La pastora, le pecore e agnelli (1867)

Nel brano che segue, Don Bosco, fondatore dell’Oratorio di Valdocco, racconta ai suoi giovani un sogno avuto tra il 29 e il 30 maggio 1867 e narrato la sera della Domenica della Santissima Trinità. In una pianura sconfinata, greggi e agnelli diventano allegoria del mondo e dei ragazzi: prati rigogliosi o deserti aridi figurano la grazia e il peccato; corna e ferite denunciano scandalo e disonore; la cifra «3» preannuncia tre carestie – spirituale, morale, materiale – che minacciano chi si allontana da Dio. Dal racconto sgorga l’appello pressante del santo: custodire l’innocenza, tornare alla grazia con la penitenza, così che ogni giovane possa rivestirsi dei fiori della purezza e partecipare alla gioia promessa dal buon Pastore.

                La Domenica della SS. Trinità, 16 giugno, nella qual festa ventisei anni addietro Don Bosco aveva celebrata la sua prima messa, i giovani erano in aspettazione del sogno, il cui racconto era stato da lui annunziato il giorno 13. Il suo ardente desiderio era il bene del suo gregge spirituale, e sempre sua norma gli ammonimenti e le promesse del capo XXVII, v. 23-25 del libro dei Proverbi: Diligenter agnosce vultum pecoris tui, tuosque greges considera: non enim habebis iugiter potestatem: sed corona tribuetur in generationem et generationem. Aperta sunt prata, et apparuerunt herbae virentes, et collecta sunt foena de montibus… (Preoccupati dello stato del tuo gregge, abbi cura delle tue mandrie, perché le ricchezze non sono eterne e una corona non dura per sempre. Tolto il fieno, ricresce l’erba nuova e si raccolgono i foraggi sui monti, Pro 27,23-25). Colle sue preghiere chiedeva di acquistare conoscenza esatta delle sue pecorelle, di aver la grazia di vigilarle attentamente, di assicurarne la custodia anche dopo la sua morte e di vederle provviste di facile e comodo nutrimento spirituale e materiale. Don Bosco adunque, dopo le orazioni della sera, così parlò:

                In una delle ultime notti del mese di Maria, il 29 o 30 maggio, essendo in letto e non potendo dormire, pensava ai miei cari giovani e diceva fra me stesso.
                – Oh se potessi sognare qualche cosa che fosse di loro profitto!
                Stetti alquanto riflettendo e mi risolsi:
                – Sì! adesso voglio fare un sogno per i giovani!
                Ed ecco che restai addormentato. Non appena il sonno mi ebbe preso, mi trovai in una immensa pianura coperta da un numero sterminato di grosse pecore, le quali divise in gregge pascolavano in prati estesi a vista d’occhio. Volli avvicinarmi ad esse e mi diedi a cercare il pastore, meravigliandomi che vi potesse essere al mondo chi possedesse così gran numero di pecore. Cercai per breve tempo, quando mi vidi innanzi un pastore appoggiato al suo bastone. Subito mi feci ad interrogarlo e gli domandai:
                – Di chi è questo gregge così numeroso?
                Il pastore non mi diede risposta. Replicai la domanda ed allora mi disse:
                – Che cosa hai da saper tu?
                – E perché, gli soggiunsi, mi rispondi in questo modo?
                – Ebbene: questo gregge è del suo padrone!
                Del suo padrone? Lo sapevo già questo; dissi fra me. Ma, continuai ad alta voce:
                – Chi è questo padrone?
                – Non t’infastidire, mi rispose il pastore: lo saprai.
                Allora percorrendo con lui quella valle mi diedi ad esaminare il gregge e tutta quella regione per la quale questo andava vagando. La valle era in alcuni luoghi coperta di ricca verdura con alberi che stendevano larghe frondi con ombre graziose ed erbe freschissime delle quali si pascevano belle e floride pecore. In altri luoghi la pianura era sterile, arenosa, piena di sassi con spineti senza foglie, e di gramigne giallastre, e non aveva un filo d’erba fresca; eppure anche qui vi erano moltissime altre pecore che pascolavano, ma d’aspetto miserabile.
                Io domandava varie spiegazioni al mio condottiero intorno a questo gregge, ed egli, senza dar veruna risposta alle mie domande, mi disse:
                – Tu non sei destinato per loro. A queste tu non devi pensare. Ti condurrò io a vedere il gregge del quale devi prenderti cura.
                – Ma tu chi sei?
                – Sono il padrone; vieni meco a guardar là, da quella parte.
                E mi condusse in un altro punto della pianura dove erano migliaia e migliaia di soli agnellini. Questi erano tanto numerosi che non si potevano contare, ma così magri che a stento passeggiavano. Il prato era secco ed arido e sabbioso e non vi si scorgeva un fil d’erba fresca, un ruscello; ma solo qualche sterpo disseccato e cespugli inariditi. Ogni pascolo era stato pienamente distrutto dagli stessi agnelli.
                Si vedeva a prima vista che quei poveri agnelli coperti di piaghe avevano molto sofferto e molto soffrivano ancora. Cosa strana! Ciascuno aveva due corna lunghe e grosse che gli spuntavano sulla fronte, come se fossero vecchi montoni e sulla punta delle corna avevano una appendice in forma di “S”. Meravigliato, me ne stava perplesso nel vedere quella strana appendice di genere così nuovo, e non sapeva darmi pace perché quegli agnellini avessero già le corna così lunghe e grosse, ed avessero distrutto già così presto tutta la loro pastura.
                – Come va questo? dissi al pastore. Son ancora così piccoli questi agnelli ed hanno già tali corna?
                – Guarda, mi rispose; osserva.
                Osservando più attentamente vidi che quegli agnelli in tutte le parti del corpo, sul dosso, sulla testa, sul muso, sulle orecchie, sul naso, sulle gambe, sulle unghie portavano stampati tanti numeri “3” in cifra.
                – Ma che vuol dire ciò? esclamai. Io non capisco niente.
                – Come, non capisci? disse il pastore: Ascolta adunque e saprai tutto. Questa vasta pianura è il gran mondo. I luoghi erbosi la parola di Dio e la grazia. I luoghi sterili ed aridi sono quei luoghi dove non si ascolta la parola di Dio e solo si cerca di piacere al mondo. Le pecore sono gli uomini fatti, gli agnelli sono i giovanetti e per questi Iddio ha mandato D. Bosco. Quest’angolo di pianura che tu vedi è l’Oratorio e gli agnelli ivi radunati i tuoi fanciulli. Questo luogo così arido figura lo stato di peccato. Le corna significano il disonore. La lettera “S” vuol dire scandalo. Essi col mal esempio vanno alla rovina. Fra questi agnelli ve ne sono alcuni che hanno le corna rotte; furono scandalosi, ma ora hanno cessato di dare scandalo. Il numero “3” vuol dire che portano la pena della colpa, cioè che soffriranno tre grandi carestie; carestia spirituale, morale, materiale. 1° La carestia d’aiuti spirituali: domanderanno questo aiuto e non l’avranno. 2 ° Carestia di parola di Dio. 3° Carestia di pane materiale. L’aver gli agnelli mangiato tutto, significa non rimaner più loro altro che il disonore e il numero “3”, ossia le carestie. Questo spettacolo mostra eziandio le sofferenze attuali di tanti giovani in mezzo al mondo. Nell’Oratorio anche quelli che pur ne sarebbero indegni non mancano di pane materiale.
                Mentre io ascoltava ed osservava ogni cosa come smemorato, ecco nuova meraviglia. Tutti quelli agnelli cambiarono aspetto!
                Alzatisi sulle gambe posteriori divennero alti e tutti presero la forma di altrettanti giovanetti. Io mi avvicinai per vedere se ne conoscessi alcuno. Erano tutti giovani dell’Oratorio. Moltissimi io non li aveva mai veduti, ma tutti si dichiaravano essere figli del nostro Oratorio. E fra quelli che non conosceva ve n’erano anche alcuni pochi che attualmente si trovano nell’Oratorio. Sono coloro che non si presentano mai a D. Bosco, che non vanno mai a prendere consiglio da lui, coloro che lo fuggono: in una parola, coloro che Don Bosco non conosce ancora! L’immensa maggioranza però degli sconosciuti era di coloro che non furono né sono ancora nell’Oratorio.
                Mentre con pena osservava quella moltitudine, colui che mi accompagnava mi prese per mano e mi disse:
                – Vieni con me e vedrai altre cose! – E mi condusse in un angolo remoto della valle, circondato da collinette, cinto da una siepe di piante rigogliose, ove era un gran prato verdeggiante, il più ridente che immaginar si possa, ripieno di ogni sorta di erbe odorifere, sparso di fiori campestri, con freschi boschetti e correnti di limpide acque. Qui trovai un altro grandissimo numero di figliuoli, tutti allegri, i quali coi fiori del prato si erano formati o andavano formandosi una vaghissima veste.
                – Almeno hai costoro che ti dànno grande consolazione.
                – E chi sono? interrogai.
                – Sono quelli che si trovano in grazia di Dio.
                Ah! io posso dire di non avere mai vedute cose e persone così belle e risplendenti, né mai avrei potuto immaginare tali splendori. È inutile che mi ponga a descriverli, perché sarebbe un guastare quello che è impossibile a dirsi senza che si veda. Erami però riserbato uno spettacolo assai più sorprendente. Mentre me ne stava guardando con immenso piacere quei giovanetti e fra questi ne contemplava molti che non conosceva ancora, la mia guida mi soggiunse:
                – Vieni, vieni con me e ti farò vedere una cosa che ti darà un gaudio ed una consolazione maggiore. – E mi condusse in un altro prato tutto smaltato di fiori più vaghi e più odorosi dei già veduti. Aveva l’aspetto di un giardino principesco. Qui si scorgeva un numero di giovani non tanto grande, ma che erano di così straordinaria bellezza e splendore da far scomparire quelli da me ammirati poc’anzi. Alcuni di costoro sono già nell’Oratorio, altri qui verranno più tardi.
                Mi disse il pastore:
                – Costoro sono quelli che conservano il bel giglio della purità. Questi sono ancora vestiti della stola dell’innocenza.
                Guardava estatico. Quasi tutti portavano in capo una corona di fiori di indescrivibile bellezza. Questi fiori erano composti di altri piccolissimi fiorellini di una gentilezza sorprendente, e i loro colori erano di una vivezza e varietà che incantava. Più di mille colori in un sol fiore, e in un sol fiore si vedevano più di mille fiori. Scendeva ai loro piedi una veste di bianchezza smagliante, anch’essa tutta intrecciata di ghirlande di fiori, simili a quelli della corona. La luce incantevole che partiva da questi fiori rivestiva tutta la persona e specchiava in essa la propria gaiezza. I fiori si riflettevano l’uno negli altri e quelli delle corone in quelli delle ghirlande, riverberando ciascuno i raggi che erano emessi dagli altri. Un raggio di un colore infrangendosi con un raggio di un altro colore formava raggi nuovi, diversi, scintillanti e quindi ad ogni raggio si riproducevano sempre nuovi raggi, sicché io non avrei mai potuto credere esservi in paradiso un incanto così molteplice. Ciò non è tutto. I raggi e i fiori della corona degli uni si specchiavano nei fiori e nei raggi della corona di tutti gli altri: così pure le ghirlande, e la ricchezza della veste degli uni si riflettevano nelle ghirlande, nelle vesti degli altri. Gli splendori poi del viso di un giovane, rimbalzando, si fondevano con quelli del volto dei compagni e riverberando centuplicati su tutte quelle innocenti e rotonde faccine producevano tanta luce da abbarbagliare la vista ed impedire di fissarvi lo sguardo.
                Così in un solo si accumulavano le bellezze di tutti i compagni con un’armonia di luce ineffabile! Era la gloria accidentale dei santi. Non vi è nessuna immagine umana per descrivere anche languidamente quanto divenisse bello ciascuno di quei giovani in mezzo a quell’oceano di splendori. Fra questi ne osservai alcuni in particolare, che adesso sono qui all’Oratorio e son certo che, se potessero vedere almeno la decima parte della loro attuale speciosità, sarebbero pronti a soffrire il fuoco, a lasciarsi tagliare a pezzi, ad andare insomma incontro a qualunque più atroce martirio, piuttosto che perderla.
                Appena potei alquanto riavermi da questo celestiale spettacolo, mi volsi al duce e gli dissi:
                – Ma dunque fra tanti miei giovani sono così pochi gli innocenti? Sono così pochi coloro che non han mai perduta la grazia di Dio?
                Mi rispose il pastore:
                – Come? Non ti pare abbastanza grande questo numero? Del resto quelli che hanno avuto la disgrazia di perdere il bel giglio della purità, e con questo l’innocenza, possono ancor seguire i loro compagni nella penitenza. Vedi là? In quel prato si ritrovano ancor molti fiori; ebbene essi possono tessersi una corona e una veste bellissima e seguire ancora gli innocenti nella gloria.
                – Suggeriscimi ancora qualche cosa da dire ai miei giovani! io soggiunsi allora.
                – Ripeti ai tuoi giovani, che se essi conoscessero quanto è preziosa e bella agli occhi di Dio l’innocenza e la purità, sarebbero disposti a fare qualunque sacrificio per conservarla. Di’ loro che si facciano coraggio a praticare questa candida virtù, che supera le altre in bellezza e splendore. Imperciocché i casti sono quelli che crescunt tanquam lilia in conspectu Domini (crescono come gigli davanti al Signore).
                Io allora volli andare in mezzo a quei miei carissimi, così vagamente incoronati, ma inciampai nel terreno e svegliatomi mi trovai in letto.
                Figliuoli miei, siete voi tutti innocenti? Forse ve ne saranno fra voi alcuni e a questi io rivolgo le mie parole. Per carità, non perdete un pregio di valore inestimabile! È una ricchezza che vale quanto vale il Paradiso quanto vale Iddio! Se aveste potuto vedere come erano belli questi giovanetti coi loro fiori. L’insieme di questo spettacolo era tale che io avrei dato qualunque cosa del mondo per godere ancora di quella vista, anzi, se fossi pittore, l’avrei per una grazia grande poter dipingere in qualche modo ciò che vidi. Se voi conosceste la bellezza di un innocente, vi assoggettereste a qualunque più penoso stento, perfino anco alla morte, per conservare il tesoro dell’innocenza.
                Il numero di coloro che erano ritornati in grazia, quantunque mi abbia recato grande consolazione, tuttavia io sperava che dovesse essere assai maggiore. E restai assai meravigliato nel vedere alcuno che or qui in apparenza sembra un buon giovane e là aveva le corna lunghe e grosse…

                 D. Bosco finì con una calda esortazione a coloro che hanno perduta l’innocenza, perché si adoperino volenterosamente a riacquistare la grazia per mezzo della penitenza.
                Due giorni dopo, il 18 giugno, D. Bosco risaliva alla sera sulla cattedra e dava alcune spiegazioni del sogno.

                Non farebbe più d’uopo nessuna spiegazione riguardo al sogno, ma ripeterò quello che già dissi. La gran pianura è il mondo, e anche i luoghi e lo stato donde furono chiamati qui tutti i nostri giovani. Quell’angolo dove erano gli agnelli è l’Oratorio. Gli agnelli sono tutti i giovani, che furono, sono presentemente, e saranno nell’Oratorio. I tre prati in questo angolo, l’arido, il verde, il fiorito, indicano lo stato di peccato, lo stato di grazia e lo stato d’innocenza. Le corna degli agnelli sono gli scandali che si sono dati nel passato. Ve ne erano poi di quelli che avevano le corna rotte e costoro furono scandalosi, ma ora cessarono dal dare scandalo. Tutte quelle cifre “3”, che si vedevano stampate su ciascuno agnello, sono, come seppi dal pastore, tre castighi che Dio manderà sui giovani: 1° Carestia d’aiuti spirituali. 2° Carestia morale, ossia mancanza d’istruzione religiosa e della parola di Dio. 3° Carestia materiale, ossia mancanza anche di vitto. I giovani risplendenti sono coloro che si trovano in grazia di Dio, e soprattutto quelli che conservano ancora l’innocenza battesimale e la bella virtù della purità. E quanta gloria li aspetta!
                Mettiamoci dunque, cari giovani, coraggiosamente a praticare la virtù. Chi non è in grazia di Dio, si metta di buona voglia e quindi con tutte le sue forze e coll’aiuto di Dio perseveri sino alla morte. Che se tutti non possiamo essere in compagnia degli innocenti a far corona all’immacolato Agnello, Gesù, almeno possiamo seguirlo dopo di loro.
                Uno mi domandò se era fra gli innocenti ed io gli dissi di no e che aveva le corna, ma rotte. Mi domandò ancora se aveva delle piaghe ed io gli dissi di sì.
                – E che cosa significano queste piaghe? egli soggiunse.
                Risposi:
                – Non temere. Sono rimarginate, spariranno; queste piaghe ora non sono più disonorevoli, come non sono disonorevoli le cicatrici di un combattente, il quale malgrado le tante ferite e l’incalzamento e gli sforzi del nemico, seppe vincere e riportare vittoria. Sono dunque cicatrici onorevoli!… Ma è più onorevole chi combattendo valorosamente in mezzo ai nemici non riporta nessuna ferita. La sua incolumità eccita la meraviglia di tutti.
Spiegando questo sogno, D. Bosco disse eziandio che non andrà più molto tempo che si faranno sentire questi tre mali: – Peste, fame e quindi mancanza di mezzi per farci del bene.
Soggiunse che non passeranno tre mesi che accadrà qualche cosa di particolare.
Questo sogno produsse nei giovani l’impressione e i frutti che avevano ottenuto tante altre volte simili esposizioni.
(MB VIII 839-845)




Nessuno spaventava le galline (1876)

Ambientato nel gennaio 1876, il brano presenta uno dei più suggestivi «sogni» di Don Bosco, strumento prediletto con cui il santo torinese scuoteva e guidava i giovani dell’Oratorio. La visione si apre su una pianura sterminata in cui fervono i lavori dei seminatori: il grano, simbolo della Parola di Dio, germoglierà solo se protetto. Ma galline voraci piombano sul seme e, mentre i contadini cantano versetti evangelici, i chierici addetti alla custodia restano muti o distratti, lasciando che tutto vada perduto. La scena, animata da dialoghi arguti e citazioni bibliche, diventa parabola della mormorazione che spegne il frutto della predicazione e monito alla vigilanza attiva. Con toni insieme paterni e severi, Don Bosco trasforma l’elemento fantastico in lezione morale incisiva.

            Nella seconda metà di gennaio il Servo di Dio ebbe un sogno simbolico, del quale fece parola con alcuni Salesiani. Don Barberis lo pregò di raccontarlo in pubblico, perché i suoi sogni piacevano molto ai giovani, facevano loro gran bene e li affezionavano all’Oratorio.
            – Sì, questo è vero, rispose il Beato, fanno del bene e sono ascoltati con avidità; il solo che ne riceva nocumento sono io, perché bisognerebbe che avessi polmoni di ferro. Si può ben dire, che nell’Oratorio non ci sia un solo, il quale non si senta scosso da tali narrazioni; poiché per lo più questi sogni toccano tutti, e ciascheduno vuol sapere in quale stato io l’abbia veduto, che cosa debba fare, quale significato abbia questo o quello; ed io sono tormentato giorno e notte. Se poi voglio svegliare il desiderio delle confessioni generali, non ho da far altro che raccontare un sogno… Senti, fa’ una cosa. Domenica andrò a parlare ai giovani, e tu interrogami in pubblico. Io allora conterò il sogno.
            Il 23 gennaio, dopo le orazioni della sera, egli montò in cattedra. Il suo volto raggiante di gioia manifestava, come sempre, la propria contentezza nel trovarsi tra i suoi figli. Fattosi un po’ di silenzio, Don Barberis chiese di parlare e interrogò:
            – Scusi, signor Don Bosco, mi permette che io le faccia una domanda?
            – Di’ pure.
            – Ho sentito a dire che in queste notti scorse ha fatto un sogno di semenza, di seminatore, di galline, e che l’ha già raccontato al chierico Calvi. Vorrebbe favorire di raccontarlo anche a noi? Questo ci farebbe assai piacere.
            – Curioso!! – fece Don Bosco in tono di rimprovero. E qui scoppiò una risata generale.
            – Non importa, sa, che mi dia del curioso; purché ci racconti il sogno. E con questa mia domanda credo d’interpretare la volontà di tutti i giovani, i quali certamente lo ascolteranno tanto volentieri.
            – Se è così ve lo racconto. Non voleva dir nulla, perché ci sono cose che riguardano diversi di voi in particolare, e alcune anche per te, che fanno bruciare un po’ le orecchie; ma poiché me ne richiedi, io racconterò.
            – Ma eh! signor Don Bosco, se c’è qualche bastonata per me, me la risparmi qui in pubblico.
            – Io racconterò le cose come le sognai; ciascuno prenda la parte sua. Ma prima di tutto bisogna che ciascuno tenga bene a mente, che i sogni si fanno dormendo, e dormendo non si ragiona; perciò se vi è qualche cosa di buono, qualche ammonimento da prendere, si prende. Del resto nessuno si metta in apprensione. Ho detto che io sognando di notte dormiva, perché taluni sognano anche di giorno e alcune volte perfino essendo svegliati e con non leggiero disturbo dei professori, per i quali riescono scolari fastidiosi.

            Mi pareva di essere lontano di qui e di trovarmi a Castelnuovo d’Asti, mia patria. Aveva avanti a me una grande estensione di terreno, situata in una vasta e bella pianura; ma quel terreno non era nostro e non sapeva di chi fosse.
            In quel campo vidi molti che lavoravano colle zappe, colle vanghe, coi rastrelli ed altri strumenti. Chi arava, chi seminava il grano, chi spianava la terra, chi faceva altro. Vi erano qua e là i capi preposti a dirigere i lavori e fra costoro mi sembrava di esser anch’io. Cori di contadini stavano in altra parte cantando. Io osservava stupito e non sapeva darmi ragione di quel luogo. Meco stesso andava dicendo: – Ma a che fine costoro lavorano tanto? – E rispondeva a me stesso: – Per provvedere le pagnotte ai miei giovani. – Ed era veramente una meraviglia il vedere come quei buoni agricoltori non desistessero un istante dal lavoro e incessantemente continuassero nel loro uffizio con uno slancio costante e colla stessa solerzia. Solo alcuni stavano ridendo e scherzando fra di loro.
            Mentre io contemplava così bel quadro, mi guardo attorno e vedo che mi circondavano alcuni preti e molti dei miei chierici, parte vicini, parte ad una certa distanza. Diceva tra me: – Ma io sogno; i miei chierici sono a Torino, qui invece siamo a Castelnuovo. E poi come ciò può essere? Io sono vestito da inverno da capo a piedi, solamente ieri io aveva tanto freddo, ed ora qui si semina il grano. – E mi toccava le mani e camminava e diceva: – Ma pure non sogno, questo è proprio un campo; questo chierico che è qui è il chierico A… in persona; quest’altro è il chierico B… E poi come potrei nel sogno vedere questa cosa e quest’altra?
            Intanto vidi lì presso, ma a parte, un vecchio che all’aspetto sembrava molto benevolo ed assennato, intento ad osservare me e gli altri. Mi accostai a lui e gli domandai:
            – Dite, bravo uomo, ascoltate! Che cosa è ciò che io vedo e non ne capisco nulla? Qui dove siamo? Chi sono questi lavoratori? Di chi è questo campo?
            – Oh! mi risponde quell’uomo; belle interrogazioni da farsi! Ella è prete e non sa queste cose?
            – Ma dunque ditemi! Credete voi che io sogni o che sia desto? Poiché a me par di sognare e non mi sembrano possibili le cose che vedo.
            – Possibilissime, anzi reali e a me pare che Lei sia desto affatto. Non se ne avvede? Parla, ride, scherza.
            – Eppure vi son taluni, io soggiunsi, cui sembra nel sogno di parlare, ascoltare, operare, come se fossero desti.
            – Ma no; lasci da parte tutto questo. Lei è qui in corpo ed anima.
            – Ebbene, sia pure; e se son desto, ditemi allora di chi sia questo campo.
            – Ella ha studiato il latino: qual è il primo nome della seconda declinazione che ha studiato nel Donato? Lo sa ancora?
            – Eh! sì che lo so; ma che cosa ha da far questo con ciò che vi domando?
            – Ha da far moltissimo. Dica adunque quale è il primo nome che si studia nella seconda declinazione.
            – È Dominus.
            – E come fa al genitivo?
            – Domini!
            – Bravo, bene, Domini; questo campo adunque è Domini, del Signore.
            – Ah! ora comincio a capire qualche cosa! – esclamai.
            Era meravigliato della conseguenza tratta da quel buon vecchio. Intanto vidi varie persone che venivano con sacchi di grano per seminare, e un gruppo di contadini cantava: Exit, qui seminat, seminare semen suum (Il seminatore uscì a seminare il suo seme, Lc 8,5).
            A me pareva un peccato gettar via quella semente e farla marcire sotterra. Era così bello quel grano! – Non sarebbe meglio, diceva fra me. macinarlo e fame del pane o delle paste? – Ma poi pensava: – Chi non semina, non raccoglie. Se non si getta via la semente e questa non marcisce, che cosa si raccoglierà poi?
            In quel mentre vedo da tutte le parti uscire una moltitudine di galline e andar pel seminato a beccarsi tutto il grano che altri spargeva per seme.
            E quel gruppo di cantori proseguiva nel suo canto: Venerunt aves caeli, sustulerunt frumentum et reliquerunt zizaniam (Gli uccelli del cielo vennero e raccolsero il grano e lasciarono la zizzania).
            Io do uno sguardo attorno e osservo quei chierici che erano con me. Uno colle mani conserte stava guardando con fredda indifferenza; un altro chiacchierava coi compagni; alcuni si stringevano nelle spalle, altri guardavano il cielo, altri ridevano di quello spettacolo, altri tranquillamente proseguivano la loro ricreazione e i loro giuochi, altri sbrigavano alcuna loro occupazione; ma nessuno spaventava le galline per farle andar via. Io mi rivolgo loro tutto risentito e, chiamando ciascuno per nome, diceva:
            – Ma che cosa fate? Non vedete quelle galline che si mangiano tutto il grano? Non vedete che distruggono tutto il buon seme, fanno svanire le speranze di questi buoni contadini? Che cosa raccoglieremo poi? Perché state così muti? perché non gridate, perché non le fate andar via?
            Ma i chierici si stringevano nelle spalle, mi guardavano e non dicevano niente. Alcuni non si volsero neppure: non badavano prima a quel campo, né ci badarono dopo che io ebbi gridato.
            – Stolti che siete! io continuava. Le galline hanno già tutte il gozzo pieno. Non potreste battere le mani e fare così? – E intanto io batteva le mani, trovandomi in un vero imbroglio, poiché a nulla valevano le mie parole. Allora alcuni si misero a fugar le galline, ma io ripeteva tra me: – Eh sì! Ora che tutto il grano fu mangiato, si scacciano le galline.
            In quel mentre mi colpì l’orecchio il canto di quel gruppo di contadini, i quali così cantavano: Canes muti nescientes latrare (I cani muti non sanno abbaiare, Is 56,10).
            Allora io mi rivolsi a quel buon vecchio e tra stupefatto e sdegnato gli dissi:
            – Orsù, datemi una spiegazione di quanto vedo; io ne capisco nulla. Che cosa è quel seme che si getta per terra?
            – Oh bella! Semen est verbum Dei (Il seme è la parola di Dio, Lc 8,11).
            – Ma che cosa vuol dir questo, mentre vedo che là le galline se lo mangiano?
            Il vecchio, cambiando tono di voce, proseguì:
            – Oh! se vuole una più compiuta spiegazione, io gliela do. Il campo è la vigna del Signore, di cui si parla nel Vangelo, e si può anche intendere del cuore dell’uomo. I coltivatori sono gli operai evangelici, che specialmente colla predicazione seminano la parola di Dio. Questa parola produrrebbe molto frutto in quel cuore, terreno ben preparato. Ma che? Vengono gli uccelli del cielo e la portano via.
            – Che cosa indicano questi uccelli?
            – Vuole che le dica che cosa indicano? Indicano le mormorazioni. Sentita quella predica che porterebbe effetto, si va coi compagni. Uno fa la chiosa ad un gesto, alla voce, ad una parola del predicatore, ed ecco portato via tutto il frutto della predica. Un altro accusa il predicatore stesso di qualche difetto o fisico o intellettuale; un terzo ride sul suo italiano, e tutto il frutto della predica è portato via. Lo stesso deve dirsi di una buona lettura, della quale il bene resta tutto impedito da una mormorazione. Le mormorazioni sono tanto più cattive, in quanto che esse generalmente sono segrete, nascoste, e colà vivono e crescono, ove punto noi non ce lo aspettiamo. Il grano sebbene sia in un campo non molto coltivato, tuttavia nasce, cresce, viene su abbastanza alto e produce frutto. Quando in un campo di fresco seminato viene un temporale, allora il campo resta pestato e non porta più tanto frutto, ma pure ne porta. Se anche la semenza non sarà tanto bella, pure crescerà: porterà poco frutto, ma pure ne porterà. Invece quando le galline o gli uccelli si beccano la semente, non c’è più verso: il campo non rende né punto né poco; non porta più frutto di sorta. Così se alle prediche, alle esortazioni, ai buoni propositi terrà dietro qualche altra cosa come distrazione, tentazione, ecc. farà meno frutto; ma quando c’è la mormorazione, il parlar male o simili, qui non c’è poco che tenga, ma c’è subito il tutto che vien portato via. E a chi tocca battere le mani, insistere, gridare, sorvegliare, perché queste mormorazioni, questi discorsi cattivi non si facciano? Lei lo sa!
            – Ma che cosa facevano mai questi chierici? io gli chiesi. Non potevano essi impedire tanto male?
            – Non impedirono nulla, egli proseguì. Taluni stavano ad osservare come statue mute, altri non ci badavano, non ci pensavano, non vedevano e se ne stavano colle braccia conserte, altri non avevano il coraggio d’impedire questo male; alcuni, pochi però, si univano anch’essi ai mormoratori, prendevano parte alle loro maldicenze, facevano il mestiere di distruggitori della parola di Dio. Tu che sei prete insisti su questo; predica, esorta, parla, non aver paura di dir mai troppo; e tutti sappiano che il fare le chiose a chi predica, a chi esorta, a chi dà buoni consigli è ciò che reca più del male. E lo star muti quando si vede qualche disordine e non impedirlo, specialmente chi potrebbe o dovrebbe, questo è al tutto rendersi complice del male degli altri.
            Io tutto compreso da queste parole, voleva ancora guardare, osservare questa e quella cosa, rimproverare i chierici, infiammarli a compiere il proprio dovere. Ed essi già si movevano e cercavano di mettere in fuga le galline. Ma io, avendo fatti alcuni passi, inciampai in un rastrello, destinato a spianar la terra, lasciato in quel campo, e mi svegliai. Ora lasciamo da parte ogni cosa e veniamo alla morale. D. Barberis! Che cosa ne dici di questo sogno?
            – Dico, rispose D. Barberis, che è una buona bastonata, e bazza a chi tocca.
            – Eh certo, riprese D. Bosco, è una lezione la quale bisogna che ci faccia del bene; e tenetelo a mente, o miei cari giovani, di evitare fra voi in ogni modo la mormorazione, come un male straordinario, fuggendola come si fugge dalla peste, e non solo evitarla voi, ma a tutto potere cercare di farla evitare agli altri. Alcune volte santi consigli, opere ottime non fanno il bene, che reca l’impedire una mormorazione e qualunque parola che possa nuocere ad altri. Armiamoci di coraggio e combattiamola francamente. Non v’è peggior disgrazia di quella di far perdere la parola di Dio. E basta un motto, basta uno scherzo.

            Vi ho contato un sogno avvenutomi già sono varie notti, ma in questa notte scorsa ne ho avuto un altro, che eziandio desidero narrarvi. L’ora non è ancora troppo tarda; sono appena le nove e posso esporvelo. Procurerò tuttavia di non andare per le lunghe.
            Mi parve adunque di trovarmi in un luogo che ora non ricordo più quale fosse: non era io più a Castelnuovo, ma mi pare che neppure fossi all’Oratorio. Venne qualcuno con tutta premura a chiamarmi:
            – D. Bosco, venga! D. Bosco, venga!
            – Ma e che cosa c’è di tanta premura? io risposi.
            – È in corrente delle cose avvenute?
            – Io non intendo quello che tu vuoi dire; spiegati chiaramente, risposi ansioso.
            – Non sa, D. Bosco, che il tal giovane così buono, così pieno di brio, è gravemente infermo, anzi moribondo?
            – Io dubito che tu voglia prenderti gioco di me, gli dissi: perché appunto stamane parlai e passeggiai con lo stesso giovane, che ora mi annunzi moribondo.
            – Ah, D. Bosco, io non cerco d’ingannarla e mi credo in debito di narrarle la pura verità. Quel giovane ha sommamente bisogno di lei e desidera di vederla e di parlarle per l’ultima volta. Ma venga presto, perché altrimenti non è più in tempo.
            Io senza sapere il dove, andai in tutta fretta dietro a quel tale. Arrivo in un luogo e vedo gente mesta e piangente che mi dice: Faccia pure presto, che è agli estremi.
            – Ma che cosa è accaduto? – rispondo. Vengo introdotto in una camera, dove vedo un giovane coricato, tutto smorto nel viso, d’un colore quasi cadaverico, con una tosse e un rantolo che lo soffocava e appena a stento gli permetteva di parlare:
            – Ma non sei tu il tale dei tali? io gli dissi.
            – Sì, sono il tale!
            – Come stai?
            – Sto male
            – E come va che ora ti vedo in questo stato? Solamente ieri e stamattina non passeggiavi tranquillo sotto i portici?
            – Sì, rispose il giovane, ieri e stamattina passeggiavo sotto i portici; ma ora faccia presto, che io ho bisogno di confessarmi; vedo che mi resta più poco tempo.
            – Non affannarti, non affannarti; tu ti sei confessato da pochi giorni.
            – È vero e mi pare di non avere nessuna grossa pena sul mio cuore; ma tuttavia desidero ricevere la santa assoluzione prima di presentarmi al Divin Giudice.
            Io ascoltai la sua confessione. Ma intanto osservai che visibilmente peggiorava e un catarro era per soffocarlo. – Ma qui bisogna fare in fretta, dico fra me, se voglio che riceva ancora il santo viatico e l’olio santo. Anzi il viatico non potrà più riceverlo, sia perché ci vuole più tempo per i preparativi, sia perché la tosse potrebbe impedirgli d’inghiottire. Presto l’olio santo!
            Così dicendo, esco dalla camera e mando subito un uomo a prendere la borsa degli olii santi. I giovani che erano in sala mi domandavano:
            – Ma è veramente in pericolo? è proprio moribondo, come si va dicendo?
            – Purtroppo! io rispondeva. Non vedete che il respiro gli si fa ognor più grave e il catarro lo soffoca?
            – Ma sarà meglio portargli anche il viatico e così fortificato mandarlo nelle braccia di Maria!
            Ma mentre io mi affaccendava nel preparar l’occorrente, sento una voce: – è spirato!
            Rientro in camera e trovo l’infermo cogli occhi sbarrati; più non respira; è morto.
            – È morto? io domando a quei due che lo assistevano morto, mi rispondono: è morto!
            – Ma come va, tanto in fretta? Ditemi: non è desso il tale?
            – Sì, è il tale.
            – Non posso credere agli occhi miei! Solo ieri passeggiava con me sotto i portici.
            – Ieri passeggiava ed ora è morto, mi replicarono.
            – Per fortuna che era un giovane buono! esclamai. E diceva ai giovani che aveva attorno:
            – Vedete, vedete? Costui non ha nemmanco più potuto ricevere il viatico e l’estrema unzione. Ringraziamo però il Signore, che gli diede tempo di confessarsi. Questo giovane era buono, frequentava abbastanza i Sacramenti e speriamo che sia andato ad una vita felice, o almeno in purgatorio. Ma se fosse un po’ capitata ad altri la stessa sorte, che cosa ne sarebbe ora di certuni?
            Ciò detto, ci mettemmo tutti in ginocchio e recitammo un De profundis per l’anima del povero defunto.
            Intanto io andava in camera, quando mi vedo giungere Ferraris dalla libreria (coadiutore Giovanni Antonio Ferraris, libraio), il quale tutto affannato mi dice:
            – Sa, D. Bosco, che cosa è avvenuto?
            – Eh! purtroppo lo so! È morto il tale! rispondo.
            – Non è questo che voglio dire; vi sono due altri morti.
            – Come? chi?
            – Il tale ed il tale altro.
            – Ma quando? Non capisco.
            – Sì, due altri, i quali morirono prima che ella giungesse.
            – E perché allora non mi avete chiamato?
            – Mancò il tempo. Ma ella sa dirmi quando è morto questo qui?
            – È morto adesso! io risposi.
            – Sa ella in che giorno siamo e di qual mese? proseguì Ferraris.
            – Sì che lo so; siamo ai 22 di gennaio, secondo giorno della novena di S. Francesco di Sales.
            – No, disse Ferraris. Ella si sbaglia, signor Don Bosco; guardi bene. – Io alzo gli occhi al calendario e vedo: 26 di Maggio.
            – Ma questa è maiuscola! esclamai. Siamo di gennaio, e ben me ne accorgo dal come sono vestito, non si va vestiti così di maggio; di maggio non vi sarebbe il calorifero acceso.
            – Io non so che dirle, o che ragione darle, ma ora siamo ai 26 di maggio.
            – Ma se ieri solamente è morto quel nostro compagno ed eravamo in gennaio.
            – Si sbaglia, insisté Ferraris; eravamo in tempo pasquale.
            – Un’altra ne aggiungi ancor più grossa!
            – Tempo pasquale, sicuro: eravamo in tempo pasquale, e fu ben più fortunato di morire nella Pasqua, che gli altri due, i quali morirono nel mese di Maria.
            – Tu mi burli, io gli dissi. Spiegati meglio, altrimenti io non t’intendo.
            – Io non burlo niente affatto. La cosa è così. Se poi vuole saperne di più, e che io mi spieghi meglio, ecco! Stia attento!
            Aperse le braccia, poi batté le due mani una contro l’altra forte forte: ciac! Ed io mi sono svegliato. Allora esclamai: – Oh per fortuna! Non è una realtà, ma è un sogno. Quanto timore ho avuto!
            Ecco il sogno che ho fatto la notte scorsa. Voi dategli quell’importanza che volete. Io stesso non voglio dargli interamente fede. Oggi però ho voluto vedere se coloro che mi parvero morti in sogno, fossero ancora vivi e li vidi sani e vigorosi. Certamente che non conviene ch’io dica, e non dirò, chi siano costoro. Tuttavia terrò d’occhio quei due: se sarà necessario qualche consiglio per vivere bene, lo darò loro, e li preparerò, facendo le volte larghe senza che se ne accorgano; perché così, se accadesse loro di dover morire, la morte non li trovi impreparati. Ma nessuno vada dicendo: Sarà questi, sarà quegli. Ciascuno pensi a sé.
            E non datevi nessuna apprensione di questo. L’effetto che deve fare in voi è semplicemente quello che ci suggerì il Divin Salvatore nel Vangelo: Estote parati, quia, qua hora non putatis, filius hominis veniet (Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo, Lc 12,40). È questo un grande avvertimento, miei cari giovani, che ci dà il Signore. Stiamo apparecchiati sempre, perché nell’ora in cui meno ce lo aspettiamo, può venire la morte e colui che non è preparato a morir bene, corre grave rischio di morir male. Io mi terrò preparato il meglio che posso e voi fate lo stesso, affinché in qualunque ora piaccia al Signore di chiamarci, possiamo essere pronti a passare nella felice eternità. Buona notte.

            Le parole di Don Bosco si ascoltavano sempre con religioso silenzio; ma quando egli raccontava di queste cose straordinarie, fra le centinaia di ragazzi che gremivano il luogo, non si sentiva un colpo di tosse né il più lieve fruscio di piedi. L’impressione viva durava settimane e mesi e con l’impressione avvenivano mutazioni radicali nella condotta di certi discoli. Si faceva poi ressa intorno al confessionale di Don Bosco. Di supporre che egli inventasse quei racconti per spaventare e migliorare la vita dei giovani, non veniva in capo a nessuno, perché gli annunzi di morti prossime si avveravano sempre e certi stati di coscienza veduti nei sogni rispondevano a realtà.
            Ma il timore prodotto da sì lugubri predizioni non era un incubo opprimente? Non pare. Troppe si presentavano le possibilità e le supposizioni in una moltitudine di più che ottocento giovani, perché i singoli ne potessero essere preoccupati. Inoltre la persuasione realmente diffusa, che chi moriva nell’Oratorio, andava di certo in paradiso, e che Don Bosco preparava i designati senza spaventarli, contribuiva a scacciare dagli animi ogni timore. D’altra parte si sa bene quanto sia grande la volubilità giovanile: sul momento la fantasia dei giovani rimane colpita e scossa; ma poi quel ricordo si libera ben presto da qualsiasi paurosa apprensione. Tanto ci attestavano unanimi i superstiti di quei tempi.
            Andati che furono i giovani a dormire, alcuni confratelli che attorniavano il Beato, lo tempestavano di domande, per sapere se alcuno di loro fosse fra quei che dovevano morire. Il Servo di Dio, sorridendo secondo il suo solito e scuotendo il capo, ripeteva:
            – Già, già! Verrò a dirvi chi è, con pericolo di far morire qualcuno prima del tempo!
            Visto che lì non si spillava nulla, lo interrogarono se nel primo sogno vi fossero anche dei chierici a far la parte delle galline, che, si abbandonassero cioè alla mormorazione. Don Bosco, che passeggiava, si fermò, girò gli occhi su gl’interlocutori e fece un risolino come per dire: – Eh! qualcuno sì; tuttavia pochi, e non aggiungo altro. – Allora gli chiesero che dicesse almeno se essi erano fra i cani muti; il Beato si tenne sulle generali, osservando che bisognava stare attenti a evitare e a far evitare le mormorazioni e in genere tutti i disordini, massime i cattivi discorsi. – Guai al prete e al chierico, disse, il quale, incaricato della vigilanza, vede i disordini e non li impedisce! Desidero si sappia e si ritenga che con la parola “mormorazioni” io non intendo solamente il tagliarci i panni addosso, ma ogni discorso, ogni motto, ogni parola, che possa in un compagno sminuire il frutto della parola di Dio udita. In generale poi intendo di dire che è un gran male starsene quieti, allorché si conosce qualche disordine, non impedendolo o non cercando che lo impedisca chi di ragione.
            Uno più arditelo mosse al Servo di Dio un’interrogazione alquanto azzardata.
            – E Don Barberis per che cosa entra nel sogno? Lei ha detto che ce n’era anche per lui, e Don Barberis stesso sembrava che si aspettasse una buona bastonata per sé. – Don Barberis era presente. Sulle prime Don Bosco accennava a non voler rispondere. Ma poi, essendo rimasti ai suoi fianchi solo alcuni preti e mostrandosi Don Barberis contento che egli palesasse il segreto, il Beato disse:
            – Eh! Don Barberis non predica abbastanza su questo punto; su quest’argomento non insiste quanto bisogna. Don Barberis confermò che né l’anno innanzi né durante l’anno in corso si era mai fermato di proposito: su quelle materie nelle sue conferenze agli ascritti; ebbe perciò molto piacere dell’osservazione e se la legò all’orecchio per l’avvenire.
            Ciò detto, salirono le scale e tutti, baciata la mano a Don Bosco, si allontanarono e andarono a riposo. Tutti, meno Don Barberis, che secondo il consueto lo accompagnò fino all’uscio della sua stanza. Don Bosco, vedendo che era ancora presto e accorgendosi che non avrebbe potuto prender sonno, perché fortemente impressionato dalle cose esposte, contro la sua costante abitudine fece entrare Don Barberis nella camera, dicendo:
            – Giacché abbiamo ancora tempo, possiamo fare due passi su e giù per la stanza.
            Così continuò a discorrere per una mezz’ora. Disse fra l’altro:
            – Io nel sogno ho veduto tutti ed ho veduto lo stato nel quale ognuno si trovava: se gallina, se cane muto, se nel numero di coloro che avvisati si misero all’opera o non si mossero. Di queste cognizioni io mi servo confessando, esortando in pubblico ed in privato, finché vedo che producono del bene. Da principio non faceva gran caso di questi sogni; ma mi accorsi che per lo più valgono a produrre l’effetto di più prediche, anzi per alcuni sono più efficaci che un corso di esercizi spirituali; perciò me ne servo. E perché no? Si legge nella Sacra Scrittura: Probate spiritus (mettete alla prova gli spiriti, 1Gv 4,1); quod bonum est tenete (tenete ciò che è buono, 1Tes 5,21). Vedo che giovano, vedo che piacciono, e perché tenerli segreti? Anzi osservo che contribuiscono ad affezionare molti alla Congregazione.
            – Ho provato io stesso, interruppe Don Barberis, di quanta utilità fossero questi sogni e quanto salutari. Anche narrati altrove, fanno del bene. Dove Don Bosco è conosciuto, si può dire che sono sogni fatti da lui; dove non è conosciuto, si possono presentare come similitudini. Oh, se sì potesse fame una raccolta, esponendoli in forma di similitudini! Sarebbero ricercati e letti da piccoli e da grandi, da giovani e da vecchi, con vantaggio delle anime loro.
            – Già, già! Farebbero del bene, ne sono intimamente convinto.
            – Ma forse, lamentò Don Barberis, nessuno li ha raccolti per iscritto.
            – Io, riprese Don Bosco, non ho tempo, e di molti non mi ricordo più.
            – Quelli dei quali io mi ricordo, replicò Don Barberis, sono i sogni che si riferivano ai progressi della Congregazione, all’estendersi del manto della Madonna…
            – Ah, sì! – esclamò il Beato. E accennò a parecchie visioni di questo genere. Presa quindi un’aria più grave e quasi conturbato proseguì:
            – Quando penso alla mia responsabilità nella posizione in cui io mi trovo, tremo tutto… Che conto tremendo avrò da rendere a Dio di tutte le grazie che ci fa per il buon andamento della nostra Congregazione!
(MB XII, 40-51)

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Gli agnellini e la tempesta estiva (1878)

Il racconto onirico che segue, narrato da Don Bosco la sera del 24 ottobre 1878, è molto più di un semplice divertimento serale per i giovani dell’Oratorio. Attraverso la delicata immagine degli agnellini sorpresi da una violenta tempesta estiva, il santo educatore disegna un’allegoria vivace delle vacanze scolastiche: tempo apparentemente spensierato, ma carico di pericoli spirituali. Il prato invitante rappresenta il mondo esterno, la grandine simboleggia le tentazioni, mentre il giardino protetto allude alla sicurezza offerta dalla vita di grazia, dai sacramenti e dalla comunità educativa. In questo sogno, che si fa catechesi, Don Bosco ricorda ai suoi ragazzi — e a noi — l’urgenza di vigilare, ricorrere all’aiuto divino e sostenersi vicendevolmente per tornare integri alla vita quotidiana.

                Della partenza per le vacanze e del ritorno, nessuna notizia quest’anno, se non fosse un sogno intorno agli effetti che le vacanze sogliono produrre. Don Bosco lo raccontò la sera del 24 ottobre. Appena, esordendo, ne diede l’annunzio, si videro manifestazioni universali di contentezza.

                Io sono contento di rivedere il mio esercito di armati contra diabolum (contro il diavolo). Questa espressione, quantunque latina, è capita anche da Cottino. Tante cose avrei a dirvi, essendo la prima volta che vi parlo dopo le vacanze; ma per ora vi voglio raccontare un sogno. Voi sapete che i sogni si fanno dormendo e che non bisogna prestarvi fede; ma se non c’è nessun male a non credere, talvolta non vi è male neppure a credere e possono anzi servirci di istruzione, come, per esempio, questo.
                Io era a Lanzo alla prima muta d’esercizi e dormiva, quando, come dissi, feci un sogno. Io mi trovava in un luogo ove non potei conoscere quale regione fosse, ma era vicino ad un paese nel quale si estendeva un giardino, e vicino a questo giardino un vastissimo prato. Era in compagnia di alcuni amici che mi invitarono ad entrare nel giardino. Entro e vedo una gran quantità di agnellini che saltavano, correvano, facevano capriole secondo il loro costume. Quando ecco si apre una porta che mette nel prato e quegli agnellini corrono fuori per andare a pascolare.
                Molti però non si curano di uscire, ma si fermano nel giardino; e andavano qua e là brucando qualche filo d’erba e così si pascevano, quantunque non vi fosse erba in quell’abbondanza come fuori nel prato, ov’era accorso il più gran numero. – Voglio vedere che cosa fanno questi agnellini di fuori, – io dissi. Andammo nel prato e li vedemmo pascolare tranquillamente. Ed ecco quasi subito s’oscura il cielo, seguono lampi e tuoni e si approssima un temporale.
                – Che cosa sarà di questi agnellini, se prendono la tempesta? andava io dicendo. Ritiriamoli in salvo. – E li andava chiamando. Poi io da una parte e quei miei compagni sparsi in diversi punti, cercavamo di spingerli verso l’uscio del giardino. Sennonché essi non volevano saperne di entrare; caccia di qua, scappa di là, eh sì! gli agnellini avevano le gambe migliori delle nostre. Frattanto incominciarono a cadere spesse gocciole, poi veniva la pioggia ed io non riusciva a poter raccogliere quel gregge. Una o due pecorelle entrarono bensì nel giardino, ma tutte le altre, ed erano in gran quantità, continuarono a star nel prato. – Ebbene, io dissi, se non vogliono venire, peggio per loro! Intanto noi ritiriamoci – E andammo nel giardino.
                Colà vi era una fontana su cui stava scritto a caratteri cubitali: Fons signatus, fontana sigillata. Essa era coperta, ed ecco che si apre; l’acqua sale in alto e si divide e forma un arcobaleno, ma a guisa di volta come questo porticato.
                Frattanto si vedevano più frequenti i lampi, seguivano più rumorosi i tuoni e si mise a cader la grandine. Noi con tutti gli agnellini che erano nel giardino, ci ricoverammo e ci stringemmo là sotto quella volta meravigliosa e non vi penetrava l’acqua e la grandine.
                – Ma che cosa è questo? io andava chiedendo agli amici. Che cosa sarà mai dei poveretti che stanno fuori?
                – Vedrai! mi rispondevano. Osserva sulla fronte di questi agnelli; che cosa vi trovi? – Osservai e vidi che sulla fronte di ciascheduno di quegli animali stava scritto il nome di un giovane dell’Oratorio.
                – Che cosa è questo? – chiesi.
                – Vedrai, vedrai!
                Intanto io non poteva più trattenermi e volli uscire per vedere che cosa facessero quei poveri agnelli che erano rimasti fuori. – Raccoglierò quelli che furono uccisi e li spedirò all’Oratorio, – pensava io. Uscito di sotto a quell’arco, anch’io prendeva la pioggia; ed ho vedute quelle povere bestiole, stramazzate a terra, che muovendo le zampe cercavano di alzarsi e venire verso il giardino: ma non potevano camminare. Apersi l’uscio, alzai la voce; ma i loro sforzi erano inutili. La pioggia e la grandine le aveva così malconce e continuava a maltrattarle, che facevano pietà: una veniva percossa sulla testa, un’altra sulla mascella, questa in un occhio, quella in una zampa, altre in altre parti del corpo.
                Dopo alcun tempo era cessata la tempesta.
                – Osserva, mi disse quegli che mi stava a fianco; osserva sulla fronte di questi agnelli.
                Osservai e lessi in ciascuna fronte il nome di un giovane dell’Oratorio. – Mah! diss’io; conosco il giovane che ha questo nome e non mi pare un agnellino.
                – Vedrai, vedrai, mi fu risposto. – Quindi mi venne presentato un vaso d’oro con un coperchio d’argento, dicendomi:
                – Tocca con la tua mano intinta di questo unguento, le ferite di queste bestiole e subito subito guariranno.
                Io mi metto a chiamarle:
                – Brrr, brrr! – Ed esse non si muovono. Ripeto la chiamata; niente: cerco di avvicinarmi a una ed essa si strascina via. – Non vuole? Peggio per lei! esclamo. Vado ad un’altra. E vado, ma anche questa mi scappa. A quante io mi avvicinava per ungerle e guarirle, altrettante mi fuggivano. Io le seguiva, ma ripeteva inutilmente questo giuoco. Alfine ne raggiunsi una che, poverina, aveva gli occhi fuori delle orbite, e così malconci che metteva compassione. Io glieli toccai colla mano ed essa guarì e saltellando se ne andò nel giardino.
                Allora molte altre pecorelle, visto ciò, non ebbero più ripugnanza e si lasciarono toccare e guarire ed entrarono nel giardino. Ma ne restavano fuori molte e generalmente le più piagate, né mi fu possibile avvicinarle.
                – Se non vogliono guarire, peggio per loro! Ma non so come potrò farle rientrare in giardino.
                – Lascia fare, mi disse uno degli amici che erano con me; verranno, verranno.
                – Vedremo! – io dissi; e riposi l’aureo vaso là dove prima era e ritornai al giardino. Questo erasi tutto mutato e vi lessi sull’ingresso: Oratorio. Appena entrato, ecco che quegli agnelli che non volevano venire, si avvicinano, entrano di soppiatto e corrono a rimpiattarsi qua e là; e neppur allora potei avvicinarmi ad alcuno. Vi furono anche parecchi che non ricevendo volentieri l’unguento, questo si convertì per loro in veleno e invece di guarirli inaspriva le loro piaghe.
                – Guarda! Vedi quello stendardo? – mi disse un amico.
                Mi volsi e vidi sventolare un grande stendardo e vi si leggeva sopra a grossi caratteri questa parola: Vacanze.
                – Sì, lo vedo, risposi.
                – Ecco, questo è l’effetto delle vacanze, mi spiegò uno che mi accompagnava, essendo io fuori di me pel dolore di quello spettacolo. I tuoi giovani escono dall’Oratorio per andare in vacanza, con buona volontà di pascolarsi della parola di Dio e di conservarsi buoni: ma poi sopravviene il temporale, che sono le tentazioni; poi la pioggia, che sono gli assalti del demonio; quindi cade la grandine ed è quando i miseri cadono nella colpa. Alcuni risanano ancora con la confessione, ma altri non usano bene di questo sacramento, o non ne usano punto. Abbilo a mente e non stancarti mai di ripeterlo ai tuoi giovani, che le vacanze sono una gran tempesta per le loro anime.
                Osservava io quegli agnelli e scorgeva in alcuni ferite mortali; andava cercando modo di guarirli, quando D. Scappini, che aveva fatto rumore alzandosi nella camera vicina, mi svegliò.
                Questo è il sogno e quantunque sogno ha tuttavia un significato che non farà male a chi vi presterà fede. Posso anche dire che io notai alcuni nomi fra i molti degli agnelli del sogno, e confrontandoli coi giovani, vidi che questi si regolavano appunto come accadde nel sogno. Comunque sia la cosa, noi dobbiamo in questa novena dei Santi corrispondere alla bontà di Dio che ci vuole usar misericordia e con una buona confessione purgare le ferite della nostra coscienza. Dobbiamo poi metterci tutti d’accordo per combattere il demonio e coll’aiuto di Dio usciremo vincitori da questa pugna e andremo a ricevere il premio della vittoria in Paradiso.

                Questo sogno dovette influire non poco sul buon avviamento del nuovo anno scolastico; infatti nella novena dell’Immacolata le cose procedevano già così bene, che Don Bosco manifestò la propria soddisfazione dicendo:
                – I giovani sono ora al punto, dove negli anni scorsi arrivavano appena in febbraio. – Nella festa dell’Immacolata essi videro rinnovarsi la bella funzione di congedo alla quarta spedizione di Missionari.
(MB XIII 761-764)




Doni dei giovani a Maria (1865)

Nel sogno narrato da Don Bosco nella Cronaca dell’Oratorio, datato 30 maggio, la devozione mariana diventa un vivido giudizio simbolico sui giovani dell’Oratorio: un corteo di ragazzi si presenta, ciascuno con un dono, davanti a un altare splendidamente ornato per la Vergine. Un angelo, custode della comunità, accoglie o respinge le offerte, svelandone il significato morale – fiori profumati o appassiti, spine di disobbedienza, animali che incarnano vizi gravi come impurità, furto e scandalo. Nel cuore della visione risuona il messaggio educativo di Don Bosco: umiltà, obbedienza e castità sono i tre pilastri per meritare la corona di rose di Maria.

Il Servo di Dio si consolava colla divozione a Maria SS., onorata nel mese di Maggio da tutta la comunità in modo speciale. Dei suoi discorsetti serali, la Cronaca ci ha conservato solamente quello del giorno 30 del mese, il quale però è sommamente prezioso.

30 maggio

            Vidi un grande altare dedicato a Maria ed ornato magnificamente. Vidi tutti i giovani dell’Oratorio i quali in processione si avanzavano verso di esso. Cantavano le lodi della Vergine Celeste, ma non tutti allo stesso modo benché cantassero la stessa canzone. Molti cantavano veramente bene e con precisione di battuta e di questi quale più forte e quale più piano. Altri cantavano con voci pessime e roche, altri stonavano, altri venivano innanzi silenziosi e si staccavano dalla fila, altri sbadigliavano e parevano annoiati; altri si urtavano e se la ridevano fra di loro. Tutti poi portavano dei doni da offrire a Maria. Tutti avevano un mazzo di fiori, quale più grosso e quale più piccolo e diversi gli uni dagli altri. Chi aveva un mazzo di rose, chi di garofani, chi di violette, ecc. Altri poi portavano alla Vergine dei doni proprio strani. Chi portava una testa di porcello, chi un gatto, chi un piatto di rospi, chi un coniglio, chi un agnello od altre offerte.
            Un bel giovane stava davanti all’altare, il quale a considerarlo attentamente si vedeva che dietro le spalle aveva le ali. Era forse l’Angelo Custode dell’Oratorio, il quale di mano in mano che i giovani offrivano i loro doni, li riceveva e li poneva sull’altare.
            I primi offrirono magnifici mazzi di fiori e l’angelo senza dir nulla li posò sull’altare. Molti altri porsero i loro mazzi. Esso li guardò; sciolse il mazzo, ne fece togliere alcuni fiori guasti che cacciò via, e ricomposto il mazzo, lo posò sull’altare. Ad altri che avevano nel loro mazzo fiori belli ma senza odore, come sarebbero le dalie, le camelie, ecc. l’Angelo fece togliere via anche questi, perché Maria vuol la realtà e non l’apparenza. E così rifatto il mazzo, l’Angelo l’offerse alla Vergine. Molti tra i fiori avevano delle spine, poche o molte, ed altri dei chiodi, e l’Angelo tolse questi e quelle.
            Venne finalmente colui che portava il porcello e l’Angelo gli disse: – Hai tu coraggio di venir ad offrire questo dono a Maria? Sai che cosa significa il porco? Significa il brutto vizio dell’impurità, Maria che è tutta pura non può sopportare questo peccato. Ritirati adunque, che non sei degno di stare davanti a lei.
            Vennero gli altri che avevano un gatto e l’Angelo disse loro:
            – Anche voi osate portare a Maria questi doni? Sapete che cosa significa il gatto? Esso è figura del furto e voi l’offrite alla Vergine? Sono ladri coloro che prendono danari, roba, libri ai compagni, coloro che rubano commestibili all’Oratorio, che stracciano le vesti per dispetto, che sciupano i denari dei parenti non studiando. – E li fece ritirare anch’essi in disparte.
            Vennero coloro che avevano i piatti di rospi e l’Angelo guardandoli sdegnato:
            – I rospi simboleggiano i vergognosi peccati di scandalo e voi venite ad offrirli alla Vergine? Andate indietro; ritiratevi cogli altri indegni. – E si ritirarono confusi.
            Alcuni s’avanzavano con un coltello piantato nel cuore. Quel coltello significava i sacrilegi. E l’Angelo disse loro:
            – Non vedete che avete la morte nell’anima? che se siete in vita è una speciale misericordia di Dio? altrimenti sareste perduti. Per carità fatevelo cavare quel coltello! – Ed anche costoro furono respinti.
            A poco a poco tutti gli altri giovani si avvicinarono. Chi offrì agnelli, chi conigli, chi pesci, chi noci, chi uva, ecc., ecc. L’Angelo accettò tutto e mise tutto sull’altare. E dopo aver così divisi i giovani, i buoni dai cattivi, fece schierare tutti coloro i cui doni erano stati accetti a Maria, davanti all’altare; e coloro che erano stati messi da parte furono con mio dolore molto più numerosi di quello che credeva.
            Allora da una parte e dall’altra dell’altare comparvero due altri angioli, i quali sorreggevano due ricchissime ceste piene di magnifiche corone, composte di rose stupende. Queste rose non erano propriamente rose terrene, sebbene come artificiali, simbolo dell’immortalità.
            E l’Angelo Custode prese quelle corone una per una e ne incorono tutti i giovani che erano schierati innanzi all’altare. Fra queste corone ve ne erano delle più grandi e delle più piccole, ma tutte di una bellezza ammirabile. Notate anche che non v’erano i soli attuali giovani della casa, ma sebbene molti altri che io non aveva mai visti. Or bene accadde una cosa mirabile! Vi erano dei giovani così brutti di fisonomia che quasi mettevano schifo e ribrezzo; a costoro toccarono le più belle corone, segno che ad un esteriore così brutto suppliva il dono, la virtù della castità, in grado eminente. Molti altri avevano, pure la stessa virtù, ma in grado meno eminente. Molti si distinguevano per altre virtù, come l’obbedienza, l’umiltà, l’amor di Dio, e tutti in proporzione dell’eminenza di queste virtù avevano proporzionate corone. E l’Angelo disse loro:
            – Maria oggi ha voluto che voi foste incoronati di così belle rose. Ricordatevi però di continuare in modo che non vi vengano tolte. Tre sono i mezzi per conservarle. Praticate: 1° L’umiltà; 2° l’ubbidienza; 3° la castità: tre virtù le quali vi renderanno sempre accetti a Maria e un giorno vi faranno degni di ricevere una corona infinitamente più bella di questa.
            Allora i giovani incominciarono a intonare davanti all’altare l’Ave, Maris stella (Ave stella del mare).
            E, cantata la prima strofa, in processione come erano venuti, si mossero per partire, mettendosi a cantare la canzone: Lodate, Maria! con voci così forti che io ne restai sbalordito e meravigliato. Li seguii ancora per qualche tratto e poi tornai indietro per vedere i giovani che l’Angelo aveva messi da parte: ma più non li vidi.
            Miei cari! Io so quali furono quelli incoronati e quali quelli scacciati dall’Angelo. Lo dirò ai singoli, acciocché procurino di portare alla Vergine doni che essa si degni di accettare.
            Intanto alcune osservazioni. -La prima: Tutti portavano fiori alla Vergine, e dei fiori ve ne erano di tutte le qualità, ma osservai che tutti chi più, chi meno, in mezzo ai fiori avevano delle spine. Pensai e ripensai che cosa significassero quelle spine e trovai che realmente significavano la disobbedienza. Tener danari senza licenza e senza volerli consegnare al Prefetto; domandar permesso di andare in un sito e poi andare in un altro; andare a scuola più tardi e quando è già qualche tempo che gli altri vi si trovano; fare insalate e altre merende clandestine; andare nelle camerate altrui quando assolutamente è proibito, qualunque motivo o pretesto possiate avere; alzarsi tardi alla levata; lasciare le pratiche di pietà prescritte; ciarlare quando è tempo di far silenzio; comprar libri senza farli vedere; mandar lettere senza licenza, per mezzo di terza persona, acciocché non siano viste e riceverne collo stesso mezzo; far contratti, compre e vendite, l’un l’altro; ecco che cosa significano le spine. Molti di voi domanderanno: è dunque peccato trasgredire le regole della casa? Pensai già seriamente a questa questione e vi rispondo assolutamente di sì. Non vi dico sia grave o leggero: bisogna regolarsi dalle circostanze, ma peccato lo è. Qualcheduno mi dirà; ma nella legge di Dio non vi è che noi dobbiamo obbedire alle regole della casa! Ascoltate: vi è nei comandamenti: – Onora il padre e la madre! – Sapete che cosa vogliono dire quelle parole padre e madre? Comprendono anche chi ne fa le veci. Non sta anche scritto nella S. Scrittura: Oboedite praepositis vestris? (obbedite ai vostri superiori, Eb 13,17) Se voi dovete obbedire, è naturale che essi abbiano a comandare. Ecco l’origine delle regole d’un Oratorio, ed ecco se siano obbligatorie sì o no.
            Seconda osservazione. – Alcuni avevano in mezzo ai loro fiori dei chiodi, chiodi che avevano servito ad inchiodare il buon Gesù. E come? Si incomincia sempre dalle cose piccole e poi si viene alle grandi. Quel tale voleva aver danari per secondare i suoi ghiribizzi; quindi, per spenderli a modo suo, non volle consegnarli; poi incominciò a vendere i suoi libri di scuola e finì col rubacchiare danari e roba ai compagni. Quell’altro voleva solleticare la gola, quindi bottiglie, ecc. poi si permise licenze, insomma cadde in peccato mortale. Ecco come si trovarono in quei mazzi i chiodi, ecco come il buon Gesù venne crocifisso. Lo dice l’Apostolo che i peccati tornano a porre in croce il Salvatore: Rursus crucifigentes filium Dei (crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio, Eb 6,6).
            Terza osservazione. – Molti giovani avevano tra i fiori freschi e odorosi dei loro mazzi anche dei fiori guasti e marci o dei fiori belli senza odore. Quelli significavano le opere buone ma fatte in peccato mortale, opere che a nulla giovano per accrescere i meriti loro: i fiori poi senza odore sono le opere buone ma fatte per fini umani, per ambizione, solamente per piacere ai maestri e ai superiori. Quindi l’Angelo li rimproverava che osassero portare a Maria simili offerte e li rimandava indietro ad accomodare il loro mazzo. Essi si ritiravano, lo disfacevano, toglievano i fiori guasti e poi, ordinati di nuovo i fiori, li legavano come prima e li riportavano all’Angelo il quale allora li accettava e li poneva sulla mensa. Questi poi nel ritornare non seguivano più alcun ordine, ma appena erano pronti, chi prima chi dopo, ciascuno riportava il suo mazzo e si andava a collocare con quelli che dovevano ricevere la corona.
            Io vidi in questo sogno tutto ciò che fu e che sarà dei miei giovani. A molti l’ho già detto, agli altri lo dirò. Voi intanto procurate che questa Vergine Celeste da voi riceva sempre doni che non abbiano mai ad essere rifiutati.
(MB VIII, 129-132)

Foto di apertura: Carlo Acutis durante una visita al Santuario mariano di Fátima.




La purezza e mezzi per conservarla (1884)

In questo sogno di Don Bosco appare un giardino paradisiaco: un declivio verde, alberi festonati e, al centro, un immenso tappeto candido ornato di iscrizioni bibliche che esaltano la purezza. Sul bordo siedono due fanciulle dodicenni, vestite di bianco con cinture rosse e corone floreali: personificano Innocenza e Penitenza. Con voce soave dialogano sul valore dell’innocenza battesimale, sui pericoli che la minacciano e sui sacrifici necessari per custodirla: preghiera, mortificazione, obbedienza, purezza dei sensi.

            Gli parve di avere dinanzi un’immensa incantevole ripa verdeggiante, di dolce pendio e tutta spianata. Alle falde questo prato formava come uno scalino piuttosto basso, dal quale si saltava sulla stradicciola ove stava D. Bosco. Sembrava un Paradiso terrestre splendidamente illuminato da una luce più pura e più viva di quella del sole. Era tutto coperto di erbe verdeggianti smaltate da mille ragioni di fiori e ombreggiato da un numero grandissimo di alberi che avviticchiandosi coi rami a vicenda, li stendevano a guisa di ampli festoni.
            In mezzo al giardino fino alla proda di esso era steso un tappeto di un candore magico, ma così lucido, che abbagliava la vista; era largo più miglia. Presentava la magnificenza di uno stato reale. Come ornamento nella fascia che correva lungo l’orlo aveva varie iscrizioni e caratteri d’oro. Da un lato si leggeva: Beati immaculati in via, qui ambulant in lege Domini (Beato chi è integro nella sua via e cammina nella legge del Signore, Ps 118,1). Sull’altro lato: Non privabit bonis eos, qui ambulant in innocentia (Non rifiuta il bene a chi cammina nell’innocenza, Ps 83,13). Sul terzo lato: Non confundentur in tempore malo: in diebus famis saturabuntur (Non si vergogneranno nel tempo della sventura e nei giorni di carestia saranno saziati, Ps 37,19). Sul quarto: Novit Dominus dies immaculatorum et haereditas eorum in aeternum erit (Il Signore conosce i giorni degli uomini integri: la loro eredità durerà per sempre, Ps 37,18).
            Ai quattro angoli dello strato intorno ad un magnifico rosone stavano quattro altre iscrizioni: Cum simplicibus sermocinatio eius (La sua amicizia è per i giusti, Prov 3,32). – Proteget gradientes simpliciter (È scudo a coloro che agiscono con rettitudine, Prov 2,7) – Qui ambulant simpliciter, ambulant confidenter (Chi cammina nell’integrità va sicuro, Prov 10,9) – Voluntas eius in iis, qui simpliciter ambulant (Egli si compiace di chi ha una condotta integra, Prov 11,20).
            In mezzo poi allo strato questa ultima scritta: Qui ambulant simpliciter, salvus erit (Chi procede con rettitudine sarà salvato, Prov. 28,18).
            Nel mezzo della ripa sul bordo superiore del candido tappeto si innalzava un gonfalone bianchissimo sul quale si leggeva pure a caratteri d’oro: Fili mi, tu semper mecum es et omnia mea tua sunt (Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, Lc 15,31).
            Se D. Bosco era meravigliato alla vista di quel giardino, molto più attiravano la sua attenzione due vaghe fanciulle in sui dodici anni, sedute sul margine del tappeto ove la riva faceva scalino. Una celestiale modestia spirava da tutto il loro grazioso contegno. Dai loro occhi costantemente fissi in alto traspariva non solo un’ingenua semplicità di colomba, ma raggiava una vivezza d’amore purissimo, una gioia di felicità celestiale. La loro fronte aperta e serena sembrava la sede del candore e della schiettezza, sulle loro labbra serpeggiava un dolce incantevole sorriso. I loro lineamenti manifestavano un cuore tenero ed ardente. Le graziose movenze della persona loro davano una tale aria di sovrumana grandezza e nobiltà che faceva contrasto colla loro giovinezza.
            Una veste candidissima scendeva loro fino al piede, sulla quale non si scorgeva né macchia, né ruga, e neppure un granello di polvere. I fianchi avevano cinti con una cintura rossa fiammante con bordi d’oro. Su questa spiccava un fregio come nastro composto di gigli, di violette e di rose. Un nastro simile, come fosse un monile, portavano al collo, composto degli stessi fiori, ma di forma diversa. Come braccialetti avevano ai polsi una fascetta di margheritine bianche. Tutte queste cose e questi fiori avevano forma, colori, bellezze che riesce impossibile il descriverli. Tutte le pietre più preziose del mondo incastonate con l’arte più squisita parrebbero fango al confronto.
            Le scarpe candidissime erano bordate di nastro pur bianco filettato d’oro, che faceva un bel nodo nel mezzo. Bianco pure con piccoli fili d’oro era il cordoncino col quale erano legate.
            La loro lunga capigliatura era stretta da una corona, che cingeva la fronte, e così folta che faceva onda sotto la corona e ricadendo sulle spalle finiva inanellata a ricci.
            Esse avevano incominciato un dialogo: ora si alternavano parlando ora si interrogavano ed ora esclamavano. Ora ambedue sedevano; ora una sola stava seduta e l’altra in piedi; ed ora passeggiavano. Non uscivano però mai fuori da quel candido tappeto e non toccarono mai né erba né fiori. D. Bosco nel suo sogno stava come spettatore. Né esso rivolse parole a quelle fanciulle, né le fanciulle si sono accorte della sua presenza, e l’una diceva con soavissimo accento:
            – Che cosa è l’innocenza? Lo stato fortunato della grazia santificante conservato mercè la costante ed esatta osservanza della divina legge.
            E l’altra donzella con voce non meno dolce:
            – E la conservata purità dell’innocenza è fonte ed origine di ogni scienza e di ogni virtù.
            La prima:
            – Quale lustro, quale gloria, quale splendore di virtù vivere bene tra i cattivi, e tra i malvagi maligni conservare il candore dell’innocenza e la lenità dei costumi.
            La seconda si alzò in piedi e fermandosi vicino alla compagna:
            – Beato quel giovinetto che non va dietro ai consigli degli empi e non si mette nella via dei peccatori, ma suo diletto è la legge del Signore, che egli medita di giorno e di notte. Ed ei sarà come albero piantato lungo la corrente delle acque della grazia del Signore, il quale darà a suo tempo il frutto copioso di buone opere: per soffiar di vento non cadrà di lui foglia di sante intenzioni e di merito e tutto quello che farà avrà prospero effetto, ed ogni circostanza della vita coopererà per accrescere il suo premio. – Così dicendo accennava gli alberi del giardino carichi di frutti bellissimi che spandevano per l’aria un profumo delizioso, mentre torrentelli limpidissimi che ora scorrevano fra due sponde fiorite, ora cadevano da piccole cascatelle, ed ora formavano laghetti, bagnavano i loro fusti, con un mormorio che pareva il suono misterioso di musica lontana.
            La prima donzella replicò:
            – Esso è come un giglio tra le spine che Iddio coglie nel suo giardino per porlo come ornamento sovra il suo cuore; e può dire al suo Signore: Il mio Diletto appartiene a me ed io a lui: perché ei si pasce in mezzo ai gigli. – Così dicendo accennava ad un gran numero di gigli vaghissimi che alzavano il candido capo tra le erbe e gli altri fiori, mentre mostrava in lontananza un’altissima siepe verdeggiante che circondava tutto il giardino. Questa era fitta di spine e dietro si scorgevano vagolare come ombre mostri schifosi che tentavano penetrare nel giardino, ma erano impediti dalle spine di quella siepe.
            – É vero! Quanta verità è nelle tue parole! soggiunge la seconda. Beato quel giovanetto che sarà trovato senza colpa! Ma chi sarà costui e gli daremo lode? Perché egli ha fatto cose mirabili in vita sua. Egli fu trovato perfetto ed avrà gloria eterna. Egli poteva peccare e non peccò; far del male e non lo fece. Per questo i beni di lui sono stabiliti nel Signore e le sue opere buone saranno celebrate da tutte le congregazioni dei Santi.
            – E sulla terra quale gloria Dio ad essi riserva! Li chiamerà, loro farà un posto nel suo santuario, li farà ministri dei suoi misteri, e un nome sempiterno darà loro che mai perirà, concluse la prima.
            La seconda si alzò in piedi ed esclamò:
            – Chi può descrivere la bellezza di un innocente? Quest’anima è vestita splendidamente come una di noi, ornata della bianca stola del santo Battesimo. Il suo collo, le sue braccia risplendono di gemme divine, ha in dito l’anello dell’alleanza con Dio. Essa cammina leggiera nel suo viaggio per l’eternità. Gli si para innanzi una via tempestata di stelle… È tabernacolo vivente dello Spirito Santo. Col sangue di Gesù che scorre nelle sue vene e imporpora le sue guance e le sue labbra, colla Santissima Trinità nel cuore immacolato manda intorno a sé torrenti di luce che la vestono nel fulgore del sole. Dall’alto piovono nembi di fiori celesti che riempiono l’aria. Tutto intorno si spandono le soavi armonie degli angioli che fanno eco alla sua preghiera. Maria Santissima gli sta a fianco pronta a difenderla. Il cielo è aperto per lei. Essa è fatta spettacolo alle immense legioni dei Santi e degli Spiriti beati, che la invitano agitando la loro palme. Iddio tra gli inaccessibili fulgori del suo trono di gloria colla destra le addita il seggio che le ha preparato, mentre colla sinistra tiene la splendida corona che dovrà incoronarla per sempre. L’innocente è il desiderio, il gaudio, il plauso del paradiso. E sul suo volto è scolpita una gioia ineffabile. É figlio di Dio. Dio è il Padre suo. Il paradiso è la sua eredità. Esso è continuamente con Dio. Lo vede, lo ama, lo serve, lo possiede, lo gode, ha un raggio delle celesti delizie: è in possesso di tutti i tesori, di tutte le grazie, dì tutti i segreti, dì tutti i doni e di tutte le sue perfezioni e di tutto Dio stesso.
            – Ed è perciò che l’innocenza nei Santi dell’Antico Testamento nei Santi del Nuovo, e specialmente nei Martiri si presenta così gloriosa. Oh Innocenza quanto sei bella! Tentata cresci in perfezione, umiliata ti levi più sublime, combattuta esci trionfante, uccisa voli alla corona. Tu libera nella schiavitù, tranquilla e sicura nei pericoli, lieta tra le catene. I potenti t’inchinano, i principi ti accolgono, i grandi ti cercano. I buoni ti obbediscono, i malvagi t’invidiano, i rivali ti emulano, gli avversari soccombono. E tu riuscirai sempre vittoriosa, anche allorché gli uomini ti avessero condannata ingiustamente!
            Le due donzelle fecero un istante di pausa, come per prendere respiro dopo uno sfogo così affocato e quindi si presero per mano e si guardarono:
            – Oh se i giovani conoscessero qual prezioso tesoro è l’innocenza, come fin dal principio della loro vita custodirebbero gelosamente la stola del santo battesimo! Ma purtroppo non riflettono e non pensano che cosa voglia dire macchiarla. L’innocenza è un liquore preziosissimo.
            – Ma è chiuso in un vaso di fragile creta e se non vien portato con gran cautela si spezza con tutta facilità.
            – L’innocenza è una gemma preziosissima.
            – Ma se non se ne conosce il valore, si perde e con facilità si tramuta con oggetto vile.
            – L’innocenza è tino specchio d’oro che ritrae le sembianze di Dio.
            – Ma basta un po’ di aria umida per irrugginirlo e bisogna tenerlo involto in un velo.
            – L’innocenza è un giglio.
            – Ma il solo tocco di una ruvida mano lo sciupa.
            – L’innocenza è una candida veste. Omni tempore sint vestimenta tua candida (In ogni tempo siano candide le tue vesti, Sir 9,8).
            – Ma una macchia sola basta per deturparla, quindi bisogna camminare con grande precauzione.
            – L’innocenza e l’integrità resta violata se viene imbrattata da una sola macchia e perde il tesoro della sua grazia.
            – Basta un solo peccato mortale.
            – E perduta una volta è perduta per sempre.
            – Quale sventura tante innocenze che si perdono ogni giorno! Allorché un giovanetto cade in peccato, il paradiso si chiude: la Vergine Santissima e l’Angelo custode scompaiono, cessano le musiche, si ecclissa la luce. Dio non è più nel suo cuore, si dilegua la via stellata che esso percorreva, cade e resta in un punto solo come isola in mezzo al mare, un mare di fuoco che si estende fino all’estremo orizzonte dell’eternità, che si inabissa fino alla profondità del caos. Sulla sua testa nel cielo scurissime guizzano, minacciose, le folgori della divina giustizia. Satana si è slanciato vicino a lui, lo ha caricato di catene, gli ha posto un piede sul collo, e col ceffo orribile sollevato in alto ha gridato: Ho vinto. Il tuo figlio è mio schiavo. Non è più tuo… È finita per lui la gioia. Se la giustizia di Dio in quel momento gli sottrae quell’unico punto sul quale sta, è perduto per sempre.
            – Ei può risorgere! La misericordia di Dio è infinita. Una buona confessione gli ridonerà la grazia e il titolo di figlio di Dio.
            – Ma non più l’innocenza! E quali conseguenze gli rimarranno del primo peccato! Ei conosce il male che prima non conosceva; sentirà terribili le prave inclinazioni; sentirà il debito enorme che ha contratto colla divina giustizia, si sentirà più debole nei combattimenti spirituali. Proverà ciò che prima non provava: vergogna, mestizia, rimorso.
            – E pensare che prima era detto di lui: Lasciate che i fanciulli vengano a me. Essi saranno come gli angeli di Dio in cielo. Figliuolo, donami il tuo cuore.
            – Ah un delitto spaventoso commettono quei disgraziati dei quali è colpa se un fanciullo perde l’innocenza. Ha detto Gesù: Chi scandalizzerà alcuno di questi piccolini che credono in me, meglio per lui sarebbe che gli fosse appesa al collo una macina asinaia e che fosse sommerso nel profondo del mare. Guai al mondo per causa degli scandali. Non è possibile impedire gli scandali, ma guai a colui per colpa del quale viene lo scandalo. Guardatevi dal disprezzare alcuni di questi piccoli, poiché io vi fo sapere che i loro angioli nei cieli vedono perpetuamente il volto del padre mio che è nei Cieli e chiedono vendetta.
            – Disgraziati costoro! Ma non meno infelici quelli che si lasciano rubare l’innocenza.
            E qui ambedue si misero a passeggiare; il tema del loro discorso era qual fosse il mezzo per conservar l’innocenza.
            Una diceva:
            – È un grande errore che hanno nella testa i giovanetti, che cioè la penitenza debba solamente praticarsi da chi è peccatore. La penitenza è necessaria eziandio per conservare l’innocenza. Se S. Luigi non avesse fatto penitenza, sarebbe senz’altro caduto in peccato mortale. Ciò si dovrebbe predicare, inculcare, insegnare continuamente ai giovanetti. Quanti di più conserverebbero l’innocenza, mentre ora sono così pochi!
            – Lo dice l’Apostolo. Portando noi sempre per ogni dove la mortificazione di Gesù Cristo nel nostro corpo, affinché la vita ancor di Gesù si manifesti nei corpi nostri.
            – E Gesù santo, immacolato, innocente passò la vita sua in privazioni e dolori.
            – Così Maria Santissima, così tutti i Santi.
            – E fu per dare esempio a tutti i giovani. Dice S. Paolo: Se vivrete secondo la carne, morrete; se poi collo spirito darete morte alle azioni della carne, vivrete.
            – Dunque senza penitenza non si può conservar l’innocenza!
            – Eppure molti vorrebbero conservar l’innocenza e vivere in libertà.
            – Stolti! Non è scritto: Fu rapito, perché la malizia non alterasse il suo spirito e la seduzione non inducesse l’anima di lui in errore? Per questo l’affascinamento della vanità oscura il bene e la vertigine della concupiscenza sovverte l’animo innocente. Dunque due nemici hanno gli innocenti: le storte massime e i discorsi iniqui dei cattivi, e la concupiscenza. Non dice il Signore che la morte in giovanetta età è premio per l’innocente per toglierlo dai combattimenti? “Perché egli piacque a Dio, fu amato da lui e perché viveva tra i peccatori, altrove fu trasportato. Consumato egli in breve tempo compié una lunga carriera. Poiché era cara a Dio l’anima di lui, per questo Egli si affrettò di trarlo di mezzo alle iniquità. Fu rapito perché la malizia non alterasse il suo spirito, e la seduzione non inducesse l’anima di lui in errore”.
            – Fortunati i fanciulli se abbracceranno la croce della penitenza e con fermo proponimento diranno con Giobbe: Donec deficiam, non recedam ab innocentia mea (Fino alla morte non rinuncerò alla mia integrità, Gb 27,5).
            – Dunque mortificazione nel superare la noia che essi provano nella preghiera.
            – E sta scritto: Psallam et intelligam in via immaculata. Quando venies ad me? (Agirò con saggezza nella via dell’innocenza: quando a me verrai?, Ps 100,2). Petite et accipietis (Chiedete e vi sarà dato, Gv 16,24). Pater Noster! (Padre nostro!).
            – Mortificazione nell’intelletto coll’umiliarsi, obbedire ai Superiori e alle regole.
            – E sta pure scritto: Si mei non fuerint dominati, tunc immaculatus ero et emundabor a delicto maximo (Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere; allora sarò irreprensibile, sarò puro da grave peccato, Ps 18,13). E questo è la superbia. Iddio ai superbi resiste e agli umili dà la grazia. Chi si umilia sarà esaltato, chi si esalta sarà umiliato. Obbedite ai vostri prepositi.
            – Mortificazione nel dir sempre la verità, nel palesare i propri difetti, e i pericoli nei quali può uno trovarsi. Allora avrà sempre consiglio, specialmente dal confessore.
            – Pro anima tua ne confundaris dicere verum: per amor dell’anima tua non vergognarti di dire la verità (Sir 4,24). Perché c’è un rossore che tira seco il peccato, e c’è un rossore che tira seco la gloria e la grazia.
            – Mortificazione nel cuore frenando i suoi moti inconsulti, amando tutti per amor di Dio e staccandosi risolutamente da chi ci accorgiamo insidiare alla nostra innocenza.
            – L’ha detto Gesù. Se la tua mano o il tuo piede ti serve di scandalo, troncali e gettali via da te: è meglio per te giungere alla vita con un piede o una mano di meno, che con tutte due le mani e con tutti due i piedi essere gettato nel fuoco eterno. E se l’occhio tuo ti serve dì scandalo, cavatelo e gettalo via da te; è meglio per te l’entrare alla vita con un solo occhio che con due occhi essere gettato nel fuoco dell’inferno.
            – Mortificazione nel sopportare coraggiosamente e francamente gli scherni del rispetto umano. Exacuerunt, ut gladium, linguas suas: intenderunt arcum, rem amaram, ut sagittent in occultis immaculatum (Affilano la loro lingua come spada, scagliano come frecce parole amare, per colpire di nascosto l’innocente, Ps 63,4-5).
            – E vinceranno questo maligno che schernisce temendo essere scoperto dai Superiori, col pensare alle terribili parole di Gesù: Chi si vergognerà di me e delle mie parole, si vergognerà di lui il Figliuolo dell’uomo quando verrà colla maestà sua e del Padre e dei santi Angeli.
            – Mortificazione negli occhi, nel guardare, nel leggere, rifuggendo da ogni lettura cattiva o inopportuna.
            – Un punto essenziale. Ho fatto patto cogli occhi miei di non pensare neppure ad una vergine. E nei salmi: Rivolgi gli occhi perché non vedano la vanità.
            – Mortificazione dell’udito e non ascoltare discorsi cattivi, o sdolcinati, o empi.
            – Si legge nell’Ecclesiastico: Saepi aures tuas spinis, linguam nequam non audire (Sir 28,28). Fa siepe di spine alle tue orecchie e non ascoltare la mala lingua.
            – Mortificazione nel parlare: non lasciarsi vincere dalla curiosità.
            – Sta pur scritto: Metti una porta ed un chiavistello alla tua bocca. Bada di non peccar colla lingua, onde tu non vada per terra a vista dei nemici, che ti insidiano e non sia insanabile e mortale la tua caduta (Sir 28,25-26).
            – Mortificazione di gola: non mangiare, non bere troppo.
            – Il troppo mangiare, il troppo bere trasse il diluvio universale sul mondo e il fuoco sopra Sodoma e Gomorra, e mille castighi sul popolo Ebreo.
            – Mortificarsi insomma nel soffrire ciò che ci accade lungo il giorno, freddo, caldo, e non cercare le nostre soddisfazioni. Mortificate le vostre membra terrene (Col, 3,5).
            – Ricordarsi di ciò che Gesù ha imposto: Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam quotidie et sequatur me (Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua, Lc 9,23).
            – E Dio stesso colla sua provvida mano cinge di croci e spine i suoi innocenti, come fece con Giobbe, Giuseppe, Tobia ed altri Santi. Quia acceptus eras Deo, necesse fuit, ut tentatio probaret te (Perché tu fossi accettato da Dio, era necessario che la tentazione ti mettesse alla prova, Tb 12,13).
            – La via dell’innocente ha le sue prove, i suoi sacrifici, ma ha la forza nella Comunione, perché chi si comunica sovente ha la vita eterna, sta in Gesù e Gesù in lui. Ei vive della stessa vita di Gesù, sarà da lui risuscitato nell’ultimo giorno. È questo il frumento degli eletti, il vino che fa germogliare i vergini. Parasti in conspectu meo mensam adversus eos, qui tribulant me.  (Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici, Ps 23,5). Cadent a latere tuo mille et decem millia a dextris tuis, ad te autem non appropinquabunt (Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire, Ps 91,7).
            – E la Vergine dolcissima da lui amata è la Madre sua. Ego mater pulchrae dilectionis et timoris et agnitionis et sanctae spei. In me gratia omnis (per conoscere) viae et veritatis; in me omnis spes vitae et virtutis. (Sono la madre dell’amore, del timore, della scienza e della santa speranza. In me c’è tutta la grazia della via e della verità, Sir 24,24-25). Ego diligentes me diligo (Io amo coloro che mi amano, Pr 8,17). Qui elucidant me, vitam aeternam habebunt (Chi mi fa conoscere avrà la vita eterna, Sir 24,31). Terribilis, ut castrorum acies ordinata (terribile come un vessillo di guerra, Ct 6,4).
            Le due donzelle allora si volsero e salivano lentamente la ripa. E l’una esclamava:
            – La salute dei giusti vien dal Signore: ed egli è il lor protettore nel tempo della tribolazione. Il Signore li aiuterà e li libererà; ci li trarrà dalla mano dei peccatori e li salverà perché in lui hanno sperato (Sal 36,39-40).
            – E l’altra proseguiva:
            – Dio mi cinse di robustezza e la via che io batto rendete immacolata.
            Giunte le due donzelle in mezzo a quel magnifico tappeto, si volsero.
            – Sì, gridò una, l’innocenza coronata dalla penitenza è la regina di tutte le virtù.
            E l’altra esclamò pure:
            – Quanto è gloriosa e bella la casta generazione! La memoria di lei è immortale ed è nota dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini. La gente la imita quando ella è presente, e la desidera quando ella è partita pel cielo, e coronata trionfa nell’eternità, vinto il premio dei casti combattimenti. E quale trionfo! E quale gaudio! E quale gloria nel presentare a Dio immacolata la stola del santo battesimo dopo tanti combattimenti tra gli applausi, i cantici, il fulgore degli eserciti celesti!
            Mentre che così parlavano del premio che sta preparato per l’innocenza conservata per la penitenza, Don Bosco vide comparire schiere di angioli che scendendo si posavano su quel candido tappeto. E si univano a quelle due donzelle tenendo esse il posto di mezzo. Erano una gran moltitudine. E cantavano: Benedictus Deus et Pater Domini Nostri Jesu Christi, qui benedixit nos in omni benedictione spirituali in coelestibus in Christo; qui elegit nos in ipso ante mundi constitutionem, ut essemus sancti et immaculati in conspectu eius in charitate et praedestinavit nos in adoptionem per Jesum Christum (Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, Ef 1,3-5). Le due fanciulle si posero allora a cantare un inno stupendo, ma con tali parole e tali note che solo quegli angeli che erano più vicini al centro potevano modulare. Gli altri pure cantavano, ma Don Bosco non poteva sentire le loro voci, benché facessero gesti e muovessero le labbra atteggiando la bocca al canto.
            Cantavano le fanciulle: Me propter innocentiam suscepisti et confirmasti me in conspectu tuo in aeternum. Benedictus Dominus Deus a saeculo et usque in saeculum; fiat fiat! (Per la mia integrità tu mi sostieni e mi fai stare alla tua presenza per sempre. Sia benedetto il Signore, Dio d’Israele, da sempre e per sempre, Sal 40,13-14).
            Intanto alle prime schiere di Angioli se ne aggiungevano altre e poi altre continuamente. Il loro vestito era vario di colori, di ornamenti, diverso gli uni dagli altri e specialmente da quello delle due donzelle. Ma la ricchezza e la magnificenza era divina. La bellezza di ciascuno di costoro era quale mente umana non potrà mai in nessun modo concepirne un’ombra per quanto lontana. Tutto lo spettacolo di questa scena non si può descrivere, ma a forza di aggiungere parola a parola si può in qualche modo spiegarne confusamente il concetto.
            Finito il cantico delle due fanciulle, si udirono cantare tutti insieme un cantico immenso e così armonioso che l’eguale non sì è udito e mai si udirà sulla terra. Essi cantavano:
Ei, qui potens est vos conservare sine peccato et constituere ante conspectum gloriae suae immaculatos in exultatione, in adventu Domini nostri Jesu Christi: Soli Deo Salvatori nostro, per Jesum Christum Dominum nostrum, gloria et magnificentia, imperium et potestas ante omne saeculum, et nunc et in omnia saecula saeculorum. Amen (A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire davanti alla sua gloria senza difetti e colmi di gioia, all’unico Dio, nostro salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, gloria, maestà, forza e potenza prima di ogni tempo, ora e per sempre. Amen, Gd 1,24-25).
            Mentre cantavano, sopraggiungevano sempre nuovi angeli e quando il cantico fu terminato, a poco a poco tutti insieme si sollevarono in alto e disparvero con tutta la visione. – E Don Bosco si svegliò.
(MB XVII, 722-730)




Il sogno delle 22 lune (1854)

Nel marzo del 1854 in giorno di festa, D. Bosco dopo i vespri radunò tutti gli alunni interni nella retro sagrestia dicendo di voler raccontar loro un sogno. Erano presenti fra gli altri i giovani Cagliero, Turchi, Anfossi, il Ch. Reviglio, il Ch. Buzzetti, dai quali abbiamo raccolta la nostra narrazione. Tutti erano persuasi che sotto il nome di sogno D. Bosco occultasse le manifestazioni che aveva dal cielo. Il sogno fu questo:

            – Io mi trovava con voi nel cortile e godeva nel mio cuore di vedervi vispi, allegri e contenti. Chi saltava, chi gridava, chi correva. Ad un tratto vedo che uno di voi esce da una porta della casa e si mette a passeggiare in mezzo ai compagni, con una specie di cilindro, ossia turbante, sul capo. Era questo trasparente, tutto illuminato nell’interno; e colla figura di una grossa luna, nel bel mezzo della quale era scritta la cifra 22. Io stupito cercai subito di avvicinarlo per dirgli che lasciasse quell’arnese da carnevale: ma ecco mentre l’aria si oscurava, come se fosse stato dato un segnale di campanello, il cortile si sgombra e scorgo tutti i giovani sotto i portici della casa, disposti in fila. Il loro aspetto manifestava un gran timore, e dieci o dodici di essi avevano il viso ricoperto di strana pallidezza. Io passai davanti a tutti questi per osservarli; e scorgo fra di loro quello che aveva la luna sul capo, più pallido degli altri; dai suoi omeri pendeva una coltre funebre. M’incammino verso di lui per chiedergli che cosa significasse quello strano spettacolo; ma una mano mi trattiene, e vedo uno sconosciuto di grave aspetto e nobile portamento, che mi dice:
            – Ascoltami, prima di avvicinarti a lui; egli ha ancora 22 lune di tempo, e prima che siano passate, morrà. Tienilo d’occhio e preparalo!
            Io voleva domandargli qualche spiegazione del suo parlare e della sua improvvisa comparsa, ma più non lo vidi.
            – Il giovane, miei cari figliuoli, io lo conosco ed è tra di voi!
            Un vivo terrore si impossessò di tutti i giovani, tanto più essendo la prima volta che D. Bosco annunziava in pubblico e con una certa solennità la morte di uno della casa. Il buon padre non poté a meno di notarlo e proseguì:
            – Io lo conosco ed è tra voi quel delle lune. Ma non voglio che vi spaventiate. È un sogno come vi ho detto, e sapete che non sempre si deve prestar fede ai sogni. Ad ogni modo, comunque sia la cosa, quello che è certo si è che dobbiamo essere sempre preparati come ci raccomanda il divin Salvatore nel santo Vangelo e non commettere peccati; ed allora la morte non ci farà più paura. Fatevi tutti buoni, non offendete il Signore, ed io intanto starò attento e terrò d’occhio quello del numero ventidue, il che vuol dire 22 lune, ossia 22 mesi: e spero che farà una buona morte.
            Questo annunzio, se spaventò sul principio i giovani, fece però in appresso grandissimo bene, perché stavano tutti attenti a mantenersi in grazia di Dio, col pensiero della morte, ed a contare intanto le lune che trascorrevano. D. Bosco a quando a quando li interrogava:
            – Quante lune vi sono ancora?
            E gli veniva risposto:
            – Venti, diciotto, quindici, ecc.
            Talora i giovani che badavano a tutte le sue parole, gli si accostavano per annunziargli le lune già passate, e cercavano far pronostici, indovinare; ma D. Bosco stava in silenzio. Il giovane Piano, entrato come studente nell’Oratorio nel mese di novembre 1854, sentiva parlare della nona luna e dai compagni e dai superiori venne a sapere ciò che D. Bosco aveva predetto. Ed egli pure, come tutti gli altri, stette in osservazione.
            Finì l’anno 1854, trascorsero molti mesi del 1855 e venne l’ottobre, cioè la luna ventesima. Cagliero, già chierico, era incaricato di sorvegliare tre stanzette vicine nell’antica casa Pinardi, che servivano di dormitorio ad una camerata di giovani. Fra questi era un certo Gurgo Secondo, Biellese da Pettinengo, in sui 17 anni, di belle e robuste forme, tipo di una florida sanità, che dava tutte le speranze di lunga vita, fino ad estrema vecchiezza. Suo padre l’aveva raccomandato a D. Bosco perché lo tenesse in pensione. Valente suonatore di pianoforte e di organo studiava da mane a sera la musica e guadagnava di bei soldi dando lezioni in Torino. D. Bosco lungo l’anno, a quando a quando, aveva interrogato il Ch. Cagliero sulla condotta dei suoi assistiti, con particolare premura. Nell’ottobre lo chiamò a sé e gli disse:
            – Dove dormi tu?
            – Nella stanzetta ultima, rispose il Ch. Cagliero, e di là assisto le altre due.
            – E non sarebbe meglio che trasportassi il tuo letto in quella di mezzo?
            – Come vuole; ma le faccio notare che le altre due stanze sono asciutte, mentre nella seconda una parete è formata dalla muraglia del campanile della chiesa, costrutto di fresco. Vi è quindi un po’ di umidità: si avvicina l’inverno e potrei prendermi qualche malanno. D’altronde di dove mi trovo adesso, posso benissimo assistere tutti i giovani del mio dormitorio.
            – Quanto ad assisterli lo so che puoi; ma è meglio, replicò D. Bosco, che te ne vada in quella di mezzo.
            Il Ch. Cagliero obbedì, ma dopo qualche tempo chiese licenza a D. Bosco di tramutare il suo letto nella stanza primiera. D. Bosco non acconsentì, ma gli disse:
            – Sta dove sei e riposa tranquillo che la tua sanità nulla avrà a soffrirne.
            Il Ch. Cagliero si acquietò e alcuni giorni dopo di bel nuovo fu chiamato da D. Bosco:
            – Quanti siete nella tua nuova stanza?
            Rispose:
            – Siamo tre: io, il giovane Gurgo Secondo, il Garovaglia; ed il pianoforte che fa quattro.
            – Bene, disse D. Bosco; va bene: siete tre suonatori, e Gurgo potrà darvi lezioni di pianoforte. Tu guarda di assisterlo bene. E null’altro aggiunse. Il chierico, punta da curiosità e venuto in sospetto, incominciò a fargli qualche domanda, ma D. Bosco lo interruppe dicendogli:
            – Il perché lo saprai a suo tempo.
            Il segreto era che in quella stanza stava il giovane delle 22 lune.
            Al principio di dicembre non vi era alcun ammalato nell’Oratorio, e D. Bosco, salito in cattedra alla sera dopo le orazioni, annunziò che uno dei giovani sarebbe morto prima del santo Natale. Per questa nuova predizione e perché le 22 lune ormai si compievano, in casa regnava una grande trepidazione, si ricordavano frequentemente le parole di D. Bosco e se ne temeva l’avveramento.
            D. Bosco in quei giorni aveva chiamato a sé ancora una volta il Ch. Cagliero, e gli domandò se Gurgo si portasse bene e se, date le lezioni di musica in città, ritornasse a casa per tempo. Cagliero gli rispose che tutto andava bene e che non vi erano novità né suoi compagni. Ottimamente; sono contento: invigila perché siano tutti buoni, e avvisami se accadessero degli inconvenienti. Cosi gli disse D. Bosco che più altro non aggiunse.
            Ed ecco verso la metà di dicembre essere il Gurgo assalito da una colica violenta e così pericolosa che, mandato a chiamare in fretta il medico, per suo consiglio gli si amministrarono i santi Sacramenti. Per otto giorni, e molto penosa, durò la malattia e volgeva in meglio, grazie alle cure del dottore Debernardi, sicché Gurgo poté levarsi da letto convalescente. Il male era come sparito e il medico ripeteva averla il giovane scappata bella. Intanto era stato avvisato il padre, poiché, non essendo ancora morto alcuno all’Oratorio, D. Bosco voleva impedire agli allievi un funereo spettacolo. La novena del Santo Natale era incominciata e Gurgo pressoché guarito contava d’andare al paese nelle feste natalizie. Tuttavia, quando si davano buone nuove di lui a D. Bosco, ci aveva l’aria di chi non voglia credere. Venne il padre, e trovato il figlio già in buono stato, chiesta e ottenuta licenza, andò a prendere il posto alla vettura per condurlo l’indomani a Novara, e poi a Pettinengo, perché si ristabilisse pienamente in salute. Era di domenica, 23 dicembre; Gurgo però quella stessa sera mostrò desiderio di mangiare un po’ di carne, cibo vietato dal medico. Il padre per rafforzarlo corse a comprarla e la fece cuocere in una macchinetta da caffè. Il giovane bevette il brodo e mangiò la carne, che certo doveva essere mezzo cruda e mezzo cotta e forse troppo – più del necessario. Il padre si ritirò; nella camera rimase l’infermiere e Cagliero. Ed ecco ad una certa ora della notte l’infermo comincia a lamentarsi per i dolori di ventre. La colica era tornata ad assalirlo nel modo più straziante. Gurgo chiamò per nome l’assistente:
            – Cagliero, Cagliero? Ho finito di farti scuola di pianoforte.
            – Abbi pazienza: coraggio! rispondeva Cagliero.
            – Io non vado più a casa: non parto più. Prega per me; se sapessi quanto male mi sento. Raccomandami alla Madonna.
            – Sì, pregherò: invoca anche tu Maria SS..
            Intanto Cagliero incominciò a pregare; ma vinto dal sonno si addormentò. Ed ecco all’improvviso l’infermiere lo scuote e accennandogli Gurgo corre subito a chiamare D. Alasonatti, che dormiva nella camera vicina. Questi venne, e dopo qualche istante Gurgo spirava. Fu una desolazione in tutta la casa. Cagliero al mattino incontrò Don Bosco che scendeva le scale per andare a dire la S. Messa ed era molto mesto, perché già gli era stata comunicata la dolorosa notizia.
            Intanto nella casa si faceva un gran parlare di questa morte. Si era alla vigesima seconda luna e questa non ancora compiuta; e Gurgo, morendo il 24 dicembre prima dell’aurora, compieva anche la seconda predizione, cioè che egli non avrebbe vista la festa del santo Natale.
            Dopo pranzo i giovani e i chierici circondavano silenziosi D. Bosco. A un tratto il Ch. Turchi Giovanni lo interrogò se Gurgo fosse quello delle lune.
            – Sì, rispose D. Bosco: era proprio lui; è appunto desso che io vidi nel sogno!
            Quindi soggiunse ancora:
– Avrete osservato, che io, tempo fa, lo aveva messo a dormire in una camerata speciale, raccomandando a taluno dei migliori assistenti, che là trasportasse il suo letto acciocché potesse continuamente vigilar su di lui. E l’assistente fu il Ch. Giovanni Cagliero. E improvvisamente voltosi a questo chierico gli disse: Un’altra volta non farai più tante osservazioni a quanto ti dirà D. Bosco. Adesso capisci perché io non voleva che tu lasciassi la camera ove era quel poveretto? Tu mi supplicavi; ma io non volli contentarti, appunto perché Gurgo avesse un custode. Se egli fosse ancor vivo, potrebbe dire le quante volte gli andava parlando così alla larga della morte e le cure che gli prodigai per disporlo ad un felice passaggio.
            “Io – scrisse Mons. Cagliero – intesi allora il motivo delle speciali raccomandazioni fattemi da D. Bosco, ed imparai a conoscere ed apprezzare vie meglio l’importanza, delle sue parole e dei suoi paterni avvisi”.
            “La sera, vigilia di Natale – narra Enria Pietro – mi ricordo ancora D. Bosco che saliva sulla cattedra girando gli occhi intorno come se cercasse qualcuno. E disse: il primo giovane che muore nell’Oratorio. Ha fatto le sue cose bene e speriamo che sia in paradiso. Raccomando a voi che siate sempre preparati…E non poté più parlare perché il suo cuore era troppo addolorato. La morte le aveva rapito un figlio”.
(MB V, 377-383)




Passeggiata dei giovani al paradiso (1861)

Passiamo a narrare un altro bel sogno ch’ebbe Don Bosco nelle notti del 3, 4, 5 aprile 1861. “Varie circostanze, scrisse D. Bonetti, che in quello si ammirano, convinceranno abbastanza il lettore essere uno di quei sogni che il Signore si compiace a quando a quando di mandare a suoi servi fedeli”. Egli e D. Ruffino lo descrissero minutamente, come noi lo esponiamo.

            D. Bosco nella sera del 7 aprile, dopo le orazioni, salì in cattedra per indirizzare qualche buona parola ai suoi giovanetti e cominciò così:
            – Ho qualche cosa a dirvi molto curiosa. Vi voglio raccontare un sogno. Egli è un sogno e perciò non è una realtà. Di ciò vi avviso acciocché non gli diate maggior valore di quello che si merita. Prima di narrarvelo debbo premettere qualche osservazione. Io a voi dico tutto, come desidero che voi diciate tutto a me. Per voi non ho segreti; ma quello che si dice qui non sia propagato di fuori; sia detto e rimanga solo fra noi. Non che sia reo di peccato chi lo raccontasse a persone estranee, ma è meglio che non varchi le soglie di questa casa. Parlatene pure fra di voi, ridete, scherzate su ciò che sono per dirvi, finché vi pare e vi piace; ed anche, ma solo con quelle poche persone, le quali potrete capire che dalla vostra confidenza saranno per ricavarne alcun bene; e alle quali crederete sia conveniente farla. Il sogno è diviso in tre parti: fu fatto in tre notti consecutive e perciò stasera ve ne conterò una parte e le altre due parti nelle sere seguenti. Ciò che mi produsse molta meraviglia si è che io ripresi il sogno, nella seconda e nella terza notte, da quel punto stesso nel quale lo avevo interrotto la notte antecedente nel risvegliarmi.

PARTE PRIMA

            I sogni si fanno dormendo e perciò io dormiva. Alcuni giorni prima mi ero recato fuori di Torino, passando vicino alle colline di Moncalieri. La vista di queste colline già alquanto verdeggianti, mi rimase impressa; e quindi può darsi che nelle notti seguenti dormendo, l’idea di quello spettacolo delizioso venisse di bel nuovo ad affacciarsi alla mia mente, e, lavorando la fantasia nascesse vaghezza di fare una passeggiata. Fatto sta che io sognando, divisai di fare una passeggiata. Mi pareva di essere in mezzo ai miei giovani in una pianura; innanzi ai miei occhi si elevava un alto e vasto colle. Eravamo tutti fermi, quando ad un tratto feci ai giovani la proposta:    – Andiamo a fare una bella passeggiata?
            – Andiamo!
            – Ma dove?
            Ci siamo guardati in faccia, abbiamo pensato, e poi per non so quale stranezza alcuno incominciò a dire:
            – Andiamo in paradiso?
            – Sì, sì! andiamo in paradiso, gridarono gli uni.
            – Sì, sì! andiamo a fare una bella passeggiata in paradiso! replicarono gli altri.
            – Bene, benissimo! andiamo; gridarono tutti d’accordo.
            Eravamo in una pianura e messici in via, dopo qualche tratto di cammino, ecco che ci trovammo ai piedi della collina. Abbiamo incominciato ad andar su per i sentieri di questa. Ma quale spettacolo veramente ammirabile! Quanto il nostro sguardo poteva stendersi, il pendio di quella lunga collina era tutto coperto di piante di ogni specie, tenere e basse, robuste e alte, queste però non più grosse di un braccio. Vi erano piante di pere, di mele, di ciliege, di susine, di vite ecc. ecc. Ma quello che è singolare, sovra una medesima pianta si vedevano fiori che incominciavano a sbocciare, e fiori pienamente formati con vaghi colori: frutti piccoli e verdeggianti e frutti grossi e maturi: dimodoché sopra ciascuna di quelle piante vi era quanto di bello ha la primavera, l’estate, l’autunno. Le frutta erano in tanta quantità, che pareva le piante non potessero sostenerle.
            I giovani venivano da me e mi domandavano curiosamente spiegazione di questo, perché non sapevano rendersi ragione di simile miracolo. Io mi ricordo che, per appagarli in qualche modo, dava loro cotesta risposta:
            – Ecco! Il paradiso non è come la nostra terra, dove si cangiano le temperature e le stagioni. Qui non vi sono cangiamenti; la temperatura è sempre uguale, mitissima, adatta per la vegetazione di ogni pianta. Quindi raccoglie in sé stesso e nel medesimo tempo, tutto il bello e tutto il buono delle varie stagioni dell’anno.
            Noi restavamo estatici osservando quell’incantevole giardino. Spirava un’aria dolce, dolce; nell’atmosfera regnava una calma, un tepore, una soavità di profumi, che ci penetrava tutti e ci persuadeva essere desso confacente ed ogni sorta di frutta. I giovani qua prendevano un pomo, là un pero, ora una ciliegia, ora un grappolo d’uva: e così tutti insieme salimmo lentamente quella collina. Quando giungemmo alla sommità ci credevamo di essere in paradiso; ma invece ne eravamo ben lungi. Da quella vetta, al di là di una grande spianata, in mezzo ad un vasto altipiano, si vedeva un’altissima montagna che toccava le nubi. Su per questa saliva arrampicandosi con stento, ma con grande alacrità, molta gente e sulla cima vi era CHI invitava quei che salivano e faceva loro coraggio. Vedevamo eziandio altri che discendevano dalla sommità fino al basso e venivano ad aiutare coloro, che erano troppo affaticati nel progredire fra quelle rapide balze. Quelli che finalmente giungevano alla meta erano ricevuti con gran festa e giubilo. Tutti noi ci siamo accorti che là, stava il paradiso e scendendo verso l’altipiano movemmo alla volta di quella montagna per vedere e salire anche noi. Già avevamo percorso buon tratto di via: molti giovani correndo, per giungere più presto, precedevano di lungo tratto la moltitudine dei compagni.
            Ma che? Prima di arrivare alle falde della montagna, vi era in quell’altipiano un gran lago pieno di sangue e di una estensione come dall’Oratorio a Piazza Castello. Intorno alle rive di questo giacevano tronconi di mani, di piedi, di braccia, di gambe crani spaccati, corpi squartati ed altre membra lacerate. Miserando spettacolo d’orrore! Sembrava che in questi luoghi fosse stata combattuta una sanguinosissima battaglia! Quei giovani, che correndo arrivarono i primi si arrestarono inorriditi. Io che mi trovavo ancor lontano e di nulla mi ero accorto, osservando i loro gesti di stupore e come più non camminassero e fossero profondamente melanconici, gridai:
            – Che cosa vuol dire questa tristezza? Che cosa c’è? Andate avanti!
            – Sì? Andare avanti? Venga, venga a vedere – Mi rispondevano essi. Affrettai i passi e vidi!! Tutti gli altri giovani sopraggiunti, che pochi istanti prima erano così allegri, diventarono tutti silenziosi e melanconici. Io ritto sulle spiagge del lago misterioso osservava: ma non si poteva passar oltre. In faccia, sulle rive opposte, si leggeva scritto a grandi caratteri: Per sanguinem (per sangue).
            I giovani si domandarono a vicenda:
            – Che cosa è? Che cosa vuol dire questo spettacolo?
            Allora ho interrogato UNO, che ora non mi ricordo più chi fosse, il quale ci disse:
            – Ecco qui vi è il sangue versato da coloro e sono tanti e tanti, che già toccarono la sommità del monte e andarono in paradiso. Questo sangue è quello dei martiri! Qui vi è il sangue di Gesù Cristo dal quale furono bagnati i corpi di coloro che furono uccisi in testimonio della fede. Nessuno può andare in paradiso senza passare per questo sangue e senza esserne asperso. Questo sangue è quello che difende la S. Montagna, figura della Chiesa Cattolica. Chiunque tenterà di assalirla, rimarrà affogato. E appunto tutte queste mani e piedi troncati, quei teschi sfracellati, quelle membra a pezzi, di cui vedete seminate queste rive, sono avanzi miserabili di tutti i nemici, che vollero combattere la Chiesa. Tutti furono fatti a pezzi! Tutti perirono in questo lago! – Quel giovane misterioso nel corso del suo parlare aveva nominati molti martiri, fra i quali enumerò pure i soldati del Papa, caduti sul campo di battaglia per la difesa del dominio temporale.
            Ciò detto additandoci alla nostra destra, verso oriente, in fondo, un immenso vallone molto più grande, un quattro o cinque volte almeno del lago di sangue, soggiunse:
            – Vedete là quel vallone? Sappiate che laggiù si metterà il sangue di coloro, che per questa via avranno da salire su questo monte, il sangue dei giusti, di quei che morranno per la fede nei tempi futuri.
            Io faceva coraggio ai giovani, esterrefatti per ciò che vedevano e ciò che loro veniva annunziato, dicendo: – che se dovessimo morir martiri il nostro sangue sarebbe messo in quel vallone: ma le nostre membra non sarebbero mai state gettate con quelle che là si trovavano.
            Intanto ci affrettammo a rimetterci in marcia e costeggiando quelle sponde, avevamo a sinistra la sommità della collina, per la quale eravamo venuti e alla destra il lago e la montagna. A un certo punto ove terminava il lago di sangue vi era un terreno sparso di querce, allori, palme e di altre piante. Noi ci mettemmo in questo per vedere se ci fosse possibile avvicinarci alla montagna. Ma ecco presentarcisi un altro spettacolo. Un secondo grande lago pieno d’acqua, con dentro altre membra tronche e squartate. Sulla sponda stava scritto a caratteri cubitali: Per aquam (per acqua).
            Di bel nuovo domandavamo:
            – Che è? che non è? Chi ci darà la spiegazione di quest’altro mistero?
            – In questo lago, UNO ci disse, c’è l’acqua uscita dal costato di Gesù Cristo, la quale benché in piccola quantità, pure si è così aumentata, aumenta continuamente, ed aumenterà in futuro. Questa è l’acqua del Santo Battesimo nella quale furono lavati e purificati quelli che già salirono su questo monte, e dalla quale dovranno essere battezzati e purificati quelli, che ancora dovranno ascendere in avvenire. Da questa debbono essere bagnati tutti quelli che vogliono andare in paradiso. Vi si sale o per mezzo dell’innocenza o per mezzo della penitenza. Nessuno può salvarsi senza essere bagnato in quest’acqua.
            Quindi accennando a quella strage prosegui:
            – Quelle membra di morti son di coloro che nel tempo presente assalirono la Chiesa.
            Intanto noi vedevamo molta gente, ed anche alcuni dei nostri giovani, che camminava sopra l’acqua con celerità straordinaria e con una leggerezza tale, che appena toccava l’acqua colla punta dei piedi senza bagnarsi, e si portava all’altra sponda.
            Noi eravamo attoniti per questo portento, ma ci fu detto: Costoro sono i giusti, poiché l’anima dei santi, allorché è sciolta dalla prigione del corpo e anche il corpo quando è glorificato, non solo cammina leggermente e velocemente sopra l’acqua, ma vola sull’aria stessa.
            Tutti i giovani allora desiderarono di correre sulle acque di quel lago, come avevano fatto coloro che avevano visti. Quindi si volgevano a me quasi interrogandomi collo sguardo. Ma nessuno osava ed io diceva ad essi:
            – Per parte mia non oso; è una temerità supporci così giusti, da poter passare su queste acque senza cadervi dentro.
            Allora tutti esclamarono!
            – Se non osa lei tanto meno noi!
            Continuammo ad andare ancora più avanti sempre girando attorno alla montagna ed eccoci ad un terzo lago, vasto come il primo, pieno di fuoco, con entrovi altre membra umane spezzate e tagliate. Si leggeva scritto sulla sponda opposta in un cartello: Per ignem (per fuoco). Mentre noi stavamo osservando quella pianura di fiamme:
            – Qui, ci disse quel tale, c’è il fuoco della carità di Dio e dei santi: le fiamme dell’amore, del desiderio per cui devono passare quelli che non sono passati pel sangue e per l’acqua. Questo è eziandio il fuoco con cui furono dai tiranni tormentati e consumati i corpi di tanti martiri. Molti sono quelli che dovettero passare per questa via per salire alla volta di quella montagna. Queste fiamme serviranno per abbruciare i loro nemici. – Per la terza volta noi vedevamo stritolati i nemici del Signore sul campo delle loro sconfitte!
            Ci affrettammo ad andare più avanti e al di là di questo lago, ve ne era un altro a guisa di grandissimo anfiteatro che presentava una vista ancor più terribile. Era pieno di bestie feroci, lupi, orsi, tigri, leoni, pantere, serpenti, cani, gatti e di tanti altri mostri che stavano colle fauci spalancate per divorar chiunque si avvicinasse. Vedevamo gente camminare sulle loro teste. Alcuni giovani si misero a correre e passeggiavano anch’essi senza paura sulla testa spaventosa di quelle bestie, senza essere menomamente lesi. Io voleva richiamarli e gridava a tutta forza:
            – No! Per carità! Arrestatevi! Non andate avanti! Non vedete che esse stanno là, aspettando per sbranarvi e per divorarvi? – Ma la mia voce non era udita e continuavano a camminare sui denti e sulle teste di quelli animali, come sopra il luogo più sicuro. Il solito interprete allora mi disse: Queste bestie, sono i demoni, i pericoli e le trame del mondo; costoro che passano sopra di esse impunemente sono le anime giuste, sono gli innocenti. E non sai che sta scritto: Super aspidem ei basiliscum ambulabunt ei conculcabunt leonem et draconem? (Calpesterai leoni e vipere, schiaccerai leoncelli e draghi, Ps. 90,13) Di tali anime parlava Davide. E nel Vangelo si legge: Ecce dedi vobis potestatem calcandi supra serpentes et scorpiones, et super omnem virtutem inimici: ti nihil vobis nocebit (Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi, Lc 10,19).
            Ci domandavamo:
            – Come dobbiamo fare per passare di là? Dovremo camminare anche noi su queste orribili teste?
            – Sì, sì! venga, andiamo! mi disse qualcuno.
            – Oh! io non me ne sento coraggio, risposi: è da presuntuoso supporci giusti da poter passare illesi sulle teste di questi mostri feroci. Andate voialtri se volete; io non ci vado.
            Ed i giovani ripeterono:
            – Oh! Se non si sente ella tanto coraggio, tanto meno ci sentiamo noi!
            Allontanatici dal lago delle bestie, abbiamo veduto un vasto terreno tutto gremito di gente. Ma di questi chi era o aveva apparenza di essere, senza naso, chi senza orecchie, chi aveva la testa tagliata: quale mancava di braccia, quale di gambe: questi era senza mani, quegli senza piedi. Agli uni mancava la lingua, agli altri erano stati svelti gli occhi. I giovani erano meravigliati nel vedere tutta questa gente così malconcia, quando UNO ci disse:
            – Sono gli amici di Dio: sono coloro che per salvarsi si mortificarono nei sensi, nelle orecchie, negli occhi, nella lingua e quindi hanno fatte molte opere buone. Molti hanno perdute quelle parti del corpo di cui son privi, per le grandi opere di penitenza, o lavorando per amore di Dio e del prossimo. Quelli della testa tagliata sono coloro che in modo particolare si consacrano al Signore.
            Mentre stavamo considerando queste cose, vedevamo molta gente, parte della quale aveva attraversato i laghi, salire la montagna e ci furono additati altri sulla cima che davano la mano e facevano coraggio a chi saliva; e poi battevano le mani e dicevano:
            – Bravi! Bene! – Al rumore di questi applausi e di queste grida mi svegliai e mi accorsi che era nel mio letto. Questa è la prima parte del sogno, cioè la prima notte.

            La sera dell’8 aprile D. Bosco si presentò ai giovani bramosi di ascoltare la continuazione del sogno. Sulle prime rinnovò la proibizione di mettersi le mani addosso e vietò loro eziandio di muoversi dal posto nella sala di studio e di girare qua e là da una tavola all’altra. Aggiunse ancora:
            – Chi deve uscire dallo studio per qualsivoglia motivo domandi sempre licenza al capo della tavola. – I giovani erano impazienti e D. Bosco sorridendo, dato uno sguardo attorno, dopo breve pausa, proseguì:

PARTE SECONDA

            Tenete bene a mente che vi era un gran lago da riempire ancora di sangue, in fondo ad un vallone vicino al primo lago. Adunque dopo aver visti tutti i vari spettacoli già descritti e terminato il giro di quel vasto altipiano, trovammo che vi era un posto libero per poter passare oltre e ci avanzammo, io e tutti i miei giovani per una valle, che alla sua estremità metteva in una gran piazza. Ci inoltrammo. La piazza era larga e spaziosa nel suo entrare, ma andava restringendosi a poco a poco, in modo che in fondo, vicino alla montagna, terminava in un sentiero fra due rupi, per cui appena poteva passare un uomo solo. Quella piazza era piena di gente contenta e felice che si divertiva; ma tutta tendeva a quello strettissimo passaggio che metteva al monte. Noi ci domandammo l’un l’altro:
            – Che sia quella la via del paradiso?
            Intanto coloro che erano assembrati in quel luogo, uno per volta andavano a passare per quel sentiero e per inoltrarsi dovevano restringere bene e panni e membra, farsi piccoli e deporre, se l’avevano, il fagotto o qualsivoglia altra cosa. Ciò bastò per assicurarmi quella essere la via del paradiso e mi venne in mente che per andare in cielo bisogna non solo spogliarsi del peccato, ma lasciare indietro ogni pensiero, ogni affetto terreno, secondo quello che dice l’Apostolo: Nil coinquinatum intrabit in ea (Non entrerà in essa nulla d’impuro, Ap 21,27). Noi per breve ora stavamo là a guardare. Ma quanto io fui stolto! Invece di tentare quel passaggio, abbiamo voluto tornare indietro per vedere che cosa ci fosse alle spalle di quella piazza. Avevamo vista altra molta gente in distanza ed eravamo spinti da viva curiosità di vedere che cosa facesse. Quindi ci mettemmo per una campagna amplissima il cui estremo confine non poteva essere raggiunto da occhio umano. Là ci siamo trovati in mezzo ad uno strano spettacolo. Vedemmo uomini ed eziandio molti dei nostri giovani aggiogati con varie specie d’animali. Vi erano dei giovani aggiogati con buoi. Pensava: – Che cosa vuol dire ciò? – Allora mi venne in testa che il bue è simbolo della pigrizia e pensai quelli essere i giovani pigri. Li conosceva, li vedeva proprio certi tali che erano inerti, lenti nell’adempimento dei loro doveri e diceva fra me stesso: – Sì! sta lì! Ben ti sta: Non vuoi far mai niente ed ora sta pur lì con quell’animale.
            Vidi poi altri aggiogati con asini. Quelli erano i testardi e così accoppiati portavano pesi o pascolavano cogli asini. Erano coloro che non volevano arrendersi né ai consigli, né ai comandi dei Superiori. Ne vidi altri aggiogati coi muli o coi cavalli e mi venne in mente quello che dice il Signore. Factus est sicut equus et mulus quibus non est intellectus (Non siate come il cavallo e come il mulo privi d’intelligenza Ps 31,9). Erano coloro che non vogliono mai pensare alle cose dell’anima: disgraziati senza cervello!
            Vidi altri i quali pascolavano insieme coi porci: grufolavano nell’immondezza e nella terra come quegli animali schifosi, e come essi si avvoltolavano nel fango. Erano coloro che si pascolano solo di cose terrene, che vivono nelle brutte passioni, che stanno lontani dal Padre Celeste. Oh triste spettacolo! Allora mi venne pure in pensiero quello che dice il Vangelo del figliuol prodigo, che fu ridotto a questo stato luxuriose vivendo (vivere in lussuria).
            Vidi poi in fine moltissima gente e giovani con gatti, cani, galli, conigli, ecc. ecc. ossia i ladri, gli scandalosi, i millantatori, i timidi per rispetto umano e via discorrendo. Da tutta questa varietà di scene ci siamo accorti che quella gran valle era il mondo. Osservai bene tutti quei giovani ad uno ad uno! Da quel posto ci siamo avanzati ancora un poco in un’altra parte eziandio spaziosissima di quell’immensa pianura. Il terreno andava in declivio ma insensibilmente, cosicché discendevamo senza accorgersene.
Vedevamo ad una certa distanza che il terreno sembrava prendesse l’aspetto di un giardino e dicemmo:
            – Andiamo a vedere quello che c’è colà?
            – Andiamo!
            E incominciammo a trovare delle bellissime rose purpuree.
            – Oh le belle rose! oh le belle rose! – gridavano i giovani, e corsero a coglierle. Ma che? Appena le ebbero in mano sentivano che mandavano cattivo odore. Quelle rose tanto vaghe e rosseggianti fuori, dentro poi erano infracidite. I giovani rimasero mortificati. Vedemmo eziandio delle violette freschissime in apparenza, che ci sembrava spandessero buon odore. Ma accostatici a prenderne alcune per formare qualche mazzolino, ci accorgemmo che sotto erano esse pure tutte guaste e puzzolenti.
            Andavamo sempre avanti ed ecco ci siam trovati in mezzo ad incantevoli selvette di alberi, così carichi di frutti che era un piacere il vederli. Specialmente i pometi, oh qual dilettevole apparenza avevano! Un giovane corse tosto e staccò dai rami una grossa pera che non poteva essere più bella e più matura, ma appena ci ebbe piantati dentro i denti, lo gettò sdegnato lungi da sé. Era piena di terra e di sabbia con un gusto che muoveva il vomito.
            – Ma che cosa è mai questo? domandammo.
            Uno dei nostri giovani, e del quale so il nome, ci disse: Questo è tutto il bello e il buono che presenta il mondo? Tutto è apparenza, tutto è insipido!
            Mentre pensavamo dove ci conducesse il nostro sentiero ci accorgemmo finalmente che discendeva, benché appena fosse sensibile quel declivio. Un giovanetto allora osservò:
            – Qui si discende; si va in giù; non andiamo bene!
            – Eh! andiamo a vedere – io risposi.
            Intanto compariva una moltitudine sterminata, che correva per quella strada sulla quale eravamo noi. Erano chi in vettura, chi a cavallo, e chi a piedi. Saltavano, scorrazzavano, cantando, danzando colla musica e molti camminavano al suono dei tamburi. Si faceva una festa ed un tripudio indicibile.
            – Fermiamoci un poco, abbiamo detto: stiamo un poco ad osservare, prima di avviarci con questa gente.
            In quel mentre qualche giovane notò in mezzo a quella folla alcuni, che accompagnavano e sembravano dirigere le singole brigate. Essi erano di bell’aspetto e ben vestiti e di maniere graziose, ma si vedeva che sotto il cappello avevano le corna. Quella gran pianura era adunque il mondo perverso e maligno. Est via quae videtur homini recta, et novissima eius ducunt ad mortem (C’è una via che sembra diritta per l’uomo, ma alla fine conduce su sentieri di morte, Prov. 16, 25). A un tratto UNO ci disse:
            – Ecco come gli uomini vanno all’inferno, quasi senza accorgersene.
            Ciò udito e visto, subito chiamai quei giovani che mi precedevano, i quali si misero a correre verso di me gridando:
            – Noi non vogliamo andare per colà giù. – E continuando tutti sempre correndo a ricalcare la via già fatta, mi lasciarono solo.
            – Sì, avete ragione, io dissi quando li ebbi raggiunti; fuggiamo, e presto di qui, ritorniamo indietro, altrimenti senza che ce ne avvediamo discenderemo noi pure nell’inferno.
            E volevamo tornare a quella piazza dalla quale eravamo partiti e metterci finalmente anche noi per quel sentiero che conduceva alla montagna del paradiso. Ma qual fu la nostra sorpresa quando dopo lungo cammino, non vedemmo più la valle, per la quale si andava al paradiso, ma sebbene un prato e nient’altro. Ci volgevamo da una banda, ci volgevamo dall’altra, ma non riuscivamo ad orizzontarci.
            Chi diceva:
            – Abbiamo sbagliata la strada!
            Chi gridava:
            – No, non abbiamo sbagliato; la strada è questa. – Mentre i vari giovani altercavano e ciascuno voleva sostenere la propria opinione, io mi svegliai.

            Questa è la seconda parte del sono fatto nella seconda notte. Ma prima di ritirarvi, udite ancora questo. Io non voglio che diate peso al mio sogno, ma ricordatevi che i piaceri, i quali menano alla perdizione non sono che apparenti, non hanno che la superficie del bello. Ricordatevi anche di prendervi guardia da quei vizi, che ci rendono così simili alle bestie, da farci meritevoli di essere aggiogati con esse; e specialmente da certi peccati, che ci rendono simili agli immondi animali. Oh quanto è disdicevole per una creatura ragionevole essere messo a paro coi buoi e cogli asini! Quanto più è disdicevole a chi fu creato ad immagine e somiglianza di Dio, e fatto erede del paradiso, l’avvoltolarsi nel fango come porci con quei peccati che la S. Scrittura chiama: Luxuriose vivendo (vivere in lussuria).
            Io non vi accennai che le circostanze principali del mio sogno e queste in breve, perché, a dirlo come fu, sarebbe cosa troppo lunga. Anzi, anche ieri sera non feci che un piccolo cenno di quanto ho veduto. Domani a sera vi racconterò la terza parte.

            Alla sera del sabato 9 aprile D. Bosco continuava le sue descrizioni.

PARTE TERZA

            Non vorrei mai raccontarvi i miei sogni, anzi avantieri, appena ebbi incominciata la mia narrazione, mi sono pentito della mia promessa; ed avrei voluto non aver dato principio all’esposizione di ciò che voi desideravate sapere. Ma debbo dirlo: se taccio, se tengo per me il mio segreto soffro grandemente e raccontandolo ricevo da questo sfogo un grande sollievo, quindi proseguo.
            Prima però devo premettere che nelle sere precedenti, dovetti troncare molte cose, delle quali non era spediente farvi racconto, e tralasciarne anche altre, le quali si possono vedere cogli occhi, ma non si possono esprimere colle parole.
            Contemplate adunque passando, tutte quelle scene già dette, dopo aver visti i diversi luoghi, ed i modi con cui si va all’inferno, noi volevamo ad ogni costo andare in paradiso; ma gira di qua, gira di là ci disviammo sempre a vedere altre cose nuove. Finalmente indovinata la via giungemmo su quella piazza dove era radunata tanta gente che si contendeva di arrivare alla montagna; su quella piazza che pareva così grande, ma terminava in un sentiero piccolo, piccolo tra le due alte rupi. Chi si metteva per questo, uscito appena dalla parte opposta, doveva passare un ponte alquanto lungo, strettissimo e senza ringhiera, sotto il quale si inabissava uno spaventoso precipizio.
            – Oh! Ecco là il luogo che conduce al Paradiso, abbiamo detto; eccolo là; andiamoci! – E ci siamo incamminati alla volta di quello. Alcuni giovani si misero subito a correre lasciandosi indietro i compagni. Io voleva che mi aspettassero, ma essi si erano incapricciati di giungere prima di noi. Giunti però al varco si fermarono spaventati e non osavano inoltrarsi. Io faceva loro coraggio, perché passassero:
            – Avanti, avanti! Che cosa fate?
            – Eh sì, mi rispondevano; venga lei a fare la prova! Fa caldo dover passare per un posto tanto stretto, ed attraverso quel ponte; se sbagliamo un passo, cadiamo in quell’acqua profonda incassata in questo abisso; e nessun più ci vede.
            Ma finalmente qualcuno si avanzò pel primo, un secondo gli tenne dietro e così tutti, uno dopo l’altro, siamo passati al di là e ci trovammo ai piedi della montagna. Ci provammo a salire ma non riuscivamo a trovare alcun sentiero. Andavamo attorno alle falde osservando, ma ci si opponevano mille difficoltà ed impedimenti. In un luogo vi erano sparsi macigni accatastati disordinatamente, in un altro una rupe da sormontare: qui un precipizio, un cespuglio spinoso ci impediva il passo. Ripida dappertutto la salita. Scabrosa adunque era la fatica alla quale andavamo incontro. Tuttavia non ci sgomentammo ed incominciammo ad arrampicarci con ardore. Dopo breve ora di faticosa ascesa, aiutandoci di mani e di piedi, e a vicenda talvolta soccorrendoci, gli ostacoli incominciarono a sparire e ad un certo punto trovammo un sentiero praticabile e potemmo salire più comodamente.
            Quand’ecco arrivammo ad un luogo ove in una parte di quel monte vedemmo molta gente, la quale pativa ma in un modo così orribile, così strano, che tutti restammo compresi di orrore e di compassione. Io non posso dirvi quello che vidi perché vi farei troppa pena e non potreste resistere alla mia descrizione. Nulla dunque vi dirò e andrò avanti.
            Intanto vedevamo un gran numero di altra gente che saliva essa pure, sparsa su per i fianchi del monte e arrivata alla cima, veniva accolta da quelli che la aspettavano, fra grandi feste e prolungati applausi. Udivamo nello stesso tempo una musica veramente celeste, un canto di voci le più dolci e un intreccio di inni i più soavi. Ciò ci incoraggiava maggiormente a continuare su per quell’erta. Camminando io pensava fra me e diceva ai giovani:
            – Ma noi, che vogliamo andare in paradiso, siamo già morti? Ho sempre sentito dire e so che bisogna prima passare al giudizio! E noi siamo già stati giudicati?
            – No, mi rispondevano; noi siamo ancora vivi: al giudizio non siamo ancora andati. – E ridevamo.
            – Comunque sia, ripigliai, o vivi o morti andiamo avanti per vedere ciò che sta lassù: poi qualche cosa sarà. – Ed accelerammo il passo.
            A forza di camminare finalmente giungemmo anche noi quasi alla cima della montagna. Quelli che erano di sopra già stavano pronti a farci delle gran feste ed accoglienze, quando mi volsi indietro per guardare se avessi con me tutti i giovani; ma con vivo dolore mi trovava quasi solo. Di tanti miei piccoli compagni non me ne restava che tre o quattro.
            – E gli altri? – domandai fermando il passo e non poco corrucciato.
            – Oh, mi dissero: si sono fermati chi qua e chi là; forse verranno.
            Io guardai all’ingiù e li vidi sparsi per la montagna che si erano fermati, chi a cercare delle lumache fra i sassi, chi a fare raccolta di alcuni fiori senza odore, chi a prendere frutti selvatici, chi a correre dietro alle farfalle, chi ad inseguire i grilli e chi a riposarsi seduto su qualche gerbido all’ombra di una pianta ecc. ecc. Io mi misi a gridare con quanta voce aveva in gola, mi sbracciava a far lor segni, li chiamava per nome ad uno ad uno, che venissero su presto, che non era quello il tempo da fermarci. Qualcheduno venne, dimodoché erano poi circa otto i giovani intorno a me: tutti gli altri non badavano alle mie chiamate, e non pensavano a venire in su, occupati in quelle loro bazzecole. Ma io non voleva assolutamente andare in paradiso accompagnato da così pochi giovani e perciò determinato di andare io stesso a prendere quei renitenti, dissi a coloro che erano con me: – Io ritorno indietro e vado giù a raccoglierli. Voi altri fermatevi qui.
            E così feci. Quanti ne incontra va scendendo, tanti ne spingeva in su. A questi dava un avviso, a quello un rimprovero amorevole, ad un terzo una solenne sgridata; ad uno un pugno, ad un altro un urtone:
            -Andate su, per carità, mi affannavo a dire: non fermatevi per queste cose da nulla. – E così io venendo in giù, li aveva già avvertiti quasi tutti e mi trovavo sulle balze del monte che avevamo salito con tanto stento. Quivi aveva fermati alcuni che stanchi per la fatica del salire e impauriti dell’altezza da raggiungere, ritornavano al basso. Allora mi rivolsi per ripigliare l’ascesa e ritornare dove erano i giovani. Ma che? Inciampai in una pietra e mi svegliai.

            Eccovi raccontato il sogno, ma desidero da voi due cose: Vi ripeto che non lo raccontiate fuori di casa a nessuna persona estranea, poiché se qualcuno del mondo sentisse queste cose ne riderebbe. Io ve le narro così per divertirvi: raccontatelo fra di voi finché volete, ma intendo che non diate loro altro peso fuori di quello che ad un sogno si conviene. E poi un’altra cosa voglio dirvi; che cioè nessuno venga ad interrogarmi, se esso vi era o non vi era, chi vi fosse e chi no, che cosa faceva, o che cosa non faceva, se eravate fra i pochi ovvero fra i molti, qual posto avevate ecc. ecc.; perché sarebbe un rinnovare la musica di quest’inverno. Ciò potrebbe essere per alcuni più svantaggioso che utile ed io non voglio intorbidare le coscienze.
            Vi dico solo che se il sogno non fosse stato un sogno, ma una realtà e veramente avessimo dovuto morire allora, fra tanti giovani che siamo qui, se ci incamminassimo verso il paradiso, pochissimi vi giungerebbero: fra settecento oppure ottocento e più non sarebbero forse che tre o quattro. Ma a momenti: non vi turbate, intendiamoci: vi spiego questa proposizione così azzardata: dico che non sarebbero che tre o quattro coloro, i quali andrebbero di volo al paradiso, senza passare qualche tempo tra le fiamme del purgatorio. Qualcuno forse vi resterà un minuto solo: altri forse un giorno, altri dei giorni e delle settimane: ma quasi tutti dovrebbero passarvi almeno per un poco. Volete sapere come si fa per evitare il purgatorio? Procurate di acquistare delle indulgenze quanto più potete. Se voi farete quelle pratiche, cui sono annesse, colle dovute disposizioni, se acquisterete un’indulgenza plenaria, andrete di volo al paradiso.

            D. Bosco di questo sogno non diede nessuna spiegazione personale e pratica a ciascuno degli alunni, e ben poche sopra i vari significati degli spettacoli da lui visti. E non era cosa facile. Si trattava, come poi ci riserviamo di provare, di idee in quadri molteplici che ora si succedevano e ora apparivano simultanee, le quali rappresentavano l’Oratorio col suo presente e col suo futuro; tutti i giovani che attualmente erano nella casa e quelli che sarebbero venuti dopo, col loro ritratto morale e le lor sorti avvenire; la Pia Società Salesiana col suo accrescimento, le sue peripezie e le sue fortune; la Chiesa cattolica colle odiose persecuzioni preparate dai suoi nemici, e i trionfi che non le sarebbero mancati: e via via dicendo altri fatti generali o particolari.
            Con tali vastità, intrecci, e confusione di vedute, Don Bosco non poteva, non sapeva esporre per intero ciò che si era spiegato così vivamente innanzi alla sua fantasia; e di molte cose era convenienza e anche dovere che fossero taciute o palesate solo a persone prudenti per le quali poteva essere di conforto o di avviso tale segreto.
            Egli adunque esponendo ai giovani vari sogni dei quali a suo tempo avremo a parlare, sceglieva ciò che loro poteva essere di maggiore utilità, essendo tale l’intento di chi ispirava quelle misteriose rivelazioni. A quando a quando però Don Bosco, per ragione dell’impressione, profonda che ne aveva provato, ed anche per lo studio della scelta, accennava confusamente e di volo ad altri fatti, o cose, o idee talvolta direi incoerenti ed estranee al suo racconto, ma che svelavano essere molto di più ciò che taceva di quello che dicesse.
            Così egli aveva incominciato a fare in questi giorni, descrivendo la sua magnifica passeggiata, e noi cercheremo di brevemente spiegarla, sia con alcune parole di D. Bosco, sia con nostre varie riflessioni, le quali però rimettiamo all’esame dei lettori; e diremo:
            1° La collina che D. Bosco incontra sul principio del suo cammino pare sia l’Oratorio. Su di essa ride una splendida giovinezza di vegetazione. Non vi sono alberi annosi di largo ed alto fusto. In ogni stagione vi si raccolgono fiori e frutti e così è o deve essere l’Oratorio. Questo come tutta l’opera di D. Bosco ha per sostegno la beneficenza, della quale dice l’Ecclesiastico al capo XI, essere dessa come un giardino benedetto da Dio che dà frutti preziosi, frutti d’immortalità, simile al paradiso terrestre ove fra gli altri era l’albero della vita.
            2° Chi saliva sulla montagna deve essere quell’uomo beato descritto nel salmo LXXXIII la cui fortezza è tutta nel Signore. Egli in questa terra, valle di lagrime, ascensiones in corde suo disposuit (decide nel suo cuore il santo viaggio, Ps. 83,6) risoluto di salire continuamente per giungere al tabernacolo dell’Altissimo ossia al cielo. E con esso altri molti. Ed il legislatore Gesù Cristo li benedirà, li ricolmerà di grazie celesti, andranno di virtù in virtù e giungeranno a veder Dio nella beata Sione, e saranno eternamente felici.
            3° I laghi sembrano come il compendio della storia della Chiesa; quelle innumerabili membra spezzate presso le rive appartengono ai persecutori infedeli, agli eretici, agli scismatici e cattivi cristiani ribelli. Da certe parole del sogno s’intende come D. Bosco avesse visti gli avvenimenti presenti ed anche i futuri. “Ad alcuni pochi ed in privato, narra la cronaca, egli parlando di quel vallone vuoto al di là del lago di sangue, disse:
            – Quel vallone deve riempirsi specialmente col sangue dei sacerdoti e può essere anche molto presto.
            È andato D. Bosco, continua la cronaca, in questi giorni a visitare il Cardinale De Angelis. S. Eminenza gli disse:
            – Mi racconti qualche cosa da tenermi allegro.
            – Le racconterò un sogno.
            – Volentieri, sentiamo.
            D. Bosco incominciò a narrargli ciò che sopra abbiamo descritto, però con maggiori particolarità e riflessioni; ma quando fu al lago di sangue il Cardinale si faceva serio e malinconico. Allora D. Bosco troncò il racconto, dicendo:
            – Fin qui!
            – Vada avanti! – gli disse il Cardinale.
            – Fin qui e basta – concluse D. Bosco: e prese a discorrere di fatti ameni”.
            4° La scena che rappresenta lo strettissimo passaggio fra due rupi, il ponticello di legno (che era la croce di Gesù Cristo), la sicurezza di passare oltre in chi è sorretto dalla fede, il pericolo di precipitare nell’avanzarsi senza retto fine, gli ostacoli di ogni genere per giungere ove il sentiero si fa agevole, tutto ciò, se per avventura non siamo in errore, ci indica le vocazioni religiose. Quelli che stavano sulla piazza dovevano essere giovanetti chiamati da Dio a servirlo nella Pia Società. Infatti si nota che la gente la quale aspettava per entrare in quella via che metteva al paradiso era contenta, felice e si divertiva. Ciò caratterizza almeno in gran parte una moltitudine che non era di adulti. Aggiungiamo che nel salire quel monte parte si era fermata, parte ritornava indietro. Non sarebbe il raffreddamento nel seguire la vocazione? D. Bosco diede a questa parte del sogno un significato che indirettamente poteva alludere alla vocazione, ma non credette bene parlarne.
            5° Sul fianco del monte, appena oltrepassati gli ostacoli che si accavallavano alle sue falde, D. Bosco aveva veduto gente che soffriva. “Alcuni lo interrogarono in privato, scrisse D. Bonetti, ed egli rispose:
            – Questo luogo, significava il purgatorio. Se avessi da fare una predica su questo argomento, non farei altro che descrivere quello che vidi. Sono Cose che fanno paura. Dirò solo che, fra i vari generi di supplizi, vidi quelli che erano premuti da torchi, di sotto ai quali si vedevano sporgere le mani, i piedi, il capo; gli occhi loro schizzavano fuori dalle orbite. Erano slombati, stritolati, e mettevano un raccapriccio indescrivibile nel cuore di chi guardava”.

            Aggiungiamo un’ultima ed importante osservazione, la quale serve per questo sogno e per quelli molti, che descriveremo in avvenire. In questi sogni o visioni, per così chiamarle, entra quasi sempre in scena un personaggio misterioso, il quale fa da guida e da interprete a D. Bosco. Chi potrà mai essere?… Ecco la parte più sorprendente è più bella di questi sogni e che D. Bosco, raccontando, riteneva nel segreto del suo cuore.
(MB VI, 864-882)




Strenna 2025. Ancorati alla speranza, pellegrini con i giovani

INTRODUZIONE. ANCORATI ALLA SPERANZA, PELLEGRINI CON I GIOVANI
1. INCONTRO A CRISTO NOSTRA SPERANZA PER RINNOVARE IL SOGNO DI DON BOSCO
1.1 Il Giubileo
1.2 L’anniversario della prima spedizione missionaria salesiana
2. IL GIUBILEO: CRISTO NOSTRA SPERANZA
2.1 Pellegrini, ancorati alla speranza cristiana
2.2 Speranza come cammino verso Cristo, cammino verso la vita eterna
2.3 Caratteristiche della speranza
2.3.1 La speranza, tensione continua, pronta, visionaria e profetica
2.3.2 La speranza è scommessa sul futuro
2.3.3 La speranza non è un fatto privato
3. LA SPERANZA COME FONDAMENTO DELLA MISSIONE
3.1 La speranza è un invito alla responsabilità
3.2 La speranza domanda coraggio alla comunità cristiana nell’evangelizzazione.
3.3 «Da mihi animas»: lo “spirito” della missione
3.3.1 Gli atteggiamenti dell’inviato
3.3.2 Riconoscere, Ripensare e Rilanciare
4. UNA SPERANZA GIUBILARE E MISSIONARIA CHE SI TRADUCE IN VITA CONCRETA E QUOTIDIANA
4.1 La speranza forza nel quotidiano che esige testimonianza
4.2 La speranza è arte della pazienza
5. L’ORIGINE DELLA NOSTRA SPERANZA: DA DIO A DON BOSCO
5.1 Dio è l’origine della nostra speranza
5.1.1 Breve richiamo al sogno
5.1.2 Don Bosco “gigante” della speranza
5.1.3 Caratteristiche della speranza in Don Bosco
5.1.4 I “frutti” della speranza in Don Bosco
5.2 La fedeltà di Dio: fino alla fine
6. CON… MARIA, SPERANZA E PRESENZA MATERNA

INTRODUZIONE. ANCORATI ALLA SPERANZA, PELLEGRINI CON I GIOVANI

Carissime sorelle e fratelli appartenenti ai diversi gruppi della Famiglia Salesiana di don Bosco, vi giunga il saluto più cordiale all’inizio di questo nuovo anno 2025!

Non è senza emozione che mi rivolgo a tutti e a ciascuno in questo tempo di grazia segnato da due importanti avvenimenti per la vita della Chiesa e per quella della nostra Famiglia: il Giubileo dell’anno 2025, iniziato solennemente il 24 dicembre scorso con l’apertura della porta santa della Basilica di San Pietro in Vaticano, e la ricorrenza del 150° anniversario della prima spedizione missionaria voluta dal nostro padre don Bosco, partita l’11 novembre 1875 alla volta dell’Argentina e di altri paesi del continente americano.

Si tratta di due importanti eventi che trovano nella speranza il loro punto di incontro. Infatti, papa Francesco ha indicato esattamente questa virtù come prospettiva nell’indire il Giubileo; allo stesso modo l’esperienza missionaria è foriera di speranza per tutti: per coloro che sono partiti (e partono) e per coloro che sono stati raggiunti dai missionari.

L’anno che ci è donato si presenta, dunque, ricco di spunti per la nostra crescita concreta e quotidiana, affinché la nostra umanità diventi feconda nell’attenzione agli altri… Questo avverrà solo nei cuori che mettono Dio al centro, al punto tale da poter affermare: «Prima di me ho messo te».

In questo mio commento cercherò di mettere in evidenza questi elementi, per approfondire, in chiave carismatica, quanto la Chiesa è invitata a vivere lungo questo anno, e porre l’accento su ciò che per noi, Famiglia di don Bosco, deve guidarci verso nuovi orizzonti.

1. INCONTRO A CRISTO NOSTRA SPERANZA PER RINNOVARE IL SOGNO DI DON BOSCO

Il titolo della Strenna comporta l’intreccio di due eventi: il giubileo ordinario dell’anno 2025 e il 150° anniversario della prima spedizione missionaria inviata da don Bosco in Argentina.

La concomitanza, che oso definire “provvidenziale”, dei due eventi rende il 2025 un anno decisamente straordinario per tutti noi e per i Salesiani di Don Bosco ancora di più. Infatti, nei mesi di febbraio, marzo e aprile ci sarà la celebrazione del Capitolo Generale 29° che porterà, tra le altre cose, all’elezione del nuovo Rettor Maggiore e del nuovo Consiglio generale.

Eventi globali e particolari, quindi, che ci coinvolgono a diverso titolo e che vogliamo vivere con profondità e intensità. Perché è proprio grazie a questi eventi che possiamo sperimentare la gioia di andare incontro a Cristo e l’importanza di rimanere ancorati alla speranza.

1.1 Il Giubileo

«Spes non confundit! La speranza non delude!»[1].

Così papa Francesco ci presenta il Giubileo. Che meraviglia! Che indicazione “profetica”!

Il Giubileo un pellegrinaggio per rimettere al centro della nostra vita e della vita del mondo Gesù Cristo. Perché lui è la nostra speranza. Lui è la Speranza della Chiesa e del mondo intero!

Siamo tutti consapevoli che oggi il mondo ha bisogno di quella speranza che ci mette in relazione con Gesù Cristo e con gli altri fratelli e sorelle. Serve quella speranza che ci rende pellegrini, che ci mette in movimento e che ci fa camminare.

Parliamo della speranza come riscoperta della presenza di Dio. Scrive Papa Francesco: «La speranza ricolmi il cuore!»[2], non solo scaldi il cuore, ma lo riempia, lo riempia in una misura traboccante!

1.2 L’anniversario della prima spedizione missionaria salesiana

E di questa speranza traboccante erano pieni i cuori dei partecipanti alla prima spedizione missionaria Salesiana in Argentina 150 anni fa.

Don Bosco da Valdocco getta il cuore oltre ogni confine, mandando i suoi figli dall’altra parte del mondo! Li manda oltre ogni sicurezza umana, li manda per portare avanti ciò che lui aveva cominciato. Si mette in cammino con gli altri, sperando e infondendo speranza. Li manda e basta e i primi (giovani) confratelli partono e vanno. Dove? Nemmeno loro sanno! Ma si affidano alla speranza, obbediscono. Perché è la presenza di Dio che ci guida.

In quell’obbedienza ricca di entusiasmo trova nuova energia anche la nostra attuale speranza e ci spinge a metterci in cammino come pellegrini.

Ecco perché questo anniversario va celebrato: perché ci aiuta a riconoscere un dono (non una conquista personale, ma un dono gratuito, del Signore), ci permette di ricordare e, dal ricordo, di prendere forza per affrontare e costruire il futuro.

Viviamo quindi, oggi, per rendere possibile questo futuro e facciamolo nell’unico modo che riteniamo grande: condividendo con i giovani e con tutte le persone dei nostri ambienti (cominciando dai più poveri e dimenticati) il viaggio per andare incontro a Cristo nostra sola Speranza.

2. IL GIUBILEO: CRISTO NOSTRA SPERANZA

Giubileo è camminare insieme, ancorati in Cristo nostra speranza. Ma cosa vuol dire davvero?

Riprendo gli elementi della Bolla di indizione del Giubileo 2025 che mettono in evidenza alcune caratteristiche della speranza.

2.1 Pellegrini, ancorati alla speranza cristiana

Siamo convinti che niente e nessuno potrà separarci da Cristo[3]. Perché è a lui che vogliamo e dobbiamo rimanere aggrappati, ancorati. Non possiamo camminare senza la nostra ancora.

L’ancora della speranza è, dunque, Cristo stesso, che porta le sofferenze e le ferite dell’umanità sulla croce in presenza del Padre.

L’ancora, infatti, ha la forma della croce, e per questo veniva raffigurata anche nelle catacombe per simboleggiare l’appartenenza dei fedeli defunti a Cristo Salvatore.

Quest’ancora è già saldamente attaccata al porto della salvezza. Il nostro compito è quello di attaccare la nostra vita ad essa, la corda che lega la nostra nave all’àncora di Cristo.

Noi navighiamo sulle onde agitate del mare e abbiamo bisogno di ancorarci a qualcosa di solido. Ma il compito ormai non è più quello di gettare l’àncora e di fissarla al fondo marino. Il compito è quello di attaccare la nostra nave alla corda che, per così dire, pende dal Cielo, là dove l’àncora di Cristo è saldamente fissata. Attaccandoci a questa corda, ci attacchiamo all’àncora della salvezza e rendiamo la nostra speranza certa.

La speranza è certa quando la barca della nostra vita si attacca a quella corda che ci lega all’àncora che è fissata in Cristo crocifisso che sta alla destra del Padre cioè nella comunione eterna del Padre, nell’amore dello Spirito Santo[4].

Tutto è ben espresso nell’orazione liturgica della solennità dell’Ascensione del Signore:

«Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria»[5].

Lo scrittore e politico ceco Vaclay Havel definisce la speranza come uno stato d’animo, una dimensione dell’anima. Non dipende dall’osservazione preventiva del mondo, non si tratta di una previsione.

Byung-Chul Han aggiunge: “La speranza è un orientamento del cuore che trascende il mondo immediato dell’esperienza, è un ancoraggio da qualche parte oltre all’orizzonte.

Le radici della speranza si trovano dentro il trascendente: ecco perché non è la stessa cosa avere Speranza o essere soddisfatto perché le cose vanno bene. Potremmo pensare che sperare sia semplicemente voler sorridere alla vita perché lei a sua volta ti sorrida e invece no, dobbiamo andare più a fondo, dobbiamo percorrere quella corda che ci porta verso l’ancora.

La speranza è la capacità di ognuno di noi di lavorare per qualcosa perché è giusto farlo, non perché quel qualcosa avrà un successo garantito. Potrebbe essere un fallimento, potrebbe andar male: noi non speriamo vada bene, non siamo ottimisti. Lavoriamo perché questo accada. Ecco perché la speranza non è uguale all’ottimismo. La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene ma la certezza che qualcosa ha senso indipendentemente dal suo risultato.

Fare qualcosa perché ha senso: ecco, in questo consiste la speranza che presuppone dei valori e presuppone la fede.

È questo che le dà la forza per vivere, e ci dà la forza per provare qualcosa ancora e ancora, anche nella disperazione[6].”

Ma come si può camminare restando ancorati? L’ancora ti zavorra, ti frena, ti fissa. Dove porta questo cammino? Porta all’eternità.

2.2 Speranza come cammino verso Cristo, cammino verso la vita eterna

La promessa di vita eterna, proprio per come è fatta a ciascuno di noi, non scavalca il cammino della vita, non è un salto in alto, non propone di salire su un razzo che si stacca da terra e vola nello spazio lasciando a terra la strada, la polvere del cammino, né lascia andare la nave alla deriva in mezzo al mare senza di noi.

Questa promessa è appunto un’ancora che si fissa nell’eterno, ma alla quale rimaniamo attaccati da una corda che viene a rendere salda la nave che attraversa il mare. Ed è proprio il fatto che essa è fissata in Cielo che permette alla nave di non rimanere ferma in mezzo al mare, ma di avanzare attraverso i flutti.

Se l’ancora di Cristo fissasse l’uomo al fondo del mare, tutti noi rimarremmo fermi dove siamo, magari tranquilli, senza problemi, ma fermi, senza viaggiare, senza andare avanti. Invece, proprio l’ancoraggio della vita al Cielo fa sì che la promessa che suscita la nostra speranza non arresta il cammino, non dà la sicurezza di un rifugio nel quale rinchiuderci e arrestarci, ma dona a noi una certezza nel camminare e nel continuare il cammino. La promessa di una meta certa, già raggiunta per noi da Cristo, rende saldo e deciso ogni passo nel cammino della vita.

È importante intendere il Giubileo come pellegrinaggio, come invito a mettersi in movimento, ad uscire da sé per andare verso Cristo.

Giubileo, allora, è da sempre sinonimo di cammino. Se desideri veramente Dio ti devi muovere, devi camminare. Perché il desiderio di Dio, la nostalgia di Dio ti muove per trovarLo e, contemporaneamente, conduce a ritrovare te stesso e gli altri.

«Siamo nati e non moriremo mai più»[7].

È bello e significativo il titolo della biografia della serva di Dio Chiara Corbella Petrillo. Sì, perché il nostro venire al mondo è orientato alla vita eterna. La vita eterna è una promessa che sfonda la porta della morte, aprendoci al “faccia a faccia con Dio”, per sempre. La morte è una porta che si chiude e allo stesso tempo un portone che si spalanca all’incontro definitivo con Dio!

Sappiamo quanto vivo in Don Bosco sia stato il desiderio del Cielo, proposto e condiviso gioiosamente con i giovani dell’Oratorio.

2.3 Caratteristiche della speranza

2.3.1 La speranza, tensione continua, pronta, visionaria e profetica

Gabriel Marcel[8], il cosiddetto filosofo della speranza ci insegna che la speranza si trova nel tessuto di un’esperienza continua, sperare significa dare credito ad una realtà in quanto portatrice di futuro.

Eric Fromm[9] scrive che la speranza non è un’attesa passiva, bensì una tensione continua, costante. È come una tigre, accovacciata che salta solo quando è il momento preciso.

Avere speranza è essere vigili in ogni momento, per ogni cosa che ancora non è successa. Speravano le vergini che attendevano lo sposo con le lampade accese, sperava don Bosco di fronte alle difficoltà e si inginocchiava a pregare.

La speranza è pronta nel momento in cui ogni cosa sta in procinto di nascere.

È vigile, attenta, in ascolto, in grado di guidare nel creare qualcosa di nuovo, nel dar vita al futuro in terra.

Per questo è “visionaria e profetica”. Focalizza la nostra attenzione verso ciò che non è ancora, è colei che aiuta a partorire qualcosa di nuovo.

2.3.2 La speranza è scommessa sul futuro

Senza speranza non c’è rivoluzione, né futuro, c’è solo un presente fatto di sterile ottimismo.

Spesso si pensa che chi spera sia un ottimista mentre il pessimista sia essenzialmente il suo opposto. Non è così. È importante non confondere la speranza con l’ottimismo. La speranza è molto più profonda, perché non dipende da umori, sensazioni o sentimentalismi. L’essenza dell’ottimismo è la positività innata. L’ottimista vive convinto che in qualche modo le cose miglioreranno. Per un ottimista il tempo è chiuso, non contempla il futuro: tutto andrà bene e basta.

Paradossalmente anche per il pessimista il tempo è chiuso: si ritrova intrappolato nel presente come in una prigione, nega tutto senza avventurarsi in altri mondi possibili. Il pessimista è testardo quanto l’ottimista, entrambi sono ciechi alle possibilità, perché il possibile gli risulta alieno, manca loro la passione per il possibile.

A differenza di entrambi la speranza scommette su quello che può andare oltre su quello che potrebbe essere.

E ancora, l’ottimista (così come il pessimista), non agisce, perché ogni azione comporta un rischio e dal momento che non vuole correre questo rischio, è fermo, non vuole fare esperienza del fallimento.

La speranza invece si muove per cercare, tenta di trovare una direzione, si dirige verso ciò che non conosce, fa rotta verso cose nuove. Questo è il pellegrinare di un cristiano.

2.3.3 La speranza non è un fatto privato

Tutti noi portiamo nel cuore delle speranze. Non è possibile non sperare, ma è anche vero che ci si può illudere, considerando prospettive e ideali che non si realizzeranno mai, che sono solo delle chimere e specchietti per le allodole.

Molto della nostra cultura, specialmente occidentale, è piena di false speranze che illudono e distruggono o possono rovinare irrimediabilmente l’esistenza di singoli e di intere società.

Secondo il pensiero positivo basta sostituire i pensieri negativi con altri positivi per vivere più felici. Attraverso questo semplice meccanismo gli aspetti negativi della vita vengono omessi completamente e il mondo appare come un mercato di Amazon che ci fornirà qualunque cosa vogliamo grazie al nostro atteggiamento positivo.

Conclusione, se bastasse la nostra volontà di pensare positivamente per essere felice, allora ognuno sarebbe l’unico responsabile della propria felicità.

Paradossalmente, il culto alla positività isola le persone, le rende egoiste e distrugge l’empatia, perché le persone sono sempre più impegnate solo con sé stesse e non si interessano della sofferenza degli altri.

La speranza a differenza del pensiero positivo non evita la negatività della vita, non isola ma unisce e riconcilia, perché il protagonista della Speranza non sono io, focalizzato sul mio ego, trincerato esclusivamente su me stesso, il segreto della Speranza siamo noi.

Per questo, sorelle alla Speranza sono l’Amore, la Fede e la Trascendenza.

3. LA SPERANZA COME FONDAMENTO DELLA MISSIONE

3.1 La speranza è un invito alla responsabilità

La speranza è un dono e, come tale, va trasmesso a chiunque incontriamo lungo la nostra strada.

San Pietro lo afferma chiaramente: «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi»[10]. Ci invita a non aver paura, ad agire nella quotidianità, a rendere ragione – quanto spirito salesiano in questa parola “ragione”! – della speranza. È questa una responsabilità per il cristiano. Se siamo donne e uomini di speranza, si vede!

«Rendere ragione della speranza che è in noi», diventa annuncio della “buona novella” di Gesù e del suo Vangelo.

Ma perché è necessario rispondere a chiunque ci chieda conto della speranza che è in noi? E perché sentiamo il bisogno di ritrovare speranza?

Nella Bolla di indizione del Giubileo Spes non confundit, Papa Francesco ricorda che «tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti»[11].

Un’osservazione che colpisce perché descrive tutta la tristezza che si respira nelle nostre società e nelle nostre comunità. È una tristezza mascherata di falsa gioia, quella che costantemente ci viene annunciata, promessa e assicurata dai media, dalla pubblicità, dalla propaganda dei politici, da tanti falsi profeti del benessere. Accontentarsi del benessere ci impedisce di aprirci a un bene ben più grande, ben più vero, ben più eterno: quello che Gesù e gli apostoli chiamano “la salvezza dell’anima, la salvezza della vita”; un bene per il quale Gesù ci invita a non temere di perdere la vita, i beni materiali, le false sicurezze che spesso crollano in un istante.

Su queste “domande”, più o meno espresse (anche dai giovani), abbiamo il compito di «rendere ragione». Cosa desidero per i giovani e per tutte le persone che incontro sul mio cammino? Cosa vorrei chiedere a Dio per loro? Come vorrei che cambiasse la loro vita?

Esiste solo una risposta: la vita eterna. Non solo la vita eterna come uno stato sublime che possiamo raggiungere dopo la morte, ma la vita eterna possibile qui e ora, la vita eterna come la definisce Gesù̀: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo»[12], cioè una vita definita, illuminata dalla comunione con Cristo e, tramite Lui, con il Padre.

E a noi spetta il compito di accompagnare le generazioni più giovani in questo cammino verso la vita eterna, nell’azione educativa che ci contraddistingue. Un’azione che per noi Famiglia Salesiana è una missione. E cosa muove questa nostra missione? Sempre Cristo, nostra speranza.

La missione educativa, infatti, ha al centro la speranza.

In definitiva, la speranza di Dio non è mai speranza solo per sé. È sempre speranza per altri: non ci isola, ci rende solidali e ci stimola a educarci reciprocamente alla verità e all’amore.

3.2 La speranza domanda coraggio alla comunità cristiana nell’evangelizzazione.

Coraggio e speranza sono un abbinamento interessante. Infatti, se è vero che è impossibile non sperare, è altrettanto vero che per sperare è necessario il coraggio. Il coraggio nasce dall’avere lo stesso sguardo di Cristo, capace di sperare contro ogni speranza[13], di vedere soluzione anche là dove apparentemente sembrano non esserci vie d’uscita. E quanto è “salesiano” questo atteggiamento!

Tutto ciò richiede il coraggio di esser se stessi, di riconoscere la propria identità nel dono di Dio e investire le proprie energie in una responsabilità precisa. Consapevoli del fatto che, ciò che ci è stato affidato, non è nostro, e che abbiamo il compito di trasmetterlo alle prossime generazioni. Questo è il cuore di Dio questa è la vita della Chiesa.

Un atteggiamento che ritroviamo nella prima spedizione missionaria.

Ritengo molto utile il riferimento all’art. 34 delle Costituzioni dei Salesiani di Don Bosco: esso mette in evidenza ciò che sta al cuore del nostro movimento carismatico e apostolico. Suggerisco a ciascuno dei gruppi della nostra articolata e bella Famiglia di riprendere gli stessi elementi che qui offro, rileggendo le rispettive Costituzioni e Statuti.

L’articolo ha come titolo: Evangelizzazione e catechesi e recita così:

«“Questa società nel suo principio era un semplice catechismo”. Anche per noi l’evangelizzazione e la catechesi sono la dimensione fondamentale della nostra missione.

Come don Bosco, siamo chiamati tutti e in ogni occasione a esser educatori alla fede. La nostra scienza più eminente è quindi conoscere Gesù Cristo e la gioia più profonda è rivelare a tutti le insondabili ricchezze del suo mistero.

Camminiamo con i giovani per condurli alla persona del Signore risorto, affinché, scoprendo in Lui e nel suo Vangelo il senso supremo della propria esistenza, crescano come uomini nuovi.

La Vergine Maria è una presenza materna in questo cammino. La facciamo conoscere e amare come Colei che ha creduto, aiuta ed infonde speranza».

Questo articolo rappresenta il cuore pulsante che delinea bene, anche per questa Strenna, quali siano le energie e le opportunità come compimento e attualizzazione del “sogno globale” che Dio ha ispirato a Don Bosco.

Se vivere il Giubileo è anzitutto fare in modo che Gesù sia e torni ad essere al primo posto, lo spirito missionario è la conseguenza di questo riconosciuto primato, che, rafforza la nostra speranza e si traduce in quella carità educativa e pastorale che fa annunciare a tutti la persona di Gesù Cristo. Questo è il cuore dell’evangelizzazione e caratterizza l’autentica missione.

È significativo richiamare l’inizio della prima enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est:

«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»[14].

Quindi, prioritario e fondamentale è l’incontro con Cristo, non la “semplice” diffusione di una dottrina, ma una profonda esperienza personale di Dio che spinge a comunicarLo, a farLo conoscere e sperimentare diventando veri “mistagoghi” della vita dei giovani.

3.3 «Da mihi animas»: lo “spirito” della missione

Don Bosco teneva sempre davanti agli occhi una frase che i giovani potevano leggere passando davanti alla sua camera, un’espressione che colpì particolarmente Domenico Savio: «Da mihi animas cetera tolle».

C’è un fondamentale equilibrio che unisce, in questo motto, le due priorità che hanno guidato la vita di don Bosco – e che significativamente chiamiamo “grazia di unità” – che ci consentono di salvaguardare sempre l’interiorità e l’azione apostolica.

Se nel cuore mancasse l’amore di Dio come potrà esserci vera carità pastorale? E allo stesso tempo, se l’apostolo non scoprisse il volto di Dio nel prossimo, come si potrebbe dire che ama Dio?

Il segreto di don Bosco è quello di aver vissuto personalmente l’unico «movimento di carità verso Dio e verso i fratelli»[15] che caratterizza lo spirito salesiano.

3.3.1 Gli atteggiamenti dell’inviato

Due i sogni-chiave della vita di Don Bosco, nei quali sono evidenti gli atteggiamenti dell’apostolo, di colui che è inviato:

  • il “sogno dei nove anni” nel quale a Giovannino Gesù e Maria chiedono di rendersi umile, forte e robusto con l’obbedienza e la scienza, raccomandandogli sempre la bontà per conquistare il cuore dei giovani e tenendo sempre Maria come maestra e guida;
  • il “sogno del pergolato di rose” che indica la “passione” nella vita salesiana che richiede di avere le “buone scarpe” della mortificazione e della carità.

3.3.2 Riconoscere, Ripensare e Rilanciare

Celebrare il 150° anniversario della prima spedizione missionaria di don Bosco rappresenta un grande dono per

  • Riconoscere e ringraziare Dio.

La riconoscenza rende palese la paternità di ogni bella realizzazione. Senza riconoscenza non c’è capacità di accogliere. Tutte le volte che nella nostra vita personale ed istituzionale non riconosciamo un dono, rischiamo seriamente di vanificarlo e di “impadronircene.

  • Ripensare, perché “nulla è per sempre”.

La fedeltà comporta la capacità, di cambiare nell’obbedienza, verso una visione che viene da Dio e dalla lettura dei “segni dei tempi”. Nulla è per sempre: dal punto di vista personale e istituzionale la vera fedeltà è la capacità di cambiare, riconoscendo in cosa il Signore chiama ciascuno di noi.

Ripensare, allora, diventa un atto generativo, in cui si uniscono fede e vita; un momento nel quale chiedersi: cosa vuoi dirci Signore con questa persona, con questa situazione alla luce dei segni dei tempi che, per esser letti, chiedono di avere il cuore stesso di Dio?

  • Rilanciare, ricominciare ogni giorno.

La riconoscenza porta a guardare lontano e ad accogliere le nuove sfide, rilanciando la missione con speranza. Missione è portare la speranza di Cristo con la consapevolezza lucida e chiara, legata alla fede, che fa riconoscere che quanto vedo e vivo “non è roba mia”.

4. UNA SPERANZA GIUBILARE E MISSIONARIA CHE SI TRADUCE IN VITA CONCRETA E QUOTIDIANA

4.1 La speranza forza nel quotidiano che esige testimonianza

San Tommaso D’Aquino scrive: «Spes introducit ad caritatem»[16], la speranza prepara e predispone alla carità la nostra vita, la nostra umanità. Una carità che è anche giustizia, azione sociale.

La speranza ha bisogno della testimonianza. Siamo al cuore della missione, perché la missione non è fare cose, prima di tutto, ma è testimonianza di colui che ha vissuto un’esperienza e la racconta. Il testimone è portatore di una memoria, sollecita domande a chi lo incontra, porta stupore.

La testimonianza della speranza richiede una comunità, è opera di un soggetto collettivo ed è contagiosa, come è contagiosa la nostra umanità, perché la testimonianza è legame con il Signore.

La speranza nella testimonianza della missione è da costruire di generazione in generazione, tra adulti e giovani: questa è via di futuro. Nella nostra cultura il consumismo mangia il futuro, l’ideologia del consumo spegne tutto nel “qui ed ora”, nel “tutto e subito”. Il futuro però non puoi consumarlo, non puoi appropriarti di quanto è altro da te, non puoi appropriarti dell’altro[17].

Nella costruzione del futuro la speranza è la capacità di promettere e di mantenere le promesse… cosa splendida e rara nel nostro mondo. Promettere è sperare, mettere in movimento, per questo – come detto – la speranza è cammino, è l’energia stessa del cammino.

4.2 La speranza è arte della pazienza

Ogni vita, ogni dono, ogni cosa, per crescere, ha bisogno di tempo. Così anche i doni di Dio, richiedono tempo per maturare. Ecco perché nella nostra epoca in cui, tutto e subito, nel nostro “consumare” il tempo e la vita, ci è chiesto di dare fiato e forza alla virtù della pazienza: perché la speranza si realizza nella pazienza[18]. Speranza e pazienza, infatti, sono intimamente collegate.

La speranza comporta la capacità di saper aspettare, di attendere la crescita, quasi a dire che “una virtù tira l’altra”!

Affinché la speranza divenga realtà, si manifesti in senso compiuto, occorre pazienza. Nulla si manifesta in modo miracolistico, perché tutto è sottomesso alla legge del tempo. La pazienza è l’arte del contadino che semina e sa aspettare che il seme gettato cresca e porti frutto.

La speranza inizia in noi come attesa, e si esercita come attesa vissuta coscientemente nella nostra umanità. L’attesa è una dimensione molto importante dell’esperienza umana. L’uomo sa attendere, l’uomo è sempre in una dimensione di attesa, perché è la creatura che vive nel tempo in modo cosciente.

L’attesa umana è la vera misura del tempo, una misura che non è numerica, non è cronologica. Noi ci siamo abituati a calcolare l’attesa, a dire che abbiamo aspettato un’ora, che il treno è in ritardo di cinque minuti, che Internet ci ha fatto attendere quattordici interminabili secondi prima di rispondere al nostro clic, ma quando la misuriamo così, snaturiamo l’attesa, ne facciamo una cosa, un fenomeno staccato da noi stessi e da ciò che attendiamo. È come se l’attesa fosse qualcosa a sé, in sé, senza relazione. Invece l’attesa – siamo al punto cruciale – è relazione, è una dimensione del mistero della relazione.

Solo chi ha speranza, ha pazienza. Solo chi ha speranza diventa capace di “sopportare”, di “sostenere dal basso” le differenti situazioni che l’esistenza presenta. Chi sopporta attende, spera, e riesce a sopportare tutto, perché la sua fatica ha il senso dell’attesa, ha la tensione dell’attesa, l’energia amante dell’attesa.

Sappiamo che il richiamo alla pazienza e all’attesa comportano, a volte, l’esperienza della fatica, del lavoro, del dolore e della morte[19]. Ebbene, fatica, dolore e morte smascherano l’illusione di possedere il tempo, il senso del tempo, il valore del tempo, il senso e il valore della nostra vita. Sono esperienze negative, ma anche positive, perché la fatica, il dolore e la morte possono essere occasioni per ritrovare il vero senso del tempo della vita.

E, ancora una volta, «rendere ragione della speranza che è in noi», diventando annuncio della “buona novella” di Gesù e del suo Vangelo.

5. L’ORIGINE DELLA NOSTRA SPERANZA: DA DIO A DON BOSCO

Don Egidio Viganò ha offerto alla Congregazione e alla Famiglia Salesiana un’interessante riflessione sul tema della speranza, attingendo alla nostra ricchissima tradizione ed evidenziando alcuni caratteri specifici dello spirito salesiano letti alla luce di questa virtù teologale. In modo particolare fece questo, commentando, per le partecipanti al Capitolo Generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, il sogno dei dieci diamanti di don Bosco[20].

Vista la profondità dei contenuti proposti, mi pare utile ricordare il contributo del VII Successore di don Bosco per richiamare alla nostra memoria ciò che, sempre nella prospettiva della speranza, siamo tutti chiamati a vivere.

5.1 Dio è l’origine della nostra speranza

5.1.1 Breve richiamo al sogno

È a tutti nota la narrazione di questo straordinario sogno che don Bosco ebbe a San Benigno Canavese la notte tra il 10 e l’11 settembre 1881. Ne richiamo sinteticamente la struttura.[21]

Il Sogno si svolge in tre scene. Nella prima il Personaggio incarna il profilo del salesiano: nel lato anteriore del suo manto presenta cinque diamanti, tre sul petto, che sono «Fede» «Speranza» e «Carità», e due sulle spalle, che sono «Lavoro» e «Temperanza»; nel lato posteriore presenta altri cinque diamanti, che indicano «Obbedienza» «Voto di Povertà» «Premio» «Voto di Castità» «Digiuno».

Don Rinaldi definisce questo Personaggio coi dieci diamanti: «Il modello del vero Salesiano».

Nella seconda scena il Personaggio mostra l’adulterazione del modello: il suo manto «era divenuto scolorato, tarlato e sdruscito. Nel sito dove stavano fissi i diamanti eravi invece un profondo guasto cagionato dal tarlo e da altri piccoli insetti».

Questa scena tanto triste e deprimente mostra «il rovescio del vero salesiano», l’antisalesiano.

Nella terza scena appare «un avvenente giovanetto vestito di abito bianco lavorato con fili d’oro e d’argento [… dall’] aspetto maestoso, ma dolce ed amabile». Egli è portatore di un messaggio. Esorta i Salesiani ad «ascoltare», a «intendere», a mantenersi «forti e animosi», a «testimoniare» con le parole e con la vita, ad «essere oculati» nell’accettazione e nella formazione delle nuove generazioni, a far crescere sanamente la loro Congregazione.

Le tre scene del sogno sono vivaci e provocatorie; ci presentano una sintesi agile, personalizzata e drammatizzata della spiritualità salesiana. Il contenuto del sogno comporta certamente, nella mente di Don Bosco, un importante quadro di riferimento per la nostra identità vocazionale.

Ebbene, il personaggio del sogno – come noto – porta sulla parte frontale il diamante della speranza, che sta a segnalare la certezza dell’aiuto dall’alto in una vita tutta creativa, impegnata cioè a progettare quotidianamente delle attività pratiche per la salvezza, soprattutto della gioventù. Insieme agli altri simboli legati alle virtù teologali, emerge la fisionomia di una persona saggia e ottimista per la fede che lo anima, dinamica e creativa per la speranza che lo muove, sempre orante e umanamente buono per la carità che lo permea.

In corrispondenza al diamante della speranza, sul retro della figura troviamo il diamante del “premio”. Se la speranza mette in luce visibilmente il dinamismo e l’attività del salesiano nella costruzione del Regno, la costanza dei suoi sforzi e l’entusiasmo del suo impegno si fondano sulla certezza dell’aiuto di Dio, reso presente dalla mediazione e dall’intercessione di Cristo e di Maria, il diamante del “premio” sottolinea piuttosto un atteggiamento costante della coscienza che permea ed anima tutto lo sforzo ascetico, secondo la familiare massima di don Bosco: «Un pezzo di paradiso aggiusta tutto!»[22].

5.1.2 Don Bosco “gigante” della speranza

Il salesiano – diceva Don Bosco – «è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime»[23]; il sostegno interiore di questa esigente capacità ascetica è il pensiero del paradiso come riflesso della buona coscienza con cui lavora e vive. «In ogni nostro ufficio, in ogni nostro lavoro, pena o dispiacere, non dimentichiamo mai che […] Egli tiene minutissimo conto di ogni più piccola cosa fatta pel suo santo nome, ed è di fede, che a suo tempo ci compenserà con abbondante misura. In fin di vita, quando ci presenteremo al suo divin tribunale, mirandoci con volto amorevole, Egli ci dirà: “Bene, servo buono e fedele; perché nel poco sei stato fedele, ti farò padrone del molto; entra nel gaudio del tuo Signore” (Mt 25,2l)»[24]. «Nelle fatiche e nei patimenti non dimenticare mai che abbiamo un gran premio preparato in cielo»[25]. E quando il nostro Padre dice che il salesiano stremato dal troppo lavoro rappresenta una vittoria per tutta la Congregazione, sembra suggerire addirittura una dimensione di fraterna comunione nel premio, quasi un senso comunitario del paradiso!

Il pensiero e la coscienza continua del paradiso sono una delle idee sovrane e uno dei valori di spinta della tipica spiritualità e anche della pedagogia di Don Bosco. È come un far luce e un approfondire l’istinto fondamentale dell’anima che tende vitalmente al proprio fine ultimo.

In un mondo soggetto alla secolarizzazione e alla progressiva perdita del senso di Dio – specialmente a causa del benessere e di certo progresso – è importante resistere alla tentazione – per noi e per i giovani con i quali camminiamo – che ci impedisce di alzare lo sguardo verso il Paradiso e non ci fa sentire il bisogno di sostenere e nutrire un impegno di ascesi vissuto nel lavoro quotidiano. Al suo posto va crescendo uno sguardo temporale, secondo un più o meno elegante orizzontalismo, che crede di saper scoprire l’ideale di tutto all’interno stesso del divenire umano e nella vita presente. Tutto il contrario della speranza!

Don Bosco è stato uno dei grandi della speranza. Ci sono tanti elementi per dimostrarlo. Il suo spirito salesiano è tutto permeato dalle certezze e dall’operosità caratteristiche di questo dinamismo audace di Spirito Santo.

Mi soffermo brevemente a ricordare come don Bosco abbia saputo tradurre nella sua vita l’energia della speranza sui due versanti: l’impegno per la santificazione personale e la missione di salvezza per gli altri; o meglio – e qui risiede una caratteristica centrale del suo spirito – la santificazione personale attraverso la salvezza degli altri. Ricordiamo la famosa formula delle tre “S”: «Salve, salvando salvati»[26]. Sembra un gioco mnemonico detto così semplicemente, a mo’ di slogan pedagogico, ma è profondo e indica come i due versanti della santificazione personale e della salvezza del prossimo siano strettamente legati tra loro.

Nel binomio “lavoro” e “temperanza” si percepisce che la speranza è stata vissuta da Don Bosco come progettazione pratica e quotidiana di un’instancabile operosità di santificazione e di salvezza. La sua fede lo porta a prediligere, nella contemplazione del mistero di Dio, il suo ineffabile disegno di salvezza. Vede nel Cristo il Salvatore dell’uomo e il Signore della storia; in sua Madre, Maria, l’Ausiliatrice dei cristiani; nella Chiesa, il grande Sacramento della salvezza; nella propria maturazione cristiana e nella gioventù bisognosa, il vasto campo del «non-ancora». Perciò il suo cuore erompe nel grido: «Da mihi animas», Signore concedimi di salvare la gioventù e toglimi pure il resto! La sequela del Cristo e la missione giovanile si fondono, nel suo spirito, in un unico dinamismo teologale che costituisce la struttura portante del tutto.

Sappiamo bene che la dimensione della speranza cristiana coniuga la prospettiva del “già” e del “non ancora”: qualcosa di presente e qualcosa in divenire che, tuttavia, a partire dall’oggi comincia a manifestarsi anche se “non ancora” in pienezza.

5.1.3 Caratteristiche della speranza in Don Bosco

La certezza del “già”

Quando noi domandiamo alla teologia qual è l’oggetto formale della speranza, ci risponde che è l’intima convinzione della presenza di Dio che aiuta, che soccorre e assiste; la certezza interiore circa la potenza dello Spirito Santo; l’amicizia con Cristo vittorioso che ci fa dire con San Paolo: «Tutto posso in Colui che mi dà forza» (Fil 4,13).

Il primo elemento costitutivo della speranza è, dunque, la certezza del «già». La speranza stimola la fede a esercitarsi nella considerazione della presenza salvatrice di Dio nelle vicissitudini umane, della potenza dello Spirito nella Chiesa e nel mondo, della regalità di Cristo sulla storia, dei valori battesimali che in noi hanno iniziato la vita della risurrezione.

Il primo elemento costitutivo della speranza è, perciò, un esercizio della fede sull’essenza di Dio come Padre misericordioso e salvatore, su ciò che ha già fatto Gesù Cristo per noi, sulla Pentecoste come inizio dell’epoca dello Spirito Santo, su ciò che c’è già dentro di noi per il Battesimo, per i sacramenti, per la vita nella Chiesa, per l’appello personale della nostra vocazione.

Occorre riflettere che fede e speranza si interscambiano in noi, i loro dinamismi si stimolano e si completano a vicenda e ci fanno vivere nel clima creativo e trascendente della potenza dello Spirito Santo.

La chiara coscienza del “non-ancora”

Il secondo elemento costitutivo della speranza è la coscienza del «non-ancora». Non sembra molto difficile averla; però la speranza esige una chiara coscienza non tanto di ciò che è male e ingiusto, quanto di ciò che manca alla statura di Cristo nel tempo, e, quindi, di ciò che è ingiusto e peccato e anche di ciò che è immaturo, parziale o rachitico nella costruzione del Regno.

Ciò suppone, come quadro di riferimento, una chiara conoscenza del progetto divino di salvezza, su cui s’innesta la capacità critica e di discernimento da parte di colui che spera. Così la critica dell’uomo di speranza non è semplicemente psicologica o sociologica, ma trascendente, secondo l’orbita teologale della «nuova creatura»; si serve anche degli apporti delle scienze umane, e di gran lunga le oltrepassa.

Con la coscienza del «non-ancora», chi spera percepisce ciò che è male, ciò che non è ancora maturo, ciò che è seme in ordine al Regno di Dio e s’impegna per far crescere il bene e per combattere il peccato con la prospettiva storica di Cristo. La capacità di discernimento del «non-ancora» è misurata sempre dalla certezza del «già». Quindi e direi soprattutto nei tempi difficili, chi spera spinge e stimola la sua fede a scoprire i segni della presenza di Dio e le mediazioni che ci guidano nell’orbita da Lui tracciata. È questa una qualità molto importante oggi: saper individuare i semi per aiutarli a schiudersi e a crescere.

Come si fa a sperare se non c’è questa capacità di discernimento? Non basta saper percepire tutto il peso del male, bisogna essere sensibili anche alla primavera «che brilla d’intorno». Quindi in questi tempi, che noi diciamo difficili (e lo sono realmente, paragonandoli con quelli che abbiamo vissuto prima di una certa tranquillità), la speranza ci aiuta a percepire che c’è anche tanto bene nel mondo e che qualcosa sta crescendo.

L’operosità salvifica

Un terzo elemento costitutivo della speranza è la sua esigenza operativa accompagnata dall’impegno concreto di santificazione, di inventiva e di sacrificio apostolici. Bisogna collaborare con il “già” in crescita, urge muoversi per lottare contro il male in noi e negli altri, soprattutto nella gioventù bisognosa.

Il discernimento del “già” e del “non-ancora” ha bisogno di tradursi nella pratica della vita, aprendosi ai propositi, ai progetti, alla revisione, all’inventiva, alla pazienza e alla costanza. Non tutto risulterà “come speravamo”: ci saranno degli insuccessi, dei contrattempi, delle cadute, delle incomprensioni. La speranza cristiana partecipa connaturalmente anche alle oscurità della fede.

5.1.4 I “frutti” della speranza in Don Bosco

Dai tre elementi costitutivi della speranza, che ho appena indicato, derivano alcuni frutti particolarmente significativi per lo spirito salesiano di Don Bosco.

La gioia

Dal primo elemento costitutivo – la certezza del “già” – deriva come frutto più caratteristico la gioia. Ogni vera speranza esplode in gioia.

Lo spirito salesiano assume la gioia della speranza per una affinità tutta propria. Persino la biologia ce ne suggerisce qualche esempio. La gioventù che è speranza umana (e quindi suggerisce una certa analogia con il mistero della speranza cristiana), è avida di gioia. E noi vediamo Don Bosco tradurre la speranza in un clima di gioia per la gioventù da salvare. Domenico Savio, cresciuto alla sua scuola, diceva: «Noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri». Non si tratta di un’ilarità superficiale propria del mondo, ma di un gaudio interiore, di un substrato di vittoria cristiana, di una sintonia vitale con la speranza, che esplode in allegria. Una gioia che procede, in definitiva, dalle profondità della fede e della speranza.

C’è poco da fare. Se siamo tristi è perché siamo superficiali. Capisco che c’è una tristezza cristiana: Gesù Cristo l’ha vissuta. Nel Getsemani la sua anima si è rattristata fino alla morte, ha sudato sangue. Si tratta certamente di un altro tipo di tristezza.

Però, l’afflizione o la malinconia per cui una suora ha l’impressione di non essere capita da nessuno, che le altre non la prendano in considerazione, che abbiano invidia o incomprensione delle sue qualità, ecc. è una tristezza che non si deve alimentare. A questa bisogna contrapporre la profondità della speranza: Dio è con me e mi vuole bene; che importa che altri non mi considerino tanto?

La gioia, nello spirito salesiano, è clima quotidiano; deriva da una fede che spera e da una speranza che crede, ossia da quel dinamismo di Spirito Santo che in noi proclama la vittoria che vince il mondo!… È indispensabile la gioia per testimoniare con autenticità quello in cui crediamo e speriamo.

Lo spirito salesiano è anzitutto e soprattutto questo e non una riduzione a sole osservanze e mortificazioni. La speranza ci porterà anche a fare molte mortificazioni, ma come allenamenti di volo e non come punzecchiature da prigione! Quindi: dalla speranza tanta gioia!

Il mondo cerca di superare la sua limitatezza e il suo disorientamento con una vita riempita di sensazioni eccitanti. Coltiva la promozione e la soddisfazione dei sensi, il film pungente, l’erotismo, la droga, ecc. È una maniera di evadere da una situazione caduca che sembra non avere senso, per cercare qualche cosa che sconfini verso una “caricatura di trascendenza”.

La pazienza

Un altro “frutto” della speranza – che procede dalla coscienza del “non-ancora” – è la pazienza. Ogni speranza comporta un indispensabile corredo di pazienza. La pazienza è un atteggiamento cristiano, legato intrinsecamente con la speranza nel suo non breve “non-ancora”, con i suoi guai, le sue difficoltà e le sue oscurità. Credere alla risurrezione e operare per la vittoria della fede, mentre si è mortali e immersi nel caduco, esige una struttura interiore di speranza che porta alla pazienza.

L’espressione più sublime di pazienza cristiana l’ha vissuta Gesù soprattutto durante la sua passione e morte. È una pazienza fruttuosa, precisamente per la speranza che la anima. Qui, nella pazienza, più che di iniziativa e di azione, si tratta di cosciente accettazione e di passività virtuosa che sopporta in vista della realizzazione del piano di Dio.

Lo spirito salesiano di Don Bosco ci ricorda sovente la pazienza. Nell’introduzione alle Costituzioni Don Bosco ricorda, alludendo a san Paolo, che le pene che dobbiamo sopportare in questa vita non hanno confronto con il premio che ci attende: «Era solito dire: “Coraggio! La speranza ci sorregga, quando la pazienza vorrebbe mancare”»[27]. «Ciò che sostiene la pazienza, dev’essere la speranza del premio»[28].

Anche madre Mazzarello insisteva su questo punto. Uno dei suoi primi biografi, il Maccono, afferma che la speranza la confortò sempre sostenendola nei suoi patimenti, nelle sue infermità, nei dubbi, e la rallegrò nell’ora della morte: «La sua speranza era molto viva e attiva. Mi pare – testificò una suora – che la speranza l’animasse in tutto e che ella cercasse di infonderla nelle altre. Ci esortava a portare bene le piccole croci giornaliere, e a fare tutto con grande purità d’intenzione»[29].

La speranza è madre della pazienza e la pazienza è difesa e scudo della speranza.

La sensibilità educativa

Dal terzo elemento costitutivo della speranza – “l’operosità salvifica” – procede un altro frutto: la sensibilità pedagogica. È una iniziativa d’impegno adeguato, sia nell’ambito della propria santificazione (sequela del Cristo), sia nell’ambito della salvezza degli altri (missione). Comporta impegno pratico, misurato e costante, tradotto da Don Bosco in una metodologia concreta che comporta queste attenzioni:

  • l’avvedutezza (o santa «furbizia»): quando si tratta di avere iniziative, di risolvere problemi, Don Bosco ce la mette tutta senza pretese di perfezionismo, ma con umile praticità; è ripetuta da lui molte volte la frase: «L’ottimo è nemico del bene»[30].
  • l’ardimento. Il male è organizzato, i figli delle tenebre agiscono con intelligenza. Il Vangelo ci dice che i figli della luce devono essere più scaltri e coraggiosi. Quindi, per lavorare nel mondo, bisogna armarsi di genuina prudenza, ossia di quell’«auriga virtutum» che ci rende agili, tempestivi e penetranti nell’applicazione di una vera intrepidezza nel bene.
  • la magnanimità. Non dobbiamo rinchiudere il nostro sguardo dentro le pareti di casa. Siamo stati chiamati dal Signore a salvare il mondo, abbiamo una missione storica più importante di quella degli astronauti o degli uomini di scienza… Siamo impegnati nella liberazione integrale dell’uomo. Il nostro animo deve aprirsi a visioni molto ampie. Don Bosco voleva che fossimo «all’avanguardia del progresso» (e si trattava, quando disse questa frase, di mezzi di comunicazione sociale).

Conosciamo la magnanimità di Don Bosco nel lanciare i giovani alle responsabilità apostoliche; pensiamo, per esempio, ai primi missionari partiti per l’America. Sia i Salesiani sia le Figlie di Maria Ausiliatrice erano poco più che ragazzi e ragazze!

Don Bosco si muoveva in orizzonti vasti. Non gli bastava né Valdocco né Mornese; non poteva rimanere solo dentro i limiti di Torino, del Piemonte, dell’Italia o dell’Europa. Il suo cuore palpitava con quello della Chiesa universale, perché si sentiva quasi investito della responsabilità di salvezza di tutta la gioventù bisognosa del mondo. Voleva che i Salesiani sentissero come propri tutti i più grandi e urgenti problemi giovanili della Chiesa per essere disponibili ovunque. E, mentre coltivava la magnanimità dei progetti e delle iniziative, era concreto e pratico nella loro realizzazione, con il senso della gradualità e con la modestia degli inizi.

Ecco sul volto del Salesiano deve sempre brillare, come nota di simpatia, la magnanimità: non deve essere una testolina senza visioni, ma avere grandezza d’animo perché ha un cuore abitato dalla speranza.

Péguy, con la sua acutezza un po’ violenta, ha scritto: «Una capitolazione è in sostanza un’operazione in cui si incomincia a spiegare invece di attuare. I codardi sono stati sempre delle persone di molte spiegazioni». Sul volto salesiano deve sempre brillare, come nota di simpatia, anche la mistica della decisione e l’ardimento umile della praticità. Don Bosco era deciso negli impegni di bene, anche se non poteva incominciare con l’ottimo; diceva che le sue opere si iniziavano magari nel disordine per tendere poi verso l’ordine!

La speranza mette sul volto del Salesiano, accanto alla profondità della contemplazione, alla gioia della filiazione divina, all’entusiasmo della gratitudine e dell’ottimismo (che provengono dalla “fede”), anche il coraggio dell’iniziativa, lo spirito di sacrificio della pazienza, la saggezza della gradualità pedagogica, l’utopia della magnanimità, la modestia della praticità, la prudenza della furbizia e il sorriso dell’allegria.

5.2 La fedeltà di Dio: fino alla fine

Finora abbiamo dato uno sguardo a ciò che don Bosco e i nostri santi e beati hanno espresso chiaramente nelle loro esistenze. Si tratta di elementi che spingono ciascuno di noi personalmente e come Famiglia Salesiana a far emergere o – per riprendere le parole di don Egidio Viganò – far brillare quella speranza della quale siamo chiamati a «rendere ragione», soprattutto ai giovani e, tra questi, i più poveri.

È giunto il momento di “sbirciare” un po’ oltre ciò che è “immediatamente visibile” e cercare di conoscere ciò che attende la nostra vita e ci dà il coraggio di aspettare operosamente mentre collaboriamo alla venuta del “giorno del Signore”.

Quindi, sempre riprendendo l’analisi schietta e intensa del VII Successore di don Bosco, concentriamo la nostra attenzione sulla prospettiva del “premio”.

Il diamante del “premio” è collocato con altri quattro nella parte posteriore del manto del personaggio del sogno. È quasi un segreto, una forza che opera dal di dentro, che ci dà la spinta e ci aiuta a sorreggere e difendere i grandi valori visti nella parte anteriore. È interessante osservare che il diamante del “premio” è collocato sotto quello della “povertà”, perché ha certamente una relazione con le “privazioni” legate ad essa.

Sui suoi raggi si leggono le seguenti parole: «Se vi attrae la grandezza dei premi, non vi spaventi la quantità delle fatiche». «Chi soffre con Me, con Me godrà». «È momentaneo ciò che soffriamo sulla terra, eterno è ciò che farà gioire i miei amici nel Cielo».

Il vero Salesiano ha nella fantasia, nel cuore, nei desideri, negli orizzonti di vita la visione del premio, come pienezza dei valori proclamati dal Vangelo. Per questa ragione «è sempre lieto. Diffonde questa gioia e sa educare alla letizia della vita cristiana e al senso della festa»[31].

Nella casa di Don Bosco e nelle nostre case salesiane si parlava molto del Paradiso. Era un’idea permanente e onnipresente riassunta in alcuni famosi detti: «Pane, lavoro e Paradiso»[32]; «Un pezzo di Paradiso aggiusta tutto»[33]. Sono frasi ricorrenti a Valdocco e a Mornese.

Certamente molte Figlie di Maria Ausiliatrice ricorderanno la descrizione fatta da madre Enrichetta Sorbone sullo spirito di Mornese: «Qui siamo in Paradiso, nella casa c’è un ambiente di Paradiso!»[34]. E non era certo a causa delle privazioni o della mancanza di problemi. Era come la traduzione spontanea, balzata dal cuore, del cartello che aveva fatto mettere Don Bosco: «Servite Domino in laetitia»[35].

Anche Domenico Savio aveva percepito lo stesso caldo e trascendente clima di vita: «Noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri»[36].

Nelle biografie di Domenico Savio, Francesco Besucco e Michele Magone, Don Bosco, anche descrivendone l’agonia, ci tiene a sottolineare questa ineffabile gioia, unita a una vera ansia di Paradiso. Molto più che l’orrore della morte, i suoi ragazzi sentono l’attrattiva della Pasqua.

Il pensiero del premio è uno dei frutti della presenza dello Spirito Santo, ossia, dell’intensità della fede, della speranza e della carità, tutte e tre insieme, anche se è più strettamente legato alla speranza. Infonde nel cuore una gioia e una allegria che vengono dall’Alto e trovano una bella sintonia con le stesse tendenze innate del cuore umano. Lo constatiamo vivendo tra i ragazzi e le ragazze: la gioventù intuisce con maggior freschezza che l’uomo è nato per la felicità.

Ma non abbiamo neppure bisogno di andare a cercarlo tra i giovani. Prendiamo uno specchio e guardiamoci: ci basta ascoltare i battiti del nostro cuore. Siamo nati per raggiungere la felicità, l’aspettiamo anche senza confessarlo.

L’idea del Paradiso, sempre presente nella casa di Don Bosco, non è un’utopia per ingenui inganni, non è la carota che inganna il cavallo perché cammini più in fretta, è l’ansia sostanziale del nostro essere; ed è soprattutto la realtà dell’amore di Dio, della risurrezione di Gesù Cristo operante nella storia; è la presenza viva dello Spirito Santo che spingono, di fatto, verso il premio.

Don Bosco non disprezza nessuna gioia dei giovani. Al contrario, la suscita, la incrementa, la sviluppa. La famosa “allegria” in cui fa consistere la santità non è solo una gioia intima, nascosta nel cuore come frutto della grazia. Questa ne è la radice. Essa si esprime anche all’esterno, nella vita, nel cortile e nel senso della festa.

Come preparava le solennità religiose, gli onomastici, i giorni festivi dell’Oratorio! Si preoccupava persino di organizzare la celebrazione del proprio onomastico, non per sé, ma per creare un clima di riconoscenza gioiosa nell’ambiente.

Pensiamo alle coraggiose passeggiate autunnali: due o tre mesi per prepararle, 15 o 20 giorni per viverle; poi i prolungati ricordi e commenti: una gioia molto distesa nel tempo. Che fantasia e che coraggio! Da Torino ai Becchi, a Genova, a Mornese, a tanti paesi del Piemonte, con decine e decine di ragazzi… La passeggiata, il gioco, la musica, il canto, il teatro: sono elementi sostanziali del Sistema Preventivo che, anche come metodo pedagogico, suppone una spiritualità appropriata ed esplosiva, frutto di una fede, una speranza e una carità convinte, valori del cielo proprio qui sulla terra.

Sul firmamento di Valdocco s’affacciava sempre, di giorno e di notte, con nubi o senza nubi, il Paradiso. Testimoniare oggi i valori del premio è una profezia urgente per il mondo e soprattutto per la gioventù. La civiltà tecnico-industriale che cosa ha apportato alla società del consumo? Una enorme possibilità di comodità e di piacere, con una conseguente e pesante tristezza.

Tra l’altro leggiamo nelle Costituzioni dei Salesiani di Don Bosco – ma vale per ogni cristiano – che «il salesiano [è] un segno della forza della resurrezione» e che «nella semplicità e laboriosità della vita quotidiana» è «educatore che annuncia ai giovani “cieli nuovi e terra nuova”, stimolando in loro gli impegni e la gioia della speranza»[37].

A Mornese e a Valdocco non c’erano né comodità, né dittature e tutto respirava spontaneità e allegria. Il progresso tecnico ha facilitato oggi tante cose, ma non è aumentata la vera gioia dell’uomo. È cresciuta, invece, l’angustia, la nausea, si è acuita la mancanza di senso dell’esistenza che purtroppo continuiamo a rilevare – specialmente nelle società opulente – con la tragica statistica dei suicidi adolescenziali e giovanili.

Oggi oltre alla povertà materiale che affligge ancora una grandissima porzione di umanità, diventa urgente trovare il modo di far percepire alla gioventù il senso della vita, gli ideali superiori, l’originalità di Gesù Cristo.

Si cerca la felicità, tendenza fondamentale dell’uomo, ma non se ne conosce più la giusta strada, e allora va crescendo un’immensa disillusione.

I giovani, anche a causa della mancanza di adulti significativi, si sentono incapaci di affrontare la sofferenza, il dovere e l’impegno costante. Il problema della fedeltà agli ideali e alla propria vocazione è diventato cruciale. La gioventù si sente incapace di assumere sofferenze e sacrifici. Vive in un’atmosfera in cui trionfa il divorzio tra amore e sacrificio, in modo tale che la ricerca e il conseguimento del solo benessere finisce per asfissiare la capacità di amare e, quindi, di sognare il futuro.

Giustamente, come dicevamo, il diamante del premio è collocato sotto quello della povertà, quasi a indicarci che i due si completano e si sostengono a vicenda. Di fatto la povertà evangelica comporta una visione concreta e trascendente di tutta la realtà con un’ottica realista anche circa le rinunce, le sofferenze, i contrattempi, le privazioni e le pene.

Qual è l’energia interiore che fa affrontare tutto con fiducia e con volto ilare, senza scoraggiarsi? È, in definitiva, il senso della presenza del cielo sulla terra. Questo senso procede dalla fede, dalla speranza e dalla carità, che ci fanno rileggere tutta l’esistenza con l’ottica dello Spirito Santo.

Il mondo ha urgente bisogno di profeti che proclamino con la vita la grande verità del Paradiso. Non un’evasione alienante, ma un’intensa realtà stimolante!

Dunque, nello spirito di Don Bosco è costante la preoccupazione di curare la dimestichezza con il Paradiso, quasi a costituirne il firmamento della mente, l’orizzonte del cuore salesiano: lavoriamo e lottiamo sicuri di un premio, guardando alla Patria, alla casa di Dio, alla Terra promessa.

È bene precisare che la prospettiva del premio non consiste riduttivamente nel conseguimento di una “ricompensa”, di una sorta di consolazione per una vita vissuta in mezzo a tanti sacrifici, sopportazioni… Niente di tutto questo! Se fosse solo “ricompensa”, assomiglierebbe a un ricatto. Ma Dio non opera in questo modo. Nel Suo amore non può che offrire all’uomo Sé stesso. Questa – come afferma Gesù – è la vita eterna: la conoscenza del Padre. Dove “conoscere” significa “amare”, divenire pienamente partecipi di Dio, in continuità con l’esistenza terrena vissuta “in grazia”, ossia nell’amore a Dio e ai fratelli e alle sorelle.

In questo cammino siamo invitati a volgere lo sguardo a Maria, la quale si fa presente come aiuto quotidiano, come Madre precorritrice e ausiliatrice. Don Bosco è sicuro di questa sua presenza tra noi e vuole dei segni che ce lo ricordino.

Per Lei ha edificato una Basilica, centro di animazione e diffusione della vocazione salesiana. Voleva la Sua immagine nei nostri ambienti di vita; vincolava ogni iniziativa apostolica alla Sua intercessione e ne commentava con commozione la reale e materna efficacia. Ricordiamo, ad esempio, ciò che disse alle Figlie di Maria Ausiliatrice nella casa di Nizza: «La Madonna è veramente qui, qui in mezzo a voi! La Madonna passeggia in questa casa e la copre col suo manto»[38].

Oltre a Lei, cerchiamo nella casa di Dio anche altri amici. I nostri Santi e Beati, a cominciare dai volti a noi più familiari e che fanno parte del cosiddetto “giardino salesiano”.

Non facciamo queste scelte per dividere la grande casa di Dio in piccoli appartamenti privati, ma piuttosto per sentirci in essa più facilmente a casa nostra e poter parlare di Dio, del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, di Cristo e di Maria, della creazione e della storia, non con la trepidazione di chi ha ascoltato l’alta lezione di un pensatore denso, difficile e anche ermetico, ma con quel senso di familiarità e di gioiosa semplicità con cui si conversa con coloro che sono stati i nostri parenti, i nostri fratelli e le nostre sorelle, i nostri colleghi e i nostri compagni di lavoro. Alcuni di essi non li abbiamo conosciuti in vita, ma li sentiamo vicini e ci ispirano particolare fiducia. Parlare con san Giuseppe, con Don Bosco, con madre Mazzarello, con don Rua, con Domenico Savio, con Laura Vicuña, con don Rinaldi, con mons. Versiglia e don Caravario, con suor Teresa Valsè, con suor Eusebia Palomino, ecc., è proprio un dialogo “di casa”, di famiglia.

Ecco quanto ci suggerisce il diamante del premio: sentirsi a casa con Dio, con Cristo, con Maria, con i Santi; sentire la loro presenza nella propria casa, in un clima di famiglia che dà senso di Paradiso all’ambiente quotidiano di vita.

6. CON… MARIA, SPERANZA E PRESENZA MATERNA

Al termine di questo commento non possiamo che volgere il nostro cuore e il nostro sguardo alla vergine Maria, come ci ha insegnato don Bosco.

La speranza domanda fiducia, capacità di consegnarsi e di affidarsi.

In tutto ciò abbiamo una guida e una maestra in Maria Santissima.

Lei ci testimonia che sperare è affidarsi e consegnarsi, ed è vero tanto per l’esistenza come per la vita eterna.

In questo cammino la Madonna ci prende per mano, ci insegna come fidarci di Dio, come consegnarci liberamente all’amore trasmesso da suo Figlio Gesù.

L’indicazione e la “carta di navigazione” che ci presenta, è sempre la stessa: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela»[39]. Un invito che ogni giorno assumiamo nella nostra vita.

In Maria scorgiamo la realizzazione del premio.

Maria incarna in sé l’attrattiva e la concretezza del Premio: Essa,

«finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria col suo corpo e con la sua anima, e dal Signore esaltata come la Regina dell’universo, perché fosse più pienamente conformata al Figlio suo, il Signore dei dominanti, il vincitore del peccato e della morte»[40].

Possiamo leggere sulle Sue labbra alcune belle espressioni provenienti da San Paolo. Siccome sono ispirate dallo Spirito Santo, Sposo di Maria, certamente sono da Lei condivise.

Eccole:

«Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?

Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze,né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore»[41].

Carissimi sorelle e fratelli, carissimi giovani,

Maria Ausiliatrice, Don Bosco e tutti i nostri Santi e Beati ci sono vicini in questo anno così straordinario. Siano loro ad accompagnarci a vivere con profondità le istanze del Giubileo, aiutandoci a mettere al centro della vita la persona di Gesù Cristo «il Salvatore annunciato nel Vangelo, che vive oggi nella Chiesa e nel mondo»[42].

Ci spingano, sull’esempio delle prime e dei primi missionari inviati da don Bosco, a fare sempre e ovunque della nostra vita un dono gratuito per gli altri, soprattutto per i giovani e tra loro quelli più poveri.

Per ultimo, un augurio: che quest’anno faccia crescere in noi la preghiera per la pace, per un’umanità pacificata. Invochiamo il dono della pace – lo shalom biblico – che contiene tutti gli altri e trova compimento solo nella speranza.

Un abbraccio fraterno

Don Stefano Martoglio S.D.B.

Vicario del Rettor Maggiore

Roma, 31 dicembre 2024


[1] Francesco, Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, Città del Vaticano 9 maggio 2024.

[2] Ibi.

[3] Cf. Rm 8,39.

[4] Rm 5,3-5

[5] Messale romano, LEV, Roma 20203, 240.

[6] Byung-Chul Han, El espìritu de la esperanza, p.18, Herder, Barcellona 2024.

[7] C. Paccini – S. Troisi, Siamo nati e non moriremo mai più. Storia di Chiara Corbella Petrillo, Porziuncola, Assisi (PG) 2001.

[8] Gabriel Marcel, Philosophie der Hoffnung, Mùnich, List 1964.

[9] Erich Fromm, La revolucìonde la esperanza, Ciudad de México 1970.

[10] 1Pt 3,15.

[11] Francesco, Spes non confundit, 9.

[12] Gv 17,3.

[13] Cf. Rm 4,18.

[14] Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus caritas est, Città del Vaticano 25 dicembre 2005, 1.

[15] Cost. SDB, 3.

[16] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIª-IIae q. 17 a. 8 co.

[17] Cf. E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 2023.

[18] Per queste riflessioni ho attinto alla ricca riflessione dell’Abate generale dell’Ordine dei Cistercensi M. G. Lepori, Capitoli dell’Abate Generale OCist al CFM 2024. Sperare in Cristo reperibile in più lingue al sito: www.ocist.org

[19] Cfr Rm, 5,3-5

[20] E. Viganò, Un progetto evangelico di vita attiva, Elle Di Ci, Leumann (TO) 1982, 68-84.

[21] Cf. E. Viganò, Profilo del Salesiano nel sogno del personaggio dai dieci diamanti, in ACS 300 (1981), 3-37. L’intera narrazione del sogno è reperibile in ACS 300 (1981), 40-44; oppure in MB XV, 182-187.

[22] MB VIII, 444.

[23] Cost. SDB, 18.

[24] P. Braido (a cura di), Don Bosco Fondatore “Ai Soci Salesiani”(1875-1885). Introduzione e testi critici, LAS, Roma 1995, 159.

[25] MB V, 442.

[26] MB V, 409.

[27] MB XII, 458.

[28] Ibi.

[29] F. Maccono, Santa Maria Domenica Mazzarello. Confondatrice e prima Superiora Generale delle FMA. Vol. I, FMA, Torino 1960, 398.

[30] MB X, 893.

[31] Cost. SDB, 17.

[32] MB XII, 600.

[33] MB VIII, 444.

[34] Citato in E. Viganò, Riscoprire lo spirito di Mornese, in ACS (1981), 62.

[35] Sal 99.

[36] MB V, 356.

[37] Cost. SDB, 63. Si veda anche E. Viganò, «Rendere ragione della gioia e degli impegni della speranza, testimoniando le insondabili ricchezze di Cristo». Strenna 1994. Commento del Rettor Maggiore, Istituto Figlie di Maria Ausiliatrice, Roma 1993.

[38] G. Capetti, Il cammino dell’Istituto nel corso di un secolo. Vol. I, FMA, Roma 1972-1976, 122.

[39] Gv 2,5.

[40] LG, 59.

[41] Rm 8,34-39.

[42] Cost. SDB, 196.




Quarto sogno missionario in Africa e Cina (1885)

La medesima Provvidenza non cessava di squarciare ogni tanto dinanzi agli occhi di Don Bosco il velo del futuro sui progressi della Società Salesiana nel campo sconfinato delle Missioni. Anche nel 1885 un sogno rivelatore venne a manifestargli quali fossero i disegni di Dio nel remoto avvenire. Don Bosco lo narrò e commentò a tutto il Capitolo la sera del 2 luglio; Don Lemoyne si affrettò a scriverlo.

            Mi parve di essere innanzi ad una montagna elevatissima, sulla cui vetta stava un Angelo splendentissimo per luce, sicché illuminava le contrade più remote. Intorno al monte vi era un vasto regno di genti sconosciute.
            L’Angelo colla destra teneva sollevata in alto una spada che splendeva come fiamma vivissima e colla sinistra mi indicava le regioni all’intorno. Mi diceva: Angelus Arfaxad vocat vos ad proelianda bella Domini et ad congregandos populos in horrea Domini (L’Angelo di Arfaxad vi chiama a combattere le battaglie del Signore ed a radunare i popoli nei granai del Signore). La sua parola però non era come le altre volte in forma di comando, ma a modo di proposta.
            Una turba meravigliosa di Angeli, di cui non ho saputo o potuto ritenere il nome, lo circondava. Fra questi vi era Luigi Colle, al quale faceva corona una moltitudine di giovanetti, a cui egli insegnava a cantare lodi a Dio, cantando lui stesso.
            Intorno alla montagna, ai piedi di essa, e sopra i suoi dorsi abitava molta gente. Tutti parlavano fra di loro, ma era un linguaggio sconosciuto ed io non intendeva. Solo capiva ciò che diceva l’Angelo. Non posso descrivere quello che ho visto. Sono cose che si vedono, s’intendono, ma non si possono spiegare. Contemporaneamente vedeva oggetti separati, simultanei, i quali trasfiguravano lo spettacolo che mi stava dinanzi. Quindi ora mi pareva la pianura della Mesopotamia, ora un altissimo monte; e quella stessa montagna su cui era l’Angelo di Arfaxad ad ogni istante prendeva mille aspetti, fino a sembrare ombre vagolanti quelle genti che l’abitavano.
            Innanzi a questo monte e in tutto questo viaggio mi sembrava di essere sollevato ad una altezza sterminata, come sopra le nuvole, circondato da uno spazio immenso. Chi può esprimere a parole quell’altezza, quella larghezza, quella luce, quel chiarore, quello spettacolo? Si può godere, ma non si può descrivere.
            In questa e nelle altre vedute vi erano molti che mi accompagnavano e m’incoraggiavano, e facevano animo anche ai Salesiani, perché non si fermassero nella loro strada. Fra costoro che calorosamente mi tiravano, a così dire, per mano affinché andassi avanti, vi era il caro Luigi Colle e schiere di Angeli, i quali facevano eco ai cantici di quei giovanetti che stavano a lui d’intorno.
            Quindi mi parve di essere nel centro dell’Africa in un vastissimo deserto ed era scritto in terra a grossi caratteri trasparenti: Negri. Nel mezzo vi era l’Angelo di Cam, il quale diceva: – Cessabit maledictum (è finita la maledizione) e la benedizione del Creatore discenderà sopra i riprovati suoi figli e il miele e il balsamo guariranno i morsi fatti dai serpenti; dopo saranno coperte le turpitudini dei figliuoli di Cam.
            Quei popoli erano tutti nudi.
            Finalmente mi parve d’essere in Australia.
            Qui pure vi era un Angelo, ma non aveva nessun nome. Egli guidava e camminava e faceva camminare la gente verso il mezzodì. L’Australia non era un continente, ma un aggregato di tante isole, i cui abitanti erano di carattere e di figura diversa. Una moltitudine di fanciulli che colà abitavano, tentavano di venire verso di noi, ma erano impediti dalla distanza e dalle acque che li separavano. Tendevano però le mani stese verso Don Bosco ed i Salesiani, dicendo: -Venite in nostro aiuto! Perché non compite l’opera che i vostri padri hanno incominciata? – Molti si fermarono; altri con mille sforzi passarono in mezzo ad animali feroci e vennero a mischiarsi coi Salesiani, i quali io non conosceva, e si misero a cantare: Benedictus qui venit in nomine Domini (benedetto colui che viene nel nome del Signore, Ps 118,26; Mt 21,9; et passim). A qualche distanza si vedevano aggregati di isole innumerabili; ma io non ne potei discernere le particolarità. Mi pare che tutto questo insieme indicasse che la divina Provvidenza offriva una porzione del campo evangelico ai Salesiani, ma in tempo futuro. Le loro fatiche otterranno frutto, perché la mano del Signore sarà costantemente con loro, se non demeriteranno dei suoi favori.
            Se potessi imbalsamare e conservare vivi un cinquanta Salesiani di quelli che ora sono fra di noi, da qui a cinquecento anni vedrebbero quali stupendi destini ci riserba la Provvidenza, se saremo fedeli.
            Di qui a centocinquanta o duecento anni i Salesiani sarebbero padroni di tutto il mondo.
            Noi saremo ben visti sempre, anche dai cattivi, perché il nostro campo speciale è di tal fatta da tirare le simpatie di tutti, buoni ed empi. Potrà essere qualche testa matta che ci voglia distrutti, ma saranno progetti isolati e senza appoggio degli altri.
            Tutto sta che i Salesiani non si lascino prendere dall’amore delle comodità e quindi rifuggano dal lavoro. Mantenendo anche solo le nostre opere già esistenti, e non dandosi al vizio della gola, avranno caparra di lunga durata.
            La Società Salesiana prospererà materialmente, se procureremo di sostenere e di estendere il Bollettino, l’opera dei Figli di Maria Ausiliatrice, e l’estenderemo. Sono così buoni tanti di questi figliuoli! La loro istituzione è quella che ci darà valenti Confratelli risoluti nella loro vocazione.

            Queste sono le tre cose che Don Bosco vide più distintamente, che meglio ricordò e che narrò la prima volta; ma, come espose successivamente a Don Lemoyne, egli aveva visto assai più. Aveva visto tutti i paesi, nei quali i Salesiani sarebbero stati chiamati con l’andare del tempo, ma in una visione fugace, facendo un rapidissimo viaggio, in cui, partito da un punto, là era ritornato. Diceva essere stato come un lampo; tuttavia nel percorrere quello spazio immenso aver distinto in un attimo regioni, città, abitanti, mari, fiumi, isole, costumi e mille fatti che s’intrecciavano e cambiamenti simultanei di spettacoli impossibili a descriversi. Di tutto perciò il fantasmagorico itinerario serbava appena un ricordo indistinto ne sapeva più farne una particolareggiata descrizione. Gli era sembrato di aver con sé molti, che incoraggiavano lui e i Salesiani a non mai arrestarsi per via. Fra i più animati a spronare perché si andasse sempre avanti, appariva Luigi Colle, del quale scriveva al padre il 10 agosto: “Il nostro amico Luigi mi ha condotto a fare una gita nel centro dell’Africa, terra di Cam, diceva egli, e nelle terre di Arfaxad ossia in Cina. Se il Signore vorrà che ci troviamo insieme, ne avremo delle cose da dire”.
            Percorse una zona circolare intorno alla parte meridionale della sfera terrestre. Ecco la descrizione del viaggio, secondo che Don Lemoyne asserisce averla udita dalla sua bocca. Partì da Santiago del Cile e vide Buenos Aires, S. Paolo nel Brasile, Rio de Janeiro, Capo di Buona Speranza, Madagascar, Golfo Persico, sponde del Mar Caspio, Sermaar, monte Ararat, Senegal, Ceylon, Hong-Hong, Macao sull’entrata di un mare sterminato e davanti all’alta montagna da cui si scopriva la Cina; poi l’Impero Cinese, l’Australia, le isole Diego Ramirez; si chiuse infine la peregrinazione con il ritorno a Santiago del Cile. Nel fulmineo giro Don Bosco distingueva isole, terre e nazioni sparse sui vari gradi e molte regioni poco abitate e sconosciute. Dei nomi di tante località vedute nel sogno più non ricordava con esattezza i nomi; Macao, per esempio, la chiamava Meaco. Delle parti più meridionali dell’America fece parola con il capitano Bove; ma questi, non avendo passato il capo di Magellano per mancanza di mezzi e perché costretto poi da diversi affari a tornar indietro, non gli poté fornire alcuno schiarimento.
            Dobbiamo dire qualche cosa di quell’enigmatico Arfaxad. Prima del sogno Don Bosco non sapeva chi fosse; dopo invece ne parlava con certa frequenza. Incaricò il chierico Festa di cercare in dizionari biblici, in storie e geografie, in periodici, per scoprire con quali popoli della terra quel supposto personaggio avesse avuto rapporti. Finalmente si credette d’aver trovato la chiave del mistero nel primo volume del Rohrbacher, il quale asserisce che da Arfaxad discendono i Cinesi.
            Il suo nome compare nel capo decimo del Genesi, dove si fa la genealogia dei figli di Noè, che si divisero il mondo dopo il diluvio. Al versetto 22 si legge: Filii Sem Aelam et Assur et Arphaxad et Lud et Gether et Mes. Qui, come in altre parti del grande quadro etnografico, i nomi propri designano individui che furono padri di popoli, con riferimento pure alle contrade dai medesimi popolate. Così Aelam che significa paese alto, accenna all’Elimaide che con la Susiana divenne poi provincia della Persia; Assur è il padre degli Assiri. Sul terzo nome gli esegeti non vanno d’accordo nel determina e il popolo a cui si riferisce. Alcuni, come il Vigouroux (tanto per citarne uno dei più alla mano), assegnano ad Arfaxad la Mesopotamia. In ogni modo, essendo elencato fra progenitori di schiatte asiatiche e precisamente dopo due di essi che popolarono il lembo più orientale della terra descritta nel documento mosaico, si può arguire che anche Arphaxad stia a indicare una popolazione da collocarsi al seguito delle precedenti, propagatasi poi sempre più verso l’Oriente. Non parrebbe dunque improbabile che nell’Angelo di Arfaxad sia da vedere quello dell’India e della Cina.
            Don Bosco si fissò particolarmente sulla Cina e diceva sembrargli che colà fra non molto sarebbero stati chiamati i Salesiani, una volta anzi aggiunse:
            – Se io avessi venti Missionari da spedire in Cina, è certo che vi riceverebbero un’accoglienza trionfale nonostante la persecuzione. – Perciò d’allora in poi s’interessava assai per tutto quello che poteva riguardare il celeste impero.
            A questo sogno mostrava di pensare sovente, ne discorreva volentieri e ravvisava in esso una conferma dei sogni precedenti sulle Missioni.
(MB XVII 643-645)




Terzo sogno missionario: viaggio aereo (1885)

Il sogno di don Bosco alla vigilia della partenza dei missionari per l’America è un evento ricco di significato spirituale e simbolico nella storia della Congregazione Salesiana. Durante quella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, don Bosco ebbe una visione profetica che sottolinea l’importanza della pietà, dello zelo apostolico e della totale fiducia nella Provvidenza Divina per il successo della missione. Questo episodio non solo incoraggiò i missionari, ma consolidò anche la convinzione di Don Bosco sulla necessità di espandere la loro opera oltre i confini italiani, portando educazione, assistenza e speranza alle nuove generazioni in terre lontane.

            S’arrivò frattanto alla vigilia della partenza. Per tutta la giornata il pensiero che Monsignore e gli altri sarebbero andati così lontano, e l’impotenza assoluta di accompagnarli, come le volte precedenti, fino all’imbarco, anzi l’impossibilità forse di dar loro almeno l’addio nella chiesa di Maria Ausiliatrice, gli causarono sussulti di commozione, che in certi momenti lo opprimevano e lo lasciavano abbattuto. Or ecco che nella notte dal 31 gennaio al 1° febbraio fece un sogno simile a quello del 1883 sulle Missioni. Lo raccontò quindi a Don Lemoyne che subito lo scrisse. É il seguente.

            Mi parve di accompagnare i Missionari nel loro viaggio. Ci siamo parlati per un breve momento prima di partire dall’Oratorio. Essi mi stavano attorno e mi chiedevano consigli; e mi pareva di dire loro:
            – Non colla scienza, non colla sanità, non colle ricchezze, ma collo zelo e colla pietà, farete del gran bene, promovendo la gloria di Dio e la salute delle anime.
            Eravamo poco prima all’Oratorio, e poi senza sapere per quale via fossimo andati e con quale mezzo, ci siamo trovati quasi subito in America. Giunto al termine del viaggio mi trovai solo in mezzo ad una vastissima pianura, posta tra il Chile e la Repubblica Argentina. I miei cari Missionari si erano tutti dispersi qua e là per quello spazio senza limiti. Io guardandoli mi meravigliava, poiché mi sembravano pochi. Dopo tanti Salesiani che in varie volte aveva mandati in America, mi pensava di dover vedere un numero maggiore di Missionari. Ma poscia riflettendo conobbi che se piccolo sembrava il loro numero, ciò avveniva perché si erano sparsi in molti luoghi, come seminagione che doveva trasportarsi altrove ad essere coltivata e moltiplicata.
            In quella pianura apparivano molte e lunghissime vie per le quali si vedevano sparse numerose case. Queste vie non erano come le vie di questa terra, e le case non erano come le case di questo mondo. Erano oggetti misteriosi e direi quasi, spirituali. Quelle strade erano percorse da veicoli, o da mezzi di trasporto che correndo prendevano successivamente mille aspetti fantastici e mille forme tutte diverse, benché magnifiche e stupende, sicché io non posso definirne o descriverne una sola. Osservai con stupore che i veicoli giunti vicini ai gruppi di case, ai villaggi, alle città, passavano in alto, cosicché chi viaggiava vedeva sotto di sé i tetti delle case, le quali benché fossero molto elevate, pure di molto sottostavano a quelle vie le quali mentre nel deserto aderivano al suolo, giunte vicine ai luoghi abitati diventavano aeree quasi formando un magico ponte. Di lassù si vedevano gli abitanti nelle case, nei cortili, nelle vie, e nelle campagne occupati a lavorare i loro poderi.
            Ciascheduna di quelle strade faceva capo ad una delle nostre missioni. In fondo ad una lunghissima via che si protendeva dalla parte del Chile io vedeva una casa [tutte le particolarità topografiche che precedono e che seguono, sembrano indicare la casa di Fortìn Mercedes, sulla riva sinistra del Colorado] con molti confratelli Salesiani, i quali si esercitavano nella scienza, nella pietà, in varie arti e mestieri e nell’agricoltura. A mezzodì era la Patagonia. Dalla parte opposta in un colpo d’occhio scorgeva tutte le case nostre nella Repubblica Argentina. Quindi nell’Uruguay, Paysandú, Las Piedras, Villa Colón; nel Brasile il Collegio di Nicteroy e molti altri ospizi sparsi nelle provincie di quell’impero. Ultima ad occidente si apriva un’altra lunghissima strada che traversando fiumi, mari e laghi faceva capo in paesi sconosciuti. In questa regione vidi pochi Salesiani. Osservai con attenzione e potei solamente vederne due.
            In quell’istante apparve vicino a me un personaggio di nobile e vago aspetto, pallidetto di carnagione, grasso, con barba rasa in modo da parere imberbe e per età uomo fatto. Era vestito in bianco, con una specie di cappa color di rosa intrecciata con fili d’oro. Risplendeva tutto. Io conobbi in quello il mio interprete.
            – Dove siamo qui? chiesi io additandogli quest’ultimo paese.
            – Siamo in Mesopotamia, mi rispose l’interprete.
            – In Mesopotamia? io replicai: ma questa è la Patagonia.
            – Ti dico, rispose l’altro, che questa è la Mesopotamia.
            – Ma pure… ma pure… non posso persuadermene.
            – La cosa è così! Questa è la Me.. so.. po.. ta.. mi.. a, concluse l’interprete sillabando la parola, perché mi restasse bene impressa.
            – Ma perché i Salesiani che vedo qui sono così pochi?
            – Ciò che non è, sarà, concluse il mio interprete.
            Io intanto sempre fermo in quella pianura percorreva collo sguardo tutte quelle interminabili vie e contemplava, in modo chiarissimo ma inesplicabile, i luoghi che sono e saranno occupati dai Salesiani. Quante cose magnifiche io vidi! Vidi tutti i singoli collegi. Vidi come in un punto solo il passato, il presente e l’avvenire delle nostre missioni. Siccome vidi tutto complessivamente in uno sguardo solo, è ben difficile, anzi impossibile rappresentare anche languidamente qualche ristretta idea di questo spettacolo. Solamente ciò che io vidi in quella pianura del Chile, del Paraguay, del Brasile, della Repubblica Argentina domanderebbe un grosso volume, volendo indicare qualche sommaria notizia. Vidi pure in quella vasta pianura, la gran quantità di selvaggi che sono sparsi nel Pacifico fino al golfo di Ancud, nello stretto di Magellano, al Capo Horn, nelle isole Diego, nelle isole Malvine. Tutta messe destinata per i Salesiani. Vidi che ora i Salesiani seminano soltanto, ma i nostri posteri raccoglieranno. Uomini e donne ci rinforzeranno e diverranno predicatori. I loro figli stessi che sembra quasi impossibile guadagnare alla fede, eglino stessi diverranno gli evangelizzatori dei loro parenti e dei loro amici. I Salesiani riusciranno a tutto colla umiltà, col lavoro, colla temperanza. Tutte quelle cose che io vedeva in quel momento e che vidi in appresso, riguardavano tutte i Salesiani, il loro regolare stabilimento in quei paesi, il loro aumento meraviglioso, la conversione di tanti indigeni e di tanti Europei colà stabiliti. L’Europa si verserà nell’America del Sud. Dal momento che in Europa si incominciò a spogliare le chiese, incominciò a diminuire la floridezza del commercio, il quale andò e andrà sempre più deperendo. Quindi gli operai e le loro famiglie spinti dalla miseria correranno a cercare ricovero in quelle nuove terre ospitali.
            Visto il campo che ci assegna il Signore ed il glorioso avvenire della Congregazione Salesiana, mi parve di mettermi in viaggio pel ritorno in Italia. Io era trasportato con rapidissimo corso per una via strana, altissima e così giunsi in un attimo sopra l’Oratorio. Tutta Torino era sotto i miei piedi e le case, i palagi, le torri mi sembravano basse casupole, tanto io mi trovava in alto. Piazze, strade, giardini, viali, le ferrovie le mura di cinta, le campagne, e le colline circostanti, le città, i villaggi della provincia, la gigantesca catena delle Alpi coperta di neve stavano sotto i miei occhi presentandomi uno stupendo panorama. Vedeva i giovani là in fondo nell’Oratorio che sembravano tanti topolini. Ma il loro numero era straordinariamente grande; preti, chierici, studenti, capi d’arte ingombravano tutto. Molti partivano in processione ed altri sottentravano alle file di coloro che partivano. Era una continuata processione.
            Tutti si andavano a raccogliere in quella vastissima pianura tra il Chile e la Repubblica Argentina, nella quale io tosto era ritornato in un batter d’occhio. Io li stava, osservando. Un giovane prete il quale sembrava il nostro D. Pavia, ma che non era, con aria affabile, parola cortese, di un aspetto candido, e di carnagione fanciullesca venne verso di me e mi disse:
            – Ecco le anime ed i paesi destinati ai figliuoli di S. Francesco di Sales.
            Io era meravigliato come tanta moltitudine che sì era raccolta colà in un momento disparisse e appena appena in lontananza si scorgesse la direzione che aveva presa.
            Qui io noto che nel narrare il mio sogno vado per sommi capi e non mi è possibile precisare la successione esatta dei magnifici spettacoli che mi si presentavano e i vari accidenti accessori. Lo spirito non regge, la memoria dimentica, la parola non basta. Oltre il mistero che involgeva quelle scene, queste si avvicendavano, talora s’intrecciavano, soventi volte si ripetevano secondo il vario unirsi o dividersi o partire dei missionari, e lo stringersi, o allontanarsi da essi di quei popoli che erano chiamati alla fede o alla conversione. Lo ripeto: vedeva in un punto solo il presente, il passato, l’avvenire di queste missioni, con tutte le fasi, i pericoli, le riuscite, le disdette o disinganni momentanei che accompagneranno questo Apostolato. Allora intendeva chiaramente tutto, ma ora è impossibile sciogliere questo intrigo di fatti, di idee, di personaggi. Sarebbe come chi volesse comprendere in una sola storia e ridurre ad un solo fatto e ad unità tutto lo spettacolo del firmamento, narrando il moto, lo splendore, le proprietà di tutti gli astri colle loro relazioni e leggi particolari e reciproche; mentre un solo astro darebbe materia all’attenzione e allo studio della mente più robusta. E noto ancora che qui si tratta di cose le quali non hanno relazione con gli oggetti materiali.
            Ripigliando adunque il racconto, dico che restai meravigliato nel vedere scomparire tanta moltitudine. Monsignor Cagliero era in quell’istante al mio fianco. Alcuni missionari erano ad una certa distanza. Molti altri erano intorno a me con un bel numero di cooperatori Salesiani, fra i quali distinsi Mons. Espinosa, il Dottor Torrero, il Dottor Caranza e il Vicario generale del Chile [forse si voleva dire di Mons. Domenico Cruz, Vicario Capitolare della diocesi di Concepción]. Allora il solito interprete venne verso di me che parlava con Mons. Cagliero e molti altri, mentre andavamo studiando se quel fatto racchiudesse qualche significazione. Nel modo più cortese l’interprete mi disse:
            – Ascoltate e vedrete.
            Ed ecco in quel momento la vasta pianura divenire una gran sala. Io non posso descrivere esattamente quale apparisse nella sua magnificenza e nella sua ricchezza. Dico solo che se uno si mettesse a descriverla, nessun uomo potrebbe sostenerne lo splendore neppure coll’immaginazione. L’ampiezza era tale che si perdeva a vista d’occhio e non si riusciva a vederne le mura laterali. La sua altezza non si poteva raggiungere. La volta terminava tutta con archi altissimi, larghissimi e risplendentissimi e non si vedeva sopra qual sostegno si appoggiassero. Non vi erano né pilastri, né colonne. In generale sembrava che la cupola di quella gran sala fosse di un candidissimo lino a guisa di tappezziera. Lo stesso dicasi del pavimento. Non vi erano lumi, né sole, né luna, né stelle, ma sebbene uno splendore generale, diffuso egualmente in ogni parte. La stessa bianchezza dei lini luccicava e rendeva visibile ed amena ogni parte, ogni ornamento, ogni finestra, ogni entrata, ogni uscita. Tutto intorno era diffusa una soavissima fragranza, la quale era mescolanza di tutti gli odori più grati.
            Un fenomeno si scorse in quel momento. Una gran quantità di tavole in forma di mensa si trovavano là di una lunghezza straordinaria. Ve ne erano per tutte le direzioni, ma concorrevano ad un centro solo. Erano coperte da eleganti tovaglie e sopra stavano disposti in ordine bellissimi vasi cristallini in cui erano fiori molti e vari.
            La prima cosa che notò Mons. Cagliero fu:
            – Le tavole ci sono, ma i commestibili dove sono?
            Infatti non era apparecchiato nessun cibo e nessuna bevanda, anzi neppure vi erano piatti, coppe o altri recipienti nei quali porre le vivande.
            L’amico interprete rispose allora:
            – Quelli che vengono qui, neque sitient, neque esurient amplius (Non avranno più fame né avranno più sete Ap. 7.16).
            Detto questo incominciò ad entrare gente, tutta vestita in bianco con una semplice striscia come collana, di color di rosa ricamata a fili d’oro che cingeva il collo e le spalle. I primi che entrarono erano in numero limitato. Solo alcuni in piccola schiera. Appena entrati in quella gran sala andavano a sedersi intorno ad una mensa loro preparata, cantando: Evviva! Ma dopo queste, altre schiere più numerose si avanzavano, cantando: Trionfo! Ed allora incominciò a comparire una varietà di persone, grandi e piccoli, uomini e donne, di ogni generazione, diversi di colore, di forme, di atteggiamenti e da tutte parti risuonavano cantici. Si cantava: Evviva! da quelli che erano già al loro posto. Si cantava trionfo! da quelli che entravano. Ogni turba che entrava erano altrettante nazioni o parti di nazioni che saranno tutte convertite dai missionari.
            Ho dato un colpo d’occhio a quelle mense interminabili e conobbi che là sedute e cantando vi erano molte nostre suore e gran numero dei nostri confratelli. Costoro però non avevano nessun distintivo di essere preti, chierici, o suore, ma egualmente come gli altri avevano la veste bianca e il pallio color di rosa.
            Ma la mia meraviglia crebbe quando ho veduto uomini dall’aspetto ruvido, col medesimo vestito degli altri e cantare: Evviva trionfo! In quel momento il nostro interprete disse:
            – Gli stranieri, i selvaggi che bevettero il latte della parola divina dai loro educatori, divennero banditori della parola di Dio.
            Osservai pure in mezzo alla folla schiere di fanciulli con aspetto rozzo e strano e domandai:
            – E questi fanciulli che hanno una pelle così ruvida, che sembra quella di un rospo, ma pure così bella e di un colore così risplendente? Chi sono costoro?
            L’interprete rispose:
            – Questi sono i figliuoli di Cam che non hanno rinunziato alla eredità di Levi. Essi rinforzeranno le armate per tutelare il regno di Dio che finalmente è giunto anche fra noi. Era piccolo il loro numero, ma i figli dei figli loro lo accrebbero. Ora ascoltate e vedete, ma non potete intendere i misteri che vedrete.
            Quei giovanetti appartenevano alla Patagonia ed all’Africa Meridionale.
            In quel mentre si ingrossarono tanto le file di coloro che entrarono in quella sala straordinaria, che ogni sedia pareva occupata. Le sedie e i sedili non avevano forma determinata, ma prendevano quella forma che ciascheduno desiderava. Ognuno era contento del seggio che occupava e del seggio che occupavano gli altri.
            Ed ecco mentre si gridava da tutte Evviva! trionfo! ecco sopraggiungere in ultimo una gran turba che festevolmente veniva incontro agli altri già entrati e cantando: Alleluia, gloria, trionfo!
            Quando la sala apparve interamente piena, e le migliaia dei radunati non si potevano numerare, si fece un profondo silenzio e quindi quella moltitudine incominciò a cantare divisa in diversi cori.
            Il primo coro: Appropinquavit in nos regnum Dei (È vicino a voi il regno di Dio Lc. 10,11); laetentur Coeli et exultet terra (Gioiscano i cieli, esulti la terra, 1Cr 16,31); Dominus regnavit super nos (Il Signore regnò su di noi); alleluia.
            Altro coro: Vicerunt; et ipse Dominus dabit edere de ligno vitae et non esurient in aeternum: alleluia (Al vincitore darò da mangiare dall’albero della vita e non avrà fame in eterno, alleluia Ap. 2,7).
            Un terzo coro: Laudate Dominum omnes gentes, laudate eum omnes populi. (Genti tutte, lodate il Signore, popoli tutti, cantate la sua lode, Ps 117,1)
            Mentre queste ed altre cose cantavano e si alternavano, a un tratto si fece per la seconda volta un profondo silenzio. Quindi incominciarono a risuonare voci che venivano dall’alto e lontane. Il senso del cantico era questo con una armonia che non si può in nessun modo esprimere: Soli Deo honor et gloria in saecula saeculorum ([solo a Dio] onore e gloria nei secoli dei secoli 1Tm 1,17). Altri cori sempre in alto e lontani rispondevano a queste voci: Semper gratiarum actio illi qui erat, est, et venturus est. Illi eucharistia, illi soli honor sempiternus (Ringraziamento in eterno a Colui che era, che è e che verrà. A lui l’Eucaristia, a lui solo l’eterno onore).
            Ma in quel momento quei cori si abbassarono e si avvicinarono. Fra quei musici celesti vi era anche Luigi Colle. Gli altri che stavano nella sala si misero allora tutti a cantare e si unirono, collegandosi le voci insieme in somiglianza di straordinari istrumenti musicali, con suoni la cui estensione non aveva limiti. Quella musica sembrava avesse contemporaneamente mille note e mille gradi di elevazione che si associavano a fare un solo accordo di voci. Le voci in alto salivano così acute che non si può immaginare. Le voci di coloro che erano nella sala scendevano sonore, rotonde così basso che non si può esprimere. Tutti formavano un coro solo, una sola armonia, ma così i bassi come gli alti con tale gusto e bellezza e con tale penetrazione in tutti i sensi dell’uomo e assorbimento di questi, che l’uomo dimenticava la propria esistenza, ed io caddi in ginocchio ai piedi di Mons. Cagliero esclamando:
            – Oh Cagliero! Noi siamo in paradiso!
            Mons. Cagliero mi prese per mano e mi rispose:
            – Non è il paradiso, è una semplice, una debolissima figura di ciò che in realtà sarà in paradiso.
            Intanto unanimi le voci dei due grandiosi cori proseguivano, e cantavano con inesprimibile armonia: Soli Deo honor et gloria, et triumphus alleluia, in aeternum in aeternum! (Solo a Dio onore e gloria e vittoria alleluia, nei secoli dei secoli!) Qui ho dimenticato me stesso e non so più che cosa sia stato di me. Al mattino stentava a levarmi di letto; appena appena potei richiamarmi a me stesso, quando sono andato a celebrare la santa Messa.
            Il pensiero principale che mi restò impresso dopo questo sogno, fu di dare a Mons. Cagliero ed ai miei cari missionari un avviso di somma importanza riguardante le sorti future delle nostre missioni: – Tutte le sollecitudini dei Salesiani e delle suore di Maria Ausiliatrice siano rivolte a promuovere le vocazioni ecclesiastiche e religiose.
(MB XVII, 299-305)