John Lee Tae Seok (1962-2010), un salesiano di cui si parlerà ancora

John Lee Tae Seok, noto anche come “Fr. Jolly” (don Allegro), è stato un salesiano coreano che ha dedicato la sua vita alla cura dei più poveri e sofferenti, specialmente in Sud Sudan. Nonostante la sua vita sia stata purtroppo breve, ha lasciato un segno indelebile nel cuore delle persone che ha incontrato, grazie al suo impegno come medico, educatore e uomo di fede. La sua eredità continua a ispirare migliaia di persone in tutto il mondo.

Infanzia e radici della vocazione
Yohan Lee Tae Seok (John Lee) nacque il 19 settembre 1962 a Busan, città meridionale della Corea del Sud. Era il nono di dieci figli, quattro maschi e sei femmine, in una famiglia profondamente cattolica (un fratello, Tae-Young Lee, divenne frate francescano e una sorella, Cristina, consacrata nel Movimento dei Focolari).
Già da giovane mostrava segni di straordinaria leadership e un’inclinazione verso il servizio agli altri. Partecipava quotidianamente alla Messa ed era dotato per la musica. All’età di dieci anni perse il padre, e sua madre divenne il suo punto di riferimento, sostenendolo nel suo cammino di fede e negli studi.
Nonostante il desiderio di diventare sacerdote già all’età di quindici anni, la madre lo convinse a proseguire gli studi di medicina.
Nel 1987, dopo essersi laureato a pieni voti alla Inje University Medical School, John iniziò a lavorare come medico militare durante il servizio di leva obbligatorio. Fu in quel periodo che incontrò i Salesiani attraverso un cappellano militare, un incontro che avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Deciso a seguire la vocazione salesiana, John provò per mesi a comunicare la sua decisione alla madre, senza riuscirci.
Egli stesso racconta:

«È stata direttamente Maria Ausiliatrice a prendere in mano la situazione. Mi ero deciso ad incamminarmi nella vita salesiana con grande gioia, ma avevo l’angoscia di comunicare la mia decisione alla mia mamma. Siccome mio papà era mancato quando avevo dieci anni, la mamma aveva dovuto faticare molto per farmi studiare medicina. E grazie ai suoi molti sacrifici ero potuto diventare medico. Avrei dovuto cominciare ad aiutare la mamma per ricompensarla dei sacrifici che aveva fatto senza rinfacciarmi mai niente. Per questo mi era tanto difficile comunicarle la mia decisione. Per me era quasi impossibile dirglielo.
Avevo tentato tante volte, ma non ci ero mai riuscito perché guardandola, mi veniva meno il coraggio. Tentai pure di dirlo ad una delle mie sorelle con la quale parlavo di tutto senza problemi e alla quale confidavo tutto. Ma non ci riuscivo proprio. Così sono passati mesi senza che riuscissi a dire qualcosa.
Ma venne un giorno bellissimo. Andai da mia sorella per un altro tentativo, ma rimasi a bocca aperta: mia sorella sapeva già tutto della mia decisione. Un sogno nella notte precedente le aveva spiegato tutto. Mi piacerebbe dirvi il contenuto del sogno, però non posso senza il permesso del Vescovo. Comunque mia sorella raccontò il suo sogno alla mamma e tutte le mie difficoltà si sciolsero in un attimo.
Non avevo pensato ad un diretto aiuto di Maria Ausiliatrice fino a quando non ho sentito, per la prima volta, dal maestro dei novizi che tutte le vocazioni di tutti i salesiani sono collegate a Maria Ausiliatrice.
Non avevo chiesto l’aiuto a Maria. Maria si era accorta della mia difficoltà e mi aveva aiutato in modo silenzioso e discreto. Questa è stata la prima esperienza di Maria che ho potuto avere. Per me, questa esperienza è stata preziosissima perché così ho potuto capire la realtà di “Maria aiuto dei cristiani” e imparare l’atteggiamento che dobbiamo avere quando aiutiamo gli altri: cioè stare attenti al bisogno degli altri ed essere pronti a dare loro l’aiuto necessario. D’allora in poi potevo parlare ai ragazzi con certezza della presenza di Maria Ausiliatrice
».

La vocazione salesiana e il servizio ai poveri
Inizia il noviziato il 24 gennaio 1993 e fa la sua prima professione il 30 gennaio 1994.
Dopo aver completato il suo corso di filosofia di due anni alla Gwangju Catholic University, svolge il tirocinio presso la Casa Salesiana a Dae Rim Dong, Seoul. Lì assisteva un’ottantina di ragazzi a rischio, con tanta creatività in classe e nel cortile. Teneva questa classe di ragazzi difficili, che imparavano — a 18 anni d’età — a scrivere l’alfabeto coreano. Con le sue doti musicali faceva cantare a questi ragazzi ogni domenica sera un Tantum Ergo in latino, a ritmo pop composto proprio da lui.

Continua i suoi studi teologici.
Inviato a Roma a studiare alla Pontificia Università Salesiana nel 1997, incontra un missionario, frate Comino, che per vent’anni aveva prestato il suo servizio in Corea del Sud e poi era stato inviato in Sudan nel 1991, e in quel momento si trovava in vacanza. Raccontando la sua esperienza missionaria, rafforza il desiderio di John Lee di diventare missionario.
La visione del film “Molokai”, un film biografico su padre Damian, un missionario belga che lavorava al Kalaupapa Leprosy Settlement sull’isola hawaiana di Molokai, lo spinse ancora di più a impegnarsi a vivere come padre Damian.
Durante le vacanze del 1999 fa un’esperienza missionaria in Kenya e incontra don James Pulickal, un salesiano di origine indiana attivo a Tonj, nel Sudan del Sud. Visita Tonj, quando ancora c’era la guerra, rimane fortemente colpito e decide di dedicare la sua vita ai bambini poveri di Tonj. Questo piccolo villaggio del Sud Sudan, distrutto dalla guerra civile, dove incontrò lebbrosi e poveri, cambia la sua vita per sempre.
Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 2001, John Lee tornò a Tonj, determinato a servire la popolazione locale come medico, sacerdote e salesiano, e a trattare i malati come fossero Gesù. Si inserì nella comunità salesiana di Tonj, composta da confratelli di diverse nazionalità, con l’obiettivo di ricostruire — dopo la guerra — la comunità cristiana, l’oratorio, le scuole e le stazioni missionarie nei villaggi circostanti.

La missione in Sud Sudan: Tonj, un piccolo miracolo
Le condizioni dopo la guerra erano pessime. Questo spinse don John Lee Tae Seok a lavorare per migliorare la vita degli abitanti del villaggio. Prima di tutto, aprì una piccola clinica, che in breve tempo divenne l’unico centro medico disponibile in una vasta area. Curava ogni tipo di malattia, spesso con mezzi limitati, ma con un’immensa dedizione. Oltre a fornire cure mediche immediate, si impegnò a lungo termine per educare la popolazione locale riguardo alla prevenzione delle malattie e all’igiene, argomenti di cui la gente del posto era largamente inconsapevole a causa della mancanza di istruzione.

Oltre al suo lavoro come medico, Lee Tae Seok era un instancabile educatore. Fondò una scuola per i bambini del villaggio, in cui insegnava non solo materie scolastiche, ma anche valori di convivenza pacifica e rispetto reciproco, essenziali in un contesto post-bellico come quello del Sud Sudan. Grazie alla sua passione per la musica, insegnò anche ai bambini a suonare strumenti musicali, creando una banda musicale che divenne famosa nella regione. La banda non solo offriva ai giovani un modo per esprimersi, ma contribuiva anche a costruire un senso di comunità e di speranza per il futuro.

Un medico con un cuore di sacerdote
Il lavoro di John Lee Tae Seok non si limitava alla medicina e all’istruzione. Essendo sacerdote, il suo obiettivo principale era quello di portare speranza spirituale a una popolazione che aveva vissuto anni di sofferenze. Celebrava la Messa regolarmente, amministrava i sacramenti e offriva conforto spirituale a coloro che avevano perso tutto a causa della guerra. La sua fede profonda era evidente in ogni aspetto del suo lavoro, e la sua presenza portava un senso di pace e speranza anche nei momenti più difficili.

Uno degli aspetti più ammirevoli della sua missione era la sua capacità di vedere la dignità in ogni persona, indipendentemente dalla loro condizione sociale o dal loro stato di salute. Trattava i malati con immenso rispetto e dedicava il suo tempo a chiunque avesse bisogno di aiuto, anche quando era stremato dalle lunghe ore di lavoro nella clinica o dalla mancanza di risorse. Questa profonda compassione non passò inosservata: la gente del villaggio lo considerava non solo come un medico e un prete, ma come un vero e proprio amico e fratello.

La lotta contro la malattia e la sua eredità
Nonostante l’instancabile lavoro e l’amore che donava agli altri, John Lee Tae Seok stesso era afflitto da una grave malattia. Durante il suo soggiorno in Sud Sudan, iniziò a mostrare segni di una malattia avanzata, che in seguito si rivelò essere un tumore al colon. Quando la malattia fu diagnosticata, era già in uno stadio avanzato, ma Lee Tae Seok continuò il suo lavoro il più a lungo possibile, rifiutando di abbandonare le persone che dipendevano da lui.

Il 14 gennaio 2010, a soli 47 anni, John Lee Tae Seok morì a Seul, Corea del Sud, dopo tredici mesi di battaglia contro il cancro. La notizia della sua morte lasciò un profondo vuoto nella comunità di Tonj e tra tutti coloro che lo avevano conosciuto. Il suo funerale fu un evento commovente, con migliaia di persone che parteciparono per onorare un uomo che aveva dedicato la sua vita al servizio degli altri.

Nonostante la sua morte prematura, l’eredità di John Lee Tae Seok continua a vivere. Le sue ultime parole furono un invito a portare avanti i suoi sogni per Tonj: «Non sarò in grado di realizzare i miei sogni per Tonj, ma vi prego di portarli avanti». La clinica che ha fondato a Tonj continua la sua attività, e molte delle persone che ha formato, sia in campo medico che educativo, stanno continuando il suo lavoro. La banda musicale da lui creata continua a suonare e a portare gioia nella vita delle persone.

Testimonianze
Racconta don Václav KLEMENT, salesiano, che è stato suo superiore (missionario in Corea del Sud negli anni 1986-2002):

«Durante gli ultimi 22 anni, da quando l’obbedienza mi ha portato in tanti paesi dell’Asia Est-Oceania e in tutto il mondo salesiano, ho visto tanti piccoli “miracoli” che ha fatto don John Lee attraverso il film (“Don’t Cry for Me, Sudan” e altri), i suoi scritti (“The Rays of the Sun in Africa are still sad” e “Will you be my Friend?”) oppure le varie pubblicazioni che raccontano la sua vita.
Un giovane studente delle superiori in Giappone ha fatto il passo verso il catecumenato dopo aver visto il film “Don’t Cry for Me, Sudan”, un catecumeno tailandese – nel cammino verso il battesimo – è stato “confermato” nella sua fede grazie alla testimonianza della vita gioiosamente sacrificata di don John Lee. Un giovane salesiano vietnamita, che godeva tutta la felicità nella sua “zona di conforto”, è stato svegliato e motivato per la vita missionaria proprio dal film “Don’t Cry for Me, Sudan”. Sì, ci sono tanti cristiani e non, che sono stati svegliati, confermati nella fede o ispirati per un cammino vocazionale grazie a don John Lee.
I Salesiani dell’Ispettoria di Corea hanno avviato una nuova presenza salesiana a Busan, città natale di don John Lee. In 2020 hanno aperto una nuova comunità con sede nella “Fr. John Lee Memorial Hall” a Busan, proprio nel quartiere dove John è nato nel 1962. L’edificio di quattro piani costruito dal governo locale di Busan – Seogu è affidato ai Salesiani di Don Bosco. Cosi la storia di don John Lee viene raccontata dai suoi confratelli salesiani immersi nella vita del quartiere che accolgono tanti giovani e fedeli per avvicinarli alla radiante testimonianza di vita missionaria.»

L’impatto internazionale e l’eredità spirituale
La spiritualità di don John Lee era profondamente legata a Maria Ausiliatrice. Interpretò molti eventi della sua vita come segni della presenza materna di Maria. Questa devozione influenzò anche il suo approccio al servizio: aiutare gli altri in modo silenzioso e discreto, essere attenti ai bisogni altrui e pronti a offrire sostegno.
Don John Lee Tae Seok incarnò pienamente lo spirito salesiano, dedicando la sua vita ai giovani e ai poveri, seguendo l’esempio di don Bosco. La sua capacità di unire medicina, educazione e spiritualità fece di lui una figura unica, capace di lasciare un’impronta duratura in una terra segnata dalla sofferenza.
La sua attività continua nella “Fondazione John Lee”, che prosegue a sostenere le opere salesiane in Sudan.

Il suo ricordo è stato immortalato in numerosi premi internazionali e documentari.
Nel 2011, dopo la sua morte, il Ministero della Pubblica Amministrazione e della Sicurezza della Corea del Sud — su raccomandazione del pubblico — gli ha conferito un premio, insieme ad altre persone che hanno contribuito alla società attraverso il volontariato, le donazioni e le buone azioni contro ogni previsione. Il premio è il più alto, quello dell’Ordine Mugunghwa.
Il 9 settembre 2010 la televisione coreana KBS realizzò un film sulla sua opera a Tonj, intitolato “Don’t Cry For Me Sudan”. Il documentario toccò il cuore di centinaia di migliaia di persone e contribuì a far conoscere la figura di don John Lee e la sua missione in tutto il mondo.
Nel 2018 il ministro dell’Istruzione del Sudan del Sud, Deng Deng Hoc Yai, ha introdotto lo studio della vita di don John Lee nei libri di testo di studi sociali per le scuole elementari e in due pagine del libro di testo di cittadinanza per le scuole medie. È la prima volta che i libri di testo del Sudan del Sud includono la storia di uno straniero per il suo servizio di volontariato nel paese.
Il successo del film documentario “Don’t Cry for Me, Sudan” ha indotto i produttori a proseguire. Il 9 settembre 2020 il regista Soo-Hwan Goo ha lanciato un nuovo documentario intitolato “Resurrection” che segue la storia degli studenti di Lee un decennio dopo la sua morte e ne presenta circa settanta di loro, sia nella Repubblica del Sudan del Sud che in Etiopia.

John Lee Tae Seok è stato un esempio vivente di amore cristiano e solidarietà. La sua vita ci insegna che anche nelle circostanze più difficili, con fede e dedizione, possiamo fare la differenza nel mondo. I sogni di John per Tonj continuano a vivere grazie a coloro che, ispirati dalla sua figura, lavorano per costruire un futuro migliore per i più poveri e i più bisognosi.

Un salesiano di cui si parlerà ancora.




Il Beato Alberto Marvelli. Un faro di fede e impegno sociale nel XX secolo

Nel panorama dei grandi testimoni di fede del XX secolo, il nome di Alberto Marvelli risplende come un esempio luminoso di dedizione cristiana e impegno sociale. Nato a Ferrara nel 1918 e vissuto nella Rimini del dopoguerra, Alberto ha incarnato i valori del Vangelo attraverso una vita spesa al servizio dei più deboli e bisognosi. Beatificato da Papa Giovanni Paolo II nel 2004, la sua figura continua a ispirare giovani e adulti nel cammino della fede e dell’azione sociale.

Un’infanzia di valori e spiritualità
Alberto Marvelli nacque il 21 marzo 1918, secondo di sette figli di Alfredo Marvelli e Maria Mayr. La famiglia, profondamente cristiana, instillò in lui fin da piccolo valori di fede, carità e servizio. La madre, in particolare, ebbe una grande influenza sulla sua formazione spirituale, trasmettendogli l’amore per la preghiera e l’attenzione verso i bisognosi. La famiglia Marvelli era nota per la generosità e l’ospitalità, spesso aprendo la propria casa a chiunque avesse bisogno.
Durante gli anni del liceo a Rimini, Alberto si distinse non solo per l’eccellenza negli studi, ma anche per l’impegno nelle attività sportive e sociali. Appassionato di ciclismo e atletica, vedeva nello sport un mezzo per rafforzare il carattere e promuovere valori come la lealtà e la disciplina.

Gli anni universitari e la vocazione sociale
Iscritto alla Facoltà di Ingegneria Meccanica dell’Università di Bologna, Alberto affrontò gli studi con serietà e passione. Ma oltre all’impegno accademico, dedicò tempo ed energie all’Azione Cattolica, movimento che giocò un ruolo fondamentale nella sua crescita spirituale e nel suo impegno sociale. Organizzava gruppi di studio, incontri spirituali e progetti di volontariato, coinvolgendo i colleghi universitari in iniziative a favore dei meno fortunati.
La sua camera divenne un luogo di ritrovo per discussioni su tematiche sociali e religiose. Qui, Alberto incoraggiava i compagni a riflettere sul ruolo dei laici nella Chiesa e nella società, promuovendo l’idea che ogni cristiano è chiamato a essere testimone attivo del Vangelo nel mondo.

La guerra: prova di fede e coraggio
Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Alberto fu chiamato alle armi. Anche nell’ambiente militare, non smise di testimoniare la propria fede, condividendo con i commilitoni momenti di preghiera e offrendo sostegno morale in un periodo di grande incertezza e paura.
Dopo l’8 settembre 1943, con l’armistizio italiano, tornò a Rimini, trovando una città devastata dai bombardamenti e dall’occupazione nazista. In questo contesto drammatico, Alberto si impegnò attivamente nella Resistenza, aiutando prigionieri alleati ed ebrei a fuggire dalle mani dei nazisti. Rischiò la propria vita in numerose occasioni, mostrando un coraggio straordinario e una fede incrollabile.

La carità senza confini
Una delle immagini più emblematiche di Alberto è quella che lo vede girare in bicicletta per le strade distrutte di Rimini, carico di cibo, vestiti e medicine da distribuire a chi ne aveva bisogno. La sua bicicletta divenne simbolo di speranza per molti cittadini. Non faceva distinzioni tra le persone: aiutava italiani, stranieri, amici e nemici, vedendo in ognuno il volto di Cristo sofferente.
Aprì le porte della propria casa agli sfollati, organizzò mense per i poveri e si adoperò per trovare alloggi a chi era rimasto senza casa. La sua dedizione era totale e incondizionata. Come scrisse nel suo diario: “Ogni povero è Gesù. Ogni atto di carità è un atto d’amore verso di Lui”.

La vita interiore e la spiritualità profonda
Nonostante gli impegni sociali e politici, Alberto non trascurò mai la propria vita spirituale. Partecipava quotidianamente all’Eucaristia, dedicava tempo alla preghiera e alla meditazione, e si affidava costantemente alla Provvidenza divina. Il suo diario personale rivela una profonda unione con Dio e un desiderio ardente di conformarsi alla volontà divina in ogni aspetto della sua vita.
Scriveva: “Dio è la mia felicità infinita. Devo essere santo altrimenti nulla”. Questa tensione verso la santità permeava ogni suo gesto, piccolo o grande che fosse. La confessione regolare, l’adorazione eucaristica e la lettura delle Sacre Scritture erano per lui momenti imprescindibili di crescita spirituale.

L’impegno politico come forma di carità
Nel dopoguerra, Alberto si impegnò attivamente nella ricostruzione morale e materiale della società. Entrò a far parte della Democrazia Cristiana, vedendo nella politica un mezzo per promuovere il bene comune e la giustizia sociale. Per lui, la politica era una forma alta di carità, un servizio disinteressato alla comunità.
Come assessore ai Lavori Pubblici di Rimini, lavorò instancabilmente per migliorare le condizioni abitative dei meno abbienti, promosse la ricostruzione di scuole e ospedali, e sostenne iniziative per il rilancio economico della città. Rifiutò qualsiasi forma di corruzione o compromesso morale, mettendo sempre al centro le esigenze delle persone più vulnerabili.

Testimonianze di una vita straordinaria
Molte sono le testimonianze di chi conobbe Alberto personalmente. Amici e colleghi ricordano il suo sorriso, la sua disponibilità e la capacità di ascolto. Era solito dire: “Non possiamo amare Dio se non amiamo i nostri fratelli”. Questa convinzione si traduceva in gesti concreti, come ospitare in casa propria famiglie sfollate o rinunciare al proprio pasto per darlo a chi aveva fame.
Il suo stile di vita semplice e austero, unito a una profonda gioia interiore, attirava l’ammirazione di molti. Non cercava mai il riconoscimento o la gloria personale, ma agiva sempre con umiltà e discrezione.

La tragedia e la beatificazione
Il 5 ottobre 1946, a soli 28 anni, Alberto morì tragicamente in un incidente stradale mentre si recava in bicicletta a un comizio elettorale. La sua morte improvvisa fu un duro colpo per la comunità. Tuttavia, il suo funerale divenne una manifestazione di affetto e riconoscenza: migliaia di persone si unirono per rendere omaggio a un giovane che aveva dato tutto sé stesso per gli altri.
La fama di santità che circondava la sua figura portò all’avvio del processo di beatificazione negli anni ’90. Il 5 settembre 2004, durante una cerimonia a Loreto, Papa Giovanni Paolo II lo proclamò Beato. La beatificazione non fu solo un riconoscimento personale, ma anche un messaggio per i giovani di tutto il mondo: la santità è possibile in ogni stato di vita, anche nel laicato e nell’impegno sociale e politico.

Eredità e attualità
La figura di Alberto Marvelli continua a essere un punto di riferimento per chiunque desideri coniugare fede e azione sociale. La sua vita testimonia che è possibile vivere il Vangelo nella quotidianità, impegnandosi per la giustizia, la solidarietà e il bene comune. In un’epoca caratterizzata da individualismo e indifferenza, l’esempio di Alberto invita a riscoprire il valore dell’amore verso il prossimo e della responsabilità sociale.
Oggi, diverse associazioni e iniziative portano il suo nome, promuovendo progetti di solidarietà, formazione spirituale e impegno civile. La sua vita è spesso citata come esempio nei percorsi educativi e catechetici, ispirando nuove generazioni a seguire il suo cammino.

Riflessioni finali
Il messaggio di Alberto Marvelli è di straordinaria attualità. La sua capacità di unire fede profonda e azione concreta rappresenta una risposta alle sfide del nostro tempo. Egli dimostra che la santità non è riservata a pochi eletti, ma è un cammino accessibile a chiunque si apra all’amore di Dio e al servizio dei fratelli.
In un passaggio del suo diario, Alberto scriveva: “Ogni giorno è un dono prezioso per amare di più”. Questa frase racchiude l’essenza della sua spiritualità e può essere un faro per tutti coloro che desiderano vivere una vita piena di senso e orientata al bene.

Il Beato Alberto Marvelli rappresenta un modello di santità laicale, un giovane che ha saputo trasformare la propria fede in azioni concrete a favore degli altri. La sua vita, seppur breve, è stata un inno all’amore, alla giustizia e alla speranza. Oggi più che mai, la sua testimonianza invita ognuno di noi a riflettere sul proprio ruolo nella società e sulla possibilità di essere strumenti di pace e di bene nel mondo.

Alberto Marvelli continua a ispirare con la sua vita semplice e straordinaria. Un invito a tutti noi a pedalare, come lui, sulle strade della solidarietà e dell’amore fraterno.




Un grande collaboratore di don Bosco: don Antonio Sala

Un personaggio di rilievo, ma praticamente sconosciuto, nella storia dei primi anni della Congregazione salesiana. Ha speso tutta la sua vita salesiana nell’ambito economico. Dinamico e intraprendente è stato un grande amministratore in senso moderno. Alla sua “visione” lungimirante e previdente si devono molte opere che sono un orgoglio attuale della Congregazione. Ma soprattutto intenso fu il suo amore per don Bosco.

Infanzia e giovinezza
Nacque il 29 gennaio 1836 nella Brianza lecchese, a Monticello di Olgiate Molgora, diocesi di Milano. Il padre Pietro ed il fratello, gestori di una filanda, avevano sposato due sorelle. Famiglie molto religiose entrambe con un figlio prete (il salesiano Antonio e il cugino Federico, teologo e futuro vescovo Ausiliare a Milano) e un figlio religioso: Ambrogio, fratello di Antonio, salesiano per alcuni anni e suor Maria Serafina, sorella di Federico, religiosa di clausura a Bergamo. Antonio, compiuti gli studi elementari, adolescente forte e robusto, si mise subito al lavoro nell’ambito familiare. Come animatore dell’oratorio parrocchiale dimostrava attitudini alla vita sacerdotale, con la sua capacità di attrarre i ragazzi, organizzarne i divertimenti, portarli alle funzioni di chiesa. Tornato dal servizio militare nell’esercito austro­ungarico, assunse responsabilità nella gestione dell’azienda familiare, dove rivelò eccellenti doti amministrative e grande senso pratico. Morta la mamma, il giovane Antonio maturò il desiderio di diventare sacerdote. Se ne fece interprete il parroco don Nava che all’inizio del 1863 scrisse a don Bosco, magnificando le doti di natura e di grazia del giovane e chiedendogli di accoglierlo a Valdocco. Alla risposta immediatamente positiva di don Bosco, don Nava lo ringraziò e gli assicurò che il ventiseienne Antonio, riconoscentissimo, sarebbe arrivato a Valdocco quanto prima. Il generosissimo parroco si impegnò a pagare in anticipo per cinque anni non solo la “troppo modica” pensione richiesta da don Bosco, ma in caso di morte dava in garanzia mobili, posate d’argento e oggetti di valore in suo possesso.

Studente-lavoratore e sacerdote-educatore
Arrivato a Torino il 5 marzo 1863 il Sala iniziò gli studi ginnasiali. A Valdocco si trovò a suo agio, e come “figlio di Maria” non solo recuperò gli anni scolastici persi, ma, disinvolto nel tratto e pratico di affari commerciali, nei tempi liberi aiutava il malaticcio economo don Alasonatti, dava una mano ai provveditori della casa, andava lui stesso al mercato ed assisteva ai primi lavori della costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice. L’esperienza gli sarebbe servita per le varie chiese e costruzioni salesiane che avrebbe seguito personalmente nei decenni successivi.
Il 22 maggio 1869 don Sala era sacerdote, ormai da quattro anni presente nella casa di Lanzo.

Economo a Valdocco (1869-1880)
Prima ancora della fine dell’anno scolastico, il 3 luglio 1869 don Bosco gli chiese, riservatamente, se era disponibile a trasferirsi per qualche tempo a Valdocco perché vi era assoluto bisogno di un economo della casa in quanto l’economo generale don Savio era sovra occupato. Don Sala accettò, scese a Valdocco. Vi sarebbe rimasto per 26 anni, fino alla morte.
Colà poté approfondire i suoi affrettati studi teologici frequentando per tre anni al Convitto le lezioni di morale: gli sarebbero state utilissime nel ministero pastorale che avrebbe svolto per tanti anni come confessore ordinario nella chiesa di Maria Ausiliatrice, cappellano dell’Istituto del Buon Pastore, confessore straordinario del collegio degli Artigianelli, e successivamente anche assistente spirituale dei laboratori femminili di S. Giuseppe al rifugio Barolo.
Nella seduta del Consiglio Superiore dell’11 dicembre 1869 don Savio venne confermato economo generale, ma parecchi voti li ebbe pure don Sala, che nel gennaio successivo, nel Capitolo dell’Oratorio venne formalmente eletto economo. Avrebbe svolto una formidabile attività economico­amministrativa all’interno della mega opera di Valdocco, con varie centinaia di giovani, suddivisi fra studenti, artigiani, oratoriani, chierici, con tanto di aule, cortili, laboratori, refettori, camerate, sale, chiesa di Maria Ausiliatrice, cappelle; vi si aggiungano lotterie, costruzioni, manutenzione generale, problemi fiscali, notarili… Non gli mancarono momenti difficili, tant’è che il 27 gennaio 1870 don Bosco da Firenze invitò don Rua a fargli coraggio.
Nel gennaio 1873, avviata una piccola lotteria con primo premio una preziosa copia della Madonna di Foligno di Raffaello, don Bosco gli affidò lo smercio dei biglietti, previsto soprattutto in Lombardia. Don Sala percorse particolarmente le province di Milano, Como e Varese, dove poteva offrire cartelline di beneficienza alle più cospicue famiglie, che in qualche modo sentiva a lui vicine e che forse erano già in contatto con don Bosco. Smerciò molti biglietti, ma molti altri gli vennero restituiti, per cui andò a cercare altri benefattori fino a Roma. Salesiano della prima ora, don Sala svolse molti altri umili servizi, compresi la classica assistenza in cortile e nei laboratori e qualche insegnamento ai giovani coadiutori. Nel 1876 a Roma si occupò di alloggiare tanto i salesiani destinati alle nuove fondazioni di Albano, Ariccia e Magliano quanto i missionari venuti a ricevere il mandato dal Papa. Il 17 dicembre 1876 per la prima volta partecipò alle sedute del Consiglio Superiore: lo avrebbe fatto per quasi 20 anni. Nel 1878 fece sopralluoghi a Mornese e Chieri per provvedere ai necessari lavori di adattamento delle case delle FMA. In ottobre fece lo stesso per i salesiani di Randazzo in Sicilia e poi di Este e Mogliano Veneto. Così altre volte per oltre quindici anni. Don Bosco si fidò di lui e lui ne ricambiò la fiducia fino sul letto di morte, anzi ancora dopo, come vedremo.

Il Capitolo Generale del 1880 elesse don Sala Economo Generale, che però per altri tre anni rimase anche Economo di Valdocco. Si mise subito al lavoro.
Nell’aprile 1881 fece riprendere in Roma i lavori della chiesa del S. Cuore e dell’abitazione dei salesiani. Poi si interessò del nuovo fabbricato di Mogliano Veneto e prese in esame il progetto di un’ampia ristrutturazione della casa di La Navarra (Francia). Ai primi di aprile dell’anno successivo era di nuovo a Mestre per trattare con la benefattrice Astori e per fare un sopraluogo all’erigenda colonia agricola di Mogliano; in novembre vi accompagnò i primi quattro salesiani. L’8 luglio 1883 sottoscrisse il capitolato dei lavori di costruzione dell’Ospizio di S. Giovanni Evangelista in Torino ed in autunno fece rimettere in ordine gli ambienti della tipografia di Valdocco, ivi compreso l’ufficio del direttore, lo abbellì con tendine alle finestre, “meritandosi” un benevolo rimprovero di don Bosco per tali “raffinatezze di troppo”. A metà gennaio 1884 per l’Esposizione Nazionale della Scienza e della Tecnica in Torino si decise di installarvi la complessa macchina (acquistata per la cartiera salesiana di Mathi), che, partendo dagli stracci, sfornava libri rilegati. Duro fu il compito di don Sala perché a farla funzionare fossero allievi salesiani adeguatamente preparati. Fu un successo strepitoso di pubblico e don Bosco si permise di rifiutare un premio che non fosse il primo assoluto. Poco dopo don Sala si recò a Roma per accelerare i lavori del S. Cuore onde ad inizio maggio don Bosco potesse porre la prima pietra dell’Ospizio, assieme al conte Colle (che avrebbe portato con sé un’offerta di ben 50 000 lire).
Ovviamente don Sala partecipava alle sedute del Consiglio Generale per dare il suo illuminato parere soprattutto sulle materie di suo interesse: accettazione di opere, fondazione di una casa a Parigi, capitolato di quella di Lucca, sostituzione di un vecchio forno con uno nuovo proveniente da Vienna ad un prezzo di favore, adozione di una “foresteria” per il personale femminile di Valdocco, preventivi di spese di illuminazione delle case di Vienna, Nizza Marittima e Milano. Il 12 settembre presentò l’abbozzo dello stemma ufficiale della Congregazione Salesiana che, discusso e corretto, fu approvato dal Consiglio. Nella stessa seduta venne incaricato di risolvere il contenzioso del terreno di Chieri e della striscia di terreno comunale di Torino utilizzata per la chiesa di Maria Ausiliatrice, ma già compensata con permuta. Seguirono numerosissime sedute in settembre ed ottobre con presenza saltuaria di don Sala. Il 9 dicembre trattò dei problemi economici di varie case, fra cui quella di Sampierdarena, Napoli, Schio.

Il triennio 1885-1887
Per tutto l’anno seguente (1885) si interessò di quella di Faenza per la quale “si meritò” un altro paterno rimprovero di don Bosco per eccessiva spesa nelle fondamenta. In aprile assistette ad una perizia eseguita al Collegio di Lanzo su ordine del Tribunale Civile di Torino. Il 22 giugno presentò e fece approvare il disegno di innalzare di un piano la casa delle FMA a Nizza. Per l’erigenda casa di Trento si assicurò la disponibilità di adeguate risorse economiche locali, fiducioso della collaborazione del Municipio, ma messo sull’attenti da don Bosco che, sempre vigile, gli faceva presente che spesso “i Municipi promettono e non attendono”. Il 20 settembre 1885 don Sala riferì al Consiglio del terreno per il camposanto dei salesiani acquistabile a 14 000 lire. Venne autorizzato a cercare di abbassare il prezzo ed a realizzare il progetto presentato.
Seguirono altri due anni di sedute di Consiglio Generale, di viaggi per aiutare le case in difficoltà per problemi edilizi, amministrativi, economici. Intanto era stato rieletto Economo Generale (settembre 1886; sarebbe stato rieletto ancora sei anni dopo) e si preparava a predisporre tutto per la solenne consacrazione della chiesa del S. Cuore di Roma (14 maggio). Colà pochi mesi dopo, su espresso invito del papa, si nominò un nuovo Procuratore ed un nuovo Parroco in sostituzione di don F. Dalmazzo, e don Sala ebbe mille grattacapi per sbrogliare la matassa intricata di un’insostenibile situazione economico-finanziaria.

Accanto a don Bosco morente (gennaio 1888)
Richiamato d’urgenza da Roma il 30 dicembre, la mattina di capodanno era già al capezzale di don Bosco. Per tutto il mese si alternò con il giovane segretario Viglietti nell’assistere l’ammalato.
Morto don Bosco il 31 gennaio, la sera stessa il Consiglio Generale “promette al Signore che se la Madonna ci fa la grazia di poter seppellire don Bosco sotto la chiesa di Maria Ausiliatrice o almeno nella nostra casa di Valsalice avrebbe di quest’anno o almeno al più presto possibile incominciati i lavori per la decorazione della sua chiesa”. La richiesta formale avanzata da don Sala alle autorità cittadine è respinta. Si ricorre allora a Roma ed il Presidente del Consiglio F. Crispi, memore dell’aiuto datogli da don Bosco quando era esule a Torino, concede la tumulazione fuori città, nel collegio salesiano di Valsalice. Nel frattempo la salma di don Bosco si trova nei pressi della camera di don Sala. Il 4 febbraio sera viene trasportato a Valsalice. Nel piccolissimo corteo che sale la collina don Sala piange: ha perso la persona più cara che aveva ancora sulla terra. Per altri sei anni però avrebbe continuato a svolgere con grande competenza l’arduo settore di lavoro che per primo gli aveva affidato don Bosco. Il 21 maggio 1895 lo avrebbe raggiunto in cielo, stroncato da un attacco cardiaco.




Come trovare le risorse per costruire una chiesa

Un segreto da individuare
Si sa, la fama di don Bosco e delle sue capacità realizzatrici si diffondeva in Italia. Visto infatti che riusciva in tante imprese, molti gli chiedevano consigli su come riuscire a fare altrettanto.
Come trovare i fondi per costruire una chiesa? Glielo chiese espressamente la signora Marianna Moschetti di Castagneto di Pisa (oggi Castagneto Carducci-Livorno) nel 1877. La risposta di don Bosco l’11 aprile, nella sua brevità e semplicità, è ammirevole.

Punto di partenza: conoscere la situazione
Anzitutto con la saggezza pratica che gli veniva dall’educazione familiare e dall’esperienza di fondatore-costruttore-realizzatore di tanti progetti, don Bosco mette le mani avanti e intelligentemente scrive che “sarebbe necessario potersi parlare per esaminare quali progetti si possono fare e quali probabilità vi abbia di poterli effettuare”. Senza un sano realismo i migliori progetti rimangono un sogno. Il santo però non vuole scoraggiare subito la sua corrispondente, per cui aggiunge immediatamente “quello che mi pare bene nel Signore”.

In nomine Domini
Incomincia bene, si direbbe, con questo “nel Signore”. Difatti il primo, e dunque il più importante consiglio che dà alla signora, è quello di “Pregare ed invitare altri a pregare e fare delle Comunioni a Dio, come mezzo efficacissimo per meritarci le sue grazie”. La chiesa è la casa del Signore, che non mancherà di benedire un progetto di chiesa se sarà avanzato da chi confida in Lui, da chi Lo prega, da chi vive la vita cristiana e si serve dei mezzi indispensabili. Una vita di grazia merita certamente le grazie del Signore (don Bosco ne è convinto), anche se tutto è grazia: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori”.

La collaborazione di tutti
La chiesa è la casa di tutti; certo il parroco ne è il primo responsabile, ma non l’unico. Dunque i laici devono sentirsi corresponsabili e fra loro i più sensibili, i più disponibili, magari i più capaci (quelli che oggi potrebbero far parte del Consiglio pastorale e del Consiglio economico di ogni parrocchia). Ecco allora il secondo consiglio di don Bosco: “Invitare il Parroco a mettersi alla testa di due comitati numerosi, per quanto è possibile. Uno di uomini, l’altro di donne. Ciascun membro di questo comitato si firmi per un’oblazione divisa in tre rate, una per anno”.
Notiamo: due comitati, uno maschile e uno femminile. Certo, l’epoca vedeva normalmente separate le associazioni maschili e femminili di una parrocchia; ma perché anche non vedervi una giusta e leale “concorrenza” nel fare il bene, nel gestire un progetto con le proprie forze, ciascun gruppo “a suo modo”, con le sue strategie? Don Bosco sapeva quanto lui stesso era economicamente debitore al mondo femminile, alle marchese, alle contesse, alle nobildonne in genere: solitamente più religiose dei mariti, più generose nelle opere di carità, più disponibili “a soccorrere le necessità della Chiesa”. Puntare su di loro era saggezza.

Allargare la cerchia
Ecco infatti don Bosco aggiungere subito: “Nel tempo stesso ognuno cerchi oblatori in danaro, in lavoro, o in materiali. Per esempio invitare chi faccia fare un altare, il pulpito, i candelieri, una campana, i telai delle finestre, la porta maggiore, le minori, i vetri ecc. Ma una cosa sola caduno”. Bellissimo. Ognuno si doveva impegnare in qualche cosa che poteva giustamente ritenere un suo personale dono alla chiesa in costruzione.
Don Bosco non aveva fatto studi di psicologia, ma sapeva – come sanno tutti i parroci e non solo loro – che solleticando il legittimo orgoglio delle persone si può ottenere molto anche in fatto di generosità, di solidarietà, di altruismo. Del resto in tutta la sua vita aveva avuto bisogno di altri: per studiare da fanciullo, per andare alle scuole di Chieri da giovane, per entrare in seminario da chierico, per iniziare la sua opera da prete, per svilupparla da fondatore.

Un segreto
Don Bosco fa poi il misterioso con la sua corrispondente: “Se potessi parlare col Parroco potrei in confidenza suggerire altro mezzo; ma mi rincresce affidarlo alla carta”. Di che si trattava? Difficile dirlo. Si potrebbe pensare alla promessa d’indulgenze speciali per tali benefattori, ma sarebbe occorso rivolgersi a Roma e don Bosco sapeva quanto questo fatto poteva suscitare difficoltà con il vescovo e con altri parroci impegnati pure loro sugli stessi fronti edilizi. Forse più probabile era un invito, riservatissimo, di cercare l’appoggio di autorità politiche perché ne sostenessero la causa. Il suggerimento sarebbe però stato meglio farlo oralmente, per non compromettersi né di fronte alle autorità civili, né a quelle religiose, in tempi di durissima opposizione fra loro, con la Sinistra storica al potere, più anticlericale della precedente Destra.
Che poteva dire di più? Una cosa importante per entrambi: la preghiera. E difatti così si commiata dalla sua corrispondente: “Io pregherò che ogni cosa vada bene. L’unico mio appoggio è sempre stato il ricorso a Gesù Sacramentato, ed a Maria Ausiliatrice. Dio la benedica e preghi per me che le sarò sempre in G.C.”.




Tra ammirazione e dolore

Oggi vi saluto per l’ultima volta da questa pagina del Bollettino Salesiano. Il 16 agosto, nel giorno in cui si commemora la nascita di Don Bosco, termina il mio servizio come Rettor Maggiore dei Salesiani di Don Bosco.
È sempre un motivo per ringraziare, sempre Grazie! Innanzitutto a Dio, alla Congregazione e alla Famiglia Salesiana, a tante persone care e amiche, a tanti amici del carisma di Don Bosco, i molti benefattori.

            Anche in questa occasione il mio saluto trasmette qualcosa che ho vissuto recentemente. Di qui il titolo di questo saluto: Tra ammirazione e dolore. Vi racconto la gioia che ha riempito il mio cuore a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, ferita da una guerra interminabile, e alla gioia e alla testimonianza che ho ricevuto ieri.
            Tre settimane fa quando, dopo aver visitato l’Uganda (nel campo profughi di Palabek che, grazie all’aiuto e al lavoro salesiano di questi anni, non è più un campo per rifugiati sudanesi ma un luogo dove decine di migliaia di persone si sono insediate e hanno trovato una nuova vita), ho attraversato il Ruanda e sono arrivato al confine nella regione di Goma, una terra meravigliosa, bella e ricca di natura (e proprio per questo così desiderata e desiderabile). Ebbene, a causa dei conflitti armati, in quella regione ci sono più di un milione di sfollati che hanno dovuto lasciare le loro case e la loro terra. Anche noi abbiamo dovuto lasciare la presenza salesiana a Sha-Sha che è stata occupata militarmente.
            Questo milione di sfollati è arrivato nella città di Goma. A Gangi, uno dei quartieri, c’è l’opera salesiana “Don Bosco”. Sono stato immensamente felice di vedere il bene che là viene fatto. Centinaia di ragazzi e ragazze hanno una casa. Decine di adolescenti sono stati tolti dalla strada e vivono nella casa di Don Bosco. Proprio lì, a causa della guerra, hanno trovato casa 82 bambini neonati e ragazzini e ragazzine che hanno perso i genitori o sono stati lasciati indietro (“abbandonati”) perché i genitori non potevano occuparsene.
            E lì, in quella nuova Valdocco, una delle tante Valdocco del mondo, una comunità di tre suore di San Salvador, insieme a un gruppo di signore, tutte sostenute dalla casa salesiana con aiuti che arrivano grazie alla generosità dei benefattori e della Provvidenza, si prendono cura di questi bambini e bambine. Quando sono andato a trovarli, le suore avevano vestito tutti a festa, anche i bambini che dormivano nelle loro culle. Come non sentire il cuore pieno di gioia per questa realtà di bontà, nonostante il dolore causato dall’abbandono e dalla guerra!
            Ma il mio cuore è stato toccato quando ho incontrato alcune centinaia di persone che sono venute a salutarmi in occasione della mia visita. Sono tra i 32.000 sfollati che hanno lasciato le loro case e la loro terra a causa delle bombe e sono venuti a cercare rifugio. Lo hanno trovato nei campi da gioco e nei terreni della casa Don Bosco di Gangi. Non hanno nulla, vivono in baracche di pochi metri quadrati. Questa è la loro realtà. Insieme cerchiamo ogni giorno un modo per trovare da mangiare. Ma sapete cosa mi ha colpito di più? La cosa che mi ha colpito di più è che quando ero con queste centinaia di persone, per lo più anziani e madri con bambini, non avevano perso la loro dignità e non avevano perso la loro gioia o il loro sorriso. Sono rimasto stupito e il mio cuore si è rattristato per tanta sofferenza e povertà, anche se stiamo facendo la nostra parte nel nome del Signore.

Un concerto straordinario
            Un’altra grande gioia ho provato quando ho ricevuto una testimonianza di vita che mi ha fatto pensare agli adolescenti e ai giovani delle nostre presenze, e a tanti figli di genitori che forse mi leggono e che sentono che i loro figli sono demotivati, annoiati dalla vita, o che non hanno passione per quasi nulla. Tra gli ospiti della nostra casa, in questi giorni, c’era una straordinaria pianista che ha girato il mondo dando concerti e che ha fatto parte di grandi orchestre filarmoniche. È un’ex allieva dei Salesiani e ha avuto un salesiano, ora scomparso, come grande riferimento e modello. Ha voluto offrirci questo concerto nell’atrio del tempio del Sacro Cuore come omaggio a Maria Ausiliatrice, che tanto ama, e come ringraziamento per tutto ciò che è stata la sua vita finora.
            E dico quest’ultimo perché la nostra cara amica ci ha regalato un concerto meraviglioso, con una qualità eccezionale a 81 anni. Era accompagnata dalla figlia. E a quell’età, forse quando alcuni dei nostri anziani in famiglia hanno già detto da tempo che non hanno più voglia di fare nulla, né di fare nulla che richieda uno sforzo, la nostra cara amica, che si esercita ogni giorno al pianoforte, muoveva le mani con un’agilità meravigliosa ed era immersa nella bellezza della musica e della sua esecuzione. La buona musica, un sorriso generoso alla fine della sua esibizione e la consegna delle orchidee alla Vergine Ausiliatrice erano tutto ciò di cui avevamo bisogno in quella meravigliosa mattinata. E il mio cuore salesiano non ha potuto fare a meno di pensare a quei ragazzi, ragazze e giovani che forse non hanno avuto o non hanno più nulla che li motivi nella loro vita. Lei, la nostra amica concertista, a 81 anni vive con grande serenità e, come mi ha detto, continua a offrire il dono che Dio le ha fatto e ogni giorno trova sempre più motivi per farlo.
            Un’altra lezione di vita e un’altra testimonianza che non lascia il cuore indifferente.

            Grazie, amici miei, grazie dal profondo del cuore per tutto il bene che stiamo facendo insieme. Per quanto piccolo possa essere, contribuisce a rendere il nostro mondo un po’ più umano e più bello. Che il buon Dio vi benedica.




Don Bosco, la politica e la questione sociale

Don Bosco ha fatto la politica? Sì, ma non come si può pensare nel senso immediato della parola. Lui stesso diceva che la sua politica era del Padre Nostro: le anime da salvare, i giovani
poveri da nutrire e educare.

Don Bosco e la politica
Don Bosco ha vissuto intensamente e con cosciente consapevolezza i problemi, anche per lui inediti, dei grossi cambiamenti culturali e sociali del suo secolo, particolarmente nei loro risvolti politici, e ha fatto una scelta meditata, che ha voluto facesse parte del suo spirito e caratterizzasse la sua missione.
Egli ha voluto coscientemente «non fare politica» di partito, e ha lasciato come patrimonio spirituale alla sua Congregazione di non farla, non perché egli fosse «apolitico», e cioè alienato dai grandi problemi umani della sua epoca e della società in cui viveva, ma perché volle dedicarsi alla riforma della società senza entrare nei movimenti politici. Non fu quindi un «disimpegnato»; anzi ha voluto che i suoi salesiani fossero veramente degli «impegnati». Ma occorre chiarire il senso di questo impegno politico.
Il termine «politica» può venir usato in due sensi: nel primo senso indica il campo dei valori e dei fini, che definiscono il «bene comune» in una visione globale della società; nel secondo senso indica il campo dei mezzi e dei metodi da seguire per raggiungere il «bene comune».
Il primo significato considera la politica nel senso più ampio della parola. A questo livello tutti hanno una responsabilità politica. Il secondo significato considera la politica come una serie di iniziative che, attraverso i partiti ecc., intendono orientare l’esercizio del potere a favore del popolo. A questo secondo livello la politica è connessa con un intervento nel governo del paese, che esula dall’impegno voluto da Don Bosco.
Egli riconosce in sé e nei suoi una responsabilità politica che riguarda il primo significato, in quanto vuol essere un impegno religioso educativo atto a creare una cultura che informi cristianamente la politica. In questo secondo senso Don Bosco ha fatto politica, anche se la presentava sotto altri termini, come «morale e civile educazione della gioventù».

Don Bosco e la questione sociale
Don Bosco presentì l’evoluzione sociale del suo tempo. «Fu tra quei pochi che aveva capito fin da principio, e lo disse mille volte, che il movimento rivoluzionario non era un turbine passeggero, perché non tutte le promesse fatte al popolo erano disoneste, e molte rispondevano alle aspirazioni universali, vive dei proletari. Per altra parte egli vedeva come le ricchezze incominciassero a divenire monopolio di capitalisti senza viscere di pietà, e i padroni, all’operaio isolato e senza difesa, imponessero dei patti ingiusti sia riguardo al salario, sia rispetto alla durata del lavoro; vedeva che la santificazione delle feste fosse sovente brutalmente impedita, e come queste cause dovessero produrre tristi effetti: la perdita della fede negli operai, la miseria delle loro famiglie e l’adesione alle massime sovversive. Perciò come guida e freno alle classi operaie, egli reputava partito necessario che il clero si avvicinasse ad esse» (MB IV, 80).
Il volgersi alla gioventù povera con l’intento di operare la salvezza morale e così cooperare alla costruzione cristiana della nuova società fu in lui appunto l’effetto e la conseguenza naturale e prima dell’intuizione che egli ebbe di questa società e del suo divenire.
Non si deve però ricercare nelle parole di Don Bosco la formula tecnica. Don Bosco parlò solo di abuso delle ricchezze. Ne parlò con tale insistenza, con tale forza di espressione e straordinaria originalità di concetto, da rivelare non soltanto l’acutezza della sua diagnosi dei mali del secolo, ma anche l’intrepidezza del medico che vuole sanarli. Il rimedio egli lo indicò nell’uso cristiano della ricchezza, nella coscienza della sua funzione sociale. Molto si abusa della ricchezza, ripeteva senza posa, bisogna ricordare ai ricchi il loro dovere prima che venga la catastrofe.

Giustizia e carità
Accennando all’opera compiuta in Torino dal Can. Cottolengo e da Don Bosco, un professore nell’Istituto di scienze politiche dell’Università di Torino ammette il bene compiuto da questi due santi, però poi esprime l’opinione che «questo aspetto del movimento caritativo piemontese, pur nei ragguardevoli risultati raggiunti, sia stato storicamente negativo» perché più di ogni altro avrebbe contribuito a frenare il progresso implicito nell’azione delle masse popolari che rivendicavano i propri diritti.
È sua opinione che «le attività di questi due santi piemontesi erano viziate dalla concezione di fondo che muoveva entrambi, per cui tutto veniva abbandonato nelle mani pietose di una provvidenza divina» (ivi). Essi sarebbero rimasti estranei ai movimenti reali delle masse ed ai loro diritti, legati com’erano all’immagine di una società fatta, per forza di cose, di nobiltà e popolo, di ricchi e di proletari, dove il benestante doveva essere misericordioso ed il povero umile e paziente. Insomma San G. B. Cottolengo e S. G. Bosco non si sarebbero resi conto del problema delle classi in trasformazione.
Non posso qui fermarmi a considerare il caso del Cottolengo. Faccio solo notare che il suo intervento rispondeva ad un’esperienza bruciante che lo portò subito a far qualcosa, come aveva fatto il Buon Samaritano del Vangelo (Lc 10, 29-37). Guai se il Buon Samaritano avesse aspettato il cambio della società per intervenire. L’uomo sulla strada di Gerico sarebbe morto! «La carità di Cristo ci sospinge» (2 Cor 5,14) sarà il programma d’azione di San Giuseppe Benedetto Cottolengo. Ognuno ha una sua missione nella vita. Un intervento sugli effetti del male non nega il riconoscimento del bisogno di andare alle cause. Ma è pur la cosa più urgente da compiere. E poi il Cottolengo non pensava solo a questo, ma a ben altro.
L’intervento, poi, di Don Bosco nella questione sociale è stato orientato da un’opzione fondamentale: per i poveri, per i fatti, e per il dialogo con chi, anche se d’altra sponda, poteva essere indotto a far qualcosa.

Il contributo di Don Bosco
Come sacerdote educatore, Don Bosco fece una scelta di campo, per la gioventù povera ed abbandonata, e superò l’idea puramente caritativa, preparando quella gioventù a rendersi capace di far valere onestamente i propri diritti.
La sua prima attività si volse prevalentemente a vantaggio dei poveri garzoni di bottega e manovali d’officina. I suoi interventi, che oggi potremmo definire di carattere sindacale, lo portarono a relazioni dirette con i padroni di questi giovani per stipulare con essi «contratti di locazione d’opera».
Poi, accortosi che questo aiuto non risolveva i problemi se non in casi limitati, cominciò ad impiantare laboratori d’arti e mestieri, piccole aziende dove i prodotti finiti sotto la guida di un capo d’arte andassero a vantaggio degli stessi allievi. Si trattava di organizzare in casa propria l’apprendistato, in modo che i giovani apprendisti potessero guadagnarsi il pane senza venire sfruttati dai padroni. Finalmente passò all’idea di un capo d’arte che fosse lui stesso non il padrone del laboratorio o un salariato della scuola, ma un religioso laico, maestro d’arte, che potesse dare al giovane apprendista, disinteressatamente, a pieno tempo e per vocazione, una formazione professionale e cristiana completa.
Le scuole professionali da lui sognate, e poi attuate dai suoi Successori, furono un importante contributo alla soluzione della questione operaia. Egli non fu il primo né il solo in quell’impresa; ci mise, tuttavia, del suo, specialmente con l’armonizzare la sua istituzione con l’indole dei tempi e con l’imprimerle il proprio metodo educativo.
Non c’è quindi da stupirsi dell’attenzione che grandi sociologi cattolici del secolo scorso manifestarono per Don Bosco.
Mons. Charles Emil Freppel (1827-1891), vescovo di Angers, uomo di grande cultura e Deputato alla Camera francese, il 2 febbraio 1884, pronunziando un discorso in Parlamento sulla questione operaia, ebbe a dire:
«Il solo Vincenzo de’ Paoli ha fatto di più per la soluzione delle questioni operaie dei suoi tempi che tutti gli scrittori del secolo di Luigi XIV. Ed in questo momento in Italia un religioso, Don Bosco, che voi avete visto a Parigi, riesce meglio nel preparare la soluzione della questione operaia di tutti gli oratori al Parlamento italiano. Questa è la verità, incontestabile» (cf. Journal officiel de la République française… Chambre. Débats parlementaires, 3 février 1884, p. 280).

Una testimonianza che non ha bisogno di commentari…




Preparazioni per il 150° Anniversario della Prima Spedizione Missionaria salesiana (1875-2025)

L’anno prossimo, 2025, si compiono 150 anni della partenza per la prima spedizione missionaria salesiana. In vista di quest’anniversario, il dicastero delle Missioni Salesiane vuole preparare l’evento e lancia un’introduzione per le comunità salesiane, in modo puntuale. Questo avvenimento viene proposto come: Ringraziare, Ripensare, Rilanciare.

Ringraziare: Ringraziamo Dio per il dono della vocazione missionaria che permette oggi ai figli di Don Bosco di raggiungere i giovani poveri e abbandonati in 136 paesi.

Ripensare: È un’occasione propizia per ripensare e sviluppare una visione rinnovata delle missioni salesiane alla luce delle nuove sfide e delle nuove prospettive che hanno portato a nuove riflessioni missiologiche.

Rilanciare: Non abbiamo solo una storia gloriosa da ricordare e di cui essere grati, ma anche una grande storia ancora da realizzare! Guardiamo al futuro con zelo missionario ed entusiasmo rinnovato per raggiungere un numero ancora maggiore di giovani poveri e abbandonati.

Il Logo Ufficiale: il globo terrestre attraversato da alcune onde, che simboleggiano il coraggio e le nuove sfide, ma anche il dinamismo e la temerarietà. Al centro si trova una nave, simbolo della prima spedizione missionaria salesiana (1875), e il fuoco di un rinnovato entusiasmo missionario. La forma della ruota allude all’unità e alla connessione reciproca. È possibile utilizzare il logo, ma solo nella versione ufficiale senza fare modifiche o cambiamenti in nessuna parte del logo. È possibile scaricarlo in diversi formati (http://tinyurl.com/49zh69je), oppure richiederlo via e-mail (cagliero11 @ sdb.org).

L’obiettivo delle celebrazioni:
Mantenere vivo lo spirito e l’entusiasmo missionario nella Congregazione, al fine di promuovere un maggiore zelo missionario e una maggiore generosità tra i Salesiani e di tutta la CEP (Comunità Educativo Pastorale) (cf. Linee programmatiche del Rettore Maggiore per la Congregazione Salesiana dopo il Capitolo Generale 28, n. 7, ACG 433/2020).

Non è un evento ma un processo di rinnovamento missionario
Il 150° anniversario della prima spedizione missionaria non deve essere un evento commemorativo, ma un processo di rinnovamento missionario già iniziato con la stesura del piano sessennale di animazione missionaria. Il suo momento forte è il 2025, ma continua negli anni successivi. Ciò avviene a tre livelli.

1. A livello ispettoriale
Le celebrazioni avverranno principalmente a livello di Ispettoria.  Attraverso il CORAM (Coordinatori Regionali per l’Animazione Missionaria), il Settore Missioni continuerà a seguire il piano di animazione missionaria di ogni Ispettoria, di cui fanno parte le iniziative a livello Ispettoriale per il 2025.

Nel contesto delle celebrazioni, tramite il DIAM (Delegati Ispettoriali per l’Animazione Missionaria), ogni Ispettoria sarà attivamente incoraggiata a valutare come ha messo in pratica le Linee Programmatiche n. 2, 5, 7.

“È urgente dare priorità assoluta all’impegno per l’evangelizzazione dei giovani con proposte consapevoli, intenzionali ed esplicite. Siamo invitati a far conoscere loro Gesù e la Buona Novella del Vangelo per la loro vita. […] Rispondere alla «urgenza di riproporre con più convinzione il primo annuncio, perché “non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio”» (Christus Vivit, no. 214) (Linee Programmatiche, n. 2)

Ogni Ispettoria fa l’opzione radicale, preferenziale, personale – cioè da parte di ogni salesiano – e istituzionale a favore dei più bisognosi, dei ragazzi, delle ragazze e dei giovani poveri ed esclusi, con particolare attenzione alla difesa di coloro che sono sfruttati e vittime di qualsiasi abuso e violenza (“abuso di potere, economico, di coscienza, sessuale”) (Linee Programmatiche n. 5).
Abbiamo concretizzato l’appello missionario invitando ogni Ispettoria ad aprire al proprio interno un progetto missionario (rifugiati, immigrati, valichi di frontiera, bambini sfruttati…) durante il sessennio precedente, dando priorità alla significatività e alle reali richieste di aiuto dei giovani di oggi (Linee Programmatiche n. 7).”

Ad ogni Ispettoria verrà chiesto di presentare un’iniziativa concreta per il 2025 (per esempio: le ispettorie ARS e ARN sta preparando un Congresso storico, la Visitatoria ZMB ha iniziato già una nuova presenza in Botswana, ecc.) che verrà socializzata attraverso l’ANS (Agenzia iNfo Salesiana), ecc.

2. A livello del Settore Missioni
Tutto l’anno 2025 sarà un’occasione per socializzare il risultato del lavoro in corso nel Settore Missioni su rifugiati, rom, “Lo sviluppo dalla prospettiva salesiana”, identità dei Musei Salesiani, identità delle Procure Missionarie Ispettoriale, Tavola rotonda di missiologi e teologi sulle missioni salesiane oggi, Volontariato Missionario Salesiano, Bosco Food (per favorire una mentalità interculturale), sussidi per l’Animazione Missionaria, per la GMS (Giornata Missionaria Salesiana) 2025, ecc.

3. A livello di Congregazione
L’invio missionario l’11 novembre 2025 nella Basilica di Maria Ausiliatrice, a Valdocco. È una celebrazione con la quale la Congregazione rinnova, davanti a Maria Ausiliatrice, il suo impegno missionario.

Il Rettor Maggiore invita ogni Ispettoria ad inviare il DIAM per la celebrazione. Trascorreranno alcuni giorni (9-12 novembre 2025) a Valdocco e Genova per “Ringraziare, Ripensare, Rilanciare.”




1924-2024. 100 anni a supporto delle Missioni Salesiane. Istituto Salesiano per le Missioni

Il 13 gennaio del 1924, con un decreto reale, veniva eretto in ente morale l’Istituto Salesiano per le Missioni, per un’iniziativa del Rettor Maggiore, il beato Filippo Rinaldi, che voleva sostenere le attività missionarie. L’Istituto prosegue anche oggi il suo compito a favore di tante missioni nel mondo.

Negli anni ’20, le missioni salesiane stavano aumentando, coltivate dalle lettere dei missionari che venivano presentate costantemente nel Bollettino Salesiano, dell’effervescenza prodotta in quelli anni dalle nuove scoperte geografiche e culturali e da tante persone che, emigrando lontano dalla patria in cerca di una vita migliore, inviavano notizie a coloro che erano rimasti a casa. Una serie di avvenimenti venne a rafforzare l’attenzione per le missioni.

Nel 1922, per la formazione dei futuri missionari don Rinaldi aveva fondato ad Ivrea l’Istituto Cardinal Cagliero, che solo dopo un anno dall’inizio contava già centosessanta candidati. Codesto istituto verrà riconosciuto dalla S. Congregazione di Propaganda Fide il 30 aprile 1924 con un decreto nel quale si erigeva canonicamente l’Istituto Cardinal Cagliero come seminario di aspiranti alle Missioni Salesiane, lo si dichiarava «alle sue dipendenze, e partecipe di tutti i diritti e privilegi di cui godono simili Istituti» e se ne sanciva e comunicava lo statuto.

Questo interesse in crescita nel 1923 ha portato il Rettor Maggiore Filippo Rinaldi a fondare una rivista chiamata “Gioventù missionaria” con lo scopo di animare e coltivare il lavoro per le missioni tra le nuove generazioni. Nel primo numero si leggeva: “Gioventù Missionaria fa dunque assegnamento sulla vostra attiva propaganda [di far conoscere l’attività dei missionari]. E attende anche meglio da voi tutti: spera trovare in voi i missionari dei… missionari. Essa lancerà frequenti, continui appelli al vostro buon cuore perché vogliate farvi apostoli zelanti di un’idea: le Missioni.”

Nel 9 di novembre 1923, il re d’Italia, Vittorio Emanuele III, aveva firmato un decreto sulla dispensa provvisoria della leva militare per i giovani che si preparavano ad andare nelle missioni, oppure per coloro che erano già missionari. Questo cambiamento ha favorito e ha dato un impulso alla preparazione dei missionari, tanto che la Congregazione Salesiana ha stabilito un numero di 31 istituti religiosi che preparavano i giovani per le missioni: 15 in Italia e i restanti all’estero.

Nel giugno 1924 il Rettor Maggiore, don Filippo Rinaldi, scriveva ai salesiani a proposito delle missioni:
“E, cosa mirabile, i giovani stessi di molti nostri collegi, pensionati, convitti, e principalmente oratorii festivi, sono già divenuti apostoli ferventi, suscitano e tengono viva tra i compagni una nobile gara di privazioni e mortificazioni spontanee a pro delle nostre Missioni; di lotterie, recite drammatiche, e altri trattenimenti per lo stesso fine; di letterine ai genitori, ai fratelli, ai conoscenti ed amici per avere qualche offerta, o per indurli a iscriversi tra i Cooperatori o ad abbonarsi al caro periodico Gioventù Missionaria. E non di rado avviene che, a forza di questuare per le Missioni, qualche giovane finisce per dare anche sé stesso, facendosi missionario salesiano.”

Nel 1925 era programmata una nuova Esposizione Missionaria Mondiale che si doveva tenere in Vaticano, alla quale partecipavano anche i salesiani, e l’inaugurazione solenne, presieduta dal Santo Padre Pio XI, era pianificata per il dicembre 1924. Una spinta in più che induce don Filippo Rinaldi ad affidare il compito delle missioni (fino a quel momento riservato a sé), al Prefetto Generale, don Pietro Ricaldone che doveva seguire i preparativi. Diceva a questo proposito: “L’articolo 62 dei nostri Regolamenti dice: La cura delle Missioni è affidata a uno del Capitolo Superiore, a ciò delegato dal Rettor Maggiore. Valendomi di tale facoltà, delego a ciò il R.mo D. Pietro Ricaldone, Prefetto Generale. Già per altre sue attribuzioni egli è in rapporto coi nostri missionari, e mi pare quindi il più indicato anche per ragioni di semplicità. Essendo poi egli colui che fa le veci del Rettor Maggiore, tale delegazione non diminuisce quel contatto ch’io desidero conservare coi miei carissimi missionari, così lontani e alle volte esposti a così gravi pericoli e sorprese.”

Quando don Bosco finì la sua vita terrena, i salesiani missionari erano presenti in cinque paesi dell’America Latina, in numero di circa 150, fra i 773 salesiani in tutta la Congregazione. Il loro numero crebbe tanto che fino al 1925 erano partiti per le missioni circa 3000 salesiani. Un numero così grande di missionari, con un numero grande anche delle opere missionarie, per non parlare dei beneficiari delle missioni, richiedeva un’organizzazione ingente, tanto nella preparazione di questi generosi salesiani quanto nelle risorse materiali.

Si stavano approntando anche i preparativi per celebrare il cinquantesimo della prima Spedizione Missionaria (1875-1925). A proposito di questo, il Bollettino Salesiano del giugno 1924 scriveva:
“Avvicinandosi il Cinquantenario delle Missioni Salesiane (1875-1925), raccomandiamo a tutti la celebrazione delle Giornate Missionarie a favore delle Missioni Salesiane, per diffonderne la conoscenza e i bisogni, e guadagnare ad esse maggiori simpatie, perché raggiungano quell’appoggio di cui abbisognano quotidianamente.
Ma le Giornate Missionarie non possono raccogliere, d’un tratto, quegli aiuti che sono necessari. I nostri Missionari, ad es., chiedono con quotidiana insistenza — non solo lini e oggetti per l’esercizio del sacro ministero — ma anche, e soprattutto, tele, abiti, calzature, per vestire i piccoli alunni dei numerosi Orfanotrofi e gli altri neofiti, e medicine e mille altre cose necessarie per assistere fraternamente ed iniziare alla vita civile i nuovi cristiani.”

A questo scopo fu necessario fondare un ente giuridico, Istituto Salesiano per le Missioni, che si occupasse delle necessità missionarie. Il suo atto costitutivo fu registrato già il 18 ottobre del 1922 presso il registro notarile di Moncalieri (oggi un comune nell’area metropolitana di Torino), da parte di don Rinaldi, Rettor Maggiore e alcuni suoi collaboratori. Fu un atto di nascita di un ente che rifletteva l’interesse in crescita per le missioni salesiane. Nel 1924 fu riconosciuto civilmente come ente morale, con il decreto reale n. 22 del 13.01.1924.

Lungo un secolo, l’Istituto Salesiano per le Missioni ha fatto da intermediario tra i benefattori e i beneficiati delle missioni. Un bene incalcolabile fatto da tante persone – molte volte in modo nascosto – che hanno voluto partecipare a questa nobile attività e che con certezza saranno copiosamente ricompensate da Dio. Don Bosco sosteneva che la generosità dei benefattori è sempre riscambiata da Dio, e non solo nella vita eterna.

Il compito dell’Istituto Salesiano per le Missioni iniziato cento anni fa non si è fermato, non essendosi fermate le necessità. Continua anche oggi perché l’educazione dei ragazzi, specialmente dei più poveri, è una missione continua. Di benefattori c’è sempre bisogno perché Dio vuol far partecipare tutti alla sua opera salvifica. Dipende da ognuno se vuol essere cooperatore di Dio. E se qualcuno vuole, lo può fare contattando questo istituto ai recapiti indicati in calce.

Istituto Salesiano per le Missioni
Via Maria Ausiliatrice, 32
10152 Torino
CF 00155220494
tel. +39 011.5224.248
istitutomissioni@sdb.org
istitutosalesianoperlemissioni@pec.it




Sono un salesiano e sono un bororo

Diario di una giornata missionaria felice e benedetta

            Cari amici del Bollettino Salesiano, vi scrivo da Meruri, nello stato del Mato Grosso do Sul. Scrivo questo saluto quasi come se fosse una cronaca giornalistica, perché sono passate 24 ore da quando sono arrivato in mezzo a questa città.
            Ma i miei confratelli salesiani sono arrivati 122 anni fa e da allora siamo sempre stati in questa missione in mezzo alle foreste e ai campi, accompagnando la vita di questo popolo indigeno.
            Nel 1976 un salesiano e un indio sono stati derubati della loro vita con due colpi di pistola (da parte di “facendeiros” o grandi proprietari terrieri), perché ritenevano che i salesiani della missione fossero un problema per potersi appropriare di altre proprietà in queste terre che appartengono al popolo Boi-Bororo. Si tratta del Servo di Dio Rodolfo Lunkenbein, salesiano, e dell’indio Simao Bororo.
            E qui abbiamo potuto vivere ieri molti momenti semplici: siamo stati accolti dalla comunità indigena al nostro arrivo, li abbiamo salutati – senza fretta – perché qui tutto è tranquillo. Abbiamo celebrato l’Eucaristia domenicale, abbiamo condiviso riso e feijoada (stufato di fagioli), e abbiamo goduto di una conversazione amabile e calorosa.
            Nel pomeriggio mi avevano preparato una riunione con i capi delle varie comunità; erano presenti alcune donne capo (in diversi villaggi è la donna ad avere l’autorità ultima). Abbiamo dialogato in modo sincero e profondo. Mi hanno esposto le loro riflessioni e mi hanno presentato alcune delle loro esigenze.
            In uno di questi momenti, un giovane salesiano Boi Bororo ha preso la parola. È il primo Bororo a diventare salesiano dopo 122 anni di presenza salesiana. Questo ci invita a riflettere sulla necessità di dare tempo a tutto; le cose non sono come pensiamo e vogliamo che siano nel modo efficiente e impaziente di oggi.
            E questo giovane salesiano ha parlato così davanti alla sua gente, alla sua gente e ai suoi capi o autorità: «Sono salesiano ma sono anche Bororo; sono Bororo ma sono anche salesiano, e la cosa più importante per me è che sono nato proprio in questo luogo, che ho incontrato i missionari, che ho sentito parlare dei due martiri, padre Rodolfo e Simao, e ho visto la mia gente e il mio popolo crescere, grazie al fatto che la mia gente ha camminato insieme alla missione salesiana e la missione ha camminato insieme alla mia gente. È ancora la cosa più importante per noi, camminare insieme».
            Ho pensato per un attimo a quanto sarebbe stato orgoglioso e felice don Bosco di sentire uno dei suoi figli salesiani appartenere a questo popolo (come altri salesiani che provengono dal popolo Xavante o dagli Yanomani).
            Allo stesso tempo, nel mio discorso ho assicurato loro che vogliamo continuare a camminare al loro fianco, che vogliamo che facciano tutto il possibile per continuare a curare e salvare la loro cultura – e la loro lingua – con tutto il nostro aiuto. Ho detto loro che sono convinto che la nostra presenza li abbia aiutati, ma sono anche convinto di quanto ci faccia bene stare con loro.

«Avanti!» disse la Pastorella
            Ho pensato all’ultimo sogno missionario di don Bosco: e quella Pastorella, che si fermò accanto a Don Bosco e gli disse: «Ti ricordi del sogno che hai fatto a 9 anni?… Guarda ora, che cosa vedi?» «Vedo montagne, poi mari, poi colline, quindi di nuovo montagne e mari».
            «Bene — disse la Pastorella — Ora tira una sola linea da una estremità all’altra, da Santiago a Pechino, fanne un centro nel mezzo dell’Africa e avrai un’idea esatta di quanto debbono fare i Salesiani». «Ma come fare tutto questo? — esclamò Don Bosco — Le distanze sono immense, i luoghi difficili e i Salesiani pochi». «Non ti turbare. Faranno questo i tuoi figli, i figli dei tuoi figli e dei loro figli». Lo stanno facendo.
            Fin dall’inizio del nostro cammino come congregazione, guidato (e amabilmente “spinto”) da Maria Ausiliatrice, Don Bosco ha inviato i primi missionari in Argentina. Siamo una congregazione riconosciuta con il carisma dell’educazione e dell’evangelizzazione dei giovani, ma siamo anche una congregazione e una famiglia molto missionaria. Dall’inizio a oggi, ci sono stati più di undicimila missionari salesiani sdb e diverse migliaia di Figlie di Maria Ausiliatrice. E oggi, la nostra presenza tra questo popolo indigeno, che conta 1940 membri e che continua a crescere a poco a poco, ha perfettamente senso dopo 122 anni, perché sono alla periferia del mondo, ma un mondo che a volte non capisce che deve rispettare ciò che sono.
            Ho parlato anche con la matriarca, la più anziana di tutte, che è venuta a salutarmi e a raccontarmi del suo popolo. E dopo un bel temporale di pioggia torrenziale, nel luogo del martirio, con grande serenità, ci siamo seduti a recitare il rosario in una bella domenica sera (era già buio). Eravamo in tanti a rappresentare la realtà di questa missione: nonne, nonni, adulti, giovani madri, neonati, bambini piccoli, religiosi consacrati, laici… Una ricchezza nella semplicità di questa piccola parte di mondo che non ha potere ma che è anche scelta e prediletta dal Signore, come ci dice nel Vangelo.
            E so che così continueremo, a Dio piacendo, per molti anni a venire, perché si può essere un Bororo e un figlio di Don Bosco, ed essere un figlio di Don Bosco e un Bororo che ama e si prende cura del suo popolo e della sua gente.
            Nella semplicità di questo incontro, oggi è stato un grande giorno di vita condivisa con i popoli indigeni. Una grande giornata missionaria.




Alberto Marvelli, il cristiano che piaceva anche ai comunisti

Alberto Marvelli (1918-1946), un giovane formato nell’oratorio salesiano di Rimini, ha vissuto la sua breve vita nell’impegno quotidiano di servizio per gli altri, con tutta l’intensità che le permettevano le forze. La sua vita normale ma intensamente cristiana lo ha portato alla santità, essendo beatificato nel 2004 dal papa san Giovanni Paolo II.

Alberto Marvelli, «ingegnere della carità», ha il fascino di una santità straordinariamente normale. Alberto ha un papà direttore di banca e una famiglia cristianissima. È nato a Ferrara nel 1918, ma a 13 anni con la sua famiglia si stabilisce definitivamente a Rimini, seguendo papà nei suoi spostamenti di lavoro. È un ragazzo di salute robusta e di temperamento impetuoso, ma è anche così serio che a tratti fa pensare a un uomo adulto. Il ginnasio lo supera tra tirate di studio e gare sportive clamorose. A 15 anni si iscrive al liceo classico. Ma proprio in quei mesi la famiglia è colpita duramente dalla morte di papà. Lui è già delegato aspiranti e animatore dell’oratorio nella parrocchia Maria Ausiliatrice. Insegna catechismo, anima le adunanze, organizza la messa dei giovani. A soli 18 anni diventerà presidente dell’Azione Cattolica.
Iniziando il liceo, Alberto comincia il suo Diario e scrive: «Dio è grande, infinitamente grande, infinitamente buono». Ma vi registrerà per tutta la vita la sua crescita di uomo e di cristiano. Vi leggiamo un «piccolo schema» rigido e forte che egli si dà. Si propone in particolare: preghiera e meditazione al mattino e alla sera, l’incontro con l’eucaristia, possibilmente anche tutti i giorni, la lotta contro i difetti più grossi: la pigrizia, la gola, l’impazienza, la curiosità… Un programma che Alberto attuerà per tutta la vita.

Studente pendolare
Tra i 60 candidati alla maturità classica Alberto si classifica secondo. Il 1° dicembre 1936 (a 18 anni) inizia il primo anno di ingegneria all’Università di Bologna. Comincia così la vita dello studente pendolare tra Rimini e Bologna. Studio e apostolato in entrambe le città. La donna di servizio della zia che lo ospita a Bologna testimonierà con le parole dei semplici: «Lo vedevo di giorno e di notte ammazzato di lavoro per l’università e l’apostolato. Qualche volta lo trovavo addormentato sui libri e con la corona in mano. Al mattino lo vedevo in chiesa alle 6 per messa e comunione. Se gli impegni non gli consentivano di comunicarsi prima, stava digiuno fino a mezzogiorno. Imponeva una formidabile penitenza al suo appetito».
Mentre Alberto sta terminando l’università, sull’Europa scoppia il ciclone della seconda guerra mondiale. Anche l’Italia vi è coinvolta. Laureando in ingegneria, dall’agosto al novembre 1940 Alberto è a Milano, impiegato nella fonderia Bagnagatti, sotto i primi bombardamenti. L’industriale testimonierà: «Trascorse presso di me alcuni mesi. Familiarizzò subito con tutti i dipendenti e particolarmente con i più giovani e i più umili. S’interessò dei bisogni familiari degli operai e mi prospettò le particolari necessità di ognuno, sollecitando gli aiuti che riteneva opportuni. Visitava gli ammalati, incitava gli apprendisti a frequentare le scuole serali. Infondeva in tutti un immediato e vivo senso di simpatia e cordialità».
30 giugno 1941. Mentre l’Italia inizia il suo secondo anno di guerra, Alberto si laurea in ingegneria industriale con il massimo dei voti. Subito dopo indossa pure lui la divisa grigioverde e parte per fare il soldato.

Il servizio militare e la guerra
Nel rigidissimo gennaio 1943 i russi scatenano l’offensiva su tutto il fronte ovest. L’Armir (armata italiana in Russia), che occupa il fronte sul Don, è costretta a una leggendaria ritirata sugli sconfinati campi ghiacciati, mentre i russi e il gelo uccidono. Lassù è appena arrivato Raffaello Marvelli, ed è ucciso in combattimento. Per mamma Maria è un’ora durissima. Alberto scrive sul Diario parole scarne, sanguinanti: «La guerra è un castigo per la nostra cattiveria, per punire il nostro poco amore a Dio e agli uomini. Manca lo spirito di carità nel mondo, e perciò ci odiamo come nemici invece di amarci come fratelli».
È destinato a una caserma di Treviso. Ed è qui che si compie il «miracolo» di Marvelli. Don Zanotto, parroco di S. Maria di Piave, ha scritto: «Quando l’ingegner Marvelli arrivò a Treviso, nella caserma di duemila soldati, tutti bestemmiavano e la malavita imperava. Dopo qualche tempo nessuno più bestemmiava, dico proprio nessuno, nemmeno i superiori. Il colonnello, da bestemmiatore, si diede a reprimere lui stesso, nei soldati, la bestemmia». In settembre l’Italia si ritira dalla guerra. L’esercito si sfascia. Alberto è a casa. Ma la guerra non è finita. I soldati tedeschi hanno occupato l’Italia, e gli alleati intensificano i bombardamenti sulle nostre città.

Tra i rifugiati a San Marino
Il 1° novembre Rimini è investita dal primo bombardamento aereo. Ne subirà trecento e sarà ridotta a un tappeto di macerie. Occorre fuggire lontano, nella libera Repubblica di San Marino. In poche settimane, quel francobollo di terra libera passa da 14 mila a 120 mila abitanti.
Alberto vi arriva reggendo la cavezza di un asino. Sul calesse è la mamma. Giorgio e Geltrude spingono biciclette cariche di cibo con cui sopravvivere. Vengono accettati in uno dei cameroni del collegio Belluzzi. Altre famiglie sono nei magazzini della Repubblica, moltissime altre si ammucchiano nelle gallerie ferroviarie.
È facilissimo, in momenti come questi, chiudersi in sé stessi, pensare alla sopravvivenza dei propri cari e basta. Alberto è invece al centro dell’assistenza, a disposizione di tutti. Scrive una testimone: «A sera recitava forte il rosario nei cameroni del collegio Belluzzi, poi andava a dormire alla meglio presso i conventuali; e al mattino, nella chiesa zeppa di sfollati, serviva la messa e si comunicava. Poi via di nuovo per tutte le vie e per andare incontro a tutti i bisognosi. Prendeva nota delle necessità, e quando non poteva arrivare, affidava ad altri il lavoro. C’era da andare nelle gallerie da dove la gente non osava uscire». Aggiunge Domenico Mondrone: «Ogni giorno faceva chilometri di strada in bicicletta, raccogliendo roba da mangiare. Talvolta tornò a casa con il tascapane forato dalle schegge di granate che scoppiavano da ogni parte. Ma lui, con gli amici che ne emulavano il coraggio, non si arrestava».

Lo volevano sindaco
21 novembre 1944. Gli alleati entrano in Rimini. Tutto intorno sono paesi e boschi che bruciano, ingorghi di carri, camion, macchine. Morti e desolazione. Alberto vi torna con la famiglia. Trova la sua casa (colpita, ma ancora abitabile) occupata da ufficiali inglesi. I Marvelli si sistemano alla meglio nello scantinato. In quel terribile inverno (l’ultimo di guerra) Alberto diventa servo di tutti. Il Comitato di Liberazione lo incarica dell’ufficio alloggi, il comune gli affida il genio civile per la ricostruzione, il vescovo gli consegna i «Laureati cattolici» della diocesi. I poveri assediano in permanenza le due stanzucce del suo ufficio, lo seguono a casa quando va a mangiare un boccone con sua madre. Alberto non ne allontana mai neppure uno. Dice: «I poveri passino subito, gli altri abbiano la cortesia di aspettare». Dopo la pace, la miseria della gente continua. Nella guerra molti hanno perso tutto.
L’anno 1946 è mangiato giorno per giorno da infinite necessità, tutte urgenti. Alberto va a messa, poi è a disposizione. Alla fine di quell’anno ci sono le prime elezioni amministrative. Battaglie roventi tra comunisti e democratici cristiani. Un comunista, che vede ogni giorno in Marvelli non un democristiano ma un cristiano, dice: «Anche se perde il mio partito… purché risulti sindaco l’ingegnere Marvelli». Non lo diventerà. La sera del 5 ottobre cena in fretta accanto alla mamma, poi esce in bicicletta per tenere un comizio a San Giuliano a Mare. A 200 metri da casa sua, un camion alleato correndo a velocità pazzesca lo investe, lo scaglia nel giardino di una villa e scompare nella notte. Viene raccolto dal filobus. Due ore dopo muore. Ha 28 anni. Quando la sua bara passa per le strade, i poveri piangono e mandano baci. Un manifesto proclama a caratteri cubitali: «I comunisti di Bellariva si inchinano riverenti a salutare il figlio, il fratello, che ha sparso su questa terra tanto bene».

don Mario PERTILE, sdb