la comunità cattolica di Baku nel 1997, e dopo la visita in Azerbaigian di papa san Giovanni Paolo II nel 2002, si ottenne il terreno per la costruzione di una nuova chiesa, consacrata all’Immacolata Concezione e inaugurata il 29 aprile 2007.
La presenza salesiana in Azerbaigian è stata aperta nell’anno del Giubileo 2000, nella capitale Baku, la più grande città del paese, con una popolazione di più di 2 milioni di abitanti.

Il direttore della casa salesiana di Baku, don Martin Bonkálo, ci racconta che la missione salesiana si incarna in contesti diversi e sempre nuovi, come risposta alle sfide e ai bisogni della gioventù. Gli echi di don Bosco si sentono anche in Azerbaigian, in Asia Centrale, paese a maggioranza musulmana, che nello scorso secolo ha conosciuto il regime sovietico.
In questa casa vivono e lavorano sette salesiani, di cui cinque sacerdoti e due coadiutori, appartenenti all’Ispettoria slovacca (SLK), che si curano della parrocchia di Santa Maria e del Centro educativo “Maryam”. Si tratta di un’opera per lo sviluppo integrale dei giovani: evangelizzazione, catechesi, educazione ed aiuto sociale.
In tutto il paese i cattolici sono un piccolo gregge che professa con coraggio e speranza la propria fede. Il lavoro dei salesiani quindi, si basa sulla testimonianza dell’amore di Dio, sotto varie forme. I rapporti con la gente sono aperti, chiari ed amichevoli: questo favorisce il prosperare dell’azione educativa.

I giovani sono come tutti gli altri giovani del mondo, con le loro paure e i loro talenti. La loro sfida più grande è quella di ricevere una buona istruzione per guadagnarsi da vivere. I giovani cercano un ambiente educativo e persone capaci a livello professionale ed umano, che sappiano comunicare il cammino da seguire per cercare il senso della vita.
I salesiani sono impegnati a guardare al futuro, per arricchire la presenza nel paese, renderla più internazionale e rimanere fedeli al carisma trasmesso da don Bosco, con gioia ed entusiasmo.

Shamil, exallievo del centro salesiano di Baku, racconta: “Sono entrato a contatto con il centro Maryam nel 2012 e quell’incontro si è rivelato fondamentale per il resto della mia vita. A quel tempo, avevo prestato il servizio militare e stavo terminando la mia formazione presso un collegio d’informatica. Avvertivo la necessità di crescere a livello professionale, ma allo stesso tempo avevo un gran bisogno di amici nel mondo reale! Arrivai a Baku dalla provincia, incontrai per strada un mio amico che mi parlò del Centro Maryam. Così siamo andati insieme per visitarlo e da lì è iniziato un capitolo bellissimo nella mia vita. Fin dal primo giorno mi sono trovato in un mondo diverso, non facile da spiegare, io nel mio cuore dico che è un’isola. È diventata per me un’isola di umanità, nel mondo moderno spesso interessato a usare le persone, e non a interessarsi realmente a loro.

Senza che neanche me ne rendessi conto, era iniziato il programma nel centro giovanile e io ero parte di una squadra. Qualcuno giocava a pallavolo, qualcuno a ping-pong, un gruppo di ragazzi strimpellava la chitarra… Più tardi, ci siamo seduti in refettorio e a tutti è stata data la possibilità di condividere una parola per esprimere la propria opinione sulla giornata passata, sulle impressioni o sulle nuove idee. Io ero un ragazzo piuttosto timido, eppure ho iniziato a parlare con piacere degli eventi del giorno e degli argomenti generali, senza alcuna difficoltà o freno. Tra i tanti corsi del centro, ho deciso di iniziare con il corso di grafica Photoshop e il corso di lingua inglese. Quando poi ho dovuto lasciare il mio lavoro per motivi di salute, ho perso anche un tetto sopra la testa. La soluzione è stata quella di lavorare al centro come guardia, con determinati obblighi e responsabilità. Sono stato in prova per un mese e sono contento di non aver deluso nessuno e di aver trovato una nuova casa. Quando don Stefan nel 2014 ha iniziato a sviluppare al centro il progetto di rete informatica dell’Accademia Cisco, è iniziato il mio percorso professionale come ingegnere di rete. Nello stesso periodo, ho potuto imparare tre mestieri domestici: saldatura, elettricità e idraulica. Nel 2016 sono diventato istruttore ufficiale di Cisco e ormai sono sei anni che lavoro come ingegnere di rete. Questo lavoro ha permesso a me e alla mia famiglia di rimetterci in piedi dopo anni di vita molto precaria. Oltre al lavoro, tengo corsi sulle reti informatiche, sono diventato animatore e aiuto a organizzare campi estivi per bambini. Non posso che essere grato a don Bosco per tutto quello che mi ha donato nella vita”.

Sono tante le storie di giovani come Shamil, che sono riusciti a indirizzare la propria vita grazie al lavoro dei Salesiani a Baku, e speriamo che quest’opera possa prosperare e continuare ancora a essere feconda.

Marco Fulgaro




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (1/5)

La celebrazione annuale della memoria di tutti i defunti ci mette davanti agli occhi una realtà che nessuno può negare: il fine della nostra vita terrena. Per tanti, parlare della morte sembra una cosa macabra, da evitare assolutamente. Ma non era così per san Giovanni Bosco; per tutta la sua vita aveva coltivato l’Esercizio della Buona Morte fissando a questo scopo l’ultimo giorno del mese. Chi sa che non sia questo il motivo che il Signore lo ha preso con sé nell’ultimo giorno di gennaio del 1888 trovandolo preparato…

            Jean Delumeau, nell’introduzione della sua opera su La paura in Occidente, racconta l’angoscia da lui provata all’età di dodici anni quando, novello alunno interno di un collegio salesiano, ascoltò per la prima volta le “inquietanti sequenze” delle litanie della buona morte, seguite da un Pater ed Ave “per quello tra noi che sarà il primo a morire”. A partire da quell’esperienza, dai suoi antichi timori, dai suoi difficili sforzi per abituarsi alla paura, dalle sue meditazioni d’adolescente sui fini ultimi, dalla personale paziente ricerca della serenità e della gioia nell’accettazione, lo storico francese ha elaborato un progetto di indagine storiografica focalizzato sul ruolo della “colpevolizzazione” e sulla “pastorale della paura” nella storia dell’Occidente e ha tratto la chiave interpretativa “di un panorama storico assai ampio: per la Chiesa – scrive – la sofferenza e l’annientamento (provvisorio) del corpo sono da temere meno che il peccato e l’inferno. L’uomo non può nulla contro la morte, ma – coll’aiuto di Dio – gli è possibile evitare le pene eterne. Da quel momento un nuovo tipo di paura – teologica – si sostituiva a un’altra che era anteriore, viscerale e spontanea: si trattava di una medicazione eroica, ma sempre di una medicazione, giacché introduceva uno sfogo là dove non c’era che vuoto; di questo genere fu la lezione che i religiosi incaricati della mia educazione cercarono d’insegnarmi”[1].
            Anche Umberto Eco ricordava con ironica simpatia l’esercizio della buona morte che gli veniva proposto nell’Oratorio di Nizza Monferrato:

             “Le religioni, i miti, i riti antichi ci rendevano la morte, seppure sempre temibile, familiare. Ci abituavano ad accettarla le grandi celebrazioni funerarie, gli urli delle prefiche, le grandi Messe da Requiem. Ci preparavano alla morte le prediche sull’inferno e ancora durante la mia infanzia ero invitato a leggere le pagine sulla morte dal Giovane provveduto di Don Bosco, che non era solo il prete allegro che faceva giocare i bambini, ma aveva un’immaginazione visionaria e fiammeggiante. Egli ci ricordava che non sappiamo dove ci sorprenderà la morte – se nel nostro letto, sul lavoro, o per strada, per la rottura di una vena, un catarro, un impeto di sangue, una febbre, una piaga, un terremoto, un fulmine, «forse appena finita la lettura di questa considerazione». In quel momento ci sentiremo la testa oscurata, gli occhi addolorati, la lingua arsa, le fauci chiuse, oppresso il petto, il sangue gelato, la carne consumata, il cuore trafitto. Di qui la necessità di praticare l’Esercizio della Buona Morte […]. Puro sadismo, si dirà. Ma cosa insegniamo oggi ai nostri contemporanei? Che la morte si consuma lontano da noi in ospedale, che di solito non si segue più il feretro al cimitero, che i morti non li vediamo più. […] Così la scomparsa della morte dal nostro orizzonte di esperienza immediato ci renderà molto più terrorizzati, quando il momento si approssimerà, di fronte a questo evento che pure ci appartiene sin dalla nascita – e con cui l’uomo saggio viene a patti per tutta la vita”[2].

            Nelle case salesiane la pratica mensile della buona morte, con la recita delle litanie inserite da don Bosco nel Giovane provveduto, rimase in uso dal 1847 fino alle soglie del Concilio.[3] Delumeau narra che tutte le volte che gli capitava di leggere quelle litanie ai suoi studenti del Collège de France constatava quanto ne rimanessero sbalorditi: “È la prova – scrive – d’un cambiamento rapido e profondo di mentalità da una generazione all’altra. Essendo rapidamente invecchiata dopo essere stata a lungo attuale, questa preghiera per una buona morte è diventata documento di storia nella misura in cui riflette una lunga tradizione di pedagogia religiosa”.[4] Lo studioso delle mentalità, infatti, ci insegna come i fenomeni storici, per evitare forvianti anacronismi, devono sempre essere affrontati in relazione alla loro coerenza interna e con rispetto dell’alterità culturale, alla quale si deve ricondurre ogni rappresentazione mentale collettiva, ogni credenza e pratica culturale o cultuale delle società antiche. Fuori di quei quadri antropologici, di quell’insieme di conoscenze e di valori, di modi di pensare e di sentire, di abitudini e modelli di comportamento diffusi in un determinato contesto culturale, che plasmano la mentalità collettiva, è impossibile attuare un approccio critico corretto.
            Per quanto ci riguarda, il racconto di Delumeau è documento di come l’anacronismo non insidia soltanto lo storico. Anche il pastore e l’educatore rischiano di perpetuare pratiche e formule fuori degli universi culturali e spirituali che le generarono: così esse, oltre ad apparire per lo meno strane alle giovani generazioni, possono risultare persino controproducenti, essendo venuti meno l’orizzonte di senso globale e le “attrezzature mentali” e spirituali che le rendevano significative. Questa è stata la sorte della preghiera della buona morte riproposta, per oltre un secolo, agli allievi delle opere salesiane in tutto il mondo, poi – intorno al 1965 – del tutto abbandonata, senza alcuna forma di sostituzione che ne salvaguardasse gli aspetti positivi. L’abbandono non era dovuto soltanto alla sua obsolescenza. Era anche un sintomo di quel processo in atto di eclisse della morte nella cultura occidentale, una sorta di “interdetto” e di “proibizione” oggi fortemente denunciato dagli studiosi e dai pastori.[5]
            Il nostro contributo intende indagare il significato e il valore educativo dell’esercizio della buona morte nella pratica di don Bosco e delle prime generazioni salesiane, mettendolo in relazione con una feconda tradizione secolare, per poi individuarne la peculiarità spirituale attraverso le testimonianze narrative lasciate dal Santo.

(continua)


[1] Jean Delumeau, La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII). La città assediata, Torino, SEI, 1979, 42-44.

[2] Umberto Eco, “La bustina di Minerva: Dov’è andata la morte?”, in L’Espresso, 29 novembre 2012.

[3] Le “Preghiere per la buona morte” sono ancora riportate, con poche varianti sostanziali, nel riveduto manuale di preghiera per le istituzioni educative salesiane d’Italia, che sostituiva definitivamente il Giovane Provveduto, usato fino a quel momento: Centro Compagnie Gioventù Salesiana, In preghiera. Manuale di pietà ispirato al Giovane Provveduto di san Giovanni Bosco, Torino, Opere Don Bosco, 1959, 360-362.

[4] Delumeau, La paura in Occidente, 43.

[5] Cf. Philippe Ariés, Storia della morte in Occidente, Milano, BUR, 2009; Jean-Marie R. Tillard, La morte: enigma o mistero? Magnano (BI), Edizioni Qiqajon, 1998.




La GMG come esperienza sinodale di rinnovamento della Chiesa

Interrompere la vita di una città è sempre un atto straordinario. Riempire le strade di giovani provenienti da ogni angolo del mondo è un ricordo commovente. Una Giornata Mondiale della Gioventù è questo e molto di più.

L’organizzazione di una GMG richiede tantissime di ore di lavoro, mettendo a disposizione dei giovani, risorse di ogni tipo. Se porterà frutti spirituali in proporzione allo sforzo, ne sarà valsa la pena, il tutto per una ragione educativa, comunicativa ed evangelizzatrice: l’obiettivo di un evento come questo è quello di far conoscere Gesù Cristo a moltissimi giovani, e di riuscire a far capire loro che seguire Lui è un modo sicuro per trovare la felicità.

È ai giovani che dobbiamo guardare in questi giorni con particolare predilezione e scoprire il segreto di un fenomeno sorprendente: nel mondo dei giovani è in atto una “rivoluzione silenziosa”, il cui palcoscenico più grande sono le Giornate Mondiali della Gioventù. Giovani che sollevano domande tra i cristiani e non hanno paura di mostrarsi come tali, giovani che non vogliono essere intimiditi e tanto meno ingannati, giovani che portano l’entusiasmo e la passione per realizzare il cambiamento.

Questi incontri continuano a sorprendere sia all’interno sia all’esterno della Chiesa. E sono un’istantanea di una gioventù molto diversa da quella proposta da alcuni, assetata di valori, alla ricerca del significato più profondo della vita, con un desiderio di un mondo diverso da quello che abbiamo trovato al nostro arrivo.

Oggi, una percentuale significativa dei partecipanti alla GMG proviene da contesti familiari, sociali e culturali molto diversi. Molti di questi giovani pellegrini non hanno punti di riferimento cristiani nei loro contesti. In questo senso, la vita di molti di loro assomiglia al surf: non possono pretendere di cambiare l’onda, ma si adattano ad essa per dirigere la tavola dove vogliono che vada. Questi volti radiosi della Chiesa si svegliano ogni giorno con il desiderio di essere migliori seguaci di Gesù in mezzo ai loro familiari, amici e conoscenti.

I giovani hanno la forza di dare il meglio di sé, ma devono sapere che questo impegno è fattibile, hanno bisogno della complicità degli adulti, devono credere che questa lotta non sia sterile né destinata al fallimento. Per questo motivo, le giornate sono un modo per far sperimentare ai giovani la sinodalità, lo stile particolare che caratterizza la vita e la missione della Chiesa. L’appartenenza alla loro comunità ecclesiale locale implica l’appartenenza a una comunità molto più grande e universale. Una comunità in cui abbiamo bisogno che tutti, giovani e adulti, si “prendano carico del mondo”.

Per questo, è necessario coltivare alcune attitudini per questa nuova spiritualità sinodale. La GMG ci permette di:
– condividere le piccole storie degli altri, sperimentando il coraggio di parlare liberamente e di portare in tavola conversazioni profonde che vengono da dentro;
– imparare a crescere insieme agli altri e di apprezzare come ci stiamo aggiungendo a vicenda, anche se a “velocità” diverse (stili, età, visioni, culture, doni, carismi e ministeri nella Chiesa);
– prendersi cura degli “spazi verdi comunitari” per la nostra relazione con Dio, per occuparci della nostra connessione con la fonte della vita, con Colui che si prende cura di noi, per radicare la nostra fiducia e le nostre speranze in Lui, per scaricare le nostre preoccupazioni su di Lui, per essere in grado di “prendere in carico” la missione che Lui lascia nelle nostre mani;
– accettare e accogliere la nostra fragilità, che ci collega alla fragilità del nostro mondo e della madre Terra;
– essere una voce che si unisce a molte altre per denunciare gli eccessi che si stanno commettendo attualmente nei confronti del Pianeta e per intraprendere azioni comuni che contribuiscano alla nascita di una cittadinanza più responsabile ed ecologica;
– riorientare insieme i processi pastorali da una prospettiva più aperta e inclusiva, che ci renda pronti ad “andare incontro” a tutti i giovani dove si trovano, e rendere visibile e reale il desiderio di essere una “Chiesa in movimento” che si avvicini a credenti e non credenti, e che diventi una compagna di viaggio per coloro che lo desiderano o ne hanno bisogno.

In breve, una Chiesa sinodale che favorisca un cambiamento di cuore e di mente che ci permetta di affrontare la nostra missione in MODO GESÙ. Un invito a sentire dentro di noi il tocco e lo sguardo di Gesù che ci rende sempre nuovi.

Sito ufficiale del GMG 2023: https://www.lisboa2023.org
Sito saleisani al GMG 2023: https://wyddonbosco23.pt