San Francesco di Sales lo ammaestra. Futuro sulle vocazioni (1879)

Nel sogno profetico che Don Bosco racconta il 9 maggio 1879, San Francesco di Sales appare come premuroso maestro e consegna al Fondatore un libretto carico di avvertimenti per novizi, professi, direttori e superiori. La visione è dominata da due battaglie epiche: giovani e guerrieri prima, poi uomini armati e mostri, mentre lo stendardo di «Maria Auxilium Christianorum» garantisce la vittoria a chi lo segue. I sopravvissuti partono per Oriente, Nord e Mezzogiorno, prefigurando l’espansione missionaria salesiana. Le parole del Santo insistono su obbedienza, castità, carità educativa, amore al lavoro e temperanza, colonne indispensabili perché la Congregazione cresca, resista alle prove e lasci ai figli un’eredità di santità operosa. Si chiude con una bara, severo richiamo a vigilanza e preghiera.

            Checché sia di questo sogno [cura del mal d’occhi con sugo di cicoria], il Beato un altro ne ebbe dei soliti, che raccontò il 9 maggio. Assistette in esso alle lotte accanite che si sarebbero dovute affrontare dai chiamati alla Congregazione, ricevendo una serie di utili avvisi per tutti i suoi ed alcuni salutari consigli per l’avvenire.

            Grande e lunga battaglia di giovanetti contro guerrieri di vario aspetto, diverse forme, con armi strane. In fine rimasero pochissimi superstiti.
            Altra più accanita ed orribile battaglia avvenne tra mostri di forma gigantesca contro ad uomini di alta statura bene armati e bene esercitati. Essi avevano uno stendardo assai alto e largo, nel centro del quale stavano dipinte in oro queste parole: Maria Auxilium Christianorum (Maria Aiuto dei Cristiani). La pugna fu lunga e sanguinosa. Ma quelli che seguivano lo stendardo, furono come invulnerabili e rimasero padroni di una vastissima pianura. A costoro si congiunsero i giovanetti superstiti alla antecedente battaglia e tra tutti formarono una specie d’esercito aventi ognuno per arma nella destra il Santissimo Crocifisso, nella sinistra un piccolo stendardo di Maria Ausiliatrice modellato come si è detto sopra.
            I novelli soldati fecero molte manovre in quella vasta pianura, poi si divisero e partirono gli uni all’Oriente, alcuni pochi al Nord, molti al Mezzodì.
            Scomparsi questi, si rinnovarono le stesse battaglie, le stesse manovre e partenze per le stesse direzioni.
            Ho conosciuto alcuni delle prime zuffe: quelli che seguirono erano a me sconosciuti: ma essi davano a divedere che conoscevano me e mi facevano molte domande.
            Succedette poco dopo una pioggia di fiammelle splendenti che sembravano di fuoco di vario colore. Tuonò e poi si rasserenò il cielo e mi trovai in un giardino amenissimo. Un uomo che aveva la fisionomia di S. Francesco di Sales, mi offrì un libretto senza dirmi parola. Chiesi chi fosse.
            – Leggi nel libro – rispose.
            Aprii il libro, ma stentava a leggere. Potei però rilevare queste precise parole:
Ai Novizi: – Ubbidienza in ogni cosa. Coll’ubbidienza meriteranno le benedizioni del Signore e la benevolenza degli uomini. Colla diligenza combatteranno e vinceranno le insidie degli spirituali nemici.
Ai professi: – Custodire gelosamente la virtù della castità. Amare il buon nome dei confratelli e promuovere il decoro della Congregazione.
Ai Direttori: – Ogni cura, ogni fatica per osservare e far osservare le regole con cui ognuno si è consacrato a Dio.
Al Superiore: – Olocausto assoluto per guadagnare sé e i suoi soggetti a Dio.
            Molte altre cose erano stampate in quel libro, ma non potei più leggere, perché la carta apparve azzurra come l’inchiostro.
            – Chi siete voi? – ho di nuovo domandato a quell’uomo, che con sereno sguardo mi stava rimirando.
            – Il mio nome è noto a tutti i buoni e sono mandato per comunicarti alcune cose future.
            – Quali?
            – Quelle esposte e quelle che chiederai.
            – Che debbo fare per promuovere le vocazioni?
            – I Salesiani avranno molte vocazioni colla loro esemplare condotta, trattando con somma carità gli allievi, ed insistendo sulla frequente Comunione.
            – Che si deve osservare nell’accettazione dei novizi?
            – Escludere i pigri ed i golosi.
            – Nell’accettare ai voti?
            – Vegliare se vi sia garanzia sulla castità.
            – Come si potrà meglio conservare il buono spirito nelle nostre case?
            – Scrivere, visitare, ricevere e trattare con benevolenza; e ciò con molta frequenza da parte dei Superiori.
            – Come dobbiamo regolarci nelle Missioni?
            – Mandare individui sicuri nella moralità; richiamare coloro che ne lasciassero travedere grave dubbio; studiare e coltivare le vocazioni indigene.
            – Cammina bene la nostra Congregazione?
– Qui iustus est justificetur adhuc (Chi è giusto sarà ancora giustificato). Non progredi est regredi (Non andare avanti significa tornare indietro). Qui perseveraverit, salvus erit (Chi persevera sarà salvato).
            – Si dilaterà molto?
            – Finché i Superiori faranno la parte loro, crescerà e niuno potrà arrestarne la propagazione.
            – Durerà molto tempo?
            – La Congregazione vostra durerà fino a che i soci ameranno il lavoro e la temperanza. Mancando una di queste due colonne, il vostro edifizio ruina schiacciando Superiori ed inferiori e i loro seguaci.
            In quel momento apparvero quattro individui portanti una bara mortuaria. Camminavano verso di me.
            – Per chi è questo? – io dissi.
            – Per te!
            – Presto?
            – Non domandarlo: pensa solo che sei mortale.
            – Che cosa mi volete significare con questa bara?
            – Che devi far praticare in vita quello che desideri che i tuoi figli debbano praticare dopo di te. Questa è l’eredità, il testamento che devi lasciare ai tuoi figli; ma devi prepararlo e lasciarlo ben compiuto e ben praticato.
            – Ci sovrastano fiori o spine?
            – Sovrastano molte rose, molte consolazioni, ma sono imminenti spine pungentissime che cagioneranno in tutti profondissima amarezza e cordoglio. Bisogna pregare molto.
            – A Roma dobbiamo andare?
            – Si, ma adagio, con la massima prudenza e con raffinate cautele.
            – Sarà imminente il fine della mia vita mortale?
            – Non ti curare di questo. Hai le regole, hai i libri, fa’ quello che insegni agli altri. Vigila.

            Volevo fare altre domande, ma scoppiò cupo il tuono con lampi e fulmini, mentre alcuni uomini, o dirò meglio orridi mostri, si avventarono contro di me per sbranarmi. In quell’istante una tetra oscurità mi tolse la vista di tutto. Mi credevo morto e mi son posto a gridare come frenetico. Mi svegliai e mi trovai ancor vivo, ed erano le quattro e tre quarti del mattino.
            Se c’è qualche cosa che possa essere vantaggioso, accettiamolo.
            In ogni cosa poi sia onore e gloria a Dio per tutti i secoli dei secoli.
(MB XIV, 123-125)

Foto nel frontespizio. San Francesco di Sales. Anonimo. Sacrestia del Duomo di Chieri




Le profezie di Malachia. I papi e la fine del mondo

Le cosiddette “Profezie di Malachia” rappresentano uno dei testi profetici più affascinanti e controversi legati al destino della Chiesa cattolica e del mondo. Attribuite a Malachia di Armagh, arcivescovo irlandese vissuto nel XII secolo, queste previsioni descrivono brevemente, attraverso enigmatici motti latini, i pontefici da Celestino II fino all’ultimo papa, il misterioso “Pietro Secondo”. Nonostante siano considerate dagli studiosi moderne falsificazioni risalenti al tardo Cinquecento, le profezie continuano a suscitare dibattiti, interpretazioni apocalittiche e speculazioni su possibili scenari escatologici. Al di là della loro autenticità, esse rappresentano comunque un forte richiamo alla vigilanza spirituale e all’attesa consapevole del giudizio finale.

Malachia di Armagh. Biografia di un “Bonifacio d’Irlanda”
Malachia (in irlandese Máel Máedóc Ua Morgair, in latino Malachias) nacque intorno al 1094 nei pressi di Armagh, da una famiglia nobile. Ricevette la sua formazione intellettuale dal dotto Imhar O’Hagan e, nonostante la sua iniziale riluttanza, fu ordinato sacerdote nel 1119 dall’arcivescovo Cellach. Dopo un periodo di perfezionamento liturgico presso il monastero di Lismore, Malachia intraprese un’intensa attività pastorale che lo portò a ricoprire incarichi di crescente responsabilità. Nel 1123 come Abate di Bangor, avviò il ripristino della disciplina sacramentale; nel 1124: nominato Vescovo di Down e Connor, proseguì la riforma liturgica e pastorale e nel 1132: divenuto Arcivescovo di Armagh, dopo difficili contese con gli usurpatori locali, liberò la sede primaziale d’Irlanda e promosse la struttura diocesana sancita dal sinodo di Ráth Breasail.

Durante il suo ministero, Malachia introdusse significative riforme adottando la liturgia romana, sostituendo le eredità monastiche claniche con la struttura diocesana prescritta dal sinodo di Ráth Breasail (1111) e promosse la confessione individuale, il matrimonio sacramentale e la cresima.
Per questi interventi riformatori, san Bernardo di Chiaravalle lo paragonò a san Bonifacio, l’apostolo della Germania.

Malachia compì due viaggi a Roma (1139 e 1148) per ricevere il pallio metropolitano per le nuove province ecclesiastiche d’Irlanda, e in tale occasione fu nominato legato pontificio. Al ritorno dal primo viaggio, con l’aiuto di san Bernardo di Chiaravalle, fondò l’abbazia cistercense di Mellifont (1142), la prima di numerose fondazioni cistercensi in terra irlandese. Morì durante un secondo viaggio verso Roma, il 2 novembre 1148 a Clairvaux, tra le braccia di san Bernardo, che ne scrisse la biografia intitolata “Vita Sancti Malachiae”.

Nel 1190, papa Clemente III lo canonizzò ufficialmente, rendendolo il primo santo irlandese proclamato secondo la procedura formale della Curia romana.

La “Profezia dei Papi”: un testo che compare quattro secoli dopo
Alla figura di questo arcivescovo riformatore venne associata, solo nel XVI secolo, una raccolta di 112 motti che descriverebbero altrettanti pontefici: da Celestino II fino all’enigmatico “Pietro Secondo”, destinato ad assistere alla distruzione della “città dei sette colli”.
La prima pubblicazione di queste profezie risale al 1595, quando il monaco benedettino Arnold Wion le inserì nella sua opera Lignum Vitae, presentandole come un manoscritto redatto da Malachia durante la sua visita a Roma nel 1139.
Le profezie consistono in brevi frasi simboliche che dovrebbero caratterizzare ciascun papa attraverso riferimenti al nome, al luogo di nascita, allo stemma araldico o a eventi significativi del pontificato. Di seguito sono riportati i motti attribuiti agli ultimi pontefici:

109De medietate Lunae (“Dalla metà della luna”)
Attribuito a Giovanni Paolo I, che regnò per un solo mese. Fu eletto il 26.08.1978, quando la luna era nell’ultimo quarto (25.08.1978), e morì il 28.09.1978, quando la luna era nel primo quarto (24.09.1978).

110De labore solis (“Dalla fatica del sole”)
Attribuito a Giovanni Paolo II, che guidò la Chiesa per 26 anni, il terzo pontificato più lungo della storia dopo san Pietro (34-37 anni) e il beato Pio IX (più di 31 anni). Fu eletto il 16.10.1978, poco dopo un’eclissi solare parziale (02.10.1978), e morì il 02.04.2005, pochi giorni prima di un’eclissi solare anulare (08.04.2005).

111Gloria olivae (“Gloria dell’oliva”)
Attribuito a Benedetto XVI (2005-2013). Il cardinale Ratzinger, impegnato nel dialogo ecumenico e interreligioso, scelse il nome di Benedetto XVI in continuità con Benedetto XV, papa che si adoperò per la pace durante la Prima Guerra Mondiale, come egli stesso spiegò nella sua prima Udienza Generale del 27 aprile 2005 (la pace è simboleggiata dal ramo d’ulivo portato dalla colomba a Noè al termine del Diluvio). Questo collegamento simbolico venne ulteriormente rafforzato dalla canonizzazione, nel 2009, di Bernardo Tolomei (1272-1348), fondatore della congregazione benedettina di Santa Maria di Monte Oliveto (Monaci Olivetani).

112[a]In persecutione extrema Sanctae Romanae Ecclesiae sedebit…
Questa non è propriamente un motto, ma una frase introduttiva. Nell’edizione originale del 1595 appare come riga a sé stante, suggerendo la possibilità di inserire ulteriori papi tra Benedetto XVI e il profetizzato “Pietro Secondo”. Ciò contraddirebbe l’interpretazione che identifica necessariamente Papa Francesco come l’ultimo pontefice.

112[b]Petrus Secundus
Riferito all’ultimo papa (la Chiesa ebbe come primo pontefice san Pietro e avrà come ultimo un altro Pietro) che guiderà i fedeli in tempi di tribolazione.
Il paragrafo intero della profezia recita:
“In persecutione extrema Sanctae Romanae Ecclesiae sedebit Petrus Secundus, qui pascet oves in multis tribulationibus; quibus transactis, Civitas septicollis diruetur, et Iudex tremendus judicabit populum suum. Amen.”
“Durante l’estrema persecuzione della Santa Chiesa Romana siederà Pietro Secondo, che pascerà le pecore tra molte tribolazioni; quando queste saranno terminate, la città dei sette colli [Roma] sarà distrutta, ed il terribile Giudice giudicherà il suo popolo. Amen.”
“Pietro Secondo” sarebbe dunque l’ultimo pontefice prima della fine dei tempi, con un chiaro riferimento apocalittico alla distruzione di Roma e al giudizio finale.

Speculazioni contemporanee
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le interpretazioni speculative: chi identifica papa Francesco come il 112° e ultimo pontefice, chi ipotizza che lui è stato un papa di transizione verso il vero l’ultimo papa, chi addirittura calcola il 2027 come possibile data della fine dei tempi.
Quest’ultima ipotesi si basa su un curioso calcolo: dalla prima elezione papale menzionata nella profezia (Celestino II nel 1143) fino alla prima pubblicazione del testo (durante il pontificato di Sisto V, 1585-1590) trascorsero circa 442 anni; seguendo la stessa logica, aggiungendo altri 442 anni dalla pubblicazione si arriverebbe al 2027. Queste speculazioni, tuttavia, mancano di fondamento scientifico, poiché il manoscritto originale non contiene riferimenti cronologici espliciti.

L’autenticità contestata
Sin dalla comparsa del testo, numerosi storici hanno espresso dubbi sulla sua autenticità per diverse ragioni:
assenza di manoscritti antichi: non esistono copie databili a prima del 1595;
stile linguistico: il latino utilizzato è tipico del XVI secolo, non del XII;
precisione retrospettiva: i motti riferiti ai papi precedenti al conclave del 1590 sono sorprendentemente accurati, mentre quelli successivi risultano molto più vaghi e facilmente adattabili a eventi posteriori;
finalità politiche: in un’epoca di forti tensioni tra fazioni curiali, un simile elenco profetico avrebbe potuto influenzare l’elettorato cardinalizio nel Conclave del 1590.

La posizione della Chiesa
La dottrina cattolica insegna, come riportato nel Catechismo, che il destino della Chiesa non può essere diverso da quello del suo Capo, Gesù Cristo. Nei paragrafi 675-677 si descrive “L’ultima prova della Chiesa”:

Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. La persecuzione che accompagna il suo pellegrinaggio sulla terra svelerà il «mistero di iniquità» sotto la forma di una impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell’apostasia dalla verità. La massima impostura religiosa è quella dell’Anti-Cristo, cioè di uno pseudo-messianismo in cui l’uomo glorifica sé stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne.
Questa impostura anti-cristica si delinea già nel mondo ogniqualvolta si pretende di realizzare nella storia la speranza messianica che non può essere portata a compimento se non al di là di essa, attraverso il giudizio escatologico; anche sotto la sua forma mitigata, la Chiesa ha rigettato questa falsificazione del regno futuro sotto il nome di millenarismo, soprattutto sotto la forma politica di un messianismo secolarizzato «intrinsecamente perverso».
La Chiesa non entrerà nella gloria del Regno che attraverso quest’ultima pasqua, nella quale seguirà il suo Signore nella sua morte e risurrezione. Il Regno non si compirà dunque attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male che farà discendere dal cielo la sua Sposa. Il trionfo di Dio sulla rivolta del male prenderà la forma dell’ultimo giudizio dopo l’ultimo sommovimento cosmico di questo mondo che passa.

Allo stesso tempo, la dottrina cattolica ufficiale invita alla prudenza, fondandosi sulle parole stesse di Gesù:
«Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti» (Mt 24,11).
«Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti» (Mt 24:24).

La Chiesa sottolinea, seguendo il Vangelo di Matteo (Mt 24,36), che il momento della fine del mondo non è conoscibile dagli uomini, ma soltanto da Dio stesso. E il Magistero ufficiale – Il Catechismo (n. 673-679) ribadisce che nessuno può “leggere” l’ora del ritorno di Cristo.

Le profezie attribuite a San Malachia non hanno mai ricevuto un’approvazione ufficiale dalla Chiesa. Tuttavia, al di là della loro autenticità storica, esse ci ricordano una verità fondamentale della fede cristiana: la fine dei tempi accadrà, come insegnato da Gesù.

Da duemila anni gli uomini riflettono su questo evento escatologico, spesso dimenticando che la “fine dei tempi” per ciascuno coincide con il proprio termine dell’esistenza terrena. Che importa se il nostro fine vita coinciderà con la fine dei tempi? Per molti non sarà così. Ciò che davvero conta è vivere autenticamente la vita cristiana nel quotidiano, seguendo gli insegnamenti di Cristo ed essendo sempre pronti a rendere conto al Creatore e Redentore dei talenti ricevuti. Resta sempre attuale l’ammonimento di Gesù: «Vegliate, dunque, perché non sapete in quale giorno il vostro Signore verrà» (Mt 24,42).
In quest’ottica, il mistero del “Pietro Secondo” non rappresenta tanto una minaccia di rovina, quanto piuttosto un invito alla costante conversione e alla fiducia nel disegno divino di salvezza.




È ancora necessario confessarsi?

Il Sacramento della Confessione, spesso trascurato nella frenesia contemporanea, rimane per la Chiesa cattolica una sorgente insostituibile di grazia e di rinnovamento interiore. Invitamo a riscoprirne il significato originario: non un rito formale, ma un incontro personale con la misericordia di Dio, istituito da Cristo stesso e affidato al ministero della Chiesa. In un’epoca che relativizza il peccato, la Confessione si rivela bussola per la coscienza, medicina per l’anima e porta spalancata alla pace del cuore.

Il Sacramento della Confessione: una necessità per l’anima
Nella tradizione cattolica, il Sacramento della Confessione – chiamato anche Sacramento della Riconciliazione o della Penitenza – occupa un posto centrale nel cammino di fede. Non si tratta di un semplice atto formale o di una pratica riservata a pochi fedeli particolarmente devoti, ma di una necessità profonda che coinvolge ogni cristiano, chiamato a vivere nella grazia di Dio. In un tempo che tende a relativizzare la nozione di peccato, riscoprire la bellezza e la forza liberatrice della Confessione è fondamentale per rispondere pienamente all’amore di Dio.

Gesù Cristo stesso ha istituito il Sacramento della Confessione. Dopo la sua Risurrezione, Egli apparve agli Apostoli e disse: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non li perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,22-23). Queste parole non sono un simbolismo: esse stabiliscono un potere reale e concreto affidato agli Apostoli e, per successione, ai loro successori, i vescovi e i presbiteri.

Il perdono dei peccati, dunque, non avviene solo tra l’uomo e Dio in modo privato, ma passa anche attraverso il ministero della Chiesa. Dio, nel suo disegno di salvezza, ha voluto che la confessione personale davanti a un sacerdote fosse il mezzo ordinario per ricevere il Suo perdono.

La realtà del peccato
Per comprendere la necessità della Confessione, bisogna prima prendere coscienza della realtà del peccato.
San Paolo afferma: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm. 3,23). E: “Se diciamo che non abbiamo peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1Gv 1,8).
Nessuno può dirsi immune dal peccato, nemmeno dopo il Battesimo, che ci ha purificati dalla colpa originale. La nostra natura umana, ferita dalla concupiscenza, ci porta continuamente a cadere, a tradire l’amore di Dio con atti, parole, omissioni e pensieri.
Scrive san Agostino: “È vero: la natura dell’uomo fu creata in origine senza colpa e senza nessun vizio; viceversa la natura attuale dell’uomo, per la quale ciascuno nasce da Adamo, ha ormai bisogno del Medico, perché non è sana. Certo, tutti i beni che ha nella sua struttura, nella vita, nei sensi e nella mente, li riceve dal sommo Dio, suo creatore e artefice. Il vizio invece che oscura e indebolisce questi beni naturali, così da rendere la natura umana bisognosa d’illuminazione e di cura, non l’ha tratto dal suo irreprensibile artefice, ma dal peccato originale che fu commesso con il libero arbitrio.” (La natura e la grazia).

Negare l’esistenza del peccato equivale a negare la verità su noi stessi. Solo riconoscendo il nostro bisogno di perdono possiamo aprirci alla misericordia di Dio, che non si stanca mai di richiamarci a Sé.

La Confessione: incontro con la Misericordia Divina
Il Sacramento della Confessione è, innanzitutto, un incontro personale con la Misericordia divina. Non è semplicemente un’autoaccusa o una seduta di autoanalisi; è un atto di amore da parte di Dio che, come il padre nella parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32), corre incontro al figlio pentito, lo abbraccia e lo riveste di nuova dignità.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “Quelli che si accostano al sacramento della Penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e insieme si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l’esempio e la preghiera.” (CCC, 1422).

Confessarsi è lasciarsi amare, guarire e rinnovare. È accogliere il dono di un cuore nuovo.

Perché confessarsi a un sacerdote?
Una delle obiezioni più comuni è: “Perché devo confessarmi a un sacerdote? Non posso confessarmi direttamente a Dio?” Certamente, ogni fedele può – e deve – rivolgersi direttamente a Dio con la preghiera di pentimento. Tuttavia, Gesù ha stabilito un mezzo concreto, visibile e sacramentale per il perdono: la confessione a un ministro ordinato. E questo è valido per ogni cristiano, ossia anche per i sacerdoti, vescovi, papi.

Il sacerdote agisce in persona Christi, cioè in persona di Cristo stesso. Egli ascolta, giudica, assolve, e offre consigli spirituali. Non si tratta di una mediazione umana che limita l’amore di Dio, bensì di una garanzia offerta da Cristo stesso: il perdono viene comunicato visibilmente, e il fedele ne può avere certezza.

Inoltre, confessarsi davanti a un sacerdote esige umiltà, una virtù indispensabile per la crescita spirituale. Riconoscere apertamente le proprie colpe ci libera dal giogo dell’orgoglio e ci apre alla vera libertà dei figli di Dio.

Non è sufficiente confessarsi solo una volta l’anno, come richiesto dal minimo della legge ecclesiastica. I santi e i maestri di spirito hanno sempre raccomandato la confessione frequente – anche bisettimanale o settimanale – come mezzo di progresso nella vita cristiana.

San Giovanni Paolo II si confessava ogni settimana. Santa Teresa di Lisieux, pur essendo monaca carmelitana e vivendo in clausura, si confessava regolarmente. La confessione frequente permette di affinare la coscienza, correggere difetti radicati, e ricevere nuove grazie.

Ostacoli alla confessione
Purtroppo, molti fedeli oggi trascurano il Sacramento della Riconciliazione. Tra i motivi principali troviamo:

Vergogna: temere il giudizio del sacerdote. Ma il sacerdote non è lì per condannare, bensì per essere strumento di misericordia.

Paura che i peccati riconosciuti vengano fatti pubblici: i sacerdoti confessori non possono rivelare a nessuno, in nessuna condizione (incluse le massime autorità ecclesiastiche) i peccati ascoltati in confessione, neanche se perde la propria vita. Se lo fanno, incorrono immediatamente nella scomunica latae sententiae (canone1386, Codice del Diritto Canonico). L’inviolabilità del sigillo sacramentale non ammette eccezioni né dispense. E le condizioni sono le stesse anche se la Confessione non è finita con l’assoluzione sacramentale. Anche dopo la morte del penitente, il confessore è tenuto ad osservare il sigillo sacramentale.

Mancanza di senso del peccato: in una cultura che minimizza il male, si rischia di non riconoscere più la gravità delle proprie colpe.

Pigrizia spirituale: rimandare la Confessione è una tentazione comune che porta a raffreddare il rapporto con Dio.

Errate convinzioni teologiche: alcuni credono erroneamente che basti “pentirsi nel cuore” senza bisogno della Confessione sacramentale.

La disperazione della salvezza: Alcuni pensano che per loro comunque non ci sarà più perdono. Dice san Agostino: “Alcuni infatti, dopo esser caduti in peccato, si perdono ancora di più per disperazione e non solo trascurano la medicina di pentirsi, ma si fanno schiavi di libidini e di desideri scellerati per soddisfare brame disoneste e riprovevoli, come se a non farlo perdessero pur quello a cui li istiga la libidine, convinti d’esser ormai già sull’orlo della sicura dannazione. Contro questa malattia estremamente pericolosa e dannosa giova il ricordo dei peccati in cui sono caduti anche i giusti e i santi.” (ibid.)

Per superare questi ostacoli bisogna chiedere consigli a chi li può dare, istruirsi, pregare.

Prepararsi bene alla confessione
Una buona confessione richiede una adeguata preparazione, che comprende:

1. Esame di coscienza: riflettere sinceramente sui propri peccati, aiutandosi anche con elenchi basati sui Dieci Comandamenti, sui vizi capitali o sulle Beatitudini.

2. Contrizione: dolore sincero per aver offeso Dio, non solo paura della punizione.

3. Proposito di emendarsi: desiderio reale di cambiare vita, di evitare il peccato futuro.

4. Accusa integrale dei peccati: confessare tutti i peccati mortali in modo completo, specificando la natura e il numero (se possibile).

5. Penitenza: accettare e compiere l’opera riparatrice proposta dal confessore.

Gli effetti della Confessione
Confessarsi non produce solo una cancellazione esterna del peccato. Gli effetti interiori sono profondi e trasformanti:

Riconciliazione con Dio: Il peccato rompe la comunione con Dio; la Confessione la ristabilisce, riportandoci alla piena amicizia divina.

Pace e serenità interiore: Ricevere l’assoluzione porta una pace profonda. La coscienza viene liberata dal peso della colpa e si sperimenta una gioia nuova.

Forza spirituale: Attraverso la grazia sacramentale, il penitente riceve una forza speciale per combattere le tentazioni future e per crescere nelle virtù.

Riconciliazione con la Chiesa: Poiché ogni peccato danneggia anche il Corpo Mistico di Cristo, la Confessione ricompone anche il nostro legame con la comunità ecclesiale.

La vitalità spirituale della Chiesa dipende anche dal rinnovamento personale dei suoi membri. I cristiani che riscoprono il Sacramento della Confessione diventano quasi senza accorgersi, più aperti al prossimo, più missionari, più capaci di irradiare la luce del Vangelo nel mondo.
Solo chi ha sperimentato il perdono di Dio può annunciarlo con convinzione agli altri.

Il Sacramento della Confessione è un dono immenso e insostituibile. È la via ordinaria attraverso la quale il cristiano può ritornare a Dio ogni volta che si allontana. Non è un peso, ma un privilegio; non una umiliazione, ma una liberazione.

Siamo chiamati, dunque, a riscoprire questo Sacramento nella sua verità e nella sua bellezza, a praticarlo con cuore aperto e fiducioso, e a proporlo con gioia anche a coloro che si sono allontanati. Come afferma il salmista: “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e rimesso il peccato” (Sal 32,1).

Oggi, più che mai, il mondo ha bisogno di anime purificate e riconciliate, capaci di testimoniare che la misericordia di Dio è più forte del peccato. Se non lo abbiamo fatto alla Pasqua, approfittiamo del mese mariano di maggio e accostiamoci senza paura alla Confessione: lì ci attende il sorriso di un Padre che non smette mai di amarci.




Doni dei giovani a Maria (1865)

Nel sogno narrato da Don Bosco nella Cronaca dell’Oratorio, datato 30 maggio, la devozione mariana diventa un vivido giudizio simbolico sui giovani dell’Oratorio: un corteo di ragazzi si presenta, ciascuno con un dono, davanti a un altare splendidamente ornato per la Vergine. Un angelo, custode della comunità, accoglie o respinge le offerte, svelandone il significato morale – fiori profumati o appassiti, spine di disobbedienza, animali che incarnano vizi gravi come impurità, furto e scandalo. Nel cuore della visione risuona il messaggio educativo di Don Bosco: umiltà, obbedienza e castità sono i tre pilastri per meritare la corona di rose di Maria.

Il Servo di Dio si consolava colla divozione a Maria SS., onorata nel mese di Maggio da tutta la comunità in modo speciale. Dei suoi discorsetti serali, la Cronaca ci ha conservato solamente quello del giorno 30 del mese, il quale però è sommamente prezioso.

30 maggio

            Vidi un grande altare dedicato a Maria ed ornato magnificamente. Vidi tutti i giovani dell’Oratorio i quali in processione si avanzavano verso di esso. Cantavano le lodi della Vergine Celeste, ma non tutti allo stesso modo benché cantassero la stessa canzone. Molti cantavano veramente bene e con precisione di battuta e di questi quale più forte e quale più piano. Altri cantavano con voci pessime e roche, altri stonavano, altri venivano innanzi silenziosi e si staccavano dalla fila, altri sbadigliavano e parevano annoiati; altri si urtavano e se la ridevano fra di loro. Tutti poi portavano dei doni da offrire a Maria. Tutti avevano un mazzo di fiori, quale più grosso e quale più piccolo e diversi gli uni dagli altri. Chi aveva un mazzo di rose, chi di garofani, chi di violette, ecc. Altri poi portavano alla Vergine dei doni proprio strani. Chi portava una testa di porcello, chi un gatto, chi un piatto di rospi, chi un coniglio, chi un agnello od altre offerte.
            Un bel giovane stava davanti all’altare, il quale a considerarlo attentamente si vedeva che dietro le spalle aveva le ali. Era forse l’Angelo Custode dell’Oratorio, il quale di mano in mano che i giovani offrivano i loro doni, li riceveva e li poneva sull’altare.
            I primi offrirono magnifici mazzi di fiori e l’angelo senza dir nulla li posò sull’altare. Molti altri porsero i loro mazzi. Esso li guardò; sciolse il mazzo, ne fece togliere alcuni fiori guasti che cacciò via, e ricomposto il mazzo, lo posò sull’altare. Ad altri che avevano nel loro mazzo fiori belli ma senza odore, come sarebbero le dalie, le camelie, ecc. l’Angelo fece togliere via anche questi, perché Maria vuol la realtà e non l’apparenza. E così rifatto il mazzo, l’Angelo l’offerse alla Vergine. Molti tra i fiori avevano delle spine, poche o molte, ed altri dei chiodi, e l’Angelo tolse questi e quelle.
            Venne finalmente colui che portava il porcello e l’Angelo gli disse: – Hai tu coraggio di venir ad offrire questo dono a Maria? Sai che cosa significa il porco? Significa il brutto vizio dell’impurità, Maria che è tutta pura non può sopportare questo peccato. Ritirati adunque, che non sei degno di stare davanti a lei.
            Vennero gli altri che avevano un gatto e l’Angelo disse loro:
            – Anche voi osate portare a Maria questi doni? Sapete che cosa significa il gatto? Esso è figura del furto e voi l’offrite alla Vergine? Sono ladri coloro che prendono danari, roba, libri ai compagni, coloro che rubano commestibili all’Oratorio, che stracciano le vesti per dispetto, che sciupano i denari dei parenti non studiando. – E li fece ritirare anch’essi in disparte.
            Vennero coloro che avevano i piatti di rospi e l’Angelo guardandoli sdegnato:
            – I rospi simboleggiano i vergognosi peccati di scandalo e voi venite ad offrirli alla Vergine? Andate indietro; ritiratevi cogli altri indegni. – E si ritirarono confusi.
            Alcuni s’avanzavano con un coltello piantato nel cuore. Quel coltello significava i sacrilegi. E l’Angelo disse loro:
            – Non vedete che avete la morte nell’anima? che se siete in vita è una speciale misericordia di Dio? altrimenti sareste perduti. Per carità fatevelo cavare quel coltello! – Ed anche costoro furono respinti.
            A poco a poco tutti gli altri giovani si avvicinarono. Chi offrì agnelli, chi conigli, chi pesci, chi noci, chi uva, ecc., ecc. L’Angelo accettò tutto e mise tutto sull’altare. E dopo aver così divisi i giovani, i buoni dai cattivi, fece schierare tutti coloro i cui doni erano stati accetti a Maria, davanti all’altare; e coloro che erano stati messi da parte furono con mio dolore molto più numerosi di quello che credeva.
            Allora da una parte e dall’altra dell’altare comparvero due altri angioli, i quali sorreggevano due ricchissime ceste piene di magnifiche corone, composte di rose stupende. Queste rose non erano propriamente rose terrene, sebbene come artificiali, simbolo dell’immortalità.
            E l’Angelo Custode prese quelle corone una per una e ne incorono tutti i giovani che erano schierati innanzi all’altare. Fra queste corone ve ne erano delle più grandi e delle più piccole, ma tutte di una bellezza ammirabile. Notate anche che non v’erano i soli attuali giovani della casa, ma sebbene molti altri che io non aveva mai visti. Or bene accadde una cosa mirabile! Vi erano dei giovani così brutti di fisonomia che quasi mettevano schifo e ribrezzo; a costoro toccarono le più belle corone, segno che ad un esteriore così brutto suppliva il dono, la virtù della castità, in grado eminente. Molti altri avevano, pure la stessa virtù, ma in grado meno eminente. Molti si distinguevano per altre virtù, come l’obbedienza, l’umiltà, l’amor di Dio, e tutti in proporzione dell’eminenza di queste virtù avevano proporzionate corone. E l’Angelo disse loro:
            – Maria oggi ha voluto che voi foste incoronati di così belle rose. Ricordatevi però di continuare in modo che non vi vengano tolte. Tre sono i mezzi per conservarle. Praticate: 1° L’umiltà; 2° l’ubbidienza; 3° la castità: tre virtù le quali vi renderanno sempre accetti a Maria e un giorno vi faranno degni di ricevere una corona infinitamente più bella di questa.
            Allora i giovani incominciarono a intonare davanti all’altare l’Ave, Maris stella (Ave stella del mare).
            E, cantata la prima strofa, in processione come erano venuti, si mossero per partire, mettendosi a cantare la canzone: Lodate, Maria! con voci così forti che io ne restai sbalordito e meravigliato. Li seguii ancora per qualche tratto e poi tornai indietro per vedere i giovani che l’Angelo aveva messi da parte: ma più non li vidi.
            Miei cari! Io so quali furono quelli incoronati e quali quelli scacciati dall’Angelo. Lo dirò ai singoli, acciocché procurino di portare alla Vergine doni che essa si degni di accettare.
            Intanto alcune osservazioni. -La prima: Tutti portavano fiori alla Vergine, e dei fiori ve ne erano di tutte le qualità, ma osservai che tutti chi più, chi meno, in mezzo ai fiori avevano delle spine. Pensai e ripensai che cosa significassero quelle spine e trovai che realmente significavano la disobbedienza. Tener danari senza licenza e senza volerli consegnare al Prefetto; domandar permesso di andare in un sito e poi andare in un altro; andare a scuola più tardi e quando è già qualche tempo che gli altri vi si trovano; fare insalate e altre merende clandestine; andare nelle camerate altrui quando assolutamente è proibito, qualunque motivo o pretesto possiate avere; alzarsi tardi alla levata; lasciare le pratiche di pietà prescritte; ciarlare quando è tempo di far silenzio; comprar libri senza farli vedere; mandar lettere senza licenza, per mezzo di terza persona, acciocché non siano viste e riceverne collo stesso mezzo; far contratti, compre e vendite, l’un l’altro; ecco che cosa significano le spine. Molti di voi domanderanno: è dunque peccato trasgredire le regole della casa? Pensai già seriamente a questa questione e vi rispondo assolutamente di sì. Non vi dico sia grave o leggero: bisogna regolarsi dalle circostanze, ma peccato lo è. Qualcheduno mi dirà; ma nella legge di Dio non vi è che noi dobbiamo obbedire alle regole della casa! Ascoltate: vi è nei comandamenti: – Onora il padre e la madre! – Sapete che cosa vogliono dire quelle parole padre e madre? Comprendono anche chi ne fa le veci. Non sta anche scritto nella S. Scrittura: Oboedite praepositis vestris? (obbedite ai vostri superiori, Eb 13,17) Se voi dovete obbedire, è naturale che essi abbiano a comandare. Ecco l’origine delle regole d’un Oratorio, ed ecco se siano obbligatorie sì o no.
            Seconda osservazione. – Alcuni avevano in mezzo ai loro fiori dei chiodi, chiodi che avevano servito ad inchiodare il buon Gesù. E come? Si incomincia sempre dalle cose piccole e poi si viene alle grandi. Quel tale voleva aver danari per secondare i suoi ghiribizzi; quindi, per spenderli a modo suo, non volle consegnarli; poi incominciò a vendere i suoi libri di scuola e finì col rubacchiare danari e roba ai compagni. Quell’altro voleva solleticare la gola, quindi bottiglie, ecc. poi si permise licenze, insomma cadde in peccato mortale. Ecco come si trovarono in quei mazzi i chiodi, ecco come il buon Gesù venne crocifisso. Lo dice l’Apostolo che i peccati tornano a porre in croce il Salvatore: Rursus crucifigentes filium Dei (crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio, Eb 6,6).
            Terza osservazione. – Molti giovani avevano tra i fiori freschi e odorosi dei loro mazzi anche dei fiori guasti e marci o dei fiori belli senza odore. Quelli significavano le opere buone ma fatte in peccato mortale, opere che a nulla giovano per accrescere i meriti loro: i fiori poi senza odore sono le opere buone ma fatte per fini umani, per ambizione, solamente per piacere ai maestri e ai superiori. Quindi l’Angelo li rimproverava che osassero portare a Maria simili offerte e li rimandava indietro ad accomodare il loro mazzo. Essi si ritiravano, lo disfacevano, toglievano i fiori guasti e poi, ordinati di nuovo i fiori, li legavano come prima e li riportavano all’Angelo il quale allora li accettava e li poneva sulla mensa. Questi poi nel ritornare non seguivano più alcun ordine, ma appena erano pronti, chi prima chi dopo, ciascuno riportava il suo mazzo e si andava a collocare con quelli che dovevano ricevere la corona.
            Io vidi in questo sogno tutto ciò che fu e che sarà dei miei giovani. A molti l’ho già detto, agli altri lo dirò. Voi intanto procurate che questa Vergine Celeste da voi riceva sempre doni che non abbiano mai ad essere rifiutati.
(MB VIII, 129-132)

Foto di apertura: Carlo Acutis durante una visita al Santuario mariano di Fátima.




San Domenico Savio. I luoghi della fanciullezza

San Domenico Savio, il “piccolo grande santo”, visse la sua breve ma intensa fanciullezza tra le colline del Piemonte, in luoghi oggi carichi di memoria e spiritualità. In occasione della sua beatificazione nel 1950, la figura di questo giovane discepolo di Don Bosco fu celebrata come simbolo di purezza, fede e dedizione evangelica. Ripercorriamo i luoghi principali della sua infanzia — Riva presso Chieri, Morialdo e Mondonio — attraverso testimonianze storiche e racconti vividi, rivelando l’ambiente familiare, scolastico e spirituale che ha forgiato il suo cammino verso la santità.

            L’Anno Santo 1950 fu anche quello della Beatificazione di Domenico Savio, avvenuta il 5 marzo. Il quindicenne discepolo di don Bosco era il primo santo laico «confessore» a salire sugli altari in così giovane età.
            Quel giorno la Basilica di San Pietro era gremita di giovani che testimoniavano, con la loro presenza a Roma, una giovinezza cristiana tutta aperta ai più sublimi ideali del Vangelo. Era trasformata, a detta della Radio Vaticana, in un immenso e rumoroso Oratorio Salesiano. Quando dalla raggiera del Bernini cadde il velario che copriva la figura del nuovo Beato, da tutta la basilica si levò un applauso frenetico e l’eco raggiunse la piazza, dove veniva scoperto l’arazzo riproducente il Beato dalla Loggia delle Benedizioni.
Il sistema educativo di don Bosco riceveva quel giorno il suo più alto riconoscimento. Abbiamo voluto rivisitare i luoghi della fanciullezza di Domenico, dopo esserci rilette le dettagliate informazioni di don Michele Molineris in quella Nuova Vita di Domenico Savio, in cui egli descrive con la sua nota serietà di documentazione ciò che le biografie di San Domenico Savio non dicono.

A Riva presso Chieri
            Eccoci anzitutto a San Giovanni di Riva presso Chieri, la borgata dove il 2 aprile 1842 nacque il nostro «piccolo grande Santo» da Carlo Savio e Brigida Gaiato, secondo di dieci figli, ereditando dal primo, sopravvissuto solo 15 giorni alla nascita, nome e primogenitura.
            Il padre, si sa, proveniva da Ranello, frazione di Castelnuovo d’Asti, e da giovane era andato ad abitare con lo zio Carlo, fabbro a Mondonio, in una casa sull’attuale via Giunipero, al n. 1, ancora oggi chiamata «ca dèlfré» o casa del fabbro. Là, da «Barba Carlòto» aveva appreso il mestiere. Qualche tempo dopo le sue nozze, contratte il 2 marzo 1840, si era reso indipendente, trasferendosi a San Giovanni di Riva in casa Gastaldi. Affittò un alloggio con locali al pian terreno adatti a cucina, ripostiglio ed officina e camere da letto al primo piano dove si giungeva da una scala esterna oggi scomparsa.
            Gli eredi dei Gastaldi vendettero poi ai Salesiani la casetta ed il cascinale attiguo nel 1978. Ed oggi un moderno Centro di accoglienza giovanile, gestito da exallievi e cooperatori salesiani, dà memoria e nuova vita alla casetta natia di Domenico.

A Morialdo
            Nel novembre del 1843, e cioè quando Domenico non aveva ancora compiuto due anni di età, i Savio, per ragioni di lavoro, si trasferirono a Morialdo, la frazione di Castelnuovo legata al nome di San Giovanni Bosco, nato alla Cascina Biglione, borgata dei Becchi.
            A Morialdo i Savio affittarono alcune camerette presso il portico d’entrata del cascinale di proprietà di Viale Giovanna andata sposa a Stefano Persoglio. Tutto il podere venne più tardi venduto dal figlio, Persoglio Alberto, a Pianta Giuseppe e famiglia.
            Anche questo cascinale è ora, in gran parte, proprietà dei Salesiani che, dopo averlo ristrutturato, lo hanno destinato ad incontri per ragazzi e adolescenti e alle visite dei pellegrini. Distante meno di 2 km dal Colle Don Bosco, sito in un ambiente di natura paesana, tra festoni di viti, fertili campi e prati ondulati, con un’aria di letizia in primavera e di nostalgia in autunno quando le foglie ingiallite vengono indorate dai raggi del sole, con un panorama incantevole nelle giornate più belle, quando la catena delle Alpi si distende all’orizzonte dalla vetta del Rosa a ridosso di Albugnano, al Gran Paradiso, al Rocciamelone, giù fino al Monviso, è davvero un posto da visitare e da utilizzare per giornate di intensa vita spirituale, una scuola di santità stile don Bosco.
I Savio rimasero a Morialdo fino al febbraio del 1853, e cioè ben 9 anni e 3 mesi. Domenico, vissuto solo 14 anni eli mesi, passò lì quasi due terzi della sua breve esistenza. Può quindi essere considerato non solo allievo e figlio spirituale di don Bosco, ma anche suo conterraneo.

A Mondonio
            Perché i Savio abbiano lasciato Morialdo, ce lo suggerisce don Molineris. Lo zio fabbro era morto e il papà di Domenico, oltre ai ferri del mestiere, ne poteva ereditare a Mondonio anche la clientela. Probabilmente quella fu la ragione del trasloco, avvenuto però non nella casa di via Giunipero, ma nella parte più bassa del paese, dove presero in affitto dai fratelli Bertello la prima casa a sinistra della strada principale del paese. La casetta consisteva, e consiste ancor oggi, di un pian terreno a due stanze, adattate a cucina e camera da lavoro, e di un piano superiore, sopra la cucina, con due camere da letto e lo spazio sufficiente per un’officina con porta sulla rampa della strada.
            Sappiamo che i coniugi Savio ebbero dieci figli, di cui tre morirono in tenerissima età ed altri tre, tra cui il nostro, non raggiunsero i 15 anni. La madre moriva nel 1871 a 51 anni. Il padre, rimasto solo in casa col figlio Giovanni, dopo avere accasato le tre figlie superstiti, chiese nel 1879 ospitalità a don Bosco e morì poi a Valdocco il 16 dicembre 1891.
A Valdocco, Domenico era entrato il 29 ottobre 1854, rimanendovi, tranne brevi periodi di vacanza, fino al 1° marzo 1857. Moriva otto giorni dopo a Mondonio, nella stanzetta accanto alla cucina, il 9 marzo di quell’anno. La sua permanenza a Mondonio quindi fu in tutto di 20 mesi circa, a Valdocco di 2 anni e 4 mesi.

Ricordi di Morialdo
            Da questa breve scorsa sulle tre case del Savio appare evidente che quella di Morialdo dev’essere la più ricca di memorie. San Giovanni di Riva ricorda la nascita di Domenico, e Mondonio un anno di scuola e la sua santa morte, ma Morialdo ricorda la sua vita in famiglia, in chiesa e a scuola. «Minòt», come egli era lì chiamato, quante cose avrà sentito, visto e imparato da papà e mamma, quanta fede ed amore dimostrato nella chiesetta di San Pietro, quanta intelligenza e bontà alla scuola di don Giovanni Zucca, e quanta allegria e vivacità nei trastulli con i compagni di borgata.
            Fu a Morialdo che Domenico Savio si preparò alla Prima Comunione, fatta poi nella Chiesa parrocchiale di Castelnuovo l‘8 aprile 1849. Fu lì che a soli 7 anni scrisse i «Ricordi» e cioè i propositi della sua Prima Comunione:
            1. Mi confesserò molto sovente e farò la comunione tutte le volte che il confessore me ne darà licenza;
            2. Voglio santificare i giorni festivi;
            3. I miei amici saranno Gesù e Maria;
            4. La morte ma non peccati.
            Ricordi che furono la guida delle sue azioni sino alla fine della vita.
Il contegno, il modo di pensare e di agire di un ragazzo riflettono l’ambiente in cui vive, e soprattutto la famiglia in cui ha passato la sua fanciullezza. Se si vuol quindi capire qualcosa di Domenico, sarà sempre bene riflettere sulla sua vita in quella cascina di Morialdo.

La famiglia
            La sua non era una famiglia di contadini. Il padre era fabbro ferraio e la madre sarta. I suoi genitori non erano di costituzione robusta. I segni della fatica si potevano scorgere sul volto del padre mentre la finezza del tratto distingueva il volto materno. Il papà di Domenico era uomo di iniziativa e di coraggio. La mamma veniva dal non lontano Cerreto d’Asti dove teneva bottega di sarta «e con la sua perizia toglieva a quegli abitanti la noia di scendere a valle a provvedersi di panni». E fece ancora la sarta anche a Morialdo. Lo avrà saputo don Bosco? Curioso, comunque, il suo dialogo col piccolo Domenico che lo era andato a cercare ai Becchi:
— Ebbene, che gliene pare?
— Eh, mi pare che ci sia buona stoffa (in piem.: Eh, m’a smia ch’a-j sia bon-a stòfa!).
— A che può servire questa stoffa?
— A fare un bell’abito da regalare al Signore.
— Dunque, io sono la stoffa: ella ne sia il sarto; mi prenda con lei (in piem.: ch’èmpija ansema a chiel) e farà un bell’abito per il Signore» (OE XI, 185).
            Dialogo impagabile tra due conterranei che si compresero a prima vista. E il loro linguaggio veniva proprio a taglio per il figlio della sarta.
            Quando la mamma morì, il 14 luglio 1871, alle figlie piangenti, il parroco di Mondonio, don Giovanni Pastrone, per consolarle diceva: «Non piangete, perché vostra madre era una santa donna; ed ora è già in Paradiso».
Suo figlio Domenico, che l’aveva preceduta in cielo di parecchi anni, aveva pure detto a lei ed al papà, prima di spirare: «Non piangete, io vedo già il Signore e la Madonna colle braccia aperte che mi aspettano». Queste sue ultime parole, testimoniate da Anastasia Molino, vicina di casa, presente al momento della sua morte, erano il suggello di una vita gioiosa, il segno manifesto di quella santità che la Chiesa riconosceva solennemente il 5 marzo 1950, dandole poi definitiva conferma il 12 giugno 1954 con la sua canonizzazione.

Foto nel frontespizio. La casa ove morì Domenico nel 1857. È una costruzione di tipo rurale risalente probabilmente alla fine del 1600. Ricostruita su di un’altra casa ancor più antica, è uno dei monumenti più cari ai Mondoniesi.




Padre Crespi e il Giubileo del 1925

Nel 1925, in vista dell’Anno Santo, Padre Carlo Crespi si fece promotore di una mostra missionaria internazionale. Richiamato dal Collegio Manfredini di Este, fu incaricato di documentare le imprese missionarie in Ecuador, raccogliendo materiali scientifici, etnografici e audiovisivi. Grazie a viaggi e proiezioni, la sua opera collegò Roma e Torino, evidenziando l’impegno salesiano e rafforzando i legami tra istituzioni ecclesiastiche e civili. Il suo coraggio e la sua visione trasformarono la sfida missionaria in un successo espositivo, lasciando un segno indelebile nella storia della Propaganda Fide e dell’azione missionaria salesiana.

            Quando Pio XI, in vista dell’Anno Santo del 1925, volle programmare a Roma una documentata Esposizione Missionaria Internazionale Vaticana, i Salesiani fecero propria l’iniziativa con una Mostra Missionaria, da tenersi a Torino nel 1926, anche in funzione del 50° delle Missioni salesiane. A tale scopo i Superiori pensarono subito a don Carlo Crespi e lo chiamarono dal Collegio Manfredini di Este, dove era stato assegnato per insegnare Scienze naturali, Matematica e Musica.
            A Torino don Carlo conferì con il Rettore Maggiore, don Filippo Rinaldi, con il superiore referente per le missioni, don Pietro Ricaldone e, in particolare, con Mons. Domenico Comin, vicario apostolico di Méndez e Gualaquiza (Ecuador), che ne doveva appoggiare l’opera. In quel momento, viaggi, esplorazioni, ricerche, studi e quant’altro doveva nascere dall’opera di Carlo Crespi, ebbero l’avallo e il via ufficiale dai Superiori. Seppure mancassero quattro anni alla progettata Esposizione, chiesero a don Carlo di occuparsene direttamente, affinché svolgesse al completo un lavoro scientificamente serio e credibile.
Si trattava di:
            1. Creare un clima d’interesse a favore dei Salesiani operanti nella missione ecuadoriana di Méndez, valorizzandone le imprese tramite documentazioni scritte e orali, e provvedendo ad una congrua raccolta di fondi.
            2. Raccogliere materiale per l’allestimento dell’Esposizione Missionaria Internazionale di Roma e, trasferirlo successivamente a Torino, per commemorare solennemente i primi cinquant’anni delle missioni salesiane.
            3. Effettuare uno studio scientifico del suddetto territorio al fine di convogliare i risultati, non solo nelle mostre di Roma e Torino, ma soprattutto in un Museo permanente e in un’opera “storico-geo-etnografica” precisa.
            Dal 1921 in avanti, i Superiori incaricarono don Carlo di condurre in diverse città italiane attività propagandistiche a favore delle missioni. Per sensibilizzare l’opinione pubblica al riguardo, don Carlo organizzò la proiezione di documentari sulla Patagonia, la Terra del Fuoco e gli indios del Mato Grosso. Ai filmati girati dai missionari, abbinò commenti musicali eseguiti personalmente al pianoforte.
            La propaganda con conferenze fruttò circa 15 mila lire [rivalutati corrispondono a € 14.684] spese poi per i viaggi, il trasporto e per i seguenti materiali: una macchina fotografica, una cinepresa, una macchina da scrivere, alcune bussole, teodoliti, livelle, pluviometri, una cassetta di medicinali, attrezzi da agricoltura, tende da campo.
            Diversi industriali del milanese offersero alcuni quintali di tessuti per il valore di 80 mila lire [€ 78.318], tessuti che furono ripartiti più tardi fra gli indios.
            Il 22 marzo 1923 padre Crespi s’imbarca, dunque, sul piroscafo “Venezuela”, alla volta di Guayaquil, il porto fluviale e marittimo più importante dell’Ecuador, di fatto la capitale commerciale ed economica del Paese, soprannominata per la sua bellezza: “La Perla del Pacifico”.
            In uno scritto successivo rievocherà con grande commozione la sua partenza per le Missioni: “Ricordo la mia partenza da Genova il 22 marzo dell’anno 1923 […]. Quando, tolti i ponti che ancora ci tenevano avvinti alla terra natia, il bastimento incominciò a muoversi, l’anima mia fu pervasa da una gioia così travolgente, così sovrumana, così ineffabile, che tale non l’avevo mai provata in nessun istante della mia vita, neppure nel giorno della mia prima Comunione, neppure nel giorno della mia prima Messa. In quell’istante cominciai a comprendere che cosa era il missionario e che cosa a lui riserbava Iddio […]. Pregate fervidamente, affinché Iddio ci conservi la santa vocazione e ci renda degni della nostra santa missione; affinché nessuna perisca delle anime, che nei suoi eterni decreti Iddio ha voluto che si salvassero per mezzo nostro, affinché ci faccia baldi campioni della fede, fino alla morte, fino al martirio” (Carlo Crespi, Nuovo drappello. L’inno della riconoscenza, in Bollettino Salesiano, L, nr.12, dicembre 1926).
            Don Carlo adempì l’incarico ricevuto mettendo in pratica le conoscenze universitarie, in particolare attraverso la campionatura di minerali, flora e fauna provenienti dall’Ecuador. Ben presto, però, andò oltre la missione affidatagli, entusiasmandosi su temi di carattere etnografico e archeologico che, in seguito, occuperanno molto tempo della sua intensa vita.
            Fin dai primi itinerari, Carlo Crespi non si limita ad ammirare, ma raccoglie, classifica, appunta, fotografa, filma e documenta qualunque cosa attragga la sua attenzione di studioso. Con entusiasmo, si addentra nell’Oriente ecuadoriano per film, documentari e per raccogliere valide collezioni botaniche, zoologiche, etniche e archeologiche.
            Questo è quel mondo magnetico che già gli vibrava nel cuore ancor prima di arrivarci, del quale così riferisce all’interno dei suoi quadernetti: “In questi giorni una voce nuova, insistente, mi suona nell’animo, una sacra nostalgia dei paesi di missione; qualche volta anche per il desiderio di conoscere in particolare cose scientifiche. Oh Signore! Sono disposto a tutto, ad abbandonare la famiglia, i parenti, i compagni di studi; il tutto per salvare qualche anima, se questo è il tuo desiderio, la tua volontà” (Senza luogo, senza data. – Appunti personali e riflessioni del Servo di Dio su temi di natura spirituale tratti da 4 quadernetti).
            Un primo itinerario, durato tre mesi, iniziò a Cuenca, toccò Gualaceo, Indanza e terminò al fiume Santiago. Raggiunse poi la valle del fiume San Francesco, la laguna di Patococha, Tres Palmas, Culebrillas, Potrerillos (la località più alta, a 3.800 m s.l.m.), Rio Ishpingo, la collina di Puerco Grande, Tinajillas, Zapote, Loma de Puerco Chico, Plan de Milagro e Pianoro. In ognuno di questi luoghi raccolse campioni da essiccare e integrare nelle varie collezioni. Taccuini da campo e numerose fotografie documentano il tutto con precisione.
            Carlo Crespi organizzò un secondo viaggio attraverso le valli di Yanganza, Limón, Peña Blanca, Tzaranbiza, nonché lungo il sentiero di Indanza. Com’è facile supporre, gli spostamenti all’epoca erano difficoltosi: esistevano solamente mulattiere, oltre a precipizi, condizioni climatiche inospitali, belve pericolose, ofidi letali e malattie tropicali.
            A ciò si aggiungeva il pericolo di attacchi da parte degli indomiti abitanti dell’Oriente che don Carlo, però, riuscì ad avvicinare, ponendo le premesse del lungometraggio “Los invencibles Shuaras del Alto Amazonas”, che girerà nel 1926 e verrà proiettato il 26 febbraio 1927 a Guayaquil. Superando tutte queste insidie, riuscì a riunire seicento varietà di coleotteri, sessanta uccelli imbalsamati dal meraviglioso piumaggio, muschi, licheni, felci. Studiò circa duecento specie locali e, utilizzando la sotto classificazione dei luoghi visitati dai naturalisti sulle Allioni, s’imbatte in 21 varietà di felci, appartenenti alla zona tropicale al di sotto degli 800 m s.l.m.; 72 a quella subtropicale che va dagli 800 ai 1.500 m s.l.m.; 102 a quella Subandina, tra i 1.500 e i 3.400 m s.l.m., e 19 a quella Andina, superiore ai 3.600 m s.l.m. (Interessantissimo è il commento del prof. Roberto Bosco, prestigioso botanico e componente della Società Botanica Italiana che, quattordici anni dopo, nel 1938, decise di studiare e ordinare sistematicamente “la vistosa collezione di felci” preparata in pochi mesi dal “Prof. Carlo Crespi, erborizzando nell’Equatore).
            Le specie maggiormente degne di nota, studiate da Roberto Bosco, furono battezzate “Crespiane”.
            Per riassumere: già nell’ottobre del 1923, don Carlo, per preparare l’Esposizione Vaticana, aveva organizzato le prime escursioni missionarie per tutto il Vicariato, fino a Méndez, Gualaquiza e Indanza, raccogliendo materiali etnografici e molta documentazione fotografica. Le spese furono coperte con i tessuti e i finanziamenti raccolti in Italia. Con il materiale raccolto, che in seguito avrebbe trasferito in Italia, organizzò un’Esposizione fieristica, tra i mesi di giugno e luglio del 1924, nella città di Guayaquil. Il lavoro suscitò giudizi entusiastici, riconoscimenti e aiuti. Di questa Esposizione riferirà, dieci anni dopo, in una lettera del 31 dicembre 1935 ai Superiori di Torino, per informarli sui fondi raccolti dal novembre 1922 al novembre 1935.
            Padre Crespi passò il primo semestre del 1925 nelle foreste della zona di Sucùa-Macas, studiando la lingua Shuar e raccogliendo ulteriore materiale per l’Esposizione missionaria di Torino. Nell’agosto dello stesso anno cominciò una trattativa con il Governo per ottenere un grosso finanziamento, che si concluse il 12 settembre con un contratto per 110.000 sucres (pari a 500.000 lire di allora e che oggi sarebbero € 489.493,46), che permettesse di ultimare la mulattiera Pan-Méndez). Inoltre, ottenne pure il permesso di ritirare dalla dogana 200 quintali di ferro e materiale sequestrato ad alcuni commercianti.
            Nel 1926 don Carlo, rientrato in Italia, portò gabbie con animali vivi della zona orientale dell’Ecuador (una difficile raccolta di uccelli ed animali rari) e casse con materiale etnografico, per l’Esposizione Missionaria di Torino, che organizzò personalmente tenendovi anche il discorso ufficiale di chiusura il 10 ottobre.
            Nello stesso anno fu occupato nell’organizzare l’Esposizione e, poi, nel tenere diverse conferenze e partecipando al Congresso Americano di Roma con due conferenze scientifiche. Questo suo entusiasmo e questa sua competenza e ricerca scientifica rispondevano perfettamente alle direttive dei Superiori, e, pertanto, attraverso l’Esposizione Missionaria Internazionale del 1925 a Roma e del 1926 a Torino, l’Ecuador poté essere ampiamente conosciuto. Inoltre, a livello ecclesiale, contattò l’Opera di Propaganda Fide, la Santa Infanzia e l’Associazione per il Clero Indigeno. A livello civile, intrecciò rapporti con il Ministero degli Esteri del Governo Italiano.
            Da questi contatti e dalle interviste con i Superiori della Congregazione Salesiana, si ottennero alcuni risultati. In primo luogo i Superiori gli fecero il regalo di concedergli 4 sacerdoti, 4 seminaristi, 9 fratelli coadiutori, e 4 suore per il Vicariato. Inoltre, ottenne una serie di aiuti economici dagli Organismi Vaticani e la collaborazione con materiale sanitario per gli ospedali, per il valore di circa 100.000 lire (€ 97.898,69). Come regalo dei Superiori Maggiori per l’aiuto prestato per l’Esposizione Missionaria, essi si fecero carico della costruzione della Chiesa di Macas, con due quote di 50.000 lire (€ 48,949, 35), inviate direttamente a Mons. Domenico Comin.
            Esaurito il compito di collezionista fornitore e animatore delle grandi mostre internazionali, padre Crespi nel 1927 tornò in Ecuador, che divenne la sua seconda patria. Si stabilì nel Vicariato, sotto la giurisdizione del vescovo, Mons. Comin, sempre dedito, in spirito di obbedienza, a escursioni di propaganda, per assicurare sovvenzioni e fondi speciali, necessari alle opere delle missioni, quali la strada Pan Méndez, l’Hospital Guayaquil, la scuola Guayaquil a Macas, l’Hospital Quito a Méndez, la Scuola agricola di Cuenca, città dove, già dal 1927, incominciò a sviluppare il suo apostolato sacerdotale e salesiano.
            Per alcuni anni, poi continuò a occuparsi di scienze, ma sempre con lo spirito dell’apostolo.

Carlo Riganti
Presidente Associazione Carlo Crespi

Immagine: 24 marzo 1923 – Padre Carlo Crespi In partenza per l’Ecuador sul Piroscafo Venezuela




Via all’inferno proponimenti inefficaci (1873)

San Giovanni Bosco riferisce in una “buona notte” il frutto di una lunga supplica alla Madonna Ausiliatrice: comprendere la causa principale della dannazione eterna. La risposta, ricevuta in ripetuti sogni, è sconvolgente nella sua semplicità: la mancanza di un fermo, concreto proponimento al termine della Confessione. Senza una decisione sincera di cambiare vita, anche il sacramento diventa sterile e i peccati si ripetono.

            Un monito solenne: – Perché tanti vanno alla perdizione?… Perché non fanno buoni propositi quando si confessano.

            La sera del 31 maggio 1873, dopo le preghiere, nel dare la “buona notte” agli alunni, il Santo faceva quest’importante dichiarazione, dicendola «il risultato delle sue povere preghiere», e «che veniva dal Signore!».

            In tutto il tempo della novena di Maria Ausiliatrice, anzi in tutto il mese di maggio, nella Messa e nelle altre mie preghiere ho sempre domandato, al Signore ed alla Madonna, la grazia che mi facessero un po’ conoscere che cosa mai fosse che manda più gente all’Inferno. Adesso non dico se questo venga o no dal Signore; solamente posso dire che quasi tutte le notti sognava che questa era la mancanza di fermo proponimento nelle Confessioni. Quindi mi pareva veder dei giovani che uscivano di chiesa venendo da confessarsi, ed avevano due corna.
            – Come va questo? diceva tra me stesso.
            – Eh! questo proviene dall’inefficacia dei proponimenti fatti nella Confessione! E questo è il motivo per cui tanti vanno a confessarsi anche sovente, ma non si emendano mai, confessano sempre le medesime cose. Ci sono di quelli (adesso faccio dei casi ipotetici, non mi servo di nulla di confessione, perché c’è il segreto), ci sono di quelli che al principio dell’anno avevano un voto scadente e adesso hanno il medesimo voto. Altri mormoravano in principio dell’anno e continuano sempre nelle medesime mancanze.
            Io ho creduto bene di dirvi questo, perché questo si è il risultato delle povere preghiere di Don Bosco; e viene dal Signore.

            Di questo sogno non tracciò in pubblico altri dettagli, ma senza dubbio se ne servi privatamente per incoraggiare ed ammonire; e per noi anche quel poco che disse, e la forma colla quale lo disse, resta un grave ammonimento da ricordar di frequente ai giovinetti.
(MB X, 56)




Don Bosco promotore della “misericordia divina”

Giovanissimo sacerdote, don Bosco ha pubblicato un volume, in formato minuscolo, intitolato “Esercizio di divozione alla misericordia di Dio”.

Tutto cominciò dalla marchesa di Barolo
            La marchesa Giulia Colbert di Barolo (1785-1864), dichiarata venerabile da papa Francesco il 12 maggio 2015, coltivava personalmente una particolare devozione alla divina misericordia, per cui aveva fatto introdurre nelle comunità religiose ed educative da lei fondate vicino a Valdocco l’abitudine di una settimana di meditazioni e preghiere sul tema. Ma non si accontentava. Desiderava che tale pratica si diffondesse anche altrove, soprattutto nelle parrocchie, in mezzo al popolo. Ne chiese il consenso alla Santa Sede, che non solo l’accordò, ma concesse a tale pratica devozionale varie indulgenze. A questo punto si trattava dunque di fare una pubblicazione adeguata allo scopo.
            Siamo nell’estate 1846, quando don Bosco, superata la grave crisi di sfinimento che lo aveva portato sull’orlo della tomba, si era ritirato presso mamma Margherita ai Becchi a fare la convalescenza e si era ormai “licenziato” dal suo apprezzatissimo servizio di cappellano ad una delle opere della Barolo, con grave disappunto della marchesa stessa. Ma i “suoi giovani” lo chiamavano alla casa Pinardi appena affittata.
            A questo punto intervenne il famoso patriota Silvio Pellico, segretario-bibliotecario della marchesa ed estimatore ed amico di don Bosco, che ne aveva messo in musica alcune poesie. Ci raccontano le memorie salesiane che il Pellico, con un certo ardire, propose alla marchesa di incaricare don Bosco di fare la pubblicazione che le interessava. Che fece la marchesa? Accettò, sia pure non troppo entusiasta. Chissà? Forse voleva metterlo alla prova. E don Bosco, accettò pure lui.

Un tema che gli stava a cuore
            Il tema della misericordia di Dio rientrava fra i suoi interessi spirituali, quelli su cui era stato formato in seminario a Chieri e soprattutto al Convitto di Torino. Solo due anni prima aveva finito di frequentare le lezioni del conterraneo san Giuseppe Cafasso, appena quattro anni più vecchio di lui, ma suo direttore spirituale, di cui seguiva le predicazioni agli esercizi spirituali ai sacerdoti, ma anche formatore di una mezza dozzina di altri fondatori, alcuni anche santi. Ebbene il Cafasso, se pur figlio della cultura religiosa del suo tempo – fatta di prescrizioni e della logica del “fare il bene per sfuggire il castigo divino e meritarsi il Paradiso” – non perdeva occasione tanto nel suo insegnamento quanto nella sua predicazione di parlare della misericordia di Dio. E come poteva non farlo se era dedito costantemente al sacramento della Penitenza e all’assistenza ai condannati a morte? Tanto più che tale indulgenziata devozione all’epoca costituiva una reazione pastorale contro il rigorismo del giansenismo che sosteneva la predestinazione di coloro che si salvavano.
            Don Bosco dunque, appena tornato dal paese ai primi di novembre, si mise al lavoro, seguendo le pratiche di pietà approvate da Roma e diffuse in Piemonte. Con l’aiuto di qualche testo che poté facilmente trovare nella biblioteca del Convitto che ben conosceva, a fine anno pubblicava a sue spese un libriccino di 111 pagine, formato minuscolo, intitolato “Esercizio di divozione alla Misericordia di Dio. Ne fece immediatamente omaggio alle ragazze, alle donne e alle suore delle fondazioni della Barolo. Non è documentato, ma logica e riconoscenza vuole che ne abbia fatto omaggio pure alla marchesa Barolo, la promotrice del progetto: ma la stessa logica e riconoscenza vorrebbe che la marchesa non si sia fatta vincere in generosità, facendogli pervenire, magari in anonimato come altre volte, un suo contributo alle spese.
            Non c’è qui lo spazio per presentare i contenuti “classici” del libretto di meditazioni e preghiere di don Bosco; ci preme solo evidenziare che il suo principio di fondo è: “ciascuno deve invocare la Misericordia di Dio per sé stesso e per tutti gli uomini, perché ‘siamo tutti peccatori’ […] tutti bisognosi di perdono e di grazia […] tutti chiamati all’eterna salvezza”.
            Significativo è poi il fatto che a conclusione di ciascun giorno della settimana don Bosco, nella logica del titolo “esercizi di divozione”, assegni una pratica di pietà: invitare altri ad intervenire, perdonare chi ci ha offesi, fare subito una mortificazione per ottenere da Dio misericordia a tutti i peccatori, fare qualche elemosina o sostituirla con la recita di preghiere o giaculatorie ecc. L’ultimo giorno la pratica è sostituita da un simpatico invito, forse anche allusivo alla marchesa di Barolo, di recitare “almeno un’Ave Maria per la persona che ha promosso questa divozione!”.

La prassi educativa
            Ma al di là degli scritti con finalità edificanti e formative, ci si può chiedere come don Bosco abbia in concreto educato i suoi giovani a confidare nella misericordia divina. La risposta non è difficile e si potrebbe documentarla in tanti modi. Ci limitiamo a tre esperienze vitali vissute a Valdocco: i sacramenti della Confessione e Comunione e la sua figura di “padre pieno di bontà e amore”

La Confessione
            Don Bosco ha avviato alla vita cristiana adulta centinaia di giovani di Valdocco. Ma con quali mezzi? Due in particolare: la Confessione e la Comunione.
            Don Bosco, si sa, è uno dei grandi apostoli della Confessione, e questo anzitutto perché ha esercitato a fondo tale ministero, così come, per altro, il già citato suo maestro e direttore spirituale Cafasso e l’ammiratissima figura del quasi coetaneo il santo curato d’Ars (1876-1859). Se la vita di quest’ultimo, come è stato scritto, “è trascorsa in confessionale” e quella del primo ha saputo offrire molte ore della giornata (“il tempo necessario”) per ascoltare in confessione “vescovi, sacerdoti, religiosi, laici eminenti e gente semplice che accorrevano a lui”, quella di don Bosco non poté fare altrettanto per le tante occupazioni in cui era immerso. Ciononostante gli si è messo in confessionale a disposizione dei giovani (e dei salesiani) tutti i giorni in cui a Valdocco o in case salesiane si celebravano le funzioni religiose o vi erano occasioni speciali.
            Aveva per altro incominciato a farlo appena finito di “imparare a fare il prete” al Convitto (1841-1844), quando di domenica radunava i giovani nell’oratorio itinerante del biennio, quando si recava a confessare al santuario della Consolata o nelle parrocchie piemontesi in cui era invitato, quando approfittava dei viaggi in carrozza o in treno per confessare vetturino o passeggeri. Non smise mai di farlo fino all’ultimo, allorché invitato a non stancarsi con le confessioni, rispondeva che ormai era l’unica cosa che ormai poteva fare per i suoi giovani. E quale non è stato il suo dolore quando, per motivi burocratici e di malintesi, non gli era stata rinnovata dall’arcivescovo la patente di confessione! Le testimonianze al riguardo di don Bosco confessore sono innumerevoli e del resto la famosa fotografia, che lo ritrae nell’atto di confessare un ragazzino circondato da tanti altri in attesa di farlo, dovette piacere molto allo stesso santo che forse ne ebbe l’idea e che comunque rimane tuttora un’icona significativa ed indelebile della sua figura nell’immaginario collettivo.
            Ma al di là della sua esperienza di confessore, don Bosco si è fatto promotore instancabile del sacramento della Riconciliazione, ne ha divulgato la necessità, l’importanza, l’utilità della frequenza, ha indicato i pericoli di una celebrazione priva delle necessarie condizioni, ha illustrato le classiche modalità il modo di accostarvisi con frutto. Lo ha fatto attraverso conferenze, buone notti, motti arguti e paroline all’orecchio, lettere circolari ai giovani dei collegi, lettere personali, narrazione di numerosi sogni che avevano come oggetto proprio la confessione, bene o male fatta. Secondo poi la sua intelligente prassi catechistica narrava loro episodi di conversioni di grandi peccatori, ed anche sue personali esperienze al riguardo.
            Don Bosco, profondo conoscitore dell’anima giovanile, per indurre tutti giovani al pentimento sincero, fa leva sull’amore e riconoscenza verso Dio, presentato nella sua infinita bontà, generosità e misericordia. Per scuotere invece i cuori più freddi e induriti, descrive i possibili castighi del peccato e impressiona salutarmente le loro menti con la viva descrizione del giudizio divino e dell’Inferno. Anche in questi casi tuttavia, non soddisfatto di aver spinto i ragazzi al dolore del peccato commesso, cerca di portarli al bisogno della misericordia divina, disposizione importante per anticipare loro il perdono ancora prima della confessione sacramentale. Don Bosco, al solito, non entra in disquisizioni dottrinali, gli interessa solo una confessione sincera, che terapeuticamente cicatrizzi la ferita del passato, ricomponga il tessuto spirituale del presente per un futuro di “vita di grazia”.
            Don Bosco crede al peccato, crede al peccato grave, crede all’inferno e della loro esistenza parla a lettori ed uditori. Ma di riflesso è anche convinto che Dio è la misericordia in persona, per cui ha dato all’uomo il sacramento della Riconciliazione. Ed eccolo allora insistere sulle condizioni per riceverlo bene e soprattutto sul confessore “padre” e “medico” e non tanto “dottore e giudice”: “Il confessore sa quanto sia ancora maggiore della vostre colpe la misericordia di Dio che vi concedere il perdono mediante il suo intervento” (Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, pp. 24-25).
            Stando anche alle memorie salesiane, suggeriva sovente ai suoi ragazzi d’invocare la divina misericordia, di non scoraggiarsi dopo il peccato, ma di ritornare a confessarsi senza aver paura, confidando nella bontà del Signore e facendo poi fermi propositi di bene.
            Da “educatore sul campo giovanile” don Bosco sente l’esigenza di insistere di meno sull’ex opere operato e di più sull’ex opere operantis, vale dire sulle disposizioni del penitente. A Valdocco tutti si sentivano invitati a confessarsi bene, tutti avvertivano il rischio di confessioni cattive e l’importanza di confessarsi bene; molti di loro poi sentivano di vivere in una terra benedetta dal Signore. Non per nulla la misericordia divina aveva fatto sì che un giovane defunto si risvegliasse dopo che si erano esposti i drappi funebri perché potesse confessare (a don Bosco) i suoi peccati.
            Insomma il sacramento della confessione, ben spiegato nei suoi tratti specifici e celebrato di frequente, è stato il mezzo forse più̀ efficace attraverso il quale il santo piemontese ha portato i suoi giovani a confidare nella immensa misericordia di Dio.

II-a parteLa Comunione
            Ma anche la Comunione, il secondo pilastro della pedagogia religiosa di don Bosco, servì allo scopo.
            Don Bosco è certamente uno dei massimi promotori della pratica sacramentale della Comunione frequente. La sua dottrina, modellata sul modo di pensare della controriforma, più che alla celebrazione liturgica dell’Eucaristica, dava importanza alla Comunione, anche se nella sua frequenza vi è stata un’evoluzione. Nei i primi vent’anni della sua vita sacerdotale, sulla scia di Sant’Alfonso, ma anche del Concilio di Trento e prima ancora di Tertulliano e S. Agostino, suggeriva la comunione settimanale, o più volte alla settimana o anche tutti i giorni a seconda della perfezione delle disposizioni corrispondenti alle grazie del sacramento. Domenico Savio, che a Valdocco aveva cominciato a confessarsi e comunicarsi ogni quindici giorni, passò poi a farlo ogni settimana, indi tre volte alla settimana, infine, dopo un anno di intensa crescita spirituale, ogni giorno, ovviamente sempre seguendo l’avviso del confessore, lo stesso don Bosco.
            Successivamente nei secondi anni sessanta don Bosco, sulla base delle sue esperienze pedagogiche e di una forte corrente teologica favorevole alla comunione frequente, che vedeva come capofila il francese mons. de Ségur e il priore di Genova don Giuseppe Frassinetti, passò ad invitare i suoi giovani ad una maggior frequenza, convinto che essa permetteva passi decisivi nella vita spirituale e favoriva la loro crescita nell’amore di Dio. E nel caso di impossibilità di Comunione Sacramentale quotidiana, suggeriva quella spirituale, magari nel corso dei una visita al Santissimo Sacramento, tanto apprezzata da Sant’Alfonso. Comunque l’importante era tenere la coscienza in stato da poter fare la comunione tutti i giorni: la decisione spettava in un certo modo al confessore.
            Per don Bosco ogni Comunione degnamente ricevuta – digiuno prescritto, stato di grazia, volontà di staccarsi dal peccato, un bel ringraziamento dopo di essa – cancella i difetti quotidiani, rafforza l’anima per evitarli in futuro, aumenta la confidenza in Dio e nella sua infinita bontà e misericordia; inoltre è fonte di grazia per riuscire nella scuola e nella vita, è aiuto nel sopportare le sofferenze e nel vincere le tentazioni.
            Don Bosco crede che la Comunione sia una necessità per i “buoni” per mantenersi tali e per i “cattivi” per diventare “buoni”. Essa è per chi vuol farsi santo, non per i santi, come le medicine si danno ai malati. Ovviamente sa che la sola frequenza non è sicuro indizio di bontà, in quanto c’è chi la riceva con molta tiepidezza e per abitudine, tanto più che la stessa superficialità dei giovani sovente non permette loro di capire tutta l’importanza di quello che fanno.
            Con la Comunione poi si possono impetrare dal Signore particolari grazie per sé e per altri. Le lettere di don Bosco sono colme di richieste ai suoi giovani di pregare e di ricevere la Comunione secondo la sua intenzione, perché il Signore gli conceda la buona riuscita negli “affari” di ogni ordine in cui si trova immerso. E lo stesso fa con tutti i suoi corrispondenti, invitati ad accostarsi a tale sacramento per ottenere le grazie richieste, mentre lui avrebbe fatto altrettanto nella celebrazione della santa Messa.
            Don Bosco ci tiene tanto che i suoi ragazzi crescano nutriti dai sacramenti, ma vuole anche il massimo rispetto della loro libertà. E ha lasciato disposizioni precise ai suoi educatori nel suo trattatello sul Sistema Preventivo: “Non mai obbligare i giovani alla frequenza dei santi sacramenti ma soltanto incoraggiarli, e porgere loro comodità di approfittarne”.
            Nel tempo stesso però rimane irremovibile nella sua convinzione che i sacramenti hanno un’importanza capitale. Ha scritto perentoriamente: “Dicasi pure quanto si vuole intorno ai vari sistemi di educazione, ma io non trovo alcuna base sicura se non nella frequenza della Confessione e della Comunione” (Il pastorello delle Alpi, ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera, 1864. p. 100).

Una paternità e misericordia fatta persona
            La misericordia di Dio, operante particolarmente nel momento dei sacramenti della Confessione e della Comunione, trovava poi la sua espressione esterna non solo in un don Bosco “confessore padre”, ma anche “padre, fratello, amico” dei giovani nella vita ordinaria di tutti i giorni. Con qualche esagerazione si potrebbe dire che la loro confidenza con don Bosco era tale che tanti di loro quasi non facevano distinzione fra don Bosco “confessore” e don Bosco “amico” e “fratello”; altri poi potevano talora scambiare l’accusa sacramentale con le sincere effusioni di un figlio verso il padre; di converso la conoscenza dei giovani da parte di don Bosco era tale che con domande sobrie ispirava loro estrema confidenza e non di rado sapeva fare l’accusa al loro posto.
            La figura di Dio padre, misericordioso e provvidente, che lungo tutta la storia ha dimostrato la sua bontà da Adamo in poi verso gli uomini, giusti o peccatori, ma tutti bisognosi di aiuto e oggetto di cure paterne, e comunque tutti chiamati alla salvezza in Gesù Cristo, si viene così a modulare e a riflettere sulla bontà di don Bosco “Padre dei suoi giovani”, che vuole solo il loro bene, che non li abbandona, sempre pronto a comprenderli, compatirli, perdonarli. Per molti di loro, orfani, poveri ed abbandonati, adusi fin da piccoli ad un duro lavoro quotidiano, oggetto di manifestazioni molto contenute di tenerezza, figli di un’epoca in cui ciò che prevaleva era la decisa sottomissione e l’obbedienza assoluta a qualunque autorità costituita, don Bosco è stato forse la carezza mai sperimentata di un padre, la “tenerezza” di cui parla papa Francesco.
            Commuove tuttora la lettera ai giovani della casa di Mirabello sul finire del 1864: “Quelle voci, quegli evviva, quel baciare e stringere la mano, quel sorriso cordiale, quel parlarci dell’anima, quell’incoraggiarci reciprocamente al bene sono cose che mi imbalsamarono il cuore, e per ciò non ci posso pensare senza sentirmi commosso fino alle lagrime. Vi dirò […] che voi siete la pupilla dell’occhio mio” (Epistolario II a cura di F. Motto II, lett. n. 792).
            Ancor più commovente la lettera ai giovani di Lanzo il 3 gennaio 1876: “Lasciate che ve lo dica e niuno si offenda, voi siete tutti ladri; lo dico e lo ripeto, voi mi avete preso tutto. Quando fui a Lanzo, mi avete incantato con la vostra benevolenza ed amorevolezza, mi avete legate le facoltà della mente colla vostra pietà; mi rimaneva ancora questo povero cuore, di cui già mi avevate rubati gli affetti per intiero. Ora la vostra lettera segnata da 200 mani amiche e carissime hanno preso possesso di tutto questo cuore, cui nulla più è rimasto, se non un vivo desiderio di amarvi nel Signore, di farvi del bene e salvare l’anima di tutti» (Epistolario III, lett. n. 1389).
            L’amorevolezza con cui trattava e voleva che i salesiani trattassero i ragazzi aveva un fondamento divino. Lo affermava citando un’espressione di s. Paolo: “La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo”.
            L’amorevolezza era dunque un segno della misericordia e dell’amore divino che sfuggiva al sentimentalismo e a forme di sensualità in ragione della carità teologica che ne era la sorgente. Don Bosco comunicava tale amore ai singoli ragazzi e anche a gruppi di loro: “Che io vi porti molta affezione, non occorre che ve lo dica, ve ne ho date chiare prove. Che poi voi mi vogliate bene, non ho bisogno che lo diciate, perché me lo avete costantemente dimostrato. Ma questa nostra reciproca affezione sopra cosa è fondata? […] Dunque il bene delle anime nostre è il fondamento della nostra affezione” (Epistolario II, n. 1148). L’amore di Dio, il primum teologico, è dunque il fondamento del primum pedagogico.
            L’amorevolezza era anche la traduzione dell’amore divino in amore realmente umano, fatto di giusta sensibilità, amabile cordialità, affetto benevolo e paziente che tende alla comunione profonda del cuore. Insomma quell’amore effettivo ed affettivo che si sperimenta in forma privilegiata nella relazione fra educando ed educatore, allorquando gesti di amicizia e di perdono da parte dell’educatore inducono il giovane, in forza dell’amore che guida l’educatore, ad aprirsi alla confidenza, a sentirsi sostenuto nel suo sforzo di superarsi e di impegnarsi, a dare il consenso e ad aderire in profondità ai valori che l’educatore vive personalmente e gli propone. Il giovane capisce che questa relazione lo ricostruisce e lo ristruttura come uomo. L’impresa più ardua del Sistema preventivo è proprio quella di conquistare il cuore del giovane, di goderne la stima, la fiducia, di farselo amico. Se un giovane non ama l’educatore, questi può fare ben poco del giovane e per il giovane.

Le opere di misericordia
            Si potrebbe ora continuare con le opere di Misericordia che il catechismo distingue tra quelle corporali e quelle spirituali, fissando due gruppi di sette. Non sarebbe difficile documentare sia come don Bosco abbia vissuto, praticato e incentivato la pratica di tali opere di misericordia sia come con il suo “essere ed operare” abbia di fatto costituito un segno e testimonianza visibile, con fatti e parole, dell’amore di Dio verso gli uomini. Per limiti di spazio ci limitiamo ad indicare la possibilità della ricerca. Resta però fermo che oggi esse sembrano abbandonate anche per la falsa contrapposizione fra misericordia e giustizia, come se la misericordia non fosse un modo tipico di esprimere quell’amore che, in quanto tale, non può mai contraddire la giustizia.




Santa Pasqua di Risurrezione 2025!

“Pietro tuttavia si alzò, corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli. E tornò indietro, pieno di stupore per l’accaduto.” (Lc 24,12)

Per contemplare il Signore Risorto non bastano i nostri occhi umani, occorre la luce della fede. Possa questa fede, illuminata e rafforzata dalla gioia della Risurrezione che celebriamo in questa Santa Pasqua 2025, guidare sempre il vostro cammino della vita terrena verso la patria del Cielo.

Cristo è risorto!




Don Elia Comini: sacerdote martire a Monte Sole

Il 18 dicembre 2024 papa Francesco ha riconosciuto ufficialmente il martirio di don Elia Comini (1910-1944), Salesiano di Don Bosco, che sarà dunque beatificato. Il suo nome si aggiunge a quello di altri sacerdoti—come don Giovanni Fornasini, già Beato dal 2021—rimasti vittime delle efferate violenze naziste nell’area di Monte Sole, sui colli bolognesi, durante la Seconda Guerra Mondiale. La beatificazione di don Elia Comini non è solo un avvenimento di straordinario rilievo per la Chiesa bolognese e la Famiglia Salesiana, ma costituisce anche un invito universale a riscoprire il valore della testimonianza cristiana: una testimonianza in cui la carità, la giustizia e la compassione prevalgono su ogni forma di violenza e di odio.

Dall’Appennino ai cortili salesiani
            Don Elia Comini nasce il 7 maggio 1910 in località “Madonna del Bosco” di Calvenzano di Vergato, in provincia di Bologna. La sua casa natale è contigua a un piccolo santuario mariano, dedicato alla “Madonna del Bosco”, e questa forte impronta nel segno di Maria lo accompagnerà tutta la vita.
            È il secondogenito di Claudio ed Emma Limoni che si erano sposati, presso la chiesa parrocchiale di Salvaro, l’11 febbraio 1907. L’anno dopo era nato il primogenito Amleto. Due anni più tardi veniva al mondo Elia. Battezzato il giorno dopo la nascita – 8 maggio – presso la parrocchia Sant’Apollinare di Calvenzano, Elia riceve quel giorno anche i nomi di “Michele” e “Giuseppe”.
            Quando ha sette anni la famiglia si trasferisce in località “Casetta” di Pioppe di Salvaro nel comune di Grizzana. Nel 1916 Elia inizia la scuola: frequenta le prime tre classi elementari a Calvenzano. In quel periodo riceve anche la Prima Comunione. Ancora piccolo, si mostra molto coinvolto nel catechismo e nelle celebrazioni liturgiche. Riceve la Cresima il 29 luglio 1917. Tra il 1919 e il 1922 Elia apprende i primi elementi di pastorale alla «scuola di fuoco» di Mons. Fidenzio Mellini che da giovane aveva conosciuto don Bosco, il quale gli aveva profetizzato il sacerdozio. Nel 1923, don Mellini orienta quindi ai Salesiani di Finale Emilia sia Elia sia il fratello Amleto ed entrambi faranno tesoro del carisma pedagogico del santo dei giovani: Amleto come docente e “imprenditore” nell’ambito della scuola; Elia come Salesiano di Don Bosco.
            Novizio dal 1° ottobre 1925 a San Lazzaro di Savena, Elia Comini resta orfano di padre il 14 settembre 1926, a pochi giorni (3 ottobre 1926) dalla sua Prima Professione religiosa che rinnoverà fino alla Perpetua, l’8 maggio 1931 nell’anniversario del battesimo, presso l’Istituto “San Bernardino” di Chiari. A Chiari sarà inoltre “tirocinante” presso l’Istituto Salesiano “Rota”. Riceve il 23 dicembre 1933 gli ordini minori dell’ostiariato e del lettorato; dell’esorcistato e dell’accolitato il 22 febbraio 1934. È suddiacono il 22 settembre 1934. Ordinato diacono nella cattedrale di Brescia il 22 dicembre 1934, don Elia è consacrato sacerdote per l’imposizione delle mani del Vescovo di Brescia Mons. Giacinto Tredici il 16 marzo del 1935, a soli 24 anni: il giorno successivo celebra la Prima Messa presso l’Istituto salesiano “San Bernardino” di Chiari. Il 28 luglio 1935 festeggerà con una Messa a Salvaro.
            Iscritto alla facoltà di Lettere Classiche e Filosofia dell’allora Regia Università di Milano, si fa sempre assai benvolere dagli allievi, sia come docente, sia come padre e guida nello Spirito: il suo carattere, serio senza rigidità, gli vale stima e fiducia. Don Elia è anche un fine musico e umanista, che apprezza e sa far apprezzare le “cose belle”. Nei componimenti scritti molti studenti, oltre a svolgere la traccia, trovano naturale aprire a don Elia il proprio cuore, fornendogli così occasione per accompagnarli e indirizzarli. Di don Elia “Salesiano” si dirà che era come la chioccia con attorno i pulcini («Si leggeva sul loro volto tutta la felicità di ascoltarlo: sembravano una covata di pulcini attorno alla chioccia»): tutti vicini a lui! Questa immagine richiama quella di Mt 23,37 ed esprime la sua attitudine a radunare le persone per rallegrarle e custodirle.
            Don Elia si laurea il 17 novembre 1939 in Lettere Classiche con una tesi sul De resurrectione carnis di Tertulliano, relatore il professore Luigi Castiglioni (latinista di fama nonché co-autore di un celebre dizionario di Latino, il “Castiglioni-Mariotti”): soffermandosi sulle parole «resurget igitur caro», Elia commenta che si tratta del canto di vittoria dopo una battaglia lunga ed estenuante.

Un viaggio senza ritorno
            Quando il fratello Amleto si trasferisce in Svizzera, la mamma – signora Emma Limoni – resta sola in Appennino: perciò don Elia, in piena intesa con i Superiori, le dedicherà ogni anno le proprie vacanze. Quando tornava a casa aiutava la mamma ma – sacerdote – si rendeva anzitutto disponibile nella pastorale locale, affiancando Mons. Mellini.
            D’accordo con i Superiori e in particolare l’Ispettore, don Francesco Rastello, don Elia torna a Salvaro anche nell’estate 1944: quell’anno spera di poter far sfollare la mamma da una zona dove, a breve distanza, forze Alleate, Partigiani ed effettivi nazi-fascisti definivano una situazione di particolare rischio. Don Elia è consapevole del pericolo che corre lasciando la sua Treviglio per recarsi a Salvaro e un confratello, don Giuseppe Bertolli sdb, ricorda: «salutandolo gli dissi che un viaggio come il suo avrebbe anche potuto essere senza ritorno; gli chiesi anche, naturalmente scherzando, che cosa mi avrebbe lasciato se non fosse tornato; egli mi rispose col mio stesso tono, che mi avrebbe lasciato i suoi libri…; poi non l’ho più visto». Don Elia era già consapevole di dirigersi verso “l’occhio del ciclone” e non ricercò nella casa Salesiana (dove agevolmente sarebbe potuto restare) una forma di tutela: «L’ultimo ricordo che ho di lui risale all’estate del 1944, quando, in occasione della guerra, la Comunità cominciò a sciogliersi; sento ancora le mie parole che bonariamente si rivolgevano a lui, con aria quasi di scherzo, ricordandogli che egli, in quei periodi oscuri che stavamo per affrontare, avrebbe dovuto sentirsi come privilegiato, in quanto sul tetto dell’Istituto era stata tracciata una croce bianca e nessuno avrebbe avuto il coraggio di bombardarlo. Egli però, come un profeta, mi rispose di stare bene attento perché durante le vacanze avrei potuto leggere sui giornali che Don Elia Comini era morto eroicamente nell’adempimento del suo dovere». «L’impressione del pericolo al quale egli si esponeva era viva in tutti», ha commentato un confratello.
            Lungo il viaggio verso Salvaro don Comini sosta a Modena, dove rimedia una brutta ferita a una gamba: stando a una ricostruzione, per essersi interposto tra un veicolo e un passante, scongiurando così un più grave incidente; stando a un’altra, per aver aiutato un signore a spingere un carretto. Ad ogni modo, per aver soccorso il prossimo. Dietrich Bonhoeffer ha scritto: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante».
            L’episodio di Modena esprime, in tal senso, un atteggiamento di don Elia che a Salvaro, nei mesi successivi, sarebbe emerso ancora di più: interporsi, mediare, accorrere in prima persona, esporre la propria vita per i fratelli, sempre cosciente del rischio che ciò comporta e serenamente disposto a pagarne le conseguenze.

Un pastore sul fronte di guerra
            Claudicante, arriva a Salvaro al tramonto del 24 giugno 1944, appoggiandosi come può a un bastone: insolito strumento, per un giovane di 34 anni! Trova la canonica trasformata: Mons. Mellini vi ospita decine di persone, appartenenti a nuclei familiari di sfollati; inoltre, le 5 suore Ancelle del Sacro Cuore, responsabili dell’asilo, tra cui suor Alberta Taccini. Anziano, stanco e scosso dagli eventi bellici, in quell’estate Mons. Fidenzio Mellini fa fatica a decidere, è diventato più fragile e incerto. Don Elia, che lo conosce sin da bambino, comincia ad aiutarlo in tutto e prende un po’ in mano la situazione. La ferita alla gamba gli impedisce inoltre di far sfollare la mamma: don Elia rimane a Salvaro e, quando può di nuovo camminare bene, le mutate circostanze e i crescenti bisogni pastorali faranno sì che vi resti.
            Don Elia rianima la pastorale, segue il catechismo, si occupa degli orfani abbandonati a se stessi. Accoglie inoltre gli sfollati, incoraggia i timorosi, modera gli imprudenti. Quella di don Elia diventa una presenza aggregante, un segno buono in quei drammatici frangenti dove i rapporti umani sono dilaniati da sospetti e contrapposizioni. Mette al servizio di tanta gente le capacità organizzative e l’intelligenza pratica allenate in anni di vita salesiana. Scrive al fratello Amleto: «Certo sono momenti drammatici, e peggiori se ne presagiscono. Speriamo tutto nella grazia di Dio e nella protezione della Madonna, che dovete invocare voi per noi. Spero di potervi fare avere ancora nostre notizie».
            I tedeschi della Wehrmacht presidiano la zona e, sulle alture, c’è la brigata partigiana “Stella Rossa”. Don Elia Comini resta una figura estranea a rivendicazioni o partigianerie di sorta: è un sacerdote e fa valere istanze di prudenza e pacificazione. Ai partigiani diceva: «Ragazzi, guardate quel che fate, perché rovinate la popolazione…», esponendola a ritorsioni. Loro lo rispettano e, nel luglio e nel settembre 1944, chiederanno Messe nella parrocchiale di Salvaro. Don Elia accetta, facendo scendere i partigiani e celebrando senza nascondersi, evitando invece di salire lui in zona partigiana e preferendo – come sempre farà quell’estate – restare a Salvaro o in zone limitrofe, senza nascondersi né scivolare in atteggiamenti “ambigui” agli occhi dei nazi-fascisti.
            Il 27 luglio don Elia Comini scrive le ultime righe del suo Diario spirituale: «27 luglio: mi trovo proprio nel mezzo della guerra. Ho nostalgia dei miei confratelli e della mia casa di Treviglio; se potessi, tornerei domani».
            Dal 20 luglio, condivideva una fraternità sacerdotale con padre Martino Capelli, Dehoniano, nato il 20 settembre 1912 a Nembro nella bergamasca e già docente di Sacra Scrittura a Bologna, anch’egli ospite di Mons. Mellini e in aiuto alla pastorale.
            Elia e Martino sono due studiosi di lingue antiche che devono ora provvedere alle cose più pratiche e materiali. La canonica di Mons. Mellini diventa ciò che Mons. Luciano Gherardi ha poi chiamato «la comunità dell’arca», un posto che accoglie per salvare. Padre Martino era un religioso che si era infervorato quando aveva sentito parlare dei martiri messicani e avrebbe desiderato essere missionario in Cina. Elia, sin da giovane, è inseguito da una strana consapevolezza di “dover morire” e già a 17 anni aveva scritto: «Persiste sempre in me il pensiero che debba morire! – Chissà?! Facciamo come il servo fedele: sempre preparato all’appello, a “reddere rationem” della gestione».
            Il 24 luglio don Elia inizia il catechismo per i bambini in preparazione alle prime Comunioni, in calendario per il 30 luglio. Il 25, nasce una bambina nel battistero (tutti gli spazi, dalla sacrestia al pollaio, erano stracolmi) e si appende un fiocco rosa.
            Per l’intero mese di agosto 1944, soldati della Wehrmacht stazionano presso la canonica di Mons. Mellini e nello spazio antistante. Tra tedeschi, sfollati, consacrati… la tensione sarebbe potuta scoppiare ogni momento: don Elia media e previene anche in piccole cose, per esempio facendo da “ammortizzatore” tra il volume troppo alto della radio dei tedeschi e la pazienza ormai troppo corta di Mons. Mellini. Ci fu anche qualche po’ di Rosario tutti assieme. Don Angelo Carboni conferma: «Nell’intento sempre di confortare Monsignore, D. Elia si adoprò molto contro la resistenza d’una compagnia di Tedeschi che, impostatisi a Salvaro il 1° agosto, voleva occupare diversi ambienti della Canonica togliendo ogni libertà e comodità ai famigliari e sfollati ivi ospitati. Accomodati i Tedeschi nell’archivio di Monsignore, eccoli di nuovo a disturbare, occupando coi loro carri buona parte del piazzale della Chiesa; con modi ancor più gentili e persuasive parole, D. Elia ottenne anche quest’altra liberazione a conforto di Monsignore, che l’oppressione della lotta aveva costretto al riposo». In quelle settimane, il sacerdote salesiano è fermo nel tutelare il diritto di Mons. Mellini a muoversi con un certo agio in casa propria – nonché quello degli sfollati a non essere allontanati dalla canonica –: tuttavia riconosce alcune esigenze degli uomini della Wehrmacht e ciò ne attira la benevolenza verso Mons. Mellini che i soldati tedeschi impareranno a chiamare il pastore buono. Dai tedeschi, don Elia ottiene cibo per gli sfollati. Inoltre, canticchia per calmare i bambini e racconta episodi della vita di don Bosco. In un’estate segnata da uccisioni e ritorsioni, con don Elia alcuni civili riescono persino ad andare a sentire un poco di musica, evidentemente diffusa dall’apparecchio dei tedeschi, e a comunicare con i soldati attraverso brevi cenni. Don Rino Germani sdb, Vicepostulatore della Causa, afferma: «Tra le due forze in lotta si inserisce l’opera instancabile e mediatrice del Servo di Dio. Quando occorre si presenta al Comando tedesco e con educazione e preparazione riesce a conquistare la stima di qualche ufficiale. Così molte volte ottiene di evitare ritorsioni, saccheggi e lutti».
            Liberata la canonica dalla presenza fissa della Wehrmacht il 1° settembre 1944 – «Il 1° settembre i tedeschi lasciarono libera la zona di Salvaro, solo qualcuno rimase per pochi giorni ancora nella casa Fabbri» – la vita a Salvaro può trarre un respiro di sollievo. Don Elia Comini persevera intanto nelle iniziative di apostolato, coadiuvato dagli altri sacerdoti e dalle suore.
            Mentre tuttavia padre Martino accetta alcuni inviti a predicare altrove e sale in quota, dove i suoi capelli chiari gli fanno correre un grosso guaio con i partigiani che lo sospettano tedesco, don Elia resta sostanzialmente stanziale. L’8 settembre scrive al direttore salesiano della Casa di Treviglio: «Ti lascio immaginare il nostro stato d’animo in questi momenti. Abbiamo attraversato giornate nerissime e drammatiche. […] Il mio pensiero è sempre con te e coi cari confratelli di costì. Sento vivissima la nostalgia […]».
            Dall’11 predica gli Esercizi alle Suore sul tema dei Novissimi, dei voti religiosi e della vita del Signore Gesù.
            Tutta la popolazione – ha dichiarato una consacrata – amava Don Elia, anche perché egli non esitava a spendersi per tutti, in ogni momento; non chiedeva soltanto alle persone di pregare, ma offriva loro un valido esempio con la sua pietà e quel poco di apostolato che, data la circostanza, era possibile esercitare.
            L’esperienza degli Esercizi imprime un diverso dinamismo all’intera settimana, e coinvolge trasversalmente consacrati e laici. Alla sera, infatti, don Elia raduna 80-90 persone: si cercava di stemperare la tensione con un po’ di allegria, buoni esempi, carità. In quei mesi sia lui sia padre Martino, come altri sacerdoti: primo tra tutti don Giovanni Fornasini, erano in prima linea in tante opere di bene.

L’eccidio di Montesole
            La strage più efferata e più grande compiuta dalle SS naziste in Europa, nel corso della guerra del 1939-45, è stata quella consumata attorno a Monte Sole, nei territori di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno, anche se è comunemente nota come la “strage di Marzabotto”.
            Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 i caduti furono 770, ma nel complesso le vittime di tedeschi e fascisti, dalla primavera del 1944 alla liberazione, furono 955, distribuite in 115 diverse località all’interno di un vasto territorio che comprende i comuni di Marzabotto, Grizzana e Monzuno e alcune porzioni dei territori limitrofi. Di questi, 216 furono i bambini, 316 le donne, 142 gli anziani, 138 le vittime riconosciute partigiani, cinque i sacerdoti, la cui colpa agli occhi dei tedeschi consisteva nell’essere stati vicini, con la preghiera e l’aiuto materiale, a tutta la popolazione di Monte Sole nei tragici mesi di guerra e occupazione militare. Insieme a don Elia Comini, Salesiano, e a padre Martino Capelli, Dehoniano, in quei tragici giorni furono uccisi anche tre sacerdoti dell’Arcidiocesi di Bologna: don Ubaldo Marchioni, don Ferdinando Casagrande, don Giovanni Fornasini. Di tutti e cinque è in corso la Causa di Beatificazione e Canonizzazione. Don Giovanni, l’“Angelo di Marzabotto”, cadde, il 13 ottobre 1944. Aveva ventinove anni e il suo corpo rimase insepolto fino al 1945, quando venne ritrovato pesantemente martoriato; è stato beatificato il 26 settembre 2021. Don Ubaldo morì il 29 settembre, ucciso dal mitra sulla predella dell’altare della sua chiesa di Casaglia; aveva 26 anni, era stato ordinato prete due anni prima. I soldati tedeschi trovarono lui e la comunità intenti nella preghiera del rosario. Lui fu ucciso lì, ai piedi dell’altare. Gli altri – più di 70 – nel cimitero vicino. Don Ferdinando fu ucciso, il 9 ottobre, da un colpo di pistola alla nuca, con la sorella Giulia; aveva 26 anni.

Dalla Wehrmacht alle SS
            Il 25 settembre la Wehrmacht lascia la zona e cede il comando alle SS del 16 Battaglione della Sedicesima Divisione Corazzata “Reichsfürer” – SS”, una Divisione che include elementi SS “Totenkopf – Testa di morto” ed era preceduta da una scia di sangue, essendo stata presente a Sant’Anna di Stazzema (Lucca) il 12 agosto 1944; a San Terenzo Monti (Massa-Carrara, in Lunigiana) il 17 di quel mese; a Vinca e dintorni (Massa-Carrara, in Lunigiana alle pendici delle Alpi Apuane) dal 24 al 27 agosto.
            Il 25 settembre le SS stabiliscono l’’“Alto comando” a Sibano. Il 26 settembre si portano a Salvaro, dove è anche don Elia: zona fuori dall’area di immeditata influenza partigiana. La durezza dei comandanti nel perseguire il più totale disprezzo della vita umana, l’abitudine a mentire circa il destino dei civili e l’assetto paramilitare – che ricorreva volentieri a tecniche da “terra bruciata”, in dispregio a qualsivoglia codice di guerra o legittimità di ordini impartiti dall’alto – ne faceva uno squadrone della morte che nulla lasciava di intatto al proprio passaggio. Alcuni avevano ricevuto una formazione di stampo esplicitamente concentrazionista ed eliminazionista, deputata a: soppressione della vita, con finalità ideologica; odio verso chi professava la fede ebraico-cristiana; disprezzo per i piccoli, i poveri, gli anziani e i deboli; persecuzione di chi si opponesse alle aberrazioni del nazionalsocialismo. C’era un vero e proprio catechismo – anticristiano e anticattolico – dei quali le giovani SS erano impregnate.
            «Quando si pensa che la gioventù nazista era formata nel disprezzo della personalità umana degli ebrei e delle altre razze “non elette”, nel fanatico culto di una pretesa superiorità nazionale assoluta, nel mito della violenza creatrice e delle “armi nuove” apportatrici di giustizia nel mondo, si comprende dove fossero le radici delle aberrazioni, rese più facili dall’atmosfera di guerra e dal timore di una deludente sconfitta».
            Don Elia Comini – con padre Capelli – accorre per confortare, rassicurare, esortare. Decide si accolgano in canonica soprattutto i superstiti delle famiglie in cui i tedeschi avevano ucciso per ritorsione. Così facendo, sottrae i sopravvissuti al pericolo di trovare la morte poco dopo, ma soprattutto li strappa – almeno nella misura del possibile – a quella spirale di solitudine, disperazione e perdita di volontà di vivere che si sarebbe potuta tradurre addirittura in desiderio di morte. Riesce inoltre a parlare ai tedeschi e, in almeno un’occasione, a far desistere le SS dal loro proposito, facendole sfilare oltre e potendo quindi avvertire successivamente i rifugiati di fuoriuscire dal nascondiglio.
            Il Vicepostulatore don Rino Germani sdb scriveva: «Arriva don Elia. Li rassicura. Dice loro di venir fuori, perché i tedeschi sono andati via. Parla con i tedeschi e li fa andare oltre».
            Viene ucciso anche Paolo Calanchi, un uomo cui la coscienza nulla rimprovera e che commette l’errore di non scappare. Sarà ancora don Elia ad accorrere, prima che le fiamme ne aggrediscano il corpo, tentando almeno di onorarne le spoglie non essendo arrivato in tempo per salvargli la vita: «Il corpo di Paolino viene salvato dalle fiamme proprio da don Elia che, a rischio della vita, lo raccoglie e trasporta con un carretto alla Chiesa di Salvaro».
            La figlia di Paolo Calanchi ha testimoniato: «Mio padre era un uomo buono ed onesto [«in tempi di tessera annonaria e di carestia dava pane a chi non ne aveva»] e aveva rifiutato di scappare sentendosi tranquillo verso tutti. Fu ucciso dai tedeschi, fucilato, per rappresaglia; più tardi fu incendiata anche la casa, ma il corpo di mio padre era stato salvato dalle fiamme proprio da Don Comini, che, a rischio della propria vita, lo aveva raccolto e trasportato con un carretto alla Chiesa di Salvaro, dove, in una cassa da lui costruita con assi di ripiego, fu inumato nel cimitero. Così, grazie al coraggio di Don Comini e, molto probabilmente, anche di Padre Martino, terminata la guerra, io e mia madre potemmo ritrovare e far trasportare la bara del nostro caro nel cimitero di Vergato, insieme a quella di mio fratello Gianluigi, morto 40 giorni dopo nell’attraversare il fronte».
            Una volta don Elia aveva detto della Wehrmacht: «Dobbiamo amare anche questi Tedeschi che ci vengono a disturbare». «Amava tutti senza preferenza». Il ministero di don Elia fu molto prezioso per Salvaro e tanti sfollati, in quei giorni. Testimoni hanno dichiarato: «Don Elia è stato la nostra fortuna perché avevamo il Parroco troppo anziano e debole. Tutta la popolazione sapeva che Don Elia aveva questo interesse nei nostri riguardi; Don Elia ha aiutato tutti. Si può dire che tutti i giorni lo vedevamo. Diceva la Messa, ma poi era spesso sul sagrato della chiesa a guardare: i tedeschi erano giù, verso il Reno; i partigiani venivano dal monte, verso la Creda. Una volta, per esempio, (qualche giorno prima del 26) vennero i partigiani. Noi si usciva dalla chiesa di Salvaro e c’erano i partigiani lì, tutti armati; e Don Elia si raccomandava tanto che se ne andassero, per evitare dei guai. Lo ascoltarono e se ne andarono. Probabilmente, se non ci fosse stato lui, quello che è successo dopo, sarebbe avvenuto molto prima»; «Da quanto mi risulta Don Elia era l’anima della situazione, in quanto con la sua personalità sapeva tenere in pugno tante cose che in quei momenti drammatici erano di importanza vitale».
            Anche se era un sacerdote giovane, don Elia Comini era affidabile. Questa sua affidabilità, unita a una profonda rettitudine, lo accompagnava un po’ da sempre, addirittura da chierico come risulta da una testimonianza: «L’ho avuto quattro anni al Rota, dal 1931 al 1935, e, sebbene ancora chierico, mi ha dato un aiuto che ben difficilmente avrei trovato in altro confratello anche anziano».

Il triduo di passione
            La situazione comunque precipita dopo pochi giorni, il 29 settembre mattina quando le SS compiono una terribile strage in località “Creda”. Il segnale per l’inizio della strage sono un razzo bianco e uno rosso in aria: cominciano a sparare, le mitragliatrici colpiscono le vittime, asserragliate contro un portico e pressoché senza via di scampo. Vengono quindi lanciate bombe a mano, alcune incendiarie e la stalla – dove alcuni erano riusciti a trovare scampo – prende fuoco. Pochi uomini, cogliendo un istante di distrazione delle SS in quell’inferno, si precipitano giù verso il bosco. Attilio Comastri, ferito, si salva perché il corpo esanime della moglie Ines Gandolfi gli ha fatto scudo: vagherà per giorni, in stato di shock, finché riuscirà a passare il fronte e ad aver salva la vita; aveva perso, oltre alla moglie, la sorella Marcellina e la figlia Bianca, di due anni appena. Anche Carlo Cardi riesce a salvarsi, ma la sua famiglia è sterminata: Walter Cardi aveva solo 14 giorni, fu la più piccola vittima dell’eccidio di Monte Sole. Mario Lippi, uno degli scampati, attesta: «Non so io stesso come mi fossi miracolosamente salvato, dato che di 82 persone raccolte sotto al portico, ne rimasero uccise 70 [69, stando alla ricostruzione ufficiale]. Ricordo che oltre al fuoco delle mitragliatrici, i tedeschi scagliarono su di noi anche delle bombe a mano e credo che fossero alcune schegge di queste a ferirmi leggermente nel fianco destro, nella schiena e nel braccio destro. Io, insieme con altre sette persone, profittando che in [un] lato del portico vi era una porticina che portava nella strada, scappai verso il bosco. I tedeschi, vistici fuggire, ci spararono dietro, uccidendo uno di noi [di] nome Gandolfi Emilio. Preciso che tra le 82 persone raccolte sotto il sunnominato portico vi erano anche una ventina di bambini, di cui due in fasce, sulle braccia delle rispettive madri, e una ventina di donne».
            Alla Creda sono 21 i bimbi sotto gli 11 anni, alcuni molto piccoli; 24 le donne (di cui una adolescente); quasi 20 gli “anziani”. Tra le famiglie più colpite i Cardi (7 persone), i Gandolfi (9 persone), i Lolli (5 persone), i Macchelli (6 persone).
            Dalla canonica di Mons. Mellini, guardando in alto, a un certo punto si vede il fumo: ma è mattina presto, la Creda resta nascosta allo sguardo e il bosco attutisce i rumori. In parrocchia quel giorno – 29 settembre festa dei Santi Arcangeli – si celebrano tre Messe, di mattina presto, in immediata successione: quella di Mons. Mellini; quella di padre Capelli che si reca poi a portare una Estrema unzione in località “Casellina”; quella di don Comini. Ed è allora che il dramma bussa alla porta: «Ferdinando Castori, sfuggito anche lui alla strage, giunse alla chiesa di Salvaro imbrattato di sangue come un macellaio, e andò a nascondersi dentro la cuspide del Campanile». Verso le 8 giunge in canonica un uomo sconvolto: sembrava «un mostro per l’aspetto terrorizzante», dice suor Alberta Taccini. Chiede aiuto per i feriti. Una settantina di persone è morta o sta morendo tra terribili supplizi. Don Elia, in pochi istanti, ha la lucidità di nascondere 60/70 uomini in sagrestia, spingendo contro la porta un vecchio armadio che lasciava la soglia visibile da sotto, ma era nondimeno l’unica speranza di salvezza: «Fu allora che Don Elia, proprio lui, ebbe l’idea di nascondere gli uomini a fianco della sacrestia, mettendo poi un armadio davanti alla porta (lo aiutarono una o due persone che erano in casa di Monsignore). L’idea fu di Don Elia; ma tutti erano contrari al fatto che fosse Don Elia a compiere quel lavoro… L’ha voluto lui. Gli altri dicevano: “E se poi ci scoprono?”». Un’altra ricostruzione: «Don Elia riuscì a nascondere in un locale attiguo alla sacrestia una sessantina di uomini e contro l’uscio spinse un vecchio armadio. Intanto il crepitare delle mitraglie e gli urli disperati della gente giungevano dalle case vicine. Don Elia ebbe la forza di iniziare il S. Sacrificio della Messa, l’ultima della sua vita. Non aveva ancora terminato, che giunse atterrito e trafelato un giovane della località “Creda” a chiedere soccorso perché le SS avevano circondato una casa e arrestato sessantanove persone, uomini, donne, bambini».
            «Ancora in paramenti sacri, prostrato all’altare, immerso in preghiera, invoca per tutti l’aiuto del Sacro Cuore, l’intercessione di Maria Ausiliatrice, di san Giovanni Bosco e di san Michele Arcangelo. Poi, con un breve esame di coscienza, recitato tre volte l’atto di dolore, fa loro una preparazione alla morte. Raccomanda all’assistenza delle suore tutte quelle persone e alla Superiora di guidare forte la preghiera perché i fedeli possano trovare in essa il conforto del quale hanno bisogno».
            A proposito di don Elia e di padre Martino, rientrato poco dopo, «si constatano alcune dimensioni di una vita sacerdotale spesa consapevolmente per gli altri fino all’ultimo istante: la loro morte è stata un prolungare nel dono della vita la Messa celebrata fino all’ultimo giorno». La loro scelta aveva «radici lontane, nella decisione di fare del bene anche se si fosse all’ultima ora, disposti anche al martirio»: «molte persone vennero a cercare aiuto in parrocchia e, all’insaputa del parroco, Don Elia e Padre Martino cercarono di nascondere quante più persone possibili; poi assicuratisi che fossero in qualche modo assistite, corsero sul luogo dei massacri per poter portare aiuto anche ai più sfortunati; lo stesso Mons. Mellini non si rese conto di ciò e continuava a cercare i due preti per farsi aiutare a ricevere tutta quella gente» («Abbiamo la certezza che nessuno di essi era partigiano o era stato coi partigiani»).
            In quei momenti, don Elia attesta grande lucidità che si traduce sia in spirito organizzativo, sia nella consapevolezza di mettere a repentaglio la propria vita: «Alla luce di tutto ciò, e Don Elia lo sapeva bene, non possiamo quindi ricercare quella carità che induce al tentativo di aiutare gli altri, ma piuttosto quel tipo di carità (che poi è stata la stessa di Cristo) che induce a partecipare fino in fondo alla sofferenza altrui, non temendo neppure la morte come sua ultima manifestazione. Il fatto che la sua sia stata una scelta lucida e ben ragionata, viene anche dimostrato dallo spirito organizzativo che ha manifestato fino a pochi minuti prima della morte, nel tentare con prontezza ed intelligenza di nascondere quante più persone possibile nei locali nascosti della canonica; poi la notizia della Creda e, dopo la carità fraterna, la carità eroica».
            Una cosa è certa: se don Elia si fosse nascosto con tutti gli altri uomini o anche solo fosse rimasto accanto a Mons. Mellini, non avrebbe avuto nulla da temere. Invece, don Elia e padre Martino prendono la stola, gli oli santi e una teca con alcune Particole consacrate «partirono quindi per la montagna, armati della stola e dell’olio degli infermi»: «Quando Don Elia tornò dall’essere andato da Monsignore, prese la Pisside con le Ostie e l’Olio Santo e si voltò verso di noi: ancora quel volto! era talmente pallido, che sembrava uno già morto. E disse: “Pregate, Pregate per me, perché ho una missione da compiere”». «Pregate per me, non lasciatemi solo!». «Noi siamo sacerdoti e dobbiamo andare e dobbiamo fare il nostro dovere». «Andiamo a portare il Signore ai nostri fratelli».
            Su alla Creda c’è tanta gente che sta morendo tra supplizi: devono accorrere, benedire e – se possibile – provare a interporsi rispetto alle SS.
            La signora Massimina [Zappoli], poi teste anche all’indagine militare di Bologna, ricorda: «Nonostante le preghiere di tutti noi, essi celebrarono in fretta l’Eucaristia e, spinti solo dalla speranza di poter fare qualcosa per le vittime di tanta ferocia almeno con un conforto spirituale, presero il SS. Sacramento e corsero verso la Creda. Ricordo che mentre Don Elia, già lanciato nella sua corsa, mi passò accanto in cucina, io mi aggrappai a lui in un ultimo tentativo di dissuaderlo, dicendo che noi saremmo rimasti in balia di noi stessi; egli fece capire che, per quanto fosse grave la nostra situazione, c’era chi stava peggio di noi ed era da questi che loro dovevano andare».
            Egli è irremovibile e si rifiuta, come poi Mons. Mellini suggerì, di ritardare la salita alla Creda quando i tedeschi se ne fossero andati: «È stata [perciò] una passione, prima che cruenta, […] del cuore, la passione dello spirito. In quei tempi si era terrorizzati da tutto e da tutti: non si aveva più fiducia di nessuno: chiunque poteva essere un nemico determinante per la propria vita. Quando i due Sacerdoti si son resi conto che qualcuno aveva veramente bisogno di loro non hanno avuto tanto tentennamento a decidere cosa fare […] e soprattutto non sono ricorsi a quella che era la decisione immediata per tutti, cioè, trovare un nascondiglio, cercare di coprirsi e di essere fuori dalla mischia. I due Sacerdoti, invece, ci sono andati dentro, consapevolmente, sapendo che la loro vita era al 99% a rischio; e ci sono andati per essere veramente sacerdoti: cioè, per assistere e per confortare; per dare anche il servizio dei Sacramenti, quindi della preghiera, del conforto che la fede e la religione offrono».
            Una persona ha detto: «Don Elia, per noi, era già santo. Se fosse stato una persona normale […] non si sarebbe messo; si sarebbe nascosto anche lui, dietro l’armadio, come tutti gli altri».
            Con gli uomini nascosti, sono le donne a provare a trattenere i sacerdoti, in un estremo tentativo di salvar loro la vita. La scena è al contempo concitata ed assai eloquente: «Lidia Macchi […] e altre donne provarono a impedir loro di partire, tentarono di trattenerli per la tonaca, li rincorsero, li richiamarono a gran voce perché ritornassero indietro: spinti da una forza interiore che è ardore di carità e sollecitudine missionaria, essi stavano ormai decisamente camminando verso la Creda portando i conforti religiosi».
            Una di loro ricorda: «Li abbracciai, li tenevo fermi per le braccia, dicendo e supplicando: – Non andate! – Non andate!».
            E Lidia Marchi aggiunge: «Io tiravo Padre Martino per la veste e lo trattenevo […] ma tutti e due i sacerdoti ripetevano: – Dobbiamo andare; il Signore ci chiama».
            «Dobbiamo compiere il nostro dovere. E [don Elia e padre Martino,] come Gesù, andarono incontro a una sorte segnata».
            «La decisione di recarsi alla Creda fu scelta dai due sacerdoti per puro spirito pastorale; nonostante tutti cercassero di dissuaderli, essi vollero andare spinti dalla speranza di poter salvare qualcuno di coloro che erano in balia della rabbia dei soldati».
            Alla Creda, quasi senz’altro, non arrivarono mai. Catturati, stando a una testimone, presso un “pilastrello”, appena fuori dal campo visivo della parrocchia, don Elia e padre Martino furono visti più tardi carichi di munizioni, alla testa di rastrellati, o ancora soli, legati, con catene, vicino a un albero mentre non c’era alcuna battaglia in corso e le SS mangiavano. Don Elia intimò a una donna di scappare, di non fermarsi per evitare di essere uccisa: «Anna, per carità, scappa, scappa».
            «Erano carichi e curvi sotto il peso di tante cassettine pesanti che dalle spalle avvolgevano il corpo davanti e dietro. Con la schiena facevano una curva che li portava quasi con il naso a terra».
            «Seduti per terra […] molto sudati e stanchi, con le munizioni sulla schiena».
            «Arrestati vengono costretti a portare munizioni su e giù per il monte, testimoni di inaudite violenze».
            «[Le SS li fanno] più volte scendere e salire per il monte, sotto la loro scorta, e compiendo inoltre, sotto gli occhi delle due vittime, le più raccapriccianti violenze».
            Dove sono, ora, la stola, gli oli santi e soprattutto il Santissimo Sacramento? Non ce n’è più alcuna traccia. Lontani da occhi indiscreti, le SS ne hanno spogliato a forza i sacerdoti, liberandosi di quel Tesoro di cui nulla si sarebbe più trovato.
Verso la sera del 29 settembre 1944, furono tradotti con molti altri uomini (rastrellati e non per rappresaglia o non perché filo-partigiani, come le fonti dimostrano), presso la casa “dei Birocciai” a Pioppe di Salvaro. Più tardi essi, suddivisi, avranno sorti diversissime: pochi saranno liberati, dopo una serie di interrogatori. La maggior parte, valutati abili al lavoro, verranno deferiti ai campi di lavoro coatto e potranno – in seguito – tornare alle proprie famiglie. I valutati inabili, per mero criterio anagrafico (cf. campi di concentramento) o di salute (giovane, ma ferito o che si simula malato sperando di salvarsi) verranno uccisi la sera del 1° ottobre alla “Botte” della Canapiera di Pioppe di Salvaro, ormai un rudere perché bombardata dagli Alleati giorni prima.
            Don Elia e padre Martino – che furono interrogati – poterono muoversi fino all’ultimo nella casa e ricevere visite. Don Elia intercedette per tutti e un giovane, molto provato, si addormentò sulle sue ginocchia: in una di esse, don Elia ricevette il Breviario, a lui tanto caro e che volle tenere con sé sino agli ultimi istanti. Oggi, l’attenta ricerca storica attraverso le fonti documentali, supportata dalla più recente storiografia di parte laica, ha dimostrato come non fosse mai andato a buon fine un tentativo di liberare don Elia, messo in atto dal Cavalier Emilio Veggetti, e come don Elia e padre Martino non siano mai realmente stati considerati o perlomeno trattati come “spie”.

L’olocausto
            Infine, vennero inseriti, benché giovani (34 e 32 anni), nel gruppo degli inabili e con essi giustiziati. Vissero quegli ultimi istanti pregando, facendo pregare, essendosi assolti a vicenda e donato ogni possibile conforto di fede. Don Elia riuscì a trasformare la macabra processione dei condannati fino a una passerella antistante l’invaso della canapiera, dove verranno uccisi, in un atto corale di affidamento, tenendo finché poté il Breviario aperto in mano (poi, si legge, un tedesco colpì con violenza le sue mani e il Breviario cadde nell’invaso) e soprattutto intonando le Litanie. Quando fu aperto il fuoco, don Elia Comini salvò un uomo perché gli faceva scudo col proprio corpo e gridò «Pietà». Padre Martino invocò invece “Perdono”, ergendosi a fatica nell’invaso, tra i compagni morti o morenti, e tracciando il segno di Croce pochi istanti prima di morire egli stesso, a causa di una enorme ferita. Le SS vollero assicurarsi che nessuno sopravvivesse lanciando alcune bombe a mano. Nei giorni successivi, stante l’impossibilità a recuperare le salme immerse in acqua e fango a causa di abbondanti piogge (vi provarono le donne, ma nemmeno don Fornasini poté riuscirvi), un uomo aprì le griglie e l’impetuosa corrente del fiume Reno portò via tutto. Nulla venne mai più trovato di loro: consummatum est!
            Si era delineato il loro essere disposti «anche al martirio, anche se agli occhi degli uomini appare stolto rifiutare la propria salvezza per dare un misero sollievo a chi era già destinato alla morte». Mons. Benito Cocchi nel settembre 1977 a Salvaro disse: «Ebbene qui davanti al Signore diciamo che la nostra preferenza va a questi gesti, a queste persone, a coloro che pagano di persona: a chi in un momento in cui valevano solo le armi, la forza e la violenza, quando una casa, la vita di un bimbo, un’intera famiglia erano valutati niente, seppe compiere gesti che non hanno voce nei bilanci di guerra, ma che sono veri tesori di umanità, resistenza e alternativa alla violenza; a chi in questo modo poneva radici per una società e una convivenza più umana».
            In tal senso, «Il martirio dei sacerdoti costituisce il frutto della loro scelta consapevole di condividere la sorte del gregge fino all’estremo sacrificio, quando gli sforzi di mediazione tra popolazione e gli occupanti, a lungo perseguiti, vengono a perdere ogni possibilità di successo».
            Don Elia Comini era stato lucido sulla propria sorte, dicendo – già nelle prime fasi di detenzione –: «Per far del bene ci troviamo in tante pene»; «Era Don Elia che additando il cielo salutava con gli occhi imperlati». «Elia si è affacciato e mi ha detto: “Vada a Bologna, dal Cardinale, e gli dica dove ci troviamo”. Gli ho risposto: “Come faccio ad andare a Bologna?”. […] Intanto i soldati mi spingevano con la canna del fucile. D. Elia mi ha salutato dicendo: “Ci vedremo in paradiso!”. Ho gridato: “No, no, non dica questo”. Ha risposto, mesto e rassegnato: “Ci vedremo in Paradiso”».
            Con don Bosco…: «[Vi] aspetto tutti in Paradiso»!
            Era la sera del 1° ottobre, inizio del mese dedicato al Rosario e alle Missioni.
            Negli anni della sua prima giovinezza, Elia Comini aveva detto a Dio: «Signore, preparami ad essere il meno indegno per essere vittima accetta» (“Diario” 1929); «Signore, […] ricevimi pure come vittima espiatoria» (1929); «vorrei essere una vittima d’olocausto» (1931). «[A Gesù] ho domandato la morte piuttosto che venir meno alla vocazione sacerdotale e all’amore eroico per le anime» (1935).