Mons. Giuseppe Malandrino e il Servo di Dio Nino Baglieri
È tornato alla Casa del Padre, lo scorso 3 agosto 2025, nel giorno in cui si celebra la festa della Patrona della Diocesi di Noto, Maria Scala del Paradiso, monsignor Giuseppe Malandrino, IX vescovo della diocesi netina. 94 anni di età, 70 anni di sacerdozio e 45 anni di consacrazione episcopale sono numeri di tutto rispetto per un uomo che ha servito la Chiesa da Pastore con “l’odore delle pecore” come sottolineava spesso Papa Francesco.
Parafulmine dell’umanità Nell’esperienza di pastore della Diocesi di Noto (19.06.1998 – 15.07.2007) ha avuto modo di coltivare l’amicizia con il Servo di Dio Nino Baglieri. Non mancava quasi mai una “sosta” a casa di Nino quando i motivi pastorali lo portavano a Modica. In una sua testimonianza mons. Malandrino dice: “…trovandomi al capezzale di Nino, avevo la percezione viva che questo nostro amato fratello infermo fosse veramente “parafulmine dell’umanità”, secondo una concezione dei sofferenti a me tanto cara e che ho voluto proporre anche nella Lettera Pastorale sulla missione permanente Mi sarete testimoni” (2003). Scrive mons. Malandrino: “È necessario riconoscere nei malati e sofferenti il volto di Cristo sofferente e assisterli con la stessa premura e con lo stesso amore di Gesù nella sua passione, vissuta in spirito di ubbidienza al Padre e di solidarietà ai fratelli”. Ciò è stato, pienamente incarnato dalla carissima mamma di Nino, la signora Peppina. Lei tipica donna siciliana, con un carattere forte e tanta determinazione, risponde al medico che gli propone l’eutanasia per suo figlio (viste le gravi condizioni di salute e la prospettiva di una vita da paralitico): “se il Signore lo vuole lo prende, ma se me lo lascia così sono contenta di accudirlo per tutta la vita”. La mamma di Nino, in quel momento era consapevole di quello a cui andava incontro? Maria, la madre di Gesù era consapevole di quanto dolore avrebbe dovuto soffrire, per il Figlio di Dio? La risposta, a leggerla con gli occhi umani, sembra non facile, soprattutto nella nostra società del XXI secolo dove tutto è labile, fluttuante, si consuma in un “istante”. Il Fiat di mamma Peppina divenne, come quello di Maria, un Sì di Fede e di adesione a quella volontà di Dio che trova compimento nel saper portate la Croce, nel saper dare “anima e corpo” alla realizzazione del Piano di Dio.
Dalla sofferenza alla gioia Il rapporto di amicizia tra Nino e mons. Malandrino era già avviato quando quest’ultimo era ancora vescovo di Acireale, infatti già nel lontano 1993, per il tramite di Padre Attilio Balbinot, un camilliano molto vicino a Nino, lo omaggia del suo primo libro: “Dalla sofferenza alla gioia”. Nell’esperienza di Nino il rapporto con il Vescovo della sua diocesi era un rapporto di filiazione totale. Sin dal momento della sua accettazione del Piano di Dio su di lui, egli faceva sentire la propria presenza “attiva” offrendo le sofferenze per la Chiesa, il Papa e i Vescovi (nonché i sacerdoti e i missionari). Questo rapporto di filiazione veniva annualmente rinnovato in occasione del 6 maggio, giorno della caduta visto poi come inizio misterioso d’una rinascita. L’8 maggio 2004, pochi giorni dopo aver festeggiato Nino il 36.mo anniversario di Croce, mons. Malandrino si reca a casa sua. Egli in ricordo di quell’incontro scrive nelle sue memorie: “è sempre una grande gioia ogni volta che la vedo e ricevo tanta carica e forza per portare la mia Croce e offrila con tanto Amore per i bisogni della Santa Chiesa e in particolare per il mio Vescovo e per la nostra Diocesi, il Signore gli dia sempre più santità per guidarci per tanti anni sempre con più ardore e amore…”. Ancora: “… la Croce è pesante ma il Signore mi dona tante Grazie che rendono la sofferenza meno amara e diventa leggera e soave, la Croce si fa Dono, offerta al Signore con tanto Amore per la salvezza delle anime e la Conversione dei Peccatori…”. Infine, è da sottolineare come, in queste occasioni di grazia, non mancasse mai la pressante e costante richiesta di “aiuto a farsi Santo con la Croce di ogni giorno”. Nino, infatti, vuole assolutamente farsi santo.
Una beatificazione anticipata Momento di grande rilevanza hanno rappresentato, in tal senso, le esequie del Servo di Dio il 3 marzo 2007, quando proprio mons. Malandrino, all’inizio della Celebrazione Eucaristica, con devozione si china, anche se con difficoltà, a baciare la bara che conteneva le spoglie mortali di Nino. Era un ossequio a un uomo che aveva vissuto 39 anni della sua esistenza in un corpo che “non sentiva” ma che sprigionava gioia di vivere a 360 gradi. Mons. Malandrino sottolineò che la celebrazione della Messa, nel cortile dei Salesiani divenuto per l’occasione “cattedrale” a cielo aperto, era stata un’autentica apoteosi (hanno partecipato migliaia di persone in lacrime) e si percepiva chiaramente e comunitariamente di trovarsi dinanzi non a un funerale, ma a una vera “beatificazione”. Nino, con la sua testimonianza di vita, era infatti diventato un punto di riferimento per tanti, giovani o meno giovani, laici o consacrati, madri o padri di famiglia, che grazie alla sua preziosa testimonianza riuscivano a leggere la propria esistenza e trovare risposte che non riuscivano a trovare altrove. Anche mons. Malandrino ha più volte sottolineato questo aspetto: «in effetti, ogni incontro con il carissimo Nino è stato per me, come per tutti, una forte e viva esperienza di edificazione e un potente – nella sua dolcezza – sprone alla paziente e generosa donazione. La presenza del Vescovo conferiva a lui ogni volta immensa gioia perché, oltre l’affetto dell’amico che veniva a visitarlo, vi percepiva la comunione ecclesiale. È ovvio che quanto ricevevo da lui era sempre molto di più quel poco che potevo donargli». Il “chiodo” fisso di Nino, era “farsi santo”: l’aver vissuto e incarnato appieno l’evangelo della Gioia nella Sofferenza, con i suoi patimenti fisici e il suo dono totale per l’amata Chiesa, hanno fatto sì che tutto non finisse con la sua dipartita verso la Gerusalemme del Cielo, ma continuasse ancora, come sottolineò mons. Malandrino alle esequie: “… la missione di Nino continua ora anche attraverso i suoi scritti, Egli stesso lo aveva preannunciato nel suo Testamento spirituale”: “… i miei scritti continueranno la mia testimonianza, continuerò a dare Gioia a tutti e a parlare del Grande Amore di Dio e delle Meraviglie che ha fatto nella mia vita”. Questo ancora si sta avverando perché non può stare nascosta “una città posta sopra un monte e non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candeliere, perché faccia luce a tutti coloro che sono in casa” (Matteo 5,14-16). Metaforicamente si vuole sottolineare che la “luce” (intesa in senso lato) deve essere visibile, prima o poi: ciò che è importante verrà alla luce e sarà riconosciuto.
Riandare in questi giorni – segnati dalla morte di mons. Malandrino, dai suoi funerali ad Acireale (5 agosto, Madonna della Neve) e a Noto (7 agosto) con tumulazione a seguire nella cattedrale di cui egli stesso volle fortemente la ristrutturazione dopo il crollo del 13 marzo1996 e che fu riaperta nel marzo 2007 (mese in cui Nino Baglieri morì) – significa ripercorrere questo legame tra due grandi figure della Chiesa netina, fortemente intrecciate ed entrambe capaci di lasciare in essa un segno che non passa.
Roberto Chiaramonte
Corona dei sette dolori di Maria
La pubblicazione “Corona dei sette dolori di Maria” rappresenta una cara devozione che san Giovanni Bosco inculcava ai suoi giovani. Seguendo la struttura della “Via Crucis”, le sette scene dolorose sono proposte con brevi considerazioni e preghiere, per guidare a una più viva partecipazione alle sofferenze di Maria e del suo Figlio. Ricco di immagini affettive e di spiritualità contrita, il testo riflette il desiderio di unirsi all’Addolorata nella compassione redentrice. Le indulgenze concesse da vari Pontefici attestano l’alto valore pastorale del testo che è un piccolo tesoro di preghiera e riflessione, per alimentare l’amore verso la Madre dei dolori.
Proemio II primario fine di questa Operetta è di facilitare la rimembranza e la meditazione degli acerbissimi Dolori del tenero Cuore di Maria, cosa a Lei molto gradita, come più volte ha rivelato ai suoi devoti, e mezzo per noi efficacissimo per ottenere il suo patrocinio. Affinché poi si renda più facile lo esercizio di una tale Meditazione si praticherà primieramente con una corona in cui sono accennati i sette principali dolori di Maria, i quali si potranno quindi meditare in sette distinte brevi considerazioni nel modo che suole farsi la Via Crucis. Ci accompagni il Signore colla sua celeste grazia e benedizione perché si ottenga il bramato intento, sicché l’anima di ciascuno resti vivamente penetrata dalla frequente memoria dei dolori di Maria con vantaggio spirituale dell’anima, e tutto a maggior gloria di Dio.
Corona dei sette dolori della Beata Vergine Maria con sette brevi considerazioni sopra i medesimi esposte in forma della Via Crucis
Preparazione Carissimi fratelli e sorelle in Gesù Cristo, noi facciamo i nostri soliti esercizi meditando devotamente gli acerbissimi dolori che la B. V. Maria patì nella vita e morte del suo amato Figlio e nostro Divin Salvatore. Immaginiamoci di trovarci presenti a Gesù pendente in croce, e che l’afflitta sua madre dica a ciascuno di noi: Venite, e vedete se vi è dolore eguale al mio. Persuasi che questa Madre pietosa ci voglia concedere speciale protezione nel meditare i suoi dolori, invochiamo il Divino aiuto colle seguenti preghiere:
Antif. Veni, Sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium, et tui amoris in eis ignem accende.
Emitte Spiritum tuum et creabuntur Et renovabis faciem terrae. Memento Congregationis tuae, Quam possedisti ab initio. Domine exaudi orationem meam. Et clamor meus ad te veniat.
Oremus. Mentes nostras, quaesumus, Domine, lumine tuae claritatis illustra, ut videre possimus quae agenda sunt, et quae recta sunt, agere valeamus. Per Christum Dominum Nostrum. Amen.
Primo dolore. Profezia di Simeone Il primo dolore fu allora quando la Beata Vergine Madre di Dio avendo presentato l’unico suo Figlio al Tempio nelle braccia del santo vecchio Simeone, le fu dal medesimo detto: questo sarà una spada che trapasserà l’anima tua, la qual cosa denotava la passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo. Un Pater e sette Ave Maria.
Orazione O Vergine addolorata, per quell’acutissima spada, con cui il santo vecchio Simeone vi predisse che sarebbe stata trafitta l’anima vostra nella passione e morte del vostro caro Gesù, vi supplico ad impetrarmi grazia di aver sempre presente la memoria del vostro cuore trafitto e delle acerbissime pene sofferte dal vostro Figlio per la mia salute. Così sia.
Secondo dolore. Fuga in Egitto Il secondo dolore della Beata Vergine fu quando le convenne fuggire in Egitto per la persecuzione del crudele Erode, che empiamente cercava di uccidere il suo amato Figlio. Un Pater e sette Ave Maria.
Orazione O Maria, mare amarissimo di lagrime, per quel dolore che provaste fuggendo in Egitto per assicurare il vostro Figliuolo dalla barbara crudeltà di Erode, vi supplico che vogliate essere mia guida, affinché per mezzo vostro io resti libero dalle persecuzioni dei visibili e invisibili nemici dell’anima mia. Così sia.
Terzo dolore. Perdita di Gesù nel tempio Il terzo dolore della Beata Vergine fu quando al tempo della Pasqua, dopo di essere stata col suo sposo Giuseppe e coll’amato figlio Gesù Salvatore in Gerusalemme, nel ritornarsene alla sua povera casa, lo smarrì e per tre giorni continui sospirò la perdita del suo unico Diletto. Un Pater e sette Ave Maria.
Orazione O Madre sconsolata, voi che nella perdita della presenza corporale del vostro Figlio, lo andaste per tre giorni continui ansiosamente cercando, deh! impetrate grazia a tutti i peccatori onde ancora essi lo vadano cercando con atti di contrizione e lo ritrovino. Così sia.
Quarto dolore. Incontro di Gesù che porta la Croce Il quarto dolore della Beata Vergine fu quando s’incontrò col suo dolcissimo Figlio che portava una pesante croce sulle delicate spalle al Monte Calvario a fine di essere crocifisso per la nostra salute. Un Pater e sette Ave Maria.
Orazione O Vergine più d’ogni altra appassionata, per quello spasimo che provaste nel cuore incontrandovi nel vostro Figlio mentre portava il legno della Santissima Croce verso il Monte Calvario, fate, vi prego, che io ancora l’accompagni di continuo col pensiero, pianga le mie colpe, manifesta cagione dei suoi e vostri tormenti. Così sia.
Quinto dolore. Crocifissione di Gesù Il quinto dolore della B. Vergine fu quando vide il suo Figlio alzato sopra il duro tronco della Croce, che da ogni parte del suo Sacratissimo Corpo versava sangue. Un Pater e sette Ave Maria.
Orazione O Rosa fra le spine, per quegli amari dolori che trafissero il vostro seno rimirando cogli occhi propri trafitto e sollevato in Croce il vostro Figlio, ottenetemi, vi prego, che con assidue meditazioni solo ricerchi Gesù crocifisso a cagione dei miei peccati. Così sia.
Sesto dolore. Deposizione di Gesù dalla croce Il sesto Dolore della Beata Vergine fu allora quando il suo amato Figliuolo essendo ferito nel costato dopo la sua morte e deposto dalla Croce, così spietatamente ucciso, venne posto tra le sue Santissime braccia. Un Pater e sette Ave Maria.
Orazione O Vergine travagliata, voi che sconfitto di Croce il vostro Figlio, l’accoglieste morto nel grembo, e baciando quelle sacratissime Piaghe, vi spargeste sopra un mare di lagrime, deh! fate che anch’io con lagrime di vera compunzione lavi di continuo le ferite mortali che vi fecero i miei peccati. Così sia.
Settimo dolore. Sepoltura di Gesù. Il settimo Dolore di Maria Vergine Signora ed Avvocata di noi suoi servi e miseri peccatori fu quando accompagnò il Santissimo Corpo del suo Figlio alla sepoltura. Un Pater e sette Ave Maria.
Orazione O Martire dei Martiri Maria, per quell’acerbo tormento che soffriste allorché sepolto il vostro Figlio vi convenne allontanarvi da quella tomba amata, ottenete grazia, vi prego, a tutti i peccatori, affinché conoscano di quanto grave danno sia all’anima l’essere lontana dal suo Dio. Così sia.
Si reciteranno tre Ave Maria in segno di profondo rispetto alle lagrime che sparse la Beata Vergine in tutti i suoi Dolori per impetrare per mezzo suo un simile pianto per i nostri peccati. Ave Maria etc.
Finita la Corona si recita il pianto della Beata Vergine, ossia l’inno Stabat Mater etc.
Inno – Pianto della Beata Vergine Maria
Stabat Mater dolorosa Iuxta crucem lacrymosa, Dum pendebat Filius.
Cuius animam gementem Contristatam et dolentem Pertransivit gladius.
O quam tristis et afflicta Fuit illa benedicta Mater unigeniti!
Quae moerebat, et dolebat, Pia Mater dum videbat. Nati poenas inclyti.
Quis est homo, qui non fleret, Matrem Christi si videret In tanto supplicio?
Quis non posset contristari, Christi Matrem contemplari Dolentem cum filio?
Pro peccatis suae gentis Vidit Iesum in tormentis Et flagellis subditum.
Vidit suum dulcem natura Moriendo desolatum, Dum emisit spiritum.
Eia mater fons amoris, Me sentire vim doloris Fac, ut tecum lugeam.
Fac ut ardeat cor meum In amando Christum Deum, Ut sibi complaceam.
Sancta Mater istud agas, Crucifixi fige plagas Cordi meo valide.
Tui nati vulnerati Tam dignati pro me pati Poenas mecum divide.
Fac me tecum pie flere, Crucifixo condolere, Donec ego vixero.
Iuxta Crucem tecum stare, Et me tibi sociare In planctu desidero.
Virgo virginum praeclara, Mihi iam non sia amara, Fac me tecum plangere.
Fac ut portem Christi mortem, Passionis fac consortem, Et plagas recolere.
Fac me plagis vulnerari, Fac me cruce inebriari, Et cruore Filii.
Flammis ne urar succensus, Per te, Virgo, sim defensus In die Iudicii.
Christe, cum sit hine exire, Da per matrem me venire Ad palmam victoriae.
Quando corpus morietur, Fac ut animae donetur Paradisi gloria. Amen.
Stava Maria dolente Senza respiro e voce Mentre pendeva in croce Del mondo il Redentor.
E nel fatale istante Crudo materno affetto Le trafiggeva il petto, Le lacerava il cor.
Qual di quell’Alma bella Fosse lo strazio indegno, No, che l’umano ingegno Immaginar non può.
Vedere un Figlio… un Dio… Che palpita, che more! Sì barbaro dolore Qual madre mai provò?
Alla funerea scena Chi tiene il pianto a freno, Un cuor di tigre ha in seno, O core in sen non ha.
Chi può mirar in tante Pene una Madre, un Figlio E non bagnar il ciglio, E non sentir pietà?
Per cancellar i falli D’un popol empio, ingrato Vide Gesù piagato Languire e spasimar.
Vide sull’atro Golgota Il figlio tuo diletto Chinar la fronte al petto, E l’anima sua spirar.
O dolce Madre, o puro Fonte di santo amore, Parte del tuo dolore Fa che mi scenda al cor.
Fa, che il pensier profano Sdegnosamente io sprezzi, Che a sospirar m’avvezzi Sol di celeste ardor.
Le barbare ferite Prezzo del mio delitto, Del figlio tuo trafitto Passino, o Madre, in me.
A me dovuti sono Gli strazi, ch’Ei soffri; Deh! fa, che possa anch’io Piangere almen con te.
Teca si strugga in lagrime Quest’anima gemente: È se non fu innocente, Terga il suo fallo almen.
Teco alla Croce accanto Star, cara Madre, io voglio, Compagno a quel cordoglio, Che ti trafigge il sen.
Ah! tu, che delle Vergini Regina in Ciel ti assidi, Ah tu propizia arridi Ai voti del mio cor.
Del buon Gesù spirante Sul fero tronco esangue La croce, il fiele, il sangue Fa ch’io rammenti ognor.
Del Salvator rinnova In me lo scempio atroce, Il sangue, il fiel, la Croce Tutto provar mi fa.
Ma nell’estremo giorno, Quando ci verrà sdegnato, Rendalo a me placato, Maria, la tua pietà.
Gesù che nulla nieghi A chi tua Madre implora, Del mio morir nell’ora Non mi negar mercè.
E quando sia disciolto Dal suo corporeo velo, Fa che il mio spirto in Cielo Voli a regnar con te.
Il Sommo Pontefice Innocenzo XI concede l’indulgenza di 100 giorni ogni volta che si recita lo Stabat Mater. Benedetto XIII accordò l’indulgenza di sette anni a chi reciterà la Corona dei sette dolori di Maria. Moltissime altre indulgenze furono concesse da altri sommi Pontefici specialmente ai Confratelli e Consorelle della compagnia di Maria Addolorata.
I sette dolori di Maria meditati in forma della Via Crucis
S’invochi il divino aiuto dicendo: Actiones nostras, quaesumus Domine, aspirando praeveni, et adiuvando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a te semper incipiat, et per te coepta finiatur. Per Christum Dominum Nostrum. Amen.
Atto di Contrizione Afflittissima Vergine, ahi! quanto sconoscente nel tempo trascorso io sono stato verso il mio Dio, con quanta ingratitudine ho corrisposto agl’innumerabili suoi benefizi! Ora me ne pento, e nell’amarezza del mio cuore e nel pianto dell’anima mia, domando a Lui umilmente perdono per avere oltraggiato la sua infinita bontà, resolutissimo in avvenire colla celeste grazia di non mai più offenderlo. Deh? per tutti i dolori che sopportaste nella barbara passione del vostro amato Gesù vi prego coi più profondi sospiri ad ottenermi dal medesimo, pietà e misericordia dei miei peccati. Gradite questo santo esercizio che sono per fare e ricevetelo in unione di quelle pene e di quei dolori che Voi soffriste per il vostro figliuolo Gesù. Ah concedetemi! sì concedetemi che quelle stesse spade che trafissero il vostro spirito, trapassino anche il mio, e che viva e muoia nell’amicizia del mio Signore, per partecipare eternamente della gloria che egli mi ha acquistato con il suo prezioso Sangue. Così sia.
Primo dolore In questo primo dolore immaginiamoci di trovarci nel tempio di Gerusalemme, dove la Beatissima Vergine ascoltò la profezia del vecchio Simeone.
Meditazione Ah! Quali ambasce avrà provato il cuore di Maria nel sentire le dolorose parole, con cui le era predetta dal Santo vecchio Simeone l’acerba passione e l’atroce morte del suo dolcissimo Gesù: mentre in quello stesso punto si affacciarono alla di lei mente gli affronti, gli strapazzi e le carneficine che gli empi Giudei avrebbero fatto del Redentore del mondo. Ma sai quale fu la spada più penetrante che in questa circostanza la trafisse? Fu il considerare l’ingratitudine con cui il diletto suo Figlio sarebbe stato contraccambiato dagli uomini. Ora riflettendo che, per cagione dei tuoi peccati sei miseramente nel numero di questi tali, ah! gettati ai piè di questa Madre Addolorata e dille piangendo così (ognuno s’inginocchia): Deh! Pietosissima Vergine, che provaste un sì acerbo spasimo nel vostro spirito vedendo l’abuso quale io indegna creatura avrei fatto del sangue del vostro amabile Figlio, fate, sì fate per il vostro afflittissimo Cuore, che io in avvenire corrisponda alle Divine Misericordie, mi approfitti delle celesti grazie, non riceva invano tanti lumi e tante inspirazioni che voi vi degnerete ottenermi onde abbia la sorte di essere nel numero di coloro per i quali l’amara passione di Gesù saia di eterna salvezza. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.
Maria, dolce mio bene, Stampate nel mio cuor le vostre pene.
Secondo dolore In questo secondo dolore consideriamo il penosissimo viaggio che la Vergine fece verso l’Egitto per liberare Gesù dalla crudele persecuzione di Erode.
Meditazione Considera l’acerbo dolore che avrà provato Maria quando di notte tempo dovette mettersi in cammino per ordine dell’Angelo a fine di preservare il suo Figliuolo dalla strage ordinata da quel fierissimo Principe. Ah! che ad ogni grido di animale, ad ogni soffio di vento, ad ogni moto di foglia che sentiva per quelle strade deserte si riempieva di spavento per timore di qualche inconveniente al bambino Gesù che seco portava. Ora si rivolgeva da una parte, ora dall’altra, or affrettava il passo, ora si nascondeva credendosi di essere sopraggiunta dai soldati, che strappando dalle sue braccia il suo amabilissimo Figlio ne avessero fatto sotto gli sguardi suoi barbaro trattamento e fissando l’occhio lagrimoso sopra il suo Gesù e stringendolo fortemente al petto, dandogli mille baci, mandava dal cuore i più affannosi sospiri. E qui rifletti quante volte hai tu rinnovato questo acerbo dolore a Maria sforzando il suo Figliuolo coi tuoi gravi peccati a fuggire dall’anima tua. Ora che conosci il gran male commesso rivolgiti pentito a questa pietosa Madre e dille così: Ah Madre dolcissima! Una volta Erode costrinse voi con il vostro Gesù a prendere la fuga per l’inumana persecuzione da esso comandata; ma io oh! quante volte obbligai il mio Redentore e per conseguenza ancora voi a partire rapidamente dal mio cuore, introducendo nel medesimo il maledetto peccato, spietato nemico vostro e del mio Dio. Deh! tutto dolente e contrito ve ne domando umilmente perdono. Sì, misericordia, o cara Madre, misericordia, e vi prometto in avvenire col Divino aiuto di mantenere sempre il mio Salvatore e Voi nel totale possesso dell’anima mia. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.
Maria, dolce mio bene, Stampate nel mio cuor le vostre pene.
Terzo dolore In questo terzo dolore consideriamo l’afflittissima Vergine che lagrimosa va in traccia del suo smarrito Gesù.
Meditazione Quanto mai fu grande la pena di Maria, quando si avvide di avere perduto l’amabile suo Figlio! e come si accrebbe il suo dolore allorché avendolo diligentemente ricercato presso gli amici, parenti e vicini non poté avere alcuna notizia di Lui. Essa non badando agl’incomodi, alla stanchezza, ai pericoli andò raminga tre giorni continui per le contrade della Giudea, ripetendo quelle parole di desolazione: forse alcuno ha veduto colui che veramente ama l’anima mia? Ah! che la grande ansietà con cui lo andava ricercando, le faceva immaginare ad ogni momento di vederlo, o di ascoltarne la voce: ma poi conoscendosi delusa, oh come si raccapricciava e più sensibile provava il rammarico di una tale deplorabilissima perdita! Confusione grande per le, o peccatore, il quale avendo tante volte smarrito il tuo Gesù coi gravi mancamenti commessi, non ti desti alcuna premura di andarlo a ricercare, chiaro segno, che poco o niuno conto fai del prezioso tesoro della Divina amicizia. Piangi dunque la tua cecità, e volgendoti a quest’Addolorata Madre, dille sospirando così: Afflittissima Vergine, deh fate che impari da voi il vero modo di andare in cerca di Gesù ch’io ho smarrito per secondare le mie passioni e le inique suggestioni del demonio, acciocché mi riesca di ritrovarlo, e quando ne sarò tornato in possesso, ripeterò continuamente quelle vostre parole: Ho ritrovato quello che veramente ama il mio cuore; lo riterrò sempre con me, né lo lascerò mai più partire. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.
Maria, dolce mio bene, Stampate nel mio cuor le vostre pene.
Quarto dolore Nel quarto dolore consideriamo l’incontro che fece l’addolorata Vergine col suo appassionato Figliuolo.
Meditazione Venite pure, o cuori indurati e provate se potete reggere a questo lagrimevolissimo spettacolo. È una madre la più tenera, la più amorosa che incontra un suo Figlio il più dolce, il più amabile; e come l’incontra? Oh Dio! in mezzo alla più empia ciurmaglia che lo strascina crudelmente alla morte, carico di piaghe, grondante di sangue, lacero per le ferite, con una corona di spine in testa e con un tronco pesante sopra le spalle, affannato, ansante, languente che pare ad ogni passo voglia esalare l’estremo respiro. Ah! considera, anima mia, l’arresto mortale che fa la Santissima Vergine al primo sguardo che fissa sopra il suo tormentato Gesù; vorrebbe dargli l’ultimo addio, ma e come, se il dolore la impedisce di proferir parola? Vorrebbe gettarglisi al collo, ma resta immobile ed impietrita per la forza dell’interna afflizione; vorrebbe sfogarsi con il pianto, ma si sente talmente serrato ed oppresso il cuore, che non gli riesce di versare una lagrima. Oh! e chi può frenare le lagrime vedendo una povera Madre immersa in sì grande affanno? Ma chi mai è la cagione di una tale acerbissima pena? Ah, sano io, sì sono io con i miei peccati che ho fatto si barbara ferita al tenero vostro cuore, o Vergine Addolorata. Pure chi lo crederebbe? Resto insensibile senza punto essere commosso. Ma se fui ingrato per il passato, per l’avvenire non lo sarò più. Intanto prostrato ai vostri piedi, o Vergine Santissima, vi domando umilmente perdono di tanto rammarico che vi ho cagionato. Lo conosco e lo confesso che non merito pietà, essendo io il vero motivo per cui cadeste di dolore all’incontrare il vostro Gesù tutto coperto di piaghe; ma ricordatevi, sì ricordatevi che siete madre di misericordia. Ah dimostratevi dunque tale verso di me, ch’io vi prometto in avvenire di essere più fedele al mio Redentore, e così compensare tanti disgusti che ho dato al vostro afflittissimo spirito. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.
Maria, dolce mio bene, Stampate nel mio cuor le vostre pene.
Quinto dolore In questo quinto dolore immaginiamoci di trovarci sul Monte Calvario dove l’afflittissima Vergine vide spirare in Croce il suo amato Figliuolo.
Meditazione Eccoci al Calvario ove già sono innalzati due altari di sacrificio, uno nel corpo di Gesù, l’altro nel cuore di Maria. Oh funesto spettacolo! Miriamo la Madre affogata in un mare di affanni vedendosi rapito da spietata morte il caro ed amabile parto delle sue viscere. Ahimè! Ogni martellata, ogni piaga, ogni lacerazione che sopra le sue carni riceve il Salvatore, profondamente rimbombano nel cuore della Vergine. Essa sta ai piedi della Croce talmente penetrata dalla pena e trafitta per il cordoglio che non sapresti decidere chi sia per essere il primo a spirare, se Gesù, o Maria. Fissa l’occhio sul volto del suo Figlio agonizzante, considera le pupille languenti, il volto pallido, le labbra livide, il respiro difficile e conosce finalmente che egli più non vive e che già ha consegnato lo spirito in seno dell’eterno suo Padre. Ah che l’anima di Lei fa allora ogni sforzo possibile per dividersi dal corpo ed unirsi a quella di Gesù. E chi può reggere a tale vista. Oh addoloratissima Madre, voi invece di ritirarvi dal Calvario, a fine di non sentire sì al vivo le angosce, là ve ne state immobile per assorbire fino all’ultima stilla l’amaro calice delle vostre afflizioni. Che confusione dev’essere questa per me che cerco tutti i modi per scansare le croci e quei piccioli patimenti che per mio bene si degna mandarmi il Signore? Vergine addoloratissima, io mi umilio dinanzi a voi, deh! fate, che conosca una volta chiaramente il pregio ed il valore grande del patire, onde ci prenda tanto attaccamento, che non mi sazi mai di esclamare con S. Francesco Saverio: Plus Domine, Plus Domine, più patire, mio Dio. Ah sì, più patire, o mio Dio. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.
Maria, dolce mio bene, Stampate nel mio cuor le vostre pene.
Sesto dolore In questo sesto dolore immaginiamoci di vedere la sconsolarsi ma Vergine che riceve fra le braccia il defunto suo Figlio deposto dalla Croce.
Meditazione Considera l’acerbissima pena che penetrò l’anima di Maria, allorché vide nel suo seno posto il corpo defunto dell’amato Gesù. Ah! che nel fissare lo sguardo sopra le ferite e sopra le piaghe di lui, nel mirarlo rosseggiante del proprio sangue, fu tale l’impeto dell’interno cordoglio, che fu il suo cuore mortalmente trafitto, e se non morì fu l’onnipotenza Divina che la conservò in vita. O povera Madre, si, povera madre, che conducete alla tomba il caro oggetto delle vostre più tenere compiacenze, e che da un mazzo di rose è divenuto un fascio di spine per i maltrattamenti e lacerazioni fattegli dagli empi manigoldi. E chi non vi compatirà? Chi non si sentirà struggere dal dolore vedendovi in uno stato di afflizione da muovere a pietà anche il più duro macigno? Osservo Giovanni inconsolabile, la Maddalena colle altre Marie che si ciucciano acerbamente, Nicodemo che non può più reggere per l’afflizione. Ed io? io solo non verso una lagrima in mezzo a tanto duolo! Ingrato e sconoscente che sono! Deh! Madre pietosissima, eccomi ai vostri piedi, ricevetemi sotto la potente vostra protezione e fate che questo mio cuore resti trafitto da quella medesima spada che passò parte a parte il vostro afflittissimo spirito, onde si ammollisca una volta e pianga davvero i miei gravi peccati che hanno portato a Voi sì crudo martirio. E così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.
Maria, dolce mio bene, Stampate nel mio cuor le vostre pene.
Settimo dolore In questo settimo dolore consideriamo l’addoloratissima Vergine che vede chiudere nel sepolcro il suo defunto Figliuolo.
Meditazione Considera che mortale sospiro mandò l’afflitto cuore di Maria quando vide posto nella tomba il suo amabile Gesù! Oh che pena, che cordoglio provò il suo spirito allorché fu alzata la pietra con cui si doveva chiudere quel sacratissimo monumento! Non era possibile distaccarla dall’orlo del sepolcro, mentre il dolore era tale, che la rendeva insensibile ed immobile, non cessando mai di rimirare quelle piaghe e quelle crudeli ferite. Quando poi venne la tomba serrata o allora sì che tale fu la forza dell’interno rammarico, che sarebbe senza dubbio caduta estinta se Iddio non l’avesse in vita conservata. Oh travagliatissima madre! Voi partirete adesso col corpo da questo luogo, ma qui sicuramente resterà il vostro cuore, essendo qui il vostro vero tesoro. Ah fato, che in compagnia di lui resti tutto il nostro affetto, tutto il nostro amore, lì come potrà essere che non ci struggiamo di benevolenza verso il Salvatore, che ha dato tutto il suo sangue per nostra salvezza? Come potrà essere che noi non amiamo Voi che tanto avete sofferto per nostra cagione. Ora noi dolenti e pentiti di aver cagionato tanti dolori al vostro Figlio e a voi tanta amarezza ci prostriamo ai vostri piedi e per tutte quelle pene che ci faceste la grazia di meditare, concedeteci questo favore: che la memoria delle medesime resti sempre vivamente impressa nella nostra mente, che si consumino i nostri cuori per amore del nostro buon Dio, e di Voi nostra dolcissima Madre, e che l’ultimo sospiro della nostra vita sia unito a quelli che versaste dal fondo dell’anima vostra nella dolorosa passione di Gesù, a cui sia onore, gloria, e rendimento di grazie per tutti i secoli dei secoli. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.
Maria, dolce mio bene, Stampate nel mio cuor le vostre pene.
Quindi si dice lo Stabat Mater, come sopra.
Antifona. Tuam ipsius animam (ait ad Mariam Simeon) pertransiet gladius. Ora pro nobis Virgo Dolorosissima. Ut digni efficiamur promissionibus Christi.
Oremus Deus in cuius passionem secundum Simeonis prophetiam, dulcissimam animam Gloriosae Virginis et Matris Mariae doloris gladius pertransivit, concede propitius, ut qui dolorum eius memoriam recolimus, passionis tuae effectum felicem consequamur. Qui vivis etc.
Laus Deo et Virgo Dolorosissimae.
Con permissione della Revisione Ecclesiastica
La Festa dei Sette dolori di Maria Vergine Addolorata che si celebra dalla Pia Unione e Società, cade alla terza domenica di settembre nella Chiesa di S. Francesco d’Assisi.
Testo della 3a edizione, Torino, Tipografia di Giulio Speirani e figli, 1871
Il Venerabile mons. Stefano Ferrando
Mons. Stefano Ferrando è stato un esempio straordinario di dedizione missionaria e servizio episcopale, coniugando il carisma salesiano con una vocazione profonda al servizio dei più poveri. Nato nel 1895 in Piemonte, entrò giovane nella Congregazione salesiana e, dopo aver prestato servizio militare durante la Prima guerra mondiale, che gli valse la medaglia d’argento al valore, si dedicò all’apostolato in India. Vescovo di Krishnagar e poi di Shillong per oltre trent’anni, camminò instancabilmente fra le popolazioni, promuovendo l’evangelizzazione con umiltà e profondo amore pastorale. Fondò istituzioni, sostenne i catechisti laici e incarnò nel suo vivere il motto “Apostolo di Cristo”. La sua vita fu un esempio di fede, abbandono a Dio e totale donazione, lasciando un’eredità spirituale che continua ad ispirare la missione salesiana nel mondo.
Il venerabile Mons. Stefano Ferrando seppe coniugare la propria vocazione salesiana con il carisma missionario e il ministero episcopale. Nato il 28 settembre 1895 a Rossiglione (Genova, diocesi di Acqui) da Agostino e Giuseppina Salvi, si contraddistinse per un ardente amore a Dio e una tenera devozione alla beata Vergine Maria. Nel 1904 entrò nelle scuole salesiane, prima a Fossano e poi a Torino – Valdocco, dove conobbe i successori di Don Bosco e la prima generazione di Salesiani, e intraprese gli studi sacerdotali; nel frattempo nutrì il desiderio di partire missionario. Il 13 settembre 1912, a Foglizzo fece la sua prima professione religiosa nella Congregazione salesiana. Chiamato alle armi nel 1915, partecipò alla Prima guerra mondiale. Per il coraggio dimostrato gli venne conferita la medaglia d’argento al valore. Tornato a casa nel 1918, il 26 dicembre 1920 emise i voti perpetui. Fu ordinato sacerdote a Borgo San Martino (Alessandria) il 18 marzo 1923. Il 2 dicembre dello stesso anno, con nove compagni, s’imbarcò a Venezia come missionario in India. Il 18 dicembre, dopo 16 giorni di viaggio, il gruppo arrivò a Bombay e il 23 dicembre a Shillong, luogo del suo nuovo apostolato. Maestro dei novizi, educò i giovani salesiani all’amore per Gesù e Maria ed ebbe un grande spirito di apostolato. Il 9 agosto 1934 papa Pio XI lo nominò vescovo di Krishnagar. Il suo motto fu “Apostolo di Cristo”. Nel 1935, il 26 novembre, venne trasferito a Shillong dove rimarrà vescovo per 34 anni. Pur operando in una gravosa situazione di impatto culturale, religioso e sociale, Mons. Ferrando si prodigò instancabilmente per stare accanto al popolo che gli era stato affidato, lavorando con zelo nella vasta diocesi che comprendeva l’intera regione dell’India del Nord Est. Preferì alla macchina, di cui avrebbe potuto disporre, muoversi a piedi: questo gli permetteva infatti di incontrare le persone, fermarsi a parlare con loro, essere reso partecipe della loro vita. Tale contatto in diretta con la vita delle persone fu una delle principali ragioni della fecondità del suo annuncio evangelico: umiltà, semplicità, amore per i poveri spingono molti a convertirsi e a richiedere il Battesimo. Istituì un seminario per la formazione dei giovani salesiani indiani, costruì un ospedale, edificò un santuario dedicato a Maria Ausiliatrice e fondò la prima Congregazione di suore autoctone, la Congregazione delle Suore Missionarie di Maria Aiuto dei Cristiani (1942).
Uomo dal carattere forte, non si scoraggiò di fronte alle innumerevoli difficoltà, che affrontò con il sorriso e la mitezza. La perseveranza di fronte agli ostacoli fu una delle sue caratteristiche principali. Cercò di unire il messaggio evangelico alla cultura locale nella quale esso andava inserito. Fu intrepido nelle visite pastorali, che compì nei luoghi più sperduti della diocesi, pur di ricuperare l’ultima pecorella smarrita. Manifestò una particolare sensibilità e promozione per i catechisti laici, che considerava complementari alla missione del vescovo e da cui dipese buona parte della fecondità dell’annuncio del Vangelo e della sua penetrazione nel territorio. Immensa anche la sua attenzione alla pastorale familiare. Nonostante i numerosi impegni, il venerabile fu un uomo dalla ricca vita interiore, alimentata dalla preghiera e dal raccoglimento. Come Pastore fu apprezzato dalle sue suore, dai sacerdoti, dai confratelli salesiani e nell’episcopato, nonché dal popolo che lo sentì profondamente vicino. Si donò in maniera creativa al suo gregge, occupandosi dei poveri, difendendo gli intoccabili, curando i malati di colera. I punti-cardine della sua spiritualità furono il legame filiale con la Vergine Maria, lo zelo missionario, il continuo riferimento a Don Bosco, come emerge dai suoi scritti e in tutta la sua attività missionaria. Il momento più luminoso ed eroico della sua vita virtuosa fu l’abbandono della diocesi di Shillong. Mons. Ferrando dovette presentare al Santo Padre le dimissioni quando era ancora nel pieno delle proprie facoltà fisiche e intellettive, per consentire la nomina del suo successore, che andava scelto, secondo le superiori indicazioni, fra i sacerdoti indigeni da lui stesso formati. Fu un momento particolarmente doloroso, vissuto dal grande vescovo con umiltà e obbedienza. Egli comprese che era tempo di ritirarsi in preghiera secondo la volontà del Signore. Tornato a Genova nel 1969, continuò la sua attività pastorale, presiedendo le cerimonie per il conferimento della Cresima e dedicandosi al sacramento della Penitenza. Fu sino all’ultimo fedele alla vita religiosa salesiana, decidendo di vivere in comunità e rinunciando ai privilegi che la sua posizione di vescovo poteva riservargli. Egli in Italia continuò ad essere «a missionary». Non «a missionary who moves, but […] a missionary who is»: non un missionario che si muove, ma un missionario che è. La sua vita in questa ultima stagione diventò un “irradiare”. Egli diventa un “missionario della preghiera” che dice: «Sono contento di essere venuto via perché altri subentrassero a compiere opere così meravigliose». Da Genova Quarto, continuò ad animare la missione dell’Assam, sensibilizzando le coscienze ed inviando aiuti economici. Visse quest’ora di purificazione con spirito di fede, di abbandono alla volontà di Dio e di obbedienza, toccando con mano tutto il senso dell’espressione evangelica «siamo solo servi inutili», e confermando con la sua vita il caetera tolle, l’aspetto oblativo-sacrificale della vocazione salesiana. Morì il 20 giugno 1978 e venne sepolto a Rossiglione, sua terra natale. Nel 1987 le sue spoglie mortali furono riportate in India.
Nella docilità allo Spirito svolse una feconda azione pastorale, che si manifestò nel grande amore per i poveri, nell’umiltà di spirito e nella carità fraterna, nella gioia e nell’ottimismo dello spirito salesiano. Mons. Ferrando ha inaugurato, insieme a tanti missionari che con lui hanno condiviso l’avventura dello Spirito nella terra dell’India, tra i quali i Servi di Dio Francesco Convertini, Costantino Vendrame e Oreste Marengo, un nuovo metodo missionario: essere missionario itinerante. Tale esempio è un provvidenziale monito, soprattutto per le congregazioni religiose tentate da un processo di istituzionalizzazione e di chiusura, a non perdere la passione di andare incontro alle persone e alle situazioni di maggior povertà e indigenza materiale e spirituale, andando là dove nessuno vuole andare e affidandosi come lei fece. «Guardo con fiducia all’avvenire fidando in Maria Ausiliatrice… Mi affiderò all’Ausiliatrice che mi salvò già da tanti pericoli».
Santa Monica, madre di Sant’Agostino, testimone di speranza
Una donna dalla fede incrollabile, dalle lacrime feconde, esaudita da Dio dopo diciassette lunghi anni. Un modello di cristiana, sposa e madre per tutta la Chiesa. Una testimone di speranza che si è trasformata in potente intercessora nel Cielo. Lo stesso don Bosco raccomandava alle madri, afflitte per la vita poco cristiana dei loro figli, di affidarsi a lei nelle preghiere.
Nella grande galleria dei santi e delle sante che hanno segnato la storia della Chiesa, Santa Monica (331-387) occupa un posto singolare. Non per miracoli spettacolari, non per la fondazione di comunità religiose, non per imprese sociali o politiche di rilievo. Monica è ricordata e venerata anzitutto come madre, la madre di Agostino, il giovane inquieto che grazie alle sue preghiere, alle sue lacrime e alla sua testimonianza di fede divenne uno dei più grandi Padri della Chiesa e Dottori della fede cattolica. Ma limitare la sua figura al ruolo materno sarebbe ingiusto e riduttivo. Monica è una donna che seppe vivere la sua vita ordinaria — moglie, madre, credente — in modo straordinario, trasfigurando la quotidianità attraverso la forza della fede. È un esempio di perseveranza nella preghiera, di pazienza nel matrimonio, di speranza incrollabile di fronte alle deviazioni del figlio. Le notizie sulla sua vita ci giungono quasi esclusivamente dalle Confessioni di Agostino, un testo che non è una cronaca, ma una lettura teologica e spirituale dell’esistenza. Eppure, in quelle pagine Agostino traccia un ritratto indimenticabile della madre: non solo una donna buona e pia, ma un autentico modello di fede cristiana, una “madre delle lacrime” che diventano sorgente di grazia.
Le origini a Tagaste Monica nacque nel 331 a Tagaste, città della Numidia, Souk Ahras nell’attuale Algeria. Era un centro vivace, segnato dalla presenza romana e da una comunità cristiana già radicata. Proveniva da una famiglia cristiana agiata: la fede era già parte del suo orizzonte culturale e spirituale. La sua formazione fu segnata dall’influenza di una nutrice austera, che la educò alla sobrietà e alla temperanza. San Agostino scriverà di lei: “Non discorrerò per questo di doni suoi, ma di doni tuoi a lei, che non si era fatta da sé sola, né da sé sola educata. Tu la creasti senza che neppure il padre e la madre sapessero quale figlia avrebbero avuto; e l’ammaestrò nel tuo timore la verga del tuo Cristo, ossia la disciplina del tuo Unigenito, in una casa di credenti, membro sano della tua Chiesa.” (Confessioni IX, 8, 17).
Nelle stesse Confessioni Agostino racconta anche un episodio significativo: la giovane Monica aveva preso l’abitudine di bere piccoli sorsi di vino dalla cantina, finché una serva la rimproverò chiamandola “ubriacona”. Quel rimprovero le basto per correggersi definitivamente. Questo aneddoto, apparentemente minore, mostra la sua onestà di riconoscere i propri peccati, di lasciarsi correggere e di crescere in virtù.
A età di 23 anni Monica fu data in sposa a Patrizio, un funzionario municipale pagano, noto per il suo carattere collerico e la sua infedeltà coniugale. La vita matrimoniale non fu facile: la convivenza con un uomo impulsivo e distante dalla fede cristiana mise a dura prova la sua pazienza. Eppure, Monica non cadde mai nello scoraggiamento. Con un atteggiamento fatto di mitezza e rispetto, seppe conquistare progressivamente il cuore del marito. Non rispondeva con durezza agli scatti d’ira, non alimentava conflitti inutili. Con il tempo, la sua costanza ottenne frutto: Patrizio si convertì e ricevette il battesimo poco prima di morire. La testimonianza di Monica mostra come la santità non si esprima necessariamente in gesti clamorosi, ma nella fedeltà quotidiana, nell’amore che sa trasformare lentamente le situazioni difficili. In questo senso, è un modello per tante spose e madri che vivono matrimoni segnati da tensioni o differenze di fede.
Monica madre Dal matrimonio nacquero tre figli: Agostino, Navigio e una figlia di cui non conosciamo il nome. Monica riversò su di loro tutto il suo amore, ma soprattutto la sua fede. Navigio e la figlia seguirono un cammino cristiano lineare: Navigio divenne sacerdote; la figlia intraprese la via della verginità consacrata. Agostino invece divenne presto il centro delle sue preoccupazioni e delle sue lacrime. Già da ragazzo, Agostino mostrava un’intelligenza straordinaria. Monica lo mandò a studiare retorica a Cartagine, desiderosa di assicurargli un futuro brillante. Ma insieme ai progressi intellettuali arrivarono anche le tentazioni: la sensualità, la mondanità, le compagnie sbagliate. Agostino abbracciò la dottrina manichea, convinto di trovarvi risposte razionali al problema del male. Inoltre cominciò a convivere senza sposarsi con una donna dalla quale ebbe un figlio, Adeodato. Le deviazioni del figlio indussero Monica a negargli l’accoglienza nella propria casa. Pero non per questo cesso di pregare per lui e di offrire sacrifici: “dal cuore sanguinante di mia madre ti si offriva per me notte e giorno il sacrificio delle sue lacrime”. (Confessioni V, 7,13) e “versava più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli” (Confessioni III, 11,19).
Per Monica fu una ferita profonda: il figlio, che aveva consacrato a Cristo nel grembo, si stava smarrendo. Il dolore era indicibile, ma non smise mai di sperare. Agostino stesso scriverà: “Il cuore di mia madre, colpito da una tale ferita, non si sarebbe mai più risanato: perché non so esprimere adeguatamente i suoi sentimenti verso di me e quanto il suo travaglio nel partorirmi in spirito fosse maggiore di quello con cui mi aveva partorito nella carne.” (Confessioni V, 9,16).
Viene spontanea la domanda: perché Monica non fece battezzare Agostino subito dopo la nascita? In realtà, benché il battesimo dei bambini fosse già conosciuto e praticato, non era ancora una prassi universale. Molti genitori preferivano rimandarlo all’età adulta, considerandolo un “lavacro definitivo”: temevano che, se il battezzato avesse peccato gravemente, la salvezza sarebbe stata compromessa. Inoltre Patrizio, ancora pagano, non aveva alcun interesse a educare il figlio nella fede cristiana. Oggi vediamo chiaramente che si trattò di una scelta infelice, poiché il battesimo non solo ci rende figli di Dio, ma ci dona la grazia di vincere le tentazioni e il peccato. Una cosa però è certa: se fosse stato battezzato da bambino, Monica avrebbe risparmiato a sé e al figlio tante sofferenze.
L’immagine più forte di Monica è quella di una madre che prega e piange. Le Confessioni la descrivono come donna instancabile nell’intercedere presso Dio per il figlio. Un giorno, un vescovo di Tagaste — secondo alcuni, lo stesso Ambrogio — la rassicurò con parole rimaste celebri: “Va’, non può andare perduto il figlio di tante lacrime”. Quella frase divenne la stella polare di Monica, la conferma che il suo dolore materno non era vano, ma parte di un misterioso disegno di grazia.
Tenacità di una madre La vita di Monica fu anche un pellegrinaggio sulle orme di Agostino. Quando il figlio decise di partire di nascosto per Roma, Monica non risparmia nessuna fatica; non dà la causa come perduta, ma lo segue e lo cerca fino quando non lo trova. Lo raggiunse a Milano, dove Agostino aveva ottenuto una cattedra di retorica. Qui trovò una guida spirituale in sant’Ambrogio, vescovo della città. Tra Monica e Ambrogio nacque una profonda sintonia: ella riconosceva in lui il pastore capace di guidare il figlio, mentre Ambrogio ammirava la sua fede incrollabile. A Milano, la predicazione di Ambrogio aprì nuove prospettive ad Agostino. Egli abbandonò progressivamente il manicheismo e iniziò a guardare al cristianesimo con occhi nuovi. Monica accompagnava silenziosamente questo processo: non forzava i tempi, non pretendeva conversioni immediate, ma pregava e sosteneva e li rimane a fianco fino alla sua conversione.
La conversione di Agostino Dio sembrava non ascoltarla, ma Monica non smise mai di pregare e di offrire sacrifici per il figlio. Dopo diciassette anni, finalmente le sue suppliche furono esaudite — e come! Agostino non solo si fece cristiano, ma divenne sacerdote, vescovo, dottore e padre della Chiesa. Egli stesso lo riconosce: “Tu però nella profondità dei tuoi disegni esaudisti il punto vitale del suo desiderio, senza curarti dell’oggetto momentaneo della sua richiesta, ma badando a fare di me ciò che sempre ti chiedeva di fare.” (Confessioni V, 8,15).
Il momento decisivo arrivò nel 386. Agostino, tormentato interiormente, lottava contro le passioni e le resistenze della sua volontà. Nel celebre episodio del giardino di Milano, al sentire la voce di un bambino che diceva “Tolle, lege” (“Prendi, leggi”), aprì la Lettera ai Romani e lesse le parole che gli cambiarono la vita: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,14). Fu l’inizio della sua conversione. Insieme al figlio Adeodato e ad alcuni amici si ritirò a Cassiciaco per prepararsi al battesimo. Monica era con loro, partecipe della gioia di vedere finalmente esaudite le preghiere di tanti anni. La notte di Pasqua del 387, nella cattedrale di Milano, Ambrogio battezzò Agostino, Adeodato e gli altri catecumeni. Le lacrime di dolore di Monica si trasformarono in lacrime di gioia. Continua a rimanere al suo servizio, tanto che a Cassiciaco Agostino dirà: “Ebbe cura come se di tutti fosse stata madre e ci servì come se di tutti fosse stata figlia.”.
Ostia: l’estasi e la morte Dopo il battesimo, Monica e Agostino si prepararono a tornare in Africa. Fermatisi a Ostia, in attesa della nave, vissero un momento di intensissima spiritualità. Le Confessioni narrano l’estasi di Ostia: madre e figlio, affacciati a una finestra, contemplarono insieme la bellezza del creato e si elevarono verso Dio, pregustando la beatitudine del cielo. Monica dirà: “Figlio, quanto a me non trovo ormai più alcuna attrattiva per questa vita. Non so che cosa io stia a fare ancora quaggiù e perché mi trovi qui. Questo mondo non è più oggetto di desideri per me. C’era un solo motivo per cui desideravo rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico, prima di morire. Dio mi ha esaudito oltre ogni mia aspettativa, mi ha concesso di vederti al suo servizio e affrancato dalle aspirazioni di felicità terrene. Che sto a fare qui?” (Confessioni IX, 10,11). Aveva raggiunto la sua meta terrena. Alcuni giorni dopo Monica si ammalò gravemente. Sentendo vicina la fine, disse ai figli: “Figli miei, seppellirete qui vostra madre: non vi preoccupate di dove. Solo di questo vi prego: ricordatevi di me all’altare del Signore, dovunque sarete”. Era la sintesi della sua vita: non l’importava il luogo della sepoltura, ma il legame nella preghiera e nell’Eucaristia. Morì a 56 anni, nel 12 novembre del 387, e fu sepolta a Ostia. Nel VI secolo, le sue reliquie furono trasferite in una cripta nascosta nella stessa chiesa di Sant’Aurea. Nel 1425, le reliquie furono traslatate a Roma, nella basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio, dove ancora oggi sono venerate.
Il profilo spirituale di Monica Agostino descrive sua madre con parole ben misurate: “[…] muliebre nell’aspetto, virile nella fede, vegliarda nella pacatezza, materna nell’amore, cristiana nella pietà […]”. (Confessioni IX, 4, 8). E ancora: “[…] vedova casta e sobria, assidua nell’elemosina, devota e sottomessa ai tuoi santi; che non lasciava passare giornata senza recare l’offerta al tuo altare, che due volte al giorno, mattino e sera, senza fallo visitava la tua chiesa, e non per confabulare vanamente e chiacchierare come le altre vecchie, ma per udire le tue parole e farti udire le sue orazioni. Le lacrime di una tale donna, che con esse ti chiedeva non oro né argento, né beni labili o volubili, ma la salvezza dell’anima di suo figlio, avresti potuto sdegnarle tu, che così l’avevi fatta con la tua grazia, rifiutandole il tuo soccorso? Certamente no, Signore. Tu anzi le eri accanto e l’esaudivi, operando secondo l’ordine con cui avevi predestinato di dover operare.” (Confessioni V, 9,17).
Da questa testimonianza agostiniana, emerge una figura di sorprendente attualità. Fu una donna di preghiera: non smise mai di invocare Dio per la salvezza dei suoi cari. Le sue lacrime diventano modello di intercessione perseverante. Fu una sposa fedele: in un matrimonio difficile, non rispose mai con risentimento alla durezza del marito. La sua pazienza e la sua mitezza furono strumenti di evangelizzazione. Fu una madre coraggiosa: non abbandonò il figlio nelle sue deviazioni, ma lo accompagnò con amore tenace, capace di fidarsi dei tempi di Dio. Fu una testimone di speranza: la sua vita mostra che nessuna situazione è disperata, se vissuta nella fede. Il messaggio di Monica non appartiene solo al IV secolo. Parla ancora oggi, in un contesto in cui molte famiglie vivono tensioni, figli si allontanano dalla fede, genitori sperimentano la fatica dell’attesa. Ai genitori, insegna a non arrendersi, a credere che la grazia opera in modi misteriosi. Alle donne cristiane, mostra come la mitezza e la fedeltà possano trasformare relazioni difficili. A chiunque si senta scoraggiato nella preghiera, testimonia che Dio ascolta, anche se i tempi non coincidono con i nostri. Non è un caso che molte associazioni e movimenti abbiano scelto Monica come patrona delle madri cristiane e delle donne che pregano per i figli lontani dalla fede.
Una donna semplice e straordinaria La vita di santa Monica è la storia di una donna semplice e straordinaria insieme. Semplice perché vissuta nel quotidiano di una famiglia, straordinaria perché trasfigurata dalla fede. Le sue lacrime e le sue preghiere hanno plasmato un santo e, attraverso di lui, hanno inciso profondamente nella storia della Chiesa. La sua memoria, celebrata il 27 agosto, alla vigilia della festa di sant’Agostino, ci ricorda che la santità passa spesso attraverso la perseveranza nascosta, il sacrificio silenzioso, la speranza che non delude. Nelle parole di Agostino, rivolte a Dio per la madre, troviamo la sintesi della sua eredità spirituale: “Non posso dire abbastanza di quanto la mia anima sia debitrice a lei, mio Dio; ma tu sai tutto. Ripagale con la tua misericordia quanto ti chiese con tante lacrime per me” (Conf., IX, 13).
Santa Monica attraverso le vicende della sua vita ha raggiunto la felicità eterna che lei stessa ha definito: “La felicità consiste senza dubbio nel raggiungimento del fine e si deve aver fiducia che ad esso possiamo esser condotti da una ferma fede, da una viva speranza, da un’ardente carità”. (La Felicità 4,35).
La pastora, le pecore e agnelli (1867)
Nel brano che segue, Don Bosco, fondatore dell’Oratorio di Valdocco, racconta ai suoi giovani un sogno avuto tra il 29 e il 30 maggio 1867 e narrato la sera della Domenica della Santissima Trinità. In una pianura sconfinata, greggi e agnelli diventano allegoria del mondo e dei ragazzi: prati rigogliosi o deserti aridi figurano la grazia e il peccato; corna e ferite denunciano scandalo e disonore; la cifra «3» preannuncia tre carestie – spirituale, morale, materiale – che minacciano chi si allontana da Dio. Dal racconto sgorga l’appello pressante del santo: custodire l’innocenza, tornare alla grazia con la penitenza, così che ogni giovane possa rivestirsi dei fiori della purezza e partecipare alla gioia promessa dal buon Pastore.
La Domenica della SS. Trinità, 16 giugno, nella qual festa ventisei anni addietro Don Bosco aveva celebrata la sua prima messa, i giovani erano in aspettazione del sogno, il cui racconto era stato da lui annunziato il giorno 13. Il suo ardente desiderio era il bene del suo gregge spirituale, e sempre sua norma gli ammonimenti e le promesse del capo XXVII, v. 23-25 del libro dei Proverbi: Diligenter agnosce vultum pecoris tui, tuosque greges considera: non enim habebis iugiter potestatem: sed corona tribuetur in generationem et generationem. Aperta sunt prata, et apparuerunt herbae virentes, et collecta sunt foena de montibus… (Preoccupati dello stato del tuo gregge, abbi cura delle tue mandrie, perché le ricchezze non sono eterne e una corona non dura per sempre. Tolto il fieno, ricresce l’erba nuova e si raccolgono i foraggi sui monti, Pro 27,23-25). Colle sue preghiere chiedeva di acquistare conoscenza esatta delle sue pecorelle, di aver la grazia di vigilarle attentamente, di assicurarne la custodia anche dopo la sua morte e di vederle provviste di facile e comodo nutrimento spirituale e materiale. Don Bosco adunque, dopo le orazioni della sera, così parlò:
In una delle ultime notti del mese di Maria, il 29 o 30 maggio, essendo in letto e non potendo dormire, pensava ai miei cari giovani e diceva fra me stesso. – Oh se potessi sognare qualche cosa che fosse di loro profitto! Stetti alquanto riflettendo e mi risolsi: – Sì! adesso voglio fare un sogno per i giovani! Ed ecco che restai addormentato. Non appena il sonno mi ebbe preso, mi trovai in una immensa pianura coperta da un numero sterminato di grosse pecore, le quali divise in gregge pascolavano in prati estesi a vista d’occhio. Volli avvicinarmi ad esse e mi diedi a cercare il pastore, meravigliandomi che vi potesse essere al mondo chi possedesse così gran numero di pecore. Cercai per breve tempo, quando mi vidi innanzi un pastore appoggiato al suo bastone. Subito mi feci ad interrogarlo e gli domandai: – Di chi è questo gregge così numeroso? Il pastore non mi diede risposta. Replicai la domanda ed allora mi disse: – Che cosa hai da saper tu? – E perché, gli soggiunsi, mi rispondi in questo modo? – Ebbene: questo gregge è del suo padrone! Del suo padrone? Lo sapevo già questo; dissi fra me. Ma, continuai ad alta voce: – Chi è questo padrone? – Non t’infastidire, mi rispose il pastore: lo saprai. Allora percorrendo con lui quella valle mi diedi ad esaminare il gregge e tutta quella regione per la quale questo andava vagando. La valle era in alcuni luoghi coperta di ricca verdura con alberi che stendevano larghe frondi con ombre graziose ed erbe freschissime delle quali si pascevano belle e floride pecore. In altri luoghi la pianura era sterile, arenosa, piena di sassi con spineti senza foglie, e di gramigne giallastre, e non aveva un filo d’erba fresca; eppure anche qui vi erano moltissime altre pecore che pascolavano, ma d’aspetto miserabile. Io domandava varie spiegazioni al mio condottiero intorno a questo gregge, ed egli, senza dar veruna risposta alle mie domande, mi disse: – Tu non sei destinato per loro. A queste tu non devi pensare. Ti condurrò io a vedere il gregge del quale devi prenderti cura. – Ma tu chi sei? – Sono il padrone; vieni meco a guardar là, da quella parte. E mi condusse in un altro punto della pianura dove erano migliaia e migliaia di soli agnellini. Questi erano tanto numerosi che non si potevano contare, ma così magri che a stento passeggiavano. Il prato era secco ed arido e sabbioso e non vi si scorgeva un fil d’erba fresca, un ruscello; ma solo qualche sterpo disseccato e cespugli inariditi. Ogni pascolo era stato pienamente distrutto dagli stessi agnelli. Si vedeva a prima vista che quei poveri agnelli coperti di piaghe avevano molto sofferto e molto soffrivano ancora. Cosa strana! Ciascuno aveva due corna lunghe e grosse che gli spuntavano sulla fronte, come se fossero vecchi montoni e sulla punta delle corna avevano una appendice in forma di “S”. Meravigliato, me ne stava perplesso nel vedere quella strana appendice di genere così nuovo, e non sapeva darmi pace perché quegli agnellini avessero già le corna così lunghe e grosse, ed avessero distrutto già così presto tutta la loro pastura. – Come va questo? dissi al pastore. Son ancora così piccoli questi agnelli ed hanno già tali corna? – Guarda, mi rispose; osserva. Osservando più attentamente vidi che quegli agnelli in tutte le parti del corpo, sul dosso, sulla testa, sul muso, sulle orecchie, sul naso, sulle gambe, sulle unghie portavano stampati tanti numeri “3” in cifra. – Ma che vuol dire ciò? esclamai. Io non capisco niente. – Come, non capisci? disse il pastore: Ascolta adunque e saprai tutto. Questa vasta pianura è il gran mondo. I luoghi erbosi la parola di Dio e la grazia. I luoghi sterili ed aridi sono quei luoghi dove non si ascolta la parola di Dio e solo si cerca di piacere al mondo. Le pecore sono gli uomini fatti, gli agnelli sono i giovanetti e per questi Iddio ha mandato D. Bosco. Quest’angolo di pianura che tu vedi è l’Oratorio e gli agnelli ivi radunati i tuoi fanciulli. Questo luogo così arido figura lo stato di peccato. Le corna significano il disonore. La lettera “S” vuol dire scandalo. Essi col mal esempio vanno alla rovina. Fra questi agnelli ve ne sono alcuni che hanno le corna rotte; furono scandalosi, ma ora hanno cessato di dare scandalo. Il numero “3” vuol dire che portano la pena della colpa, cioè che soffriranno tre grandi carestie; carestia spirituale, morale, materiale. 1° La carestia d’aiuti spirituali: domanderanno questo aiuto e non l’avranno. 2 ° Carestia di parola di Dio. 3° Carestia di pane materiale. L’aver gli agnelli mangiato tutto, significa non rimaner più loro altro che il disonore e il numero “3”, ossia le carestie. Questo spettacolo mostra eziandio le sofferenze attuali di tanti giovani in mezzo al mondo. Nell’Oratorio anche quelli che pur ne sarebbero indegni non mancano di pane materiale. Mentre io ascoltava ed osservava ogni cosa come smemorato, ecco nuova meraviglia. Tutti quelli agnelli cambiarono aspetto! Alzatisi sulle gambe posteriori divennero alti e tutti presero la forma di altrettanti giovanetti. Io mi avvicinai per vedere se ne conoscessi alcuno. Erano tutti giovani dell’Oratorio. Moltissimi io non li aveva mai veduti, ma tutti si dichiaravano essere figli del nostro Oratorio. E fra quelli che non conosceva ve n’erano anche alcuni pochi che attualmente si trovano nell’Oratorio. Sono coloro che non si presentano mai a D. Bosco, che non vanno mai a prendere consiglio da lui, coloro che lo fuggono: in una parola, coloro che Don Bosco non conosce ancora! L’immensa maggioranza però degli sconosciuti era di coloro che non furono né sono ancora nell’Oratorio. Mentre con pena osservava quella moltitudine, colui che mi accompagnava mi prese per mano e mi disse: – Vieni con me e vedrai altre cose! – E mi condusse in un angolo remoto della valle, circondato da collinette, cinto da una siepe di piante rigogliose, ove era un gran prato verdeggiante, il più ridente che immaginar si possa, ripieno di ogni sorta di erbe odorifere, sparso di fiori campestri, con freschi boschetti e correnti di limpide acque. Qui trovai un altro grandissimo numero di figliuoli, tutti allegri, i quali coi fiori del prato si erano formati o andavano formandosi una vaghissima veste. – Almeno hai costoro che ti dànno grande consolazione. – E chi sono? interrogai. – Sono quelli che si trovano in grazia di Dio. Ah! io posso dire di non avere mai vedute cose e persone così belle e risplendenti, né mai avrei potuto immaginare tali splendori. È inutile che mi ponga a descriverli, perché sarebbe un guastare quello che è impossibile a dirsi senza che si veda. Erami però riserbato uno spettacolo assai più sorprendente. Mentre me ne stava guardando con immenso piacere quei giovanetti e fra questi ne contemplava molti che non conosceva ancora, la mia guida mi soggiunse: – Vieni, vieni con me e ti farò vedere una cosa che ti darà un gaudio ed una consolazione maggiore. – E mi condusse in un altro prato tutto smaltato di fiori più vaghi e più odorosi dei già veduti. Aveva l’aspetto di un giardino principesco. Qui si scorgeva un numero di giovani non tanto grande, ma che erano di così straordinaria bellezza e splendore da far scomparire quelli da me ammirati poc’anzi. Alcuni di costoro sono già nell’Oratorio, altri qui verranno più tardi. Mi disse il pastore: – Costoro sono quelli che conservano il bel giglio della purità. Questi sono ancora vestiti della stola dell’innocenza. Guardava estatico. Quasi tutti portavano in capo una corona di fiori di indescrivibile bellezza. Questi fiori erano composti di altri piccolissimi fiorellini di una gentilezza sorprendente, e i loro colori erano di una vivezza e varietà che incantava. Più di mille colori in un sol fiore, e in un sol fiore si vedevano più di mille fiori. Scendeva ai loro piedi una veste di bianchezza smagliante, anch’essa tutta intrecciata di ghirlande di fiori, simili a quelli della corona. La luce incantevole che partiva da questi fiori rivestiva tutta la persona e specchiava in essa la propria gaiezza. I fiori si riflettevano l’uno negli altri e quelli delle corone in quelli delle ghirlande, riverberando ciascuno i raggi che erano emessi dagli altri. Un raggio di un colore infrangendosi con un raggio di un altro colore formava raggi nuovi, diversi, scintillanti e quindi ad ogni raggio si riproducevano sempre nuovi raggi, sicché io non avrei mai potuto credere esservi in paradiso un incanto così molteplice. Ciò non è tutto. I raggi e i fiori della corona degli uni si specchiavano nei fiori e nei raggi della corona di tutti gli altri: così pure le ghirlande, e la ricchezza della veste degli uni si riflettevano nelle ghirlande, nelle vesti degli altri. Gli splendori poi del viso di un giovane, rimbalzando, si fondevano con quelli del volto dei compagni e riverberando centuplicati su tutte quelle innocenti e rotonde faccine producevano tanta luce da abbarbagliare la vista ed impedire di fissarvi lo sguardo. Così in un solo si accumulavano le bellezze di tutti i compagni con un’armonia di luce ineffabile! Era la gloria accidentale dei santi. Non vi è nessuna immagine umana per descrivere anche languidamente quanto divenisse bello ciascuno di quei giovani in mezzo a quell’oceano di splendori. Fra questi ne osservai alcuni in particolare, che adesso sono qui all’Oratorio e son certo che, se potessero vedere almeno la decima parte della loro attuale speciosità, sarebbero pronti a soffrire il fuoco, a lasciarsi tagliare a pezzi, ad andare insomma incontro a qualunque più atroce martirio, piuttosto che perderla. Appena potei alquanto riavermi da questo celestiale spettacolo, mi volsi al duce e gli dissi: – Ma dunque fra tanti miei giovani sono così pochi gli innocenti? Sono così pochi coloro che non han mai perduta la grazia di Dio? Mi rispose il pastore: – Come? Non ti pare abbastanza grande questo numero? Del resto quelli che hanno avuto la disgrazia di perdere il bel giglio della purità, e con questo l’innocenza, possono ancor seguire i loro compagni nella penitenza. Vedi là? In quel prato si ritrovano ancor molti fiori; ebbene essi possono tessersi una corona e una veste bellissima e seguire ancora gli innocenti nella gloria. – Suggeriscimi ancora qualche cosa da dire ai miei giovani! io soggiunsi allora. – Ripeti ai tuoi giovani, che se essi conoscessero quanto è preziosa e bella agli occhi di Dio l’innocenza e la purità, sarebbero disposti a fare qualunque sacrificio per conservarla. Di’ loro che si facciano coraggio a praticare questa candida virtù, che supera le altre in bellezza e splendore. Imperciocché i casti sono quelli che crescunt tanquam lilia in conspectu Domini (crescono come gigli davanti al Signore). Io allora volli andare in mezzo a quei miei carissimi, così vagamente incoronati, ma inciampai nel terreno e svegliatomi mi trovai in letto. Figliuoli miei, siete voi tutti innocenti? Forse ve ne saranno fra voi alcuni e a questi io rivolgo le mie parole. Per carità, non perdete un pregio di valore inestimabile! È una ricchezza che vale quanto vale il Paradiso quanto vale Iddio! Se aveste potuto vedere come erano belli questi giovanetti coi loro fiori. L’insieme di questo spettacolo era tale che io avrei dato qualunque cosa del mondo per godere ancora di quella vista, anzi, se fossi pittore, l’avrei per una grazia grande poter dipingere in qualche modo ciò che vidi. Se voi conosceste la bellezza di un innocente, vi assoggettereste a qualunque più penoso stento, perfino anco alla morte, per conservare il tesoro dell’innocenza. Il numero di coloro che erano ritornati in grazia, quantunque mi abbia recato grande consolazione, tuttavia io sperava che dovesse essere assai maggiore. E restai assai meravigliato nel vedere alcuno che or qui in apparenza sembra un buon giovane e là aveva le corna lunghe e grosse…
D. Bosco finì con una calda esortazione a coloro che hanno perduta l’innocenza, perché si adoperino volenterosamente a riacquistare la grazia per mezzo della penitenza. Due giorni dopo, il 18 giugno, D. Bosco risaliva alla sera sulla cattedra e dava alcune spiegazioni del sogno.
Non farebbe più d’uopo nessuna spiegazione riguardo al sogno, ma ripeterò quello che già dissi. La gran pianura è il mondo, e anche i luoghi e lo stato donde furono chiamati qui tutti i nostri giovani. Quell’angolo dove erano gli agnelli è l’Oratorio. Gli agnelli sono tutti i giovani, che furono, sono presentemente, e saranno nell’Oratorio. I tre prati in questo angolo, l’arido, il verde, il fiorito, indicano lo stato di peccato, lo stato di grazia e lo stato d’innocenza. Le corna degli agnelli sono gli scandali che si sono dati nel passato. Ve ne erano poi di quelli che avevano le corna rotte e costoro furono scandalosi, ma ora cessarono dal dare scandalo. Tutte quelle cifre “3”, che si vedevano stampate su ciascuno agnello, sono, come seppi dal pastore, tre castighi che Dio manderà sui giovani: 1° Carestia d’aiuti spirituali. 2° Carestia morale, ossia mancanza d’istruzione religiosa e della parola di Dio. 3° Carestia materiale, ossia mancanza anche di vitto. I giovani risplendenti sono coloro che si trovano in grazia di Dio, e soprattutto quelli che conservano ancora l’innocenza battesimale e la bella virtù della purità. E quanta gloria li aspetta! Mettiamoci dunque, cari giovani, coraggiosamente a praticare la virtù. Chi non è in grazia di Dio, si metta di buona voglia e quindi con tutte le sue forze e coll’aiuto di Dio perseveri sino alla morte. Che se tutti non possiamo essere in compagnia degli innocenti a far corona all’immacolato Agnello, Gesù, almeno possiamo seguirlo dopo di loro. Uno mi domandò se era fra gli innocenti ed io gli dissi di no e che aveva le corna, ma rotte. Mi domandò ancora se aveva delle piaghe ed io gli dissi di sì. – E che cosa significano queste piaghe? egli soggiunse. Risposi: – Non temere. Sono rimarginate, spariranno; queste piaghe ora non sono più disonorevoli, come non sono disonorevoli le cicatrici di un combattente, il quale malgrado le tante ferite e l’incalzamento e gli sforzi del nemico, seppe vincere e riportare vittoria. Sono dunque cicatrici onorevoli!… Ma è più onorevole chi combattendo valorosamente in mezzo ai nemici non riporta nessuna ferita. La sua incolumità eccita la meraviglia di tutti. Spiegando questo sogno, D. Bosco disse eziandio che non andrà più molto tempo che si faranno sentire questi tre mali: – Peste, fame e quindi mancanza di mezzi per farci del bene. Soggiunse che non passeranno tre mesi che accadrà qualche cosa di particolare. Questo sogno produsse nei giovani l’impressione e i frutti che avevano ottenuto tante altre volte simili esposizioni. (MB VIII 839-845)
Verso l’alto! San Pier Giorgio Frassati
“Carissimi giovani, la nostra speranza è Gesù. È Lui, come diceva San Giovanni Paolo II, «che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande […], per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna» (XV Giornata Mondiale della Gioventù, Veglia Di Preghiera, 19 agosto 2000). Teniamoci uniti a Lui, rimaniamo nella sua amicizia, sempre, coltivandola con la preghiera, l’adorazione, la Comunione eucaristica, la Confessione frequente, la carità generosa, come ci hanno insegnato i beati Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, che presto saranno proclamati Santi. Aspirate a cose grandi, alla santità, ovunque siate. Non accontentatevi di meno. Allora vedrete crescere ogni giorno, in voi e attorno a voi, la luce del Vangelo” (Papa Leone XIV – omelia Giubileo dei giovani – 3 agosto 2025).
Pier Giorgio e don Cojazzi Il senatore Alfredo Frassati, ambasciatore del Regno d’Italia a Berlino, era il proprietario e direttore del quotidiano La Stampa di Torino. I Salesiani avevano un grosso debito di riconoscenza verso di lui. In occasione della grande montatura scandalistica nota come “I fatti di Varazze”, in cui si era cercato di gettare fango sulla onorabilità dei Salesiani, Frassati ne aveva preso le difese. Mentre persino alcuni giornali cattolici sembravano smarriti e disorientati di fronte alle pesanti e penose accuse, La Stampa, condotta una rapida inchiesta, aveva precorso le conclusioni della magistratura proclamando l’innocenza dei Salesiani. Così, quando da casa Frassati giunse la richiesta di un salesiano che si occupasse di seguire negli studi i due figli del senatore, Pier Giorgio e Luciana, don Paolo Albera, Rettor Maggiore, si sentì in obbligo di accettare. Inviò don Antonio Cojazzi (1880-1953). Era l’uomo adatto: buona cultura, temperamento giovanile di un’eccezionale capacità comunicativa. Don Cojazzi si era laureato in lettere nel 1905, in filosofia nel 1906, e aveva conseguito il diploma di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese dopo un serio perfezionamento in Inghilterra. In casa Frassati don Cojazzi diventò qualcosa di più del ‘precettore’ che segue i ragazzi. Diventò un amico, specialmente di Pier Giorgio, di cui dirà: “Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e il liceo con lezioni che nei primi anni erano quotidiane; lo seguii con crescente interesse e affetto”. Pier Giorgio, diventato uno dei giovani di punta dell’Azione Cattolica torinese, ascoltava le conferenze e le lezioni che don Cojazzi teneva ai soci del Circolo C. Balbo, seguiva con interesse la Rivista dei Giovani, saliva talvolta a Valsalice in cerca di luce e di consiglio nei momenti decisivi.
Un momento di notorietà Pier Giorgio lo ebbe durante il Congresso Nazionale della Gioventù Cattolica italiana, nel 1921: cinquantamila giovani che sfilavano per Roma, cantando e pregando. Pier Giorgio, studente del politecnico, reggeva la bandiera tricolore del circolo torinese C. Balbo. Le truppe regie, ad un tratto, circondarono l’enorme corteo e lo presero d’assalto per strappare le bandiere. Si volevano impedire disordini. Un testimone raccontò: “Picchiano con i calci dei moschetti, afferrano, spezzano, strappano le nostre bandiere. Vedo Pier Giorgio alle prese con due guardie. Accorriamo in suo aiuto, e la bandiera, con l’asta spezzata, resta nelle sue mani. Imprigionati a forza in un cortile, i giovani cattolici vengono interrogati dalla polizia. Il testimone ricorda il dialogo condotto con i modi e le cortesie che usano in simili contingenze: – E tu, come ti chiami? – Pier Giorgio Frassati di Alfredo. – Che cosa fa tuo padre? – Ambasciatore d’Italia a Berlino. Stupore, cambiamento di tono, scuse, offerta di immediata libertà. – Uscirò quando usciranno gli altri. Intanto lo spettacolo bestiale continua. Un sacerdote è buttato, letteralmente buttato nel cortile con l’abito talare strappato e una guancia sanguinante… Insieme ci inginocchiammo per terra, nel cortile, quando quel prete lacero alzò il rosario e disse: Ragazzi, per noi e per quelli che ci hanno percosso, preghiamo!”.
Amava i poveri Pier Giorgio amava i poveri, li andava a cercare nei quartieri più lontani della città; saliva le scale strette e oscure; entrava nelle soffitte dove soltanto abitano la miseria e il dolore. Tutto quello che aveva in tasca era per gli altri, come tutto quello che teneva nel cuore. Arrivava a passare le notti al capezzale di ammalati sconosciuti. Una notte che non rincasava, il padre sempre più ansioso telefonò alla questura, agli ospedali. Alle due si sentì girare la chiave nella porta e Pier Giorgio entrò. Papà esplose: – Senti, puoi stare fuori di giorno, di notte, nessuno ti dice niente. Ma quando fai così tardi, avverti, telefona! Pier Giorgio lo guardò, e con la solita semplicità rispose: – Babbo, dov’ero io, non c’era telefono. Le Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli lo videro assiduo cooperatore; i poveri lo conobbero consolatore e soccorritore; le misere soffitte lo accolsero sovente fra le loro squallide mura come un raggio di sole per i suoi derelitti abitanti. Dominato da una profonda umiltà, quello che faceva non voleva che fosse conosciuto da alcuno.
Giorgetto bello e santo Nei primi giorni del luglio 1925 Pier Giorgio fu assalito e stroncato da un violento attacco di poliomielite. Aveva 24 anni. Sul letto di morte, mentre un male terribile gli devastava la schiena, pensò ancora ai suoi poveri. Su un biglietto, con grafia ormai quasi indecifrabile, scrisse per l’ingegnere Grimaldi, suo amico: Ecco le iniezioni di Converso, la polizza è di Sappa. L’ho dimenticata, rinnovala tu. Di ritorno dal funerale di Pier Giorgio, don Cojazzi scrive di getto un articolo per la Rivista dei Giovani: “Ripeterò la vecchia frase, ma sincerissima: non credevo di amarlo tanto. Giorgetto bello e santo! Perché mi cantano in cuore insistenti queste parole? Perché le udii ripetere, le udii pronunciare per quasi due giorni, dal padre, dalla madre, dalla sorella, con voce che diceva sempre e non ripeteva mai. E perché affiorano certi versi d’una ballata del Deroulède: «Si parlerà di lui a lungo, nei palazzi dorati e nei casolari sperduti! Perché di lui parleranno anche i tuguri e le soffitte, dove passò tante volte angelo consolatore». Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e parte del liceo… lo seguii con crescente interesse e affetto fino alla sua odierna trasfigurazione… Scriverò la sua vita. Si tratta della raccolta di testimonianze che presentano la figura di questo giovane nella pienezza della sua luce, nella verità spirituale e morale, nella testimonianza luminosa e contagiosa di bontà e di generosità”.
Il best-seller dell’editoria cattolica Incoraggiato e spinto anche dall’arcivescovo di Torino, Mons. Giuseppe Gamba, don Cojazzi si mise al lavoro di buona lena. Le testimonianze arrivarono numerose e qualificate, furono ordinate e vagliate con cura. La mamma di Pier Giorgio seguiva il lavoro, dava suggerimenti, forniva materiale. Nel marzo del 1928 esce la vita di Pier Giorgio. Scrive Luigi Gedda: “Fu un successo strepitoso. In soli nove mesi vennero esaurite 30 mila copie del libro. Nel 1932 erano già state diffuse 70 mila copie. Nel giro di 15 anni il libro su Pier Giorgio raggiunse 11 edizioni, e forse fu il best-seller dell’editoria cattolica in quel periodo”. La figura illuminata da don Cojazzi fu una bandiera per l’Azione Cattolica durante il difficile tempo del fascismo. Nel 1942 avevano preso il nome di Pier Giorgio Frassati: 771 associazioni giovanili di Azione Cattolica, 178 sezioni aspiranti, 21 associazioni universitarie, 6o gruppi di studenti medi, 29 conferenze di S. Vincenzo, 23 gruppi del Vangelo… Il libro fu tradotto almeno in 19 lingue. Il libro di don Cojazzi segnò una svolta nella storia della gioventù italiana. Pier Giorgio, fu l’ideale additato senza alcuna riserva: uno che ha saputo dimostrare che essere cristiano fino in fondo non è affatto utopistico, né fantastico. Pier Giorgio Frassati segnò una svolta anche nella storia di don Cojazzi. Quel biglietto scritto da Pier Giorgio sul letto di morte gli rivelò in maniera concreta, quasi brutale, il mondo dei poveri. Scrive lo stesso don Cojazzi: “Il Venerdì Santo di quest’anno (1928) con due universitari visitai per quattro ore i poveri fuori Porta Metronia. Quella visita mi procurò una salutarissima lezione e umiliazione. Io avevo scritto e parlato moltissimo sulle Conferenze di S. Vincenzo… eppure non ero mai andato una sola volta a visitare i poveri. In quei luridi capannoni mi vennero spesso le lacrime agli occhi… La conclusione? Eccola chiara e cruda per me e per voi: meno parole belle e più opere buone”. Il contatto vivo con i poveri non solo un’attuazione immediata del Vangelo, ma una scuola di vita per i giovani. Sono la migliore scuola per i giovani, per educarli e tenerli nella serietà della vita. Chi si reca a visitare i poveri e ne tocca con mano le piaghe materiali e morali, come può sprecare il suo denaro, il suo tempo, la sua giovinezza? Come può lamentarsi dei propri lavori e dolori, quando ha conosciuto, per diretta esperienza, che altri soffrono più di lui?
Non vivacchiare, ma vivere! Pier Giorgio Frassati è un esempio luminoso di santità giovanile, attuale, «inquadrato» nel nostro tempo. Egli attesta ancora una volta che la fede in Gesù Cristo è la religione dei forti e dei veramente giovani, che sola può illuminare tutte le verità con la luce del «mistero» e che soltanto essa può regalare la perfetta letizia. La sua esistenza è il perfetto modello della vita normale alla portata di tutti. Egli, come tutti i seguaci di Gesù e del Vangelo, incominciò dalle piccole cose; giunse alle altezze più sublimi a forza di sottrarsi ai compromessi di una vita mediocre e senza senso e impiegando la naturale testardaggine nei suoi fermi propositi. Tutto, nella sua vita, gli fu gradino per salire; anche ciò che gli avrebbe dovuto essere di inciampo. Fra i compagni era l’intrepido ed esuberante animatore di ogni impresa facendo convergere intorno a sé tanta simpatia e tanta ammirazione. La natura gli era stata larga di favori: di famiglia rinomata, ricco, d’ingegno sodo e pratico, fisico prestante e robusto, educazione completa, nulla gli mancava per farsi largo nella vita. Ma egli non intendeva vivacchiare, bensì conquistarsi il suo posto al sole, lottando. Era una tempra di uomo ed un’anima di cristiano. La sua vita aveva in sé stessa una coerenza che riposava nell’unità dello spirito e della esistenza, della fede e delle opere. La sorgente di questa personalità così luminosa era nella profonda vita interiore. Frassati pregava. La sua sete della Grazia gli faceva amare tutto ciò che riempie e arricchisce lo spirito. S’accostava ogni giorno alla Santa Comunione, poi restava ai piedi dell’altare, a lungo, senza che nulla valesse a distrarlo. Pregava sui monti e per la via. Non era però, la sua, una fede ostentata, anche se i segni di croce fatti sulla pubblica strada passando davanti alle chiese erano grandi e sicuri, anche se il Rosario era detto ad alta voce, in una carrozza ferroviaria o nella camera di un albergo. Ma era piuttosto una fede vissuta così intensamente e schiettamente che erompeva dalla sua anima generosa e franca con una semplicità di atteggiamento che convinceva e commoveva. La sua formazione spirituale si irrobustì nelle adorazioni notturne di cui fu fervido propugnatore ed immancabile partecipante. Fece più di una volta gli esercizi spirituali traendone serenità e vigoria spirituale. Il libro di don Cojazzi si chiude con la frase: «Averlo conosciuto o averne udito parlare significa amarlo, ed amarlo significa seguirlo». L’augurio che la testimonianza di Piergiorgio Frassati sia “sale e luce” per tutti, soprattutto per i giovani di oggi.
Don Bosco con i suoi salesiani
Se con i suoi ragazzi Don Bosco scherzava volentieri per vederli allegri e sereni, con i suoi Salesiani rivelava anche nello scherzo la stima che di essi aveva, il desiderio di vederli formare con lui una sola grande famiglia, povera sì, ma fiduciosa nella Divina Provvidenza, unita nella fede e nella carità.
I feudi di Don Bosco Nel 1830 Margherita Occhiena, vedova di Francesco Bosco, fece la divisione dei beni ereditati dal marito tra il suo figliastro Antonio ed i suoi due figli Giuseppe e Giovanni. Si trattava, tra l’altro, di otto appezzamenti di terreno a prato, a campo e a vigna. Nulla sappiamo di preciso sui criteri seguiti da Mamma Margherita per la divisione tra loro tre dell’eredità paterna. Però tra gli appezzamenti di terreno vi era una vigna presso i Becchi (al Bric dei Pin), un campo a Valcapone (o Valcappone) e un altro al Bacajan (o Bacaiau). Ad ogni modo questi tre terreni costituiscono i «feudi» nominati a volte scherzosamente da Don Bosco come sua proprietà. I Becchi, tutti lo sappiamo, sono l’umile frazione della borgata dove Don Bosco era nato; Valcapponé (o Valcapone) era un sito ad est del Colle sotto la Serra di Capriglio ma a valle nella zona detta Sbaruau (= spauracchio), perché fitta di boscaglie con qualche casotto celato tra le frasche che serviva da ripostiglio a lavandai e da rifugio a briganti. Bacajan (o Bacaiau) era un campo ad est del Colle tra il lotto Valcapone e Morialdo. Ecco i «feudi» di Don Bosco! Dicono le Memorie Biografiche che da tempo Don Bosco aveva conferito titoli nobiliari ai suoi collaboratori laici. Quindi c’era il Conte dei Becchi, il Marchese di Valcappone, il Barone di Bacaiau, e cioè dei tre terreni che Don Bosco doveva conoscere come parte della sua eredità. “Con questi titoli egli era solito chiamare Rossi, Gastini, Enria, Pelazza, Buzzetti, non solo in casa ma anche fuori, specialmente quando viaggiava con qualcuno di essi” (MB VIII, 198-199). Tra questi «nobil» salesiani, sappiamo di sicuro, che il Conte dei Becchi (o del Bricco del Pino) era Rossi Giuseppe, il primo salesiano laico, o «Coadiutore» che amò Don Bosco come un figlio affezionatissimo e gli fu fedele per sempre. Un giorno Don Bosco si recò alla stazione di Porta Nuova e Rossi Giuseppe lo accompagnò portandogli la valigia. Arrivarono che il treno stava per partire e le carrozze erano strapiene di gente. Don Bosco, non potendo trovare posto, si rivolse a Rossi e, ad alta voce, gli disse: — Oh, signor Conte, mi rincresce che si prenda tanto incomodo per me! — S’immagini Don Bosco, per me è un onore! Alcuni viaggiatori ai finestrini, udendo quelle parole «Signor Conte» e «Don Bosco», si guardarono in faccia meravigliati e uno di essi gridò dal carrozzone: — Don Bosco! Signor Conte! Salgano qui, ci sono ancora due posti! — Ma io non vorrei dar loro incomodo, – rispose Don Bosco. — Salgano! È un onore per noi. Ritiro le mie valigie, ci staranno benissimo!… E così il «Conte dei Becchi» poté salire sul treno con Don Bosco e la valigia.
Le pompe e una baracca Don Bosco visse e morì povero. Nel vitto si accontentava di ben poco. Anche un bicchier di vino era già troppo per lui, e lo annacquava sistematicamente. «Spesse volte si dimenticava di bere essendo assorto in ben altri pensieri, e toccava ai vicini di tavola di versarglielo nel bicchiere. Ed allora egli, se il vino era buono, cercava subito l’acqua “per farlo più buono”, diceva. E aggiungeva sorridendo: “Ho rinunciato al mondo e al demonio, ma non alle pompe”, alludendo alle trombe che estraggono l’acqua dal pozzo» (MB IV, 191-192). Anche per l’alloggio sappiamo come viveva. Il 12 settembre 1873 fu tenuta la Conferenza Generale dei Salesiani per rieleggere un Economo e tre Consiglieri. In quella circostanza Don Bosco proferì memorabili e profetiche parole sullo sviluppo della Congregazione. Giunto poi a parlare del Capitolo Superiore, che ormai pareva aver bisogno di residenza adatta, disse, tra l’universale ilarità: «Se fosse possibile, mi piacerebbe fare in mezzo al cortile una “sopanta” (leggi: supanta = baracca), dove il Capitolo potesse stare separato da tutti gli altri mortali. Ma poiché i suoi membri hanno ancora diritto di stare su questa terra, così potranno stare ora qui, ora là, nelle diverse case, secondo che parrà meglio!» (MB X, 1061-1062).
Otis, botis, pija tutis Un giovane gli chiese un giorno come facesse a conoscere l’avvenire e a indovinare tante cose segrete. Gli rispose: — «Ascoltami. Il mezzo è questo, e si spiega con: Otis, botis, pija tutis. Sai cosa significano queste parole?… Stai attento. Sono parole greche, e, – compitando, ripeteva: – O-tis, bo-tis, pi-ja tu-tis. Capisci? — È un affare serio! — Lo so anch’io. Non ho mai voluto manifestare a nessuno che cosa significhi questo motto. E nessuno lo sa, né mai lo saprà, perché non mi conviene dirlo. È il mio segreto col quale opero cose straordinarie, leggo nelle coscienze, conosco i misteri. Ma se tu sei furbo, puoi capirne qualcosa. E ripeteva quelle quattro parole puntando il dito indice sulla fronte, sulla bocca, sul mento, sul petto del giovane. Finì per dargli all’improvviso uno schiaffetto. Il giovane rise, ma insisteva: — Almeno mi traduca le quattro parole! — Posso tradurle, ma non capirai la traduzione. E scherzosamente gli disse in dialetto piemontese: — Quand ch’at dan ed bòte, pije tute (Quando ti dan botte, pigliale tutte) (MB VI, 424). E voleva dire che per farsi santi occorre accettare tutte le sofferenze che la vita ci riserva.
Protettore degli stagnini Tutti gli anni i giovani dell’Oratorio di San Leone in Marsiglia facevano una scampagnata alla villa del Sig. Olive, generoso benefattore dei Salesiani. In quell’occasione il padre e la madre servivano a tavola i superiori, e i loro figli gli alunni.
Nel 1884 la gita si fece durante il soggiorno di Don Bosco a Marsiglia. Mentre gli alunni si divertivano nei giardini, la cuoca corse tutta affannata dalla signora Olive a dirle: — Signora, la pentola della minestra per i ragazzi perde e non si riesce in nessun modo a rimediarvi. Dovranno stare senza minestra! La padrona, che aveva gran fede in Don Bosco, ebbe un’idea. Mandò a chiamare tutti i giovani e: — Sentite – disse loro – se volete mangiare la minestra, inginocchiatevi qui e recitate una preghiera a Don Bosco perché faccia ristagnare la pentola. Obbedirono. La pentola cessò all’istante di perdere. Ma Don Bosco, sentendo contare il fatto, rise di gusto, dicendo: — D’ora in avanti chiameranno Don Bosco patrono degli stagnin (stagnai) (MB XVII, 55-56).
Il cardinale Augusto Hlond
Secondo di 11 figli, suo padre era un operaio delle ferrovie. Ricevuta dai genitori una fede semplice ma forte, a 12 anni, attratto dalla fama di Don Bosco, seguì in Italia il fratello Ignazio per consacrarsi al Signore nella Società Salesiana, e vi attirò presto altri due fratelli: Antonio, che diventerà salesiano e rinomato musicista, e Clemente, che sarà missionario. Lo accolse il collegio di Valsalice per gli studi ginnasiali. Ammesso quindi al noviziato, ricevette l’abito talare dal beato Michele Rua (1896). Fatta la professione religiosa nel 1897, i superiori lo destinarono a Roma all’Università Gregoriana per il corso di filosofia che coronò con la laurea. Da Roma tornò in Polonia a esercitare il tirocinio pratico nel collegio di Oświęcim. La sua fedeltà al sistema educativo di Don Bosco, il suo impegno nell’assistenza e nella scuola, la sua dedizione ai giovani e l’amabilità del suo tratto gli acquistarono grande ascendente. Si affermò subito anche per il talento musicale. Compiuti gli studi di teologia, ricevette il 23 settembre 1905 l’ordinazione sacerdotale, conferitagli in Cracovia da Mons. Nowak. Negli anni 1905-09 frequentò la facoltà di lettere presso le università di Cracovia e di Leopoli. Nel 1907 fu preposto alla direzione della nuova casa di Przemyśl (1907-09), da dove passò alla direzione della casa di Vienna (1909-19). Qui il suo valore e la sua abilità personale ebbero un campo ancor più vasto per le particolari difficoltà in cui si trovava l’istituto nella capitale imperiale. Don Augusto Hlond, con la sua virtù e col suo tatto, riuscì in breve non solo a sistemare la situazione economica, ma anche a suscitare una fioritura di opere giovanili da attirare l’ammirazione di ogni ceto di persone. La cura dei poveri, degli operai, dei figli del popolo gli attirava l’affetto delle classi più umili. Carissimo ai vescovi e ai nunzi apostolici, godeva la stima delle autorità e della stessa famiglia imperiale. Come riconoscimento di tale opera sociale ed educativa ricevette per tre volte alcune delle onorificenze più prestigiose. Nel 1919 lo sviluppo dell’Ispettoria Austro-Ungarica consigliò una divisione proporzionata al numero delle case, e i superiori nominarono don Hlond ispettore dell’Ispettoria tedesco-ungarica, con sede a Vienna (191922), affidandogli la cura dei confratelli austriaci, tedeschi e ungheresi. In nemmeno tre anni, il giovane ispettore aprì una decina di nuove presenze salesiane, e le formò al più genuino spirito salesiano, suscitando numerose vocazioni. Era nel pieno fervore della sua attività salesiana, quando, nel 1922, dovendo la Santa Sede provvedere alla sistemazione religiosa della Slesia Polacca, ancor sanguinante per le lotte politiche e nazionali, il Santo Padre Pio XI affidò a lui la delicatissima missione, nominandolo Amministratore Apostolico. Dalla sua mediazione tra tedeschi e polacchi nacque nel 1925 la diocesi di Katowice, di cui diventò vescovo. Nel 1926 è arcivescovo di Gniezno e Poznań e primate di Polonia. L’anno successivo il Papa lo crea cardinale. Nel 1932 fonda la Società di Cristo per gli emigrati polacchi, volta ad assistere i tanti compatrioti che hanno lasciato il Paese. Nel marzo del 1939 partecipa al Conclave che elegge Pio XII. Il primo settembre dello stesso anno i nazisti invadono la Polonia: inizia la Seconda guerra mondiale. Il cardinale alza la voce contro le violazioni dei diritti umani e della libertà religiosa compiute da Hitler. Costretto all’esilio si rifugia in Francia, presso l’Abbazia di Hautecombe, denunciando le persecuzioni contro gli Ebrei in Polonia. La Gestapo penetra nell’Abbazia e lo arresta, deportandolo a Parigi. Il porporato si rifiuta categoricamente di appoggiare la formazione di un governo polacco filonazista. Viene internato prima in Lorena e poi in Westfalia. Liberato dalle truppe alleate, nel 1945 torna in Patria. Nella nuova Polonia liberata dal nazismo, trova il comunismo. Con coraggio difende i Polacchi dall’oppressione atea marxista, scampando anche ad alcuni attentati. Muore il 22 ottobre 1948 a causa di una polmonite, all’età di 67 anni. Ai funerali accorrono migliaia di persone. Il cardinale Hlond fu un uomo virtuoso, un luminoso esempio di religioso salesiano e un pastore generoso, austero, capace di visioni profetiche. Obbediente alla Chiesa e fermo nell’esercizio dell’autorità, dimostrò umiltà eroica e inequivocabile costanza nei momenti di maggiore prova. Coltivò la povertà e praticò la giustizia verso i poveri e i bisognosi. Le due colonne della sua vita spirituale, alla scuola di san Giovanni Bosco, furono l’Eucaristia e Maria Ausiliatrice. Nella storia della Chiesa di Polonia, il cardinale Augusto Hlond è stato una delle figure più eminenti per la testimonianza religiosa della sua vita, per la grandezza, la varietà e l’originalità del suo ministero pastorale, per le sofferenze che affrontò con intrepido animo cristiano per il Regno di Dio. L’ardore apostolico distinse l’opera pastorale e la fisionomia spirituale del venerabile Augusto Hlond, che assumendo come motto episcopale Da mihi animas coetera tolle, da vero figlio di san Giovanni Bosco lo confermò con la sua vita di consacrato e di vescovo, dando testimonianza di instancabile carità pastorale. Va ricordato il suo grande amore alla Madonna, appreso nella sua famiglia e nella grande devozione del popolo polacco alla Madre di Dio, venerata nel santuario di Częstochowa. Inoltre da Torino, dove iniziò il suo cammino come salesiano, diffuse in Polonia il culto a Maria Ausiliatrice e consacrò la Polonia al Cuore Immacolato di Maria. L’affidamento a Maria lo sostenne sempre nelle avversità e nell’ora dell’incontro estremo con il Signore. Morì con la corona del Rosario fra le mani dicendo ai presenti che la vittoria, quando sarebbe venuta, sarebbe stata la vittoria di Maria Immacolata. Il venerabile cardinale Augusto Hlond è testimone singolare di come dobbiamo accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, difficoltà, anche persecuzioni: questo è santità. «Gesù ricorda quanta gente è perseguitata ed è stata perseguitata semplicemente per aver lottato per la giustizia, per aver vissuto i propri impegni con Dio e con gli altri. Se non vogliamo sprofondare in una oscura mediocrità, non pretendiamo una vita comoda, perché “chi vuol salvare la propria vita, la perderà” (Mt 16,25). Non si può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto intorno a noi sia favorevole, perché molte volte le ambizioni del potere e gli interessi mondani giocano contro di noi… La croce, soprattutto le stanchezze e i patimenti che sopportiamo per vivere il comandamento dell’amore e il cammino della giustizia, è fonte di maturazione e di santificazione» (Francesco, Gaudete et Exsultate, nn. 90-92).
L’educazione della coscienza con san Francesco di Sales
Con ogni probabilità è stato l’avvento della Riforma protestante a porre all’ordine del giorno il problema della coscienza, e, più precisamente, della «libertà di coscienza». In una lettera del 1597 a Clemente VIII, il prevosto di Sales deplorava la «tirannia» che lo «stato di Ginevra» faceva pesare «sulle coscienze dei cattolici». Domandava alla santa Sede di intervenire presso il re di Francia per ottenere che i Ginevrini concedessero «ciò che chiamano libertà di coscienza». Contrario a soluzioni militari della crisi protestante, faceva intravedere nella libertas conscientiae una possibile via d’uscita dal confronto violento, a condizione che la reciprocità fosse rispettata. Rivendicata da Ginevra a favore della Riforma, e da Francesco di Sales a beneficio del cattolicesimo, la libertà di coscienza stava per divenire uno dei pilastri della mentalità moderna.
Dignità della persona umana La dignità dell’individuo risiede nella coscienza, e la coscienza è in primo luogo sinonimo di sincerità, onestà, franchezza, convinzione. Il prevosto di Sales riconosceva ad esempio, «per scaricare la sua coscienza», che il progetto delle Controversie gli era stato in qualche modo imposto da altri Quando presentava le sue ragioni a favore della dottrina e della pratica cattolica, si preoccupava di precisare che lo faceva «in coscienza». «Ditemi in coscienza», domandava ai suoi contradditori. La «buona coscienza», infatti, fa sì che uno eviti certi atti che lo mettono in contraddizione con sé stesso. Tuttavia, la coscienza soggettiva individuale non può essere presa sempre come garante della verità oggettiva. Non si è sempre obbligati a credere ciò che uno vi dice in coscienza. «Mostratemi chiaramente – dice il prevosto ai signori di Thonon – che non mentite affatto, che proprio non mi ingannate, quando mi dite che in coscienza avete avuto questa o quell’ispirazione». La coscienza può essere vittima dell’illusione, in forma volontaria o anche involontariamente. «Gli avari incalliti, non soltanto non confessano di esserlo, ma non pensano in coscienza di esserlo». La formazione della coscienza è un compito essenziale, perché la libertà di coscienza comporta il rischio di «far il bene e il male», ma «scegliere il male non è usare, bensì abusare della nostra libertà». È un compito duro, perché la coscienza talvolta ci appare come un avversario che «combatte sempre contro noi e per noi»: essa «oppone costante resistenza alle nostre cattive inclinazioni», ma lo fa «per la nostra salvezza». Quando uno pecca, «il rimorso interiore si muove contro la sua coscienza con la spada in pugno», ma lo fa per «trafiggerla con un santo timore». Un mezzo per esercitare una libertà responsabile è la pratica dell’«esame di coscienza». Fare l’esame di coscienza è come seguire l’esempio delle colombe che si guardano «con occhi limpidi e puri», «si puliscono con cura e si ornano meglio che possono». Filotea è invitata a fare questo esame tutte le sere, prima di andare a coricarsi, chiedendosi «come ci si è comportati nelle varie ore della giornata; per farlo più facilmente si penserà a dove, con chi e a quali occupazioni ci si è dedicati». Una volta all’anno dovremo fare un esame approfondito dello «stato della nostra anima» davanti a Dio, al prossimo e a noi stessi, senza dimenticare un «esame degli affetti della nostra anima». L’esame – dice Francesco di Sales alle visitandine – vi condurrà a sondare «a fondo la vostra coscienza». Come alleggerire la coscienza quando uno la sente carica di un errore o di uno fallo? Certuni lo fanno in malo modo, giudicando e accusando gli altri «di vizi di cui sono succubi», pensando così di «addolcire i rimorsi della loro coscienza». In tal modo uno moltiplica il rischio di fare giudizi temerari. Al contrario, «coloro che si prendono correttamente cura della loro coscienza non sono affatto soggetti a giudizi temerari». Conviene considerare a parte il caso dei genitori, degli educatori e dei responsabili del bene pubblico, perché «una buona parte della loro coscienza consiste nel vegliare attentamente sulla coscienza degli altri».
Il rispetto di sé stessi Dall’affermazione della dignità e della responsabilità di ognuno dovrà nascere il rispetto di sé. Già Socrate e tutta l’antichità pagana e cristiana ne avevano mostrato il cammino:
È un detto dei filosofi, che però è stato ritenuto valido dai dottori cristiani: «Conosci te stesso», ossia, conosci l’eccellenza della tua anima per non avvilirla e disprezzarla.
Certi nostri atti costituiscono non solo un’offesa di Dio, ma anche un’offesa della dignità della persona umana e della ragione. Le loro conseguenze sono deplorevoli:
La rassomiglianza e immagine di Dio, che portiamo in noi, viene imbrattata e sfigurata, la dignità del nostro spirito disonorata, e noi siamo resi simili agli animali senza ragione […], rendendoci schiavi delle nostre passioni e rovesciando l’ordine della ragione.
Ci sono estasi e rapimenti che ci innalzano al di sopra della nostra condizione naturale e altri che ci abbassano: «O uomini, fino a quando sarete così insensati – scrive l’autore del Teotimo – dal voler calpestare la vostra dignità naturale, discendendo volontariamente e precipitandovi nella condizione delle bestie?». Il rispetto di sé stessi consentirà di evitare due pericoli opposti: l’orgoglio e il disprezzo dei doni che uno ha. In un secolo in cui il senso dell’onore era esaltato al massimo, Francesco di Sales ha dovuto intervenire per denunciare misfatti, in particolare nel problema del duello, che gli faceva «rizzare i capelli in testa», e più ancora l’orgoglio insensato che ne era la causa. «Sono scandalizzato» – scriveva alla sposa di un marito duellante – ; «in verità, non riesco a pensare come si possa avere un coraggio tanto sregolato persino per bagattelle e cose da nulla». Battendosi in duello è come se «diventassero l’uno carnefice dell’altro». Altri, al contrario, non osano riconoscere i doni ricevuti e peccano così contro il dovere della riconoscenza. Francesco di Sales denuncia «certa falsa e sciocca umiltà che impedisce di scoprire il buono che c’è in loro». Hanno torto, perché «i beni che Dio ha posto in noi vanno riconosciuti, stimati e onorati sinceramente». Il primo prossimo che devo rispettare e amare, sembra voler dire il vescovo di Ginevra, è il proprio io. Il vero amore verso me stesso e il rispetto dovutogli esigono che tenda alla perfezione e che mi corregga, se necessario, ma dolcemente, ragionevolmente e «seguendo la strada della compassione» piuttosto che quella dell’ira e del furore. Esiste infatti un amore di sé stessi non soltanto legittimo, ma anche benefico e comandato: «La carità ben ordinata incomincia da sé stessi» – dice il proverbio – e rispecchia bene il pensiero di Francesco di Sales, ma a condizione di non confondere l’amore di sé con l’amor proprio. L’amore di sé è buono, e Filotea è invitata a interrogarsi sul modo con cui ama sé stessa:
Tenete un buon ordine nell’amore di voi stessa? Perché soltanto il disordinato amore di noi stessi può mandarci in rovina. Ora, l’amore ordinato vuole che amiamo l’anima più del corpo, che cerchiamo di procurarci le virtù più di ogni altra cosa.
Al contrario, l’amor proprio è un amore egoista, «narcisista», gonfio di sé stesso, geloso della propria bellezza e unicamente preoccupato del proprio interesse: «Narciso – dicono i profani – era un giovane cosi sdegnoso da non voler offrire il proprio amore a nessun altro; e infine, contemplandosi in una limpida fontana fu totalmente rapito dalla sua bellezza».
Il «rispetto dovuto alle persone» Se si rispetta sé stessi si sarà più preparati e disposti a rispettare gli altri. Il fatto di essere «l’immagine e la somiglianza di Dio» ha come corollario l’asserto secondo cui «tutti gli esseri umani godono della stessa dignità». Francesco di Sales, pur vivendo in una società segnata dall’antico regime, fortemente disuguale, ha promosso un pensiero e una prassi caratterizzate dal «rispetto dovuto alle persone». Bisogna iniziare dai bambini. La madre di san Bernardo – dice l’autore della Filotea – amava i suoi figli appena nati «con rispetto come una cosa sacra che Dio le aveva affidato». Un rimprovero molto grave rivolto dal vescovo di Ginevra ai pagani riguardava il loro disprezzo della vita di esseri indifesi. Il rispetto del bimbo che sta per nascere emerge in questo passo di una lettera, redatta secondo la retorica barocca dell’epoca, indirizzata da Francesco di Sales a una donna incinta. La incoraggia spiegandole che il bimbo che si sta formando nelle sue viscere non è soltanto «un’immagine vivente della divina Maestà», ma anche l’immagine di sua madre. Raccomanda a un’altra donna:
Offrite sovente alla gloria eterna del vostro Creatore la creaturina alla cui formazione vi ha voluto assumere come sua cooperatrice.
Un altro risvolto del rispetto dovuto agli altri riguarda il tema della libertà. La scoperta di nuove terre aveva avuto, come conseguenza nefasta, il riemergere della schiavitù, che richiamava le pratiche degli antichi romani al tempo del paganesimo. La vendita di esseri umani li degradava al rango delle bestie:
Un giorno, Marcantonio comprò da un mercante due giovanetti; allora, come avviene ancora oggi in qualche contrada, si vendevano i bambini; c’erano degli uomini che se li procuravano e poi li trafficavano come si fa per i cavalli nei nostri paesi.
Il rispetto degli altri è continuamente minacciato in forma più sottile dalla maldicenza e dalla calunnia. Francesco di Sales insiste parecchio sui «peccati di lingua». Un capitolo della Filotea che tratta esplicitamente di tale argomento è intitolato L’onestà nelle parole e rispetto che si deve alle persone. Rovinare la reputazione di qualcuno è commettere un «omicidio spirituale»; è sottrarre «la vita civile» a colui di cui si parla male. Così pure, «biasimando il vizio», ci si sforzerà di risparmiare il più possibile «la persona implicata in esso». Certe categorie di persone sono facilmente denigrate o disprezzate. Francesco di Sales difende la dignità della gente del popolo fondandosi sul Vangelo: «San Pietro – commenta – era un uomo rude, grossolano, un vecchio pescatore, un mestierante di bassa condizione; san Giovanni, al contrario, era un gentiluomo, dolce, amabile, saggio; san Pietro, invece, ignorante». Orbene, è stato san Pietro ad essere scelto per guidare gli altri e per essere il «superiore universale». Proclama la dignità dei malati, dicendo che «le anime che sono in croce sono dichiarate regine». Denunciando la «crudeltà verso i poveri» ed esaltando la «dignità dei poveri», giustifica e precisa l’atteggiamento che si deve tenere verso di loro, spiegando «come dobbiamo onorarli e quindi visitarli come rappresentanti di Nostro Signore». Nessuno è inutile, nessuno è insignificante: «Non vi è al mondo oggetto che non possa essere utile per qualche cosa; ma bisogna saperne trovare l’uso e il luogo».
L’«uno-diverso» salesiano Il problema che da sempre ha tormentato le società umane è quello di conciliare tra loro la dignità e la libertà di ogni individuo con quelle degli altri. Ricevette da Francesco di Sales un chiarimento originale grazie all’invenzione di una nuova parola. Infatti, ammesso che l’universo è formato da «tutte le cose create, visibili e invisibili» e che «la loro diversità viene ricondotta a unità», il vescovo Ginevra propose di chiamarlo «uno-diverso», ossia «unico e diverso, unico con diversità e diverso con unità». Per lui, ogni essere è unico. Le persone sono come le perle di cui parla Plinio: «sono talmente uniche, ciascuna nella sua qualità, che non se ne trovano mai due perfettamente uguali». È significativo che le sue due opere principali, l’Introduzione alla vita devota e il Trattato dell’amore di Dio siano indirizzate a una persona singola, Filotea e Teotimo. Quale varietà e diversità tra gli esseri! «Senza dubbio, come vediamo che non si trovano mai due uomini perfettamente uguali quanto ai doni della natura, così non se ne trovano mai di perfettamente uguali quanto ai doni soprannaturali». La varietà lo incantava anche da un punto di vista puramente estetico, ma temeva una curiosità indiscreta sulle sue cause:
Se qualcuno si ponesse la domanda perché Dio abbia fatto i cocomeri più grossi delle fragole, o i gigli più grandi delle violette; perché il rosmarino non sia una rosa o perché il garofano non sia una calendola; perché il pavone sia più bello di un pipistrello, o perché il fico sia dolce e il limone aspro, si riderebbe delle sue domande e gli si direbbe: pover’uomo, siccome la bellezza del mondo richiede varietà, è necessario che nelle cose ci siano perfezioni diverse e differenziate e che l’una non sia l’altra; ecco perché le une sono piccole, le altre grandi, le une aspre, le altre dolci, le une più belle, le altre meno. […] Tutte hanno il loro pregio, la loro grazia, il loro splendore, e tutte, viste nell’insieme delle loro varietà, costituiscono un meraviglioso spettacolo di bellezza.
La diversità non ostacola l’unità, tutt’altro la rende ancor più ricca e bella. Ogni fiore ha le sue caratteristiche, che lo distinguono da tutti gli altri: «Non è proprio delle rose essere bianche, mi sembra, perché quelle vermiglie sono più belle e hanno un profumo migliore, il quale però è proprio del giglio». Certo, Francesco di Sales non sopporta la confusione e il disordine, ma è ugualmente nemico dell’uniformità. La diversità degli esseri può condurre alla dispersione e alla rottura della comunione, ma se c’è l’amore, «vincolo della perfezione», niente è perduto, al contrario, la diversità è esaltata dall’unione. In Francesco di Sales c’è sicuramente una reale cultura dell’individuo, ma questa non è mai una chiusura al gruppo, alla comunità o alla società. Egli vede spontaneamente l’individuo inserito in un contesto o «stato» di vita, che segna marcatamente l’identità e l’appartenenza di ciascuno. Non sarà possibile fissare un programma o un progetto uguale per tutti, per il semplice fatto che sarà applicato e attuato in maniera diversa «per il gentiluomo, per l’artigiano, per il valletto, per il principe, per la vedova, per la giovane, per la sposata»; bisogna inoltre adattarlo «alle forze e ai doveri di ognuno in particolare. Il vescovo di Ginevra vede la società ripartita in spazi vitali caratterizzati dall’appartenenza sociale e solidarietà di gruppo, come quando tratta «della compagnia di soldati, della bottega degli artigiani, della corte dei principi, della famiglia di gente sposata». L’amore personalizza e, quindi, individualizza. L’affetto che lega una persona a un’altra è unico, come dimostra Francesco di Sales nel suo rapporto con la signora di Chantal: «Ogni affetto ha una sua peculiarità che lo differenzia dagli altri; quello che provo per voi possiede una certa particolarità che mi consola infinitamente, e, per dire tutto, per me è oltremodo fruttuoso». Il sole illumina tutti e ciascuno: «rischiarando un angolo della terra, non lo rischiara meno di quel che farebbe se non risplendesse altrove, ma solamente in quell’angolo».
L’essere umano è in divenire Umanista cristiano, Francesco di Sales crede infine alla possibilità che la persona umana ha di perfezionarsi. Erasmo aveva forgiato la formula: Homines non nascuntur sed finguntur. Mentre l’animale è un essere predeterminato, guidato dall’istinto, l’uomo, al contrario, è in perpetua evoluzione. Non solo cambia, ma può cambiare sé stesso, tanto in meglio che in peggio. Ciò che preoccupava interamente l’autore del Teotimo era perfezionare sé stesso e aiutare gli altri a perfezionarsi, e non soltanto in ambito religioso, bensì in ogni cosa. Dalla nascita alla tomba, l’uomo è in una situazione di apprendista. Imitiamo il coccodrillo che «non cessa mai di crescere fin tanto che vive». Infatti, «rimanere in uno stesso stato a lungo non è possibile: chi non avanza, indietreggia in questo traffico; chi non sale, scende in questa scala; chi non vince è vinto in questo combattimento». Egli cita san Bernardo che diceva: «È scritto in modo particolare per l’uomo, che non si troverà mai nello stesso stato: bisogna che avanzi o indietreggi». Andiamo avanti:
Non sai che sei in cammino e che il camino non è fatto per sedersi, ma per andare avanti? Ed è talmente fatto per avanzare, che muoversi in avanti si chiama camminare.
Ciò significa anche che la persona umana è educabile, capace di apprendere, di correggersi e di migliorarsi. E ciò è vero a tutti i livelli. L’età a volte non c’entra per nulla. Guardate questi fanciulli cantori della cattedrale, che superano di gran lunga le capacità del loro vescovo in questo loro ambito: «Ammiro questi bambini – diceva – che a mala pena sanno parlare e che cantano già la loro parte; comprendono tutti i segni e le regole musicali, mentre io non saprei proprio come cavarmela, io che sono un uomo fatto e che si vorrebbe far passare per un grande personaggio». Nessuno in questo mondo è perfetto:
Ci sono persone di loro natura leggere, altre sgarbate, altre ancora ben restie ad ascoltare le opinioni altrui, e altre infine portate all’indignazione, altre alla collera e altre all’amore; per farla breve, troviamo ben poche persone in cui non sia possibile scoprire l’una o l’altra di simili imperfezioni.
Si deve allora disperare di poter migliorare il proprio temperamento, correggendo qualcuna delle nostre naturali inclinazioni? Niente affatto.
Per quanto, infatti, siano in ciascuno di noi come proprie e naturali, se con l’applicazione a un attaccamento contrario si possono correggere e regolare, e perfino uno può liberarsene e purificarsi, allora, vi dico Filotea, che bisogna farlo. Si è pur trovato il modo di far diventare dolci i mandorli amari: basta forarli al piede e farne uscire il succo; perché mai non potremmo allora far uscire le nostre inclinazioni perverse, per diventare così migliori?
Di qui la conclusione ottimista ma esigente: «Non c’è natura buona che non si possa far diventare malvagia, tramite abitudini viziose; non c’è natura tanto perversa che non si possa, anzitutto con la grazia di Dio e poi con l’impegno industrioso e la diligenza, domare e vincere». Se l’uomo è educabile, bisogna non disperare di nessuno e guardarsi bene dai pregiudizi nei confronti delle persone:
Non dite: quel tale è un ubriacone, anche se l’avete visto ubriaco; è un adultero, per averlo visto peccare; è un incestuoso, per averlo colto in quella disgrazia; perché un solo atto non basta per dare il nome alla cosa. […] E anche quando un uomo fosse stato a lungo vizioso, si correrebbe lo stesso il rischio di mentire chiamandolo vizioso.
La persona umana non ha mai terminato di coltivare il suo giardino. È la lezione che il fondatore delle visitandine inculcava loro, quando le chiamava «a coltivare la terra e il giardino» dei loro cuori e dei loro spiriti, perché non esiste «uomo tanto perfetto da non aver bisogno di impegnarsi sia per crescere nella perfezione e sia per conservarla».
Nessuno spaventava le galline (1876)
Ambientato nel gennaio 1876, il brano presenta uno dei più suggestivi «sogni» di Don Bosco, strumento prediletto con cui il santo torinese scuoteva e guidava i giovani dell’Oratorio. La visione si apre su una pianura sterminata in cui fervono i lavori dei seminatori: il grano, simbolo della Parola di Dio, germoglierà solo se protetto. Ma galline voraci piombano sul seme e, mentre i contadini cantano versetti evangelici, i chierici addetti alla custodia restano muti o distratti, lasciando che tutto vada perduto. La scena, animata da dialoghi arguti e citazioni bibliche, diventa parabola della mormorazione che spegne il frutto della predicazione e monito alla vigilanza attiva. Con toni insieme paterni e severi, Don Bosco trasforma l’elemento fantastico in lezione morale incisiva.
Nella seconda metà di gennaio il Servo di Dio ebbe un sogno simbolico, del quale fece parola con alcuni Salesiani. Don Barberis lo pregò di raccontarlo in pubblico, perché i suoi sogni piacevano molto ai giovani, facevano loro gran bene e li affezionavano all’Oratorio. – Sì, questo è vero, rispose il Beato, fanno del bene e sono ascoltati con avidità; il solo che ne riceva nocumento sono io, perché bisognerebbe che avessi polmoni di ferro. Si può ben dire, che nell’Oratorio non ci sia un solo, il quale non si senta scosso da tali narrazioni; poiché per lo più questi sogni toccano tutti, e ciascheduno vuol sapere in quale stato io l’abbia veduto, che cosa debba fare, quale significato abbia questo o quello; ed io sono tormentato giorno e notte. Se poi voglio svegliare il desiderio delle confessioni generali, non ho da far altro che raccontare un sogno… Senti, fa’ una cosa. Domenica andrò a parlare ai giovani, e tu interrogami in pubblico. Io allora conterò il sogno. Il 23 gennaio, dopo le orazioni della sera, egli montò in cattedra. Il suo volto raggiante di gioia manifestava, come sempre, la propria contentezza nel trovarsi tra i suoi figli. Fattosi un po’ di silenzio, Don Barberis chiese di parlare e interrogò: – Scusi, signor Don Bosco, mi permette che io le faccia una domanda? – Di’ pure. – Ho sentito a dire che in queste notti scorse ha fatto un sogno di semenza, di seminatore, di galline, e che l’ha già raccontato al chierico Calvi. Vorrebbe favorire di raccontarlo anche a noi? Questo ci farebbe assai piacere. – Curioso!! – fece Don Bosco in tono di rimprovero. E qui scoppiò una risata generale. – Non importa, sa, che mi dia del curioso; purché ci racconti il sogno. E con questa mia domanda credo d’interpretare la volontà di tutti i giovani, i quali certamente lo ascolteranno tanto volentieri. – Se è così ve lo racconto. Non voleva dir nulla, perché ci sono cose che riguardano diversi di voi in particolare, e alcune anche per te, che fanno bruciare un po’ le orecchie; ma poiché me ne richiedi, io racconterò. – Ma eh! signor Don Bosco, se c’è qualche bastonata per me, me la risparmi qui in pubblico. – Io racconterò le cose come le sognai; ciascuno prenda la parte sua. Ma prima di tutto bisogna che ciascuno tenga bene a mente, che i sogni si fanno dormendo, e dormendo non si ragiona; perciò se vi è qualche cosa di buono, qualche ammonimento da prendere, si prende. Del resto nessuno si metta in apprensione. Ho detto che io sognando di notte dormiva, perché taluni sognano anche di giorno e alcune volte perfino essendo svegliati e con non leggiero disturbo dei professori, per i quali riescono scolari fastidiosi.
Mi pareva di essere lontano di qui e di trovarmi a Castelnuovo d’Asti, mia patria. Aveva avanti a me una grande estensione di terreno, situata in una vasta e bella pianura; ma quel terreno non era nostro e non sapeva di chi fosse. In quel campo vidi molti che lavoravano colle zappe, colle vanghe, coi rastrelli ed altri strumenti. Chi arava, chi seminava il grano, chi spianava la terra, chi faceva altro. Vi erano qua e là i capi preposti a dirigere i lavori e fra costoro mi sembrava di esser anch’io. Cori di contadini stavano in altra parte cantando. Io osservava stupito e non sapeva darmi ragione di quel luogo. Meco stesso andava dicendo: – Ma a che fine costoro lavorano tanto? – E rispondeva a me stesso: – Per provvedere le pagnotte ai miei giovani. – Ed era veramente una meraviglia il vedere come quei buoni agricoltori non desistessero un istante dal lavoro e incessantemente continuassero nel loro uffizio con uno slancio costante e colla stessa solerzia. Solo alcuni stavano ridendo e scherzando fra di loro. Mentre io contemplava così bel quadro, mi guardo attorno e vedo che mi circondavano alcuni preti e molti dei miei chierici, parte vicini, parte ad una certa distanza. Diceva tra me: – Ma io sogno; i miei chierici sono a Torino, qui invece siamo a Castelnuovo. E poi come ciò può essere? Io sono vestito da inverno da capo a piedi, solamente ieri io aveva tanto freddo, ed ora qui si semina il grano. – E mi toccava le mani e camminava e diceva: – Ma pure non sogno, questo è proprio un campo; questo chierico che è qui è il chierico A… in persona; quest’altro è il chierico B… E poi come potrei nel sogno vedere questa cosa e quest’altra? Intanto vidi lì presso, ma a parte, un vecchio che all’aspetto sembrava molto benevolo ed assennato, intento ad osservare me e gli altri. Mi accostai a lui e gli domandai: – Dite, bravo uomo, ascoltate! Che cosa è ciò che io vedo e non ne capisco nulla? Qui dove siamo? Chi sono questi lavoratori? Di chi è questo campo? – Oh! mi risponde quell’uomo; belle interrogazioni da farsi! Ella è prete e non sa queste cose? – Ma dunque ditemi! Credete voi che io sogni o che sia desto? Poiché a me par di sognare e non mi sembrano possibili le cose che vedo. – Possibilissime, anzi reali e a me pare che Lei sia desto affatto. Non se ne avvede? Parla, ride, scherza. – Eppure vi son taluni, io soggiunsi, cui sembra nel sogno di parlare, ascoltare, operare, come se fossero desti. – Ma no; lasci da parte tutto questo. Lei è qui in corpo ed anima. – Ebbene, sia pure; e se son desto, ditemi allora di chi sia questo campo. – Ella ha studiato il latino: qual è il primo nome della seconda declinazione che ha studiato nel Donato? Lo sa ancora? – Eh! sì che lo so; ma che cosa ha da far questo con ciò che vi domando? – Ha da far moltissimo. Dica adunque quale è il primo nome che si studia nella seconda declinazione. – È Dominus. – E come fa al genitivo? – Domini! – Bravo, bene, Domini; questo campo adunque è Domini, del Signore. – Ah! ora comincio a capire qualche cosa! – esclamai. Era meravigliato della conseguenza tratta da quel buon vecchio. Intanto vidi varie persone che venivano con sacchi di grano per seminare, e un gruppo di contadini cantava: Exit, qui seminat, seminare semen suum (Il seminatore uscì a seminare il suo seme, Lc 8,5). A me pareva un peccato gettar via quella semente e farla marcire sotterra. Era così bello quel grano! – Non sarebbe meglio, diceva fra me. macinarlo e fame del pane o delle paste? – Ma poi pensava: – Chi non semina, non raccoglie. Se non si getta via la semente e questa non marcisce, che cosa si raccoglierà poi? In quel mentre vedo da tutte le parti uscire una moltitudine di galline e andar pel seminato a beccarsi tutto il grano che altri spargeva per seme. E quel gruppo di cantori proseguiva nel suo canto: Venerunt aves caeli, sustulerunt frumentum et reliquerunt zizaniam (Gli uccelli del cielo vennero e raccolsero il grano e lasciarono la zizzania). Io do uno sguardo attorno e osservo quei chierici che erano con me. Uno colle mani conserte stava guardando con fredda indifferenza; un altro chiacchierava coi compagni; alcuni si stringevano nelle spalle, altri guardavano il cielo, altri ridevano di quello spettacolo, altri tranquillamente proseguivano la loro ricreazione e i loro giuochi, altri sbrigavano alcuna loro occupazione; ma nessuno spaventava le galline per farle andar via. Io mi rivolgo loro tutto risentito e, chiamando ciascuno per nome, diceva: – Ma che cosa fate? Non vedete quelle galline che si mangiano tutto il grano? Non vedete che distruggono tutto il buon seme, fanno svanire le speranze di questi buoni contadini? Che cosa raccoglieremo poi? Perché state così muti? perché non gridate, perché non le fate andar via? Ma i chierici si stringevano nelle spalle, mi guardavano e non dicevano niente. Alcuni non si volsero neppure: non badavano prima a quel campo, né ci badarono dopo che io ebbi gridato. – Stolti che siete! io continuava. Le galline hanno già tutte il gozzo pieno. Non potreste battere le mani e fare così? – E intanto io batteva le mani, trovandomi in un vero imbroglio, poiché a nulla valevano le mie parole. Allora alcuni si misero a fugar le galline, ma io ripeteva tra me: – Eh sì! Ora che tutto il grano fu mangiato, si scacciano le galline. In quel mentre mi colpì l’orecchio il canto di quel gruppo di contadini, i quali così cantavano: Canes muti nescientes latrare (I cani muti non sanno abbaiare, Is 56,10). Allora io mi rivolsi a quel buon vecchio e tra stupefatto e sdegnato gli dissi: – Orsù, datemi una spiegazione di quanto vedo; io ne capisco nulla. Che cosa è quel seme che si getta per terra? – Oh bella! Semen est verbum Dei (Il seme è la parola di Dio, Lc 8,11). – Ma che cosa vuol dir questo, mentre vedo che là le galline se lo mangiano? Il vecchio, cambiando tono di voce, proseguì: – Oh! se vuole una più compiuta spiegazione, io gliela do. Il campo è la vigna del Signore, di cui si parla nel Vangelo, e si può anche intendere del cuore dell’uomo. I coltivatori sono gli operai evangelici, che specialmente colla predicazione seminano la parola di Dio. Questa parola produrrebbe molto frutto in quel cuore, terreno ben preparato. Ma che? Vengono gli uccelli del cielo e la portano via. – Che cosa indicano questi uccelli? – Vuole che le dica che cosa indicano? Indicano le mormorazioni. Sentita quella predica che porterebbe effetto, si va coi compagni. Uno fa la chiosa ad un gesto, alla voce, ad una parola del predicatore, ed ecco portato via tutto il frutto della predica. Un altro accusa il predicatore stesso di qualche difetto o fisico o intellettuale; un terzo ride sul suo italiano, e tutto il frutto della predica è portato via. Lo stesso deve dirsi di una buona lettura, della quale il bene resta tutto impedito da una mormorazione. Le mormorazioni sono tanto più cattive, in quanto che esse generalmente sono segrete, nascoste, e colà vivono e crescono, ove punto noi non ce lo aspettiamo. Il grano sebbene sia in un campo non molto coltivato, tuttavia nasce, cresce, viene su abbastanza alto e produce frutto. Quando in un campo di fresco seminato viene un temporale, allora il campo resta pestato e non porta più tanto frutto, ma pure ne porta. Se anche la semenza non sarà tanto bella, pure crescerà: porterà poco frutto, ma pure ne porterà. Invece quando le galline o gli uccelli si beccano la semente, non c’è più verso: il campo non rende né punto né poco; non porta più frutto di sorta. Così se alle prediche, alle esortazioni, ai buoni propositi terrà dietro qualche altra cosa come distrazione, tentazione, ecc. farà meno frutto; ma quando c’è la mormorazione, il parlar male o simili, qui non c’è poco che tenga, ma c’è subito il tutto che vien portato via. E a chi tocca battere le mani, insistere, gridare, sorvegliare, perché queste mormorazioni, questi discorsi cattivi non si facciano? Lei lo sa! – Ma che cosa facevano mai questi chierici? io gli chiesi. Non potevano essi impedire tanto male? – Non impedirono nulla, egli proseguì. Taluni stavano ad osservare come statue mute, altri non ci badavano, non ci pensavano, non vedevano e se ne stavano colle braccia conserte, altri non avevano il coraggio d’impedire questo male; alcuni, pochi però, si univano anch’essi ai mormoratori, prendevano parte alle loro maldicenze, facevano il mestiere di distruggitori della parola di Dio. Tu che sei prete insisti su questo; predica, esorta, parla, non aver paura di dir mai troppo; e tutti sappiano che il fare le chiose a chi predica, a chi esorta, a chi dà buoni consigli è ciò che reca più del male. E lo star muti quando si vede qualche disordine e non impedirlo, specialmente chi potrebbe o dovrebbe, questo è al tutto rendersi complice del male degli altri. Io tutto compreso da queste parole, voleva ancora guardare, osservare questa e quella cosa, rimproverare i chierici, infiammarli a compiere il proprio dovere. Ed essi già si movevano e cercavano di mettere in fuga le galline. Ma io, avendo fatti alcuni passi, inciampai in un rastrello, destinato a spianar la terra, lasciato in quel campo, e mi svegliai. Ora lasciamo da parte ogni cosa e veniamo alla morale. D. Barberis! Che cosa ne dici di questo sogno? – Dico, rispose D. Barberis, che è una buona bastonata, e bazza a chi tocca. – Eh certo, riprese D. Bosco, è una lezione la quale bisogna che ci faccia del bene; e tenetelo a mente, o miei cari giovani, di evitare fra voi in ogni modo la mormorazione, come un male straordinario, fuggendola come si fugge dalla peste, e non solo evitarla voi, ma a tutto potere cercare di farla evitare agli altri. Alcune volte santi consigli, opere ottime non fanno il bene, che reca l’impedire una mormorazione e qualunque parola che possa nuocere ad altri. Armiamoci di coraggio e combattiamola francamente. Non v’è peggior disgrazia di quella di far perdere la parola di Dio. E basta un motto, basta uno scherzo.
Vi ho contato un sogno avvenutomi già sono varie notti, ma in questa notte scorsa ne ho avuto un altro, che eziandio desidero narrarvi. L’ora non è ancora troppo tarda; sono appena le nove e posso esporvelo. Procurerò tuttavia di non andare per le lunghe. Mi parve adunque di trovarmi in un luogo che ora non ricordo più quale fosse: non era io più a Castelnuovo, ma mi pare che neppure fossi all’Oratorio. Venne qualcuno con tutta premura a chiamarmi: – D. Bosco, venga! D. Bosco, venga! – Ma e che cosa c’è di tanta premura? io risposi. – È in corrente delle cose avvenute? – Io non intendo quello che tu vuoi dire; spiegati chiaramente, risposi ansioso. – Non sa, D. Bosco, che il tal giovane così buono, così pieno di brio, è gravemente infermo, anzi moribondo? – Io dubito che tu voglia prenderti gioco di me, gli dissi: perché appunto stamane parlai e passeggiai con lo stesso giovane, che ora mi annunzi moribondo. – Ah, D. Bosco, io non cerco d’ingannarla e mi credo in debito di narrarle la pura verità. Quel giovane ha sommamente bisogno di lei e desidera di vederla e di parlarle per l’ultima volta. Ma venga presto, perché altrimenti non è più in tempo. Io senza sapere il dove, andai in tutta fretta dietro a quel tale. Arrivo in un luogo e vedo gente mesta e piangente che mi dice: Faccia pure presto, che è agli estremi. – Ma che cosa è accaduto? – rispondo. Vengo introdotto in una camera, dove vedo un giovane coricato, tutto smorto nel viso, d’un colore quasi cadaverico, con una tosse e un rantolo che lo soffocava e appena a stento gli permetteva di parlare: – Ma non sei tu il tale dei tali? io gli dissi. – Sì, sono il tale! – Come stai? – Sto male – E come va che ora ti vedo in questo stato? Solamente ieri e stamattina non passeggiavi tranquillo sotto i portici? – Sì, rispose il giovane, ieri e stamattina passeggiavo sotto i portici; ma ora faccia presto, che io ho bisogno di confessarmi; vedo che mi resta più poco tempo. – Non affannarti, non affannarti; tu ti sei confessato da pochi giorni. – È vero e mi pare di non avere nessuna grossa pena sul mio cuore; ma tuttavia desidero ricevere la santa assoluzione prima di presentarmi al Divin Giudice. Io ascoltai la sua confessione. Ma intanto osservai che visibilmente peggiorava e un catarro era per soffocarlo. – Ma qui bisogna fare in fretta, dico fra me, se voglio che riceva ancora il santo viatico e l’olio santo. Anzi il viatico non potrà più riceverlo, sia perché ci vuole più tempo per i preparativi, sia perché la tosse potrebbe impedirgli d’inghiottire. Presto l’olio santo! Così dicendo, esco dalla camera e mando subito un uomo a prendere la borsa degli olii santi. I giovani che erano in sala mi domandavano: – Ma è veramente in pericolo? è proprio moribondo, come si va dicendo? – Purtroppo! io rispondeva. Non vedete che il respiro gli si fa ognor più grave e il catarro lo soffoca? – Ma sarà meglio portargli anche il viatico e così fortificato mandarlo nelle braccia di Maria! Ma mentre io mi affaccendava nel preparar l’occorrente, sento una voce: – è spirato! Rientro in camera e trovo l’infermo cogli occhi sbarrati; più non respira; è morto. – È morto? io domando a quei due che lo assistevano morto, mi rispondono: è morto! – Ma come va, tanto in fretta? Ditemi: non è desso il tale? – Sì, è il tale. – Non posso credere agli occhi miei! Solo ieri passeggiava con me sotto i portici. – Ieri passeggiava ed ora è morto, mi replicarono. – Per fortuna che era un giovane buono! esclamai. E diceva ai giovani che aveva attorno: – Vedete, vedete? Costui non ha nemmanco più potuto ricevere il viatico e l’estrema unzione. Ringraziamo però il Signore, che gli diede tempo di confessarsi. Questo giovane era buono, frequentava abbastanza i Sacramenti e speriamo che sia andato ad una vita felice, o almeno in purgatorio. Ma se fosse un po’ capitata ad altri la stessa sorte, che cosa ne sarebbe ora di certuni? Ciò detto, ci mettemmo tutti in ginocchio e recitammo un De profundis per l’anima del povero defunto. Intanto io andava in camera, quando mi vedo giungere Ferraris dalla libreria (coadiutore Giovanni Antonio Ferraris, libraio), il quale tutto affannato mi dice: – Sa, D. Bosco, che cosa è avvenuto? – Eh! purtroppo lo so! È morto il tale! rispondo. – Non è questo che voglio dire; vi sono due altri morti. – Come? chi? – Il tale ed il tale altro. – Ma quando? Non capisco. – Sì, due altri, i quali morirono prima che ella giungesse. – E perché allora non mi avete chiamato? – Mancò il tempo. Ma ella sa dirmi quando è morto questo qui? – È morto adesso! io risposi. – Sa ella in che giorno siamo e di qual mese? proseguì Ferraris. – Sì che lo so; siamo ai 22 di gennaio, secondo giorno della novena di S. Francesco di Sales. – No, disse Ferraris. Ella si sbaglia, signor Don Bosco; guardi bene. – Io alzo gli occhi al calendario e vedo: 26 di Maggio. – Ma questa è maiuscola! esclamai. Siamo di gennaio, e ben me ne accorgo dal come sono vestito, non si va vestiti così di maggio; di maggio non vi sarebbe il calorifero acceso. – Io non so che dirle, o che ragione darle, ma ora siamo ai 26 di maggio. – Ma se ieri solamente è morto quel nostro compagno ed eravamo in gennaio. – Si sbaglia, insisté Ferraris; eravamo in tempo pasquale. – Un’altra ne aggiungi ancor più grossa! – Tempo pasquale, sicuro: eravamo in tempo pasquale, e fu ben più fortunato di morire nella Pasqua, che gli altri due, i quali morirono nel mese di Maria. – Tu mi burli, io gli dissi. Spiegati meglio, altrimenti io non t’intendo. – Io non burlo niente affatto. La cosa è così. Se poi vuole saperne di più, e che io mi spieghi meglio, ecco! Stia attento! Aperse le braccia, poi batté le due mani una contro l’altra forte forte: ciac! Ed io mi sono svegliato. Allora esclamai: – Oh per fortuna! Non è una realtà, ma è un sogno. Quanto timore ho avuto! Ecco il sogno che ho fatto la notte scorsa. Voi dategli quell’importanza che volete. Io stesso non voglio dargli interamente fede. Oggi però ho voluto vedere se coloro che mi parvero morti in sogno, fossero ancora vivi e li vidi sani e vigorosi. Certamente che non conviene ch’io dica, e non dirò, chi siano costoro. Tuttavia terrò d’occhio quei due: se sarà necessario qualche consiglio per vivere bene, lo darò loro, e li preparerò, facendo le volte larghe senza che se ne accorgano; perché così, se accadesse loro di dover morire, la morte non li trovi impreparati. Ma nessuno vada dicendo: Sarà questi, sarà quegli. Ciascuno pensi a sé. E non datevi nessuna apprensione di questo. L’effetto che deve fare in voi è semplicemente quello che ci suggerì il Divin Salvatore nel Vangelo: Estote parati, quia, qua hora non putatis, filius hominis veniet (Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo, Lc 12,40). È questo un grande avvertimento, miei cari giovani, che ci dà il Signore. Stiamo apparecchiati sempre, perché nell’ora in cui meno ce lo aspettiamo, può venire la morte e colui che non è preparato a morir bene, corre grave rischio di morir male. Io mi terrò preparato il meglio che posso e voi fate lo stesso, affinché in qualunque ora piaccia al Signore di chiamarci, possiamo essere pronti a passare nella felice eternità. Buona notte.
Le parole di Don Bosco si ascoltavano sempre con religioso silenzio; ma quando egli raccontava di queste cose straordinarie, fra le centinaia di ragazzi che gremivano il luogo, non si sentiva un colpo di tosse né il più lieve fruscio di piedi. L’impressione viva durava settimane e mesi e con l’impressione avvenivano mutazioni radicali nella condotta di certi discoli. Si faceva poi ressa intorno al confessionale di Don Bosco. Di supporre che egli inventasse quei racconti per spaventare e migliorare la vita dei giovani, non veniva in capo a nessuno, perché gli annunzi di morti prossime si avveravano sempre e certi stati di coscienza veduti nei sogni rispondevano a realtà. Ma il timore prodotto da sì lugubri predizioni non era un incubo opprimente? Non pare. Troppe si presentavano le possibilità e le supposizioni in una moltitudine di più che ottocento giovani, perché i singoli ne potessero essere preoccupati. Inoltre la persuasione realmente diffusa, che chi moriva nell’Oratorio, andava di certo in paradiso, e che Don Bosco preparava i designati senza spaventarli, contribuiva a scacciare dagli animi ogni timore. D’altra parte si sa bene quanto sia grande la volubilità giovanile: sul momento la fantasia dei giovani rimane colpita e scossa; ma poi quel ricordo si libera ben presto da qualsiasi paurosa apprensione. Tanto ci attestavano unanimi i superstiti di quei tempi. Andati che furono i giovani a dormire, alcuni confratelli che attorniavano il Beato, lo tempestavano di domande, per sapere se alcuno di loro fosse fra quei che dovevano morire. Il Servo di Dio, sorridendo secondo il suo solito e scuotendo il capo, ripeteva: – Già, già! Verrò a dirvi chi è, con pericolo di far morire qualcuno prima del tempo! Visto che lì non si spillava nulla, lo interrogarono se nel primo sogno vi fossero anche dei chierici a far la parte delle galline, che, si abbandonassero cioè alla mormorazione. Don Bosco, che passeggiava, si fermò, girò gli occhi su gl’interlocutori e fece un risolino come per dire: – Eh! qualcuno sì; tuttavia pochi, e non aggiungo altro. – Allora gli chiesero che dicesse almeno se essi erano fra i cani muti; il Beato si tenne sulle generali, osservando che bisognava stare attenti a evitare e a far evitare le mormorazioni e in genere tutti i disordini, massime i cattivi discorsi. – Guai al prete e al chierico, disse, il quale, incaricato della vigilanza, vede i disordini e non li impedisce! Desidero si sappia e si ritenga che con la parola “mormorazioni” io non intendo solamente il tagliarci i panni addosso, ma ogni discorso, ogni motto, ogni parola, che possa in un compagno sminuire il frutto della parola di Dio udita. In generale poi intendo di dire che è un gran male starsene quieti, allorché si conosce qualche disordine, non impedendolo o non cercando che lo impedisca chi di ragione. Uno più arditelo mosse al Servo di Dio un’interrogazione alquanto azzardata. – E Don Barberis per che cosa entra nel sogno? Lei ha detto che ce n’era anche per lui, e Don Barberis stesso sembrava che si aspettasse una buona bastonata per sé. – Don Barberis era presente. Sulle prime Don Bosco accennava a non voler rispondere. Ma poi, essendo rimasti ai suoi fianchi solo alcuni preti e mostrandosi Don Barberis contento che egli palesasse il segreto, il Beato disse: – Eh! Don Barberis non predica abbastanza su questo punto; su quest’argomento non insiste quanto bisogna. Don Barberis confermò che né l’anno innanzi né durante l’anno in corso si era mai fermato di proposito: su quelle materie nelle sue conferenze agli ascritti; ebbe perciò molto piacere dell’osservazione e se la legò all’orecchio per l’avvenire. Ciò detto, salirono le scale e tutti, baciata la mano a Don Bosco, si allontanarono e andarono a riposo. Tutti, meno Don Barberis, che secondo il consueto lo accompagnò fino all’uscio della sua stanza. Don Bosco, vedendo che era ancora presto e accorgendosi che non avrebbe potuto prender sonno, perché fortemente impressionato dalle cose esposte, contro la sua costante abitudine fece entrare Don Barberis nella camera, dicendo: – Giacché abbiamo ancora tempo, possiamo fare due passi su e giù per la stanza. Così continuò a discorrere per una mezz’ora. Disse fra l’altro: – Io nel sogno ho veduto tutti ed ho veduto lo stato nel quale ognuno si trovava: se gallina, se cane muto, se nel numero di coloro che avvisati si misero all’opera o non si mossero. Di queste cognizioni io mi servo confessando, esortando in pubblico ed in privato, finché vedo che producono del bene. Da principio non faceva gran caso di questi sogni; ma mi accorsi che per lo più valgono a produrre l’effetto di più prediche, anzi per alcuni sono più efficaci che un corso di esercizi spirituali; perciò me ne servo. E perché no? Si legge nella Sacra Scrittura: Probate spiritus (mettete alla prova gli spiriti, 1Gv 4,1); quod bonum est tenete (tenete ciò che è buono, 1Tes 5,21). Vedo che giovano, vedo che piacciono, e perché tenerli segreti? Anzi osservo che contribuiscono ad affezionare molti alla Congregazione. – Ho provato io stesso, interruppe Don Barberis, di quanta utilità fossero questi sogni e quanto salutari. Anche narrati altrove, fanno del bene. Dove Don Bosco è conosciuto, si può dire che sono sogni fatti da lui; dove non è conosciuto, si possono presentare come similitudini. Oh, se sì potesse fame una raccolta, esponendoli in forma di similitudini! Sarebbero ricercati e letti da piccoli e da grandi, da giovani e da vecchi, con vantaggio delle anime loro. – Già, già! Farebbero del bene, ne sono intimamente convinto. – Ma forse, lamentò Don Barberis, nessuno li ha raccolti per iscritto. – Io, riprese Don Bosco, non ho tempo, e di molti non mi ricordo più. – Quelli dei quali io mi ricordo, replicò Don Barberis, sono i sogni che si riferivano ai progressi della Congregazione, all’estendersi del manto della Madonna… – Ah, sì! – esclamò il Beato. E accennò a parecchie visioni di questo genere. Presa quindi un’aria più grave e quasi conturbato proseguì: – Quando penso alla mia responsabilità nella posizione in cui io mi trovo, tremo tutto… Che conto tremendo avrò da rendere a Dio di tutte le grazie che ci fa per il buon andamento della nostra Congregazione! (MB XII, 40-51)