Santa Monica, madre di Sant’Agostino, testimone di speranza

Una donna dalla fede incrollabile, dalle lacrime feconde, esaudita da Dio dopo diciassette lunghi anni. Un modello di cristiana, sposa e madre per tutta la Chiesa. Una testimone di speranza che si è trasformata in potente intercessora nel Cielo. Lo stesso don Bosco raccomandava alle madri, afflitte per la vita poco cristiana dei loro figli, di affidarsi a lei nelle preghiere.

Nella grande galleria dei santi e delle sante che hanno segnato la storia della Chiesa, Santa Monica (331-387) occupa un posto singolare. Non per miracoli spettacolari, non per la fondazione di comunità religiose, non per imprese sociali o politiche di rilievo. Monica è ricordata e venerata anzitutto come madre, la madre di Agostino, il giovane inquieto che grazie alle sue preghiere, alle sue lacrime e alla sua testimonianza di fede divenne uno dei più grandi Padri della Chiesa e Dottori della fede cattolica.
Ma limitare la sua figura al ruolo materno sarebbe ingiusto e riduttivo. Monica è una donna che seppe vivere la sua vita ordinaria — moglie, madre, credente — in modo straordinario, trasfigurando la quotidianità attraverso la forza della fede. È un esempio di perseveranza nella preghiera, di pazienza nel matrimonio, di speranza incrollabile di fronte alle deviazioni del figlio.
Le notizie sulla sua vita ci giungono quasi esclusivamente dalle Confessioni di Agostino, un testo che non è una cronaca, ma una lettura teologica e spirituale dell’esistenza. Eppure, in quelle pagine Agostino traccia un ritratto indimenticabile della madre: non solo una donna buona e pia, ma un autentico modello di fede cristiana, una “madre delle lacrime” che diventano sorgente di grazia.

Le origini a Tagaste
Monica nacque nel 331 a Tagaste, città della Numidia, Souk Ahras nell’attuale Algeria. Era un centro vivace, segnato dalla presenza romana e da una comunità cristiana già radicata. Proveniva da una famiglia cristiana agiata: la fede era già parte del suo orizzonte culturale e spirituale.
La sua formazione fu segnata dall’influenza di una nutrice austera, che la educò alla sobrietà e alla temperanza. San Agostino scriverà di lei: “Non discorrerò per questo di doni suoi, ma di doni tuoi a lei, che non si era fatta da sé sola, né da sé sola educata. Tu la creasti senza che neppure il padre e la madre sapessero quale figlia avrebbero avuto; e l’ammaestrò nel tuo timore la verga del tuo Cristo, ossia la disciplina del tuo Unigenito, in una casa di credenti, membro sano della tua Chiesa.” (Confessioni IX, 8, 17).

Nelle stesse Confessioni Agostino racconta anche un episodio significativo: la giovane Monica aveva preso l’abitudine di bere piccoli sorsi di vino dalla cantina, finché una serva la rimproverò chiamandola “ubriacona”. Quel rimprovero le basto per correggersi definitivamente. Questo aneddoto, apparentemente minore, mostra la sua onestà di riconoscere i propri peccati, di lasciarsi correggere e di crescere in virtù.

A età di 23 anni Monica fu data in sposa a Patrizio, un funzionario municipale pagano, noto per il suo carattere collerico e la sua infedeltà coniugale. La vita matrimoniale non fu facile: la convivenza con un uomo impulsivo e distante dalla fede cristiana mise a dura prova la sua pazienza.
Eppure, Monica non cadde mai nello scoraggiamento. Con un atteggiamento fatto di mitezza e rispetto, seppe conquistare progressivamente il cuore del marito. Non rispondeva con durezza agli scatti d’ira, non alimentava conflitti inutili. Con il tempo, la sua costanza ottenne frutto: Patrizio si convertì e ricevette il battesimo poco prima di morire.
La testimonianza di Monica mostra come la santità non si esprima necessariamente in gesti clamorosi, ma nella fedeltà quotidiana, nell’amore che sa trasformare lentamente le situazioni difficili. In questo senso, è un modello per tante spose e madri che vivono matrimoni segnati da tensioni o differenze di fede.

Monica madre
Dal matrimonio nacquero tre figli: Agostino, Navigio e una figlia di cui non conosciamo il nome. Monica riversò su di loro tutto il suo amore, ma soprattutto la sua fede. Navigio e la figlia seguirono un cammino cristiano lineare: Navigio divenne sacerdote; la figlia intraprese la via della verginità consacrata. Agostino invece divenne presto il centro delle sue preoccupazioni e delle sue lacrime.
Già da ragazzo, Agostino mostrava un’intelligenza straordinaria. Monica lo mandò a studiare retorica a Cartagine, desiderosa di assicurargli un futuro brillante. Ma insieme ai progressi intellettuali arrivarono anche le tentazioni: la sensualità, la mondanità, le compagnie sbagliate. Agostino abbracciò la dottrina manichea, convinto di trovarvi risposte razionali al problema del male. Inoltre cominciò a convivere senza sposarsi con una donna dalla quale ebbe un figlio, Adeodato. Le deviazioni del figlio indussero Monica a negargli l’accoglienza nella propria casa. Pero non per questo cesso di pregare per lui e di offrire sacrifici: “dal cuore sanguinante di mia madre ti si offriva per me notte e giorno il sacrificio delle sue lacrime”. (Confessioni V, 7,13) e “versava più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli” (Confessioni III, 11,19).

Per Monica fu una ferita profonda: il figlio, che aveva consacrato a Cristo nel grembo, si stava smarrendo. Il dolore era indicibile, ma non smise mai di sperare. Agostino stesso scriverà: “Il cuore di mia madre, colpito da una tale ferita, non si sarebbe mai più risanato: perché non so esprimere adeguatamente i suoi sentimenti verso di me e quanto il suo travaglio nel partorirmi in spirito fosse maggiore di quello con cui mi aveva partorito nella carne.” (Confessioni V, 9,16).

Viene spontanea la domanda: perché Monica non fece battezzare Agostino subito dopo la nascita?
In realtà, benché il battesimo dei bambini fosse già conosciuto e praticato, non era ancora una prassi universale. Molti genitori preferivano rimandarlo all’età adulta, considerandolo un “lavacro definitivo”: temevano che, se il battezzato avesse peccato gravemente, la salvezza sarebbe stata compromessa. Inoltre Patrizio, ancora pagano, non aveva alcun interesse a educare il figlio nella fede cristiana.
Oggi vediamo chiaramente che si trattò di una scelta infelice, poiché il battesimo non solo ci rende figli di Dio, ma ci dona la grazia di vincere le tentazioni e il peccato.
Una cosa però è certa: se fosse stato battezzato da bambino, Monica avrebbe risparmiato a sé e al figlio tante sofferenze.

L’immagine più forte di Monica è quella di una madre che prega e piange. Le Confessioni la descrivono come donna instancabile nell’intercedere presso Dio per il figlio.
Un giorno, un vescovo di Tagaste — secondo alcuni, lo stesso Ambrogio — la rassicurò con parole rimaste celebri: “Va’, non può andare perduto il figlio di tante lacrime”. Quella frase divenne la stella polare di Monica, la conferma che il suo dolore materno non era vano, ma parte di un misterioso disegno di grazia.

Tenacità di una madre
La vita di Monica fu anche un pellegrinaggio sulle orme di Agostino. Quando il figlio decise di partire di nascosto per Roma, Monica non risparmia nessuna fatica; non dà la causa come perduta, ma lo segue e lo cerca fino quando non lo trova. Lo raggiunse a Milano, dove Agostino aveva ottenuto una cattedra di retorica. Qui trovò una guida spirituale in sant’Ambrogio, vescovo della città. Tra Monica e Ambrogio nacque una profonda sintonia: ella riconosceva in lui il pastore capace di guidare il figlio, mentre Ambrogio ammirava la sua fede incrollabile.
A Milano, la predicazione di Ambrogio aprì nuove prospettive ad Agostino. Egli abbandonò progressivamente il manicheismo e iniziò a guardare al cristianesimo con occhi nuovi. Monica accompagnava silenziosamente questo processo: non forzava i tempi, non pretendeva conversioni immediate, ma pregava e sosteneva e li rimane a fianco fino alla sua conversione.

La conversione di Agostino
Dio sembrava non ascoltarla, ma Monica non smise mai di pregare e di offrire sacrifici per il figlio. Dopo diciassette anni, finalmente le sue suppliche furono esaudite — e come! Agostino non solo si fece cristiano, ma divenne sacerdote, vescovo, dottore e padre della Chiesa.
Egli stesso lo riconosce: “Tu però nella profondità dei tuoi disegni esaudisti il punto vitale del suo desiderio, senza curarti dell’oggetto momentaneo della sua richiesta, ma badando a fare di me ciò che sempre ti chiedeva di fare.” (Confessioni V, 8,15).

Il momento decisivo arrivò nel 386. Agostino, tormentato interiormente, lottava contro le passioni e le resistenze della sua volontà. Nel celebre episodio del giardino di Milano, al sentire la voce di un bambino che diceva “Tolle, lege” (“Prendi, leggi”), aprì la Lettera ai Romani e lesse le parole che gli cambiarono la vita: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,14).
Fu l’inizio della sua conversione. Insieme al figlio Adeodato e ad alcuni amici si ritirò a Cassiciaco per prepararsi al battesimo. Monica era con loro, partecipe della gioia di vedere finalmente esaudite le preghiere di tanti anni.
La notte di Pasqua del 387, nella cattedrale di Milano, Ambrogio battezzò Agostino, Adeodato e gli altri catecumeni. Le lacrime di dolore di Monica si trasformarono in lacrime di gioia. Continua a rimanere al suo servizio, tanto che a Cassiciaco Agostino dirà: “Ebbe cura come se di tutti fosse stata madre e ci servì come se di tutti fosse stata figlia.”.

Ostia: l’estasi e la morte
Dopo il battesimo, Monica e Agostino si prepararono a tornare in Africa. Fermatisi a Ostia, in attesa della nave, vissero un momento di intensissima spiritualità. Le Confessioni narrano l’estasi di Ostia: madre e figlio, affacciati a una finestra, contemplarono insieme la bellezza del creato e si elevarono verso Dio, pregustando la beatitudine del cielo.
Monica dirà: “Figlio, quanto a me non trovo ormai più alcuna attrattiva per questa vita. Non so che cosa io stia a fare ancora quaggiù e perché mi trovi qui. Questo mondo non è più oggetto di desideri per me. C’era un solo motivo per cui desideravo rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico, prima di morire. Dio mi ha esaudito oltre ogni mia aspettativa, mi ha concesso di vederti al suo servizio e affrancato dalle aspirazioni di felicità terrene. Che sto a fare qui?” (Confessioni IX, 10,11). Aveva raggiunto la sua meta terrena.
Alcuni giorni dopo Monica si ammalò gravemente. Sentendo vicina la fine, disse ai figli: “Figli miei, seppellirete qui vostra madre: non vi preoccupate di dove. Solo di questo vi prego: ricordatevi di me all’altare del Signore, dovunque sarete”. Era la sintesi della sua vita: non l’importava il luogo della sepoltura, ma il legame nella preghiera e nell’Eucaristia.
Morì a 56 anni, nel 12 novembre del 387, e fu sepolta a Ostia. Nel VI secolo, le sue reliquie furono trasferite in una cripta nascosta nella stessa chiesa di Sant’Aurea. Nel 1425, le reliquie furono traslatate a Roma, nella basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio, dove ancora oggi sono venerate.

Il profilo spirituale di Monica
Agostino descrive sua madre con parole ben misurate:
“[…] muliebre nell’aspetto, virile nella fede, vegliarda nella pacatezza, materna nell’amore, cristiana nella pietà […]”. (Confessioni IX, 4, 8).
E ancora:
“[…] vedova casta e sobria, assidua nell’elemosina, devota e sottomessa ai tuoi santi; che non lasciava passare giornata senza recare l’offerta al tuo altare, che due volte al giorno, mattino e sera, senza fallo visitava la tua chiesa, e non per confabulare vanamente e chiacchierare come le altre vecchie, ma per udire le tue parole e farti udire le sue orazioni. Le lacrime di una tale donna, che con esse ti chiedeva non oro né argento, né beni labili o volubili, ma la salvezza dell’anima di suo figlio, avresti potuto sdegnarle tu, che così l’avevi fatta con la tua grazia, rifiutandole il tuo soccorso? Certamente no, Signore. Tu anzi le eri accanto e l’esaudivi, operando secondo l’ordine con cui avevi predestinato di dover operare.” (Confessioni V, 9,17).

Da questa testimonianza agostiniana, emerge una figura di sorprendente attualità.
Fu una donna di preghiera: non smise mai di invocare Dio per la salvezza dei suoi cari. Le sue lacrime diventano modello di intercessione perseverante.
Fu una sposa fedele: in un matrimonio difficile, non rispose mai con risentimento alla durezza del marito. La sua pazienza e la sua mitezza furono strumenti di evangelizzazione.
Fu una madre coraggiosa: non abbandonò il figlio nelle sue deviazioni, ma lo accompagnò con amore tenace, capace di fidarsi dei tempi di Dio.
Fu una testimone di speranza: la sua vita mostra che nessuna situazione è disperata, se vissuta nella fede.
Il messaggio di Monica non appartiene solo al IV secolo. Parla ancora oggi, in un contesto in cui molte famiglie vivono tensioni, figli si allontanano dalla fede, genitori sperimentano la fatica dell’attesa.
Ai genitori, insegna a non arrendersi, a credere che la grazia opera in modi misteriosi.
Alle donne cristiane, mostra come la mitezza e la fedeltà possano trasformare relazioni difficili.
A chiunque si senta scoraggiato nella preghiera, testimonia che Dio ascolta, anche se i tempi non coincidono con i nostri.
Non è un caso che molte associazioni e movimenti abbiano scelto Monica come patrona delle madri cristiane e delle donne che pregano per i figli lontani dalla fede.

Una donna semplice e straordinaria
La vita di santa Monica è la storia di una donna semplice e straordinaria insieme. Semplice perché vissuta nel quotidiano di una famiglia, straordinaria perché trasfigurata dalla fede. Le sue lacrime e le sue preghiere hanno plasmato un santo e, attraverso di lui, hanno inciso profondamente nella storia della Chiesa.
La sua memoria, celebrata il 27 agosto, alla vigilia della festa di sant’Agostino, ci ricorda che la santità passa spesso attraverso la perseveranza nascosta, il sacrificio silenzioso, la speranza che non delude.
Nelle parole di Agostino, rivolte a Dio per la madre, troviamo la sintesi della sua eredità spirituale: “Non posso dire abbastanza di quanto la mia anima sia debitrice a lei, mio Dio; ma tu sai tutto. Ripagale con la tua misericordia quanto ti chiese con tante lacrime per me” (Conf., IX, 13).

Santa Monica attraverso le vicende della sua vita ha raggiunto la felicità eterna che lei stessa ha definito: “La felicità consiste senza dubbio nel raggiungimento del fine e si deve aver fiducia che ad esso possiamo esser condotti da una ferma fede, da una viva speranza, da un’ardente carità”. (La Felicità 4,35).




Diventare un segno di speranza in eSwatini – Lesotho – Sudafrica dopo 130 anni

Nel cuore dell’Africa australe, tra le bellezze naturali e le sfide sociali di eSwatini, Lesotho e Sudafrica, i Salesiani celebrano 130 anni di presenza missionaria. In questo tempo di Giubileo, di Capitolo Generale e di anniversari storici, l’Ispettoria Africa Meridionale condivide i suoi segni di speranza: la fedeltà al carisma di Don Bosco, l’impegno educativo e pastorale tra i giovani e la forza di una comunità internazionale che testimonia fraternità e resilienza. Nonostante le difficoltà, l’entusiasmo dei giovani, la ricchezza delle culture locali e la spiritualità dell’Ubuntu continuano a indicare strade di futuro e di comunione.

Saluti fraterni dai Salesiani della più piccola Visitatoria e della più antica presenza nella Regione Africa-Madagascar (dal 1896, i primi 5 confratelli furono inviati da Don Rua). Quest’anno ringraziamo i 130 SDB che hanno lavorato nei nostri 3 Paesi e che ora intercedono per noi dal cielo. “Piccolo è bello”!

Nel territorio dell’AFM vivono 65 milioni di persone che comunicano in 12 lingue ufficiali, tra tante meraviglie della natura e grandi risorse del sottosuolo. Siamo tra i pochi Paesi dell’Africa sub-sahariana in cui i cattolici sono una piccola minoranza rispetto alle altre Chiese cristiane, con soli 5 milioni di fedeli.

Quali sono i segni di speranza che i nostri giovani e la società stanno cercando?
In primo luogo, stiamo cercando di superare i famigerati record mondiali del crescente divario tra ricchi e poveri (100.000 milionari contro 15 milioni di giovani disoccupati), della mancanza di sicurezza e della crescente violenza nella vita quotidiana, del collasso del sistema educativo, che ha prodotto una nuova generazione di milioni di analfabeti, alle prese con diverse dipendenze (alcool, droga…). Inoltre, a 30 anni dalla fine del regime di apartheid nel 1994, la società e la Chiesa sono ancora divise tra le varie comunità in termini di economia, opportunità e molte ferite non ancora rimarginate. In effetti, la comunità del “Paese dell’Arcobaleno” sta lottando con molte “lacune” che possono essere “riempite” solo con i valori del Vangelo.

Quali sono i segni di speranza che la Chiesa cattolica in Sudafrica sta cercando?
Partecipando all’incontro triennale “Joint Witness” dei superiori religiosi e dei vescovi nel 2024, ci siamo resi conto di molti segni di declino: meno fedeli, mancanza di vocazioni sacerdotali e religiose, invecchiamento e diminuzione del numero di religiosi, alcune diocesi in bancarotta, continua perdita/diminuzione di istituzioni cattoliche (assistenza medica, istruzione, opere sociali o media) a causa del forte calo di religiosi e laici impegnati. La Conferenza episcopale cattolica (SACBC – che comprende Botswana, eSwatini e Sudafrica) indica come priorità l’assistenza ai giovani dipendenti dall’alcool e da altre sostanze varie.

Quali sono i segni di speranza che i salesiani dell’Africa meridionale stanno cercando?
Preghiamo ogni giorno per nuove vocazioni salesiane, per poter accogliere nuovi missionari. È infatti finita l’epoca dell’Ispettoria anglo-irlandese (fino al 1988) e il Progetto Africa non comprendeva la punta meridionale del continente. Dopo 70 anni in eSwatini (Swaziland) e 45 anni in Lesotho, abbiamo solo 4 vocazioni locali da ciascun Regno. Oggi abbiamo solo 5 giovani confratelli e 4 novizi in formazione iniziale. Tuttavia, la Visitatoria più piccola dell’Africa-Madagascar, attraverso le sue 7 comunità locali, è incaricata dell’educazione e della cura pastorale in 6 grandi parrocchie, 18 scuole primarie e secondarie, 3 centri di formazione professionale (TVET) e diversi programmi di assistenza sociale. La nostra comunità ispettoriale, con 18 nazionalità diverse tra i 35 SDB che vivono nelle 7 comunità, è un grande dono e una sfida da accogliere.

Come comunità cattolica minoritaria e fragile dell’Africa australe
Crediamo che l’unica strada per il futuro sia quella di costruire più ponti e comunione tra i religiosi e le diocesi: più siamo deboli più ci sforziamo di lavorare insieme. Poiché tutta la Chiesa cattolica cerca di puntare sui giovani, Don Bosco è stato scelto dai vescovi come Patrono della Pastorale Giovanile e la sua Novena viene celebrata con fervore nella maggior parte delle diocesi e delle parrocchie all’inizio dell’anno pastorale.

Come Salesiani e Famiglia Salesiana, ci incoraggiamo costantemente a vicenda: “work in progress” (un lavoro costante)
Negli ultimi due anni, dopo l’invito del Rettor Maggiore, abbiamo cercato di rilanciare il nostro carisma salesiano, con la saggezza di una visione e direzione comune (a partire dall’assemblea annuale ispettoriale), con una serie di piccoli e semplici passi quotidiani nella giusta direzione e con la saggezza della conversione personale e comunitaria.

Siamo grati per l’incoraggiamento di don Pascual Chávez per il nostro recente Capitolo Ispettoriale del 2024: «Sapete bene che è più difficile, ma non impossibile, “rifondare” che fondare [il carisma], perché ci sono abitudini, atteggiamenti o comportamenti che non corrispondono allo spirito del nostro Santo Fondatore, don Bosco, e al suo Progetto di Vita, e hanno “diritto di cittadinanza” [nell’Ispettoria]. C’è davvero bisogno di una vera conversione di ogni confratello a Dio, tenendo il Vangelo come suprema regola di vita, e di tutta l’Ispettoria a Don Bosco, assumendo le Costituzioni come vero progetto di vita».

È stato votato il consiglio di don Pascual e l’impegno: “Diventare più appassionati di Gesù e dedicati ai giovani”, investendo nella conversione personale (creando uno spazio sacro nella nostra vita, per lasciare che Gesù la trasformi), nella conversione comunitaria (investendo nella formazione permanente sistematica mensile secondo un tema) e nella conversione ispettoriale (promuovendo la mentalità ispettoriale attraverso “One Heart One Soul” – frutto della nostra assemblea ispettoriale) e con incontri mensili online dei direttori.

Sull’immaginetta-ricordo della nostra Visitatoria del Beato Michele Rua, accanto ai volti di tutti i 46 confratelli e 4 novizi (35 vivono nelle nostre 7 comunità, 7 sono in formazione all’estero e 5 SDB sono in attesa del visto, con uno a San Callisto-catacombe e un missionario che sta facendo chemioterapia in Polonia). Siamo anche benedetti da un numero crescente di confratelli missionari che vengono inviati dal Rettor Maggiore o per un periodo specifico da altre Ispettorie africane per aiutarci (AFC, ACC, ANN, ATE, MDG e ZMB). Siamo molto grati a ciascuno di questi giovani confratelli. Crediamo che, con il loro aiuto, la nostra speranza di rilancio carismatico stia diventando tangibile. La nostra Visitatoria – la più piccola dell’Africa-Madagascar, dopo quasi 40 anni dalla fondazione, non ha ancora una vera e propria casa ispettoriale. La costruzione è iniziata, con l’aiuto del Rettor Maggiore, solo l’anno scorso. Anche qui diciamo: “lavori in corso”…

Vogliamo condividere anche i nostri umili segni di speranza con tutte le altre 92 Ispettorie in questo prezioso periodo del Capitolo Generale. L’AFM ha un’esperienza unica di 31 anni di volontari missionari locali (coinvolti nella Pastorale Giovanile del Centro Giovanile Bosco di Johannesburg dal 1994), il programma “Love Matters” per una sana crescita sessuale degli adolescenti dal 2001. I nostri volontari, infatti, coinvolti per un anno intero nella vita della nostra comunità, sono membri più preziosi della nostra Missione e dei nuovi gruppi della Famiglia Salesiana che stanno lentamente crescendo (VDB, Salesiani Cooperatori e Ex-allievi di Don Bosco).

La nostra casa madre di Città del Capo celebrerà già l’anno prossimo il suo cento trentesimo (130°) anniversario e, grazie al cento cinquantesimo (150°) anniversario delle Missioni Salesiane, abbiamo realizzato, con l’aiuto dell’Ispettoria della Cina, una speciale “Stanza della Memoria di San Luigi Versiglia”, dove il nostro Protomartire trascorse un giorno durante il suo ritorno dall’Italia in Cina-Macao nel maggio 1917.

Don Bosco ‘Ubuntu’ – cammino sinodale
 “Siamo qui grazie a voi!” – Ubuntu è uno dei contributi delle culture dell’Africa meridionale alla comunità globale. La parola in lingua Nguni significa “Io sono perché voi siete” (“I’m because you are!”. Altre possibili traduzioni: “Ci sono perché ci siete voi”). L’anno scorso abbiamo intrapreso il progetto “Eco Ubuntu” (progetto di sensibilizzazione ambientale della durata di 3 anni) che coinvolge circa 15.000 giovani delle nostre 7 comunità in eSwatini, Lesotho e Sudafrica. Oltre alla splendida celebrazione e alla condivisione del Sinodo dei Giovani 2024, i nostri 300 giovani [che hanno partecipato] conservano soprattutto Ubuntu nei loro ricordi. Il loro entusiasmo è una fonte di ispirazione. L’AFM ha bisogno di voi: Ci siamo grazie a voi!

Marco Fulgaro




Messaggio di don Fabio Attard nella festa del Rettor Maggiore

Carissimi confratelli, carissimi collaboratori e collaboratrici delle nostre Comunità Educative Pastorali, carissimi giovani,

            Permettetemi di condividere con voi questo messaggio che viene dal profondo del mio cuore. Lo comunico con tutto l’affetto, l’apprezzamento e la stima che nutro per ognuno e ognuna di voi mentre siete impegnati nella missione di essere educatori, pastori e animatori dei giovani in tutti i continenti.
            Siamo tutti consapevoli che l’educazione dei giovani chiede sempre di più persone adulte significative, persone che hanno una spina dorsale moralmente solida, capace di trasmettere speranza e visione per il loro futuro.
            Mentre tutti ci troviamo impegnati a camminare con i giovani, accogliendoli nelle nostre case, offrendo loro opportunità educative di ogni tipo e di ogni genere, nella varietà degli ambienti che noi portiamo avanti, siamo anche consapevoli delle sfide culturali, sociali ed economici che dobbiamo affrontare.
            Accanto a queste sfide che fanno parte di ogni processo educativo pastorale, in quanto si tratta sempre di un dialogo continuo con le realtà terrene, riconosciamo che, come conseguenza delle situazioni di guerre e conflitti armati in varie parti del mondo, la chiamata che viviamo sta diventando più complessa e difficile. Tutto questo ha il suo effetto sull’impegno che noi stiamo portando avanti. È incoraggiante vedere che malgrado le difficoltà che dobbiamo affrontare, siamo determinati a continuare a vivere con convinzione la nostra missione.
            In questi ultimi mesi, il messaggio di Papa Francesco e adesso la parola di Papa Leone XIV continuamente stanno invitando il mondo a guardare in faccia questa dolorosa situazione che sembra come uno spirale che cresce in maniera spaventosa. Sappiamo che le guerre non producono mai pace. Siamo consapevoli, e alcuni di noi lo stanno vivendo in prima fila, che ogni conflitto armato e ogni guerra porta con sé sofferenza, dolore e aumenta ogni tipo povertà. Tutti conosciamo che coloro che alla fine pagano il prezzo di tali situazioni sono gli sfollati, gli anziani, i bambini e i giovani che si trovano senza presente e senza futuro.
            Per questo motivo carissimi confratelli e carissimi nostri collaboratori e giovani di tutto il mondo, vorrei gentilmente chiedervi che per la festa del Rettor Maggiore, che è una tradizione che risale al tempo di Don Bosco, ogni comunità attorno al giorno della festa del Rettor Maggiore celebri la santa Eucaristia per la pace.
            È un invito alla preghiera che trova la sua fonte nel sacrificio di Cristo, crocifisso e risorto. Una preghiera come testimonianza perché nessuno rimanga indifferente in una situazione mondiale scossa da un crescente numero di conflitti.
            Questo nostro è un gesto di solidarietà con tutti coloro, specialmente salesiani, laici e giovani, che in questo momento particolare, con grande coraggio e determinazione continuano a vivere la missione salesiana in mezzo a situazioni segnate da guerre. Sono salesiani, laici e giovani che chiedono e apprezzano la solidarietà di tutta la Congregazione, solidarietà umana, solidarietà spirituale, solidarietà carismatica.
            Mentre da parte mia e da parte di tutto il Consiglio Generale stiamo facendo tutto il possibile a essere molto vicini in maniera concreta a tutti, credo che in questo momento particolare vada dato tale segno di vicinanza e di incoraggiamento da parte di tutta la Congregazione.
            A voi carissimi nostri fratelli e carissime nostre sorelle in Myanmar, Ucraina, Medio Oriente, Etiopia, Est della Repubblica Democratica del Congo, Nigeria, Haiti e Centro America, vogliamo dirvi ad alta voce che siamo con voi. Vi ringraziamo per la vostra testimonianza. Vi assicuriamo la nostra vicinanza umana e spirituale.
            Continuiamo a pregare per il dono della pace. Continuiamo a pregare per questi nostri confratelli, laici e giovani che, vivendo in situazioni molto difficili, continuano a sperare e a pregare affinché la pace emerga. Il loro esempio, la donazione di sé stessi e la loro appartenenza al carisma di Don Bosco, è per noi una testimonianza forte. Essi, insieme a tante persone consacrate, sacerdoti e laici impegnati, sono i martiri moderni, cioè testimoni dell’educazione e dell’evangelizzazione, che malgrado tutto, come veri pastori e ministri della carità evangelica, continuano ad amare, credere e sperare per un futuro migliore.
            Tutti noi, questa chiamata alla solidarietà, la assumiamo con tutto il nostro cuore. Grazie.

Prot. 25/0243 Roma, 24 giugno 2025
don Fabio ATTARD,
Rettor Maggiore

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Il Venerabile padre Carlo Crespi “testimone e pellegrino di speranza”

Padre Carlo Crespi, missionario salesiano in Ecuador, ha vissuto la sua vita dedicandosi alla fede e alla speranza. Negli ultimi anni, nel santuario di Maria Ausiliatrice, ha consolato fedeli, infondendo ottimismo anche nei momenti di crisi. La sua pratica esemplare delle virtù teologali, evidenziata dalla testimonianza di chi lo conosceva, si è espressa anche nell’impegno per l’educazione: fondando scuole e istituti, ha offerto ai giovani nuove prospettive. Il suo esempio di resilienza e dedizione continua ad illuminare il cammino spirituale e umano della comunità. Il suo lascito perdura e ispira generazioni di credenti.

            Negli ultimi anni della sua vita, padre Carlo Crespi (Legnano, 29 maggio 1891 – Cuenca, 30 aprile 1982), missionario salesiano in Ecuador, messi gradualmente in secondo piano gli aneliti accademici della giovinezza, si circonda di essenzialità e la sua crescita spirituale appare inarrestabile. Viene visto nel santuario di Maria Ausiliatrice a divulgare la devozione alla Vergine, a confessare e a consigliare file interminabili di fedeli, rispetto ai quali gli orari, i pasti e persino il sonno non contano più. Così come aveva fatto in modo esemplare per tutta la vita, tiene lo sguardo fisso verso i beni eterni, che ora appaiono quanto mai vicini.
            Egli aveva quella speranza escatologica che si lega alle aspettative dell’uomo in vita e oltre la morte, influenzando in modo significativo la visione del mondo e il comportamento quotidiano. Secondo san Paolo, la speranza è un ingrediente indispensabile per una vita che si dona, che cresce collaborando con gli altri e sviluppando la propria libertà. Il futuro diventa così un compito collettivo che ci fa crescere come persone. La sua presenza ci invita a guardare al futuro con un senso di fiducia, intraprendenza e connessione con gli altri.
            Questa era la speranza del Venerabile padre Crespi! Una grande virtù che, come le braccia di un giogo, sorregge la fede e la carità; come il braccio trasverso della croce è trono di salvezza, è appoggio del serpente salutare alzato da Mosè nel deserto; ponte dell’anima per spiccare il volo nella luce.
            Il non comune livello raggiunto dal padre Crespi nella pratica di tutte le virtù è stato evidenziato, in maniera concorde, dai testimoni ascoltati nel corso della Inchiesta diocesana della Causa di beatificazione, ma emerge anche dall’analisi attenta dei documenti e dalle vicende biografiche di padre Carlo Crespi. L’esercizio delle virtù cristiane da parte sua fu, a detta di chi lo conobbe, non solo fuori dal comune, ma anche costante nel corso della sua lunga vita. La gente lo seguiva fedelmente perché nel suo quotidiano traspariva, quasi naturalmente, l’esercizio delle virtù teologali, tra le quali la speranza spiccava in modo particolare nei tanti momenti di difficoltà. Egli seminò la speranza nel cuore delle persone e visse tale virtù in massimo grado.
            Quando la scuola “Cornelio Merchan” fu distrutta da un incendio, al popolo accorso in lacrime davanti alle rovine fumanti, egli, pure piangente, manifestò una costante e non comune speranza incoraggiando tutti: “Pachilla non c’è più, ma noi ne costruiremo una migliore e i bambini saranno più felici e più contenti“. Dalle sue labbra non uscì mai una parola di amarezza o di dolore per ciò che era andato perduto.
            Alla scuola di don Bosco e di Mamma Margherita, ha vissuto e testimoniato la speranza in pienezza perché, confidando nel Signore e sperando nella Divina Provvidenza, ha realizzato grandi opere e servizi senza budget, anche se non gli è mai mancato il denaro. Non aveva tempo per agitarsi o disperarsi, il suo atteggiamento positivo dava fiducia e speranza agli altri.
            Don Carlo veniva spesso descritto come un uomo dal cuore ricco di ottimismo e speranza davanti alle grandi sofferenze della vita, perché era portato a relativizzare le vicende umane, anche le più difficili; in mezzo alla sua gente era testimone e pellegrino di speranza nel cammino della vita!
            Molto edificante, al fine di comprendere in che modo ed in quali ambiti della vita del Venerabile la virtù della speranza trovò concreta espressione, è anche il racconto che lo stesso padre Carlo Crespi fa in una lettera, inviata da Cuenca nel 1925, al Rettor Maggiore don Filippo Rinaldi. In essa, accogliendo una sua insistente richiesta, gli riferisce un episodio vissuto in prima persona, quando, nel consolare una donna kivara per la perdita prematura del figlio, le annuncia la buona novella della vita senza fine: “Commosso fino alle lacrime mi accostai alla veneranda figlia della selva dai capelli sciolti al vento: l’assicurai che il figlio era morto bene, che prima di morire non aveva avuto sulle labbra che il nome della madre lontana, e che aveva avuto una sepoltura in una cassa espressamente lavorata, essendo certamente la sua anima stata raccolta dal grande Iddio nel Paradiso […]. Potei quindi scambiare tranquillamente alcune parole, gettando in quel cuore infranto il soave balsamo della Fede e della Speranza cristiana”.
            La pratica della virtù della speranza crebbe parallelamente alla pratica delle altre virtù cristiane, incentivandole: fu uomo ricco di fede, di speranza e di carità.
            Quando la situazione socio-economica di Cuenca nel XX secolo peggiorò notevolmente, creando importanti ripercussioni sulla vita della popolazione, ebbe l’intuizione di comprendere che formando i giovani da un punto di vista umano, culturale e spirituale, avrebbe seminato in loro la speranza in una vita e in futuro migliore, contribuendo a cambiare le sorti dell’intera società.
            Padre Crespi intraprese, pertanto, numerose iniziative in favore della gioventù di Cuenca, partendo anzitutto dall’educazione scolastica. La Scuola Popolare Salesiana “Cornelio Merchán”; il Collegio Normale Orientalista rivolto agli insegnanti salesiani; la fondazione delle scuole d’arti e mestieri – che in seguito diventarono il “Técnico Salesiano” e l’Istituto Tecnologico Superiore, culminante nell’Università Politecnica Salesiana – confermano il desiderio del Servo di Dio di offrire alla popolazione cuencana migliori e più numerose prospettive per una crescita spirituale, umana e professionale. I giovani e i poveri, considerati anzitutto quali figli di Dio destinati alla beatitudine eterna, furono quindi raggiunti da padre Crespi attraverso una promozione umana e sociale capace di confluire in una più ampia dinamica, quella della salvezza.
            Tutto ciò fu da lui attuato con pochi mezzi economici, ma abbondante speranza nel futuro dei giovani. Lavorò attivamente senza perdere di vista lo scopo ultimo della propria missione: il conseguimento della vita eterna. È proprio in questo senso che padre Carlo Crespi intese la virtù teologale della speranza ed è attraverso questa prospettiva che passò tutto il suo sacerdozio.
La riaffermazione della vita eterna fu senza dubbio uno dei temi centrali trattati negli scritti di padre Carlo Crespi. Questo dato ci permette di cogliere l’evidente importanza da lui assegnata alla virtù della speranza. Tale dato mostra chiaramente come la pratica di questa virtù permeò costantemente il percorso terreno del Servo di Dio.
            Nemmeno la malattia poté spegnere l’inesauribile speranza che sempre animò padre Crespi.
            Poco prima di chiudere la propria esistenza terrena don Carlo chiese che gli fosse dato fra le mani un crocifisso. La sua morte avvenne il 30 aprile 1982 alle ore 17.30 nella Clinica Santa Inés di Cuenca a causa di una broncopolmonite e d’un attacco cardiaco.
            Il medico personale del Venerabile Servo di Dio, che per 25 anni e fino alla morte, fu testimone diretto della serenità e della consapevolezza con la quale padre Crespi, che sempre aveva vissuto con lo sguardo rivolto al cielo, visse il tanto atteso incontro con Gesù.
            Nel processo testimoniò: “Per me un segno speciale è proprio quell’atteggiamento di aver comunicato con noi in un atto semplicemente umano, ridendo e scherzando e, quando -dico- ha visto che le porte dell’eternità erano aperte e forse la Vergine l’aspettava, ci ha zittito e ci ha fatto pregare tutti”.

Carlo Riganti,
Presidente Associazione Carlo Crespi




Con Nino Baglieri pellegrino di Speranza, nel cammino del Giubileo

Il percorso del Giubileo 2025, dedicato alla Speranza, trova un testimone luminoso nella vicenda del Servo di Dio Nino Baglieri. Dalla drammatica caduta che lo rese tetraplegico a diciassette anni fino alla rinascita interiore del 1978, Baglieri è passato dall’ombra della disperazione alla luce di una fede operosa, trasformando il suo letto di dolore in cattedra di gioia. La sua storia intreccia i cinque segni giubilari – pellegrinaggio, porta, professione di fede, carità e riconciliazione – mostrando che la speranza cristiana non è evasione, ma forza che apre il futuro e sostiene ogni cammino.

1. Sperare come attesa
            La speranza, secondo il vocabolario online Treccani, è un sentimento di “aspettazione fiduciosa nella realizzazione, presente o futura, di quanto si desidera”. L’etimologia del sostantivo “speranza” deriva dal latino spes, a sua volta derivato dalla radice sanscrita spa– che significa tendere verso una meta. Nella lingua spagnola “sperare” e “aspettare” vengono tradotti con il verbo esperar, che racchiude in un unico lemma entrambi i significati: quasi si potesse aspettare solo ciò che si spera. Questo stato d’animo ci permette di affrontare la vita e le sue sfide con coraggio e una luce nel cuore sempre ardente. La speranza viene espressa – in positivo o in negativo – anche in alcuni proverbi della saggezza popolare: “La speranza è l’ultima a morire”, “Finché c’è vita c’è speranza”, “Chi di speranza vive, disperato muore”.
            Quasi raccogliendo questo “sentire condiviso” sulla speranza, ma consapevole di dover aiutare a riscoprire la speranza nella sua dimensione più piena e vera, Papa Francesco ha voluto dedicare il Giubileo Ordinario del 2025 alla Speranza (Spes non confundit [La speranza non delude] ne è la bolla di indizione) e già nel 2014 diceva: “La risurrezione di Gesù non è il finale lieto di una bella favola, non è l’happy end di un film; ma è l’intervento di Dio Padre e là dove si infrange la speranza umana. Nel momento nel quale tutto sembra perduto, nel momento del dolore, nel quale tante persone sentono come il bisogno di scendere dalla croce, è il momento più vicino alla risurrezione. La notte diventa più oscura proprio prima che incominci il mattino, prima che incominci la luce. Nel momento più oscuro interviene Dio e risuscita” (cf. Udienza del 16 aprile 2014).
            In questo contesto cade a pennello la vicenda del Servo di Dio Nino Baglieri (Modica, 1° maggio 1951 – 2 marzo 2007) che giovane muratore diciassettenne, cadendo da un’impalcatura alta diciassette metri per il cedimento improvviso di un tavolone, si schiantò al suolo rimanendo tetraplegico: da quella caduta, il 6 maggio 1968, potrà muovere solo testa e collo, dovendo dipendere a vita dagli altri in tutto, anche nelle cose più semplici e umili. Nino non può nemmeno stringere la mano a un amico, o fare una carezza alla mamma… e vede svanire la possibilità di realizzare i suoi sogni. Quale speranza di vita ha ora questo giovane? Con quali sentimenti può fare i conti? Quale futuro lo attende? La prima risposta di Nino è la disperazione, il buio più totale davanti a una richiesta di senso che non trova risposta: dapprima un lungo peregrinare in ospedali di regioni italiane diverse, poi il compatirlo di amici e conoscenti portano Nino a ribellarsi e a rinchiudersi in dieci lunghi anni di solitudine e rabbia, mentre il tunnel della vita si fa sempre più profondo.
            Nella mitologia greca, Zeus affida a Pandora un vaso che contiene tutti i mali del mondo: scoperchiato, gli uomini perdono l’immortalità e iniziano una vita di sofferenza. Per salvarli, Pandora riapre allora il vaso e libera elpis, la speranza, rimasta sul fondo: era l’unico antidoto agli affanni della vita. Guardando invece al Datore di ogni bene, sappiamo che «la speranza non delude» (Rm 5,5). Papa Francesco nella Spes non confundit scrive: “Nel segno di questa speranza l’apostolo Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma […] Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza” (ivi, 1).

2. Da Testimone della “disperazione” ad “ambasciatore” di speranza
            Ritorniamo allora alla vicenda del nostro Servo di Dio, Nino Baglieri.
            Devono passare dieci lunghi anni prima che Nino esca dal tunnel della disperazione, le fitte tenebre si diradino ed entri la Luce. Era il pomeriggio del 24 marzo, Venerdì Santo del 1978, quando padre Aldo Modica con un gruppetto di giovani si recò a casa di Nino sollecitato dalla sua mamma Peppina e da alcune persone che frequentavano il cammino del Rinnovamento nello Spirito, allora agli albori nella vicina parrocchia salesiana. Scrive Nino: “mentre invocavano lo Spirito Santo sentii una sensazione stranissima, un grande calore invadeva il mio corpo, un forte formicolio in tutte le [mie] membra, come se una forza nuova entrasse in me e qualcosa di vecchio uscisse. In quel momento dissi il mio “sì” al Signore, accettai la mia croce e rinacqui a vita nuova, diventai un uomo nuovo. Dieci anni di disperazione cancellati in pochi istanti, perché una gioia sconosciuta entrò nel mio cuore. Io desideravo la guarigione del mio corpo e invece il Signore mi graziava con una gioia ancora più grande: la guarigione spirituale”.
            Inizia per Nino un nuovo cammino: da “testimone della disperazione” diventa “pellegrino di speranza”. Non più isolato all’interno della sua stanzetta ma “ambasciatore” di questa speranza, racconta il suo vissuto attraverso una trasmissione messa in onda da una radio locale e – grazia ancora più grande – il buon Dio gli dona la gioia di poter scrivere con la bocca. Nino confida: “Nel mese di marzo del 1979 il Signore mi fece un grande Miracolo imparai a scrivere, con la bocca, incominciai così, ero con i miei amici che si stavano facendo i compiti dissi di darmi una matita e un quaderno, incominciai a fare dei segni e a disegnare qualcosa, ma poi scoprii che potevo scrivere e così incominciai a scrivere”. Inizia allora a redigere le sue memorie e ad avere contatti tramite lettera con persone di ogni categoria e in varie parti del mondo, per migliaia di lettere a tutt’oggi custodite. La ritrovata speranza lo rende creativo, ora Nino riscopre il gusto delle relazioni e vuole rendersi – come può – indipendente: con l’ausilio di un’asticella che usa con la bocca, e di un elastico applicato al telefono, compone i numeri telefonici per mettersi in comunicazione con tante persone ammalate, per rivolgere loro una parola di conforto. Scopre un nuovo modo di affrontare la propria condizione di sofferenza, che lo fa uscire dall’isolamento e lo avvia a diventare testimone del Vangelo della gioia e della speranza: “Adesso c’è tanta gioia nel mio cuore, in me non esiste più dolore, nel mio cuore c’è il Tuo amore. Grazie Gesù mio Signore, dal mio letto di dolore ti voglio lodare e con tutto il mio cuore ti voglio ringraziare perché mi hai chiamato per conoscere la vita per conoscere la vera vita”.
            Nino ha cambiato prospettiva, ha effettuato una virata di 360° – il Signore gli ha regalato la conversione – ha posto la sua fiducia in quel Dio misericordioso che, attraverso la “disgrazia”, l’ha chiamato a lavorare nella sua vigna, per essere segno e strumento di salvezza e speranza. Così, tante persone che andavano a trovarlo per consolarlo uscivano consolati, con le lacrime agli occhi: non trovavano su quel lettuccio un uomo triste e mesto, ma un volto sorridente che sprigionava – nonostante tante sofferenze, tra cui le piaghe e i problemi respiratori – gioia di vivere: il sorriso era una costante sul suo volto e Nino si sentiva “utile da un letto di croce”. Nino Baglieri è l’opposto di tante persone di oggi, perennemente alla ricerca del senso della vita, che puntano al successo facile e alla felicità di cose effimere e senza valore, vivono on-line, consumano la vita in un click, vogliono tutto e subito ma hanno gli occhi tristi, spenti. Nino in apparenza non aveva niente, eppure aveva la pace e la gioia nel cuore: non ha vissuto isolato, ma sostenuto dall’amore di Dio espresso dall’abbraccio e dalla presenza di tutta la sua famiglia e di sempre più persone che lo conoscono ed entrano in rapporto con lui.

3. Ravvivare la speranza
            Costruire la speranza è: ogni volta che non mi accontento della mia vita e mi impegno per cambiarla. Ogni volta che non mi lascio indurire dalle esperienze negative e impedisco che esse mi rendano diffidente. Ogni volta che cado e provo a rialzarmi, che non permetto che le paure abbiano l’ultima parola. Ogni volta che, in un mondo segnato dai conflitti, scelgo la fiducia e di rilanciare sempre, con tutti. Ogni volta che non sfuggo al sogno di Dio che mi dice: “voglio che tu sia felice”, “voglio che tu abbia una vita piena… piena anche di santità”. Il culmine della virtù della speranza è infatti uno sguardo al Cielo per abitare bene la terra o, come direbbe Don Bosco, un camminare con i piedi per terra e il cuore in Cielo.
            In questo solco di speranza trova compimento il giubileo che, con i suoi segni, ci chiede di metterci in cammino, di varcare alcune frontiere.
            Primo segno, il pellegrinaggio: quando ci si muove da un luogo all’altro si è aperti al nuovo, al cambiamento. Tutta la vita di Gesù è stata “un mettersi in viaggio”, un cammino di evangelizzazione che si compie nel dono della vita e poi oltre, con la Risurrezione e l’Ascensione.
            Secondo segno, la porta: in Gv 10,9 Gesù afferma «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo». Passare la porta è lasciarsi accogliere, essere comunità. Nel vangelo si parla anche della “porta stretta”: il Giubileo diventa cammino di conversione.
            Terzo segno, la professione di fede: esprimere l’appartenenza a Cristo e alla Chiesa e il dichiararlo pubblicamente.
            Quarto segno la carità: la carità è la password per il cielo, in 1Pt 4,8 l’apostolo Pietro ammonisce «conservate tra voi una grande carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati».
            Quinto segno, dunque, la riconciliazione e l’indulgenza giubilare: si tratta di un “tempo favorevole” (cf. 2Cor 6,2) per sperimentare la grande misericordia di Dio e percorrere cammini di riavvicinamento e perdono verso i fratelli; per vivere la preghiera del Padre Nostro dove si chiede “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. È diventare creature nuove.
            Anche nella vita di Nino ci sono episodi che lo collegano – sul “filo” della speranza – a queste dimensioni giubilari. Per esempio il pentimento per alcune bravate della sua infanzia, come quando, in tre (lui racconta), “rubavamo le offerte delle Messe in sacrestia, ci servivano per giocare al bigliardino. Quando incontri cattivi compagni ti portano nelle male vie. Poi uno ha preso il mazzo di chiavi dell’Oratorio e l’ha nascosto nella mia borsa dei libri che era nello studio; hanno trovato le chiavi, hanno chiamato i genitori, ci hanno dato due schiaffoni e ci hanno cacciato alla scuola. Vergogna!”. Ma soprattutto nella vita di Nino c’è la carità, l’aiutare il fratello povero, nella prova fisica e morale, il farsi vivo con chi ha fatiche anche psicologiche e il raggiungere per iscritto i fratelli in carcere per testimoniare loro la bontà e l’amore di Dio. A Nino, che prima della caduta era stato muratore, “[mi] piaceva costruire con le mie mani qualcosa che restasse nel tempo: anche ora – scrive – mi sento di essere un muratore che lavora nel Regno di Dio, per lasciare qualcosa che resti nel tempo, per vedere le Opere Meravigliose di Dio che compie nella nostra Vita». Confida: «il mio corpo sembra morto, ma nel mio petto continua a battere il mio cuore. Le gambe non si muovono, eppure, per le vie del mondo io cammino”.

4. Pellegrino verso il cielo
            Nino, consacrato cooperatore salesiano della grande Famiglia Salesiana, conclude il suo “pellegrinaggio” terreno venerdì 2 marzo 2007 alle ore 8.00 del mattino, a soli 55 anni, di cui 39 trascorsi da tetraplegico tra letto e carrozzina, dopo aver chiesto scusa alla famiglia per le fatiche che ha dovuto affrontare per la sua condizione. Lascia la scena di questo mondo in tuta e scarpette, come ha espressamente chiesto, per correre nei verdi prati fioriti e saltellare come una cerva lungo i corsi d’acqua. Leggiamo nel suo Testamento spirituale: “non finirò mai di ringraziarti, o Signore, per avermi chiamato a Te attraverso la Croce il 6 maggio 1968. Una croce pesante per le mie giovani forze…”. Il 2 marzo la vita – continuo dono che parte dai genitori e viene piano piano alimentato con stupore e bellezza – inserisce per Nino Baglieri il suo tassello più importante: quello dell’abbraccio con il suo Signore e Dio, accompagnato dalla Madonna.
            Alla notizia della sua dipartita da più parti si leva un coro unanime: «è morto un santo», un uomo che ha fatto del suo letto di croce il vessillo della vita piena, dono per tutti. Quindi un grande testimone di speranza.
            Trascorsi 5 anni dalla morte così, come previsto dalle Normae Servandae in Inquisitionibus ab Episcopis faciendis in Causis Sanctorum del 1983, il vescovo della Diocesi di Noto, su richiesta del Postulatore Generale della Congregazione Salesiana, sentita la Conferenza Episcopale Siciliana e ottenuto il Nihil obstat della Santa Sede, apre l’Inchiesta Diocesana della Causa di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio Nino Baglieri.
            Il processo diocesano, durato 12 anni, si è svolto lungo due direttrici portanti: il lavoro della Commissione Storia che ha ricercato, raccolto, studiato e presentato tante fonti, soprattutto Scritti “del” e “sul” Servo di Dio; il Tribunale Ecclesiastico, titolare dell’Inchiesta, che ha altresì ascoltato sotto giuramento i testimoni.
            Questo percorso si è concluso lo scorso 5 maggio 2024 alla presenza di mons. Salvatore Rumeo, attuale vescovo della diocesi di Noto. Pochi giorni dopo gli Atti processuali sono stati consegnati al Dicastero delle Cause dei Santi che ha proceduto alla loro apertura in data 21 giugno 2024. All’inizio del 2025, il medesimo Dicastero ne ha decretato la “Validità Giuridica”, con cui la Fase romana della Causa può entrare nel vivo.
            Ora l’apporto alla Causa prosegue anche continuando a far conoscere la figura di Nino che al termine del suo cammino terreno ha raccomandato: “non lasciatemi senza far nulla. Io continuerò dal cielo la mia missione. Vi scriverò dal Paradiso”.
            Il cammino della speranza in sua compagnia diventa così desiderio del Cielo, quando “ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio (cfr 1Cor 13,12) e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero dell’universo, che parteciperà insieme a noi della pienezza senza fine […]. Nell’attesa, ci uniamo per farci carico di questa casa che ci è stata affidata, sapendo che ciò che di buono vi è in essa verrà assunto nella festa del cielo. Insieme a tutte le creature, camminiamo su questa terra cercando Dio […] Camminiamo cantando!” (cf. Laudato Sì, 243-244).

Roberto Chiaramonte




Don Bosco promotore della “misericordia divina”

Giovanissimo sacerdote, don Bosco ha pubblicato un volume, in formato minuscolo, intitolato “Esercizio di divozione alla misericordia di Dio”.

Tutto cominciò dalla marchesa di Barolo
            La marchesa Giulia Colbert di Barolo (1785-1864), dichiarata venerabile da papa Francesco il 12 maggio 2015, coltivava personalmente una particolare devozione alla divina misericordia, per cui aveva fatto introdurre nelle comunità religiose ed educative da lei fondate vicino a Valdocco l’abitudine di una settimana di meditazioni e preghiere sul tema. Ma non si accontentava. Desiderava che tale pratica si diffondesse anche altrove, soprattutto nelle parrocchie, in mezzo al popolo. Ne chiese il consenso alla Santa Sede, che non solo l’accordò, ma concesse a tale pratica devozionale varie indulgenze. A questo punto si trattava dunque di fare una pubblicazione adeguata allo scopo.
            Siamo nell’estate 1846, quando don Bosco, superata la grave crisi di sfinimento che lo aveva portato sull’orlo della tomba, si era ritirato presso mamma Margherita ai Becchi a fare la convalescenza e si era ormai “licenziato” dal suo apprezzatissimo servizio di cappellano ad una delle opere della Barolo, con grave disappunto della marchesa stessa. Ma i “suoi giovani” lo chiamavano alla casa Pinardi appena affittata.
            A questo punto intervenne il famoso patriota Silvio Pellico, segretario-bibliotecario della marchesa ed estimatore ed amico di don Bosco, che ne aveva messo in musica alcune poesie. Ci raccontano le memorie salesiane che il Pellico, con un certo ardire, propose alla marchesa di incaricare don Bosco di fare la pubblicazione che le interessava. Che fece la marchesa? Accettò, sia pure non troppo entusiasta. Chissà? Forse voleva metterlo alla prova. E don Bosco, accettò pure lui.

Un tema che gli stava a cuore
            Il tema della misericordia di Dio rientrava fra i suoi interessi spirituali, quelli su cui era stato formato in seminario a Chieri e soprattutto al Convitto di Torino. Solo due anni prima aveva finito di frequentare le lezioni del conterraneo san Giuseppe Cafasso, appena quattro anni più vecchio di lui, ma suo direttore spirituale, di cui seguiva le predicazioni agli esercizi spirituali ai sacerdoti, ma anche formatore di una mezza dozzina di altri fondatori, alcuni anche santi. Ebbene il Cafasso, se pur figlio della cultura religiosa del suo tempo – fatta di prescrizioni e della logica del “fare il bene per sfuggire il castigo divino e meritarsi il Paradiso” – non perdeva occasione tanto nel suo insegnamento quanto nella sua predicazione di parlare della misericordia di Dio. E come poteva non farlo se era dedito costantemente al sacramento della Penitenza e all’assistenza ai condannati a morte? Tanto più che tale indulgenziata devozione all’epoca costituiva una reazione pastorale contro il rigorismo del giansenismo che sosteneva la predestinazione di coloro che si salvavano.
            Don Bosco dunque, appena tornato dal paese ai primi di novembre, si mise al lavoro, seguendo le pratiche di pietà approvate da Roma e diffuse in Piemonte. Con l’aiuto di qualche testo che poté facilmente trovare nella biblioteca del Convitto che ben conosceva, a fine anno pubblicava a sue spese un libriccino di 111 pagine, formato minuscolo, intitolato “Esercizio di divozione alla Misericordia di Dio. Ne fece immediatamente omaggio alle ragazze, alle donne e alle suore delle fondazioni della Barolo. Non è documentato, ma logica e riconoscenza vuole che ne abbia fatto omaggio pure alla marchesa Barolo, la promotrice del progetto: ma la stessa logica e riconoscenza vorrebbe che la marchesa non si sia fatta vincere in generosità, facendogli pervenire, magari in anonimato come altre volte, un suo contributo alle spese.
            Non c’è qui lo spazio per presentare i contenuti “classici” del libretto di meditazioni e preghiere di don Bosco; ci preme solo evidenziare che il suo principio di fondo è: “ciascuno deve invocare la Misericordia di Dio per sé stesso e per tutti gli uomini, perché ‘siamo tutti peccatori’ […] tutti bisognosi di perdono e di grazia […] tutti chiamati all’eterna salvezza”.
            Significativo è poi il fatto che a conclusione di ciascun giorno della settimana don Bosco, nella logica del titolo “esercizi di divozione”, assegni una pratica di pietà: invitare altri ad intervenire, perdonare chi ci ha offesi, fare subito una mortificazione per ottenere da Dio misericordia a tutti i peccatori, fare qualche elemosina o sostituirla con la recita di preghiere o giaculatorie ecc. L’ultimo giorno la pratica è sostituita da un simpatico invito, forse anche allusivo alla marchesa di Barolo, di recitare “almeno un’Ave Maria per la persona che ha promosso questa divozione!”.

La prassi educativa
            Ma al di là degli scritti con finalità edificanti e formative, ci si può chiedere come don Bosco abbia in concreto educato i suoi giovani a confidare nella misericordia divina. La risposta non è difficile e si potrebbe documentarla in tanti modi. Ci limitiamo a tre esperienze vitali vissute a Valdocco: i sacramenti della Confessione e Comunione e la sua figura di “padre pieno di bontà e amore”

La Confessione
            Don Bosco ha avviato alla vita cristiana adulta centinaia di giovani di Valdocco. Ma con quali mezzi? Due in particolare: la Confessione e la Comunione.
            Don Bosco, si sa, è uno dei grandi apostoli della Confessione, e questo anzitutto perché ha esercitato a fondo tale ministero, così come, per altro, il già citato suo maestro e direttore spirituale Cafasso e l’ammiratissima figura del quasi coetaneo il santo curato d’Ars (1876-1859). Se la vita di quest’ultimo, come è stato scritto, “è trascorsa in confessionale” e quella del primo ha saputo offrire molte ore della giornata (“il tempo necessario”) per ascoltare in confessione “vescovi, sacerdoti, religiosi, laici eminenti e gente semplice che accorrevano a lui”, quella di don Bosco non poté fare altrettanto per le tante occupazioni in cui era immerso. Ciononostante gli si è messo in confessionale a disposizione dei giovani (e dei salesiani) tutti i giorni in cui a Valdocco o in case salesiane si celebravano le funzioni religiose o vi erano occasioni speciali.
            Aveva per altro incominciato a farlo appena finito di “imparare a fare il prete” al Convitto (1841-1844), quando di domenica radunava i giovani nell’oratorio itinerante del biennio, quando si recava a confessare al santuario della Consolata o nelle parrocchie piemontesi in cui era invitato, quando approfittava dei viaggi in carrozza o in treno per confessare vetturino o passeggeri. Non smise mai di farlo fino all’ultimo, allorché invitato a non stancarsi con le confessioni, rispondeva che ormai era l’unica cosa che ormai poteva fare per i suoi giovani. E quale non è stato il suo dolore quando, per motivi burocratici e di malintesi, non gli era stata rinnovata dall’arcivescovo la patente di confessione! Le testimonianze al riguardo di don Bosco confessore sono innumerevoli e del resto la famosa fotografia, che lo ritrae nell’atto di confessare un ragazzino circondato da tanti altri in attesa di farlo, dovette piacere molto allo stesso santo che forse ne ebbe l’idea e che comunque rimane tuttora un’icona significativa ed indelebile della sua figura nell’immaginario collettivo.
            Ma al di là della sua esperienza di confessore, don Bosco si è fatto promotore instancabile del sacramento della Riconciliazione, ne ha divulgato la necessità, l’importanza, l’utilità della frequenza, ha indicato i pericoli di una celebrazione priva delle necessarie condizioni, ha illustrato le classiche modalità il modo di accostarvisi con frutto. Lo ha fatto attraverso conferenze, buone notti, motti arguti e paroline all’orecchio, lettere circolari ai giovani dei collegi, lettere personali, narrazione di numerosi sogni che avevano come oggetto proprio la confessione, bene o male fatta. Secondo poi la sua intelligente prassi catechistica narrava loro episodi di conversioni di grandi peccatori, ed anche sue personali esperienze al riguardo.
            Don Bosco, profondo conoscitore dell’anima giovanile, per indurre tutti giovani al pentimento sincero, fa leva sull’amore e riconoscenza verso Dio, presentato nella sua infinita bontà, generosità e misericordia. Per scuotere invece i cuori più freddi e induriti, descrive i possibili castighi del peccato e impressiona salutarmente le loro menti con la viva descrizione del giudizio divino e dell’Inferno. Anche in questi casi tuttavia, non soddisfatto di aver spinto i ragazzi al dolore del peccato commesso, cerca di portarli al bisogno della misericordia divina, disposizione importante per anticipare loro il perdono ancora prima della confessione sacramentale. Don Bosco, al solito, non entra in disquisizioni dottrinali, gli interessa solo una confessione sincera, che terapeuticamente cicatrizzi la ferita del passato, ricomponga il tessuto spirituale del presente per un futuro di “vita di grazia”.
            Don Bosco crede al peccato, crede al peccato grave, crede all’inferno e della loro esistenza parla a lettori ed uditori. Ma di riflesso è anche convinto che Dio è la misericordia in persona, per cui ha dato all’uomo il sacramento della Riconciliazione. Ed eccolo allora insistere sulle condizioni per riceverlo bene e soprattutto sul confessore “padre” e “medico” e non tanto “dottore e giudice”: “Il confessore sa quanto sia ancora maggiore della vostre colpe la misericordia di Dio che vi concedere il perdono mediante il suo intervento” (Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, pp. 24-25).
            Stando anche alle memorie salesiane, suggeriva sovente ai suoi ragazzi d’invocare la divina misericordia, di non scoraggiarsi dopo il peccato, ma di ritornare a confessarsi senza aver paura, confidando nella bontà del Signore e facendo poi fermi propositi di bene.
            Da “educatore sul campo giovanile” don Bosco sente l’esigenza di insistere di meno sull’ex opere operato e di più sull’ex opere operantis, vale dire sulle disposizioni del penitente. A Valdocco tutti si sentivano invitati a confessarsi bene, tutti avvertivano il rischio di confessioni cattive e l’importanza di confessarsi bene; molti di loro poi sentivano di vivere in una terra benedetta dal Signore. Non per nulla la misericordia divina aveva fatto sì che un giovane defunto si risvegliasse dopo che si erano esposti i drappi funebri perché potesse confessare (a don Bosco) i suoi peccati.
            Insomma il sacramento della confessione, ben spiegato nei suoi tratti specifici e celebrato di frequente, è stato il mezzo forse più̀ efficace attraverso il quale il santo piemontese ha portato i suoi giovani a confidare nella immensa misericordia di Dio.

II-a parteLa Comunione
            Ma anche la Comunione, il secondo pilastro della pedagogia religiosa di don Bosco, servì allo scopo.
            Don Bosco è certamente uno dei massimi promotori della pratica sacramentale della Comunione frequente. La sua dottrina, modellata sul modo di pensare della controriforma, più che alla celebrazione liturgica dell’Eucaristica, dava importanza alla Comunione, anche se nella sua frequenza vi è stata un’evoluzione. Nei i primi vent’anni della sua vita sacerdotale, sulla scia di Sant’Alfonso, ma anche del Concilio di Trento e prima ancora di Tertulliano e S. Agostino, suggeriva la comunione settimanale, o più volte alla settimana o anche tutti i giorni a seconda della perfezione delle disposizioni corrispondenti alle grazie del sacramento. Domenico Savio, che a Valdocco aveva cominciato a confessarsi e comunicarsi ogni quindici giorni, passò poi a farlo ogni settimana, indi tre volte alla settimana, infine, dopo un anno di intensa crescita spirituale, ogni giorno, ovviamente sempre seguendo l’avviso del confessore, lo stesso don Bosco.
            Successivamente nei secondi anni sessanta don Bosco, sulla base delle sue esperienze pedagogiche e di una forte corrente teologica favorevole alla comunione frequente, che vedeva come capofila il francese mons. de Ségur e il priore di Genova don Giuseppe Frassinetti, passò ad invitare i suoi giovani ad una maggior frequenza, convinto che essa permetteva passi decisivi nella vita spirituale e favoriva la loro crescita nell’amore di Dio. E nel caso di impossibilità di Comunione Sacramentale quotidiana, suggeriva quella spirituale, magari nel corso dei una visita al Santissimo Sacramento, tanto apprezzata da Sant’Alfonso. Comunque l’importante era tenere la coscienza in stato da poter fare la comunione tutti i giorni: la decisione spettava in un certo modo al confessore.
            Per don Bosco ogni Comunione degnamente ricevuta – digiuno prescritto, stato di grazia, volontà di staccarsi dal peccato, un bel ringraziamento dopo di essa – cancella i difetti quotidiani, rafforza l’anima per evitarli in futuro, aumenta la confidenza in Dio e nella sua infinita bontà e misericordia; inoltre è fonte di grazia per riuscire nella scuola e nella vita, è aiuto nel sopportare le sofferenze e nel vincere le tentazioni.
            Don Bosco crede che la Comunione sia una necessità per i “buoni” per mantenersi tali e per i “cattivi” per diventare “buoni”. Essa è per chi vuol farsi santo, non per i santi, come le medicine si danno ai malati. Ovviamente sa che la sola frequenza non è sicuro indizio di bontà, in quanto c’è chi la riceva con molta tiepidezza e per abitudine, tanto più che la stessa superficialità dei giovani sovente non permette loro di capire tutta l’importanza di quello che fanno.
            Con la Comunione poi si possono impetrare dal Signore particolari grazie per sé e per altri. Le lettere di don Bosco sono colme di richieste ai suoi giovani di pregare e di ricevere la Comunione secondo la sua intenzione, perché il Signore gli conceda la buona riuscita negli “affari” di ogni ordine in cui si trova immerso. E lo stesso fa con tutti i suoi corrispondenti, invitati ad accostarsi a tale sacramento per ottenere le grazie richieste, mentre lui avrebbe fatto altrettanto nella celebrazione della santa Messa.
            Don Bosco ci tiene tanto che i suoi ragazzi crescano nutriti dai sacramenti, ma vuole anche il massimo rispetto della loro libertà. E ha lasciato disposizioni precise ai suoi educatori nel suo trattatello sul Sistema Preventivo: “Non mai obbligare i giovani alla frequenza dei santi sacramenti ma soltanto incoraggiarli, e porgere loro comodità di approfittarne”.
            Nel tempo stesso però rimane irremovibile nella sua convinzione che i sacramenti hanno un’importanza capitale. Ha scritto perentoriamente: “Dicasi pure quanto si vuole intorno ai vari sistemi di educazione, ma io non trovo alcuna base sicura se non nella frequenza della Confessione e della Comunione” (Il pastorello delle Alpi, ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera, 1864. p. 100).

Una paternità e misericordia fatta persona
            La misericordia di Dio, operante particolarmente nel momento dei sacramenti della Confessione e della Comunione, trovava poi la sua espressione esterna non solo in un don Bosco “confessore padre”, ma anche “padre, fratello, amico” dei giovani nella vita ordinaria di tutti i giorni. Con qualche esagerazione si potrebbe dire che la loro confidenza con don Bosco era tale che tanti di loro quasi non facevano distinzione fra don Bosco “confessore” e don Bosco “amico” e “fratello”; altri poi potevano talora scambiare l’accusa sacramentale con le sincere effusioni di un figlio verso il padre; di converso la conoscenza dei giovani da parte di don Bosco era tale che con domande sobrie ispirava loro estrema confidenza e non di rado sapeva fare l’accusa al loro posto.
            La figura di Dio padre, misericordioso e provvidente, che lungo tutta la storia ha dimostrato la sua bontà da Adamo in poi verso gli uomini, giusti o peccatori, ma tutti bisognosi di aiuto e oggetto di cure paterne, e comunque tutti chiamati alla salvezza in Gesù Cristo, si viene così a modulare e a riflettere sulla bontà di don Bosco “Padre dei suoi giovani”, che vuole solo il loro bene, che non li abbandona, sempre pronto a comprenderli, compatirli, perdonarli. Per molti di loro, orfani, poveri ed abbandonati, adusi fin da piccoli ad un duro lavoro quotidiano, oggetto di manifestazioni molto contenute di tenerezza, figli di un’epoca in cui ciò che prevaleva era la decisa sottomissione e l’obbedienza assoluta a qualunque autorità costituita, don Bosco è stato forse la carezza mai sperimentata di un padre, la “tenerezza” di cui parla papa Francesco.
            Commuove tuttora la lettera ai giovani della casa di Mirabello sul finire del 1864: “Quelle voci, quegli evviva, quel baciare e stringere la mano, quel sorriso cordiale, quel parlarci dell’anima, quell’incoraggiarci reciprocamente al bene sono cose che mi imbalsamarono il cuore, e per ciò non ci posso pensare senza sentirmi commosso fino alle lagrime. Vi dirò […] che voi siete la pupilla dell’occhio mio” (Epistolario II a cura di F. Motto II, lett. n. 792).
            Ancor più commovente la lettera ai giovani di Lanzo il 3 gennaio 1876: “Lasciate che ve lo dica e niuno si offenda, voi siete tutti ladri; lo dico e lo ripeto, voi mi avete preso tutto. Quando fui a Lanzo, mi avete incantato con la vostra benevolenza ed amorevolezza, mi avete legate le facoltà della mente colla vostra pietà; mi rimaneva ancora questo povero cuore, di cui già mi avevate rubati gli affetti per intiero. Ora la vostra lettera segnata da 200 mani amiche e carissime hanno preso possesso di tutto questo cuore, cui nulla più è rimasto, se non un vivo desiderio di amarvi nel Signore, di farvi del bene e salvare l’anima di tutti» (Epistolario III, lett. n. 1389).
            L’amorevolezza con cui trattava e voleva che i salesiani trattassero i ragazzi aveva un fondamento divino. Lo affermava citando un’espressione di s. Paolo: “La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo”.
            L’amorevolezza era dunque un segno della misericordia e dell’amore divino che sfuggiva al sentimentalismo e a forme di sensualità in ragione della carità teologica che ne era la sorgente. Don Bosco comunicava tale amore ai singoli ragazzi e anche a gruppi di loro: “Che io vi porti molta affezione, non occorre che ve lo dica, ve ne ho date chiare prove. Che poi voi mi vogliate bene, non ho bisogno che lo diciate, perché me lo avete costantemente dimostrato. Ma questa nostra reciproca affezione sopra cosa è fondata? […] Dunque il bene delle anime nostre è il fondamento della nostra affezione” (Epistolario II, n. 1148). L’amore di Dio, il primum teologico, è dunque il fondamento del primum pedagogico.
            L’amorevolezza era anche la traduzione dell’amore divino in amore realmente umano, fatto di giusta sensibilità, amabile cordialità, affetto benevolo e paziente che tende alla comunione profonda del cuore. Insomma quell’amore effettivo ed affettivo che si sperimenta in forma privilegiata nella relazione fra educando ed educatore, allorquando gesti di amicizia e di perdono da parte dell’educatore inducono il giovane, in forza dell’amore che guida l’educatore, ad aprirsi alla confidenza, a sentirsi sostenuto nel suo sforzo di superarsi e di impegnarsi, a dare il consenso e ad aderire in profondità ai valori che l’educatore vive personalmente e gli propone. Il giovane capisce che questa relazione lo ricostruisce e lo ristruttura come uomo. L’impresa più ardua del Sistema preventivo è proprio quella di conquistare il cuore del giovane, di goderne la stima, la fiducia, di farselo amico. Se un giovane non ama l’educatore, questi può fare ben poco del giovane e per il giovane.

Le opere di misericordia
            Si potrebbe ora continuare con le opere di Misericordia che il catechismo distingue tra quelle corporali e quelle spirituali, fissando due gruppi di sette. Non sarebbe difficile documentare sia come don Bosco abbia vissuto, praticato e incentivato la pratica di tali opere di misericordia sia come con il suo “essere ed operare” abbia di fatto costituito un segno e testimonianza visibile, con fatti e parole, dell’amore di Dio verso gli uomini. Per limiti di spazio ci limitiamo ad indicare la possibilità della ricerca. Resta però fermo che oggi esse sembrano abbandonate anche per la falsa contrapposizione fra misericordia e giustizia, come se la misericordia non fosse un modo tipico di esprimere quell’amore che, in quanto tale, non può mai contraddire la giustizia.




Con don Bosco. Sempre

Non è indifferente celebrare un Capitolo generale in un luogo o in un altro. Certamente, a Valdocco, nella “culla del carisma”, abbiamo l’opportunità di riscoprire la genesi della nostra storia e ritrovare l’originalità che costituisce il cuore della nostra identità di consacrati e apostoli dei giovani.

Nella cornice antica di Valdocco, in cui tutto parla delle nostre origini, sono quasi obbligato a fare memoria di quel dicembre del 1859, in cui don Bosco aveva preso una decisione incredibile, unica nella storia: fondare una congregazione religiosa con dei ragazzi.
Li aveva preparati, ma erano pur sempre giovanissimi. «Da molto tempo pensavo di fondare una Congregazione. Ecco giunto il momento di venire al concreto» spiegò con semplicità don Bosco. «Veramente questa Congregazione non nasce adesso: esisteva già per quell’insieme di Regole che voi avete sempre osservato per tradizione… Si tratta ora di andare avanti, di costituire normalmente la Congregazione e di accettarne le Regole. Sappiate però che vi saranno iscritti soltanto coloro che, dopo averci riflettuto seriamente, vorranno fare a suo tempo i voti di povertà, castità e obbedienza… Vi lascio una settimana di tempo per pensarci sopra».
All’uscita dalla riunione ci fu un silenzio insolito. Ben presto, quando le bocche si aprirono, si poté costatare che don Bosco aveva avuto ragione a procedere con lentezza e prudenza. Alcuni borbottavano tra i denti che don Bosco voleva fare di loro dei frati. Cagliero misurava a grandi passi il cortile in preda a sentimenti contraddittori.
Ma il desiderio di «rimanere con don Bosco» ebbe il sopravvento nella maggioranza. Cagliero uscì nella frase che sarebbe diventata storica: «Frate o non frate, io rimango con don Bosco».
Alla «conferenza di adesione», che si tenne la sera del 18 dicembre, erano in 17.
Don Bosco convocò il primo Capitolo Generale il 5 settembre 1877 a Lanzo Torinese. I partecipanti erano ventitré e il Capitolo durò tre giorni interi.
Oggi, per il Capitolo numero 29, i capitolari sono 227. Sono arrivati da tutte le parti del mondo, in rappresentanza di tutti i salesiani.
All’apertura del primo Capitolo generale, Don Bosco disse ai nostri confratelli: «Il Divin Salvatore dice nel santo Vangelo che dove sono due o tre congregati nel suo nome, ivi si trova Egli stesso in mezzo a loro. Noi non abbiamo altro fine in queste radunanze che la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime redente dal prezioso Sangue di Gesù Cristo».  Possiamo quindi essere certi che il Signore sarà in mezzo a noi e che condurrà Egli le cose in modo tale che tutti si sentano a proprio agio.

Un cambiamento d’epoca
L’espressione evangelica: «Gesù chiamò quelli che voleva con sé e li mandò a predicare» (Mc 3,14-15), dice che Gesù sceglie e chiama quelli che vuole. Tra questi ci siamo anche noi. Il Regno di Dio si rende presente e quei primi Dodici sono un esempio e un modello per noi e per le nostre comunità. I Dodici sono persone comuni, con pregi e difetti, non formano una comunità di puri e neppure un semplice gruppo di amici.
Sanno, come ha detto Papa Francesco, che “Viviamo un cambiamento d’epoca più che un’epoca di cambiamenti”.  A Valdocco, in questi giorni, si respira un clima di grande consapevolezza. Tutti i confratelli sentono che questo è un momento di grande responsabilità.
Nella vita della maggioranza dei confratelli, delle ispettorie e della Congregazione ci sono molte cose positive, ma questo non basta e non può servire da “consolazione”, perché il grido del mondo, le grandi e nuove povertà, la lotta quotidiana di tante persone – non soltanto povere ma anche semplici e laboriose – si alza forte come richiesta di aiuto. Sono tutte domande che ci devono provocare e scuotere e non lasciarci tranquilli.
Con l’aiuto delle ispettorie attraverso la consultazione, crediamo di aver individuato da un lato i principali motivi di preoccupazione e dall’altro i segni di vitalità della nostra Congregazione, declinati sempre con i tratti culturali specifici di ogni contesto.
Durante il Capitolo proponiamo di concentrarci su cosa significhi per noi essere veramente salesiani appassionati di Gesù Cristo, perché senza questo offriremo buoni servizi, faremo del bene alle persone, aiuteremo, ma non lasceremo una traccia profonda.
La missione di Gesù continua e si rende visibile oggi nel mondo anche attraverso noi, suoi inviati. Siamo consacrati per costruire ampi spazi di luce per il mondo di oggi, per essere profeti. Siamo stati consacrati da Dio e posti alla sequela del suo amato Figlio Gesù, per vivere veramente come conquistati da Dio. Perciò ancora una volta l’essenziale si gioca tutto nella fedeltà della Congregazione allo Spirito Santo, vivendo, con lo spirito di Don Bosco, una vita consacrata salesiana incentrata in Gesù Cristo.
La vitalità apostolica, come vitalità spirituale, è impegno a favore dei giovani, dei ragazzi, nelle più svariate povertà, pertanto non ci si può fermare a offrire solo servizi educativi. Il Signore ci chiama a educare evangelizzando, portando la Sua presenza ed accompagnando la vita con opportunità di futuro.
Siamo chiamati a cercare nuovi modelli di presenza, nuove espressioni del carisma salesiano in nome di Dio. Questo sia fatto in comunione con i giovani e con il mondo, tramite “un’ecologia integrale”, nella formazione di una cultura digitale nei mondi abitati dai giovani e dagli adulti.
Ed è forte il desiderio e l’aspettativa che questo sia un Capitolo generale coraggioso, in cui si dicano le cose, senza perdersi in frasi corrette, ben confezionate, ma che non toccano la vita.
In questa missione non siamo soli. Sappiamo e sentiamo che la Vergine Maria è un modello di fedeltà.
È bello tornare con la mente e con il cuore al giorno della solennità dell’Immacolata Concezione del 1887 quando, due mesi prima della sua morte, Don Bosco disse ad alcuni Salesiani che, commossi, lo guardavano e ascoltavano: «Finora abbiamo camminato sul certo. Non possiamo errare; è Maria che ci guida».
Maria Ausiliatrice, la Madonna di Don Bosco, ci guida. Lei è la Madre di tutti noi ed è Lei che ripete, come a Cana di Galilea in quest’ora del CG29: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
La nostra Madre Ausiliatrice ci illumini e ci guidi, come fece con Don Bosco, ad essere fedeli al Signore e a non deludere mai i giovani, soprattutto quelli più bisognosi.




Vera Grita pellegrina di speranza

            Vera Grita, figlia di Amleto e di Maria Anna Zacco della Pirrera, nata a Roma il 28 gennaio 1923, era la secondogenita di quattro sorelle. Visse e studiò a Savona dove conseguì l’abilitazione magistrale. A 21 anni, durante una improvvisa incursione aerea sulla città (1944), venne travolta e calpestata dalla folla in fuga, riportando conseguenze gravi per il suo fisico che da allora rimase segnato per sempre dalla sofferenza. Passò inosservata nella sua breve vita terrena, insegnando nelle scuole dell’entroterra ligure (Rialto, Erli, Alpicella, Deserto di Varazze), dove si guadagnò la stima e l’affetto di tutti per il suo carattere buono e mite.
            A Savona, nella parrocchia salesiana di Maria Ausiliatrice, partecipava alla Messa ed era assidua al sacramento della Penitenza. Dal 1963 fu suo confessore il salesiano don Giovanni Bocchi. Salesiana Cooperatrice dal 1967, realizzò la sua chiamata nel dono totale di sé al Signore, che in modo straordinario si donava a lei, nell’intimo del suo cuore, con la “Voce”, con la “Parola”, per comunicarle l’Opera dei Tabernacoli Viventi. Sottopose tutti gli scritti al direttore spirituale, il salesiano don Gabriello Zucconi, e custodì nel silenzio del proprio cuore il segreto di quella chiamata, guidata dal divino Maestro e dalla Vergine Maria che l’accompagnarono lungo la via della vita nascosta, della spoliazione e dell’annientamento di sé.
            Sotto l’impulso della grazia divina e accogliendo la mediazione delle guide spirituali, Vera Grita rispose al dono di Dio testimoniando nella sua vita, segnata dalla fatica della malattia, l’incontro con il Risorto e dedicandosi con eroica generosità all’insegnamento e all’educazione degli allievi, sovvenendo alle necessità della famiglia e testimoniando una vita di evangelica povertà. Centrata e salda nel Dio che ama e sostiene, con grande fermezza interiore fu resa capace di sopportare le prove e le sofferenze della vita. Sulla base di tale solidità interiore diede testimonianza di un’esistenza cristiana fatta di pazienza e costanza nel bene.
            Morì il 22 dicembre 1969, a 46 anni, in una cameretta dell’ospedale a Pietra Ligure dove aveva trascorso gli ultimi sei mesi di vita in un crescendo di sofferenze accettate e vissute in unione a Gesù Crocifisso. “L’anima di Vera – scrisse don Borra, Salesiano, suo primo biografo – con i messaggi e le lettere entra nella schiera di quelle anime carismatiche chiamate ad arricchire la Chiesa con fiamme di amore a Dio e a Gesù Eucaristico per la dilatazione del Regno”.

Una vita privata delle umane speranze
            Umanamente, la vita di Vera è segnata sin dall’infanzia dalla perdita di un orizzonte di speranza. La perdita dell’autonomia economica nel suo nucleo familiare, quindi il distacco dai genitori per recarsi Modica in Sicilia dalle zie e soprattutto la morte del padre nel 1943, mettono Vera davanti alle conseguenze di eventi umani particolarmente sofferti.
            Dopo il 4 luglio 1944, giorno del bombardamento su Savona e che segnerà tutta la vita di Vera, anche le sue condizioni di salute saranno compromesse per sempre. Perciò la Serva di Dio si ritrovò giovane ragazza senza alcuna prospettiva di futuro e dovette a più riprese rivedere i propri progetti e rinunciare a tanti desideri: dagli studi universitari all’insegnamento e, soprattutto, a una propria famiglia con il giovane che stava frequentando.
            Nonostante la fine repentina di tutte le sue umane speranze tra i 20 e i 21 anni, in Vera la speranza è molto presente: sia quale virtù umana che crede in un cambiamento possibile e si impegna a realizzarlo (pur molto malata, preparò e vinse il concorso per insegnare), sia soprattutto come virtù teologale – ancorata alla fede – che le infonde energia e diventa strumento di consolazione per gli altri.
            Quasi tutti i testimoni che la conobbero rilevano tale apparente contraddizione tra condizioni di salute compromesse e la capacità di non lamentarsi mai, attestando invece gioia, speranza e coraggio anche in circostanze umanamente disperate. Vera divenne “apportatrice di gioia”.
            Una nipote afferma: «Era sempre malata e sofferente, ma mai l’ho vista scoraggiata o arrabbiata per la sua condizione, aveva sempre una luce di speranza sostenuta dalla grande fede. […] Mia zia era spesso ricoverata in ospedale, sofferente e delicata, ma sempre serena e piena di speranza per il grande Amore che aveva per Gesù».
            Anche la sorella Liliana trasse dalle telefonate pomeridiane con lei incoraggiamento, serenità e speranza, benché la Serva di Dio fosse allora gravata da numerosi problemi di salute e da vincoli professionali: «mi infondeva – dice – fiducia e speranza facendomi riflettere che Dio è sempre vicino a noi e ci conduce. Le sue parole mi riportavano nelle braccia del Signore e ritrovavo la pace».
            Agnese Zannino Tibirosa, la cui testimonianza riveste particolare valore poiché frequentò Vera all’ospedale “Santa Corona” nel suo ultimo anno di vita, attesta: «nonostante le gravi sofferenze che la malattia le procurava, non l’ho mai sentita lamentarsi del suo stato. Dava sollievo e speranza a tutti quelli che avvicinava e quando parlava del suo futuro, lo faceva con entusiasmo e coraggio».
            Fino all’ultimo Vera Grita si mantenne così: anche nell’ultima parte del suo cammino terreno custodì uno sguardo al futuro, sperò che con le cure il tubercoloma potesse venire riassorbito, sperava di poter occupare la cattedra ai Piani di Invrea nell’anno scolastico 1969-1970 come pure di potersi dedicare, una volta uscita dall’ospedale, alla propria missione spirituale.

Educata alla speranza dal confessore e nel cammino spirituale
            In tal senso, la speranza attestata da Vera è radicata in Dio e in quella lettura sapienziale degli eventi che il suo padre spirituale don Gabriello Zucconi e, prima di lui, il confessore don Giovanni Bocchi le insegnarono. Proprio il ministero di don Bocchi – uomo di letizia e speranza – esercitò un ascendente positivo su Vera, che egli accolse nella sua condizione di malata e cui insegnò a dare valore alle sofferenze – non ricercate – da cui era gravata. Don Bocchi per primo fu maestro di speranza, di lui è stato detto: «con parole sempre cordiali e piene di speranza, ha spalancato i cuori alla magnanimità, al perdono, alla trasparenza nei rapporti interpersonali; ha vissuto le beatitudini con naturalità e fedeltà quotidiana». «Sperando ed avendo la certezza che come è avvenuto a Cristo avvenga anche a noi: la Risurrezione gloriosa», don Bocchi attuava attraverso il suo ministero un annuncio della speranza cristiana, fondata sull’onnipotenza di Dio e la risurrezione di Cristo. Più tardi, dall’Africa dove era partito missionario, dirà: «ero lì perché volevo portare e donare loro Gesù Vivo e presente nella Santissima Eucaristia con tutti i doni del Suo Cuore: la Pace, la Misericordia, la Gioia, l’Amore, la Luce, l’Unione, la Speranza, la Verità, la Vita eterna».
            Vera divenne apportatrice di speranza e di gioia anche in ambienti segnati dalla sofferenza fisica e morale, da limitazioni cognitive (come tra i suoi piccoli alunni ipodotati) o condizioni familiari e sociali non ottimali (come nel «clima arroventato» di Erli).
            L’amica Maria Mattalia ricorda: «Rivedo il dolce sorriso di Vera, talvolta stanco per tanto lottare e soffrire; rammentando la sua forza di volontà cerco di seguire il suo esempio di bontà, di grande fede, speranza e amore […]».
            Antonietta Fazio – già bidella alla scuola di Casanova – testimoniò di lei: «era molto benvoluta dai suoi alunni che amava tanto ed in particolare da coloro in difficoltà intellettiva […]. Molto religiosa, trasmetteva ad ognuno fede e speranza pur essendo lei medesima molto sofferente nel fisico ma non nel morale».
            In quei contesti, Vera lavorava per far rinascere le ragioni della speranza. Per esempio, in ospedale (dove il vitto è poco appagante) si privò di un grappolo speciale d’uva per farne trovare una parte sul comodino di tutte le malate della camerata, come pure ebbe sempre cura della propria persona sì da presentarsi bene, in ordine, con compostezza e raffinatezza, concorrendo anche in tal modo a contrastare l’ambiente di sofferenza di una clinica, e talvolta di perdita della speranza in tanti malati che rischiano di “lasciarsi andare”.
            Attraverso i Messaggi dell’Opera dei Tabernacoli Viventi, il Signore la educò a una postura di attesa, pazienza e fiducia in lui. Innumerevoli sono infatti le esortazioni sull’attendere lo Sposo o lo Sposo che attende la sua sposa:

“Spera nel tuo Gesù sempre, sempre.

Venga Egli nelle nostre anime, venga nelle nostre case; venga con noi per condividere gioie e dolori, fatiche e speranze.

Lascia fare al mio Amore e aumenta la tua fede, la tua speranza.

Seguimi nel buio, nelle ombre perché conosci la «via».

Spera in Me, spera in Gesù!

Dopo il cammino della speranza e dell’attesa ci sarà la vittoria.

Per chiamarvi alle cose del Cielo”.

Apportatrice di speranza nel morire e nell’intercedere
            Anche nella malattia e in morte, Vera Grita testimoniò la speranza cristiana.
Sapeva che, quando la sua missione fosse compiuta, anche la vita in terra sarebbe terminata. «Questo è il tuo compito e quando sarà terminato tu saluterai la terra per i Cieli»: perciò non si sentiva “proprietaria” del tempo, ma cercava l’obbedienza alla volontà di Dio.
            Negli ultimi mesi, pur in una condizione ingravescente ed esposta a un peggioramento del quadro clinico, la Serva di Dio attestò serenità, pace, interiore percezione di un “compimento” della propria vita.
            Negli ultimi giorni, benché fosse naturalmente attaccata alla vita, don Giuseppe Formento la descrisse «già in pace con il Signore». In tal spirito poté ricevere la Comunione fino a pochi giorni prima di morire, e ricevere l’Estrema unzione il 18 dicembre.
            Quando la sorella Pina andò a trovarla poco prima della morte – Vera era stata circa tre giorni in coma – contravvenendo al proprio abituale riserbo le disse di avere visto in quei giorni molte cose, cose bellissime che purtroppo non le restava il tempo di raccontare. Aveva saputo delle preghiere di Padre Pio e del Papa Buono per lei, inoltre aggiunse – con riferimento alla Vita eterna – «Voi tutti verrete in paradiso con me, siatene certe».
            Liliana Grita testimoniò inoltre come, nell’ultimo periodo, Vera «sapesse più di Cielo che di terra». Della sua vita venne tratto il seguente bilancio: «lei così sofferente consolava gli altri, infondendo loro speranza e non esitava ad aiutarli».
            Molte grazie attribuite alla mediazione intercedente di Vera riguardano, infine, la speranza cristiana. Vera – anche durante la Pandemia da Covid 19 – ha aiutato tanti a ritrovare le ragioni della speranza ed è stata per essi tutela, sorella nello spirito, aiuto nel sacerdozio. Ha aiutato interiormente un sacerdote che in seguito ad Ictus si era dimenticato le preghiere, non riuscendo più a scandirle con proprio estremo dolore e disorientamento. Ha fatto sì che tanti tornassero a pregare, chiedendo la guarigione di un giovane papà colpito da emorragia.
            Anche suor Maria Ilaria Bossi, Maestra delle Novizie delle Benedettine del Santissimo Sacramento di Ghiffa, rileva come Vera – sorella nello spirito – sia un’anima che indirizza al Cielo e accompagna verso il Cielo: «La sento sorella nel cammino verso il cielo… Tanti […] che in lei si riconoscono, e a lei si riferiscono, nel cammino evangelico, nella corsa verso il cielo».
            In sintesi, si comprende come tutta la storia di Vera Grita sia stata sorretta non da speranze umane, dal mero guardare al “domani” auspicando fosse migliore del presente, bensì da una vera Speranza teologale: «era serena perché la fede e la speranza l’hanno sempre sostenuta. Cristo era al centro della sua vita, da Lui traeva la forza. […] era una persona serena perché aveva nel cuore la Speranza teologale, non la speranza spicciola […], ma quella che deriva solo da Dio, che è dono e ci prepara all’incontro con Lui».

            In una preghiera a Maria dell’Opera dei Tabernacoli Viventi, si legge: «Sollevaci [Maria] dalla terra affinché da qui noi viviamo e siamo per il Cielo, per il Regno del figlio tuo».
            È bello anche ricordare che anche don Gabriello dovette pellegrinare nella speranza tra tante prove e difficoltà come scrive in una lettera a Vera del 4 marzo 1968 da Firenze: «Tuttavia dobbiamo sempre sperare. La presenza delle difficoltà non toglie che alla fine il bene, il buono, il bello trionferanno. Ritornerà la pace, l’ordine, la gioia. L’uomo figlio di Dio riavrà tutta la gloria che ebbe fin da principio. L’uomo sarà salvo in Gesù e ritroverà in Dio ogni bene. Ecco allora che ritornano in mente tutte le cose belle promesse da Gesù e l’anima in Lui ritrova la sua pace. Coraggio: ora siamo come in combattimento. Verrà il giorno della vittoria. Essa è certezza in Dio».
            Nella chiesa del Santa Corona a Pietra Ligure Vera Grita partecipava alla Messa e si recava a pregare durante i lunghi ricoveri. La sua testimonianza di fede nella presenza viva di Gesù Eucaristia e della Vergine Maria nella sua breve vita terrena è un segno di speranza e di conforto, per quanti in questo luogo di cura chiederanno il suo aiuto e la sua intercessione presso il Signore per essere sollevati e liberati dalla sofferenza.
            Il cammino di Vera Grita nella faticosa operosità dei giorni offre anche una nuova prospettiva laica alla santità, divenendo esempio di conversione, accettazione e santificazione per i ‘poveri’, i ‘fragili’, i ‘malati’ che in lei possono riconoscersi e ritrovare speranza.
            Scrive san Paolo, «che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi». Con «impazienza» noi aspettiamo di contemplare il volto di Dio poiché «nella speranza noi siamo stati salvati» (Rom 8, 18.24). Pertanto, è assolutamente necessario sperare contro ogni speranza, «Spes contra spem». Perché, come ha scritto Charles Péguy, la Speranza è una bambina «irriducibile». Rispetto alla Fede che «è una sposa fedele» e alla Carità che «è una Madre», la Speranza sembra, in prima battuta, che non valga nulla. E invece è esattamente il contrario: sarà proprio la Speranza, scrive Péguy, «che è venuta al mondo il giorno di Natale» e che «portando le altre, traverserà i mondi».
            «Scrivi, Vera di Gesù, io ti darò luce. L’albero fiorito in primavera ha dato i suoi frutti. Molti alberi dovranno rifiorire nella stagione opportuna perché i frutti siano copiosi… Ti chiedo di accettare con fede ogni prova, ogni dolore per Me. Vedrai i frutti, i primi frutti della nuova fioritura». (Santa Corona – 26 ottobre 1969 – Festa di Cristo Re – Penultimo messaggio).




Siamo noi don Bosco, oggi

«Tu porterai a termine il lavoro che sto iniziando; io farò gli schizzi, tu disegnerai i colori» (Don Bosco)

Cari amici e lettori, membri della Famiglia Salesiana, nel saluto di questo mese sul Bollettino Salesiano mi concentrerò su un importantissimo evento che sta vivendo la Congregazione Salesiana: il 29° Capitolo Generale. Nel cammino della Congregazione Salesiana ogni sei anni si compie questa assise, la più importante che possa vivere la Congregazione.
Molte cose fanno parte della nostra vita, e molti eventi importanti questo anno giubilare ci sta donando; desidero però concentrarmi su questo perché, anche se apparentemente è lontano da noi, riguarda tutti noi.
Don Bosco, Il nostro Fondatore, era consapevole che non tutto sarebbe finito con lui, ma che il suo sicuramente sarebbe stato solo l’inizio di un lungo cammino da percorrere. A sessant’anni, un giorno del 1875, disse a don Giulio Barberis, uno dei suoi più stretti collaboratori: “Tu porterai a termine il lavoro che sto iniziando; io farò gli schizzi, tu disegnerai i colori […] Farò una copia approssimativa della Congregazione e lascerò a quelli che verranno dopo di me il compito di renderla bella”.
Con questa felice e profetica espressione, don Bosco disegnava il cammino che tutti siamo chiamati a compiere; ed in forma massima sta compiendo il Capitolo Generale dei Salesiani di don Bosco in questi tempi a Valdocco.

La profezia delle caramelle
Il mondo di oggi non è quello di don Bosco, ma c’è una caratteristica comune: è un tempo di profonde mutazioni. L’umanizzazione completa, equilibrata e responsabile nelle sue componenti materiali e spirituali era il vero obiettivo di don Bosco. Si preoccupava di riempire lo “spazio interiore” dei ragazzi, formare “teste ben fatte”, “cittadini onesti”. In questo è quanto mai attuale. Il mondo oggi ha bisogno di don Bosco.
All’inizio, per tutti c’è una domanda molto semplice: «Vuoi una vita qualunque o vuoi cambiare il mondo?» Ma si può ancora parlare di mete e di ideali, oggi? Quando smette di correre il fiume diventa una palude. Anche l’uomo.
Don Bosco non ha smesso di camminare. Oggi lo fa con i nostri piedi.
Aveva una convinzione riguardo ai giovani: «Questa porzione la più delicata e la più preziosa della umana società, su cui si fondano le speranze di un felice avvenire, non è per sé stessa di indole perversa… perché se accade talvolta che già siano guasti in quella età, il sono piuttosto per inconsideratezza, che non per malizia consumata. Questi giovani hanno veramente bisogno di una mano benefica, che prenda cura di loro, li coltivi, li guidi…»
Nel 1882 in una conferenza ai Cooperatori a Genova: «Col ritirare, istruire, educare i giovanetti pericolanti si fa un bene a tutta la società civile. Se la gioventù è bene educata avremo col tempo una generazione migliore». È come dire: solo l’educazione può cambiare il mondo.
Don Bosco aveva una capacità di visione quasi spaventosa. Non dice mai “finora”. Ma sempre “d’ora in poi”.
Guy Avanzini, eminente professore di Università, continua a ripetere: «La pedagogia del Ventunesimo secolo sarà salesiana, o non sarà».
Una sera del 1851, da una finestra del primo piano, don Bosco gettò tra i ragazzi una manciata di caramelle. Si accese una grande allegria, e un ragazzo vedendolo sorridere alla finestra gli gridò: «O don Bosco, se potesse vedere tutte le parti del mondo, e in ciascuna di esse tanti oratori!».
Don Bosco fissò nell’aria il suo sguardo sereno e rispose: «Chissà che non debba venire il giorno in cui i figli dell’oratorio non siano sparsi davvero per tutto il mondo».

Guardare distante
Ma cosa è un Capitolo Generale? Perché occupare queste righe su un tema che è specificamente delle Congregazione Salesiana?
Le costituzioni di vita dei Salesiani di don Bosco, all’articolo 146, così definiscono il Capitolo Generale:
“Il Capitolo generale è il principale segno dell’unità della Congregazione nella sua diversità. È l’incontro fraterno nel quale i salesiani compiono una riflessione comunitaria per mantenersi fedeli al Vangelo e al carisma del Fondatore e sensibili ai bisogni dei tempi e dei luoghi.
Per mezzo del Capitolo generale l’intera Società, lasciandosi guidare dallo Spirito del Signore, cerca di conoscere, in un determinato momento della storia, la volontà di Dio per un migliore servizio alla Chiesa”
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Il Capitolo Generale non è quindi un fatto privato dei salesiani consacrati, ma un’importantissima assise che tutti ci riguarda, che tocca tutta la Famiglia Salesiana e coloro che hanno don Bosco dentro di loro, perché al centro ci sono le persone, la missione, il Carisma di don Bosco, la Chiesa e ciascuno di noi, di voi.
Al centro c’è la fedeltà a Dio e a don Bosco, nella capacità di vedere i segni dei tempi e dei differenti luoghi. Fedeltà che è un continuo movimento, rinnovamento, capacità di guardare lontano e di tenere, allo stesso tempo, i piedi ben piantati per terra.
Per questo si sono radunati circa 250 confratelli salesiani, da ogni parte del mondo, per pregare, pensare, confrontarsi e guardare distante…in fedeltà a don Bosco.
E poi dalla costruzione di questa visione, eleggere il nuovo Rettor Maggiore, il successore di don Bosco e il suo Consiglio Generale.
Non è una cosa fuori dalla tua vita, caro amico\a che leggi, ma dentro la tua esistenza e nel tuo “affetto” a don Bosco. Perché dirti questo? Perché tu accompagni tutto questo con la tua preghiera. La preghiera allo Spirito Santo che aiuti tutti i capitolari a conoscere la volontà di Dio per un migliore servizio alla Chiesa.
Penso che il CG29, ne sono certo, sarà tutto questo. Una esperienza di Dio per ripulire altre parti dello schizzo che Don Bosco ci ha lasciato, come sempre è stato fatto in tutti i Capitoli generali della storia della Congregazione, sempre fedeli al suo disegno.
Sicuri che anche oggi possiamo continuare a essere illuminati per essere fedeli al Signore Gesù nella fedeltà al carisma originale, con i volti, la musica e i colori di oggi.
Non siamo soli in questa missione e sappiamo e sentiamo che Maria, la Madre Ausiliatrice dei cristiani, l’Ausiliatrice della Chiesa, modello di fedeltà, sosterrà i passi di tutti noi.




Servi buoni fedeli e coraggiosi

In questo anno Giubilare, in questo mondo difficile, siamo invitati a metterci in piedi, ripartire e percorrere in novità di vita il nostro cammino di uomini e di credenti.

            Il profeta Isaia si rivolge a Gerusalemme con queste parole: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te» (Is. 60,1). L’invito del profeta – ad alzarsi perché viene la luce – appare sorprendente, perché è gridato all’indomani del duro esilio e delle numerose persecuzioni che il popolo ha sperimentato.
            Questo invito, oggi, risuona anche per noi che celebriamo questo anno Giubilare. In questo mondo difficile, anche noi siamo invitati a metterci in piedi, ripartire e percorrere in novità di vita il nostro cammino di uomini e di credenti.
            Tanto più ora che abbiamo avuto la grazia, si perché di grazia si tratta, di celebrare nel ricordo liturgico la Santità di Giovanni Bosco. Non facciamoci l’abitudine: don Bosco è un grande uomo di Dio, geniale e coraggioso, un infaticabile apostolo perché discepolo innamorato profondamente del Cristo. Per noi un padre!
            Nella vita avere un padre è importantissimo, nella fede, alla sequela del Cristo, è uguale: avere un grande padre è un dono inestimabile. Lo senti dentro di te e la sua esperienza credente smuove la tua vita. Se è così per don Bosco, perché non può esser cosi anche per me?
            Una domanda esistenziale che ci mette in movimento e ci cambia, nello spirito del Giubileo, diventando persone “rinnovate”, “cambiate”. Questo è il senso profondo della festa di don Bosco che abbiamo appena celebrato, per tutti noi: imitare non solo ammirare!
In questo anno Giubilare che stiamo vivendo, con il tema della Speranza, presenza di Dio, che ci accompagna, don Bosco è un riferimento chiaro e forte!
            Parlando della Speranza don Bosco scrive, come ho ripreso nel testo della Strenna per quest’anno:
            «Il salesiano» – diceva don Bosco, e parlando del salesiano parla ad ognuno di noi che leggiamo – «è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime»; il sostegno interiore di questa esigente capacità ascetica è il pensiero del paradiso come riflesso della buona coscienza con cui lavora e vive. «In ogni nostro ufficio, in ogni nostro lavoro, pena o dispiacere, non dimentichiamo mai che Egli tiene minutissimo conto di ogni più piccola cosa fatta pel suo santo nome, ed è di fede, che a suo tempo ci compenserà con abbondante misura. In fin di vita, quando ci presenteremo al suo divin tribunale, mirandoci con volto amorevole, Egli ci dirà: “Bene, servo buono e fedele; perché nel poco sei stato fedele, ti farò padrone del molto; entra nel gaudio del tuo Signore” (Mt 25,2l)».
            «Nelle fatiche e nei patimenti non dimenticare mai che abbiamo un gran premio preparato in cielo». E quando il nostro Padre dice che il salesiano stremato dal troppo lavoro rappresenta una vittoria per tutta la Congregazione, sembra suggerire addirittura una dimensione di fraterna comunione nel premio, quasi un senso comunitario del paradiso!
            In piedi, Salesiani! Così ci chiede don Bosco.

«Salve, salvando salvati»
            Don Bosco è stato uno dei grandi della speranza. Ci sono tanti elementi per dimostrarlo. Il suo spirito salesiano è tutto permeato dalle certezze e dall’operosità caratteristiche di questo dinamismo audace di Spirito Santo.
            Don Bosco ha saputo tradurre nella sua vita l’energia della speranza sui due versanti: l’impegno per la santificazione personale e la missione di salvezza per gli altri; o meglio – e qui risiede una caratteristica centrale del suo spirito – la santificazione personale attraverso la salvezza degli altri. Ricordiamo la famosa formula delle tre “S”: «Salve, salvando salvati». Sembra un gioco mnemonico detto così semplicemente, a mo’ di slogan pedagogico, ma è profondo e indica come i due versanti della santificazione personale e della salvezza del prossimo siano strettamente legati tra loro.
            Monsignor Erik Varden afferma: «Qui e ora, la speranza si manifesta come un barlume. Questo non vuol dire che sia irrilevante. La speranza ha un contagio benedetto che le permette di diffondersi di cuore in cuore. I poteri totalitari lavorano sempre per cancellare la speranza e indurre alla disperazione. Educarsi alla speranza significa esercitarsi alla libertà. In una poesia, Péguy descrive la speranza come la fiamma della lampada del santuario. Questa fiamma, dice, “ha attraversato la profondità delle notti”. Ci permette di vedere ciò che è ora, ma anche prevedere ciò che potrebbe essere. Sperare significa scommettere la propria esistenza sulla possibilità del divenire. È un’arte da praticare assiduamente nell’atmosfera fatalista e deterministica in cui viviamo”.
            Che Dio ci doni di poter vivere così questo anno Giubilare!
            Che possiamo tutti camminare in questo mese con questa visione che “brilla nelle tenebre”, con la Speranza nel cuore che è la presenza di Dio.
            Vi raccomando, in questo mese, la preghiera per la nostra Congregazione Salesiana, che si raduna in Capitolo Generale, accompagnateci tutti con la vostra preghiera ed il vostro pensiero, perché possiamo esser fedeli, come Salesiani, a quanto voleva don Bosco.