Il Giubileo del 2025 e le basiliche giubilari

Il 24 dicembre 2024, nella Vigilia di Natale, il Papa ha aperto la Porta di Bronzo nella Basilica di San Pietro, segnando così l’inizio del Giubileo del 2025. Questo gesto si è ripetuto successivamente in altre basiliche: il 27 dicembre, in occasione della festa di San Giovanni Apostolo ed Evangelista, nella Basilica Lateranense (di cui è compatrono); il 1º gennaio 2025, solennità di Maria Santissima Madre di Dio, nella Basilica di Santa Maria Maggiore; infine il 5 gennaio, Vigilia dell’Epifania, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura.
Di seguito, spieghiamo brevemente che cosa sia il Giubileo e quali siano le basiliche giubilari presso cui è possibile ottenere l’Indulgenza plenaria.

Origine
Talvolta si fa confusione tra il primo Giubileo e la prima Bolla che ne stabilì la cadenza, ma il Giubileo affonda le sue radici nella legislazione biblica. Fu Dio stesso a comandare a Mosè di celebrare un anno “giubilare” ogni cinquant’anni (Levitico 25). Nel corso dei secoli, questa pratica passò alla comunità cristiana, adattandosi gradualmente alle esigenze e alle tradizioni della Chiesa.

Nel 1300, a fronte della grande affluenza di pellegrini a Roma, papa Bonifacio VIII pubblicò la bolla Antiquorum habet fida relatio, che non istituiva il Giubileo ex novo, ma ne riconosceva la tradizione secolare già esistente. Svolse diverse indagini, interrogando anche persone molto anziane, come un savoiardo di 107 anni che ricordava di essere stato portato a Roma dal padre cent’anni prima per lucrare “grandi Indulgenze”. Questa diffusa convinzione spinse Bonifacio VIII a stabilire con atto solenne ciò che veniva trasmesso oralmente, cioè la possibilità di ottenere l’Indulgenza plenaria visitando la Basilica di San Pietro durante l’anno “secolare”.

In origine, secondo la bolla di Bonifacio VIII, il Giubileo avrebbe dovuto celebrarsi ogni cent’anni. Tuttavia, le scadenze cambiarono nel tempo:
– Papa Clemente VI lo ridusse a ogni cinquant’anni (riprendendo così la cadenza dell’Antico Testamento);
– Papa Gregorio XI lo fissò ogni trentatré anni, in ricordo degli anni di vita di Gesù;
– Papa Paolo II stabilì infine la cadenza di venticinque anni, in modo che più fedeli, inclusi i giovani, potessero godere di questa grazia almeno una volta nella vita (considerando la scarsa aspettativa di vita di quei tempi).

Oltre ai Giubilei “ordinari” (ogni 25 anni), se ne indicono talvolta di “straordinari” per circostanze particolari o necessità della Chiesa. Gli ultimi tre Giubilei straordinari sono stati:
– 1933-1934: Giubileo straordinario della Redenzione (1900º anniversario della Redenzione di Cristo, tradizionalmente datata all’anno 33 d.C.);
– 1983-1984: Giubileo straordinario della Redenzione (1950º anniversario della Redenzione di Cristo);
– 2015-2016: Giubileo straordinario della Misericordia (per porre al centro il tema della Misericordia).
Poiché non tutti potevano recarsi a Roma, i Pontefici concessero la possibilità di ottenere l’Indulgenza plenaria anche a coloro che, per motivi economici o di altra natura, non potevano mettersi in viaggio. In luogo del pellegrinaggio, si potevano compiere altre opere di pietà, penitenza e carità, come avviene ancora oggi.

Significato e spirito del Giubileo
Il Giubileo è un tempo forte di penitenza e di conversione, che mira alla remissione dei peccati e alla crescita nella grazia di Dio. In particolare, la Chiesa ci invita a:

1. Rinnovare la memoria della nostra Redenzione e suscitare una viva gratitudine verso il Divino Salvatore.
2. Ravvivare in noi la fede, la speranza e la carità.
3. Premunirci, grazie ai lumi particolari che il Signore elargisce in questo periodo di grazia, contro errori, empietà, corruzione e scandali che ci circondano.
4. Ridestare e accrescere lo spirito di preghiera, arma fondamentale del cristiano.
5. Coltivare la penitenza del cuore, correggere i comportamenti e riparare con opere buone i peccati che ci attirano l’ira di Dio.
6. Ottenere, mediante la conversione dei peccatori e il perfezionamento dei giusti, che Dio anticipi nella sua misericordia il trionfo della verità insegnata dalla Chiesa.

Uno dei momenti culminanti per il fedele durante il Giubileo è il passaggio attraverso la Porta Santa, gesto che deve essere preceduto da un percorso di preparazione remota (preghiera, penitenza e carità) e da una preparazione prossima (l’adempimento delle condizioni per ricevere l’Indulgenza plenaria). È importante ricordare che non si può ricevere l’Indulgenza plenaria se ci si trova in stato di peccato grave.

Le condizioni per ricevere l’Indulgenza plenaria sono:
1. Confessione sacramentale.
2. Comunione eucaristica.
3. Preghiera secondo le intenzioni del Santo Padre (un Padre Nostro e un’Ave Maria).
4. Disposizione interiore di totale distacco dal peccato, anche veniale (ovvero la ferma volontà di non voler più offendere Dio).
Se manca la piena disposizione o non sono rispettate tutte le condizioni, l’indulgenza è solo parziale.

Informazioni sul Giubileo del 2025
Come di consueto, anche questo Giubileo è stato indetto da una Bolla di Indizione, dal titolo Spes non confundit, consultabile QUI. Sono disponibili, inoltre, le Norme sulla Concessione dell’Indulgenza durante il Giubileo Ordinario del 2025, leggibili QUI. Il sito web ufficiale del Giubileo del 2025, con informazioni su organizzazione, eventi, calendario e altro, si trova QUI.

Nella tradizione giubilare della Chiesa Cattolica, i pellegrini, giunti a Roma, compiono un “pellegrinaggio devoto” nelle chiese arricchite di indulgenza. Questa usanza risale all’epoca dei primi cristiani, che amavano pregare sulle tombe degli apostoli e dei martiri, certi di ricevere grazie particolari per intercessione di San Pietro, di San Paolo e dei tanti martiri che impregnarono la terra di Roma con il loro sangue.

Nel 2025, sono stati proposti diversi percorsi di pellegrinaggio, e in ciascuna delle chiese segnalate è possibile ottenere l’Indulgenza plenaria. Tutte le basiliche e chiese menzionate a seguire sono state arricchite di tale dono giubilare.

1. Itinerario delle quattro Basiliche Papali
Le quattro Basiliche Papali di Roma sono:
San Pietro in Vaticano
San Giovanni in Laterano
1.3 Santa Maria Maggiore
1.4 San Paolo fuori le Mura

2. Pellegrinaggio delle 7 chiese
Il pellegrinaggio delle Sette Chiese, iniziato da San Filippo Neri nel XVI secolo, è una delle tradizioni romane più antiche. L’itinerario, lungo circa 25 km, si snoda attraverso l’intera città, toccando anche la campagna romana e le catacombe. Oltre alle quattro Basiliche Papali, include:
2.5 Basilica di San Lorenzo fuori le Mura
2.6 Basilica di Santa Croce in Gerusalemme
2.7 Basilica di San Sebastiano fuori le Mura

3. “Iter Europaeum
L’Iter Europaeum è un pellegrinaggio attraverso 28 chiese e basiliche di Roma, ciascuna associata a uno degli Stati membri dell’Unione Europea per il suo valore artistico, culturale o per la tradizione di ospitare pellegrini provenienti da quello specifico Paese.

4. Donne Patrone d’Europa e Dottori della Chiesa
Questo percorso offre l’opportunità di conoscere più da vicino le sante europee, in particolare quelle riconosciute come Patrone d’Europa o Dottori della Chiesa. L’itinerario conduce i pellegrini tra i vicoli del Rione Monti, Piazza della Minerva e altri luoghi iconici di Roma, alla scoperta di figure femminili di grande rilievo nella storia del cattolicesimo.

5. Catacombe cristiane
Luoghi insieme storici e sacri, dove sono conservati i resti mortali di numerosi santi e martiri.

6. Altre Chiese Giubilari
In queste chiese si terranno catechesi in diverse lingue per riscoprire il significato dell’Anno Santo. Sarà inoltre possibile accostarsi al sacramento della Riconciliazione e arricchire la propria esperienza di fede con la preghiera.

Basiliche o chiese arricchite di Indulgenza plenaria (62)
Per agevolare la visita e la devozione, presentiamo qui l’elenco di tutte le basiliche e chiese arricchite di Indulgenza plenaria per il Giubileo del 2025, corredato da collegamenti ai siti del Giubileo, a Google Maps, alle pagine web ufficiali dei singoli luoghi di culto e ad altre informazioni utili. Tre di loro sono state ripetute perché sono incluse in doppia categoria (Basilica Santa Maria sopra Minerva, San Paolo alla Regola e Santa Brigida a Campo de Fiori).




  Basiliche
Papali (4)

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1

Basilica
di San Pietro in Vaticano

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2

Archibasilica
di San Giovanni in Laterano

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3

Basilica
di San Paolo fuori le Mura

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4

Basilica
di Santa Maria Maggiore

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  Pellegrinaggio
delle sette Chiese (4 papali+3)

     
5

Basilica
di San Lorenzo fuori le mura

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6

Basilica
di Santa Croce in Gerusalemme

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7

Basilica
di San Sebastiano fuori le mura

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  Catacombe
cristiane visitabili (7)

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8

Catacomba
di San Pancrazio (di Ottavilla; Via Vitellia)

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9

Catacomba
di Domitilla (Via Ardeatina)

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10

Catacomba
di San Callisto (Via Appia)

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11

Catacomba
di San Sebastiano (Via Appia)

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12

Catacomba
dei Santi Marcellino e Pietro (“ad
duas lauros
”;
Via Labicana)

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13

Catacomba
di Sant’Agnese (Via Nomentana)

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14

Catacomba
di Priscilla (Via Salaria nova)

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  Iter
Europaeum (28)

     
15

Basilica
Santa Maria in Ara Coeli

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16

Santissimo
Nome di Maria al Foro Traiano

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17

San
Giuliano dei Fiamminghi

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18

San
Paolo alla Regola

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19

Basilica
Santa Maria in via Lata

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20

San
Girolamo dei Croati

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21

Santa
Maria in Traspontina

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22

Basilica
Santa Sabina all’Aventino

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23

Basilica
Santa Maria sopra Minerva

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24

San
Luigi dei Francesi

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25

Santa
Maria dell’Anima (Pontificio Istituto Teutonico)

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San
Teodoro al Palatino

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27

Sant’Isidoro
a Capo le Case

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28

Basilica
Santa Maria degli Angeli e Martiri

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29

Basilica
Santi Quattro Coronati

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30

Santissimo
Nome di Gesù (Il Gesù)

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31

Basilica
Sacro Cuore di Gesù al Castro Pretorio

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32

San
Paolo alle Tre Fontane, luogo del Martirio dell’Apostolo

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33

Santi
Michele e Magno (San Michele in Sassia)

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34

San
Stanislao dei polacchi

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35

Sant’Antonio
dei Portoghesi (Sant’Antonio in Campo Marzio)

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36

Basilica
San Clemente al Laterano

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37

San
Salvatore alle Coppelle

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38

Basilica
Santa Prassede

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39

Basilica
Santa Maria Maggiore

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40

San
Pietro in Montorio

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41

Santa
Brigida a Campo de Fiori

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42

Basilica
Santo Stefano Rotondo del Monte Celio

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  Donne
Patrone d’Europa e Dottori della Chiesa (7)

     
43

Basilica
Santa Maria sopra Minerva (Santa Caterina da Siena)

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44

Santa
Brigida a Campo de Fiori (Santa Brigida di Svezia)

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45

Santa
Maria della Vittoria (Santa Teresa d’Avila)

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Trinità
dei Monti (Santa Teresa del Bambin Gesù)

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47

Basilica
di Santa Cecilia a Trastevere (Santa Ildegarda di Bingen)

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Basilica
di Sant’Agostino in Campo Marzio

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49

Sant’Ivo
alla Sapienza (Santa Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein)

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  Le
Chiese Giubilari (12)

     
50

San
Paolo alla Regola

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51

San
Salvatore in Lauro

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52

Santa
Maria in Vallicella

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53

Santa
Caterina da Siena

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54

Spirito
Santo dei Napoletani

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55

Santa
Maria del Suffragio

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56

Basilica
San Giovanni Battista dei Fiorentini

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57

Basilica
Santa Maria in Monserrato degli Spagnoli

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58

Basilica
di San Silvestro e Martino

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59

Santa
Prisca

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60

Basilica
di Sant’Andrea delle Fratte

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61

Santuario
della Madonna del Divino Amore

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  Altre
chiese indulgenziate (1)

     
62

Santo
Spirito in Sassia

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Strenna 2025. Ancorati alla speranza, pellegrini con i giovani

INTRODUZIONE. ANCORATI ALLA SPERANZA, PELLEGRINI CON I GIOVANI
1. INCONTRO A CRISTO NOSTRA SPERANZA PER RINNOVARE IL SOGNO DI DON BOSCO
1.1 Il Giubileo
1.2 L’anniversario della prima spedizione missionaria salesiana
2. IL GIUBILEO: CRISTO NOSTRA SPERANZA
2.1 Pellegrini, ancorati alla speranza cristiana
2.2 Speranza come cammino verso Cristo, cammino verso la vita eterna
2.3 Caratteristiche della speranza
2.3.1 La speranza, tensione continua, pronta, visionaria e profetica
2.3.2 La speranza è scommessa sul futuro
2.3.3 La speranza non è un fatto privato
3. LA SPERANZA COME FONDAMENTO DELLA MISSIONE
3.1 La speranza è un invito alla responsabilità
3.2 La speranza domanda coraggio alla comunità cristiana nell’evangelizzazione.
3.3 «Da mihi animas»: lo “spirito” della missione
3.3.1 Gli atteggiamenti dell’inviato
3.3.2 Riconoscere, Ripensare e Rilanciare
4. UNA SPERANZA GIUBILARE E MISSIONARIA CHE SI TRADUCE IN VITA CONCRETA E QUOTIDIANA
4.1 La speranza forza nel quotidiano che esige testimonianza
4.2 La speranza è arte della pazienza
5. L’ORIGINE DELLA NOSTRA SPERANZA: DA DIO A DON BOSCO
5.1 Dio è l’origine della nostra speranza
5.1.1 Breve richiamo al sogno
5.1.2 Don Bosco “gigante” della speranza
5.1.3 Caratteristiche della speranza in Don Bosco
5.1.4 I “frutti” della speranza in Don Bosco
5.2 La fedeltà di Dio: fino alla fine
6. CON… MARIA, SPERANZA E PRESENZA MATERNA

INTRODUZIONE. ANCORATI ALLA SPERANZA, PELLEGRINI CON I GIOVANI

Carissime sorelle e fratelli appartenenti ai diversi gruppi della Famiglia Salesiana di don Bosco, vi giunga il saluto più cordiale all’inizio di questo nuovo anno 2025!

Non è senza emozione che mi rivolgo a tutti e a ciascuno in questo tempo di grazia segnato da due importanti avvenimenti per la vita della Chiesa e per quella della nostra Famiglia: il Giubileo dell’anno 2025, iniziato solennemente il 24 dicembre scorso con l’apertura della porta santa della Basilica di San Pietro in Vaticano, e la ricorrenza del 150° anniversario della prima spedizione missionaria voluta dal nostro padre don Bosco, partita l’11 novembre 1875 alla volta dell’Argentina e di altri paesi del continente americano.

Si tratta di due importanti eventi che trovano nella speranza il loro punto di incontro. Infatti, papa Francesco ha indicato esattamente questa virtù come prospettiva nell’indire il Giubileo; allo stesso modo l’esperienza missionaria è foriera di speranza per tutti: per coloro che sono partiti (e partono) e per coloro che sono stati raggiunti dai missionari.

L’anno che ci è donato si presenta, dunque, ricco di spunti per la nostra crescita concreta e quotidiana, affinché la nostra umanità diventi feconda nell’attenzione agli altri… Questo avverrà solo nei cuori che mettono Dio al centro, al punto tale da poter affermare: «Prima di me ho messo te».

In questo mio commento cercherò di mettere in evidenza questi elementi, per approfondire, in chiave carismatica, quanto la Chiesa è invitata a vivere lungo questo anno, e porre l’accento su ciò che per noi, Famiglia di don Bosco, deve guidarci verso nuovi orizzonti.

1. INCONTRO A CRISTO NOSTRA SPERANZA PER RINNOVARE IL SOGNO DI DON BOSCO

Il titolo della Strenna comporta l’intreccio di due eventi: il giubileo ordinario dell’anno 2025 e il 150° anniversario della prima spedizione missionaria inviata da don Bosco in Argentina.

La concomitanza, che oso definire “provvidenziale”, dei due eventi rende il 2025 un anno decisamente straordinario per tutti noi e per i Salesiani di Don Bosco ancora di più. Infatti, nei mesi di febbraio, marzo e aprile ci sarà la celebrazione del Capitolo Generale 29° che porterà, tra le altre cose, all’elezione del nuovo Rettor Maggiore e del nuovo Consiglio generale.

Eventi globali e particolari, quindi, che ci coinvolgono a diverso titolo e che vogliamo vivere con profondità e intensità. Perché è proprio grazie a questi eventi che possiamo sperimentare la gioia di andare incontro a Cristo e l’importanza di rimanere ancorati alla speranza.

1.1 Il Giubileo

«Spes non confundit! La speranza non delude!»[1].

Così papa Francesco ci presenta il Giubileo. Che meraviglia! Che indicazione “profetica”!

Il Giubileo un pellegrinaggio per rimettere al centro della nostra vita e della vita del mondo Gesù Cristo. Perché lui è la nostra speranza. Lui è la Speranza della Chiesa e del mondo intero!

Siamo tutti consapevoli che oggi il mondo ha bisogno di quella speranza che ci mette in relazione con Gesù Cristo e con gli altri fratelli e sorelle. Serve quella speranza che ci rende pellegrini, che ci mette in movimento e che ci fa camminare.

Parliamo della speranza come riscoperta della presenza di Dio. Scrive Papa Francesco: «La speranza ricolmi il cuore!»[2], non solo scaldi il cuore, ma lo riempia, lo riempia in una misura traboccante!

1.2 L’anniversario della prima spedizione missionaria salesiana

E di questa speranza traboccante erano pieni i cuori dei partecipanti alla prima spedizione missionaria Salesiana in Argentina 150 anni fa.

Don Bosco da Valdocco getta il cuore oltre ogni confine, mandando i suoi figli dall’altra parte del mondo! Li manda oltre ogni sicurezza umana, li manda per portare avanti ciò che lui aveva cominciato. Si mette in cammino con gli altri, sperando e infondendo speranza. Li manda e basta e i primi (giovani) confratelli partono e vanno. Dove? Nemmeno loro sanno! Ma si affidano alla speranza, obbediscono. Perché è la presenza di Dio che ci guida.

In quell’obbedienza ricca di entusiasmo trova nuova energia anche la nostra attuale speranza e ci spinge a metterci in cammino come pellegrini.

Ecco perché questo anniversario va celebrato: perché ci aiuta a riconoscere un dono (non una conquista personale, ma un dono gratuito, del Signore), ci permette di ricordare e, dal ricordo, di prendere forza per affrontare e costruire il futuro.

Viviamo quindi, oggi, per rendere possibile questo futuro e facciamolo nell’unico modo che riteniamo grande: condividendo con i giovani e con tutte le persone dei nostri ambienti (cominciando dai più poveri e dimenticati) il viaggio per andare incontro a Cristo nostra sola Speranza.

2. IL GIUBILEO: CRISTO NOSTRA SPERANZA

Giubileo è camminare insieme, ancorati in Cristo nostra speranza. Ma cosa vuol dire davvero?

Riprendo gli elementi della Bolla di indizione del Giubileo 2025 che mettono in evidenza alcune caratteristiche della speranza.

2.1 Pellegrini, ancorati alla speranza cristiana

Siamo convinti che niente e nessuno potrà separarci da Cristo[3]. Perché è a lui che vogliamo e dobbiamo rimanere aggrappati, ancorati. Non possiamo camminare senza la nostra ancora.

L’ancora della speranza è, dunque, Cristo stesso, che porta le sofferenze e le ferite dell’umanità sulla croce in presenza del Padre.

L’ancora, infatti, ha la forma della croce, e per questo veniva raffigurata anche nelle catacombe per simboleggiare l’appartenenza dei fedeli defunti a Cristo Salvatore.

Quest’ancora è già saldamente attaccata al porto della salvezza. Il nostro compito è quello di attaccare la nostra vita ad essa, la corda che lega la nostra nave all’àncora di Cristo.

Noi navighiamo sulle onde agitate del mare e abbiamo bisogno di ancorarci a qualcosa di solido. Ma il compito ormai non è più quello di gettare l’àncora e di fissarla al fondo marino. Il compito è quello di attaccare la nostra nave alla corda che, per così dire, pende dal Cielo, là dove l’àncora di Cristo è saldamente fissata. Attaccandoci a questa corda, ci attacchiamo all’àncora della salvezza e rendiamo la nostra speranza certa.

La speranza è certa quando la barca della nostra vita si attacca a quella corda che ci lega all’àncora che è fissata in Cristo crocifisso che sta alla destra del Padre cioè nella comunione eterna del Padre, nell’amore dello Spirito Santo[4].

Tutto è ben espresso nell’orazione liturgica della solennità dell’Ascensione del Signore:

«Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria»[5].

Lo scrittore e politico ceco Vaclay Havel definisce la speranza come uno stato d’animo, una dimensione dell’anima. Non dipende dall’osservazione preventiva del mondo, non si tratta di una previsione.

Byung-Chul Han aggiunge: “La speranza è un orientamento del cuore che trascende il mondo immediato dell’esperienza, è un ancoraggio da qualche parte oltre all’orizzonte.

Le radici della speranza si trovano dentro il trascendente: ecco perché non è la stessa cosa avere Speranza o essere soddisfatto perché le cose vanno bene. Potremmo pensare che sperare sia semplicemente voler sorridere alla vita perché lei a sua volta ti sorrida e invece no, dobbiamo andare più a fondo, dobbiamo percorrere quella corda che ci porta verso l’ancora.

La speranza è la capacità di ognuno di noi di lavorare per qualcosa perché è giusto farlo, non perché quel qualcosa avrà un successo garantito. Potrebbe essere un fallimento, potrebbe andar male: noi non speriamo vada bene, non siamo ottimisti. Lavoriamo perché questo accada. Ecco perché la speranza non è uguale all’ottimismo. La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene ma la certezza che qualcosa ha senso indipendentemente dal suo risultato.

Fare qualcosa perché ha senso: ecco, in questo consiste la speranza che presuppone dei valori e presuppone la fede.

È questo che le dà la forza per vivere, e ci dà la forza per provare qualcosa ancora e ancora, anche nella disperazione[6].”

Ma come si può camminare restando ancorati? L’ancora ti zavorra, ti frena, ti fissa. Dove porta questo cammino? Porta all’eternità.

2.2 Speranza come cammino verso Cristo, cammino verso la vita eterna

La promessa di vita eterna, proprio per come è fatta a ciascuno di noi, non scavalca il cammino della vita, non è un salto in alto, non propone di salire su un razzo che si stacca da terra e vola nello spazio lasciando a terra la strada, la polvere del cammino, né lascia andare la nave alla deriva in mezzo al mare senza di noi.

Questa promessa è appunto un’ancora che si fissa nell’eterno, ma alla quale rimaniamo attaccati da una corda che viene a rendere salda la nave che attraversa il mare. Ed è proprio il fatto che essa è fissata in Cielo che permette alla nave di non rimanere ferma in mezzo al mare, ma di avanzare attraverso i flutti.

Se l’ancora di Cristo fissasse l’uomo al fondo del mare, tutti noi rimarremmo fermi dove siamo, magari tranquilli, senza problemi, ma fermi, senza viaggiare, senza andare avanti. Invece, proprio l’ancoraggio della vita al Cielo fa sì che la promessa che suscita la nostra speranza non arresta il cammino, non dà la sicurezza di un rifugio nel quale rinchiuderci e arrestarci, ma dona a noi una certezza nel camminare e nel continuare il cammino. La promessa di una meta certa, già raggiunta per noi da Cristo, rende saldo e deciso ogni passo nel cammino della vita.

È importante intendere il Giubileo come pellegrinaggio, come invito a mettersi in movimento, ad uscire da sé per andare verso Cristo.

Giubileo, allora, è da sempre sinonimo di cammino. Se desideri veramente Dio ti devi muovere, devi camminare. Perché il desiderio di Dio, la nostalgia di Dio ti muove per trovarLo e, contemporaneamente, conduce a ritrovare te stesso e gli altri.

«Siamo nati e non moriremo mai più»[7].

È bello e significativo il titolo della biografia della serva di Dio Chiara Corbella Petrillo. Sì, perché il nostro venire al mondo è orientato alla vita eterna. La vita eterna è una promessa che sfonda la porta della morte, aprendoci al “faccia a faccia con Dio”, per sempre. La morte è una porta che si chiude e allo stesso tempo un portone che si spalanca all’incontro definitivo con Dio!

Sappiamo quanto vivo in Don Bosco sia stato il desiderio del Cielo, proposto e condiviso gioiosamente con i giovani dell’Oratorio.

2.3 Caratteristiche della speranza

2.3.1 La speranza, tensione continua, pronta, visionaria e profetica

Gabriel Marcel[8], il cosiddetto filosofo della speranza ci insegna che la speranza si trova nel tessuto di un’esperienza continua, sperare significa dare credito ad una realtà in quanto portatrice di futuro.

Eric Fromm[9] scrive che la speranza non è un’attesa passiva, bensì una tensione continua, costante. È come una tigre, accovacciata che salta solo quando è il momento preciso.

Avere speranza è essere vigili in ogni momento, per ogni cosa che ancora non è successa. Speravano le vergini che attendevano lo sposo con le lampade accese, sperava don Bosco di fronte alle difficoltà e si inginocchiava a pregare.

La speranza è pronta nel momento in cui ogni cosa sta in procinto di nascere.

È vigile, attenta, in ascolto, in grado di guidare nel creare qualcosa di nuovo, nel dar vita al futuro in terra.

Per questo è “visionaria e profetica”. Focalizza la nostra attenzione verso ciò che non è ancora, è colei che aiuta a partorire qualcosa di nuovo.

2.3.2 La speranza è scommessa sul futuro

Senza speranza non c’è rivoluzione, né futuro, c’è solo un presente fatto di sterile ottimismo.

Spesso si pensa che chi spera sia un ottimista mentre il pessimista sia essenzialmente il suo opposto. Non è così. È importante non confondere la speranza con l’ottimismo. La speranza è molto più profonda, perché non dipende da umori, sensazioni o sentimentalismi. L’essenza dell’ottimismo è la positività innata. L’ottimista vive convinto che in qualche modo le cose miglioreranno. Per un ottimista il tempo è chiuso, non contempla il futuro: tutto andrà bene e basta.

Paradossalmente anche per il pessimista il tempo è chiuso: si ritrova intrappolato nel presente come in una prigione, nega tutto senza avventurarsi in altri mondi possibili. Il pessimista è testardo quanto l’ottimista, entrambi sono ciechi alle possibilità, perché il possibile gli risulta alieno, manca loro la passione per il possibile.

A differenza di entrambi la speranza scommette su quello che può andare oltre su quello che potrebbe essere.

E ancora, l’ottimista (così come il pessimista), non agisce, perché ogni azione comporta un rischio e dal momento che non vuole correre questo rischio, è fermo, non vuole fare esperienza del fallimento.

La speranza invece si muove per cercare, tenta di trovare una direzione, si dirige verso ciò che non conosce, fa rotta verso cose nuove. Questo è il pellegrinare di un cristiano.

2.3.3 La speranza non è un fatto privato

Tutti noi portiamo nel cuore delle speranze. Non è possibile non sperare, ma è anche vero che ci si può illudere, considerando prospettive e ideali che non si realizzeranno mai, che sono solo delle chimere e specchietti per le allodole.

Molto della nostra cultura, specialmente occidentale, è piena di false speranze che illudono e distruggono o possono rovinare irrimediabilmente l’esistenza di singoli e di intere società.

Secondo il pensiero positivo basta sostituire i pensieri negativi con altri positivi per vivere più felici. Attraverso questo semplice meccanismo gli aspetti negativi della vita vengono omessi completamente e il mondo appare come un mercato di Amazon che ci fornirà qualunque cosa vogliamo grazie al nostro atteggiamento positivo.

Conclusione, se bastasse la nostra volontà di pensare positivamente per essere felice, allora ognuno sarebbe l’unico responsabile della propria felicità.

Paradossalmente, il culto alla positività isola le persone, le rende egoiste e distrugge l’empatia, perché le persone sono sempre più impegnate solo con sé stesse e non si interessano della sofferenza degli altri.

La speranza a differenza del pensiero positivo non evita la negatività della vita, non isola ma unisce e riconcilia, perché il protagonista della Speranza non sono io, focalizzato sul mio ego, trincerato esclusivamente su me stesso, il segreto della Speranza siamo noi.

Per questo, sorelle alla Speranza sono l’Amore, la Fede e la Trascendenza.

3. LA SPERANZA COME FONDAMENTO DELLA MISSIONE

3.1 La speranza è un invito alla responsabilità

La speranza è un dono e, come tale, va trasmesso a chiunque incontriamo lungo la nostra strada.

San Pietro lo afferma chiaramente: «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi»[10]. Ci invita a non aver paura, ad agire nella quotidianità, a rendere ragione – quanto spirito salesiano in questa parola “ragione”! – della speranza. È questa una responsabilità per il cristiano. Se siamo donne e uomini di speranza, si vede!

«Rendere ragione della speranza che è in noi», diventa annuncio della “buona novella” di Gesù e del suo Vangelo.

Ma perché è necessario rispondere a chiunque ci chieda conto della speranza che è in noi? E perché sentiamo il bisogno di ritrovare speranza?

Nella Bolla di indizione del Giubileo Spes non confundit, Papa Francesco ricorda che «tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti»[11].

Un’osservazione che colpisce perché descrive tutta la tristezza che si respira nelle nostre società e nelle nostre comunità. È una tristezza mascherata di falsa gioia, quella che costantemente ci viene annunciata, promessa e assicurata dai media, dalla pubblicità, dalla propaganda dei politici, da tanti falsi profeti del benessere. Accontentarsi del benessere ci impedisce di aprirci a un bene ben più grande, ben più vero, ben più eterno: quello che Gesù e gli apostoli chiamano “la salvezza dell’anima, la salvezza della vita”; un bene per il quale Gesù ci invita a non temere di perdere la vita, i beni materiali, le false sicurezze che spesso crollano in un istante.

Su queste “domande”, più o meno espresse (anche dai giovani), abbiamo il compito di «rendere ragione». Cosa desidero per i giovani e per tutte le persone che incontro sul mio cammino? Cosa vorrei chiedere a Dio per loro? Come vorrei che cambiasse la loro vita?

Esiste solo una risposta: la vita eterna. Non solo la vita eterna come uno stato sublime che possiamo raggiungere dopo la morte, ma la vita eterna possibile qui e ora, la vita eterna come la definisce Gesù̀: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo»[12], cioè una vita definita, illuminata dalla comunione con Cristo e, tramite Lui, con il Padre.

E a noi spetta il compito di accompagnare le generazioni più giovani in questo cammino verso la vita eterna, nell’azione educativa che ci contraddistingue. Un’azione che per noi Famiglia Salesiana è una missione. E cosa muove questa nostra missione? Sempre Cristo, nostra speranza.

La missione educativa, infatti, ha al centro la speranza.

In definitiva, la speranza di Dio non è mai speranza solo per sé. È sempre speranza per altri: non ci isola, ci rende solidali e ci stimola a educarci reciprocamente alla verità e all’amore.

3.2 La speranza domanda coraggio alla comunità cristiana nell’evangelizzazione.

Coraggio e speranza sono un abbinamento interessante. Infatti, se è vero che è impossibile non sperare, è altrettanto vero che per sperare è necessario il coraggio. Il coraggio nasce dall’avere lo stesso sguardo di Cristo, capace di sperare contro ogni speranza[13], di vedere soluzione anche là dove apparentemente sembrano non esserci vie d’uscita. E quanto è “salesiano” questo atteggiamento!

Tutto ciò richiede il coraggio di esser se stessi, di riconoscere la propria identità nel dono di Dio e investire le proprie energie in una responsabilità precisa. Consapevoli del fatto che, ciò che ci è stato affidato, non è nostro, e che abbiamo il compito di trasmetterlo alle prossime generazioni. Questo è il cuore di Dio questa è la vita della Chiesa.

Un atteggiamento che ritroviamo nella prima spedizione missionaria.

Ritengo molto utile il riferimento all’art. 34 delle Costituzioni dei Salesiani di Don Bosco: esso mette in evidenza ciò che sta al cuore del nostro movimento carismatico e apostolico. Suggerisco a ciascuno dei gruppi della nostra articolata e bella Famiglia di riprendere gli stessi elementi che qui offro, rileggendo le rispettive Costituzioni e Statuti.

L’articolo ha come titolo: Evangelizzazione e catechesi e recita così:

«“Questa società nel suo principio era un semplice catechismo”. Anche per noi l’evangelizzazione e la catechesi sono la dimensione fondamentale della nostra missione.

Come don Bosco, siamo chiamati tutti e in ogni occasione a esser educatori alla fede. La nostra scienza più eminente è quindi conoscere Gesù Cristo e la gioia più profonda è rivelare a tutti le insondabili ricchezze del suo mistero.

Camminiamo con i giovani per condurli alla persona del Signore risorto, affinché, scoprendo in Lui e nel suo Vangelo il senso supremo della propria esistenza, crescano come uomini nuovi.

La Vergine Maria è una presenza materna in questo cammino. La facciamo conoscere e amare come Colei che ha creduto, aiuta ed infonde speranza».

Questo articolo rappresenta il cuore pulsante che delinea bene, anche per questa Strenna, quali siano le energie e le opportunità come compimento e attualizzazione del “sogno globale” che Dio ha ispirato a Don Bosco.

Se vivere il Giubileo è anzitutto fare in modo che Gesù sia e torni ad essere al primo posto, lo spirito missionario è la conseguenza di questo riconosciuto primato, che, rafforza la nostra speranza e si traduce in quella carità educativa e pastorale che fa annunciare a tutti la persona di Gesù Cristo. Questo è il cuore dell’evangelizzazione e caratterizza l’autentica missione.

È significativo richiamare l’inizio della prima enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est:

«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»[14].

Quindi, prioritario e fondamentale è l’incontro con Cristo, non la “semplice” diffusione di una dottrina, ma una profonda esperienza personale di Dio che spinge a comunicarLo, a farLo conoscere e sperimentare diventando veri “mistagoghi” della vita dei giovani.

3.3 «Da mihi animas»: lo “spirito” della missione

Don Bosco teneva sempre davanti agli occhi una frase che i giovani potevano leggere passando davanti alla sua camera, un’espressione che colpì particolarmente Domenico Savio: «Da mihi animas cetera tolle».

C’è un fondamentale equilibrio che unisce, in questo motto, le due priorità che hanno guidato la vita di don Bosco – e che significativamente chiamiamo “grazia di unità” – che ci consentono di salvaguardare sempre l’interiorità e l’azione apostolica.

Se nel cuore mancasse l’amore di Dio come potrà esserci vera carità pastorale? E allo stesso tempo, se l’apostolo non scoprisse il volto di Dio nel prossimo, come si potrebbe dire che ama Dio?

Il segreto di don Bosco è quello di aver vissuto personalmente l’unico «movimento di carità verso Dio e verso i fratelli»[15] che caratterizza lo spirito salesiano.

3.3.1 Gli atteggiamenti dell’inviato

Due i sogni-chiave della vita di Don Bosco, nei quali sono evidenti gli atteggiamenti dell’apostolo, di colui che è inviato:

  • il “sogno dei nove anni” nel quale a Giovannino Gesù e Maria chiedono di rendersi umile, forte e robusto con l’obbedienza e la scienza, raccomandandogli sempre la bontà per conquistare il cuore dei giovani e tenendo sempre Maria come maestra e guida;
  • il “sogno del pergolato di rose” che indica la “passione” nella vita salesiana che richiede di avere le “buone scarpe” della mortificazione e della carità.

3.3.2 Riconoscere, Ripensare e Rilanciare

Celebrare il 150° anniversario della prima spedizione missionaria di don Bosco rappresenta un grande dono per

  • Riconoscere e ringraziare Dio.

La riconoscenza rende palese la paternità di ogni bella realizzazione. Senza riconoscenza non c’è capacità di accogliere. Tutte le volte che nella nostra vita personale ed istituzionale non riconosciamo un dono, rischiamo seriamente di vanificarlo e di “impadronircene.

  • Ripensare, perché “nulla è per sempre”.

La fedeltà comporta la capacità, di cambiare nell’obbedienza, verso una visione che viene da Dio e dalla lettura dei “segni dei tempi”. Nulla è per sempre: dal punto di vista personale e istituzionale la vera fedeltà è la capacità di cambiare, riconoscendo in cosa il Signore chiama ciascuno di noi.

Ripensare, allora, diventa un atto generativo, in cui si uniscono fede e vita; un momento nel quale chiedersi: cosa vuoi dirci Signore con questa persona, con questa situazione alla luce dei segni dei tempi che, per esser letti, chiedono di avere il cuore stesso di Dio?

  • Rilanciare, ricominciare ogni giorno.

La riconoscenza porta a guardare lontano e ad accogliere le nuove sfide, rilanciando la missione con speranza. Missione è portare la speranza di Cristo con la consapevolezza lucida e chiara, legata alla fede, che fa riconoscere che quanto vedo e vivo “non è roba mia”.

4. UNA SPERANZA GIUBILARE E MISSIONARIA CHE SI TRADUCE IN VITA CONCRETA E QUOTIDIANA

4.1 La speranza forza nel quotidiano che esige testimonianza

San Tommaso D’Aquino scrive: «Spes introducit ad caritatem»[16], la speranza prepara e predispone alla carità la nostra vita, la nostra umanità. Una carità che è anche giustizia, azione sociale.

La speranza ha bisogno della testimonianza. Siamo al cuore della missione, perché la missione non è fare cose, prima di tutto, ma è testimonianza di colui che ha vissuto un’esperienza e la racconta. Il testimone è portatore di una memoria, sollecita domande a chi lo incontra, porta stupore.

La testimonianza della speranza richiede una comunità, è opera di un soggetto collettivo ed è contagiosa, come è contagiosa la nostra umanità, perché la testimonianza è legame con il Signore.

La speranza nella testimonianza della missione è da costruire di generazione in generazione, tra adulti e giovani: questa è via di futuro. Nella nostra cultura il consumismo mangia il futuro, l’ideologia del consumo spegne tutto nel “qui ed ora”, nel “tutto e subito”. Il futuro però non puoi consumarlo, non puoi appropriarti di quanto è altro da te, non puoi appropriarti dell’altro[17].

Nella costruzione del futuro la speranza è la capacità di promettere e di mantenere le promesse… cosa splendida e rara nel nostro mondo. Promettere è sperare, mettere in movimento, per questo – come detto – la speranza è cammino, è l’energia stessa del cammino.

4.2 La speranza è arte della pazienza

Ogni vita, ogni dono, ogni cosa, per crescere, ha bisogno di tempo. Così anche i doni di Dio, richiedono tempo per maturare. Ecco perché nella nostra epoca in cui, tutto e subito, nel nostro “consumare” il tempo e la vita, ci è chiesto di dare fiato e forza alla virtù della pazienza: perché la speranza si realizza nella pazienza[18]. Speranza e pazienza, infatti, sono intimamente collegate.

La speranza comporta la capacità di saper aspettare, di attendere la crescita, quasi a dire che “una virtù tira l’altra”!

Affinché la speranza divenga realtà, si manifesti in senso compiuto, occorre pazienza. Nulla si manifesta in modo miracolistico, perché tutto è sottomesso alla legge del tempo. La pazienza è l’arte del contadino che semina e sa aspettare che il seme gettato cresca e porti frutto.

La speranza inizia in noi come attesa, e si esercita come attesa vissuta coscientemente nella nostra umanità. L’attesa è una dimensione molto importante dell’esperienza umana. L’uomo sa attendere, l’uomo è sempre in una dimensione di attesa, perché è la creatura che vive nel tempo in modo cosciente.

L’attesa umana è la vera misura del tempo, una misura che non è numerica, non è cronologica. Noi ci siamo abituati a calcolare l’attesa, a dire che abbiamo aspettato un’ora, che il treno è in ritardo di cinque minuti, che Internet ci ha fatto attendere quattordici interminabili secondi prima di rispondere al nostro clic, ma quando la misuriamo così, snaturiamo l’attesa, ne facciamo una cosa, un fenomeno staccato da noi stessi e da ciò che attendiamo. È come se l’attesa fosse qualcosa a sé, in sé, senza relazione. Invece l’attesa – siamo al punto cruciale – è relazione, è una dimensione del mistero della relazione.

Solo chi ha speranza, ha pazienza. Solo chi ha speranza diventa capace di “sopportare”, di “sostenere dal basso” le differenti situazioni che l’esistenza presenta. Chi sopporta attende, spera, e riesce a sopportare tutto, perché la sua fatica ha il senso dell’attesa, ha la tensione dell’attesa, l’energia amante dell’attesa.

Sappiamo che il richiamo alla pazienza e all’attesa comportano, a volte, l’esperienza della fatica, del lavoro, del dolore e della morte[19]. Ebbene, fatica, dolore e morte smascherano l’illusione di possedere il tempo, il senso del tempo, il valore del tempo, il senso e il valore della nostra vita. Sono esperienze negative, ma anche positive, perché la fatica, il dolore e la morte possono essere occasioni per ritrovare il vero senso del tempo della vita.

E, ancora una volta, «rendere ragione della speranza che è in noi», diventando annuncio della “buona novella” di Gesù e del suo Vangelo.

5. L’ORIGINE DELLA NOSTRA SPERANZA: DA DIO A DON BOSCO

Don Egidio Viganò ha offerto alla Congregazione e alla Famiglia Salesiana un’interessante riflessione sul tema della speranza, attingendo alla nostra ricchissima tradizione ed evidenziando alcuni caratteri specifici dello spirito salesiano letti alla luce di questa virtù teologale. In modo particolare fece questo, commentando, per le partecipanti al Capitolo Generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, il sogno dei dieci diamanti di don Bosco[20].

Vista la profondità dei contenuti proposti, mi pare utile ricordare il contributo del VII Successore di don Bosco per richiamare alla nostra memoria ciò che, sempre nella prospettiva della speranza, siamo tutti chiamati a vivere.

5.1 Dio è l’origine della nostra speranza

5.1.1 Breve richiamo al sogno

È a tutti nota la narrazione di questo straordinario sogno che don Bosco ebbe a San Benigno Canavese la notte tra il 10 e l’11 settembre 1881. Ne richiamo sinteticamente la struttura.[21]

Il Sogno si svolge in tre scene. Nella prima il Personaggio incarna il profilo del salesiano: nel lato anteriore del suo manto presenta cinque diamanti, tre sul petto, che sono «Fede» «Speranza» e «Carità», e due sulle spalle, che sono «Lavoro» e «Temperanza»; nel lato posteriore presenta altri cinque diamanti, che indicano «Obbedienza» «Voto di Povertà» «Premio» «Voto di Castità» «Digiuno».

Don Rinaldi definisce questo Personaggio coi dieci diamanti: «Il modello del vero Salesiano».

Nella seconda scena il Personaggio mostra l’adulterazione del modello: il suo manto «era divenuto scolorato, tarlato e sdruscito. Nel sito dove stavano fissi i diamanti eravi invece un profondo guasto cagionato dal tarlo e da altri piccoli insetti».

Questa scena tanto triste e deprimente mostra «il rovescio del vero salesiano», l’antisalesiano.

Nella terza scena appare «un avvenente giovanetto vestito di abito bianco lavorato con fili d’oro e d’argento [… dall’] aspetto maestoso, ma dolce ed amabile». Egli è portatore di un messaggio. Esorta i Salesiani ad «ascoltare», a «intendere», a mantenersi «forti e animosi», a «testimoniare» con le parole e con la vita, ad «essere oculati» nell’accettazione e nella formazione delle nuove generazioni, a far crescere sanamente la loro Congregazione.

Le tre scene del sogno sono vivaci e provocatorie; ci presentano una sintesi agile, personalizzata e drammatizzata della spiritualità salesiana. Il contenuto del sogno comporta certamente, nella mente di Don Bosco, un importante quadro di riferimento per la nostra identità vocazionale.

Ebbene, il personaggio del sogno – come noto – porta sulla parte frontale il diamante della speranza, che sta a segnalare la certezza dell’aiuto dall’alto in una vita tutta creativa, impegnata cioè a progettare quotidianamente delle attività pratiche per la salvezza, soprattutto della gioventù. Insieme agli altri simboli legati alle virtù teologali, emerge la fisionomia di una persona saggia e ottimista per la fede che lo anima, dinamica e creativa per la speranza che lo muove, sempre orante e umanamente buono per la carità che lo permea.

In corrispondenza al diamante della speranza, sul retro della figura troviamo il diamante del “premio”. Se la speranza mette in luce visibilmente il dinamismo e l’attività del salesiano nella costruzione del Regno, la costanza dei suoi sforzi e l’entusiasmo del suo impegno si fondano sulla certezza dell’aiuto di Dio, reso presente dalla mediazione e dall’intercessione di Cristo e di Maria, il diamante del “premio” sottolinea piuttosto un atteggiamento costante della coscienza che permea ed anima tutto lo sforzo ascetico, secondo la familiare massima di don Bosco: «Un pezzo di paradiso aggiusta tutto!»[22].

5.1.2 Don Bosco “gigante” della speranza

Il salesiano – diceva Don Bosco – «è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime»[23]; il sostegno interiore di questa esigente capacità ascetica è il pensiero del paradiso come riflesso della buona coscienza con cui lavora e vive. «In ogni nostro ufficio, in ogni nostro lavoro, pena o dispiacere, non dimentichiamo mai che […] Egli tiene minutissimo conto di ogni più piccola cosa fatta pel suo santo nome, ed è di fede, che a suo tempo ci compenserà con abbondante misura. In fin di vita, quando ci presenteremo al suo divin tribunale, mirandoci con volto amorevole, Egli ci dirà: “Bene, servo buono e fedele; perché nel poco sei stato fedele, ti farò padrone del molto; entra nel gaudio del tuo Signore” (Mt 25,2l)»[24]. «Nelle fatiche e nei patimenti non dimenticare mai che abbiamo un gran premio preparato in cielo»[25]. E quando il nostro Padre dice che il salesiano stremato dal troppo lavoro rappresenta una vittoria per tutta la Congregazione, sembra suggerire addirittura una dimensione di fraterna comunione nel premio, quasi un senso comunitario del paradiso!

Il pensiero e la coscienza continua del paradiso sono una delle idee sovrane e uno dei valori di spinta della tipica spiritualità e anche della pedagogia di Don Bosco. È come un far luce e un approfondire l’istinto fondamentale dell’anima che tende vitalmente al proprio fine ultimo.

In un mondo soggetto alla secolarizzazione e alla progressiva perdita del senso di Dio – specialmente a causa del benessere e di certo progresso – è importante resistere alla tentazione – per noi e per i giovani con i quali camminiamo – che ci impedisce di alzare lo sguardo verso il Paradiso e non ci fa sentire il bisogno di sostenere e nutrire un impegno di ascesi vissuto nel lavoro quotidiano. Al suo posto va crescendo uno sguardo temporale, secondo un più o meno elegante orizzontalismo, che crede di saper scoprire l’ideale di tutto all’interno stesso del divenire umano e nella vita presente. Tutto il contrario della speranza!

Don Bosco è stato uno dei grandi della speranza. Ci sono tanti elementi per dimostrarlo. Il suo spirito salesiano è tutto permeato dalle certezze e dall’operosità caratteristiche di questo dinamismo audace di Spirito Santo.

Mi soffermo brevemente a ricordare come don Bosco abbia saputo tradurre nella sua vita l’energia della speranza sui due versanti: l’impegno per la santificazione personale e la missione di salvezza per gli altri; o meglio – e qui risiede una caratteristica centrale del suo spirito – la santificazione personale attraverso la salvezza degli altri. Ricordiamo la famosa formula delle tre “S”: «Salve, salvando salvati»[26]. Sembra un gioco mnemonico detto così semplicemente, a mo’ di slogan pedagogico, ma è profondo e indica come i due versanti della santificazione personale e della salvezza del prossimo siano strettamente legati tra loro.

Nel binomio “lavoro” e “temperanza” si percepisce che la speranza è stata vissuta da Don Bosco come progettazione pratica e quotidiana di un’instancabile operosità di santificazione e di salvezza. La sua fede lo porta a prediligere, nella contemplazione del mistero di Dio, il suo ineffabile disegno di salvezza. Vede nel Cristo il Salvatore dell’uomo e il Signore della storia; in sua Madre, Maria, l’Ausiliatrice dei cristiani; nella Chiesa, il grande Sacramento della salvezza; nella propria maturazione cristiana e nella gioventù bisognosa, il vasto campo del «non-ancora». Perciò il suo cuore erompe nel grido: «Da mihi animas», Signore concedimi di salvare la gioventù e toglimi pure il resto! La sequela del Cristo e la missione giovanile si fondono, nel suo spirito, in un unico dinamismo teologale che costituisce la struttura portante del tutto.

Sappiamo bene che la dimensione della speranza cristiana coniuga la prospettiva del “già” e del “non ancora”: qualcosa di presente e qualcosa in divenire che, tuttavia, a partire dall’oggi comincia a manifestarsi anche se “non ancora” in pienezza.

5.1.3 Caratteristiche della speranza in Don Bosco

La certezza del “già”

Quando noi domandiamo alla teologia qual è l’oggetto formale della speranza, ci risponde che è l’intima convinzione della presenza di Dio che aiuta, che soccorre e assiste; la certezza interiore circa la potenza dello Spirito Santo; l’amicizia con Cristo vittorioso che ci fa dire con San Paolo: «Tutto posso in Colui che mi dà forza» (Fil 4,13).

Il primo elemento costitutivo della speranza è, dunque, la certezza del «già». La speranza stimola la fede a esercitarsi nella considerazione della presenza salvatrice di Dio nelle vicissitudini umane, della potenza dello Spirito nella Chiesa e nel mondo, della regalità di Cristo sulla storia, dei valori battesimali che in noi hanno iniziato la vita della risurrezione.

Il primo elemento costitutivo della speranza è, perciò, un esercizio della fede sull’essenza di Dio come Padre misericordioso e salvatore, su ciò che ha già fatto Gesù Cristo per noi, sulla Pentecoste come inizio dell’epoca dello Spirito Santo, su ciò che c’è già dentro di noi per il Battesimo, per i sacramenti, per la vita nella Chiesa, per l’appello personale della nostra vocazione.

Occorre riflettere che fede e speranza si interscambiano in noi, i loro dinamismi si stimolano e si completano a vicenda e ci fanno vivere nel clima creativo e trascendente della potenza dello Spirito Santo.

La chiara coscienza del “non-ancora”

Il secondo elemento costitutivo della speranza è la coscienza del «non-ancora». Non sembra molto difficile averla; però la speranza esige una chiara coscienza non tanto di ciò che è male e ingiusto, quanto di ciò che manca alla statura di Cristo nel tempo, e, quindi, di ciò che è ingiusto e peccato e anche di ciò che è immaturo, parziale o rachitico nella costruzione del Regno.

Ciò suppone, come quadro di riferimento, una chiara conoscenza del progetto divino di salvezza, su cui s’innesta la capacità critica e di discernimento da parte di colui che spera. Così la critica dell’uomo di speranza non è semplicemente psicologica o sociologica, ma trascendente, secondo l’orbita teologale della «nuova creatura»; si serve anche degli apporti delle scienze umane, e di gran lunga le oltrepassa.

Con la coscienza del «non-ancora», chi spera percepisce ciò che è male, ciò che non è ancora maturo, ciò che è seme in ordine al Regno di Dio e s’impegna per far crescere il bene e per combattere il peccato con la prospettiva storica di Cristo. La capacità di discernimento del «non-ancora» è misurata sempre dalla certezza del «già». Quindi e direi soprattutto nei tempi difficili, chi spera spinge e stimola la sua fede a scoprire i segni della presenza di Dio e le mediazioni che ci guidano nell’orbita da Lui tracciata. È questa una qualità molto importante oggi: saper individuare i semi per aiutarli a schiudersi e a crescere.

Come si fa a sperare se non c’è questa capacità di discernimento? Non basta saper percepire tutto il peso del male, bisogna essere sensibili anche alla primavera «che brilla d’intorno». Quindi in questi tempi, che noi diciamo difficili (e lo sono realmente, paragonandoli con quelli che abbiamo vissuto prima di una certa tranquillità), la speranza ci aiuta a percepire che c’è anche tanto bene nel mondo e che qualcosa sta crescendo.

L’operosità salvifica

Un terzo elemento costitutivo della speranza è la sua esigenza operativa accompagnata dall’impegno concreto di santificazione, di inventiva e di sacrificio apostolici. Bisogna collaborare con il “già” in crescita, urge muoversi per lottare contro il male in noi e negli altri, soprattutto nella gioventù bisognosa.

Il discernimento del “già” e del “non-ancora” ha bisogno di tradursi nella pratica della vita, aprendosi ai propositi, ai progetti, alla revisione, all’inventiva, alla pazienza e alla costanza. Non tutto risulterà “come speravamo”: ci saranno degli insuccessi, dei contrattempi, delle cadute, delle incomprensioni. La speranza cristiana partecipa connaturalmente anche alle oscurità della fede.

5.1.4 I “frutti” della speranza in Don Bosco

Dai tre elementi costitutivi della speranza, che ho appena indicato, derivano alcuni frutti particolarmente significativi per lo spirito salesiano di Don Bosco.

La gioia

Dal primo elemento costitutivo – la certezza del “già” – deriva come frutto più caratteristico la gioia. Ogni vera speranza esplode in gioia.

Lo spirito salesiano assume la gioia della speranza per una affinità tutta propria. Persino la biologia ce ne suggerisce qualche esempio. La gioventù che è speranza umana (e quindi suggerisce una certa analogia con il mistero della speranza cristiana), è avida di gioia. E noi vediamo Don Bosco tradurre la speranza in un clima di gioia per la gioventù da salvare. Domenico Savio, cresciuto alla sua scuola, diceva: «Noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri». Non si tratta di un’ilarità superficiale propria del mondo, ma di un gaudio interiore, di un substrato di vittoria cristiana, di una sintonia vitale con la speranza, che esplode in allegria. Una gioia che procede, in definitiva, dalle profondità della fede e della speranza.

C’è poco da fare. Se siamo tristi è perché siamo superficiali. Capisco che c’è una tristezza cristiana: Gesù Cristo l’ha vissuta. Nel Getsemani la sua anima si è rattristata fino alla morte, ha sudato sangue. Si tratta certamente di un altro tipo di tristezza.

Però, l’afflizione o la malinconia per cui una suora ha l’impressione di non essere capita da nessuno, che le altre non la prendano in considerazione, che abbiano invidia o incomprensione delle sue qualità, ecc. è una tristezza che non si deve alimentare. A questa bisogna contrapporre la profondità della speranza: Dio è con me e mi vuole bene; che importa che altri non mi considerino tanto?

La gioia, nello spirito salesiano, è clima quotidiano; deriva da una fede che spera e da una speranza che crede, ossia da quel dinamismo di Spirito Santo che in noi proclama la vittoria che vince il mondo!… È indispensabile la gioia per testimoniare con autenticità quello in cui crediamo e speriamo.

Lo spirito salesiano è anzitutto e soprattutto questo e non una riduzione a sole osservanze e mortificazioni. La speranza ci porterà anche a fare molte mortificazioni, ma come allenamenti di volo e non come punzecchiature da prigione! Quindi: dalla speranza tanta gioia!

Il mondo cerca di superare la sua limitatezza e il suo disorientamento con una vita riempita di sensazioni eccitanti. Coltiva la promozione e la soddisfazione dei sensi, il film pungente, l’erotismo, la droga, ecc. È una maniera di evadere da una situazione caduca che sembra non avere senso, per cercare qualche cosa che sconfini verso una “caricatura di trascendenza”.

La pazienza

Un altro “frutto” della speranza – che procede dalla coscienza del “non-ancora” – è la pazienza. Ogni speranza comporta un indispensabile corredo di pazienza. La pazienza è un atteggiamento cristiano, legato intrinsecamente con la speranza nel suo non breve “non-ancora”, con i suoi guai, le sue difficoltà e le sue oscurità. Credere alla risurrezione e operare per la vittoria della fede, mentre si è mortali e immersi nel caduco, esige una struttura interiore di speranza che porta alla pazienza.

L’espressione più sublime di pazienza cristiana l’ha vissuta Gesù soprattutto durante la sua passione e morte. È una pazienza fruttuosa, precisamente per la speranza che la anima. Qui, nella pazienza, più che di iniziativa e di azione, si tratta di cosciente accettazione e di passività virtuosa che sopporta in vista della realizzazione del piano di Dio.

Lo spirito salesiano di Don Bosco ci ricorda sovente la pazienza. Nell’introduzione alle Costituzioni Don Bosco ricorda, alludendo a san Paolo, che le pene che dobbiamo sopportare in questa vita non hanno confronto con il premio che ci attende: «Era solito dire: “Coraggio! La speranza ci sorregga, quando la pazienza vorrebbe mancare”»[27]. «Ciò che sostiene la pazienza, dev’essere la speranza del premio»[28].

Anche madre Mazzarello insisteva su questo punto. Uno dei suoi primi biografi, il Maccono, afferma che la speranza la confortò sempre sostenendola nei suoi patimenti, nelle sue infermità, nei dubbi, e la rallegrò nell’ora della morte: «La sua speranza era molto viva e attiva. Mi pare – testificò una suora – che la speranza l’animasse in tutto e che ella cercasse di infonderla nelle altre. Ci esortava a portare bene le piccole croci giornaliere, e a fare tutto con grande purità d’intenzione»[29].

La speranza è madre della pazienza e la pazienza è difesa e scudo della speranza.

La sensibilità educativa

Dal terzo elemento costitutivo della speranza – “l’operosità salvifica” – procede un altro frutto: la sensibilità pedagogica. È una iniziativa d’impegno adeguato, sia nell’ambito della propria santificazione (sequela del Cristo), sia nell’ambito della salvezza degli altri (missione). Comporta impegno pratico, misurato e costante, tradotto da Don Bosco in una metodologia concreta che comporta queste attenzioni:

  • l’avvedutezza (o santa «furbizia»): quando si tratta di avere iniziative, di risolvere problemi, Don Bosco ce la mette tutta senza pretese di perfezionismo, ma con umile praticità; è ripetuta da lui molte volte la frase: «L’ottimo è nemico del bene»[30].
  • l’ardimento. Il male è organizzato, i figli delle tenebre agiscono con intelligenza. Il Vangelo ci dice che i figli della luce devono essere più scaltri e coraggiosi. Quindi, per lavorare nel mondo, bisogna armarsi di genuina prudenza, ossia di quell’«auriga virtutum» che ci rende agili, tempestivi e penetranti nell’applicazione di una vera intrepidezza nel bene.
  • la magnanimità. Non dobbiamo rinchiudere il nostro sguardo dentro le pareti di casa. Siamo stati chiamati dal Signore a salvare il mondo, abbiamo una missione storica più importante di quella degli astronauti o degli uomini di scienza… Siamo impegnati nella liberazione integrale dell’uomo. Il nostro animo deve aprirsi a visioni molto ampie. Don Bosco voleva che fossimo «all’avanguardia del progresso» (e si trattava, quando disse questa frase, di mezzi di comunicazione sociale).

Conosciamo la magnanimità di Don Bosco nel lanciare i giovani alle responsabilità apostoliche; pensiamo, per esempio, ai primi missionari partiti per l’America. Sia i Salesiani sia le Figlie di Maria Ausiliatrice erano poco più che ragazzi e ragazze!

Don Bosco si muoveva in orizzonti vasti. Non gli bastava né Valdocco né Mornese; non poteva rimanere solo dentro i limiti di Torino, del Piemonte, dell’Italia o dell’Europa. Il suo cuore palpitava con quello della Chiesa universale, perché si sentiva quasi investito della responsabilità di salvezza di tutta la gioventù bisognosa del mondo. Voleva che i Salesiani sentissero come propri tutti i più grandi e urgenti problemi giovanili della Chiesa per essere disponibili ovunque. E, mentre coltivava la magnanimità dei progetti e delle iniziative, era concreto e pratico nella loro realizzazione, con il senso della gradualità e con la modestia degli inizi.

Ecco sul volto del Salesiano deve sempre brillare, come nota di simpatia, la magnanimità: non deve essere una testolina senza visioni, ma avere grandezza d’animo perché ha un cuore abitato dalla speranza.

Péguy, con la sua acutezza un po’ violenta, ha scritto: «Una capitolazione è in sostanza un’operazione in cui si incomincia a spiegare invece di attuare. I codardi sono stati sempre delle persone di molte spiegazioni». Sul volto salesiano deve sempre brillare, come nota di simpatia, anche la mistica della decisione e l’ardimento umile della praticità. Don Bosco era deciso negli impegni di bene, anche se non poteva incominciare con l’ottimo; diceva che le sue opere si iniziavano magari nel disordine per tendere poi verso l’ordine!

La speranza mette sul volto del Salesiano, accanto alla profondità della contemplazione, alla gioia della filiazione divina, all’entusiasmo della gratitudine e dell’ottimismo (che provengono dalla “fede”), anche il coraggio dell’iniziativa, lo spirito di sacrificio della pazienza, la saggezza della gradualità pedagogica, l’utopia della magnanimità, la modestia della praticità, la prudenza della furbizia e il sorriso dell’allegria.

5.2 La fedeltà di Dio: fino alla fine

Finora abbiamo dato uno sguardo a ciò che don Bosco e i nostri santi e beati hanno espresso chiaramente nelle loro esistenze. Si tratta di elementi che spingono ciascuno di noi personalmente e come Famiglia Salesiana a far emergere o – per riprendere le parole di don Egidio Viganò – far brillare quella speranza della quale siamo chiamati a «rendere ragione», soprattutto ai giovani e, tra questi, i più poveri.

È giunto il momento di “sbirciare” un po’ oltre ciò che è “immediatamente visibile” e cercare di conoscere ciò che attende la nostra vita e ci dà il coraggio di aspettare operosamente mentre collaboriamo alla venuta del “giorno del Signore”.

Quindi, sempre riprendendo l’analisi schietta e intensa del VII Successore di don Bosco, concentriamo la nostra attenzione sulla prospettiva del “premio”.

Il diamante del “premio” è collocato con altri quattro nella parte posteriore del manto del personaggio del sogno. È quasi un segreto, una forza che opera dal di dentro, che ci dà la spinta e ci aiuta a sorreggere e difendere i grandi valori visti nella parte anteriore. È interessante osservare che il diamante del “premio” è collocato sotto quello della “povertà”, perché ha certamente una relazione con le “privazioni” legate ad essa.

Sui suoi raggi si leggono le seguenti parole: «Se vi attrae la grandezza dei premi, non vi spaventi la quantità delle fatiche». «Chi soffre con Me, con Me godrà». «È momentaneo ciò che soffriamo sulla terra, eterno è ciò che farà gioire i miei amici nel Cielo».

Il vero Salesiano ha nella fantasia, nel cuore, nei desideri, negli orizzonti di vita la visione del premio, come pienezza dei valori proclamati dal Vangelo. Per questa ragione «è sempre lieto. Diffonde questa gioia e sa educare alla letizia della vita cristiana e al senso della festa»[31].

Nella casa di Don Bosco e nelle nostre case salesiane si parlava molto del Paradiso. Era un’idea permanente e onnipresente riassunta in alcuni famosi detti: «Pane, lavoro e Paradiso»[32]; «Un pezzo di Paradiso aggiusta tutto»[33]. Sono frasi ricorrenti a Valdocco e a Mornese.

Certamente molte Figlie di Maria Ausiliatrice ricorderanno la descrizione fatta da madre Enrichetta Sorbone sullo spirito di Mornese: «Qui siamo in Paradiso, nella casa c’è un ambiente di Paradiso!»[34]. E non era certo a causa delle privazioni o della mancanza di problemi. Era come la traduzione spontanea, balzata dal cuore, del cartello che aveva fatto mettere Don Bosco: «Servite Domino in laetitia»[35].

Anche Domenico Savio aveva percepito lo stesso caldo e trascendente clima di vita: «Noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri»[36].

Nelle biografie di Domenico Savio, Francesco Besucco e Michele Magone, Don Bosco, anche descrivendone l’agonia, ci tiene a sottolineare questa ineffabile gioia, unita a una vera ansia di Paradiso. Molto più che l’orrore della morte, i suoi ragazzi sentono l’attrattiva della Pasqua.

Il pensiero del premio è uno dei frutti della presenza dello Spirito Santo, ossia, dell’intensità della fede, della speranza e della carità, tutte e tre insieme, anche se è più strettamente legato alla speranza. Infonde nel cuore una gioia e una allegria che vengono dall’Alto e trovano una bella sintonia con le stesse tendenze innate del cuore umano. Lo constatiamo vivendo tra i ragazzi e le ragazze: la gioventù intuisce con maggior freschezza che l’uomo è nato per la felicità.

Ma non abbiamo neppure bisogno di andare a cercarlo tra i giovani. Prendiamo uno specchio e guardiamoci: ci basta ascoltare i battiti del nostro cuore. Siamo nati per raggiungere la felicità, l’aspettiamo anche senza confessarlo.

L’idea del Paradiso, sempre presente nella casa di Don Bosco, non è un’utopia per ingenui inganni, non è la carota che inganna il cavallo perché cammini più in fretta, è l’ansia sostanziale del nostro essere; ed è soprattutto la realtà dell’amore di Dio, della risurrezione di Gesù Cristo operante nella storia; è la presenza viva dello Spirito Santo che spingono, di fatto, verso il premio.

Don Bosco non disprezza nessuna gioia dei giovani. Al contrario, la suscita, la incrementa, la sviluppa. La famosa “allegria” in cui fa consistere la santità non è solo una gioia intima, nascosta nel cuore come frutto della grazia. Questa ne è la radice. Essa si esprime anche all’esterno, nella vita, nel cortile e nel senso della festa.

Come preparava le solennità religiose, gli onomastici, i giorni festivi dell’Oratorio! Si preoccupava persino di organizzare la celebrazione del proprio onomastico, non per sé, ma per creare un clima di riconoscenza gioiosa nell’ambiente.

Pensiamo alle coraggiose passeggiate autunnali: due o tre mesi per prepararle, 15 o 20 giorni per viverle; poi i prolungati ricordi e commenti: una gioia molto distesa nel tempo. Che fantasia e che coraggio! Da Torino ai Becchi, a Genova, a Mornese, a tanti paesi del Piemonte, con decine e decine di ragazzi… La passeggiata, il gioco, la musica, il canto, il teatro: sono elementi sostanziali del Sistema Preventivo che, anche come metodo pedagogico, suppone una spiritualità appropriata ed esplosiva, frutto di una fede, una speranza e una carità convinte, valori del cielo proprio qui sulla terra.

Sul firmamento di Valdocco s’affacciava sempre, di giorno e di notte, con nubi o senza nubi, il Paradiso. Testimoniare oggi i valori del premio è una profezia urgente per il mondo e soprattutto per la gioventù. La civiltà tecnico-industriale che cosa ha apportato alla società del consumo? Una enorme possibilità di comodità e di piacere, con una conseguente e pesante tristezza.

Tra l’altro leggiamo nelle Costituzioni dei Salesiani di Don Bosco – ma vale per ogni cristiano – che «il salesiano [è] un segno della forza della resurrezione» e che «nella semplicità e laboriosità della vita quotidiana» è «educatore che annuncia ai giovani “cieli nuovi e terra nuova”, stimolando in loro gli impegni e la gioia della speranza»[37].

A Mornese e a Valdocco non c’erano né comodità, né dittature e tutto respirava spontaneità e allegria. Il progresso tecnico ha facilitato oggi tante cose, ma non è aumentata la vera gioia dell’uomo. È cresciuta, invece, l’angustia, la nausea, si è acuita la mancanza di senso dell’esistenza che purtroppo continuiamo a rilevare – specialmente nelle società opulente – con la tragica statistica dei suicidi adolescenziali e giovanili.

Oggi oltre alla povertà materiale che affligge ancora una grandissima porzione di umanità, diventa urgente trovare il modo di far percepire alla gioventù il senso della vita, gli ideali superiori, l’originalità di Gesù Cristo.

Si cerca la felicità, tendenza fondamentale dell’uomo, ma non se ne conosce più la giusta strada, e allora va crescendo un’immensa disillusione.

I giovani, anche a causa della mancanza di adulti significativi, si sentono incapaci di affrontare la sofferenza, il dovere e l’impegno costante. Il problema della fedeltà agli ideali e alla propria vocazione è diventato cruciale. La gioventù si sente incapace di assumere sofferenze e sacrifici. Vive in un’atmosfera in cui trionfa il divorzio tra amore e sacrificio, in modo tale che la ricerca e il conseguimento del solo benessere finisce per asfissiare la capacità di amare e, quindi, di sognare il futuro.

Giustamente, come dicevamo, il diamante del premio è collocato sotto quello della povertà, quasi a indicarci che i due si completano e si sostengono a vicenda. Di fatto la povertà evangelica comporta una visione concreta e trascendente di tutta la realtà con un’ottica realista anche circa le rinunce, le sofferenze, i contrattempi, le privazioni e le pene.

Qual è l’energia interiore che fa affrontare tutto con fiducia e con volto ilare, senza scoraggiarsi? È, in definitiva, il senso della presenza del cielo sulla terra. Questo senso procede dalla fede, dalla speranza e dalla carità, che ci fanno rileggere tutta l’esistenza con l’ottica dello Spirito Santo.

Il mondo ha urgente bisogno di profeti che proclamino con la vita la grande verità del Paradiso. Non un’evasione alienante, ma un’intensa realtà stimolante!

Dunque, nello spirito di Don Bosco è costante la preoccupazione di curare la dimestichezza con il Paradiso, quasi a costituirne il firmamento della mente, l’orizzonte del cuore salesiano: lavoriamo e lottiamo sicuri di un premio, guardando alla Patria, alla casa di Dio, alla Terra promessa.

È bene precisare che la prospettiva del premio non consiste riduttivamente nel conseguimento di una “ricompensa”, di una sorta di consolazione per una vita vissuta in mezzo a tanti sacrifici, sopportazioni… Niente di tutto questo! Se fosse solo “ricompensa”, assomiglierebbe a un ricatto. Ma Dio non opera in questo modo. Nel Suo amore non può che offrire all’uomo Sé stesso. Questa – come afferma Gesù – è la vita eterna: la conoscenza del Padre. Dove “conoscere” significa “amare”, divenire pienamente partecipi di Dio, in continuità con l’esistenza terrena vissuta “in grazia”, ossia nell’amore a Dio e ai fratelli e alle sorelle.

In questo cammino siamo invitati a volgere lo sguardo a Maria, la quale si fa presente come aiuto quotidiano, come Madre precorritrice e ausiliatrice. Don Bosco è sicuro di questa sua presenza tra noi e vuole dei segni che ce lo ricordino.

Per Lei ha edificato una Basilica, centro di animazione e diffusione della vocazione salesiana. Voleva la Sua immagine nei nostri ambienti di vita; vincolava ogni iniziativa apostolica alla Sua intercessione e ne commentava con commozione la reale e materna efficacia. Ricordiamo, ad esempio, ciò che disse alle Figlie di Maria Ausiliatrice nella casa di Nizza: «La Madonna è veramente qui, qui in mezzo a voi! La Madonna passeggia in questa casa e la copre col suo manto»[38].

Oltre a Lei, cerchiamo nella casa di Dio anche altri amici. I nostri Santi e Beati, a cominciare dai volti a noi più familiari e che fanno parte del cosiddetto “giardino salesiano”.

Non facciamo queste scelte per dividere la grande casa di Dio in piccoli appartamenti privati, ma piuttosto per sentirci in essa più facilmente a casa nostra e poter parlare di Dio, del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, di Cristo e di Maria, della creazione e della storia, non con la trepidazione di chi ha ascoltato l’alta lezione di un pensatore denso, difficile e anche ermetico, ma con quel senso di familiarità e di gioiosa semplicità con cui si conversa con coloro che sono stati i nostri parenti, i nostri fratelli e le nostre sorelle, i nostri colleghi e i nostri compagni di lavoro. Alcuni di essi non li abbiamo conosciuti in vita, ma li sentiamo vicini e ci ispirano particolare fiducia. Parlare con san Giuseppe, con Don Bosco, con madre Mazzarello, con don Rua, con Domenico Savio, con Laura Vicuña, con don Rinaldi, con mons. Versiglia e don Caravario, con suor Teresa Valsè, con suor Eusebia Palomino, ecc., è proprio un dialogo “di casa”, di famiglia.

Ecco quanto ci suggerisce il diamante del premio: sentirsi a casa con Dio, con Cristo, con Maria, con i Santi; sentire la loro presenza nella propria casa, in un clima di famiglia che dà senso di Paradiso all’ambiente quotidiano di vita.

6. CON… MARIA, SPERANZA E PRESENZA MATERNA

Al termine di questo commento non possiamo che volgere il nostro cuore e il nostro sguardo alla vergine Maria, come ci ha insegnato don Bosco.

La speranza domanda fiducia, capacità di consegnarsi e di affidarsi.

In tutto ciò abbiamo una guida e una maestra in Maria Santissima.

Lei ci testimonia che sperare è affidarsi e consegnarsi, ed è vero tanto per l’esistenza come per la vita eterna.

In questo cammino la Madonna ci prende per mano, ci insegna come fidarci di Dio, come consegnarci liberamente all’amore trasmesso da suo Figlio Gesù.

L’indicazione e la “carta di navigazione” che ci presenta, è sempre la stessa: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela»[39]. Un invito che ogni giorno assumiamo nella nostra vita.

In Maria scorgiamo la realizzazione del premio.

Maria incarna in sé l’attrattiva e la concretezza del Premio: Essa,

«finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria col suo corpo e con la sua anima, e dal Signore esaltata come la Regina dell’universo, perché fosse più pienamente conformata al Figlio suo, il Signore dei dominanti, il vincitore del peccato e della morte»[40].

Possiamo leggere sulle Sue labbra alcune belle espressioni provenienti da San Paolo. Siccome sono ispirate dallo Spirito Santo, Sposo di Maria, certamente sono da Lei condivise.

Eccole:

«Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?

Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze,né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore»[41].

Carissimi sorelle e fratelli, carissimi giovani,

Maria Ausiliatrice, Don Bosco e tutti i nostri Santi e Beati ci sono vicini in questo anno così straordinario. Siano loro ad accompagnarci a vivere con profondità le istanze del Giubileo, aiutandoci a mettere al centro della vita la persona di Gesù Cristo «il Salvatore annunciato nel Vangelo, che vive oggi nella Chiesa e nel mondo»[42].

Ci spingano, sull’esempio delle prime e dei primi missionari inviati da don Bosco, a fare sempre e ovunque della nostra vita un dono gratuito per gli altri, soprattutto per i giovani e tra loro quelli più poveri.

Per ultimo, un augurio: che quest’anno faccia crescere in noi la preghiera per la pace, per un’umanità pacificata. Invochiamo il dono della pace – lo shalom biblico – che contiene tutti gli altri e trova compimento solo nella speranza.

Un abbraccio fraterno

Don Stefano Martoglio S.D.B.

Vicario del Rettor Maggiore

Roma, 31 dicembre 2024


[1] Francesco, Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, Città del Vaticano 9 maggio 2024.

[2] Ibi.

[3] Cf. Rm 8,39.

[4] Rm 5,3-5

[5] Messale romano, LEV, Roma 20203, 240.

[6] Byung-Chul Han, El espìritu de la esperanza, p.18, Herder, Barcellona 2024.

[7] C. Paccini – S. Troisi, Siamo nati e non moriremo mai più. Storia di Chiara Corbella Petrillo, Porziuncola, Assisi (PG) 2001.

[8] Gabriel Marcel, Philosophie der Hoffnung, Mùnich, List 1964.

[9] Erich Fromm, La revolucìonde la esperanza, Ciudad de México 1970.

[10] 1Pt 3,15.

[11] Francesco, Spes non confundit, 9.

[12] Gv 17,3.

[13] Cf. Rm 4,18.

[14] Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus caritas est, Città del Vaticano 25 dicembre 2005, 1.

[15] Cost. SDB, 3.

[16] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIª-IIae q. 17 a. 8 co.

[17] Cf. E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 2023.

[18] Per queste riflessioni ho attinto alla ricca riflessione dell’Abate generale dell’Ordine dei Cistercensi M. G. Lepori, Capitoli dell’Abate Generale OCist al CFM 2024. Sperare in Cristo reperibile in più lingue al sito: www.ocist.org

[19] Cfr Rm, 5,3-5

[20] E. Viganò, Un progetto evangelico di vita attiva, Elle Di Ci, Leumann (TO) 1982, 68-84.

[21] Cf. E. Viganò, Profilo del Salesiano nel sogno del personaggio dai dieci diamanti, in ACS 300 (1981), 3-37. L’intera narrazione del sogno è reperibile in ACS 300 (1981), 40-44; oppure in MB XV, 182-187.

[22] MB VIII, 444.

[23] Cost. SDB, 18.

[24] P. Braido (a cura di), Don Bosco Fondatore “Ai Soci Salesiani”(1875-1885). Introduzione e testi critici, LAS, Roma 1995, 159.

[25] MB V, 442.

[26] MB V, 409.

[27] MB XII, 458.

[28] Ibi.

[29] F. Maccono, Santa Maria Domenica Mazzarello. Confondatrice e prima Superiora Generale delle FMA. Vol. I, FMA, Torino 1960, 398.

[30] MB X, 893.

[31] Cost. SDB, 17.

[32] MB XII, 600.

[33] MB VIII, 444.

[34] Citato in E. Viganò, Riscoprire lo spirito di Mornese, in ACS (1981), 62.

[35] Sal 99.

[36] MB V, 356.

[37] Cost. SDB, 63. Si veda anche E. Viganò, «Rendere ragione della gioia e degli impegni della speranza, testimoniando le insondabili ricchezze di Cristo». Strenna 1994. Commento del Rettor Maggiore, Istituto Figlie di Maria Ausiliatrice, Roma 1993.

[38] G. Capetti, Il cammino dell’Istituto nel corso di un secolo. Vol. I, FMA, Roma 1972-1976, 122.

[39] Gv 2,5.

[40] LG, 59.

[41] Rm 8,34-39.

[42] Cost. SDB, 196.




Il profumo

Una fredda mattina di marzo, in un ospedale, per colpa di complicazioni gravi, una bambina nacque molto prima del previsto, dopo solo sei mesi di gravidanza.
Era un esserino minuscolo e i neo genitori furono colpiti dolorosamente dalle parole del medico: «Non credo che la bambina abbia molte probabilità di sopravvivere. C’è solo il 10 per cento di possibilità che sopravviva alla notte, ed anche se ciò accadesse per qualche miracolo, la probabilità che abbia complicazioni future è molto alta». Paralizzati dalla paura, la mamma e il papà ascoltavano le parole del dottore che descriveva loro tutti i problemi che avrebbe dovuto affrontare la bambina. Non sarebbe mai stata in grado di camminare, parlare, vedere, sarebbe stata ritardata mentalmente e molto altro ancora.
Mamma, papà e il loro bambino di cinque anni avevano tanto atteso quella bambina. Nel giro di poche ore, vedevano tutti i loro sogni e desideri spezzati per sempre.
Ma i loro problemi non erano finiti, il sistema nervoso della piccola non era ancora sviluppato. Quindi qualunque carezza, bacio o abbraccio era pericoloso, i familiari sconsolati non potevano neanche trasmetterle il loro amore, dovevano evitare di toccarla.
Si presero per mano tutti e tre e pregarono, formando un piccolo cuore pulsante nell’immenso ospedale:
«Dio onnipotente, Signore della vita, fai tu quello che noi non possiamo fare: prenditi cura della piccola Diana, stringila al tuo petto, cullala tu e falle sentire tutto il nostro amore».
Diana era un batuffolo palpitante e lentamente cominciò a migliorare. Passavano le settimane e la piccola continuava a prendere peso e diventare più forte. Finalmente, quando Diana compì due mesi i suoi genitori poterono abbracciarla per la prima volta.
Cinque anni dopo, Diana era diventata una bambina serena che guardava verso il futuro con fiducia e con tanta voglia di vivere. Non c’erano segni di deficienza fisica o mentale, era una bambina normale vispa e piena di curiosità.
Ma non è questa la fine della storia.
Un caldo pomeriggio, in un parco non lontano da casa, mentre suo fratello giocava a calcio con gli amici, Diana era seduta in braccio della mamma. Come sempre chiacchierava felice, quando all’improvviso si zittì. Strinse le braccia come abbracciasse qualcuno e chiese alla mamma: «Lo senti?».
Sentendo nell’aria che si avvicinava la pioggia, la mamma rispose: «Sì. Profuma come quando sta per piovere».
Dopo un po’, Diana, alzò la testa e accarezzandosi le braccia esclamò: «No, profuma come Lui. Profuma come quando Dio ti abbraccia forte».
La mamma cominciò a piangere calde lacrime, mentre la bambina sgattaiolava verso le sue piccole amiche per giocare con loro.
Le parole della figlia avevano confermato ciò che la donna sapeva in cuor suo, da tanto tempo ormai. Durante tutto il periodo in ospedale, mentre lottava per la vita, Dio si era preso cura della piccola, abbracciandola così spesso che il suo profumo era rimasto impresso nella memoria di Diana.

In ogni bambino rimane il profumo di Dio. Perché abbiamo tutti tanta fretta di cancellarlo?




Terzo sogno missionario: viaggio aereo (1885)

Il sogno di don Bosco alla vigilia della partenza dei missionari per l’America è un evento ricco di significato spirituale e simbolico nella storia della Congregazione Salesiana. Durante quella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, don Bosco ebbe una visione profetica che sottolinea l’importanza della pietà, dello zelo apostolico e della totale fiducia nella Provvidenza Divina per il successo della missione. Questo episodio non solo incoraggiò i missionari, ma consolidò anche la convinzione di Don Bosco sulla necessità di espandere la loro opera oltre i confini italiani, portando educazione, assistenza e speranza alle nuove generazioni in terre lontane.

            S’arrivò frattanto alla vigilia della partenza. Per tutta la giornata il pensiero che Monsignore e gli altri sarebbero andati così lontano, e l’impotenza assoluta di accompagnarli, come le volte precedenti, fino all’imbarco, anzi l’impossibilità forse di dar loro almeno l’addio nella chiesa di Maria Ausiliatrice, gli causarono sussulti di commozione, che in certi momenti lo opprimevano e lo lasciavano abbattuto. Or ecco che nella notte dal 31 gennaio al 1° febbraio fece un sogno simile a quello del 1883 sulle Missioni. Lo raccontò quindi a Don Lemoyne che subito lo scrisse. É il seguente.

            Mi parve di accompagnare i Missionari nel loro viaggio. Ci siamo parlati per un breve momento prima di partire dall’Oratorio. Essi mi stavano attorno e mi chiedevano consigli; e mi pareva di dire loro:
            – Non colla scienza, non colla sanità, non colle ricchezze, ma collo zelo e colla pietà, farete del gran bene, promovendo la gloria di Dio e la salute delle anime.
            Eravamo poco prima all’Oratorio, e poi senza sapere per quale via fossimo andati e con quale mezzo, ci siamo trovati quasi subito in America. Giunto al termine del viaggio mi trovai solo in mezzo ad una vastissima pianura, posta tra il Chile e la Repubblica Argentina. I miei cari Missionari si erano tutti dispersi qua e là per quello spazio senza limiti. Io guardandoli mi meravigliava, poiché mi sembravano pochi. Dopo tanti Salesiani che in varie volte aveva mandati in America, mi pensava di dover vedere un numero maggiore di Missionari. Ma poscia riflettendo conobbi che se piccolo sembrava il loro numero, ciò avveniva perché si erano sparsi in molti luoghi, come seminagione che doveva trasportarsi altrove ad essere coltivata e moltiplicata.
            In quella pianura apparivano molte e lunghissime vie per le quali si vedevano sparse numerose case. Queste vie non erano come le vie di questa terra, e le case non erano come le case di questo mondo. Erano oggetti misteriosi e direi quasi, spirituali. Quelle strade erano percorse da veicoli, o da mezzi di trasporto che correndo prendevano successivamente mille aspetti fantastici e mille forme tutte diverse, benché magnifiche e stupende, sicché io non posso definirne o descriverne una sola. Osservai con stupore che i veicoli giunti vicini ai gruppi di case, ai villaggi, alle città, passavano in alto, cosicché chi viaggiava vedeva sotto di sé i tetti delle case, le quali benché fossero molto elevate, pure di molto sottostavano a quelle vie le quali mentre nel deserto aderivano al suolo, giunte vicine ai luoghi abitati diventavano aeree quasi formando un magico ponte. Di lassù si vedevano gli abitanti nelle case, nei cortili, nelle vie, e nelle campagne occupati a lavorare i loro poderi.
            Ciascheduna di quelle strade faceva capo ad una delle nostre missioni. In fondo ad una lunghissima via che si protendeva dalla parte del Chile io vedeva una casa [tutte le particolarità topografiche che precedono e che seguono, sembrano indicare la casa di Fortìn Mercedes, sulla riva sinistra del Colorado] con molti confratelli Salesiani, i quali si esercitavano nella scienza, nella pietà, in varie arti e mestieri e nell’agricoltura. A mezzodì era la Patagonia. Dalla parte opposta in un colpo d’occhio scorgeva tutte le case nostre nella Repubblica Argentina. Quindi nell’Uruguay, Paysandú, Las Piedras, Villa Colón; nel Brasile il Collegio di Nicteroy e molti altri ospizi sparsi nelle provincie di quell’impero. Ultima ad occidente si apriva un’altra lunghissima strada che traversando fiumi, mari e laghi faceva capo in paesi sconosciuti. In questa regione vidi pochi Salesiani. Osservai con attenzione e potei solamente vederne due.
            In quell’istante apparve vicino a me un personaggio di nobile e vago aspetto, pallidetto di carnagione, grasso, con barba rasa in modo da parere imberbe e per età uomo fatto. Era vestito in bianco, con una specie di cappa color di rosa intrecciata con fili d’oro. Risplendeva tutto. Io conobbi in quello il mio interprete.
            – Dove siamo qui? chiesi io additandogli quest’ultimo paese.
            – Siamo in Mesopotamia, mi rispose l’interprete.
            – In Mesopotamia? io replicai: ma questa è la Patagonia.
            – Ti dico, rispose l’altro, che questa è la Mesopotamia.
            – Ma pure… ma pure… non posso persuadermene.
            – La cosa è così! Questa è la Me.. so.. po.. ta.. mi.. a, concluse l’interprete sillabando la parola, perché mi restasse bene impressa.
            – Ma perché i Salesiani che vedo qui sono così pochi?
            – Ciò che non è, sarà, concluse il mio interprete.
            Io intanto sempre fermo in quella pianura percorreva collo sguardo tutte quelle interminabili vie e contemplava, in modo chiarissimo ma inesplicabile, i luoghi che sono e saranno occupati dai Salesiani. Quante cose magnifiche io vidi! Vidi tutti i singoli collegi. Vidi come in un punto solo il passato, il presente e l’avvenire delle nostre missioni. Siccome vidi tutto complessivamente in uno sguardo solo, è ben difficile, anzi impossibile rappresentare anche languidamente qualche ristretta idea di questo spettacolo. Solamente ciò che io vidi in quella pianura del Chile, del Paraguay, del Brasile, della Repubblica Argentina domanderebbe un grosso volume, volendo indicare qualche sommaria notizia. Vidi pure in quella vasta pianura, la gran quantità di selvaggi che sono sparsi nel Pacifico fino al golfo di Ancud, nello stretto di Magellano, al Capo Horn, nelle isole Diego, nelle isole Malvine. Tutta messe destinata per i Salesiani. Vidi che ora i Salesiani seminano soltanto, ma i nostri posteri raccoglieranno. Uomini e donne ci rinforzeranno e diverranno predicatori. I loro figli stessi che sembra quasi impossibile guadagnare alla fede, eglino stessi diverranno gli evangelizzatori dei loro parenti e dei loro amici. I Salesiani riusciranno a tutto colla umiltà, col lavoro, colla temperanza. Tutte quelle cose che io vedeva in quel momento e che vidi in appresso, riguardavano tutte i Salesiani, il loro regolare stabilimento in quei paesi, il loro aumento meraviglioso, la conversione di tanti indigeni e di tanti Europei colà stabiliti. L’Europa si verserà nell’America del Sud. Dal momento che in Europa si incominciò a spogliare le chiese, incominciò a diminuire la floridezza del commercio, il quale andò e andrà sempre più deperendo. Quindi gli operai e le loro famiglie spinti dalla miseria correranno a cercare ricovero in quelle nuove terre ospitali.
            Visto il campo che ci assegna il Signore ed il glorioso avvenire della Congregazione Salesiana, mi parve di mettermi in viaggio pel ritorno in Italia. Io era trasportato con rapidissimo corso per una via strana, altissima e così giunsi in un attimo sopra l’Oratorio. Tutta Torino era sotto i miei piedi e le case, i palagi, le torri mi sembravano basse casupole, tanto io mi trovava in alto. Piazze, strade, giardini, viali, le ferrovie le mura di cinta, le campagne, e le colline circostanti, le città, i villaggi della provincia, la gigantesca catena delle Alpi coperta di neve stavano sotto i miei occhi presentandomi uno stupendo panorama. Vedeva i giovani là in fondo nell’Oratorio che sembravano tanti topolini. Ma il loro numero era straordinariamente grande; preti, chierici, studenti, capi d’arte ingombravano tutto. Molti partivano in processione ed altri sottentravano alle file di coloro che partivano. Era una continuata processione.
            Tutti si andavano a raccogliere in quella vastissima pianura tra il Chile e la Repubblica Argentina, nella quale io tosto era ritornato in un batter d’occhio. Io li stava, osservando. Un giovane prete il quale sembrava il nostro D. Pavia, ma che non era, con aria affabile, parola cortese, di un aspetto candido, e di carnagione fanciullesca venne verso di me e mi disse:
            – Ecco le anime ed i paesi destinati ai figliuoli di S. Francesco di Sales.
            Io era meravigliato come tanta moltitudine che sì era raccolta colà in un momento disparisse e appena appena in lontananza si scorgesse la direzione che aveva presa.
            Qui io noto che nel narrare il mio sogno vado per sommi capi e non mi è possibile precisare la successione esatta dei magnifici spettacoli che mi si presentavano e i vari accidenti accessori. Lo spirito non regge, la memoria dimentica, la parola non basta. Oltre il mistero che involgeva quelle scene, queste si avvicendavano, talora s’intrecciavano, soventi volte si ripetevano secondo il vario unirsi o dividersi o partire dei missionari, e lo stringersi, o allontanarsi da essi di quei popoli che erano chiamati alla fede o alla conversione. Lo ripeto: vedeva in un punto solo il presente, il passato, l’avvenire di queste missioni, con tutte le fasi, i pericoli, le riuscite, le disdette o disinganni momentanei che accompagneranno questo Apostolato. Allora intendeva chiaramente tutto, ma ora è impossibile sciogliere questo intrigo di fatti, di idee, di personaggi. Sarebbe come chi volesse comprendere in una sola storia e ridurre ad un solo fatto e ad unità tutto lo spettacolo del firmamento, narrando il moto, lo splendore, le proprietà di tutti gli astri colle loro relazioni e leggi particolari e reciproche; mentre un solo astro darebbe materia all’attenzione e allo studio della mente più robusta. E noto ancora che qui si tratta di cose le quali non hanno relazione con gli oggetti materiali.
            Ripigliando adunque il racconto, dico che restai meravigliato nel vedere scomparire tanta moltitudine. Monsignor Cagliero era in quell’istante al mio fianco. Alcuni missionari erano ad una certa distanza. Molti altri erano intorno a me con un bel numero di cooperatori Salesiani, fra i quali distinsi Mons. Espinosa, il Dottor Torrero, il Dottor Caranza e il Vicario generale del Chile [forse si voleva dire di Mons. Domenico Cruz, Vicario Capitolare della diocesi di Concepción]. Allora il solito interprete venne verso di me che parlava con Mons. Cagliero e molti altri, mentre andavamo studiando se quel fatto racchiudesse qualche significazione. Nel modo più cortese l’interprete mi disse:
            – Ascoltate e vedrete.
            Ed ecco in quel momento la vasta pianura divenire una gran sala. Io non posso descrivere esattamente quale apparisse nella sua magnificenza e nella sua ricchezza. Dico solo che se uno si mettesse a descriverla, nessun uomo potrebbe sostenerne lo splendore neppure coll’immaginazione. L’ampiezza era tale che si perdeva a vista d’occhio e non si riusciva a vederne le mura laterali. La sua altezza non si poteva raggiungere. La volta terminava tutta con archi altissimi, larghissimi e risplendentissimi e non si vedeva sopra qual sostegno si appoggiassero. Non vi erano né pilastri, né colonne. In generale sembrava che la cupola di quella gran sala fosse di un candidissimo lino a guisa di tappezziera. Lo stesso dicasi del pavimento. Non vi erano lumi, né sole, né luna, né stelle, ma sebbene uno splendore generale, diffuso egualmente in ogni parte. La stessa bianchezza dei lini luccicava e rendeva visibile ed amena ogni parte, ogni ornamento, ogni finestra, ogni entrata, ogni uscita. Tutto intorno era diffusa una soavissima fragranza, la quale era mescolanza di tutti gli odori più grati.
            Un fenomeno si scorse in quel momento. Una gran quantità di tavole in forma di mensa si trovavano là di una lunghezza straordinaria. Ve ne erano per tutte le direzioni, ma concorrevano ad un centro solo. Erano coperte da eleganti tovaglie e sopra stavano disposti in ordine bellissimi vasi cristallini in cui erano fiori molti e vari.
            La prima cosa che notò Mons. Cagliero fu:
            – Le tavole ci sono, ma i commestibili dove sono?
            Infatti non era apparecchiato nessun cibo e nessuna bevanda, anzi neppure vi erano piatti, coppe o altri recipienti nei quali porre le vivande.
            L’amico interprete rispose allora:
            – Quelli che vengono qui, neque sitient, neque esurient amplius (Non avranno più fame né avranno più sete Ap. 7.16).
            Detto questo incominciò ad entrare gente, tutta vestita in bianco con una semplice striscia come collana, di color di rosa ricamata a fili d’oro che cingeva il collo e le spalle. I primi che entrarono erano in numero limitato. Solo alcuni in piccola schiera. Appena entrati in quella gran sala andavano a sedersi intorno ad una mensa loro preparata, cantando: Evviva! Ma dopo queste, altre schiere più numerose si avanzavano, cantando: Trionfo! Ed allora incominciò a comparire una varietà di persone, grandi e piccoli, uomini e donne, di ogni generazione, diversi di colore, di forme, di atteggiamenti e da tutte parti risuonavano cantici. Si cantava: Evviva! da quelli che erano già al loro posto. Si cantava trionfo! da quelli che entravano. Ogni turba che entrava erano altrettante nazioni o parti di nazioni che saranno tutte convertite dai missionari.
            Ho dato un colpo d’occhio a quelle mense interminabili e conobbi che là sedute e cantando vi erano molte nostre suore e gran numero dei nostri confratelli. Costoro però non avevano nessun distintivo di essere preti, chierici, o suore, ma egualmente come gli altri avevano la veste bianca e il pallio color di rosa.
            Ma la mia meraviglia crebbe quando ho veduto uomini dall’aspetto ruvido, col medesimo vestito degli altri e cantare: Evviva trionfo! In quel momento il nostro interprete disse:
            – Gli stranieri, i selvaggi che bevettero il latte della parola divina dai loro educatori, divennero banditori della parola di Dio.
            Osservai pure in mezzo alla folla schiere di fanciulli con aspetto rozzo e strano e domandai:
            – E questi fanciulli che hanno una pelle così ruvida, che sembra quella di un rospo, ma pure così bella e di un colore così risplendente? Chi sono costoro?
            L’interprete rispose:
            – Questi sono i figliuoli di Cam che non hanno rinunziato alla eredità di Levi. Essi rinforzeranno le armate per tutelare il regno di Dio che finalmente è giunto anche fra noi. Era piccolo il loro numero, ma i figli dei figli loro lo accrebbero. Ora ascoltate e vedete, ma non potete intendere i misteri che vedrete.
            Quei giovanetti appartenevano alla Patagonia ed all’Africa Meridionale.
            In quel mentre si ingrossarono tanto le file di coloro che entrarono in quella sala straordinaria, che ogni sedia pareva occupata. Le sedie e i sedili non avevano forma determinata, ma prendevano quella forma che ciascheduno desiderava. Ognuno era contento del seggio che occupava e del seggio che occupavano gli altri.
            Ed ecco mentre si gridava da tutte Evviva! trionfo! ecco sopraggiungere in ultimo una gran turba che festevolmente veniva incontro agli altri già entrati e cantando: Alleluia, gloria, trionfo!
            Quando la sala apparve interamente piena, e le migliaia dei radunati non si potevano numerare, si fece un profondo silenzio e quindi quella moltitudine incominciò a cantare divisa in diversi cori.
            Il primo coro: Appropinquavit in nos regnum Dei (È vicino a voi il regno di Dio Lc. 10,11); laetentur Coeli et exultet terra (Gioiscano i cieli, esulti la terra, 1Cr 16,31); Dominus regnavit super nos (Il Signore regnò su di noi); alleluia.
            Altro coro: Vicerunt; et ipse Dominus dabit edere de ligno vitae et non esurient in aeternum: alleluia (Al vincitore darò da mangiare dall’albero della vita e non avrà fame in eterno, alleluia Ap. 2,7).
            Un terzo coro: Laudate Dominum omnes gentes, laudate eum omnes populi. (Genti tutte, lodate il Signore, popoli tutti, cantate la sua lode, Ps 117,1)
            Mentre queste ed altre cose cantavano e si alternavano, a un tratto si fece per la seconda volta un profondo silenzio. Quindi incominciarono a risuonare voci che venivano dall’alto e lontane. Il senso del cantico era questo con una armonia che non si può in nessun modo esprimere: Soli Deo honor et gloria in saecula saeculorum ([solo a Dio] onore e gloria nei secoli dei secoli 1Tm 1,17). Altri cori sempre in alto e lontani rispondevano a queste voci: Semper gratiarum actio illi qui erat, est, et venturus est. Illi eucharistia, illi soli honor sempiternus (Ringraziamento in eterno a Colui che era, che è e che verrà. A lui l’Eucaristia, a lui solo l’eterno onore).
            Ma in quel momento quei cori si abbassarono e si avvicinarono. Fra quei musici celesti vi era anche Luigi Colle. Gli altri che stavano nella sala si misero allora tutti a cantare e si unirono, collegandosi le voci insieme in somiglianza di straordinari istrumenti musicali, con suoni la cui estensione non aveva limiti. Quella musica sembrava avesse contemporaneamente mille note e mille gradi di elevazione che si associavano a fare un solo accordo di voci. Le voci in alto salivano così acute che non si può immaginare. Le voci di coloro che erano nella sala scendevano sonore, rotonde così basso che non si può esprimere. Tutti formavano un coro solo, una sola armonia, ma così i bassi come gli alti con tale gusto e bellezza e con tale penetrazione in tutti i sensi dell’uomo e assorbimento di questi, che l’uomo dimenticava la propria esistenza, ed io caddi in ginocchio ai piedi di Mons. Cagliero esclamando:
            – Oh Cagliero! Noi siamo in paradiso!
            Mons. Cagliero mi prese per mano e mi rispose:
            – Non è il paradiso, è una semplice, una debolissima figura di ciò che in realtà sarà in paradiso.
            Intanto unanimi le voci dei due grandiosi cori proseguivano, e cantavano con inesprimibile armonia: Soli Deo honor et gloria, et triumphus alleluia, in aeternum in aeternum! (Solo a Dio onore e gloria e vittoria alleluia, nei secoli dei secoli!) Qui ho dimenticato me stesso e non so più che cosa sia stato di me. Al mattino stentava a levarmi di letto; appena appena potei richiamarmi a me stesso, quando sono andato a celebrare la santa Messa.
            Il pensiero principale che mi restò impresso dopo questo sogno, fu di dare a Mons. Cagliero ed ai miei cari missionari un avviso di somma importanza riguardante le sorti future delle nostre missioni: – Tutte le sollecitudini dei Salesiani e delle suore di Maria Ausiliatrice siano rivolte a promuovere le vocazioni ecclesiastiche e religiose.
(MB XVII, 299-305)




Il sentiero delle rose

«“Oh! Don Bosco cammina sempre sulle rose. Egli va avanti tranquillissimo: tutto gli va bene” Ma essi non vedevano le spine che laceravano le mie povere membra. Tuttavia andai avanti». Di spine e di rose è intrecciata ogni vita, come nel celebre sogno del pergolato di rose di don Bosco. La Speranza è la forza che nonostante le spine ci fa andare avanti.

Cari Lettori, amici della famiglia salesiana e benefattori che aiutano l’opera di Don Bosco in tutte le situazioni ed in tutti i contesti, inviandovi un pensiero tramite il Bollettino Salesiano, ho scelto di rimanere ancora un poco sul tema della Speranza, come già abbiamo fatto il mese scorso.
Questo non solo per amore di continuità, ma soprattutto perché è un tema di cui parlare, perché ne abbiamo tutti molto bisogno. È una declinazione della delicatezza di Dio nella nostra vita.
Ma quando parliamo di speranza, prima di tutto, ricordiamo che è un elemento di profonda umanità, ed un criterio chiaro per interpretare la vita, in tutte le religioni.
La speranza ha molto a che fare con la trascendenza e con la fede, l’amore e la vita eterna, sottolinea il filosofo coreano Byung-Chul Han. Noi lavoriamo, produciamo e consumiamo, sottolinea nei suoi scritti questo filosofo, ma in questo modo di vivere non c’è nessuna forma di apertura al trascendente, nessuna Speranza.
Viviamo in un tempo privato della dimensione della festa, anche se siamo pieni di cose che ci stordiscono; un tempo senza festa è un tempo senza speranza. La società dei consumi e della performance in cui viviamo, rischia di renderci incapaci di felicità, di gioire per la situazione in cui ci troviamo. Anche la situazione più difficile ha sempre delle briciole di luce!
La speranza ci fa credenti nel futuro, perché il luogo di sperimentazione più intensa della speranza è la trascendenza.
Lo scrittore e politico Ceco Vaclay Havel, presidente della Cecoslovacchia nell’epoca della “rivoluzione di velluto”, che molti di noi ricordano, definisce la speranza come uno stato d’animo, una dimensione dell’anima.
La speranza è un orientamento del cuore che trascende il mondo immediato dell’esperienza; è un ancoraggio da qualche altra parte oltre all’orizzonte.
Le radici della speranza si trovano da qualche parte dentro il trascendente ecco perché non è la stessa cosa avere Speranza o essere soddisfatti perché le cose vanno bene.
Quando parliamo di futuro lo intendiamo in relazione a cosa accadrà domani, il mese prossimo, tra due anni. Il futuro è quello che possiamo pianificare, prevedere gestire ed ottimizzare.
La Speranza è la costruzione di un futuro che ci unisce al futuro che non finisce, al trascendente, alla dimensione Divina. Coltivare la speranza fa bene al nostro cuore perché mette energia nella costruzione della nostra strada verso il Paradiso.

La parola più pronunciata da Don Bosco
Scrisse Don Alberto Caviglia: «A svolgere le pagine che riportano parole e discorsi di Don Bosco, si trova che quella del Paradiso fu la parola ch’egli ripeteva in ogni circostanza come argomento animatore supremo di ogni attività nel bene e di ogni sopportazione delle avversità».
«Un pezzo di Paradiso aggiusta tutto!» ripeteva Don Bosco in mezzo alle difficoltà. Anche nelle moderne scuole per manager si insegna che una visione positiva del futuro si trasforma in forza di vita.
Quando, anziano e cadente, attraversava il cortile a passettini di formica, quelli che lo incrociavano gli rivolgevano il solito saluto distratto: «Dove andiamo, Don Bosco?» Sorridendo, il santo rispondeva: «In Paradiso».
Quanto insisteva don Bosco su questo: il Paradiso! Faceva crescere i suoi giovani con la visione del Paradiso nel cuore e negli occhi. Tutti noi sappiamo che possiamo esser cristiani, anche convinti, ma non credere al Paradiso.
Don Bosco ci insegna ad unire il nostro aldiquà, con l’aldilà. E lo fa con la virtù della Speranza.
Portiamo in cuore questo, ed apriamo il nostro cuore alla carità, alla nostra umanità che incarna ciò in cui crediamo profondamente.
Se ricevete questo breve scritto nel mese di novembre, vivete questa speranza con i nostri Santi e con i vostri defunti, tutti uniti in una cordata che parte dal nostro quotidiano e porta all’infinito.
Come don Bosco, vivere come se vedessimo l’invisibile, nutriti dalla Speranza che è la presenza Provvidente di Dio. Solo chi è profondamente concreto, come lo era don Bosco, è in grado di vivere fissando l’invisibile.




Il secondo sogno missionario: attraverso l’America (1883)

            Don Bosco raccontò questo sogno il 4 settembre nella seduta ante meridiana del Capitolo Generale. Don Lemoyne lo mise subito in carta e il Servo di Dio rivide da capo a fondo lo scritto, aggiungendo e modificando. Noi stamperemo in corsivo le parti che nell’originale rivelano la mano del Santo; chiuderemo invece fra parentesi quadre alcuni tratti, che Don Lemoyne introdusse posteriormente a modo di chiose, mercè ulteriori spiegazioni dategli da Don Bosco.

            Era la notte che precedeva la festa di S. Rosa di Lima [30 agosto] ed io ho fatto un sogno. Mi accorgeva di dormire e nello stesso tempo mi sembrava di correre molto, a segno che mi sentiva stanco di correre, di parlare, di scrivere e di faticare nel disimpegno delle altre mie solite occupazioni. Mentre pensava se il mio fosse un sogno ovvero realtà, mi parve di entrare in una sala di trattenimento dove erano molte persone che stavano parlando di cose diverse.
            Un lungo discorso si aggirò intorno alla moltitudine dei selvaggi che nell’Australia, nelle Indie, nella China, nell’Africa e più particolarmente nell’America, in numero sterminato sono tuttora sepolti nell’ombra di morte.
            – L’Europa, disse con serietà un ragionatore, la cristiana Europa, la grande maestra di civiltà e di Cattolicismo pare sia venuta apatica per le missioni estere. Pochi sono quelli che sono abbastanza arditi di affrontare lunghe navigazioni e sconosciuti paesi per salvare le anime di milioni di uomini che pur furono redente dal Figlio di Dio, da Cristo Gesù.
            Disse un altro:
            – Che quantità di idolatri vivono infelici fuori della Chiesa e lontani dalla conoscenza del Vangelo nella sola America! Gli uomini si pensano (ed i geografi s’ingannano) che le Cordigliere d’America siano come un muro che divide quella gran parte del mondo. Non è così. Quelle lunghissime catene di alte montagne fanno molti seni di mille e più chilometri in sola lunghezza. In essi vi sono selve non mai visitate, vi sono piante, animali, e poi si trovano pietre di cui colà si scarseggia. Carbon fossile, petrolio, piombo, rame, ferro, argento ed oro stanno nascosti in quelle montagne, nei siti dove furono
collocati dalla mano onnipotente del Creatore a benefizio degli uomini. O Cordigliere, Cordigliere, quanto mai è ricco il vostro oriente!
            In quel momento mi sentii preso da vivo desiderio di chiedere spiegazioni di più cose e di interrogare chi fossero quelle persone colà raccolte e in quale luogo io mi trovassi. Ma dissi fra me: – Prima di parlare bisogna
che osservi qual gente sia questa! E volsi curiosamente lo sguardo attorno. Se non che tutti quei personaggi mi erano sconosciuti. Essi intanto, come se in quel momento soltanto mi avessero veduto, mi invitarono a farmi innanzi e mi accolsero con bontà.
            Io chiesi allora:
            – Ditemi, di grazia! Siamo a Torino, a Londra, a Madrid, a Parigi? Ove siamo? E voi chi siete? Con chi ho il piacere di parlare? Ma tutti quei personaggi rispondevano vagamente sempre discorrendo delle missioni.
            In quel mentre si avvicinò a me un giovane in sui sedici anni, amabile per sovrumana bellezza e tutto raggiante di viva luce più chiara di quella del sole. Il suo vestito era intessuto con celestiale ricchezza e il suo capo era cinto di un berretto a foggia di corona, tempestato di brillantissime pietre preziose. Fissandomi con sguardo benevolo, mi dimostrava un interesse speciale. Il suo sorriso esprimeva un affetto di irresistibile attraenza. Mi chiamò per nome, mi prese per mano ed incominciò a parlarmi della Congregazione Salesiana.
            Io ero incantato al suono di quella voce. Ad un certo punto l’interruppi:
            – Con chi ho l’onore di parlare? Favoritemi il vostro nome? E quel giovane:
            – Non dubitate! Parlate pure con piena confidenza, che siete con un amico.
            – Ma il vostro nome?
            – Ve lo direi il mio nome, se ciò facesse di bisogno; ma non occorre, poiché mi dovete conoscere.
            Così dicendo sorrideva.
            Fissai meglio quella fisionomia cinta di luce. Oh quanto era bella! E riconobbi allora in lui il figlio del Conte Fiorito Colle di Tolone, insigne benefattore della nostra Casa e specialmente delle nostre Missioni Americane. Questo giovinetto era morto poco tempo prima.
            – Oh! voi? dissi io chiamandolo per nome. Luigi! E tutti costoro chi sono?
            – Sono amici dei vostri Salesiani, ed io come amico vostro e dei Salesiani, a – nome di Dio, vorrei darvi un po’ di lavoro.
            – Vediamo di che si tratta. Quale è questo lavoro?
            – Mettetevi qui a questa tavola e poi tirate giù questa corda.
            In mezzo a quella gran sala vi era un tavolo, sul quale stava aggomitolata una corda, e questa corda vidi che era segnata come il metro, con linee e numeri. Più tardi mi accorsi eziandio come quella sala fosse posta nell’America del Sud, proprio sulla linea dell’Equatore, e come i numeri stampati sulla corda corrispondessero ai gradi geografici di latitudine. Io presi adunque l’estremità di quella corda, la guardai e vidi che sul principio aveva segnato il numero zero.
            Io rideva. E quell’angelico giovinetto:
            – Non è tempo di ridere, mi disse. Osservate! che cosa sta scritto sopra la corda?
            – Numero zero.
            – Tirate un poco!
            Tirai alquanto la corda, ed ecco il numero 1.
            – Tirate ancora e fate un gran rotolo di quella corda.
            Tirai e venne fuori il numero 2, 3, 4, fino al 20.
            – Basta? dissi io.
            – No; più in su; più in su! Andate finché troverete un nodo! rispose quel giovanetto.
            Tirai fino al numero 47, dove trovai un grosso nodo. Da questo punto la corda continuava ancora ma divisa in tante cordicelle che si sparpagliavano ad oriente, ad occidente, a mezzodì.
            – Basta? replicai.
            – Che numero è? interrogò quel giovane. È il numero 47. 47 Più 3 quanto fa? 50! E più 5? 55! Notate; cinquantacinque.
            E poi mi disse:
            – Tirate ancora.
            – Sono alla fine! io risposi.
            – Ora dunque voltatevi indietro e tirate la corda dall’altra parte. Tirai la fune dalla parte opposta, fino al numero 10.
            Quel giovane replicò:
            – Tirate ancora!
            – C’è più niente!
            – Come! C’è più niente? Osservate ancora! Che cosa c’è?
            – C’è dell’acqua, risposi.
            Infatti in quell’istante si operava in me un fenomeno straordinario, quale non è possibile descrivere. Io mi trovava in quella stanza, tirava quella corda e nello stesso tempo si svolgeva sotto i miei occhi come un panorama di un paese immenso, che io dominava quasi a volo d’uccello e che si stendeva collo stendersi della corda.
            Dal primo zero al numero 55 era una terra sterminata che dopo uno stretto di mare, in fondo si frastagliava in cento isole di cui una assai maggiore delle altre. A queste isole pareva alludessero le cordicelle sparpagliate che partivano dal gran nodo. Ogni cordicella faceva capo ad un’isola. Alcune di queste erano abitate da indigeni abbastanza numerosi; altre sterili, nude, rocciose, disabitate; altre tutte coperte di neve e ghiaccio. Ad occidente gruppi numerosi di isole, abitate da molti selvaggi. [Pare che il nodo posto sul numero o grado 47 figurasse il luogo di partenza, il centro Salesiano, la missione principale donde i missionari nostri si diramavano alle isole Malvine, alla Terra del fuoco e alle altre isole di quei paesi dell’America].
            Dalla parte opposta poi, cioè dallo zero al 10 continuava la stessa terra e finiva in quell’acqua da me vista per l’ultima cosa. Mi parve essere quell’acqua il mare delle Antille, che vedeva allora in un modo così sorprendente, da non essere possibile che io spieghi a parole quel modo di vedere.
            Or dunque avendo io risposto:
            – C’è dell’acqua! – quel giovanetto rispose:
            – Ora mettete insieme 55 più 10. A che cosa è eguale?
            Ed io:
            – Somma 65.
            – Ora mettete tutto insieme e ne farete una corda sola.
            – E poi?
            – Da questa parte che cosa c’è? – E mi accennava un punto sul panorama.
            – All’occidente vedo altissime montagne, e all’oriente c’è il mare!
            [Noto qui che allora io vedeva in compendio, come in miniatura tutto ciò che poi vidi, come dirò, nella sua reale grandezza ed estensione, e i gradi segnati dalla corda corrispondenti con esattezza ai gradi geografici di latitudine, furono quelli che mi permisero di ritenere a memoria per vari anni i successivi punti che visitai viaggiando nella seconda parte di questo stesso sogno].
            Il giovane mio amico proseguiva:
            – Or bene: queste montagne sono come una sponda, un confine. Fin qui, fin là è la messe offerta ai Salesiani. Sono migliaia e milioni di abitanti che attendono il vostro aiuto, attendono la fede.
            Queste montagne erano le Cordigliere dell’America del Sud e quel mare l’Oceano Atlantico.
            – E come fare? io ripresi; come riusciremo a condurre tanti popoli all’ovile di Gesù Cristo?
            – Come fare? Guardate!
            Ed ecco giungere Don Lago [don Angelo Lago, segretario particolare di Don Rua, morto in concetto di santità nel 1914] il quale portava un canestro di fichi piccoli e verdi: e mi disse:
            – Prenda, Don Bosco!
            – Che cosa mi porti? risposi io guardando ciò che conteneva il canestro.
            – Mi hanno detto di portarli a lei.
            – Ma questi fichi non sono buoni da mangiare; non sono maturi.
            Allora il mio giovane amico prese quel canestro, che era molto largo, ma aveva poco fondo e me lo presentava, dicendo:
            – Ecco il regalo che vi fo!
            – E che cosa debbo fare di questi fichi?
            – Questi fichi sono immaturi, ma appartengono al gran fico della vita. E voi cercate il modo di farli maturare.
            – E come? Se fossero più grossi!… potrebbero farsi maturare colla paglia, come si usa cogli altri frutti; ma così piccoli… così verdi… È cosa impossibile.
            – Anzi sappiate che per farli maturare, bisogna che facciate in modo che tutti questi fichi siano di nuovo attaccati alla pianta.
            – Cosa incredibile! E come fare?
            – Guardate!
            E prese uno di quei fichi e lo mise a bagno in un vasetto di sangue; poscia lo immerse in un altro vasetto pieno di acqua, e disse:
            – Col sudore e col sangue i selvaggi ritorneranno ad essere attaccati alla pianta e ad essere gradevoli al padrone della vita.
            Io pensava: Ma per ciò conseguire ci vuol tempo. E quindi ad alta voce esclamai:
            – Io non so più che cosa rispondere.
            Ma quel caro giovane, leggendo ne’ miei pensieri, proseguì:
            – Questo avvenimento sarà ottenuto prima che sia compiuta la seconda generazione.
            – E quale sarà la seconda generazione?
            – Questa presente non si conta. Sarà un’altra e poi un’altra.
            Io parlava confuso, imbrogliato e quasi balbettando nell’ascoltare i magnifici destini che son preparati per la nostra Congregazione, e domandai:
            – Ma ognuna di queste generazioni quanti anni comprende?
            – Sessanta anni!
            – E dopo?
            – Volete vedere quello che sarà? Venite!
            E senza saper come, mi trovai ad una stazione di ferrovia. Quivi era radunata molta gente. Salimmo sul treno. Io domandai ove fossimo. Quel giovane rispose:
            – Notate bene! Guardate! Noi andiamo in viaggio lungo le Cordigliere. Avete la strada aperta anche all’Oriente fino al mare. É un altro dono del Signore.
            – E a Boston, dove ci attendono, quando andremo?
            – Ogni cosa a suo tempo.
            Così dicendo trasse fuori una carta ove in grande era rilevata la diocesi di Cartagena. [Era questo il punto di partenza].
            Mentre io guardava quella carta, la macchina mandò il fischio e il treno si mise in moto. Viaggiando, il mio amico parlava molto, ma io per il rumore del convoglio non poteva capirlo interamente. Tuttavia imparai cose bellissime e nuove sull’astronomia, sulla nautica, sulla meteorologia, sulla mineralogia, sulla fauna, sulla flora, sulla topografia di quelle contrade, che esso mi spiegava con meravigliosa precisione. Condiva frattanto le sue parole con una contegnosa e nello stesso tempo con una tenera famigliarità, che dimostrava quanto mi amasse. Fin dal principio mi aveva preso per mano e mi tenne sempre così affettuosamente stretto fino alla fine del sogno. Io portava talora l’altra mia mano libera sulla sua, ma questa sembrava sfuggire di sotto alla mia quasi svaporasse e la mia sinistra stringeva solamente la mia destra. Il giovinetto sorrideva al mio inutile tentativo.
            Io frattanto guardava dai finestrini del carrozzone e mi vedeva sfuggire innanzi svariate, ma stupende regioni. Boschi, montagne, pianure, fiumi lunghissimi e maestosi che io non credeva così grandi in regioni tanto distanti dalle foci. Per più di mille miglia abbiamo costeggiato il lembo di una foresta vergine, oggi giorno ancora inesplorata. Il mio sguardo acquistava una potenza visiva meravigliosa. Non aveva ostacoli per spingersi su quelle regioni. Non so spiegare come accadesse nei miei occhi questo sorprendente fenomeno. Io era come chi, sovra una collina, vedendo distesa ai suoi piedi una grande regione, se pone innanzi agli occhi a piccola distanza un listello anche stretto di carta, più nulla vede o ben poco: che se toglie quel listello o solo lo alza o abbassa alquanto, ecco che la sua vista può estendersi fino allo estremo orizzonte. Così successe a me per quella straordinaria intuizione acquisita; ma con questa differenza; di mano in mano che io fissavo un punto, e questo punto mi passava innanzi, era come un successivo alzarsi di singoli sipari ed io vedeva a sterminate incalcolabili distanze. Non solo vedeva le Cordigliere eziandio quando ne era lontano, ma anche le catene di montagne, isolate in quei piani immensurabili, erano da me contemplate con ogni loro più piccolo accidente. [Quelle della Nuova Granata, di Venezuela, delle tre Guyane; quelle del Brasile, e della Bolivia, fino agli ultimi confini].
            Potei quindi verificare la giustezza di quelle frasi udite al principio del sogno nella gran sala posta sul grado zero. Io vedeva nelle viscere delle montagne e nelle profonde latebre delle pianure. Aveva sott’occhio le ricchezze incomparabili di questi paesi che un giorno verranno scoperte. Vedeva miniere numerose di metalli preziosi, cave inesauribili di carbon fossile, depositi di petrolio così abbondanti quali mai finora si trovarono in altri luoghi. Ma ciò non era tutto. Tra il grado 15 e il 20 vi era un seno assai largo e assai lungo che partiva da un punto ove si formava un lago. Allora una voce disse ripetutamente:
            – Quando si verranno a scavare le miniere nascoste in mezzo a questi monti, apparirà qui la terra promessa fluente latte e miele. Sarà una ricchezza inconcepibile.
            Ma ciò non era tutto. Quello che maggiormente mi sorprese fu il vedere in vari siti le Cordigliere che rientrando in sé stesse formavano vallate, delle quali i presenti geografi neppur sospettano l’esistenza, immaginandosi che in quelle parti le falde delle montagne siano come una specie di muro diritto. In questi seni e in queste valli che talora si stendevano fino a mille chilometri, abitavano folte popolazioni non ancor venute a contatto cogli Europei, nazioni ancora pienamente sconosciute.
            Il convoglio intanto continuava a correre e va e va, e gira di qua e gira di là, finalmente si fermò. Quivi discese una gran parte di viaggiatori, che passava sotto le Cordigliere, andando verso occidente.
            [D. Bosco accennò la Bolivia. La stazione era forse La Paz ove una galleria aprendo passaggio al littorale del Pacifico può mettere in comunicazione il Brasile con Lima per mezzo di un’altra linea di via ferrata].
            Il treno di bel nuovo si rimise in moto, andando sempre avanti. Come nella prima parte del viaggio attraversavamo foreste, penetravamo in gallerie, passavamo sovra giganteschi viadotti, ci internavamo fra gole di montagne, costeggiavamo laghi e paludi su ponti, valicavamo fiumi larghi, correvamo in mezzo a praterie ed a pianure. Siamo passati sulle sponde dell’Uruguay. Mi pensava che fosse fiume di poco corso, ma invece è lunghissimo. In un punto vidi il fiume Paranà che si avvicinava all’Uruguay, come se andasse a portargli il tributo delle sue acque, ma invece dopo essere corso per un tratto quasi parallelamente, se ne allontanava facendo un largo gomito. Tutti e due questi fiumi erano larghissimi [Arguendo da questi pochi dati sembra che questa futura linea di ferrovia partendo da La – Paz, toccherà Santa – Cruz, passerà per l’unica apertura che è nei monti Cruz della Sierra ed è attraversata dal fiume Guapay; valicherà il fiume Parapiti nella provincia Chiquitos della Bolivia; taglierà l’estremo lembo nord della Repubblica del Paraguay; entrerà nella provincia di S. Paolo nel Brasile e di qui farà capo a Rio Janeiro. Da una stazione intermedia nella provincia di S. Paolo partirà forse la linea ferroviaria che passando tra il Rio Paranà e il Rio Uruguay congiungerà la capitale del Brasile colla Repubblica dell’Uruguay e colla Repubblica Argentina].
            E il treno andava sempre in giù, e gira da una parte e gira da un’altra, dopo un lungo spazio di tempo si fermò la seconda volta. Quivi molta altra gente scese dal convoglio e passava essa pure sotto le Cordigliere andando verso occidente. [Don Bosco indicò nella Repubblica Argentina la provincia di Mendoza. Quindi la stazione era forse Mendoza e quella galleria metteva a Santiago capitale della Repubblica del Chile].
            Il treno riprese la sua corsa attraverso le Pampas e la Patagonia. I campi coltivati e le case sparse qua e là indicavano che la civiltà prendeva possesso di quei deserti.
            Sul principio della Patagonia passammo una diramazione del Rio Colorado ovvero del Rio Chubut [o forse del Rio Negro?]. Non poteva vedere la sua corrente da qual parte andasse, se verso le Cordigliere ovvero verso l’Atlantico. Cercava di sciogliere questo mio problema, ma non poteva orizzontarmi.
            Finalmente giungemmo allo stretto di Magellano. Io guardava. Scendemmo. Aveva innanzi Punt’Arenas. Il suolo per varie miglia era tutto ingombro di depositi di carbon fossile, di tavole, di travi, di legna, di mucchi immensi di metallo, parte greggio, parte lavorato. Lunghe file di vagoni per mercanzie stavano sui binari.
            Il mio amico mi accennò a tutte queste cose. Allora domandai:
            – E adesso che cosa vuoi dire con questo?
            Mi rispose:
            – Ciò che adesso è in progetto, un giorno sarà realtà. Questi selvaggi in futuro saranno così docili da venire essi stessi per ricevere istruzione, religione, civiltà e commercio. Ciò che altrove desta meraviglia, qui sarà tale meraviglia da superare quanto ora reca stupore in tutti gli altri popoli.
            – Ho visto abbastanza, io conclusi; ora conducetemi a vedere i miei Salesiani in Patagonia.
            Ritornammo alla stazione e risalimmo sul treno per ritornare. Dopo aver percorso un lunghissimo tratto di via, la macchina si fermò innanzi ad un borgo considerevole. [Posto forse sul grado 47 ove sul principio del sogno aveva visto quel grosso nodo della corda]. Alla stazione non vi era alcuno ad aspettarmi. Discesi dal vapore e trovai subito i Salesiani. Ivi erano molte case con abitanti in gran numero; più chiese, scuole, vari ospizi di giovanetti e adulti, artigiani e coltivatori, ed un educatorio di figlie che si occupavano in svariati lavori domestici. I nostri missionari guidavano insieme giovinetti ed adulti.
            Io andai in mezzo a loro. Erano molti, ma io non li conosceva e fra loro non vi era alcuno degli antichi miei figli. Tutti mi guardavano stupiti, come se fossi persona nuova, ed io diceva loro:
            – Non mi conoscete? Non conoscete voi Don Bosco?
            – Oh Don Bosco! Noi lo conosciamo di fama, ma l’abbiamo visto solamente nei ritratti! Di persona, no, certo!
            – E Don Fagnano, Don Costamagna, Don Lasagna, Don Milanesio, dove sono essi?
            – Noi non li abbiamo conosciuti. Sono coloro che vennero qui una volta nei tempi passati: i primi Salesiani che arrivarono in questi paesi dall’Europa. Ma oramai scorsero tanti anni da che sono morti!
            A questa risposta io pensavo meravigliato: – Ma questo è un sogno ovvero una realtà? E batteva le mani una contro dell’altra, mi toccava le braccia, e mi scuoteva, mentre realmente udiva il suono delle mie mani e sentiva me stesso e mi persuadeva di non essere addormentato.
            Questa visita fu cosa di un istante. Visto il meraviglioso progresso della Chiesa Cattolica, della nostra Congregazione e della civiltà in quelle regioni, io ringraziava la Divina Provvidenza che si fosse degnata di servirsi di me come istrumento della sua gloria e della salute di tante anime.
            Il giovinetto Colle frattanto mi fece segno, che era tempo di ritornare indietro: quindi, salutati i miei Salesiani, ritornammo alla stazione, ove il convoglio era pronto per la partenza. Risalimmo, fischiò la macchina, e via verso il nord.
            Mi cagionò meraviglia una novità che mi cadde sotto gli occhi. Il territorio della Patagonia nella parte più vicina allo stretto di Magellano, tra le Cordigliere e il mare Atlantico, era meno largo di quello che si crede comunemente dai geografi.
            Il treno si avanzava nella sua corsa velocissima e mi parve che percorresse le provincie, che ora sono già civilizzate nella Repubblica Argentina.
            Procedendo entrammo in una foresta vergine, larghissima, lunghissima, interminabile. Ad un certo punto la macchina si fermò e sotto gli occhi nostri apparve un doloroso spettacolo. Una turba grandissima di selvaggi stava radunata in uno spazio sgombro in mezzo alla foresta. I loro volti erano deformi e schifosi; le loro persone vestite, come sembrava, di pelli d’animali cucite insieme. Circondavano un uomo legato che stava seduto sopra una pietra. Esso era molto grasso; perché i selvaggi lo avevano fatto a bello studio ingrassare. Quel poveretto era stato fatto prigioniero e sembrava appartenesse ad una nazione straniera dalla maggiore regolarità dei suoi lineamenti. Le turbe dei selvaggi lo interrogavano ed esso rispondeva narrando le varie avventure, che gli erano occorse nei suoi viaggi. A un tratto un selvaggio si alza e brandendo un grosso ferro che non era spada, ma però molto affilato, si slancia sul prigioniero e con un colpo solo gli tronca il capo. Tutti i viaggiatori del convoglio stavano agli sportelli e alle finestrine dei vagoni attenti e muti per l’orrore. Lo stesso Colle guardava e taceva. La vittima aveva mandato un grido straziante nell’atto che era colpita. Sul cadavere che giaceva in un lago di sangue si slanciarono allora quei cannibali e fattolo a pezzi, posero le carni ancora calde e palpitatiti sovra fuochi appositamente accesi e, fattele arrostire alquanto, così mezze crude le divorarono. Al grido di quel disgraziato la macchina si era messa in moto e a poco a poco riprese la sua vertiginosa velocità.
            Per lunghissime ore si avanzò sulle sponde di un fiume larghissimo. E ora il treno correva sulla sponda destra ed ora sulla sinistra di questo. Io non feci caso dal finestrino, su quali ponti facessimo questi frequenti tragitti. Intanto su quelle rive comparivano di tratto in tratto numerose tribù di selvaggi. Tutte le volte che vedevamo queste turbe il giovanetto Colle andava ripetendo:
            – Ecco la messe dei Salesiani! Ecco la messe dei Salesiani!
            Entrammo poscia in una regione piena di animali feroci e di rettili velenosi, di forme strane ed orribili. Ne formicolavano le falde dei monti, i seni delle colline; i poggerelli da questi monti e da questi colli ombreggiati, le rive dei laghi, le sponde dei fiumi, le pianure, i declivi, le ripe. Gli uni sembravano cani che avessero le ali ed erano panciuti straordinariamente [gola, lussuria, superbia]. Gli altri erano rospi grossissimi che mangiavano rane. Si vedevano certi ripostigli pieni di animali, diversi di forma dai nostri. Queste tre specie d’animali erano mischiate insieme e grugnivano sordamente come se volessero mordersi. Si vedevano pure tigri, iene, leoni, ma di forma diversa dalle specie dell’Asia e dell’Africa. Il mio compagno mi rivolse eziandio qui la parola e, accennandomi quelle belve, esclamò:
            – I Salesiani le mansueferanno.
            Il treno intanto si avvicinava al luogo della prima partenza e ne eravamo poco lontani. Il giovane Colle trasse allora fuori una carta topografica di una bellezza stupenda e mi disse:
            – Volete vedere il viaggio che avete fatto? Le regioni da noi percorse?
            – Volentieri! risposi io.
            Esso allora spiegò quella carta nella quale era disegnata con esattezza meravigliosa tutta l’America del Sud. Di più ancora, ivi era rappresentato tutto ciò che fu, tutto ciò che è, tutto ciò che sarà in quelle regioni, ma senza confusione, anzi con una lucidezza tale che con un colpo d’occhio si vedeva tutto. Io compresi subito ogni cosa, ma per la molteplicità di quelle circostanze, simile chiarezza mi durò per brev’ora e adesso nella mia mente si è formata una piena confusione.
            Mentre io osservava quella carta aspettando che il giovanetto aggiungesse qualche spiegazione, essendo io tutto agitato per la sorpresa di ciò che avevo sott’occhi, mi sembrò che Quirino (santo coadiutore, matematico, poliglotta e campanaro) suonasse l’Ave Maria dell’alba; ma, svegliatomi, mi accorsi che erano i tocchi delle campane della parrocchia di S. Benigno. Il sogno aveva durato tutta la notte.

            Don Bosco pose termine al suo racconto con queste parole:
            – Con la dolcezza di S. Francesco di Sales i Salesiani tireranno a Gesù Cristo le popolazioni dell’America. Sarà cosa difficilissima moralizzare i selvaggi; ma i loro figli obbediranno con tutta facilità alle parole dei Missionari e con essi si fonderanno colonie, la civiltà prenderà il posto della barbarie e così molti selvaggi verranno a far parte dell’ovile di Gesù Cristo.
(MB XVI, 385-394)




Il nostro annuale regalo

Tradizionalmente come Famiglia Salesiana riceviamo ogni anno la Strenna; un regalo di inizio anno, ed in queste poche righe mi è caro guardare dentro a questo dono per accoglierlo come merita, senza perder nulla della freschezza del dono.

Un dono, perché prima di tutto, strenna vuol dire: ti faccio un regalo! Ti regalo una cosa importante per celebrare un tempo nuovo, un anno nuovo. Così la pensò don Bosco e la consegnò a tutti i giovani e gli adulti che stavano con lui.
Questo dono, la strenna, voglio consegnartela per l’inizio dell’anno nuovo, di un tempo nuovo.
Bello ed importante questo: un anno nuovo, un tempo nuovo è un contenitore in cui staranno tutti gli altri contenuti. L’anno che verrà non è uguale a quelli che hai vissuto fin ora, l’anno nuovo necessita uno sguardo nuovo per viverlo in pienezza; perché l’anno nuovo non tornerà! Ogni tempo è unico perché noi siamo diversi dallo scorso anno, da come eravamo l’anno scorso.
La Strenna è prepararsi a questo tempo nuovo, cominciando a guardare dentro a questo nuovo anno, mettendo in luce alcune cose che di questo anno saranno parte importante.

Il filo rosso
Il dono del tempo, della vita; nella vita il dono di Dio e tutti gli altri doni dentro: persone situazioni, occasioni, relazioni umane. Dentro questo provvidenziale modo di vedere il dono del tempo e della vita la strenna, dono che Don Bosco… e dopo di lui i suoi successori fanno ogni anno a tutta la famiglia salesiana… è uno sguardo sull’anno nuovo, sul tempo nuovo, per vederlo con occhi nuovi.
La strenna è un aiuto a vedere il tempo che verrà mettendo a fuoco un filo rosso che guida questo tempo nuovo: il filo rosso che la strenna ci dona è la Speranza. Importante anche questo! L’anno nuovo sicuramente avrà moltissime cose, ma tu non disperderti! Comincia a pensare su quanto è importante…non disperderti, raccogli!
La strenna che il nostro don Angel ci ha imbastito, come un abito nuovo, mette in luce degli eventi che tutti vivremo, e li unisce con un filo rosso, la Speranza!
Gli eventi che la strenna del 2025 mette in risalto sono eventi globali o particolari che ci coinvolgono, perché li viviamo bene:

• Il giubileo ordinario dell’anno 2025: un Giubileo è un evento di Chiesa che, nella tradizione Cattolica, il Santo Padre ci dona. Vivere il Giubileo è vivere questo pellegrinaggio che la Chiesa ci offre per rimettere al centro della nostra vita e della vita del Mondo la presenza del Cristo. Il giubileo che Papa Francesco ha un tema generatore: Spes non confundit! La Speranza non delude! Che meraviglia di tema generatore! Se di una cosa ha bisogno il Mondo in questo momento difficile è proprio la Speranza, ma non la speranza di quanto crediamo di poter fare da soli noi stessi, con il rischio che diventi una illusione. La Speranza della ri-scoperta della Presenza di Dio. Scrive Papa Francesco: “La Speranza ricolmi il cuore!” Non solo scaldi il cuore, lo riempia. Lo riempia in una misura traboccante!
• La Speranza ci rende pellegrini, il Giubileo è pellegrinaggio! Ti mette in moto dentro, altrimenti non è Giubileo. Dentro questo evento di Chiesa che ci fa sentire Chiesa noi, come Congregazione Salesiana e come Famiglia Salesiana, abbiamo un anniversario importante: nel 2025 ricorre
• il 150° della prima spedizione missionaria in Argentina
Don Bosco, a Valdocco, butta il cuore oltre ogni confine: manda i suoi figli dall’altra parte del mondo! Li manda, oltre ogni sicurezza umana, li manda quando non ha nemmeno quelli che gli servirebbero per portare avanti ciò che aveva cominciato.
Li manda e basta! Alla Speranza si obbedisce, perché la Speranza guida la Fede e mette in moto la Carità. Li manda ed i primi confratelli partono e vanno, dove nemmeno loro sapevano! Da lì siamo nati tutti noi, dalla Speranza che ci mette in cammino e ci rende pellegrini.
Questo anniversario va celebrato, come ogni anniversario, perché ci aiuta a riconoscere il Dono, (non è una tua proprietà, ti è stato dato in dono) a ricordare e a dare forza per il tempo che verrà della energia della Missione.
La Speranza fonda la Missione, perché la Speranza è una responsabilità che non puoi nascondere né tenere per te! Non tenere nascosto quanto ti è donato; riconosci il donatore e consegna con la tua vita quanto ti è stato donato alle generazioni successive! Questa è la vita della Chiesa, la vita di ciascuno di noi.
San Pietro che vedeva lungo, nella sua prima lettera scrive: “siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chieda conto della speranza che è in voi!” (1 Pt, 3,15). Dobbiamo pensare che rispondere non sono parole, è la vita che risponde!
Con la speranza che è in te, vivi e prepari questo nuovo anno che verrà, un cammino con i giovani, con i fratelli per rinnovare il Sogno di Don Bosco ed il Sogno di Dio.

Il nostro stemma
«Sul mio labaro brilla una stella» si cantava un tempo. Sul nostro stemma oltre alla stella, campeggiano una grande ancora e un cuore infiammato.
Ecco alcune immagini semplici per cominciare a muovere il nostro cuore verso il tempo che verrà, “Ancorati nella speranza, pellegrini con giovani”. Ancorati è un termine molto forte: l’ancora è la salvezza della nave nella tempesta, fermi, forti, radicati nella Speranza!
Dentro questo tema generatore ci sarà tutta la nostra vita quotidiana: persone, situazioni, decisioni…il “micro” di ognuno di noi che si salda con il “macro” di quanto tutti insieme vivremo…consegnando a Dio il dono di questo tempo che ci è donato. Perché alla Strenna che tutti riceveremo devi aggiungere la tua parte; il tuo quotidiano che saprai illuminare con quanto abbiamo scritto e riceveremo, altrimenti non è una Speranza, non è ciò su cui si fonda la tua vita e non ti mette in “movimento” rendendoti Pellegrino.
Questo cammino lo affidiamo alla Madre del Signore, Madre della Chiesa e Ausiliatrice nostra; Pellegrina di Speranza insieme a noi.




Sulle ali della speranza. Messaggio del Vicario del Rettor Maggiore

Con molta semplicità, tranquillamente e in totale continuità, rimanendo nel mio servizio di Vicario nei prossimi mesi supplirò il Rettor Maggiore portando la Congregazione a Capitolo Generale, il 29°, nel febbraio 2025.

            Cari lettori del Bollettino Salesiano, mi accingo a scrivere queste righe con trepidazione perché, essendo un lettore del Bollettino Salesiano fin da quando ero bambino nella mia famiglia, ora mi trovo in una pagina diversa a dover scrivere nel primo articolo, quello riservato al Rettor Maggiore.
Lo faccio volentieri, perché questo onore mi permette di rendere grazie a Dio per il nostro don Ángel, ora Cardinale di Santa Romana Chiesa, che ha appena terminato 10 anni di prezioso servizio alla Congregazione e alla Famiglia Salesiana, dopo la sua elezione al Capitolo Generale 27° nel 2014.
            A distanza di 10 anni da quel giorno, ora è pienamente al servizio del Santo Padre, per quanto papa Francesco gli affiderà. Noi lo portiamo nel cuore e lo accompagniamo con la preghiera riconoscente, per il bene che ci ha fatto, perché il tempo non diminuisce ma rafforza la riconoscenza. La sua storia personale è un evento storico per lui, ma anche per tutti noi.
Il suo andare via, nel senso canonico per un servizio ancora più grande alla Chiesa, è un rimanere sempre con noi e dentro di noi.

In totale continuità
            E adesso come Congregazione, e per estensione come Famiglia Salesiana, come andiamo avanti?
            Con molta semplicità, tranquillamente e in totale continuità. Il Vicario del Rettor Maggiore secondo le Costituzioni Salesiane ha anche il compito di sostituire, o supplire al Rettor Maggiore in caso di necessità. Così sarà, fino al prossimo Capitolo Generale.
            Le Costituzioni Salesiane lo dicono in modo più organico e articolato, ma il concetto fondamentale è questo. Rimanendo nel mio servizio di Vicario nei prossimi mesi supplirò il Rettor Maggiore portando la Congregazione a Capitolo Generale, il 29° nel febbraio 2025.
            Questo sì è un compito impegnativo per cui vi chiedo subito preghiere e invocazione allo Spirito Santo per esser fedeli al Signore Gesù Cristo, con il cuore di don Bosco.

Mi chiamo Stefano
            Prima di passare alle cose importanti, due parole per presentarmi: io mi chiamo Stefano, son nato a Torino da una famiglia tipica della nostra terra; figlio di un papà exallievo salesiano, che ha voluto mandarmi alla stessa scuola dove era passato lui ai suoi tempi, e di una mamma maestra, anche lei exallieva di una scuola cattolica. Da loro ho ricevuto la vita e la vita di fede, semplice e concreta. Così siamo cresciuti io e mia sorella, siamo solo due.
            I miei genitori sono già in cielo, nelle mani di Dio, e si faranno dei grandi sorrisoni a vedere le cose che capitano al loro figlio… commenteranno sicuramente: dun Bosch tenje nà man sla testa! (don Bosco tienigli una mano sulla testa!)
            Salesianamente parlando son stato sempre parte dell’Ispettoria salesiana del Piemonte Valle d’Aosta, fin a quando al CG27 mi è stato chiesto di coordinare la Regione Mediterranea (tutte le realtà Salesiane intorno al Mar Mediterraneo, sui tre continenti che vi si affacciano… ma includendo anche il Portogallo ed alcune aree dell’est Europa). Un’esperienza salesiana bellissima, che mi ha trasformato, rendendomi internazionale nel modo di vedere e sentire le cose. Il CG28 ha fatto il secondo passo, chiedendomi di diventare Vicario del Rettor Maggiore, e qui siamo! 10 anni a fianco di don Ángel imparando in questi anni a sentire il cuore del mondo, per una congregazione che è veramente diffusa su tutta la terra.

Il futuro prossimo
            Il servizio di questi mesi prossimi, fino al febbraio 2025 è quindi di accompagnare la Congregazione al prossimo Capitolo Generale, che si celebrerà a Torino Valdocco dal prossimo 16 febbraio 2025.
            Cari amici, il Capitolo Generale è il momento più alto ed importante della vita della Congregazione, in cui si raduno i rappresentanti di tutte le Ispettorie della Congregazione (stiamo parlando di più di 250 confratelli) essenzialmente per tre cose: conoscersi, pregare e riflettere per “pensare il presente ed il futuro della congregazione” ed eleggere il prossimo Rettor Maggiore e tutto il suo Consiglio. Un momento quindi molto importante che il nostro don Ángel ha indirizzato nella riflessione al tema “Appassionati di Gesù Cristo e dedicati ai giovani”. Questo tema che il Rettor Maggiore ha scelto per la congregazione si articolerà in tre aspetti diversi e complementari: la centralità di Cristo nella nostra vita personale, la consacrazione religiosa; la dimensione della nostra vocazione comunitaria, nella fraternità e nella corresponsabilità laicale a cui è affidata la missione; gli aspetti istituzionali della nostra congregazione, la verifica dell’animazione e del governo nell’accompagnare la Congregazione. Tre aspetti per un unico tema generativo.
            La nostra Congregazione ha molto bisogno di vivere questo Capitolo Generale che viene dopo tante vicende che tutti ci hanno toccato. Pensate che lo scorso Capitolo Generale è stato celebrato a ridosso della Pandemia, e proprio dal Covid è stato anticipatamente chiuso.

Costruire la Speranza
            Celebrare un Capitolo Generale è celebrare la Speranza, costruire la Speranza tramite le decisioni istituzionali e personali che consentono di proseguire il “sogno” di don Bosco, di dargli presente e futuro. Ogni persona è chiamata ad esser un sogno, nel cuore di Dio, un sogno realizzato.
            Nella tradizione salesiana, c’è quella bella frase che don Bosco disse a don Rua, richiamato a Valdocco per prendere concretamente il posto di don Bosco:
            «Hai fatto don Bosco a Mirabello. Adesso lo farai qui, all’Oratorio».
            Questo è ciò che veramente conta: «Essere don Bosco oggi» ed è il dono più grande che possiamo fare a questo mondo.




Nino, un giovane come tanti… incontra nel suo Signore lo scopo della vita

            Nino Baglieri nasce a Modica Alta il 1° maggio 1951 da mamma Giuseppa e papà Pietro. Dopo appena quattro giorni è battezzato nella Parrocchia di Sant’Antonio da Padova. Cresce come tanti ragazzi, con il gruppo di amici, qualche fatica negli anni della scuola e il sogno di un futuro fatto di lavoro e della possibilità di formarsi una famiglia.
            Pochi giorni dopo il suo diciassettesimo compleanno, festeggiato al mare con gli amici, il 6 maggio 1968, memoria liturgica di san Domenico Savio, Nino durante una giornata di ordinario lavoro come muratore cade da 17 metri di altezza quando cede l’impalcatura del palazzo – non lontano da casa – al quale stava lavorando: 17 metri, precisa Nino, nel suo Quaderno-Diario, «1 metro per ogni anno di vita». «Le mie condizioni», racconta, «erano così gravi che i medici si aspettavano il mio decesso da un momento all’altro (ricevetti addirittura l’estrema unzione). [Un medico] fece un’insolita proposta ai miei genitori: “se vostro figlio riuscisse a superare questi momenti, il che sarebbe solo frutto di un miracolo, sarebbe destinato a passare la sua vita su un letto; se voi credete, con una puntura letale, sia a voi che a lui risparmierete tante sofferenze”. “Se Dio lo vuole con sé – rispose la mamma – lo prenda, ma se lo lascia vivere sarò felice di accudirlo per tutta la vita”. Così la mia mamma, che è sempre stata una donna di grande fede e coraggio, aprì le braccia e il cuore ed abbracciò per prima la croce».
Nino affronterà anni difficili anche per il peregrinare in diversi Ospedali, dove dolorose terapie e operazioni lo proveranno duramente, non sortendo la guarigione desiderata. Resterà tetraplegico per tutta la vita.
            Ritornato a casa, seguito dall’affetto della famiglia e dal sacrificio eroico della mamma che gli è sempre accanto, Nino Baglieri ritrova gli sguardi di amici e conoscenti, ma vede in essi troppo spesso un compatire che lo disturba: “mischinu poviru Ninuzzu…” (“poveretto povero Nino…”). Finisce così per chiudersi in sé stesso, in dieci dolorosi anni di solitudine e rabbia. Sono anni di disperazione e bestemmie per la non accettazione del suo stato e di domande come: “Perché proprio a me è capitato tutto questo?”.
            La svolta arriva il 24 marzo 1978, vigilia dell’Annunciazione e – quell’anno – Venerdì Santo: un sacerdote del Rinnovamento nello Spirito Santo va a trovarlo con alcune persone ed essi pregano su di lui. La mattina Nino, sempre allettato, aveva chiesto alla mamma di vestirlo: «Se il Signore mi guarisce non sarò nudo davanti alle persone». Leggiamo dal suo Quaderno-Diario: “Padre Aldo cominciò subito la Preghiera, io ero ansioso ed emozionato, mi pose le mani sulla testa, io non capivo questo gesto; cominciò ad invocare lo Spirito Santo affinché scendesse su di me. Dopo qualche minuto, sotto l’imposizione delle mani, sentii un grande calore in tutto il corpo, un grande formicolio, come una forza nuova entrare in me, una forza rigeneratrice, una forza Viva e qualcosa di vecchio uscire. Lo Spirito Santo era sceso su di me, con potere è entrato nel mio cuore, è stata un’Effusione d’Amore e di Vita, in quell’istante ho accettato la Croce, ho detto il mio Sì a Gesù e sono rinato a Vita Nuova, sono diventato un uomo nuovo, con un cuore nuovo; tutta la disperazione di 10 anni cancellata in pochi secondi, il mio cuore è stato riempito di una gioia nuova e vera che io non avevo mai conosciuto. Il Signore mi ha guarito, io volevo la guarigione fisica ed invece il Signore ha operato qualcosa di più grande, la Guarigione dello Spirito, così ho trovato la Pace, la Gioia, la Serenità, e tanta forza e tanta voglia di vivere. Finì la preghiera, il mio cuore traboccava di gioia, i miei occhi brillavano e il mio viso era raggiante; pur restando nelle stesse condizioni di sofferente ero felice».
            Per Nino Baglieri e la sua famiglia comincia allora un nuovo periodo, un periodo di rinascita segnato in Nino dalla riscoperta della fede e dall’amore per la Parola di Dio, che egli legge per un anno di seguito. Si apre a quei rapporti umani dai quali si era sottratto senza che gli altri invece avessero mai smesso di volergli bene.
            Un giorno Nino, sollecitato da alcuni bambini che erano vicino a lui e gli chiedono aiuto per fare un disegno, si accorge di avere il dono di scrivere con la bocca: in breve tempo sarà in grado di scrivere molto bene – meglio di come quando scrivesse a mano – e questo gli permette di oggettivare il proprio vissuto, sia nella forma personalissima di numerosi Quaderni-Diario, sia attraverso poesie / brevi componimenti che inizierà a leggere alla Radio. Arriveranno poi, con il dilatarsi della rete relazionale, migliaia di lettere, amicizie, incontri…, attraverso i quali Nino espliciterà una particolare forma di apostolato, sino al termine della vita.
Approfondisce intanto il cammino spirituale attraverso tre direttrici, che ritmano la sua esperienza ecclesiale, dentro l’obbedienza agli incontri che Dio mette sul suo cammino: la vicinanza al Rinnovamento nello Spirito Santo; il legame con la realtà dei Camilliani (Ministri degli Infermi); il cammino con i Salesiani, diventando dapprima Salesiano Cooperatore e poi consacrato laico nell’Istituto Secolare dei Volontari con Don Bosco (interpellato dai delegati del Rettor Maggiore, dà anche un contributo nella stesura del Progetto di vita dei CDB). Saranno i Camilliani per primi a proporgli una forma di consacrazione: essa, umanamente parlando, sembrava intercettare lo specifico della sua esistenza, segnata dalla sofferenza. Il posto di Nino però è a casa di Don Bosco ed egli lo scopre nel tempo, non senza momenti di fatica, sempre però affidandosi a chi lo guida e imparando a confrontare i propri desideri con le modalità attraverso cui la Chiesa chiama. E mentre Nino percorre le tappe di formazione e consacrazione (fino alla professione perpetua, il 31 agosto 2004), sono tante le vocazioni – anche al sacerdozio e alla vita consacrata femminile – che da lui traggono ispirazione, forza, luce.
            Il responsabile Mondiale dei “CDB” così si esprime sul senso della consacrazione laicale oggi, vissuta anche da Nino: «Nino Baglieri è stato per noi Volontari Con Don Bosco un dono speciale del cielo: è il primo di noi fratelli che ci mostra un cammino di santità attraverso una testimonianza umile, discreta, gioiosa. Nino ha realizzato in pienezza la vocazione alla secolarità consacrata salesiana e ci insegna che la santità è possibile in ogni condizione di vita, anche quelle segnate dall’incontro con la croce e la sofferenza. Nino ci ricorda che tutti possiamo vincere in Colui che ci dà forza: la Croce che lui ha tanto amato, come uno sposo fedele, è stata il ponte attraverso cui ha unito la sua storia personale di uomo con la storia della salvezza; è stata l’altare su cui ha celebrato il suo sacrificio di lode al Signore della vita; è stata la scala per il paradiso. Animati dal suo esempio anche noi, come Nino, possiamo diventare capaci di trasformare come lievito buono tutte le realtà quotidiane, certi di trovare in lui un modello e un potente intercessore presso Dio».
            Nino, che non può muoversi, è Nino che nel tempo apprende a non scappare, a non sottrarsi alle richieste e diventa sempre più accessibile e semplice come il suo Signore. Il suo letto, la sua stanzetta o la sedia a rotelle si trasfigurano così in quell’“altare” dove tanti portano gioie e dolori: egli le accoglie, si offre e offre le proprie sofferenze per essi. Nino “che sta” è l’amico sul quale si possono “scaricare” tante preoccupazioni e “deporre” i pesi: lui accoglie col sorriso, anche se alla sua vita – custoditi nel riserbo – non mancheranno momenti di grande prova morale e spirituale.
            Nelle lettere, negli incontri, nelle amicizie attesta grande realismo e sa essere sempre vero, riconoscendo la propria piccolezza ma anche la grandezza del dono di Dio in lui e attraverso di lui.
            Durante un incontro con i giovani a Loreto, alla presenza del Card. Angelo Comastri, dirà: «Se qualcuno di voi è in peccato mortale, sta molto peggio di me!»: è la consapevolezza, tutta salesiana, che è meglio “la morte, ma non i peccati”, e che veri amici devono essere Gesù e Maria, da cui non separarsi mai.
            Il Vescovo della diocesi di Noto, Mons. Salvatore Rumeo, sottolinea che «la divina avventura di Nino Baglieri ricorda a tutti noi che la santità è possibile e non appartiene ai secoli passati: la santità è la via per raggiungere il Cuore di Dio. Nella vita cristiana non ci sono altre soluzioni. Abbracciare la Croce vuol dire stare con Gesù nella stagione della sofferenza per partecipare alla Sua Luce. E Nino è nella luce di Dio».
            Nino è nato al Cielo il 2 marzo 2007, dopo aver ininterrottamente festeggiato dal 1982 il 6 maggio (giorno della caduta) quale “anniversario della Croce”.
            Dopo la morte, viene vestito con la tuta e le scarpe da ginnastica, affinché, come aveva detto, «nel mio ultimo viaggio verso Dio, potrò corrergli incontro».
            Don Giovanni d’Andrea, ispettore dei Salesiani di Sicilia ci invita così a «… conoscere sempre meglio e sempre più la persona di Nino ed il suo messaggio di speranza. Anche noi come Nino vogliamo indossare “tuta e scarpette” e “correre” sulla strada della santità che vuol dire realizzare il Sogno di Dio per ciascuno di noi, un Sogno che ognuno di noi è: l’essere “felici nel tempo e nell’eternità”, come don Bosco scrisse nella sua Lettera da Roma, il 10 maggio 1884».
            Nel suo testamento spirituale Nino ci esorta a «non lasciarlo senza far nulla»: la sua Causa di Beatificazione e Canonizzazione è, ora, lo strumento, messo a disposizione dalla Chiesa per imparare a conoscerlo e ad amarlo sempre più, a incontrarlo come amico ed esempio nella sequela di Gesù, a rivolgersi a lui nella preghiera, chiedendogli quelle grazie che sono arrivate già numerosissime.
            «La testimonianza di Nino – auspica il Postulatore Generale don Pierluigi Cameroni sdb – sia segno di speranza per quanti sono nella prova e nel dolore, e per le nuove generazioni, perché possano imparare ad affrontare la vita con fede e coraggio, senza scoraggiarsi e abbattersi. Nino ci sorride e ci sostiene perché, come lui, possiamo fare la nostra “corsa” verso la gioia del cielo».
            Infine il vescovo Rumeo, al termine della Sessione di chiusura dell’Inchiesta diocesana, ha detto: «È una gioia grande aver raggiunto questo traguardo per Nino e soprattutto per la Chiesa di Noto, dobbiamo pregare Nino, bisogna intensificare la preghiera, dobbiamo chiedere qualche grazia a Nino perché possa intercedere dal cielo. È un invito a noi a camminare sulla via della santità. Quella della santità è un’arte difficile perché il cuore della santità è il Vangelo. Essere santi significa accogliere la parola del Signore: a chi ti percuote la guancia, porgi anche l’altra, a chi ti chiede il mantello offri anche la tunica. Questa è la santità! […] In un mondo dove prevale l’individualismo dobbiamo scegliere come intendere la vita: o scegliamo la ricompensa degli uomini, o riceviamo la ricompensa di Dio. Lo ha detto Gesù, lui è venuto e rimane segno di contraddizione perché è lo spartiacque, l’anno zero. La venuta di Cristo diventa l’ago della bilancia: o con lui, o contro di lui. Amare e amarci e il claim che deve guidare la nostra esistenza».

Roberto Chiaramonte




Canillitas. Minorenni lavoratori nella Repubblica Dominicana (video)

Il lavoro minorile non è una realtà del passato, purtroppo. Nel mondo ci sono ancora circa 160 milioni di ragazzi che lavorano, e quasi la metà di loro sono impiegati in varie forme di lavoro a rischio; alcuni di loro iniziano a lavorare a 5 anni! Questo fatto li allontana dall’istruzione e ha gravi conseguenze negative sullo sviluppo cognitivo, volitivo, emotivo e sociale, incidendo sulla salute e sulla qualità della loro vita.

Prima di parlare del lavoro minorile, bisogna riconoscere che non tutti i lavori svolti dai minori si possono classificare come tali. La partecipazione dei ragazzi a certe attività familiari, scolastiche o sociali che non ostacolano la loro scolarizzazione, non solo non danneggia la loro salute e il loro sviluppo, ma risulta proficua. Tali attività fanno parte dell’educazione integrale, aiutano i ragazzi ad apprendere delle abilità molto utili nella loro vita e li preparano alle responsabilità.

La definizione di lavoro minorile fatta dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro è l’attività lavorativa che priva i bambini della loro infanzia, del loro potenziale e della loro dignità e che è dannosa per il loro sviluppo fisico e psicologico. Si tratta di lavori in strada, nelle fabbriche, nelle miniere, con lunghe ore di lavoro che tante volte privano anche del riposo necessario. Sono lavori che fisicamente, mentalmente, socialmente o moralmente sono rischiosi o dannosi per i ragazzi, e che interferiscono con la loro scolarizzazione privandoli dell’opportunità di andare a scuola, costringendoli ad abbandonare la scuola prima del tempo o obbligandoli a cercare di conciliare la frequenza scolastica con lunghe ore di duro lavoro.
È una definizione di lavoro minorile non condivisa da tutti i paesi. Però ci sono dei parametri che la possono definire: l’età, la difficoltà o pericolosità del lavoro, il numero di ore lavorate, le condizioni in cui viene svolto il lavoro e anche il livello di sviluppo del paese. Quanto all’età, è comunemente accettato che non si deve lavorare sotto i 12 anni: le norme internazionali parlano di età minima per l’ammissione al lavoro, cioè non inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo.

Le statistiche recenti parlano di circa 160 milioni di ragazzi che lavorano, e questa cifra nella realtà può essere sensibilmente più alta, dato che è difficile calcolare la situazione reale. Concretamente, un ragazzo su 10 nel mondo è vittima del lavoro minorile. E bisogna tener presente che questa statistica comprende anche lavori degradanti – se si possono chiamare lavori – come il reclutamento forzato nei conflitti armati, la schiavitù o lo sfruttamento sessuale. Ed è preoccupante il fatto che le statistiche indichino che oggi ci sono 8 milioni i ragazzi in più che lavorano rispetto al 2016, e che questo aumento si riscontri soprattutto nei ragazzi tra i 5 e gli 11 anni. Le organizzazioni internazionali avvertono che se la tendenza continuerà così, il numero di bambini impiegati nel lavoro minorile potrebbe aumentare di 46 milioni nei prossimi anni, se non verranno adottate adeguate misure di protezione sociale.

La causa del lavoro minorile è soprattutto la povertà, ma lo sono anche il mancato accesso all’istruzione e la vulnerabilità nel caso dei ragazzi orfani o abbandonati.
Questi lavori nella stragrande maggioranza dei casi comportano anche delle conseguenze fisiche (malattie e patologie croniche, mutilazioni), psicologiche (da abusati, i ragazzi diventano abusatori, dopo aver vissuto in ambienti ostili e violenti diventano a loro volta ostili e violenti, sviluppano bassa autostima e mancanza di speranza per il futuro) e sociali (corruzione dei costumi, alcool, droga, prostituzione, infrazioni).

Non è un fenomeno nuovo, è accaduto anche ai tempi di don Bosco quando tanti ragazzi, spinti dalla povertà, cercavano nelle grandi città espedienti per la sopravvivenza. La risposta del santo è stata quella di accoglierli, assicurare loro vito e alloggio, alfabetizzare, istruire, trovare un lavoro degno e fare sentire a quei ragazzi abbandonati che erano parte di una famiglia.
Anche oggi questi ragazzi mostrano grande insicurezza e sfiducia, sono malnutriti e con gravi carenze emotive. Anche oggi bisogna cercarli, incontrarli, offrendo loro gradualmente ciò che amano per dare loro finalmente ciò di cui hanno bisogno: una casa, un’istruzione, un ambiente familiare e in prospettiva nel futuro un degno lavoro.
Si cerca di conoscere la situazione particolare di ognuno di loro, si va alla ricerca dei famigliari per reinserire i ragazzi in famiglia quando possibile, si propone di abbandonare il lavoro minorile, di socializzare, di frequentare la scuola, accompagnandoli in modo che possano realizzare il loro sogno e il progetto di vita grazie all’istruzione, e di diventare testimoni per altri ragazzi che si trovano nella loro stessa situazione.

In 70 paesi del mondo i salesiani sono attivi nel campo del lavoro minorile. Presentiamo uno di loro, quello della Repubblica Dominicana.

Canillitas erano denominati i ragazzi venditori ambulanti di giornali, che per la povertà avevano pantaloni rimasti corti, lasciando scoperte le loro “canillas”, ossia le gambe. Simili a questi, i ragazzi di oggi devono muovere le gambe per strada ogni giorno per guadagnarsi da vivere, perciò il progetto a loro favore si è chiamato Canillitas con Don Bosco.
Si tratta di un progetto nato come progetto salesiano oratoriano, che poi è arrivato a essere un’attività permanente: il Centro Canillitas con Don Bosco di Santo Domingo.

Il progetto è partito nell’8 dicembre 1985 con tre giovani dell’ambiente salesiano che si sono dedicati a tempo pieno, rinunciando alle loro occupazioni. Avevano chiare le quattro tappe del percorso da seguire: Ricerca, Accoglienza, Socializzazione e Accompagnamento. Hanno iniziato a cercare ragazzi sulle strade e nei parchi di Santo Domingo, a contattarli, a conquistare la loro fiducia e a stabilire legami di amicizia. Dopo due mesi li hanno invitati a passare una domenica insieme e sono stati sorpresi quando più di 300 minori si presentarono all’incontro. Fu un pomeriggio di festa con giochi, musica e merende che ha spinto i ragazzi a chiedere spontaneamente quando potevano tornare. La risposta non poteva essere altra che: “domenica prossima”.
Il loro numero crebbe costantemente, dopo aver capito che l’accoglienza, gli spazi e le attività erano a misura loro. Al campo organizzato nell’estate hanno partecipato un centinaio dei più fedeli. Qui i ragazzi hanno ricevuto una tessera di canillitas nel campo, per dare un’identità e un senso di appartenenza, anche perché tanti di loro non conoscevano neanche la loro data di nascita.
Con la crescita dei numeri dei ragazzi è arrivata anche la crescita delle spese. Questo ha condotto a dover ricercare dei finanziamenti e implicitamente a far conoscere il progetto con questi ragazzi.

Il 2 maggio 1986, la comunità salesiana ha presentato il progetto ai superiori salesiani dell’Ispettoria Salesiana delle Antille, progetto che ottenne un sostegno unanime. Così, il programma Canillitas con Don Bosco fu ufficialmente lanciato e continua anche oggi dopo quasi 38 anni di esistenza. E non solo continua ma è cresciuto e si è ampliato, essendo un modello per altre iniziative. È così che è nato anche il programma Canillitas con Laura Vicuña, sviluppato dalle Figlie di Maria Ausiliatrice per le ragazze lavoratrici, i programmi Chiriperos con Don Bosco, per aiutare i giovani che – per guadagnarsi da vivere – facevano qualsiasi “lavoretto” (come portare l’acqua, buttare la spazzatura, fare commissioni…), e il programma Apprendisti con Don Bosco che si occupa dei minori che lavoravano nelle numerose officine meccaniche, sfruttati da certi imprenditori. Per questi ultimi, i salesiani hanno costruito un’officina con l’aiuto di alcuni bravi industriali e della Prima Donna della Repubblica, in modo da essere liberi di imparare un mestiere e non essere in balia delle ingiustizie.
In seguito a questo successo, tutte queste iniziative e altre sono confluite nella Rete dei Ragazzi e delle Ragazze con Don Bosco, attualmente composta da 11 centri con programmi adeguati alle fasce d’età dei ragazzi, diventati un esempio nella lotta al lavoro minorile nel paese caraibico. Di questa rete fanno parte: Canillitas con Don Bosco, Chiriperos con Don Bosco, Aprendices con Don Bosco, Hogar Escuela de Niñas Doña Chucha, Hogar de Niñas Nuestra Señora de la Altagracia, Hogar Escuela Santo Domingo Savio, Quédate con Nosotros, Don Bosco Amigo, Amigos y Amigas de Domingo Savio, Mano a Mano con Don Bosco e Sur Joven.
La rete ha svolto programmi incentrati sullo sviluppo di abilità nei ragazzi e nei giovani, favorendo la loro formazione e crescita integrale. Ha accompagnato direttamente circa 93.000 ragazzi, adolescenti e giovani, ha raggiunto più di 70.000 famiglie e, indirettamente, ha avuto più di 150.000 beneficiari, lavorando ogni anno con una media di oltre 2500 beneficiari. Tutto ciò è stato realizzato avendo come base il Sistema Preventivo di Don Bosco che ha portato i ragazzi e i giovani a recuperare la propria autostima, a essere protagonisti della propria vita per diventare “onesti cittadini e buoni cristiani”.

Questo lavoro ha avuto anche un impatto socio-politico. Ha contribuito alla crescita della sensibilità sociale verso questi poveri ragazzi che facevano quello che potevano per sopravvivere. L’eco del programma salesiano nei mass-media della Repubblica Dominicana ha dato la possibilità a un gruppo di Canillitas di partecipare a una sessione del Congresso Nazionale del paese e alla redazione del Codice del Sistema di Protezione e dei Diritti Fondamentali dei Ragazzi e degli Adolescenti della Repubblica Dominicana (Legge 136-03), promulgato il 7 agosto 2003.
In seguito, sono stati firmati diversi accordi con l’Istituto di Formazione Tecnico Professionale, con il Consiglio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza e con la Scuola della Magistratura.
Grazie al sostegno di molti imprenditori e della società civile sono state avviate collaborazioni e interrelazioni con l’UNICEF, con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, con il governo nazionale, con la Coalizione delle ONG per l’infanzia della Repubblica Dominicana e si è perfino arrivati a partecipare alla Conferenza delle Americhe alla Casa Bianca nel 2007, con il ricevimento del presidente George Bush e del Segretario di Stato Condoleezza Rice.

Il lavoro salesiano ha contribuito alla riduzione del lavoro minorile e all’aumento del tasso di istruzione nel paese. Il salesiano missionario promotore, don Juan Linares, è stato nominato Uomo dell’Anno della Repubblica Dominicana nel 2011, e per 10 anni è stato membro del consiglio di amministrazione del Consiglio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, l’organo di governo del Sistema Nazionale per la Protezione dei Diritti dei Ragazzi e degli Adolescenti.

Recentemente è stato realizzato un documentario, “Canillitas”, che vuole informare, denunciare e sensibilizzare l’opinione pubblica sul lavoro minorile. Il breve documentario riflette la vita quotidiana di sei ragazzi lavoratori nella Repubblica Dominicana, nonché il lavoro dei missionari salesiani per cambiare questa realtà, grazie all’istruzione.

Presentiamo la scheda del film.

Titolo: Canillitas
Anno di produzione: 2022
Durata: 21 minuti
Genere: Documentario
Pubblico adatto: Tutti
Paese: Spagna
Regia: Raúl de la Fuente, Premio Goya 2014 per “Minerita” e nel 2019 per “Un día más con vida”
Produzione: Kanaki Films
Versioni e sottotitoli: spagnolo, inglese, francese, italiano, portoghese, tedesco e polacco

Versione online:



(Articolo realizzato con il materiale inviato da Missiones Salesianas di Madrid, Spagna.)