Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette

Don Bosco propone una dettagliata narrazione dell’“Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette”, avvenuta il 19 settembre 1846, sulla base di documenti ufficiali e delle testimonianze dei veggenti. Ricostruisce il contesto storico e geografico – due giovani pastorelli, Massimino e Melania, nell’asma delle Alpi – l’incontro prodigioso con la Vergine, il suo messaggio di ammonimento contro il peccato e la promessa di grazie e provvidenze, nonché i segni soprannaturali che ne accompagnarono le dimostrazioni. Presenta le vicende della diffusione del culto, l’influsso spirituale sugli abitanti e sul mondo intero, e il segreto rivelato solo a Pio IX per rinvigorire la fede dei cristiani e a testimoniare la perenne presenza dei prodigi nella Chiesa.

Protesta dell’Autore
Per ubbidire ai decreti di Urbano VIII mi protesto, che a quanto si dirà nel libro di miracoli, rivelazioni, o di altri fatti, non intendo di attribuire altra autorità, che umana; e dando ad alcuno titolo di Santo o Beato, non intendo darlo se non secondo l’opinione; eccettuate quelle cose e persone, che sono state già approvate dalla S. Sede Apostolica.

Al lettore
            Un fatto certo e meraviglioso, attestato da migliaia di persone, e che tutti possono anche oggidì verificare, è l’apparizione della beata Vergine, avvenuta il 19 settembre 1846 (Su questo fatto straordinario si possono consultare molte operette e parecchi giornali stampati contemporaneamente al fatto e segnatamente: Notizia sull’apparizione di Maria SS. Torino, 1847; Santo officiale dell’apparizione, ecc., 1848; Il libretto stampato per cura del sac. Giuseppe Gonfalonieri, Novara, presso Enrico Grotti)
Questa nostra pietosa Madre è apparsa in forma e figura di gran Signora a due pastorelli, cioè ad un fanciullo di 11 anni, e ad una villanella di 15 anni, là sopra una montagna della catena delle Alpi situata nella parrocchia di La Salette in Francia. Ed essa comparve non pel bene soltanto della Francia, come dice il Vescovo di Grenoble, ma pel bene di tutto il mondo; e ciò per avvertirci della gran collera del suo Divin Figlio, accesa specialmente pei tre peccati: la bestemmia, la profanazione delle feste e il mangiar grasso nei giorni proibiti.
A questo tengono dietro altri fatti prodigiosi raccolti eziandio da pubblici documenti, oppure attestati da persone la cui fede esclude ogni dubbio intorno a quanto riferiscono.
Questi fatti valgano a confermare i buoni nella religione, a confutare quelli che forse per ignoranza vorrebbero porre un limite alla potenza e alla misericordia del Signore dicendo: Non è più il tempo dei miracoli.
Gesù disse che nella sua Chiesa si sarebbero operati miracoli maggiori che Egli non operò: e non fissò né tempo né numero, perciò finché vi sarà la Chiesa, noi vedremo sempre la mano del Signore che farà manifesta la sua potenza con prodigiosi avvenimenti, perché ieri ed oggi e sempre G. C. sarà quello che governa e assiste la sua Chiesa fino alla consumazione dei secoli.
Ma questi segni sensibili della Onnipotenza Divina sono sempre presagio di gravi avvenimenti che manifestano la misericordia e la bontà del Signore, oppure la sua giustizia e il suo sdegno, ma in modo che se ne tragga la sua maggior gloria e il maggior vantaggio delle anime.
Facciamo che per noi siano sorgente di grazie e di benedizioni; servano di eccitamento alla fede viva, fede operosa, fede che ci muova a fare il bene e a fuggire il male per renderci degni della sua infinita misericordia nel tempo e nella eternità.

Apparizione della B. Vergine sulle montagne della Salette
            Massimino, figlio di Pietro Giraud, falegname del borgo di Corps, era un fanciullo di 11 anni: Francesca Melania figlia di poveri parenti, nativa di Corps era una giovinetta di anni 15. Niente avevano di singolare: Ambedue ignoranti e rozzi, ambedue addetti a guardare il bestiame su pei monti. Massimino non sapeva altro che il Pater e l’Ave; Melania ne sapeva poco più, tanto che per la sua ignoranza non era ancora stata ammessa alla s. Comunione.
Mandati dai loro genitori a guidare il bestiame nei pascoli, non fu se non per puro accidente che il giorno 18 settembre, vigilia del grande avvenimento, s’incontrarono sul monte, mentre abbeveravano le loro vacche ad una fontana.
La sera di quel giorno, nel far ritorno a casa col bestiame, Melania disse a Massimino: «Domani chi sarà il primo a trovarsi sulla Montagna?» E all’indomani, 19 settembre, che era un sabato vi salivano insieme, conducendo ciascuno quattro vacche ed una capra. La giornata era bella e serena il sole brillante. Verso il mezzogiorno udendo suonare la campana dell’Angelus, fanno breve preghiera col segno della s. Croce; di poi prendono le loro provvisioni di bocca e vanno a mangiare presso una piccola sorgente, che era a sinistra d’un ruscelletto. Finito di mangiare, passano il ruscello, depongono i loro sacchi presso una fontana asciutta, discendono ancora qualche passo, e contro il solito si addormentano a qualche distanza l’uno dall’altro.
Ora ascoltiamo il racconto dagli stessi pastorelli tal quale essi lo fecero la sera del 19 ai loro padroni e di poi le mille volte a migliaia di persone.
Noi ci eravamo addormentati… racconta Melania, io mi sono svegliata la prima; e, non vedendo le mie vacche, svegliai Massimino dicendogli: Su andiamo a cercare le nostre vacche. Abbiamo passato il ruscello, siamo saliti un po’ in su, e le vedemmo dalla parte opposta coricate. Esse non erano lontane. Allora tornai giù a basso; e a cinque o sei passi prima di arrivare al ruscello, vidi un chiarore come il Sole, ma ancor più brillante, non però del medesimo colore, e dissi a Massimino: Vieni, vieni presto a veder là abbasso un chiarore (Erano tra le due e le tre ore dopo mezzogiorno).
Massimino discese subito dicendomi: Dov’è questo chiarore? E glielo indicai col dito rivolto alla piccola fontana; e lui si fermò quando lo vide. Allora noi vedemmo una Signora in mezzo alla luce; essa sedeva sopra un mucchio di sassi, col volto tra le mani. Per la paura io lasciai cadere il mio bastone. Massimino mi disse: tienilo il bastone; se la ci farà qualche cosa, le darò una buona bastonata.
In seguito questa Signora si levò in piedi, incrocicchiò le braccia e ci disse: «Avanzatevi, miei ragazzi: Non abbiate paura; son qui per darvi una gran nuova.» Allora noi passammo il ruscello, ed essa si avanzò sino al luogo, dove prima ci eravamo addormentati. Essa era in mezzo a noi due, e ci disse piangendo tutto il tempo che ci parlò (ho veduto benissimo le sue lagrime): «Se il mio popolo non si vuole sottomettere, sono costretta dì lasciar libera la mano di mio Figlio. Essa è così forte, così pesante, che non posso più trattenerla.»
«È gran tempo che soffro per voi! Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni, debbo pregarlo costantemente; e voi altri non ne fate conto. Voi potrete ben pregare, ben fare, giammai non potrete compensare la sollecitudine, che mi sono data per voi.»
«Vi ho dati sei giorni per lavorare, mi sono riservato il settimo, e non si vuole accordarmelo. Questo è ciò che rende tanto pesante la mano di mio Figlio.»
«Se le patate si guastano, è tutto per causa vostra. Ve lo feci vedere l’anno scorso (1845); e voi non avete voluto farne caso, e, trovando patate guaste, bestemmiavate mettendovi frammezzo il nome di mio Figlio.»
«Continueranno a guastarsi, e quest’anno per Natale non ne avrete più (1846).»
«Se avete del grano non dovete seminarlo: tutto ciò che voi seminerete, sarà dai vermi mangiato; e quello che nascerà andrà in polvere, quando lo batterete.»
«Verrà una grande carestia» (Avvenne difatti una grande carestia in Francia, e sulle strade si trovavano grandi torme di pezzenti affamati, che si recavano a mille a mille per le città per questuare: e mentre che da noi in Italia incari il grano in sul far della primavera 1847, in Francia per tutto l’inverno del 46 – 47 si patì gran fame. Ma la vera penuria di alimenti, la vera fame fu provata nei disastri della guerra del 1870-71. In Parigi da un grande personaggio fu imbandito ai suoi amici un lauto pranzo di grasso nel venerdì Santo. Pochi mesi dopo in questa medesima città i più agiati cittadini furono costretti a nutrirsi di vili alimenti e di carni dei più sozzi animali. Non pochi morirono di fame)
«Avanti che venga la carestia, i fanciulli al di sotto dei sette anni saranno presi da un tremore e moriranno tra le mani delle persone che li terranno: gli altri faranno penitenza per la carestia.»
«Le noci si guasteranno, e le uve marciranno…» (Nel 1849 le noci andarono a male da per tutto; e quanto alle uve tutti ne lamentano ancora il guasto e la perdita. Ognuno rammenta il guasto immenso che la crittogama cagionò all’uva in tutta l’Europa per lo spazio d’oltre a venti anni dal 1849 al 1869).
«Se si convertono, le pietre e gli scogli si cambieranno in mucchi di grano, e le patate verranno prodotte dalla terra stessa.»
Quindi ci disse:
«Dite voi bene le vostre orazioni, o miei ragazzi?»
Noi rispondemmo entrambi: «Non troppo bene, o Signora.»
«Ah miei fanciulli, dovete dirle bene la sera e la mattina. Quando non avete tempo dite almeno un Pater ed un’Ave Maria: e quando avrete tempo ditene di più.»
«Alla Messa non vanno che alcune donne vecchie, e le altre lavorano alla domenica tutta l’estate; e all’inverno i giovani, quando non sanno che fare, vanno alla Messa per mettere in ridicolo la religione. In quaresima si va alla macelleria a guisa di cani.»
Quindi ella disse: «Non hai tu veduto, o mio ragazzo, del grano guasto?»
Massimino rispose: «Oh! no, Signora.» Io, non sapendo a chi facesse questa domanda, risposi sotto voce.
«No, Signora, non ne ho ancora veduto.»
«Voi dovete averne veduto, mio ragazzo (rivolgendosi a Massimino), una volta verso il territorio di Coin con vostro padre. Il padrone del campo disse a vostro padre che andasse a vedere il suo grano guasto; voi ci siete andati entrambi. Prendeste alcune spighe nelle vostre mani, e strofinate andarono tutte in polvere, e voi vi ritornaste. Quando eravate ancora una mezz’ora distanti da Corps, vostro padre vi diede un pezzo di pane, e vi disse: Prendi, o figlio mio, mangia ancora del pane in quest’anno; non so chi ne mangerà l’anno venturo, se il grano continua a guastarsi in questo modo.»
Massimino rispose: «Oh! sì, Signora, ora me ne ricordo; poco fa non me ne sovveniva.»
Dopo ciò quella Signora ci disse: «Ebbene, miei ragazzi, voi lo farete sapere a tutto il mio popolo.»
Indi ella passò il ruscello, ed a due passi di distanza, senza rivolgersi verso di noi, ci disse di nuovo: «Ebbene, miei ragazzi, voi lo farete sapere a tutto il mio popolo.»
Ella salì di poi una quindicina di passi, sino al luogo ove eravamo andati per cercare le nostre vacche; ma essa camminava sopra l’erba; i suoi piedi non ne toccavano che la cima. Noi la seguivamo; io passai davanti alla Signora e Massimino un poco di fianco, a due o tre passi di distanza. E la bella Signora si è innalzata così (Melania fa un gesto levando la mano di un metro e più); Ella rimase così sospesa nell’aria un momento. Dopo Ella rivolse uno sguardo al Cielo, indi alla terra; dopo non vedemmo più la testa… non più le braccia… non più i piedi… sembrava che si fondesse; non si vide più che un chiarore nell’aria; e dopo il chiarore disparve.
Dissi a Massimino: «È forse una gran santa? Massimino mi rispose: Oh! se avessimo saputo ch’era una gran santa, noi le avremmo detto di condurci con essa. Ed io gli dissi: E se ci fosse ancora? Allora Massimino slanciò la mano per raggiungere un poco del chiarore, ma tutto era scomparso. Osservammo bene, per scorgere se non la vedevamo più.
E dissi: Essa non vuol farsi vedere per non farci sapere dove se ne vada. Dopo ciò andammo dietro alle nostre vacche.»
Questo è il racconto di Melania; la quale interrogata come quella Signora fosse vestita rispose:
«Essa aveva scarpe bianche con rose attorno… ve ne erano di tutti i colori; aveva le calze gialle, un grembiale giallo, una veste bianca tutta cospersa di perle, un fazzoletto bianco al collo contornato di rose, una cuffia alta un poco pendente avanti con una corona di rose attorno. Aveva una catenella, alla quale era appesa una croce col suo Cristo: a diritta una tenaglia, a sinistra un martello; all’estremità della Croce un’altra gran catena pendeva, come le rose intorno al suo fazzoletto da collo. Aveva il volto bianco, allungato; io non poteva riguardarla molto tempo, perché ci abbagliava.»
Interrogato separatamente Massimino fa lo stessissimo racconto, senza variazione alcuna, né per la sostanza e neppure per la forma; il quale perciò ci asteniamo di qui ripetere.
Sono infinite e stravaganti le insidiose domande che loro si fecero, specialmente per ben due anni, e sotto interrogatori di 5, 6, 7 ore di seguito coll’intento di imbarazzarli, di confonderli, di trarli in contraddizione. Certo è, che forse mai nessun reo fu dai tribunali di giustizia investito così con tante difficoltà e interrogazioni intorno ad un delitto imputatogli.

Segreto dei due pastorelli
            Subito dopo l’apparizione, Massimino e Melania, nel far ritorno a casa, s’interrogarono tra di loro, perché mai la gran Dama dopo che ebbe detto «le uve marciranno» ha tardato un poco a parlare e non faceva che muovere le labbra, senza far intendere che cosa dicesse?
Nell’interrogarsi su di ciò a vicenda, diceva Massimino a Melania «A me essa ha detto una cosa, ma mi ha proibito di dirtelo.» S’accorsero entrambi d’aver ricevuto dalla Signora, ciascuno separatamente, un segreto colla proibizione di non dirlo ad altri. Or pensa tu, o lettore, se i ragazzi possono tacere.
È cosa incredibile a dirsi quanto sia fatto e tentato per cavar loro di bocca in qualche modo questo secreto. Fa meraviglia a leggere i mille e mille tentativi adoperati a quest’uopo da centinaia e centinaia di persone per ben vent’anni. Preghiere, sorprese, minacce, ingiurie, regali e seduzioni d’ogni maniera, tutto andò a vuoto; essi sono impenetrabili.
Il vescovo di Grenoble, uomo ottuagenario, si credette in dovere di comandare ai due privilegiati fanciulli di far almeno pervenire il loro segreto al santo Padre, Pio IX. Al nome del Vicario di Gesù Cristo i due pastorelli ubbidirono prontamente e si decisero a rivelare un segreto, che fino allora nulla aveva potuto strappar loro di bocca. L’hanno dunque scritto essi medesimi (dal giorno dell’apparizione in poi erano stati messi alla scuola, e ciascheduno separatamente); quindi piegarono e suggellarono la loro lettera; e tutto ciò alla presenza di persone ragguardevoli, scelte dallo stesso vescovo a servir loro di testimoni. Indi il vescovo inviò due sacerdoti a portare a Roma questo misterioso dispaccio.
Il 18 luglio 1851 rimettevano a S. S. Pio IX tre lettere, una di Monsignor vescovo di Grenoble, che accreditava questi due inviati, le due altre contenevano il segreto dei due giovanetti della Salette; ciascun di essi aveva scritto e sigillata la lettera contenente il suo segreto alla presenza di testimoni che avevano dichiarato l’autenticità delle medesime sulla coperta.
S. S. aprì le lettere, e cominciata a leggere quella di Massimino, «Vi ha proprio, disse, il candore e la semplicità di un fanciullo.» Durante quella lettura si manifestò sul volto del Santo Padre una certa emozione; gli si contrassero le labbra, gli si gonfiarono le gote. «Trattasi, disse il Papa ai due sacerdoti, trattasi di flagelli, di cui la Francia è minacciata. Non essa sola è colpevole, lo sono pure l’Alemagna, l’Italia, l’Europa intiera, e meritano dei castighi. Io temo assai l’indifferenza religiosa ed il rispetto umano.»

Concorso alla Salette
            La fontana, presso alla quale erasi riposata la Signora, cioè la V. Maria, era come dicemmo, asciutta; e, a detta di tutti i pastori e paesani di quei contorni, non dava acqua se non dopo abbondanti piogge e dopo lo scioglimento delle nevi. Ora questa fontana, asciutta nello stesso giorno dell’apparizione, il giorno dopo cominciò a zampillare, e da quell’epoca l’acqua scorre chiara e limpida senza interruzione.
Quella montagna nuda, dirupata, deserta, abitata dai pastori, appena quattro mesi dell’anno, è divenuta il teatro di un concorso immenso di gente. Intere popolazioni traggono da ogni parte a quella privilegiata montagna; e piangendo per tenerezza, e cantando inni e cantici si vedono chinare la fronte sopra quella terra benedetta, dove ha risuonato la voce di Maria: si vedono baciare rispettosamente il luogo santificato dai piedi di Maria; e ne discendono pieni di gioia, di fiducia e di riconoscenza.
Ogni giorno un numero immenso di fedeli vanno devotamente a visitare il luogo del prodigio. Nel primo anniversario dell’apparizione (19 settembre 1847), oltre a settanta mila pellegrini d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni condizione ed anche d’ogni nazione coprivano la superficie di quel terreno…
Ma ciò che fa sentire vie più la potenza di quella voce venuta dal Cielo, è che si produsse un mirabile cambiamento di costumi negli abitanti di Corps, di La Salette, di tutto il cantone e di tutti i dintorni, e in lontane parti ancora si diffonde e si propaga… Hanno cessato di lavorare la Domenica: hanno dismessa la bestemmia… Frequentano la Chiesa, accorrono alla voce dei loro Pastori, si accostano ai santi Sacramenti, adempiono con edificazione il precetto della Pasqua fino a quel momento generalmente negletto. Taccio le molte e strepitose conversioni, e le grazie straordinarie nell’ordine spirituale.
Nel luogo dell’apparizione sorge ora una Chiesa maestosa con vastissimo edifizio, dove i viaggiatori dopo di aver soddisfatta la loro divozione possono agiatamente ristorarsi ed anche passarvi a gradimento la notte.

Dopo il fatto di La Salette Melania fu inviata alle scuole con meraviglioso progresso nella scienza e nella virtù. Ma si sentì ognora sì accesa di divozione verso alla B. V. Maria, che determinò di consacrarsi tutta a Lei. Entrò di fatto nelle carmelitane scalze tra cui, secondo il giornale Echo de Fourvière 22 ottobre 1870, sarebbe stata dalla s. Vergine chiamata al cielo. Poco prima di morire scrisse la seguente lettera a sua madre.

11 settembre 1870.

            Carissima ed amatissima madre,

Che Gesù sia amato da tutti i cuori. – Questa lettera non è solo per voi, ma è per tutti gli abitanti del mio caro paese di Corps. Un padre di famiglia, amorosissimo verso i suoi figli, vedendo che dimenticavano i loro doveri, che disprezzavano la legge loro imposta da Dio, che diventavano ingrati, si risolvette di castigarli severamente. La sposa del Padre di famiglia domandava grazia, e nello stesso tempo si recava dai due più giovani figli del Padre di famiglia, cioè i due più deboli e più ignoranti. La sposa che non può piangere nella casa del suo sposo (che è il Cielo) trova nei campi di questi miserabili figliuoli lagrime in abbondanza: essa espone i suoi timori e le sue minacce, se non si torna indietro, se non si osserva la legge del Padrone di casa. Un piccolissimo numero di persone abbraccia la riforma del cuore, e si mette ad osservare la santa legge del Padre di famiglia; ma ahimè! la maggioranza rimane nel delitto e vi si immerge sempre più. Allora il Padre di famiglia manda dei castighi per punirli e per trarli da questo stato di induramento. Questi figli sciagurati pensano di poter sottrarsi al castigo, afferrano e spezzano le verghe che li percuotono, invece di cader ginocchioni, domandar grazia e misericordia, e specialmente promettere di cambiar vita. Infine il padre di famiglia, irritato ancor di più, da mano ad una verga ancor più forte e batte e batterà infino a che lo si riconosca, si umilino e domandino misericordia a Colui che regna sulla terra e nei cieli.
Voi mi avete capito, cara madre e cari abitanti di Corps: questo Padre di famiglia è Dio. Noi siamo tutti suoi figli; né io né voi l’abbiamo amato come avremmo dovuto; non abbiamo adempito, come conveniva, i suoi comandamenti: ora Dio ci castiga. Un gran numero dei nostri fratelli soldati muoiono, famiglie e città intere son ridotte alla miseria; e se non ci rivolgiamo a Dio, non è finito. Parigi è colpevole assai perché ha premiato un uomo cattivo che ha scritto contro la divinità di Gesù Cristo. Gli uomini hanno un tempo solo per commettere peccati; ma Dio è eterno, e castiga i peccatori. Dio è irritato per la molteplicità dei peccati, e perché è quasi sconosciuto e dimenticato. Ora chi potrà arrestare la guerra che fa tanto male in Francia, e che fra poco ricomincerà in Italia? ecc. ecc. Chi potrà arrestare questo flagello?
Bisogna 1o che la Francia riconosca che in questa guerra vi è unicamente la mano di Dio; 2° che si umili e chieda colla mente e col cuore perdono dei suoi peccati; che prometta sinceramente di servire Dio colla mente e col cuore, e di obbedire ai suoi comandamenti senza rispetto umano. Alcuni pregano, domandano a Dio il trionfo di noi Francesi. No, non è questo che vuole il buon Dio: vuole la conversione dei francesi. La Beatissima Vergine è venuta in Francia, e questa non si è convertita: è perciò più colpevole delle altre nazioni; se non si umilia, sarà grandemente umiliata. Parigi, questo focolare della vanità e dell’orgoglio, chi potrà salvarla se fervorose preghiere non s’innalzano al cuore del buon Maestro?
Mi ricordo, cara madre e carissimi abitanti, del mio caro paese, mi ricordo, quelle devote processioni, che facevate sul sacro monte della Salette, perché la collera di Dio non colpisse il vostro paese! La S. Vergine ascoltò le vostre fervide preci, le vostre penitenze e tutto quanto faceste per amor di Dio. Penso e spero, che attualmente tanto più dovete fare delle belle processioni per la salvezza della Francia; cioè perché la Francia ritorni a Dio, perché Dio non aspetta che questo per ritirare la verga, di cui si serve per flagellare il suo popolo ribelle. Preghiamo dunque molto, sì, preghiamo; fate le vostre processioni, come le faceste nel 1846 e ‘47: credete che Dio ascolta sempre le preghiere sincere dei cuori umili. Preghiamo molto, preghiamo sempre. Non ho mai amato Napoleone, perché ricordo la intiera sua vita. Possa il divin Salvatore perdonargli tutto il male che ha fatto; e che fa ancora!
Ricordiamoci che siam creati per amare e servire Dio, e che fuori di questo non vi ha vera felicità. Le madri allevino cristianamente i loro figliuoli, perché il tempo delle tribolazioni non è finito. Se io ve ne svelassi il numero e le qualità, ne restereste inorriditi. Ma non voglio spaventarvi; abbiate fiducia in Dio, che ci ama infinitamente più dì quello che noi possiamo amarlo. Preghiamo, preghiamo, e la buona, la divina, la tenera Vergine Maria sarà sempre con noi: la preghiera disarma la collera di Dio; la preghiera è la chiave del Paradiso.
Preghiamo pei nostri poveri soldati, preghiamo per tante madri desolate per la perdita dei loro figliuoli, consacriamo noi stessi alla nostra buona Madre celeste: preghiamo per questi ciechi, che non vedono che è la mano di Dio, che ora percuote la Francia. Preghiamo molto e facciamo penitenza. Tenetevi tutti attaccati alla santa Chiesa, e al nostro S. Padre che ne è il Capo visibile e il Vicario di Nostro Signor Gesù Cristo sulla terra. Nelle vostre processioni, nelle vostre penitenze pregate molto per lui. Infine mantenetevi in pace, amatevi come fratelli, promettendo a Dio di osservare i suoi comandamenti e di osservarli davvero. E per la misericordia di Dio voi sarete felici, e farete una buona e santa morte, che desidero a tutti mettendovi tutti sotto la protezione dell’augusta Vergine Maria. Abbraccio di cuore (i parenti). La mia salute è nella Croce. Il cuore di Gesù veglia su di me.

Maria, della Croce, vittima di Gesù

Prima parte della pubblicazione “Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette con altri fatti prodigiosi, raccolti da pubblici documenti pel sacerdote Giovanni Bosco”, Torino, Tipografia dell’Oratorio di s. Francesco di Sales, 1871




Corona dei sette dolori di Maria

La pubblicazione “Corona dei sette dolori di Maria” rappresenta una cara devozione che san Giovanni Bosco inculcava ai suoi giovani. Seguendo la struttura della “Via Crucis”, le sette scene dolorose sono proposte con brevi considerazioni e preghiere, per guidare a una più viva partecipazione alle sofferenze di Maria e del suo Figlio. Ricco di immagini affettive e di spiritualità contrita, il testo riflette il desiderio di unirsi all’Addolorata nella compassione redentrice. Le indulgenze concesse da vari Pontefici attestano l’alto valore pastorale del testo che è un piccolo tesoro di preghiera e riflessione, per alimentare l’amore verso la Madre dei dolori.

Proemio
II primario fine di questa Operetta è di facilitare la rimembranza e la meditazione degli acerbissimi Dolori del tenero Cuore di Maria, cosa a Lei molto gradita, come più volte ha rivelato ai suoi devoti, e mezzo per noi efficacissimo per ottenere il suo patrocinio.
Affinché poi si renda più facile lo esercizio di una tale Meditazione si praticherà primieramente con una corona in cui sono accennati i sette principali dolori di Maria, i quali si potranno quindi meditare in sette distinte brevi considerazioni nel modo che suole farsi la Via Crucis.
Ci accompagni il Signore colla sua celeste grazia e benedizione perché si ottenga il bramato intento, sicché l’anima di ciascuno resti vivamente penetrata dalla frequente memoria dei dolori di Maria con vantaggio spirituale dell’anima, e tutto a maggior gloria di Dio.

Corona dei sette dolori della Beata Vergine Maria con sette brevi considerazioni sopra i medesimi esposte in forma della Via Crucis

Preparazione
Carissimi fratelli e sorelle in Gesù Cristo, noi facciamo i nostri soliti esercizi meditando devotamente gli acerbissimi dolori che la B. V. Maria patì nella vita e morte del suo amato Figlio e nostro Divin Salvatore. Immaginiamoci di trovarci presenti a Gesù pendente in croce, e che l’afflitta sua madre dica a ciascuno di noi: Venite, e vedete se vi è dolore eguale al mio.
Persuasi che questa Madre pietosa ci voglia concedere speciale protezione nel meditare i suoi dolori, invochiamo il Divino aiuto colle seguenti preghiere:

Antif. Veni, Sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium, et tui amoris in eis ignem accende.

Emitte Spiritum tuum et creabuntur
Et renovabis faciem terrae.
Memento Congregationis tuae,
Quam possedisti ab initio.
Domine exaudi orationem meam.
Et clamor meus ad te veniat.

Oremus.
Mentes nostras, quaesumus, Domine, lumine tuae claritatis illustra, ut videre possimus quae agenda sunt, et quae recta sunt, agere valeamus. Per Christum Dominum Nostrum. Amen.

Primo dolore. Profezia di Simeone
Il primo dolore fu allora quando la Beata Vergine Madre di Dio avendo presentato l’unico suo Figlio al Tempio nelle braccia del santo vecchio Simeone, le fu dal medesimo detto: questo sarà una spada che trapasserà l’anima tua, la qual cosa denotava la passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Vergine addolorata, per quell’acutissima spada, con cui il santo vecchio Simeone vi predisse che sarebbe stata trafitta l’anima vostra nella passione e morte del vostro caro Gesù, vi supplico ad impetrarmi grazia di aver sempre presente la memoria del vostro cuore trafitto e delle acerbissime pene sofferte dal vostro Figlio per la mia salute. Così sia.

Secondo dolore. Fuga in Egitto
Il secondo dolore della Beata Vergine fu quando le convenne fuggire in Egitto per la persecuzione del crudele Erode, che empiamente cercava di uccidere il suo amato Figlio.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Maria, mare amarissimo di lagrime, per quel dolore che provaste fuggendo in Egitto per assicurare il vostro Figliuolo dalla barbara crudeltà di Erode, vi supplico che vogliate essere mia guida, affinché per mezzo vostro io resti libero dalle persecuzioni dei visibili e invisibili nemici dell’anima mia. Così sia.

Terzo dolore. Perdita di Gesù nel tempio
Il terzo dolore della Beata Vergine fu quando al tempo della Pasqua, dopo di essere stata col suo sposo Giuseppe e coll’amato figlio Gesù Salvatore in Gerusalemme, nel ritornarsene alla sua povera casa, lo smarrì e per tre giorni continui sospirò la perdita del suo unico Diletto.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Madre sconsolata, voi che nella perdita della presenza corporale del vostro Figlio, lo andaste per tre giorni continui ansiosamente cercando, deh! impetrate grazia a tutti i peccatori onde ancora essi lo vadano cercando con atti di contrizione e lo ritrovino. Così sia.

Quarto dolore. Incontro di Gesù che porta la Croce
Il quarto dolore della Beata Vergine fu quando s’incontrò col suo dolcissimo Figlio che portava una pesante croce sulle delicate spalle al Monte Calvario a fine di essere crocifisso per la nostra salute.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Vergine più d’ogni altra appassionata, per quello spasimo che provaste nel cuore incontrandovi nel vostro Figlio mentre portava il legno della Santissima Croce verso il Monte Calvario, fate, vi prego, che io ancora l’accompagni di continuo col pensiero, pianga le mie colpe, manifesta cagione dei suoi e vostri tormenti. Così sia.

Quinto dolore. Crocifissione di Gesù
Il quinto dolore della B. Vergine fu quando vide il suo Figlio alzato sopra il duro tronco della Croce, che da ogni parte del suo Sacratissimo Corpo versava sangue.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Rosa fra le spine, per quegli amari dolori che trafissero il vostro seno rimirando cogli occhi propri trafitto e sollevato in Croce il vostro Figlio, ottenetemi, vi prego, che con assidue meditazioni solo ricerchi Gesù crocifisso a cagione dei miei peccati. Così sia.

Sesto dolore. Deposizione di Gesù dalla croce
Il sesto Dolore della Beata Vergine fu allora quando il suo amato Figliuolo essendo ferito nel costato dopo la sua morte e deposto dalla Croce, così spietatamente ucciso, venne posto tra le sue Santissime braccia.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Vergine travagliata, voi che sconfitto di Croce il vostro Figlio, l’accoglieste morto nel grembo, e baciando quelle sacratissime Piaghe, vi spargeste sopra un mare di lagrime, deh! fate che anch’io con lagrime di vera compunzione lavi di continuo le ferite mortali che vi fecero i miei peccati. Così sia.

Settimo dolore. Sepoltura di Gesù.
Il settimo Dolore di Maria Vergine Signora ed Avvocata di noi suoi servi e miseri peccatori fu quando accompagnò il Santissimo Corpo del suo Figlio alla sepoltura.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Martire dei Martiri Maria, per quell’acerbo tormento che soffriste allorché sepolto il vostro Figlio vi convenne allontanarvi da quella tomba amata, ottenete grazia, vi prego, a tutti i peccatori, affinché conoscano di quanto grave danno sia all’anima l’essere lontana dal suo Dio. Così sia.

Si reciteranno tre Ave Maria in segno di profondo rispetto alle lagrime che sparse la Beata Vergine in tutti i suoi Dolori per impetrare per mezzo suo un simile pianto per i nostri peccati.
Ave Maria etc.

Finita la Corona si recita il pianto della Beata Vergine, ossia l’inno Stabat Mater etc.

Inno – Pianto della Beata Vergine Maria

Stabat Mater dolorosa
Iuxta crucem lacrymosa,
Dum pendebat Filius.

Cuius animam gementem
Contristatam et dolentem
Pertransivit gladius.

O quam tristis et afflicta
Fuit illa benedicta
Mater unigeniti!

Quae moerebat, et dolebat,
Pia Mater dum videbat.
Nati poenas inclyti.

Quis est homo, qui non fleret,
Matrem Christi si videret
In tanto supplicio?

Quis non posset contristari,
Christi Matrem contemplari
Dolentem cum filio?

Pro peccatis suae gentis
Vidit Iesum in tormentis
Et flagellis subditum.

Vidit suum dulcem natura
Moriendo desolatum,
Dum emisit spiritum.

Eia mater fons amoris,
Me sentire vim doloris
Fac, ut tecum lugeam.

Fac ut ardeat cor meum
In amando Christum Deum,
Ut sibi complaceam.

Sancta Mater istud agas,
Crucifixi fige plagas
Cordi meo valide.

Tui nati vulnerati
Tam dignati pro me pati
Poenas mecum divide.

Fac me tecum pie flere,
Crucifixo condolere,
Donec ego vixero.

Iuxta Crucem tecum stare,
Et me tibi sociare
In planctu desidero.

Virgo virginum praeclara,
Mihi iam non sia amara,
Fac me tecum plangere.

Fac ut portem Christi mortem,
Passionis fac consortem,
Et plagas recolere.

Fac me plagis vulnerari,
Fac me cruce inebriari,
Et cruore Filii.

Flammis ne urar succensus,
Per te, Virgo, sim defensus
In die Iudicii.

Christe, cum sit hine exire,
Da per matrem me venire
Ad palmam victoriae.

Quando corpus morietur,
Fac ut animae donetur
Paradisi gloria. Amen.

Stava Maria dolente
Senza respiro e voce
Mentre pendeva in croce
Del mondo il Redentor.

E nel fatale istante
Crudo materno affetto
Le trafiggeva il petto,
Le lacerava il cor.

Qual di quell’Alma bella
Fosse lo strazio indegno,
No, che l’umano ingegno
Immaginar non può.

Vedere un Figlio… un Dio…
Che palpita, che more!
Sì barbaro dolore
Qual madre mai provò?

Alla funerea scena
Chi tiene il pianto a freno,
Un cuor di tigre ha in seno,
O core in sen non ha.

Chi può mirar in tante
Pene una Madre, un Figlio
E non bagnar il ciglio,
E non sentir pietà?

Per cancellar i falli
D’un popol empio, ingrato
Vide Gesù piagato
Languire e spasimar.

Vide sull’atro Golgota
Il figlio tuo diletto
Chinar la fronte al petto,
E l’anima sua spirar.

O dolce Madre, o puro
Fonte di santo amore,
Parte del tuo dolore
Fa che mi scenda al cor.

Fa, che il pensier profano
Sdegnosamente io sprezzi,
Che a sospirar m’avvezzi
Sol di celeste ardor.

Le barbare ferite
Prezzo del mio delitto,
Del figlio tuo trafitto
Passino, o Madre, in me.

A me dovuti sono
Gli strazi, ch’Ei soffri;
Deh! fa, che possa anch’io
Piangere almen con te.

Teca si strugga in lagrime
Quest’anima gemente:
È se non fu innocente,
Terga il suo fallo almen.

Teco alla Croce accanto
Star, cara Madre, io voglio,
Compagno a quel cordoglio,
Che ti trafigge il sen.

Ah! tu, che delle Vergini
Regina in Ciel ti assidi,
Ah tu propizia arridi
Ai voti del mio cor.

Del buon Gesù spirante
Sul fero tronco esangue
La croce, il fiele, il sangue
Fa ch’io rammenti ognor.

Del Salvator rinnova
In me lo scempio atroce,
Il sangue, il fiel, la Croce
Tutto provar mi fa.

Ma nell’estremo giorno,
Quando ci verrà sdegnato,
Rendalo a me placato,
Maria, la tua pietà.

Gesù che nulla nieghi
A chi tua Madre implora,
Del mio morir nell’ora
Non mi negar mercè.

E quando sia disciolto
Dal suo corporeo velo,
Fa che il mio spirto in Cielo
Voli a regnar con te.

Il Sommo Pontefice Innocenzo XI concede l’indulgenza di 100 giorni ogni volta che si recita lo Stabat Mater. Benedetto XIII accordò l’indulgenza di sette anni a chi reciterà la Corona dei sette dolori di Maria. Moltissime altre indulgenze furono concesse da altri sommi Pontefici specialmente ai Confratelli e Consorelle della compagnia di Maria Addolorata.

I sette dolori di Maria meditati in forma della Via Crucis

S’invochi il divino aiuto dicendo:
Actiones nostras, quaesumus Domine, aspirando praeveni, et adiuvando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a te semper incipiat, et per te coepta finiatur. Per Christum Dominum Nostrum. Amen.

Atto di Contrizione
Afflittissima Vergine, ahi! quanto sconoscente nel tempo trascorso io sono stato verso il mio Dio, con quanta ingratitudine ho corrisposto agl’innumerabili suoi benefizi! Ora me ne pento, e nell’amarezza del mio cuore e nel pianto dell’anima mia, domando a Lui umilmente perdono per avere oltraggiato la sua infinita bontà, resolutissimo in avvenire colla celeste grazia di non mai più offenderlo. Deh? per tutti i dolori che sopportaste nella barbara passione del vostro amato Gesù vi prego coi più profondi sospiri ad ottenermi dal medesimo, pietà e misericordia dei miei peccati. Gradite questo santo esercizio che sono per fare e ricevetelo in unione di quelle pene e di quei dolori che Voi soffriste per il vostro figliuolo Gesù. Ah concedetemi! sì concedetemi che quelle stesse spade che trafissero il vostro spirito, trapassino anche il mio, e che viva e muoia nell’amicizia del mio Signore, per partecipare eternamente della gloria che egli mi ha acquistato con il suo prezioso Sangue. Così sia.

Primo dolore
In questo primo dolore immaginiamoci di trovarci nel tempio di Gerusalemme, dove la Beatissima Vergine ascoltò la profezia del vecchio Simeone.

Meditazione
Ah! Quali ambasce avrà provato il cuore di Maria nel sentire le dolorose parole, con cui le era predetta dal Santo vecchio Simeone l’acerba passione e l’atroce morte del suo dolcissimo Gesù: mentre in quello stesso punto si affacciarono alla di lei mente gli affronti, gli strapazzi e le carneficine che gli empi Giudei avrebbero fatto del Redentore del mondo. Ma sai quale fu la spada più penetrante che in questa circostanza la trafisse? Fu il considerare l’ingratitudine con cui il diletto suo Figlio sarebbe stato contraccambiato dagli uomini. Ora riflettendo che, per cagione dei tuoi peccati sei miseramente nel numero di questi tali, ah! gettati ai piè di questa Madre Addolorata e dille piangendo così (ognuno s’inginocchia): Deh! Pietosissima Vergine, che provaste un sì acerbo spasimo nel vostro spirito vedendo l’abuso quale io indegna creatura avrei fatto del sangue del vostro amabile Figlio, fate, sì fate per il vostro afflittissimo Cuore, che io in avvenire corrisponda alle Divine Misericordie, mi approfitti delle celesti grazie, non riceva invano tanti lumi e tante inspirazioni che voi vi degnerete ottenermi onde abbia la sorte di essere nel numero di coloro per i quali l’amara passione di Gesù saia di eterna salvezza. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Secondo dolore
In questo secondo dolore consideriamo il penosissimo viaggio che la Vergine fece verso l’Egitto per liberare Gesù dalla crudele persecuzione di Erode.

Meditazione
Considera l’acerbo dolore che avrà provato Maria quando di notte tempo dovette mettersi in cammino per ordine dell’Angelo a fine di preservare il suo Figliuolo dalla strage ordinata da quel fierissimo Principe. Ah! che ad ogni grido di animale, ad ogni soffio di vento, ad ogni moto di foglia che sentiva per quelle strade deserte si riempieva di spavento per timore di qualche inconveniente al bambino Gesù che seco portava. Ora si rivolgeva da una parte, ora dall’altra, or affrettava il passo, ora si nascondeva credendosi di essere sopraggiunta dai soldati, che strappando dalle sue braccia il suo amabilissimo Figlio ne avessero fatto sotto gli sguardi suoi barbaro trattamento e fissando l’occhio lagrimoso sopra il suo Gesù e stringendolo fortemente al petto, dandogli mille baci, mandava dal cuore i più affannosi sospiri. E qui rifletti quante volte hai tu rinnovato questo acerbo dolore a Maria sforzando il suo Figliuolo coi tuoi gravi peccati a fuggire dall’anima tua. Ora che conosci il gran male commesso rivolgiti pentito a questa pietosa Madre e dille così:
Ah Madre dolcissima! Una volta Erode costrinse voi con il vostro Gesù a prendere la fuga per l’inumana persecuzione da esso comandata; ma io oh! quante volte obbligai il mio Redentore e per conseguenza ancora voi a partire rapidamente dal mio cuore, introducendo nel medesimo il maledetto peccato, spietato nemico vostro e del mio Dio. Deh! tutto dolente e contrito ve ne domando umilmente perdono.
Sì, misericordia, o cara Madre, misericordia, e vi prometto in avvenire col Divino aiuto di mantenere sempre il mio Salvatore e Voi nel totale possesso dell’anima mia. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Terzo dolore
In questo terzo dolore consideriamo l’afflittissima Vergine che lagrimosa va in traccia del suo smarrito Gesù.

Meditazione
Quanto mai fu grande la pena di Maria, quando si avvide di avere perduto l’amabile suo Figlio! e come si accrebbe il suo dolore allorché avendolo diligentemente ricercato presso gli amici, parenti e vicini non poté avere alcuna notizia di Lui. Essa non badando agl’incomodi, alla stanchezza, ai pericoli andò raminga tre giorni continui per le contrade della Giudea, ripetendo quelle parole di desolazione: forse alcuno ha veduto colui che veramente ama l’anima mia? Ah! che la grande ansietà con cui lo andava ricercando, le faceva immaginare ad ogni momento di vederlo, o di ascoltarne la voce: ma poi conoscendosi delusa, oh come si raccapricciava e più sensibile provava il rammarico di una tale deplorabilissima perdita! Confusione grande per le, o peccatore, il quale avendo tante volte smarrito il tuo Gesù coi gravi mancamenti commessi, non ti desti alcuna premura di andarlo a ricercare, chiaro segno, che poco o niuno conto fai del prezioso tesoro della Divina amicizia. Piangi dunque la tua cecità, e volgendoti a quest’Addolorata Madre, dille sospirando così:
Afflittissima Vergine, deh fate che impari da voi il vero modo di andare in cerca di Gesù ch’io ho smarrito per secondare le mie passioni e le inique suggestioni del demonio, acciocché mi riesca di ritrovarlo, e quando ne sarò tornato in possesso, ripeterò continuamente quelle vostre parole: Ho ritrovato quello che veramente ama il mio cuore; lo riterrò sempre con me, né lo lascerò mai più partire. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Quarto dolore
Nel quarto dolore consideriamo l’incontro che fece l’addolorata Vergine col suo appassionato Figliuolo.

Meditazione
Venite pure, o cuori indurati e provate se potete reggere a questo lagrimevolissimo spettacolo. È una madre la più tenera, la più amorosa che incontra un suo Figlio il più dolce, il più amabile; e come l’incontra? Oh Dio! in mezzo alla più empia ciurmaglia che lo strascina crudelmente alla morte, carico di piaghe, grondante di sangue, lacero per le ferite, con una corona di spine in testa e con un tronco pesante sopra le spalle, affannato, ansante, languente che pare ad ogni passo voglia esalare l’estremo respiro.
Ah! considera, anima mia, l’arresto mortale che fa la Santissima Vergine al primo sguardo che fissa sopra il suo tormentato Gesù; vorrebbe dargli l’ultimo addio, ma e come, se il dolore la impedisce di proferir parola? Vorrebbe gettarglisi al collo, ma resta immobile ed impietrita per la forza dell’interna afflizione; vorrebbe sfogarsi con il pianto, ma si sente talmente serrato ed oppresso il cuore, che non gli riesce di versare una lagrima. Oh! e chi può frenare le lagrime vedendo una povera Madre immersa in sì grande affanno? Ma chi mai è la cagione di una tale acerbissima pena? Ah, sano io, sì sono io con i miei peccati che ho fatto si barbara ferita al tenero vostro cuore, o Vergine Addolorata. Pure chi lo crederebbe? Resto insensibile senza punto essere commosso. Ma se fui ingrato per il passato, per l’avvenire non lo sarò più.
Intanto prostrato ai vostri piedi, o Vergine Santissima, vi domando umilmente perdono di tanto rammarico che vi ho cagionato. Lo conosco e lo confesso che non merito pietà, essendo io il vero motivo per cui cadeste di dolore all’incontrare il vostro Gesù tutto coperto di piaghe; ma ricordatevi, sì ricordatevi che siete madre di misericordia. Ah dimostratevi dunque tale verso di me, ch’io vi prometto in avvenire di essere più fedele al mio Redentore, e così compensare tanti disgusti che ho dato al vostro afflittissimo spirito. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Quinto dolore
In questo quinto dolore immaginiamoci di trovarci sul Monte Calvario dove l’afflittissima Vergine vide spirare in Croce il suo amato Figliuolo.

Meditazione
Eccoci al Calvario ove già sono innalzati due altari di sacrificio, uno nel corpo di Gesù, l’altro nel cuore di Maria. Oh funesto spettacolo! Miriamo la Madre affogata in un mare di affanni vedendosi rapito da spietata morte il caro ed amabile parto delle sue viscere. Ahimè! Ogni martellata, ogni piaga, ogni lacerazione che sopra le sue carni riceve il Salvatore, profondamente rimbombano nel cuore della Vergine. Essa sta ai piedi della Croce talmente penetrata dalla pena e trafitta per il cordoglio che non sapresti decidere chi sia per essere il primo a spirare, se Gesù, o Maria. Fissa l’occhio sul volto del suo Figlio agonizzante, considera le pupille languenti, il volto pallido, le labbra livide, il respiro difficile e conosce finalmente che egli più non vive e che già ha consegnato lo spirito in seno dell’eterno suo Padre. Ah che l’anima di Lei fa allora ogni sforzo possibile per dividersi dal corpo ed unirsi a quella di Gesù. E chi può reggere a tale vista.
Oh addoloratissima Madre, voi invece di ritirarvi dal Calvario, a fine di non sentire sì al vivo le angosce, là ve ne state immobile per assorbire fino all’ultima stilla l’amaro calice delle vostre afflizioni. Che confusione dev’essere questa per me che cerco tutti i modi per scansare le croci e quei piccioli patimenti che per mio bene si degna mandarmi il Signore? Vergine addoloratissima, io mi umilio dinanzi a voi, deh! fate, che conosca una volta chiaramente il pregio ed il valore grande del patire, onde ci prenda tanto attaccamento, che non mi sazi mai di esclamare con S. Francesco Saverio: Plus Domine, Plus Domine, più patire, mio Dio. Ah sì, più patire, o mio Dio. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Sesto dolore
In questo sesto dolore immaginiamoci di vedere la sconsolarsi ma Vergine che riceve fra le braccia il defunto suo Figlio deposto dalla Croce.

Meditazione
Considera l’acerbissima pena che penetrò l’anima di Maria, allorché vide nel suo seno posto il corpo defunto dell’amato Gesù. Ah! che nel fissare lo sguardo sopra le ferite e sopra le piaghe di lui, nel mirarlo rosseggiante del proprio sangue, fu tale l’impeto dell’interno cordoglio, che fu il suo cuore mortalmente trafitto, e se non morì fu l’onnipotenza Divina che la conservò in vita. O povera Madre, si, povera madre, che conducete alla tomba il caro oggetto delle vostre più tenere compiacenze, e che da un mazzo di rose è divenuto un fascio di spine per i maltrattamenti e lacerazioni fattegli dagli empi manigoldi. E chi non vi compatirà? Chi non si sentirà struggere dal dolore vedendovi in uno stato di afflizione da muovere a pietà anche il più duro macigno? Osservo Giovanni inconsolabile, la Maddalena colle altre Marie che si ciucciano acerbamente, Nicodemo che non può più reggere per l’afflizione. Ed io? io solo non verso una lagrima in mezzo a tanto duolo! Ingrato e sconoscente che sono!
Deh! Madre pietosissima, eccomi ai vostri piedi, ricevetemi sotto la potente vostra protezione e fate che questo mio cuore resti trafitto da quella medesima spada che passò parte a parte il vostro afflittissimo spirito, onde si ammollisca una volta e pianga davvero i miei gravi peccati che hanno portato a Voi sì crudo martirio. E così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Settimo dolore
In questo settimo dolore consideriamo l’addoloratissima Vergine che vede chiudere nel sepolcro il suo defunto Figliuolo.

Meditazione
Considera che mortale sospiro mandò l’afflitto cuore di Maria quando vide posto nella tomba il suo amabile Gesù! Oh che pena, che cordoglio provò il suo spirito allorché fu alzata la pietra con cui si doveva chiudere quel sacratissimo monumento! Non era possibile distaccarla dall’orlo del sepolcro, mentre il dolore era tale, che la rendeva insensibile ed immobile, non cessando mai di rimirare quelle piaghe e quelle crudeli ferite. Quando poi venne la tomba serrata o allora sì che tale fu la forza dell’interno rammarico, che sarebbe senza dubbio caduta estinta se Iddio non l’avesse in vita conservata. Oh travagliatissima madre! Voi partirete adesso col corpo da questo luogo, ma qui sicuramente resterà il vostro cuore, essendo qui il vostro vero tesoro. Ah fato, che in compagnia di lui resti tutto il nostro affetto, tutto il nostro amore, lì come potrà essere che non ci struggiamo di benevolenza verso il Salvatore, che ha dato tutto il suo sangue per nostra salvezza? Come potrà essere che noi non amiamo Voi che tanto avete sofferto per nostra cagione.
Ora noi dolenti e pentiti di aver cagionato tanti dolori al vostro Figlio e a voi tanta amarezza ci prostriamo ai vostri piedi e per tutte quelle pene che ci faceste la grazia di meditare, concedeteci questo favore: che la memoria delle medesime resti sempre vivamente impressa nella nostra mente, che si consumino i nostri cuori per amore del nostro buon Dio, e di Voi nostra dolcissima Madre, e che l’ultimo sospiro della nostra vita sia unito a quelli che versaste dal fondo dell’anima vostra nella dolorosa passione di Gesù, a cui sia onore, gloria, e rendimento di grazie per tutti i secoli dei secoli. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Quindi si dice lo Stabat Mater, come sopra.

Antifona. Tuam ipsius animam (ait ad Mariam Simeon) pertransiet gladius.
Ora pro nobis Virgo Dolorosissima.
Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Oremus
Deus in cuius passionem secundum Simeonis prophetiam, dulcissimam animam Gloriosae Virginis et Matris Mariae doloris gladius pertransivit, concede propitius, ut qui dolorum eius memoriam recolimus, passionis tuae effectum felicem consequamur. Qui vivis etc.

Laus Deo et Virgo Dolorosissimae.

Con permissione della Revisione Ecclesiastica

La Festa dei Sette dolori di Maria Vergine Addolorata che si celebra dalla Pia Unione e Società, cade alla terza domenica di settembre nella Chiesa di S. Francesco d’Assisi.

Testo della 3a edizione, Torino, Tipografia di Giulio Speirani e figli, 1871




La pastora, le pecore e agnelli (1867)

Nel brano che segue, Don Bosco, fondatore dell’Oratorio di Valdocco, racconta ai suoi giovani un sogno avuto tra il 29 e il 30 maggio 1867 e narrato la sera della Domenica della Santissima Trinità. In una pianura sconfinata, greggi e agnelli diventano allegoria del mondo e dei ragazzi: prati rigogliosi o deserti aridi figurano la grazia e il peccato; corna e ferite denunciano scandalo e disonore; la cifra «3» preannuncia tre carestie – spirituale, morale, materiale – che minacciano chi si allontana da Dio. Dal racconto sgorga l’appello pressante del santo: custodire l’innocenza, tornare alla grazia con la penitenza, così che ogni giovane possa rivestirsi dei fiori della purezza e partecipare alla gioia promessa dal buon Pastore.

                La Domenica della SS. Trinità, 16 giugno, nella qual festa ventisei anni addietro Don Bosco aveva celebrata la sua prima messa, i giovani erano in aspettazione del sogno, il cui racconto era stato da lui annunziato il giorno 13. Il suo ardente desiderio era il bene del suo gregge spirituale, e sempre sua norma gli ammonimenti e le promesse del capo XXVII, v. 23-25 del libro dei Proverbi: Diligenter agnosce vultum pecoris tui, tuosque greges considera: non enim habebis iugiter potestatem: sed corona tribuetur in generationem et generationem. Aperta sunt prata, et apparuerunt herbae virentes, et collecta sunt foena de montibus… (Preoccupati dello stato del tuo gregge, abbi cura delle tue mandrie, perché le ricchezze non sono eterne e una corona non dura per sempre. Tolto il fieno, ricresce l’erba nuova e si raccolgono i foraggi sui monti, Pro 27,23-25). Colle sue preghiere chiedeva di acquistare conoscenza esatta delle sue pecorelle, di aver la grazia di vigilarle attentamente, di assicurarne la custodia anche dopo la sua morte e di vederle provviste di facile e comodo nutrimento spirituale e materiale. Don Bosco adunque, dopo le orazioni della sera, così parlò:

                In una delle ultime notti del mese di Maria, il 29 o 30 maggio, essendo in letto e non potendo dormire, pensava ai miei cari giovani e diceva fra me stesso.
                – Oh se potessi sognare qualche cosa che fosse di loro profitto!
                Stetti alquanto riflettendo e mi risolsi:
                – Sì! adesso voglio fare un sogno per i giovani!
                Ed ecco che restai addormentato. Non appena il sonno mi ebbe preso, mi trovai in una immensa pianura coperta da un numero sterminato di grosse pecore, le quali divise in gregge pascolavano in prati estesi a vista d’occhio. Volli avvicinarmi ad esse e mi diedi a cercare il pastore, meravigliandomi che vi potesse essere al mondo chi possedesse così gran numero di pecore. Cercai per breve tempo, quando mi vidi innanzi un pastore appoggiato al suo bastone. Subito mi feci ad interrogarlo e gli domandai:
                – Di chi è questo gregge così numeroso?
                Il pastore non mi diede risposta. Replicai la domanda ed allora mi disse:
                – Che cosa hai da saper tu?
                – E perché, gli soggiunsi, mi rispondi in questo modo?
                – Ebbene: questo gregge è del suo padrone!
                Del suo padrone? Lo sapevo già questo; dissi fra me. Ma, continuai ad alta voce:
                – Chi è questo padrone?
                – Non t’infastidire, mi rispose il pastore: lo saprai.
                Allora percorrendo con lui quella valle mi diedi ad esaminare il gregge e tutta quella regione per la quale questo andava vagando. La valle era in alcuni luoghi coperta di ricca verdura con alberi che stendevano larghe frondi con ombre graziose ed erbe freschissime delle quali si pascevano belle e floride pecore. In altri luoghi la pianura era sterile, arenosa, piena di sassi con spineti senza foglie, e di gramigne giallastre, e non aveva un filo d’erba fresca; eppure anche qui vi erano moltissime altre pecore che pascolavano, ma d’aspetto miserabile.
                Io domandava varie spiegazioni al mio condottiero intorno a questo gregge, ed egli, senza dar veruna risposta alle mie domande, mi disse:
                – Tu non sei destinato per loro. A queste tu non devi pensare. Ti condurrò io a vedere il gregge del quale devi prenderti cura.
                – Ma tu chi sei?
                – Sono il padrone; vieni meco a guardar là, da quella parte.
                E mi condusse in un altro punto della pianura dove erano migliaia e migliaia di soli agnellini. Questi erano tanto numerosi che non si potevano contare, ma così magri che a stento passeggiavano. Il prato era secco ed arido e sabbioso e non vi si scorgeva un fil d’erba fresca, un ruscello; ma solo qualche sterpo disseccato e cespugli inariditi. Ogni pascolo era stato pienamente distrutto dagli stessi agnelli.
                Si vedeva a prima vista che quei poveri agnelli coperti di piaghe avevano molto sofferto e molto soffrivano ancora. Cosa strana! Ciascuno aveva due corna lunghe e grosse che gli spuntavano sulla fronte, come se fossero vecchi montoni e sulla punta delle corna avevano una appendice in forma di “S”. Meravigliato, me ne stava perplesso nel vedere quella strana appendice di genere così nuovo, e non sapeva darmi pace perché quegli agnellini avessero già le corna così lunghe e grosse, ed avessero distrutto già così presto tutta la loro pastura.
                – Come va questo? dissi al pastore. Son ancora così piccoli questi agnelli ed hanno già tali corna?
                – Guarda, mi rispose; osserva.
                Osservando più attentamente vidi che quegli agnelli in tutte le parti del corpo, sul dosso, sulla testa, sul muso, sulle orecchie, sul naso, sulle gambe, sulle unghie portavano stampati tanti numeri “3” in cifra.
                – Ma che vuol dire ciò? esclamai. Io non capisco niente.
                – Come, non capisci? disse il pastore: Ascolta adunque e saprai tutto. Questa vasta pianura è il gran mondo. I luoghi erbosi la parola di Dio e la grazia. I luoghi sterili ed aridi sono quei luoghi dove non si ascolta la parola di Dio e solo si cerca di piacere al mondo. Le pecore sono gli uomini fatti, gli agnelli sono i giovanetti e per questi Iddio ha mandato D. Bosco. Quest’angolo di pianura che tu vedi è l’Oratorio e gli agnelli ivi radunati i tuoi fanciulli. Questo luogo così arido figura lo stato di peccato. Le corna significano il disonore. La lettera “S” vuol dire scandalo. Essi col mal esempio vanno alla rovina. Fra questi agnelli ve ne sono alcuni che hanno le corna rotte; furono scandalosi, ma ora hanno cessato di dare scandalo. Il numero “3” vuol dire che portano la pena della colpa, cioè che soffriranno tre grandi carestie; carestia spirituale, morale, materiale. 1° La carestia d’aiuti spirituali: domanderanno questo aiuto e non l’avranno. 2 ° Carestia di parola di Dio. 3° Carestia di pane materiale. L’aver gli agnelli mangiato tutto, significa non rimaner più loro altro che il disonore e il numero “3”, ossia le carestie. Questo spettacolo mostra eziandio le sofferenze attuali di tanti giovani in mezzo al mondo. Nell’Oratorio anche quelli che pur ne sarebbero indegni non mancano di pane materiale.
                Mentre io ascoltava ed osservava ogni cosa come smemorato, ecco nuova meraviglia. Tutti quelli agnelli cambiarono aspetto!
                Alzatisi sulle gambe posteriori divennero alti e tutti presero la forma di altrettanti giovanetti. Io mi avvicinai per vedere se ne conoscessi alcuno. Erano tutti giovani dell’Oratorio. Moltissimi io non li aveva mai veduti, ma tutti si dichiaravano essere figli del nostro Oratorio. E fra quelli che non conosceva ve n’erano anche alcuni pochi che attualmente si trovano nell’Oratorio. Sono coloro che non si presentano mai a D. Bosco, che non vanno mai a prendere consiglio da lui, coloro che lo fuggono: in una parola, coloro che Don Bosco non conosce ancora! L’immensa maggioranza però degli sconosciuti era di coloro che non furono né sono ancora nell’Oratorio.
                Mentre con pena osservava quella moltitudine, colui che mi accompagnava mi prese per mano e mi disse:
                – Vieni con me e vedrai altre cose! – E mi condusse in un angolo remoto della valle, circondato da collinette, cinto da una siepe di piante rigogliose, ove era un gran prato verdeggiante, il più ridente che immaginar si possa, ripieno di ogni sorta di erbe odorifere, sparso di fiori campestri, con freschi boschetti e correnti di limpide acque. Qui trovai un altro grandissimo numero di figliuoli, tutti allegri, i quali coi fiori del prato si erano formati o andavano formandosi una vaghissima veste.
                – Almeno hai costoro che ti dànno grande consolazione.
                – E chi sono? interrogai.
                – Sono quelli che si trovano in grazia di Dio.
                Ah! io posso dire di non avere mai vedute cose e persone così belle e risplendenti, né mai avrei potuto immaginare tali splendori. È inutile che mi ponga a descriverli, perché sarebbe un guastare quello che è impossibile a dirsi senza che si veda. Erami però riserbato uno spettacolo assai più sorprendente. Mentre me ne stava guardando con immenso piacere quei giovanetti e fra questi ne contemplava molti che non conosceva ancora, la mia guida mi soggiunse:
                – Vieni, vieni con me e ti farò vedere una cosa che ti darà un gaudio ed una consolazione maggiore. – E mi condusse in un altro prato tutto smaltato di fiori più vaghi e più odorosi dei già veduti. Aveva l’aspetto di un giardino principesco. Qui si scorgeva un numero di giovani non tanto grande, ma che erano di così straordinaria bellezza e splendore da far scomparire quelli da me ammirati poc’anzi. Alcuni di costoro sono già nell’Oratorio, altri qui verranno più tardi.
                Mi disse il pastore:
                – Costoro sono quelli che conservano il bel giglio della purità. Questi sono ancora vestiti della stola dell’innocenza.
                Guardava estatico. Quasi tutti portavano in capo una corona di fiori di indescrivibile bellezza. Questi fiori erano composti di altri piccolissimi fiorellini di una gentilezza sorprendente, e i loro colori erano di una vivezza e varietà che incantava. Più di mille colori in un sol fiore, e in un sol fiore si vedevano più di mille fiori. Scendeva ai loro piedi una veste di bianchezza smagliante, anch’essa tutta intrecciata di ghirlande di fiori, simili a quelli della corona. La luce incantevole che partiva da questi fiori rivestiva tutta la persona e specchiava in essa la propria gaiezza. I fiori si riflettevano l’uno negli altri e quelli delle corone in quelli delle ghirlande, riverberando ciascuno i raggi che erano emessi dagli altri. Un raggio di un colore infrangendosi con un raggio di un altro colore formava raggi nuovi, diversi, scintillanti e quindi ad ogni raggio si riproducevano sempre nuovi raggi, sicché io non avrei mai potuto credere esservi in paradiso un incanto così molteplice. Ciò non è tutto. I raggi e i fiori della corona degli uni si specchiavano nei fiori e nei raggi della corona di tutti gli altri: così pure le ghirlande, e la ricchezza della veste degli uni si riflettevano nelle ghirlande, nelle vesti degli altri. Gli splendori poi del viso di un giovane, rimbalzando, si fondevano con quelli del volto dei compagni e riverberando centuplicati su tutte quelle innocenti e rotonde faccine producevano tanta luce da abbarbagliare la vista ed impedire di fissarvi lo sguardo.
                Così in un solo si accumulavano le bellezze di tutti i compagni con un’armonia di luce ineffabile! Era la gloria accidentale dei santi. Non vi è nessuna immagine umana per descrivere anche languidamente quanto divenisse bello ciascuno di quei giovani in mezzo a quell’oceano di splendori. Fra questi ne osservai alcuni in particolare, che adesso sono qui all’Oratorio e son certo che, se potessero vedere almeno la decima parte della loro attuale speciosità, sarebbero pronti a soffrire il fuoco, a lasciarsi tagliare a pezzi, ad andare insomma incontro a qualunque più atroce martirio, piuttosto che perderla.
                Appena potei alquanto riavermi da questo celestiale spettacolo, mi volsi al duce e gli dissi:
                – Ma dunque fra tanti miei giovani sono così pochi gli innocenti? Sono così pochi coloro che non han mai perduta la grazia di Dio?
                Mi rispose il pastore:
                – Come? Non ti pare abbastanza grande questo numero? Del resto quelli che hanno avuto la disgrazia di perdere il bel giglio della purità, e con questo l’innocenza, possono ancor seguire i loro compagni nella penitenza. Vedi là? In quel prato si ritrovano ancor molti fiori; ebbene essi possono tessersi una corona e una veste bellissima e seguire ancora gli innocenti nella gloria.
                – Suggeriscimi ancora qualche cosa da dire ai miei giovani! io soggiunsi allora.
                – Ripeti ai tuoi giovani, che se essi conoscessero quanto è preziosa e bella agli occhi di Dio l’innocenza e la purità, sarebbero disposti a fare qualunque sacrificio per conservarla. Di’ loro che si facciano coraggio a praticare questa candida virtù, che supera le altre in bellezza e splendore. Imperciocché i casti sono quelli che crescunt tanquam lilia in conspectu Domini (crescono come gigli davanti al Signore).
                Io allora volli andare in mezzo a quei miei carissimi, così vagamente incoronati, ma inciampai nel terreno e svegliatomi mi trovai in letto.
                Figliuoli miei, siete voi tutti innocenti? Forse ve ne saranno fra voi alcuni e a questi io rivolgo le mie parole. Per carità, non perdete un pregio di valore inestimabile! È una ricchezza che vale quanto vale il Paradiso quanto vale Iddio! Se aveste potuto vedere come erano belli questi giovanetti coi loro fiori. L’insieme di questo spettacolo era tale che io avrei dato qualunque cosa del mondo per godere ancora di quella vista, anzi, se fossi pittore, l’avrei per una grazia grande poter dipingere in qualche modo ciò che vidi. Se voi conosceste la bellezza di un innocente, vi assoggettereste a qualunque più penoso stento, perfino anco alla morte, per conservare il tesoro dell’innocenza.
                Il numero di coloro che erano ritornati in grazia, quantunque mi abbia recato grande consolazione, tuttavia io sperava che dovesse essere assai maggiore. E restai assai meravigliato nel vedere alcuno che or qui in apparenza sembra un buon giovane e là aveva le corna lunghe e grosse…

                 D. Bosco finì con una calda esortazione a coloro che hanno perduta l’innocenza, perché si adoperino volenterosamente a riacquistare la grazia per mezzo della penitenza.
                Due giorni dopo, il 18 giugno, D. Bosco risaliva alla sera sulla cattedra e dava alcune spiegazioni del sogno.

                Non farebbe più d’uopo nessuna spiegazione riguardo al sogno, ma ripeterò quello che già dissi. La gran pianura è il mondo, e anche i luoghi e lo stato donde furono chiamati qui tutti i nostri giovani. Quell’angolo dove erano gli agnelli è l’Oratorio. Gli agnelli sono tutti i giovani, che furono, sono presentemente, e saranno nell’Oratorio. I tre prati in questo angolo, l’arido, il verde, il fiorito, indicano lo stato di peccato, lo stato di grazia e lo stato d’innocenza. Le corna degli agnelli sono gli scandali che si sono dati nel passato. Ve ne erano poi di quelli che avevano le corna rotte e costoro furono scandalosi, ma ora cessarono dal dare scandalo. Tutte quelle cifre “3”, che si vedevano stampate su ciascuno agnello, sono, come seppi dal pastore, tre castighi che Dio manderà sui giovani: 1° Carestia d’aiuti spirituali. 2° Carestia morale, ossia mancanza d’istruzione religiosa e della parola di Dio. 3° Carestia materiale, ossia mancanza anche di vitto. I giovani risplendenti sono coloro che si trovano in grazia di Dio, e soprattutto quelli che conservano ancora l’innocenza battesimale e la bella virtù della purità. E quanta gloria li aspetta!
                Mettiamoci dunque, cari giovani, coraggiosamente a praticare la virtù. Chi non è in grazia di Dio, si metta di buona voglia e quindi con tutte le sue forze e coll’aiuto di Dio perseveri sino alla morte. Che se tutti non possiamo essere in compagnia degli innocenti a far corona all’immacolato Agnello, Gesù, almeno possiamo seguirlo dopo di loro.
                Uno mi domandò se era fra gli innocenti ed io gli dissi di no e che aveva le corna, ma rotte. Mi domandò ancora se aveva delle piaghe ed io gli dissi di sì.
                – E che cosa significano queste piaghe? egli soggiunse.
                Risposi:
                – Non temere. Sono rimarginate, spariranno; queste piaghe ora non sono più disonorevoli, come non sono disonorevoli le cicatrici di un combattente, il quale malgrado le tante ferite e l’incalzamento e gli sforzi del nemico, seppe vincere e riportare vittoria. Sono dunque cicatrici onorevoli!… Ma è più onorevole chi combattendo valorosamente in mezzo ai nemici non riporta nessuna ferita. La sua incolumità eccita la meraviglia di tutti.
Spiegando questo sogno, D. Bosco disse eziandio che non andrà più molto tempo che si faranno sentire questi tre mali: – Peste, fame e quindi mancanza di mezzi per farci del bene.
Soggiunse che non passeranno tre mesi che accadrà qualche cosa di particolare.
Questo sogno produsse nei giovani l’impressione e i frutti che avevano ottenuto tante altre volte simili esposizioni.
(MB VIII 839-845)




Profeti del perdono e della gratuità

In questi tempi, dove le notizie, giorno dopo giorno, ci comunicano esperienze di conflitto, di guerra e di odio, quanto è grande il rischio che noi come credenti finiamo per essere coinvolti in una lettura degli eventi che si riduce solamente a livello politico oppure ci limitiamo a prendere posizione a favore di una parte o dell’altra con degli argomenti che hanno a che fare con la nostra maniera di vedere le cose, con la nostra maniera di interpretare la realtà.

Nel discorso di Gesù che segue le beatitudini c’è una serie di “piccole/grandi lezioni” che il Signore offre. Sempre iniziano con il versetto “avete inteso che fu detto”. In una di queste il Signore richiama l’antico detto “occhio per occhio e dente per dente” (Mt 5,38).
Fuori dalla logica del Vangelo, questa legge non solo non è contestata, ma può anche essere presa come una regola che esprime il modo ristabilire i conti con coloro che ci hanno offeso. Ottenere vendetta è percepita come diritto‚ Fino a essere anche un dovere.
Gesù si presenta davanti a questa logica con una proposta completamente differente, totalmente opposta. A quello che abbiamo inteso, Gesù ci dice: “Ma io vi dico” (Mt 5,39). E qui come cristiani dobbiamo fare molta attenzione. Le parole di Gesù che seguono sono importanti non solamente per sé stesse, ma perché esprimono in una maniera molto sintetica tutto il suo messaggio. Gesù non viene per dirci che c’è un altro modo di interpretare la realtà. Gesù non si avvicina a noi per allargare lo spettro delle opinioni a proposito delle realtà terrene, in modo particolare quella che toccano la nostra vita. Gesù non è un’altra opinione, ma lui stesso incarna la proposta alternativa alla legge della vendetta.
La frase “ma io vi dico” è di fondamentale importanza perché adesso non è più la parola pronunciata, ma la persona stessa di Gesù. Quello che Gesù ci comunica lui lo vive. Quando Gesù dice “di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra” (Mt 5,39), queste stesse parole le ha vissute in prima persona. Sicuramente non possiamo dire di Gesù che predica bene ma vi fa male nel suo messaggio.
Per ritornare ai nostri tempi, queste parole di Gesù rischiano di essere percepite come le parole di una persona debole, reazioni di chi non è più capace di reagire ma soltanto di subire. E in effetti quando noi guardiamo a Gesù che si offre completamente sul legno della Croce, questa è l’impressione che possiamo avere. Eppure, sappiamo benissimo che col sacrificio sulla croce e frutto di un vissuto che parte dalla frase “ma io vi dico”. Perché tutto ciò che Gesù ci ha detto, lui ha finito per assumerlo in pieno. E assumendolo in pieno è riuscito a passare dalla croce alla vittoria. Quella di Gesù è una logica che apparentemente comunica una personalità perdente. Ma sappiamo benissimo che il messaggio che Gesù ci ha lasciato, e che lui lo ha vissuto pienamente, e la medicina di cui questo mondo oggi ne ha proprio bisogno.

Essere profeti del perdono significa assumere il bene come risposta al male. Significa avere la determinazione che la potenza del maligno non condizionerà il mio modo di vedere e di interpretare la realtà. Il perdono non è la risposta del debole. Il perdono è il segno più eloquente di quella libertà che è capace di riconoscere le ferite che il male lascia dietro di sé, ma che quelle stesse ferite non saranno mai una polveriera che fomenta la vendetta e l’odio.
Reagire al male con il male non fa altro che allargare ed approfondire le ferite dell’umanità. La pace e la concordia non crescono sul terreno dell’odio ed è la vendetta.

Essere profeti della gratuità richiede da noi la capacità di guardare al povero e all’ingente non con la logica del profitto, ma con la logica della carità. Il povero non sceglie di essere povero, ma chi sta bene alla possibilità di scegliere di essere generoso, buono e pieno di compassione. Quanto sarebbe differente il mondo se i nostri leader politici in questo scenario dove stanno crescendo i conflitti le guerre, abbiano la sensatezza di guardare a coloro che pagano il prezzo in queste divisioni, e sono i poveri, di emarginati quelli che non possono scappare perché non ce la fanno.
Se partiamo da una lettura puramente orizzontale, c’è da disperarsi. Non ci rimane altro che rimanere chiusi nelle nostre mormorazioni nelle nostre critiche. Eppure, no! Noi siamo educatori dei giovani. Sappiamo bene che questi giovani in questo nostro mondo stanno cercando punti di riferimento di un’umanità sana, di leaders politici capace di interpretare la realtà con dei criteri di giustizia e di pace. Ma quando i nostri giovani guardano attorno, sappiamo bene che colgono solamente il vuoto di una visione povera della vita.
Noi che siamo impegnati per la educazione dei giovani abbiamo una grossa responsabilità. Non basta commentare il buio che lascia un’assenza quasi completa di leadership. Non basta commentare che non ci sono proposte che hanno la capacità di infiammare la memoria dei giovani. Spetta ad ognuno e ad ognuna di noi accendere quella candela di speranza in questo buio, offrire esempi di umanità riuscita nella quotidianità.
Davvero vale la pena oggi essere profeti del perdono e della gratuità.




L’educazione della coscienza con san Francesco di Sales

            Con ogni probabilità è stato l’avvento della Riforma protestante a porre all’ordine del giorno il problema della coscienza, e, più precisamente, della «libertà di coscienza». In una lettera del 1597 a Clemente VIII, il prevosto di Sales deplorava la «tirannia» che lo «stato di Ginevra» faceva pesare «sulle coscienze dei cattolici». Domandava alla santa Sede di intervenire presso il re di Francia per ottenere che i Ginevrini concedessero «ciò che chiamano libertà di coscienza». Contrario a soluzioni militari della crisi protestante, faceva intravedere nella libertas conscientiae una possibile via d’uscita dal confronto violento, a condizione che la reciprocità fosse rispettata. Rivendicata da Ginevra a favore della Riforma, e da Francesco di Sales a beneficio del cattolicesimo, la libertà di coscienza stava per divenire uno dei pilastri della mentalità moderna.

Dignità della persona umana
            La dignità dell’individuo risiede nella coscienza, e la coscienza è in primo luogo sinonimo di sincerità, onestà, franchezza, convinzione. Il prevosto di Sales riconosceva ad esempio, «per scaricare la sua coscienza», che il progetto delle Controversie gli era stato in qualche modo imposto da altri Quando presentava le sue ragioni a favore della dottrina e della pratica cattolica, si preoccupava di precisare che lo faceva «in coscienza». «Ditemi in coscienza», domandava ai suoi contradditori. La «buona coscienza», infatti, fa sì che uno eviti certi atti che lo mettono in contraddizione con sé stesso.
            Tuttavia, la coscienza soggettiva individuale non può essere presa sempre come garante della verità oggettiva. Non si è sempre obbligati a credere ciò che uno vi dice in coscienza. «Mostratemi chiaramente – dice il prevosto ai signori di Thonon – che non mentite affatto, che proprio non mi ingannate, quando mi dite che in coscienza avete avuto questa o quell’ispirazione». La coscienza può essere vittima dell’illusione, in forma volontaria o anche involontariamente. «Gli avari incalliti, non soltanto non confessano di esserlo, ma non pensano in coscienza di esserlo».
            La formazione della coscienza è un compito essenziale, perché la libertà di coscienza comporta il rischio di «far il bene e il male», ma «scegliere il male non è usare, bensì abusare della nostra libertà». È un compito duro, perché la coscienza talvolta ci appare come un avversario che «combatte sempre contro noi e per noi»: essa «oppone costante resistenza alle nostre cattive inclinazioni», ma lo fa «per la nostra salvezza». Quando uno pecca, «il rimorso interiore si muove contro la sua coscienza con la spada in pugno», ma lo fa per «trafiggerla con un santo timore».
            Un mezzo per esercitare una libertà responsabile è la pratica dell’«esame di coscienza». Fare l’esame di coscienza è come seguire l’esempio delle colombe che si guardano «con occhi limpidi e puri», «si puliscono con cura e si ornano meglio che possono». Filotea è invitata a fare questo esame tutte le sere, prima di andare a coricarsi, chiedendosi «come ci si è comportati nelle varie ore della giornata; per farlo più facilmente si penserà a dove, con chi e a quali occupazioni ci si è dedicati».
            Una volta all’anno dovremo fare un esame approfondito dello «stato della nostra anima» davanti a Dio, al prossimo e a noi stessi, senza dimenticare un «esame degli affetti della nostra anima». L’esame – dice Francesco di Sales alle visitandine – vi condurrà a sondare «a fondo la vostra coscienza».
            Come alleggerire la coscienza quando uno la sente carica di un errore o di uno fallo? Certuni lo fanno in malo modo, giudicando e accusando gli altri «di vizi di cui sono succubi», pensando così di «addolcire i rimorsi della loro coscienza». In tal modo uno moltiplica il rischio di fare giudizi temerari. Al contrario, «coloro che si prendono correttamente cura della loro coscienza non sono affatto soggetti a giudizi temerari». Conviene considerare a parte il caso dei genitori, degli educatori e dei responsabili del bene pubblico, perché «una buona parte della loro coscienza consiste nel vegliare attentamente sulla coscienza degli altri».

Il rispetto di sé stessi
            Dall’affermazione della dignità e della responsabilità di ognuno dovrà nascere il rispetto di sé. Già Socrate e tutta l’antichità pagana e cristiana ne avevano mostrato il cammino:

È un detto dei filosofi, che però è stato ritenuto valido dai dottori cristiani: «Conosci te stesso», ossia, conosci l’eccellenza della tua anima per non avvilirla e disprezzarla.

            Certi nostri atti costituiscono non solo un’offesa di Dio, ma anche un’offesa della dignità della persona umana e della ragione. Le loro conseguenze sono deplorevoli:

La rassomiglianza e immagine di Dio, che portiamo in noi, viene imbrattata e sfigurata, la dignità del nostro spirito disonorata, e noi siamo resi simili agli animali senza ragione […], rendendoci schiavi delle nostre passioni e rovesciando l’ordine della ragione.

            Ci sono estasi e rapimenti che ci innalzano al di sopra della nostra condizione naturale e altri che ci abbassano: «O uomini, fino a quando sarete così insensati – scrive l’autore del Teotimo – dal voler calpestare la vostra dignità naturale, discendendo volontariamente e precipitandovi nella condizione delle bestie?».
            Il rispetto di sé stessi consentirà di evitare due pericoli opposti: l’orgoglio e il disprezzo dei doni che uno ha. In un secolo in cui il senso dell’onore era esaltato al massimo, Francesco di Sales ha dovuto intervenire per denunciare misfatti, in particolare nel problema del duello, che gli faceva «rizzare i capelli in testa», e più ancora l’orgoglio insensato che ne era la causa. «Sono scandalizzato» – scriveva alla sposa di un marito duellante – ; «in verità, non riesco a pensare come si possa avere un coraggio tanto sregolato persino per bagattelle e cose da nulla». Battendosi in duello è come se «diventassero l’uno carnefice dell’altro».
            Altri, al contrario, non osano riconoscere i doni ricevuti e peccano così contro il dovere della riconoscenza. Francesco di Sales denuncia «certa falsa e sciocca umiltà che impedisce di scoprire il buono che c’è in loro». Hanno torto, perché «i beni che Dio ha posto in noi vanno riconosciuti, stimati e onorati sinceramente».
            Il primo prossimo che devo rispettare e amare, sembra voler dire il vescovo di Ginevra, è il proprio io. Il vero amore verso me stesso e il rispetto dovutogli esigono che tenda alla perfezione e che mi corregga, se necessario, ma dolcemente, ragionevolmente e «seguendo la strada della compassione» piuttosto che quella dell’ira e del furore.
            Esiste infatti un amore di sé stessi non soltanto legittimo, ma anche benefico e comandato: «La carità ben ordinata incomincia da sé stessi» – dice il proverbio – e rispecchia bene il pensiero di Francesco di Sales, ma a condizione di non confondere l’amore di sé con l’amor proprio. L’amore di sé è buono, e Filotea è invitata a interrogarsi sul modo con cui ama sé stessa:

Tenete un buon ordine nell’amore di voi stessa? Perché soltanto il disordinato amore di noi stessi può mandarci in rovina. Ora, l’amore ordinato vuole che amiamo l’anima più del corpo, che cerchiamo di procurarci le virtù più di ogni altra cosa.

            Al contrario, l’amor proprio è un amore egoista, «narcisista», gonfio di sé stesso, geloso della propria bellezza e unicamente preoccupato del proprio interesse: «Narciso – dicono i profani – era un giovane cosi sdegnoso da non voler offrire il proprio amore a nessun altro; e infine, contemplandosi in una limpida fontana fu totalmente rapito dalla sua bellezza».

Il «rispetto dovuto alle persone»
            Se si rispetta sé stessi si sarà più preparati e disposti a rispettare gli altri. Il fatto di essere «l’immagine e la somiglianza di Dio» ha come corollario l’asserto secondo cui «tutti gli esseri umani godono della stessa dignità». Francesco di Sales, pur vivendo in una società segnata dall’antico regime, fortemente disuguale, ha promosso un pensiero e una prassi caratterizzate dal «rispetto dovuto alle persone».
            Bisogna iniziare dai bambini. La madre di san Bernardo – dice l’autore della Filotea – amava i suoi figli appena nati «con rispetto come una cosa sacra che Dio le aveva affidato». Un rimprovero molto grave rivolto dal vescovo di Ginevra ai pagani riguardava il loro disprezzo della vita di esseri indifesi. Il rispetto del bimbo che sta per nascere emerge in questo passo di una lettera, redatta secondo la retorica barocca dell’epoca, indirizzata da Francesco di Sales a una donna incinta. La incoraggia spiegandole che il bimbo che si sta formando nelle sue viscere non è soltanto «un’immagine vivente della divina Maestà», ma anche l’immagine di sua madre. Raccomanda a un’altra donna:

Offrite sovente alla gloria eterna del vostro Creatore la creaturina alla cui formazione vi ha voluto assumere come sua cooperatrice.

            Un altro risvolto del rispetto dovuto agli altri riguarda il tema della libertà. La scoperta di nuove terre aveva avuto, come conseguenza nefasta, il riemergere della schiavitù, che richiamava le pratiche degli antichi romani al tempo del paganesimo. La vendita di esseri umani li degradava al rango delle bestie:

Un giorno, Marcantonio comprò da un mercante due giovanetti; allora, come avviene ancora oggi in qualche contrada, si vendevano i bambini; c’erano degli uomini che se li procuravano e poi li trafficavano come si fa per i cavalli nei nostri paesi.

            Il rispetto degli altri è continuamente minacciato in forma più sottile dalla maldicenza e dalla calunnia. Francesco di Sales insiste parecchio sui «peccati di lingua». Un capitolo della Filotea che tratta esplicitamente di tale argomento è intitolato L’onestà nelle parole e rispetto che si deve alle persone. Rovinare la reputazione di qualcuno è commettere un «omicidio spirituale»; è sottrarre «la vita civile» a colui di cui si parla male. Così pure, «biasimando il vizio», ci si sforzerà di risparmiare il più possibile «la persona implicata in esso».
            Certe categorie di persone sono facilmente denigrate o disprezzate. Francesco di Sales difende la dignità della gente del popolo fondandosi sul Vangelo: «San Pietro – commenta – era un uomo rude, grossolano, un vecchio pescatore, un mestierante di bassa condizione; san Giovanni, al contrario, era un gentiluomo, dolce, amabile, saggio; san Pietro, invece, ignorante». Orbene, è stato san Pietro ad essere scelto per guidare gli altri e per essere il «superiore universale».
            Proclama la dignità dei malati, dicendo che «le anime che sono in croce sono dichiarate regine». Denunciando la «crudeltà verso i poveri» ed esaltando la «dignità dei poveri», giustifica e precisa l’atteggiamento che si deve tenere verso di loro, spiegando «come dobbiamo onorarli e quindi visitarli come rappresentanti di Nostro Signore». Nessuno è inutile, nessuno è insignificante: «Non vi è al mondo oggetto che non possa essere utile per qualche cosa; ma bisogna saperne trovare l’uso e il luogo».

L’«uno-diverso» salesiano
            Il problema che da sempre ha tormentato le società umane è quello di conciliare tra loro la dignità e la libertà di ogni individuo con quelle degli altri. Ricevette da Francesco di Sales un chiarimento originale grazie all’invenzione di una nuova parola. Infatti, ammesso che l’universo è formato da «tutte le cose create, visibili e invisibili» e che «la loro diversità viene ricondotta a unità», il vescovo Ginevra propose di chiamarlo «uno-diverso», ossia «unico e diverso, unico con diversità e diverso con unità».
            Per lui, ogni essere è unico. Le persone sono come le perle di cui parla Plinio: «sono talmente uniche, ciascuna nella sua qualità, che non se ne trovano mai due perfettamente uguali». È significativo che le sue due opere principali, l’Introduzione alla vita devota e il Trattato dell’amore di Dio siano indirizzate a una persona singola, Filotea e Teotimo. Quale varietà e diversità tra gli esseri! «Senza dubbio, come vediamo che non si trovano mai due uomini perfettamente uguali quanto ai doni della natura, così non se ne trovano mai di perfettamente uguali quanto ai doni soprannaturali». La varietà lo incantava anche da un punto di vista puramente estetico, ma temeva una curiosità indiscreta sulle sue cause:

Se qualcuno si ponesse la domanda perché Dio abbia fatto i cocomeri più grossi delle fragole, o i gigli più grandi delle violette; perché il rosmarino non sia una rosa o perché il garofano non sia una calendola; perché il pavone sia più bello di un pipistrello, o perché il fico sia dolce e il limone aspro, si riderebbe delle sue domande e gli si direbbe: pover’uomo, siccome la bellezza del mondo richiede varietà, è necessario che nelle cose ci siano perfezioni diverse e differenziate e che l’una non sia l’altra; ecco perché le une sono piccole, le altre grandi, le une aspre, le altre dolci, le une più belle, le altre meno. […] Tutte hanno il loro pregio, la loro grazia, il loro splendore, e tutte, viste nell’insieme delle loro varietà, costituiscono un meraviglioso spettacolo di bellezza.

            La diversità non ostacola l’unità, tutt’altro la rende ancor più ricca e bella. Ogni fiore ha le sue caratteristiche, che lo distinguono da tutti gli altri: «Non è proprio delle rose essere bianche, mi sembra, perché quelle vermiglie sono più belle e hanno un profumo migliore, il quale però è proprio del giglio». Certo, Francesco di Sales non sopporta la confusione e il disordine, ma è ugualmente nemico dell’uniformità. La diversità degli esseri può condurre alla dispersione e alla rottura della comunione, ma se c’è l’amore, «vincolo della perfezione», niente è perduto, al contrario, la diversità è esaltata dall’unione.
            In Francesco di Sales c’è sicuramente una reale cultura dell’individuo, ma questa non è mai una chiusura al gruppo, alla comunità o alla società. Egli vede spontaneamente l’individuo inserito in un contesto o «stato» di vita, che segna marcatamente l’identità e l’appartenenza di ciascuno. Non sarà possibile fissare un programma o un progetto uguale per tutti, per il semplice fatto che sarà applicato e attuato in maniera diversa «per il gentiluomo, per l’artigiano, per il valletto, per il principe, per la vedova, per la giovane, per la sposata»; bisogna inoltre adattarlo «alle forze e ai doveri di ognuno in particolare. Il vescovo di Ginevra vede la società ripartita in spazi vitali caratterizzati dall’appartenenza sociale e solidarietà di gruppo, come quando tratta «della compagnia di soldati, della bottega degli artigiani, della corte dei principi, della famiglia di gente sposata».
            L’amore personalizza e, quindi, individualizza. L’affetto che lega una persona a un’altra è unico, come dimostra Francesco di Sales nel suo rapporto con la signora di Chantal: «Ogni affetto ha una sua peculiarità che lo differenzia dagli altri; quello che provo per voi possiede una certa particolarità che mi consola infinitamente, e, per dire tutto, per me è oltremodo fruttuoso». Il sole illumina tutti e ciascuno: «rischiarando un angolo della terra, non lo rischiara meno di quel che farebbe se non risplendesse altrove, ma solamente in quell’angolo».

L’essere umano è in divenire
            Umanista cristiano, Francesco di Sales crede infine alla possibilità che la persona umana ha di perfezionarsi. Erasmo aveva forgiato la formula: Homines non nascuntur sed finguntur. Mentre l’animale è un essere predeterminato, guidato dall’istinto, l’uomo, al contrario, è in perpetua evoluzione. Non solo cambia, ma può cambiare sé stesso, tanto in meglio che in peggio.
            Ciò che preoccupava interamente l’autore del Teotimo era perfezionare sé stesso e aiutare gli altri a perfezionarsi, e non soltanto in ambito religioso, bensì in ogni cosa. Dalla nascita alla tomba, l’uomo è in una situazione di apprendista. Imitiamo il coccodrillo che «non cessa mai di crescere fin tanto che vive». Infatti, «rimanere in uno stesso stato a lungo non è possibile: chi non avanza, indietreggia in questo traffico; chi non sale, scende in questa scala; chi non vince è vinto in questo combattimento». Egli cita san Bernardo che diceva: «È scritto in modo particolare per l’uomo, che non si troverà mai nello stesso stato: bisogna che avanzi o indietreggi». Andiamo avanti:

Non sai che sei in cammino e che il camino non è fatto per sedersi, ma per andare avanti? Ed è talmente fatto per avanzare, che muoversi in avanti si chiama camminare.

            Ciò significa anche che la persona umana è educabile, capace di apprendere, di correggersi e di migliorarsi. E ciò è vero a tutti i livelli. L’età a volte non c’entra per nulla. Guardate questi fanciulli cantori della cattedrale, che superano di gran lunga le capacità del loro vescovo in questo loro ambito: «Ammiro questi bambini – diceva – che a mala pena sanno parlare e che cantano già la loro parte; comprendono tutti i segni e le regole musicali, mentre io non saprei proprio come cavarmela, io che sono un uomo fatto e che si vorrebbe far passare per un grande personaggio». Nessuno in questo mondo è perfetto:

Ci sono persone di loro natura leggere, altre sgarbate, altre ancora ben restie ad ascoltare le opinioni altrui, e altre infine portate all’indignazione, altre alla collera e altre all’amore; per farla breve, troviamo ben poche persone in cui non sia possibile scoprire l’una o l’altra di simili imperfezioni.

            Si deve allora disperare di poter migliorare il proprio temperamento, correggendo qualcuna delle nostre naturali inclinazioni? Niente affatto.

Per quanto, infatti, siano in ciascuno di noi come proprie e naturali, se con l’applicazione a un attaccamento contrario si possono correggere e regolare, e perfino uno può liberarsene e purificarsi, allora, vi dico Filotea, che bisogna farlo. Si è pur trovato il modo di far diventare dolci i mandorli amari: basta forarli al piede e farne uscire il succo; perché mai non potremmo allora far uscire le nostre inclinazioni perverse, per diventare così migliori?

            Di qui la conclusione ottimista ma esigente: «Non c’è natura buona che non si possa far diventare malvagia, tramite abitudini viziose; non c’è natura tanto perversa che non si possa, anzitutto con la grazia di Dio e poi con l’impegno industrioso e la diligenza, domare e vincere». Se l’uomo è educabile, bisogna non disperare di nessuno e guardarsi bene dai pregiudizi nei confronti delle persone:

Non dite: quel tale è un ubriacone, anche se l’avete visto ubriaco; è un adultero, per averlo visto peccare; è un incestuoso, per averlo colto in quella disgrazia; perché un solo atto non basta per dare il nome alla cosa. […] E anche quando un uomo fosse stato a lungo vizioso, si correrebbe lo stesso il rischio di mentire chiamandolo vizioso.

            La persona umana non ha mai terminato di coltivare il suo giardino. È la lezione che il fondatore delle visitandine inculcava loro, quando le chiamava «a coltivare la terra e il giardino» dei loro cuori e dei loro spiriti, perché non esiste «uomo tanto perfetto da non aver bisogno di impegnarsi sia per crescere nella perfezione e sia per conservarla».




Le sette allegrezze della Madonna

Nel cuore dell’opera educativa e spirituale di San Giovanni Bosco, la figura della Madonna occupa un posto privilegiato e luminoso. Don Bosco non fu solo un grande educatore e fondatore, ma anche un fervente devoto della Vergine Maria, che egli venerava con profondo affetto e alla quale affidava ogni suo progetto pastorale. Una delle espressioni più caratteristiche di questa devozione è la pratica delle “Sette allegrezze della Madonna”, proposta in modo semplice e accessibile nella sua pubblicazione “Il giovane provveduto”, uno dei testi più diffusi nella sua pedagogia spirituale.

Un’opera per l’anima dei giovani
Nel 1875, Don Bosco pubblicava una nuova edizione de “Il giovane provveduto per la pratica de’ suoi doveri negli esercizi di cristiana pietà”, un manuale di preghiere, esercizi spirituali e norme di condotta cristiana pensato per i ragazzi. Questo libro, redatto con uno stile sobrio e paterno, intendeva accompagnare i giovani nella loro formazione morale e religiosa, introducendoli a una vita cristiana integrale. In esso trovava spazio anche la devozione alle “Sette allegrezze di Maria Santissima”, una preghiera semplice ma intensa, strutturata in sette punti. A differenza delle “Sette dolori della Madonna”, molto più nota e diffusa nella pietà popolare, le “Sette allegrezze” di don Bosco pongono l’accento sulle gioie della Santissima Vergine nel Paradiso, conseguenza di una vita terrena vissuta nella pienezza della grazia di Dio.
Questa devozione ha origini antiche e fu particolarmente cara ai Francescani, che la diffusero a partire dal XIII secolo, come Rosario delle Sette Allegrezze della Beata Vergine Maria (o Corona Serafica). Nella forma francescana tradizionale è una preghiera devozionale composta da sette decine di Ave Maria, ciascuna preceduta da un mistero gioioso (allegrezza) e introdotta da un Padre Nostro. Alla fine di ogni decina si recita un Gloria al Padre. Le allegrezze sono: 1. L’Annunciazione dell’Angelo; 2. La visita a Santa Elisabetta; 3. La nascita del Salvatore; 4. L’adorazione dei Magi; 5. Il ritrovamento di Gesù nel tempio; 6. La risurrezione del Figlio; 7. L’assunzione e incoronazione di Maria in cielo.
Don Bosco, attingendo a questa tradizione, ne offre una versione semplificata, adatta alla sensibilità dei giovani.
Ciascuna di queste allegrezze è meditata attraverso la recita di un Ave Maria e un Gloria.

La pedagogia della gioia
La scelta di proporre ai giovani questa devozione non risponde solo a un gusto personale di Don Bosco, ma si inserisce pienamente nella sua visione educativa. Egli era convinto che la fede dovesse essere trasmessa attraverso la gioia, non la paura; attraverso la bellezza del bene, non il timore del male. Le “Sette allegrezze” diventano così una scuola di letizia cristiana, un invito a riconoscere che, nella vita della Vergine, la grazia di Dio si manifesta come luce, speranza e compimento.
Don Bosco conosceva bene le difficoltà e le sofferenze che molti dei suoi ragazzi affrontavano quotidianamente: la povertà, l’abbandono familiare, la precarietà del lavoro. Per questo, offriva loro una devozione mariana che non si limitasse al pianto e al dolore, ma che fosse anche una sorgente di consolazione e di gioia. Meditare le allegrezze di Maria significava aprirsi a una visione positiva della vita, imparare a riconoscere la presenza di Dio anche nei momenti difficili, e affidarsi con fiducia alla tenerezza della Madre celeste.
Nella pubblicazione “Il giovane provveduto”, Don Bosco scrive parole toccanti sul ruolo di Maria: la presenta come madre amorevole, guida sicura e modello di vita cristiana. La devozione alle sue allegrezze non è una semplice pratica devozionale, ma un mezzo per entrare in relazione personale con la Madonna, per imitarne le virtù e riceverne l’aiuto materno nelle prove della vita.
Per il santo torinese, Maria non è distante o inaccessibile, ma vicina, presente, attiva nella vita dei suoi figli. Questa visione mariana, fortemente relazionale, attraversa tutta la spiritualità salesiana e si riflette anche nella vita quotidiana degli oratori: ambienti dove la gioia, la preghiera e la familiarità con Maria vanno di pari passo.

Un’eredità viva
Anche oggi, la devozione alle “Sette allegrezze della Madonna” mantiene intatto il suo valore spirituale ed educativo. In un mondo segnato da incertezze, paure e fragilità, essa offre una via semplice ma profonda per scoprire che la fede cristiana è, prima di tutto, un’esperienza di gioia e di luce. Don Bosco, profeta della gioia e della speranza, ci insegna che l’autentica educazione cristiana passa attraverso la valorizzazione degli affetti, delle emozioni e della bellezza del Vangelo.
Riscoprire oggi le “Sette allegrezze” significa anche recuperare uno sguardo positivo sulla vita, sulla storia e sulla presenza di Dio. La Madonna, con la sua umiltà e la sua fiducia, ci insegna a custodire e a meditare nel cuore i segni della gioia vera, quella che non passa, perché fondata sull’amore di Dio.
In un tempo in cui anche i giovani cercano luce e senso, le parole di Don Bosco restano attuali: “Se volete essere felici, praticate la devozione a Maria Santissima”. Le “Sette allegrezze” sono, allora, una piccola scala verso il cielo, un rosario di luce che unisce la terra al cuore della Madre celeste.

Ecco anche il testo originale preso da “Il giovane provveduto per la pratica de suoi doveri negli esercizi di cristiana pieta”, 1875 (pp. 141-142), con i titoli nostri.

Le sette allegrezze che gode Maria in Cielo

1. Purità coltivata
Rallegratevi, o Sposa immacolata dello Spirito Santo, per quel contento che ora godete in Paradiso, perché per la vostra purità e verginità siete esaltata sopra tutti gli Angeli e sublimata sopra tutti i santi.
Ave, Maria e Gloria.

2. Sapienza cercata
Rallegratevi, o Madre di Dio, per quel piacere che provate in Paradiso, perché siccome il sole quaggiù in terra illumina tutto il mondo, così voi col vostro splendore adornate e fate risplendere tutto il Paradiso.
Ave e Gloria.

3. Obbedienza filiale
Rallegratevi, o Figlia di Dio, per la sublime dignità a cui foste elevata in Paradiso, perché tutte le Gerarchie degli Angeli, degli Arcangeli, dei Troni, delle Dominazioni e di tutti gli Spiriti Beati vi onorano, vi riveriscono e vi riconoscono per Madre del loro Creatore, e ad ogni minimo cenno vi sono obbedientissime.
Ave e Gloria.

4. Preghiera continua
Rallegratevi, o Ancella della SS. Trinità, per quel gran potere, che avete in Paradiso, perché tutte le grazie che chiedete al vostro Figliuolo vi sono subito concesse; anzi, come dice s. Bernardo, non si concede grazia quaggiù in terrà, che non passi per le vostre santissime mani.
Ave e Gloria.

5. Umiltà vissuta
Rallegratevi, o augustissima Regina, perché voi sola meritaste sedere alla destra del vostro santissimo Figlio, il quale siede alla destra dell’Eterno Padre.
Ave e Gloria.

6. Misericordia praticata
Rallegratevi, o Speranza dei peccatori, Rifugio dei tribolati, pel gran piacere che provate in Paradiso nel vedere che tutti quelli che vi lodano e vi riveriscono in questo mondo sono dall’Eterno Padre premiati colla sua santa grazia in terra, e colla sua immensa gloria in cielo.
Ave e Gloria.

7. Speranza premiata
Rallegratevi, o Madre, Figlia e Sposa di Dio, perché tutte le grazie, tutti i gaudi, tutte le allegrezze e tutti i favori, che ora godete in Paradiso non si diminuiranno mai; anzi si aumenteranno fino al giorno del giudizio e dureranno in eterno.
Ave e Gloria.

Orazione alla beatissima Vergine.
O gloriosa Vergine Maria, Madre del mio Signore, fonte di ogni nostra consolazione, per queste vostre allegrezze, di cui ho fatto rimembranza con quella devozione che ho potuto maggiore, vi prego d’impetrarmi da Dio la remissione dei miei peccati, ed il continuo aiuto della sua santa grazia, onde io non mi renda mai indegno della vostra protezione, ma bensì abbia la sorte di ricevere tutti quei celesti favori, che siete solita ottenere e compartire ai vostri servi, i quali fanno devota memoria di queste allegrezze, di cui ridonda il vostro bel cuore, o Regina immortale del Cielo.

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Nessuno spaventava le galline (1876)

Ambientato nel gennaio 1876, il brano presenta uno dei più suggestivi «sogni» di Don Bosco, strumento prediletto con cui il santo torinese scuoteva e guidava i giovani dell’Oratorio. La visione si apre su una pianura sterminata in cui fervono i lavori dei seminatori: il grano, simbolo della Parola di Dio, germoglierà solo se protetto. Ma galline voraci piombano sul seme e, mentre i contadini cantano versetti evangelici, i chierici addetti alla custodia restano muti o distratti, lasciando che tutto vada perduto. La scena, animata da dialoghi arguti e citazioni bibliche, diventa parabola della mormorazione che spegne il frutto della predicazione e monito alla vigilanza attiva. Con toni insieme paterni e severi, Don Bosco trasforma l’elemento fantastico in lezione morale incisiva.

            Nella seconda metà di gennaio il Servo di Dio ebbe un sogno simbolico, del quale fece parola con alcuni Salesiani. Don Barberis lo pregò di raccontarlo in pubblico, perché i suoi sogni piacevano molto ai giovani, facevano loro gran bene e li affezionavano all’Oratorio.
            – Sì, questo è vero, rispose il Beato, fanno del bene e sono ascoltati con avidità; il solo che ne riceva nocumento sono io, perché bisognerebbe che avessi polmoni di ferro. Si può ben dire, che nell’Oratorio non ci sia un solo, il quale non si senta scosso da tali narrazioni; poiché per lo più questi sogni toccano tutti, e ciascheduno vuol sapere in quale stato io l’abbia veduto, che cosa debba fare, quale significato abbia questo o quello; ed io sono tormentato giorno e notte. Se poi voglio svegliare il desiderio delle confessioni generali, non ho da far altro che raccontare un sogno… Senti, fa’ una cosa. Domenica andrò a parlare ai giovani, e tu interrogami in pubblico. Io allora conterò il sogno.
            Il 23 gennaio, dopo le orazioni della sera, egli montò in cattedra. Il suo volto raggiante di gioia manifestava, come sempre, la propria contentezza nel trovarsi tra i suoi figli. Fattosi un po’ di silenzio, Don Barberis chiese di parlare e interrogò:
            – Scusi, signor Don Bosco, mi permette che io le faccia una domanda?
            – Di’ pure.
            – Ho sentito a dire che in queste notti scorse ha fatto un sogno di semenza, di seminatore, di galline, e che l’ha già raccontato al chierico Calvi. Vorrebbe favorire di raccontarlo anche a noi? Questo ci farebbe assai piacere.
            – Curioso!! – fece Don Bosco in tono di rimprovero. E qui scoppiò una risata generale.
            – Non importa, sa, che mi dia del curioso; purché ci racconti il sogno. E con questa mia domanda credo d’interpretare la volontà di tutti i giovani, i quali certamente lo ascolteranno tanto volentieri.
            – Se è così ve lo racconto. Non voleva dir nulla, perché ci sono cose che riguardano diversi di voi in particolare, e alcune anche per te, che fanno bruciare un po’ le orecchie; ma poiché me ne richiedi, io racconterò.
            – Ma eh! signor Don Bosco, se c’è qualche bastonata per me, me la risparmi qui in pubblico.
            – Io racconterò le cose come le sognai; ciascuno prenda la parte sua. Ma prima di tutto bisogna che ciascuno tenga bene a mente, che i sogni si fanno dormendo, e dormendo non si ragiona; perciò se vi è qualche cosa di buono, qualche ammonimento da prendere, si prende. Del resto nessuno si metta in apprensione. Ho detto che io sognando di notte dormiva, perché taluni sognano anche di giorno e alcune volte perfino essendo svegliati e con non leggiero disturbo dei professori, per i quali riescono scolari fastidiosi.

            Mi pareva di essere lontano di qui e di trovarmi a Castelnuovo d’Asti, mia patria. Aveva avanti a me una grande estensione di terreno, situata in una vasta e bella pianura; ma quel terreno non era nostro e non sapeva di chi fosse.
            In quel campo vidi molti che lavoravano colle zappe, colle vanghe, coi rastrelli ed altri strumenti. Chi arava, chi seminava il grano, chi spianava la terra, chi faceva altro. Vi erano qua e là i capi preposti a dirigere i lavori e fra costoro mi sembrava di esser anch’io. Cori di contadini stavano in altra parte cantando. Io osservava stupito e non sapeva darmi ragione di quel luogo. Meco stesso andava dicendo: – Ma a che fine costoro lavorano tanto? – E rispondeva a me stesso: – Per provvedere le pagnotte ai miei giovani. – Ed era veramente una meraviglia il vedere come quei buoni agricoltori non desistessero un istante dal lavoro e incessantemente continuassero nel loro uffizio con uno slancio costante e colla stessa solerzia. Solo alcuni stavano ridendo e scherzando fra di loro.
            Mentre io contemplava così bel quadro, mi guardo attorno e vedo che mi circondavano alcuni preti e molti dei miei chierici, parte vicini, parte ad una certa distanza. Diceva tra me: – Ma io sogno; i miei chierici sono a Torino, qui invece siamo a Castelnuovo. E poi come ciò può essere? Io sono vestito da inverno da capo a piedi, solamente ieri io aveva tanto freddo, ed ora qui si semina il grano. – E mi toccava le mani e camminava e diceva: – Ma pure non sogno, questo è proprio un campo; questo chierico che è qui è il chierico A… in persona; quest’altro è il chierico B… E poi come potrei nel sogno vedere questa cosa e quest’altra?
            Intanto vidi lì presso, ma a parte, un vecchio che all’aspetto sembrava molto benevolo ed assennato, intento ad osservare me e gli altri. Mi accostai a lui e gli domandai:
            – Dite, bravo uomo, ascoltate! Che cosa è ciò che io vedo e non ne capisco nulla? Qui dove siamo? Chi sono questi lavoratori? Di chi è questo campo?
            – Oh! mi risponde quell’uomo; belle interrogazioni da farsi! Ella è prete e non sa queste cose?
            – Ma dunque ditemi! Credete voi che io sogni o che sia desto? Poiché a me par di sognare e non mi sembrano possibili le cose che vedo.
            – Possibilissime, anzi reali e a me pare che Lei sia desto affatto. Non se ne avvede? Parla, ride, scherza.
            – Eppure vi son taluni, io soggiunsi, cui sembra nel sogno di parlare, ascoltare, operare, come se fossero desti.
            – Ma no; lasci da parte tutto questo. Lei è qui in corpo ed anima.
            – Ebbene, sia pure; e se son desto, ditemi allora di chi sia questo campo.
            – Ella ha studiato il latino: qual è il primo nome della seconda declinazione che ha studiato nel Donato? Lo sa ancora?
            – Eh! sì che lo so; ma che cosa ha da far questo con ciò che vi domando?
            – Ha da far moltissimo. Dica adunque quale è il primo nome che si studia nella seconda declinazione.
            – È Dominus.
            – E come fa al genitivo?
            – Domini!
            – Bravo, bene, Domini; questo campo adunque è Domini, del Signore.
            – Ah! ora comincio a capire qualche cosa! – esclamai.
            Era meravigliato della conseguenza tratta da quel buon vecchio. Intanto vidi varie persone che venivano con sacchi di grano per seminare, e un gruppo di contadini cantava: Exit, qui seminat, seminare semen suum (Il seminatore uscì a seminare il suo seme, Lc 8,5).
            A me pareva un peccato gettar via quella semente e farla marcire sotterra. Era così bello quel grano! – Non sarebbe meglio, diceva fra me. macinarlo e fame del pane o delle paste? – Ma poi pensava: – Chi non semina, non raccoglie. Se non si getta via la semente e questa non marcisce, che cosa si raccoglierà poi?
            In quel mentre vedo da tutte le parti uscire una moltitudine di galline e andar pel seminato a beccarsi tutto il grano che altri spargeva per seme.
            E quel gruppo di cantori proseguiva nel suo canto: Venerunt aves caeli, sustulerunt frumentum et reliquerunt zizaniam (Gli uccelli del cielo vennero e raccolsero il grano e lasciarono la zizzania).
            Io do uno sguardo attorno e osservo quei chierici che erano con me. Uno colle mani conserte stava guardando con fredda indifferenza; un altro chiacchierava coi compagni; alcuni si stringevano nelle spalle, altri guardavano il cielo, altri ridevano di quello spettacolo, altri tranquillamente proseguivano la loro ricreazione e i loro giuochi, altri sbrigavano alcuna loro occupazione; ma nessuno spaventava le galline per farle andar via. Io mi rivolgo loro tutto risentito e, chiamando ciascuno per nome, diceva:
            – Ma che cosa fate? Non vedete quelle galline che si mangiano tutto il grano? Non vedete che distruggono tutto il buon seme, fanno svanire le speranze di questi buoni contadini? Che cosa raccoglieremo poi? Perché state così muti? perché non gridate, perché non le fate andar via?
            Ma i chierici si stringevano nelle spalle, mi guardavano e non dicevano niente. Alcuni non si volsero neppure: non badavano prima a quel campo, né ci badarono dopo che io ebbi gridato.
            – Stolti che siete! io continuava. Le galline hanno già tutte il gozzo pieno. Non potreste battere le mani e fare così? – E intanto io batteva le mani, trovandomi in un vero imbroglio, poiché a nulla valevano le mie parole. Allora alcuni si misero a fugar le galline, ma io ripeteva tra me: – Eh sì! Ora che tutto il grano fu mangiato, si scacciano le galline.
            In quel mentre mi colpì l’orecchio il canto di quel gruppo di contadini, i quali così cantavano: Canes muti nescientes latrare (I cani muti non sanno abbaiare, Is 56,10).
            Allora io mi rivolsi a quel buon vecchio e tra stupefatto e sdegnato gli dissi:
            – Orsù, datemi una spiegazione di quanto vedo; io ne capisco nulla. Che cosa è quel seme che si getta per terra?
            – Oh bella! Semen est verbum Dei (Il seme è la parola di Dio, Lc 8,11).
            – Ma che cosa vuol dir questo, mentre vedo che là le galline se lo mangiano?
            Il vecchio, cambiando tono di voce, proseguì:
            – Oh! se vuole una più compiuta spiegazione, io gliela do. Il campo è la vigna del Signore, di cui si parla nel Vangelo, e si può anche intendere del cuore dell’uomo. I coltivatori sono gli operai evangelici, che specialmente colla predicazione seminano la parola di Dio. Questa parola produrrebbe molto frutto in quel cuore, terreno ben preparato. Ma che? Vengono gli uccelli del cielo e la portano via.
            – Che cosa indicano questi uccelli?
            – Vuole che le dica che cosa indicano? Indicano le mormorazioni. Sentita quella predica che porterebbe effetto, si va coi compagni. Uno fa la chiosa ad un gesto, alla voce, ad una parola del predicatore, ed ecco portato via tutto il frutto della predica. Un altro accusa il predicatore stesso di qualche difetto o fisico o intellettuale; un terzo ride sul suo italiano, e tutto il frutto della predica è portato via. Lo stesso deve dirsi di una buona lettura, della quale il bene resta tutto impedito da una mormorazione. Le mormorazioni sono tanto più cattive, in quanto che esse generalmente sono segrete, nascoste, e colà vivono e crescono, ove punto noi non ce lo aspettiamo. Il grano sebbene sia in un campo non molto coltivato, tuttavia nasce, cresce, viene su abbastanza alto e produce frutto. Quando in un campo di fresco seminato viene un temporale, allora il campo resta pestato e non porta più tanto frutto, ma pure ne porta. Se anche la semenza non sarà tanto bella, pure crescerà: porterà poco frutto, ma pure ne porterà. Invece quando le galline o gli uccelli si beccano la semente, non c’è più verso: il campo non rende né punto né poco; non porta più frutto di sorta. Così se alle prediche, alle esortazioni, ai buoni propositi terrà dietro qualche altra cosa come distrazione, tentazione, ecc. farà meno frutto; ma quando c’è la mormorazione, il parlar male o simili, qui non c’è poco che tenga, ma c’è subito il tutto che vien portato via. E a chi tocca battere le mani, insistere, gridare, sorvegliare, perché queste mormorazioni, questi discorsi cattivi non si facciano? Lei lo sa!
            – Ma che cosa facevano mai questi chierici? io gli chiesi. Non potevano essi impedire tanto male?
            – Non impedirono nulla, egli proseguì. Taluni stavano ad osservare come statue mute, altri non ci badavano, non ci pensavano, non vedevano e se ne stavano colle braccia conserte, altri non avevano il coraggio d’impedire questo male; alcuni, pochi però, si univano anch’essi ai mormoratori, prendevano parte alle loro maldicenze, facevano il mestiere di distruggitori della parola di Dio. Tu che sei prete insisti su questo; predica, esorta, parla, non aver paura di dir mai troppo; e tutti sappiano che il fare le chiose a chi predica, a chi esorta, a chi dà buoni consigli è ciò che reca più del male. E lo star muti quando si vede qualche disordine e non impedirlo, specialmente chi potrebbe o dovrebbe, questo è al tutto rendersi complice del male degli altri.
            Io tutto compreso da queste parole, voleva ancora guardare, osservare questa e quella cosa, rimproverare i chierici, infiammarli a compiere il proprio dovere. Ed essi già si movevano e cercavano di mettere in fuga le galline. Ma io, avendo fatti alcuni passi, inciampai in un rastrello, destinato a spianar la terra, lasciato in quel campo, e mi svegliai. Ora lasciamo da parte ogni cosa e veniamo alla morale. D. Barberis! Che cosa ne dici di questo sogno?
            – Dico, rispose D. Barberis, che è una buona bastonata, e bazza a chi tocca.
            – Eh certo, riprese D. Bosco, è una lezione la quale bisogna che ci faccia del bene; e tenetelo a mente, o miei cari giovani, di evitare fra voi in ogni modo la mormorazione, come un male straordinario, fuggendola come si fugge dalla peste, e non solo evitarla voi, ma a tutto potere cercare di farla evitare agli altri. Alcune volte santi consigli, opere ottime non fanno il bene, che reca l’impedire una mormorazione e qualunque parola che possa nuocere ad altri. Armiamoci di coraggio e combattiamola francamente. Non v’è peggior disgrazia di quella di far perdere la parola di Dio. E basta un motto, basta uno scherzo.

            Vi ho contato un sogno avvenutomi già sono varie notti, ma in questa notte scorsa ne ho avuto un altro, che eziandio desidero narrarvi. L’ora non è ancora troppo tarda; sono appena le nove e posso esporvelo. Procurerò tuttavia di non andare per le lunghe.
            Mi parve adunque di trovarmi in un luogo che ora non ricordo più quale fosse: non era io più a Castelnuovo, ma mi pare che neppure fossi all’Oratorio. Venne qualcuno con tutta premura a chiamarmi:
            – D. Bosco, venga! D. Bosco, venga!
            – Ma e che cosa c’è di tanta premura? io risposi.
            – È in corrente delle cose avvenute?
            – Io non intendo quello che tu vuoi dire; spiegati chiaramente, risposi ansioso.
            – Non sa, D. Bosco, che il tal giovane così buono, così pieno di brio, è gravemente infermo, anzi moribondo?
            – Io dubito che tu voglia prenderti gioco di me, gli dissi: perché appunto stamane parlai e passeggiai con lo stesso giovane, che ora mi annunzi moribondo.
            – Ah, D. Bosco, io non cerco d’ingannarla e mi credo in debito di narrarle la pura verità. Quel giovane ha sommamente bisogno di lei e desidera di vederla e di parlarle per l’ultima volta. Ma venga presto, perché altrimenti non è più in tempo.
            Io senza sapere il dove, andai in tutta fretta dietro a quel tale. Arrivo in un luogo e vedo gente mesta e piangente che mi dice: Faccia pure presto, che è agli estremi.
            – Ma che cosa è accaduto? – rispondo. Vengo introdotto in una camera, dove vedo un giovane coricato, tutto smorto nel viso, d’un colore quasi cadaverico, con una tosse e un rantolo che lo soffocava e appena a stento gli permetteva di parlare:
            – Ma non sei tu il tale dei tali? io gli dissi.
            – Sì, sono il tale!
            – Come stai?
            – Sto male
            – E come va che ora ti vedo in questo stato? Solamente ieri e stamattina non passeggiavi tranquillo sotto i portici?
            – Sì, rispose il giovane, ieri e stamattina passeggiavo sotto i portici; ma ora faccia presto, che io ho bisogno di confessarmi; vedo che mi resta più poco tempo.
            – Non affannarti, non affannarti; tu ti sei confessato da pochi giorni.
            – È vero e mi pare di non avere nessuna grossa pena sul mio cuore; ma tuttavia desidero ricevere la santa assoluzione prima di presentarmi al Divin Giudice.
            Io ascoltai la sua confessione. Ma intanto osservai che visibilmente peggiorava e un catarro era per soffocarlo. – Ma qui bisogna fare in fretta, dico fra me, se voglio che riceva ancora il santo viatico e l’olio santo. Anzi il viatico non potrà più riceverlo, sia perché ci vuole più tempo per i preparativi, sia perché la tosse potrebbe impedirgli d’inghiottire. Presto l’olio santo!
            Così dicendo, esco dalla camera e mando subito un uomo a prendere la borsa degli olii santi. I giovani che erano in sala mi domandavano:
            – Ma è veramente in pericolo? è proprio moribondo, come si va dicendo?
            – Purtroppo! io rispondeva. Non vedete che il respiro gli si fa ognor più grave e il catarro lo soffoca?
            – Ma sarà meglio portargli anche il viatico e così fortificato mandarlo nelle braccia di Maria!
            Ma mentre io mi affaccendava nel preparar l’occorrente, sento una voce: – è spirato!
            Rientro in camera e trovo l’infermo cogli occhi sbarrati; più non respira; è morto.
            – È morto? io domando a quei due che lo assistevano morto, mi rispondono: è morto!
            – Ma come va, tanto in fretta? Ditemi: non è desso il tale?
            – Sì, è il tale.
            – Non posso credere agli occhi miei! Solo ieri passeggiava con me sotto i portici.
            – Ieri passeggiava ed ora è morto, mi replicarono.
            – Per fortuna che era un giovane buono! esclamai. E diceva ai giovani che aveva attorno:
            – Vedete, vedete? Costui non ha nemmanco più potuto ricevere il viatico e l’estrema unzione. Ringraziamo però il Signore, che gli diede tempo di confessarsi. Questo giovane era buono, frequentava abbastanza i Sacramenti e speriamo che sia andato ad una vita felice, o almeno in purgatorio. Ma se fosse un po’ capitata ad altri la stessa sorte, che cosa ne sarebbe ora di certuni?
            Ciò detto, ci mettemmo tutti in ginocchio e recitammo un De profundis per l’anima del povero defunto.
            Intanto io andava in camera, quando mi vedo giungere Ferraris dalla libreria (coadiutore Giovanni Antonio Ferraris, libraio), il quale tutto affannato mi dice:
            – Sa, D. Bosco, che cosa è avvenuto?
            – Eh! purtroppo lo so! È morto il tale! rispondo.
            – Non è questo che voglio dire; vi sono due altri morti.
            – Come? chi?
            – Il tale ed il tale altro.
            – Ma quando? Non capisco.
            – Sì, due altri, i quali morirono prima che ella giungesse.
            – E perché allora non mi avete chiamato?
            – Mancò il tempo. Ma ella sa dirmi quando è morto questo qui?
            – È morto adesso! io risposi.
            – Sa ella in che giorno siamo e di qual mese? proseguì Ferraris.
            – Sì che lo so; siamo ai 22 di gennaio, secondo giorno della novena di S. Francesco di Sales.
            – No, disse Ferraris. Ella si sbaglia, signor Don Bosco; guardi bene. – Io alzo gli occhi al calendario e vedo: 26 di Maggio.
            – Ma questa è maiuscola! esclamai. Siamo di gennaio, e ben me ne accorgo dal come sono vestito, non si va vestiti così di maggio; di maggio non vi sarebbe il calorifero acceso.
            – Io non so che dirle, o che ragione darle, ma ora siamo ai 26 di maggio.
            – Ma se ieri solamente è morto quel nostro compagno ed eravamo in gennaio.
            – Si sbaglia, insisté Ferraris; eravamo in tempo pasquale.
            – Un’altra ne aggiungi ancor più grossa!
            – Tempo pasquale, sicuro: eravamo in tempo pasquale, e fu ben più fortunato di morire nella Pasqua, che gli altri due, i quali morirono nel mese di Maria.
            – Tu mi burli, io gli dissi. Spiegati meglio, altrimenti io non t’intendo.
            – Io non burlo niente affatto. La cosa è così. Se poi vuole saperne di più, e che io mi spieghi meglio, ecco! Stia attento!
            Aperse le braccia, poi batté le due mani una contro l’altra forte forte: ciac! Ed io mi sono svegliato. Allora esclamai: – Oh per fortuna! Non è una realtà, ma è un sogno. Quanto timore ho avuto!
            Ecco il sogno che ho fatto la notte scorsa. Voi dategli quell’importanza che volete. Io stesso non voglio dargli interamente fede. Oggi però ho voluto vedere se coloro che mi parvero morti in sogno, fossero ancora vivi e li vidi sani e vigorosi. Certamente che non conviene ch’io dica, e non dirò, chi siano costoro. Tuttavia terrò d’occhio quei due: se sarà necessario qualche consiglio per vivere bene, lo darò loro, e li preparerò, facendo le volte larghe senza che se ne accorgano; perché così, se accadesse loro di dover morire, la morte non li trovi impreparati. Ma nessuno vada dicendo: Sarà questi, sarà quegli. Ciascuno pensi a sé.
            E non datevi nessuna apprensione di questo. L’effetto che deve fare in voi è semplicemente quello che ci suggerì il Divin Salvatore nel Vangelo: Estote parati, quia, qua hora non putatis, filius hominis veniet (Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo, Lc 12,40). È questo un grande avvertimento, miei cari giovani, che ci dà il Signore. Stiamo apparecchiati sempre, perché nell’ora in cui meno ce lo aspettiamo, può venire la morte e colui che non è preparato a morir bene, corre grave rischio di morir male. Io mi terrò preparato il meglio che posso e voi fate lo stesso, affinché in qualunque ora piaccia al Signore di chiamarci, possiamo essere pronti a passare nella felice eternità. Buona notte.

            Le parole di Don Bosco si ascoltavano sempre con religioso silenzio; ma quando egli raccontava di queste cose straordinarie, fra le centinaia di ragazzi che gremivano il luogo, non si sentiva un colpo di tosse né il più lieve fruscio di piedi. L’impressione viva durava settimane e mesi e con l’impressione avvenivano mutazioni radicali nella condotta di certi discoli. Si faceva poi ressa intorno al confessionale di Don Bosco. Di supporre che egli inventasse quei racconti per spaventare e migliorare la vita dei giovani, non veniva in capo a nessuno, perché gli annunzi di morti prossime si avveravano sempre e certi stati di coscienza veduti nei sogni rispondevano a realtà.
            Ma il timore prodotto da sì lugubri predizioni non era un incubo opprimente? Non pare. Troppe si presentavano le possibilità e le supposizioni in una moltitudine di più che ottocento giovani, perché i singoli ne potessero essere preoccupati. Inoltre la persuasione realmente diffusa, che chi moriva nell’Oratorio, andava di certo in paradiso, e che Don Bosco preparava i designati senza spaventarli, contribuiva a scacciare dagli animi ogni timore. D’altra parte si sa bene quanto sia grande la volubilità giovanile: sul momento la fantasia dei giovani rimane colpita e scossa; ma poi quel ricordo si libera ben presto da qualsiasi paurosa apprensione. Tanto ci attestavano unanimi i superstiti di quei tempi.
            Andati che furono i giovani a dormire, alcuni confratelli che attorniavano il Beato, lo tempestavano di domande, per sapere se alcuno di loro fosse fra quei che dovevano morire. Il Servo di Dio, sorridendo secondo il suo solito e scuotendo il capo, ripeteva:
            – Già, già! Verrò a dirvi chi è, con pericolo di far morire qualcuno prima del tempo!
            Visto che lì non si spillava nulla, lo interrogarono se nel primo sogno vi fossero anche dei chierici a far la parte delle galline, che, si abbandonassero cioè alla mormorazione. Don Bosco, che passeggiava, si fermò, girò gli occhi su gl’interlocutori e fece un risolino come per dire: – Eh! qualcuno sì; tuttavia pochi, e non aggiungo altro. – Allora gli chiesero che dicesse almeno se essi erano fra i cani muti; il Beato si tenne sulle generali, osservando che bisognava stare attenti a evitare e a far evitare le mormorazioni e in genere tutti i disordini, massime i cattivi discorsi. – Guai al prete e al chierico, disse, il quale, incaricato della vigilanza, vede i disordini e non li impedisce! Desidero si sappia e si ritenga che con la parola “mormorazioni” io non intendo solamente il tagliarci i panni addosso, ma ogni discorso, ogni motto, ogni parola, che possa in un compagno sminuire il frutto della parola di Dio udita. In generale poi intendo di dire che è un gran male starsene quieti, allorché si conosce qualche disordine, non impedendolo o non cercando che lo impedisca chi di ragione.
            Uno più arditelo mosse al Servo di Dio un’interrogazione alquanto azzardata.
            – E Don Barberis per che cosa entra nel sogno? Lei ha detto che ce n’era anche per lui, e Don Barberis stesso sembrava che si aspettasse una buona bastonata per sé. – Don Barberis era presente. Sulle prime Don Bosco accennava a non voler rispondere. Ma poi, essendo rimasti ai suoi fianchi solo alcuni preti e mostrandosi Don Barberis contento che egli palesasse il segreto, il Beato disse:
            – Eh! Don Barberis non predica abbastanza su questo punto; su quest’argomento non insiste quanto bisogna. Don Barberis confermò che né l’anno innanzi né durante l’anno in corso si era mai fermato di proposito: su quelle materie nelle sue conferenze agli ascritti; ebbe perciò molto piacere dell’osservazione e se la legò all’orecchio per l’avvenire.
            Ciò detto, salirono le scale e tutti, baciata la mano a Don Bosco, si allontanarono e andarono a riposo. Tutti, meno Don Barberis, che secondo il consueto lo accompagnò fino all’uscio della sua stanza. Don Bosco, vedendo che era ancora presto e accorgendosi che non avrebbe potuto prender sonno, perché fortemente impressionato dalle cose esposte, contro la sua costante abitudine fece entrare Don Barberis nella camera, dicendo:
            – Giacché abbiamo ancora tempo, possiamo fare due passi su e giù per la stanza.
            Così continuò a discorrere per una mezz’ora. Disse fra l’altro:
            – Io nel sogno ho veduto tutti ed ho veduto lo stato nel quale ognuno si trovava: se gallina, se cane muto, se nel numero di coloro che avvisati si misero all’opera o non si mossero. Di queste cognizioni io mi servo confessando, esortando in pubblico ed in privato, finché vedo che producono del bene. Da principio non faceva gran caso di questi sogni; ma mi accorsi che per lo più valgono a produrre l’effetto di più prediche, anzi per alcuni sono più efficaci che un corso di esercizi spirituali; perciò me ne servo. E perché no? Si legge nella Sacra Scrittura: Probate spiritus (mettete alla prova gli spiriti, 1Gv 4,1); quod bonum est tenete (tenete ciò che è buono, 1Tes 5,21). Vedo che giovano, vedo che piacciono, e perché tenerli segreti? Anzi osservo che contribuiscono ad affezionare molti alla Congregazione.
            – Ho provato io stesso, interruppe Don Barberis, di quanta utilità fossero questi sogni e quanto salutari. Anche narrati altrove, fanno del bene. Dove Don Bosco è conosciuto, si può dire che sono sogni fatti da lui; dove non è conosciuto, si possono presentare come similitudini. Oh, se sì potesse fame una raccolta, esponendoli in forma di similitudini! Sarebbero ricercati e letti da piccoli e da grandi, da giovani e da vecchi, con vantaggio delle anime loro.
            – Già, già! Farebbero del bene, ne sono intimamente convinto.
            – Ma forse, lamentò Don Barberis, nessuno li ha raccolti per iscritto.
            – Io, riprese Don Bosco, non ho tempo, e di molti non mi ricordo più.
            – Quelli dei quali io mi ricordo, replicò Don Barberis, sono i sogni che si riferivano ai progressi della Congregazione, all’estendersi del manto della Madonna…
            – Ah, sì! – esclamò il Beato. E accennò a parecchie visioni di questo genere. Presa quindi un’aria più grave e quasi conturbato proseguì:
            – Quando penso alla mia responsabilità nella posizione in cui io mi trovo, tremo tutto… Che conto tremendo avrò da rendere a Dio di tutte le grazie che ci fa per il buon andamento della nostra Congregazione!
(MB XII, 40-51)

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La decima collina (1864)

Il sogno della “Decima Collina”, narrato da don Bosco nell’ottobre 1864, è una delle pagine più suggestive della tradizione salesiana. In esso il santo si ritrova in una sterminata valle colma di giovani: alcuni già all’Oratorio, altri ancora da incontrare. Guidato da una voce misteriosa, deve condurli oltre una ripida scarpata e poi attraverso dieci colline, simbolo dei dieci comandamenti, verso una luce che prefigura il Paradiso. Il carro dell’Innocenza, le schiere penitenziali e la musica celestiale disegnano un affresco educativo: mostrano la fatica di preservare la purezza, il valore del pentimento e il ruolo insostituibile degli educatori. Con questa visione profetica don Bosco anticipa l’espansione mondiale della sua opera e l’impegno di accompagnare ogni giovane sul cammino della salvezza.

                D. Bosco aveva sognato nella notte precedente. Nello stesso tempo un giovane di nome C… E… di Casal Monferrato, fece egli pure lo stesso sogno, parendogli di trovarsi con D. Bosco e di parlargli. Levatosi ne era rimasto tanto colpito che andò a raccontare le cose sognate al suo professore, il quale lo esortò di recarsi a narrarle a D. Bosco. Il giovane andò subito e s’imbatté con lui stesso che scendeva le scale, per cercarlo e narrargli la stessa cosa.
                Parve adunque a D. Bosco di trovarsi in una grandissima valle tutta piena di migliaia e migliaia di giovanetti, ma così numerosi che esso non credeva potersene trovare tanti in tutto il mondo. Fra questi giovani egli distingueva tutti quelli che furono, e quelli che sono nella casa. Tutti gli altri erano coloro che forse verranno poi. Frammisti ai giovani si vedevano i preti ed i chierici della casa.
                Una ripa altissima chiudeva da un lato quella valle. Mentre D. Bosco pensava che cosa avrebbe dovuto fare di tanti giovani, una voce gli disse:
                – Vedi quella ripa? Ebbene; bisogna che tu e i tuoi giovani ne guadagniate la cima.
                Allora D. Bosco diede ordine a tutte quelle, turbe di giovani di muoversi verso il punto indicato. I giovani si mossero e a gran corsa si slanciarono arrampicandosi su per la ripa. I preti della casa correvano anche essi all’insù spingendo avanti i giovani, rialzavano quelli che cadevano e portavano sulle spalle coloro che stanchi non potevano camminare. D. Rua colle maniche della veste rivoltate lavorava più di tutti e, prendendo i giovani a due per due, addirittura gli slanciava per aria sulla ripa, sulla quale cadendo essi restavano in piedi e poi scorrazzavano allegramente qua e là. D. Cagliero e D. Francesia correvano su e giù per le file gridando:
                – Coraggio, avanti; avanti, coraggio.
                In poco d’ora quelle schiere giovanili raggiunsero la cima della ripa; D. Bosco pure era salito e disse:
                – Ed ora che cosa faremo?
                E la voce soggiunse:
                – Tu devi valicare coi tuoi giovani queste dieci colline che vedi distendersi innanzi a te l’una dopo l’altra.
                – Ma come faranno a reggere ad un viaggio così lungo tanti giovanetti che sono così piccoli e delicati?
                – Chi non potrà andare coi suoi piedi, sarà portato; – gli fu risposto.
                Ed ecco infatti spuntare ad una estremità del colle e salire un magnifico carro. Impossibile ne è la descrizione tanto era bello, ma pure qualche cosa si può dire. Era triangolare e aveva tre ruote che si movevano per tutti i versi. Dai tre angoli partivano tre aste che venivano a congiungersi in un punto solo sopra il carro stesso, formando come un pinnacolo di pergolato. Su questo punto di congiunzione si innalzava un magnifico stendardo sul quale era scritto a caratteri cubitali: Innocentia. Una fascia poi che correva tutto intorno al carro, formava sponda e portava l’iscrizione: Adjutorio Dei Altissimi Patris et Filii et Spiritus Sancti (al riparo di Dio Altissimo, Padre e Figlio e Spirito Santo).
                Il carro, che splendeva tutto per oro e pietre preziose, si avanzò e venne a collocarsi in mezzo ai giovani. Dato il comando, molti fanciulletti vi salirono sopra. Il numero era di 500. Cinquecento appena in mezzo a tante migliaia di giovani erano ancora innocenti.
                Collocati questi sul carro D. Bosco pensava per quale via avrebbe dovuto incamminarsi, quando vide aprirsi innanzi a lui una strada larga e comoda, ma tutta sparsa di spine. Apparvero quindi all’improvviso sei giovani, già morti nell’Oratorio, vestiti di bianco, i quali inalberavano un’altra bellissima bandiera sulla quale era scritto: Poenitentia. Costoro si andarono a posare alla testa di tutte quelle falangi di giovani che dovevano mettersi in viaggio pedestri. Allora fu dato il segnale della partenza. Molti preti si slanciano al timone del carro, il quale tratto da essi incomincia a muoversi. I sei vestiti di bianco lo seguono. Dietro a loro tutto il resto della moltitudine. Con magnifica ed inesprimibile musica si intona dai giovanetti che erano sul carro il Laudate pueri Dominum (Lodate Dio voi piccoli, Ps 113,1).
                D. Bosco camminava inebbriato da quella musica celeste, quando si ricordò di voltarsi indietro, per vedere se tutti i giovani lo avevano seguito. Ma oh doloroso spettacolo! Molti erano rimasti nella valle, molti erano ritornati indietro. Don Bosco agitato da inesprimibile dolore decise di rifare il cammino già fatto per tentar di persuadere quei giovani sconsigliati, e di aiutarli a seguirlo. Ma gli venne assolutamente vietato.
                – Ma quei poverini si perdono: – esclamò egli.
                E gli venne, risposto:
                – Peggio per loro: essi furono chiamati come gli altri e non vollero seguirti. La strada da farsi l’hanno veduta e ciò basta.
                D. Bosco voleva replicare; pregò, scongiurò: tutto fa inutile:
                – L’obbedienza è anche per te! – gli fu detto. E dovette continuare il cammino.
                Non erasi ancor lenito questo dolore, quando un altro tristo accidente sopravvenne. Molti giovanetti di quelli che si trovavano sul carro a poco a poco erano caduti per terra. Di 500 appena 150 rimanevano sotto il vessillo dell’innocenza.
                Il cuore di D. Bosco scoppiava per l’insopportabile affanno. Esso sperava fosse quello un sogno, faceva tutti gli sforzi per svegliarsi, ma pur troppo si accorgeva che era una terribile realtà. Batteva le mani ed udiva il suono di esse: gemeva, ed udiva che il suo gemito risuonare per la stanza; voleva dissipare quel terribile fantasma, ma non poteva.
                – Ah miei cari giovani! egli esclamava a questo punto, narrando il sogno. Io ho conosciuto e veduto coloro che rimasero nella valle, quelli che tornarono indietro o caddero dal carro! Vi ho conosciuti tutti. Ma non dubitate; io farò ogni sforzo possibile per salvarvi. Molti di voi invitati da me a confessarsi non risposero alla chiamata! Per carità salvate le anime vostre.
                Molti dei giovanetti caduti dal carro si erano di mano in mano andati a porre tra le file di coloro che camminavano dietro la seconda bandiera. Intanto la musica del carro continuava così dolce che a poco a poco vinse il dolore di D. Bosco. Sette colline erano già valicate e giunte quelle schiere sulla ottava, entrarono in un meraviglioso paese, dove si fermarono a prendere un po’ di riposo. Le case erano di una ricchezza e bellezza indescrivibile.
                D. Bosco parlando ai giovani di questa regione soggiunse:
                – Vi dirò con Santa Teresa ciò che essa affermò delle cose del paradiso: sono cose che col parlarne si avviliscono, perché sono così belle che è inutile sforzarsi a descriverle. Quindi osserverò solamente che gli stipiti di quelle case parevano di oro, di cristallo, di diamante tutt’insieme, sicché sorprendevano, appagavano la vista infondevano allegrezza. I campi erano ripieni d’alberi sui quali si vedevano contemporaneamente fiori, bottoni, frutta matura e frutta verde. Era un incanto magnifico.
                I giovani si sparsero pel paese chi di qua e chi di là, chi per una cosa, chi per l’altra, poiché grande era la loro curiosità e il desiderio di avere di quella frutta.
                È in questo villaggio che quel giovane di Casale si imbatté in D. Bosco e tenne con lui un lungo dialogo. D. Bosco e il giovane si ricordavano perfettamente le domande fatte e le risposte avute. Singolare combinazione di due sogni.
                D. Bosco ebbe qui un’altra strana sorpresa. I suoi giovani gli apparvero ad un tratto come divenuti vecchi; senza denti, pieni di rughe in volto, coi capelli bianchi, curvi, zoppicanti, appoggiati al bastone. D. Bosco si meravigliava di questa metamorfosi, ma la voce gli disse:
                – Tu ti meravigli; ma hai da sapere che non sono già poche ore dacché sei partito dalla valle, ma sono anni ed anni. È quella musica che ti ha fatto parer corto il cammino. In prova, guarda la tua fisionomia e ti persuaderai se io dico il vero. – E a D. Bosco venne presentato uno specchio. Egli si specchiò e vide che il suo aspetto era d’uomo attempato, col volto rugoso, e coi denti guasti e pochi.
                La comitiva frattanto si rimise in cammino e i giovani a quando a quando chiedevano di fermarsi per vedere quelle nuove cose. Ma D. Bosco diceva loro:
                – Avanti, avanti: noi non abbisogniamo di nulla; non abbiamo fame, noti abbiam sete, dunque avanti.
                (In fondo lontano, sulla decima collina spuntava una luce che andava sempre crescendo come se uscisse da una stupenda porta). Ricominciò allora il canto, ma così bello che solo in Paradiso si può udire l’eguale e gustarlo. Non era musica di istrumenti, né pareva di voci umane. Era una musica impossibile a descriversi; e tanta fu la piena del giubilo che inondò l’anima di D. Bosco che svegliatosi si trovò nel suo letto.
                D. Bosco così spiegò il suo sogno:
                – La valle è il mondo. La ripa gli ostacoli per staccarsi da esso. – Il carro lo capite. – Le squadre dei giovani a piedi sono i giovani che perduta l’innocenza, si pentirono dei loro falli.
                D. Bosco aggiunse ancora che le 10 colline raffiguravano i 10 comandamenti della legge di Dio, l’osservanza dei quali conduce alla vita eterna.
                Quindi annunziò che, se facesse di bisogno era pronto a dire confidenzialmente a certi giovani che cosa facevano in quel sogno; se restarono nella valle o se caddero dal carro.
                Disceso dalla bigoncia, l’alunno Ferraris Antonio si avvicinò a lui, e gli raccontò, essendo noi presenti che intendemmo perfettamente le sue parole, come la sera precedente avesse egli sognato di trovarsi in compagnia di sua madre, la quale gli aveva domandato se a Pasqua sarebbe tornato a casa per passarvi i giorni di vacanza: esso averle risposto che prima di Pasqua sarebbe andato in paradiso. Quindi in confidenza sottovoce disse alcune altre parole nell’orecchio a D. Bosco. Ferraris Antonio morì il 16 marzo 1865.
                Noi abbiamo subito scritto il sogno, e la stessa sera 22 ottobre 1864 sul fine aggiungevamo la seguente postilla. “Io tengo per certo che D. Bosco colle sue spiegazioni cercò di coprire ciò che il sogno ha di più sorprendente, almeno per qualche circostanza. Quella dei dieci comandamenti non mi appaga. L’ottava collina sulla quale D. Bosco fa una sosta, ed egli si vede nello specchio così attempato, io credo che indichi il fine della sua vita dover succedere oltre i settanta anni. Vedremo l’avvenire”.
                Questo avvenire è dunque ora tempo passato, e noi ci siamo confermati nella nostra opinione. Il sogno indicava a Don Bosco la durata del suo vivere. Confrontiamo con questo, quello della Ruota, che noi non potemmo conoscere se non qualche anno dopo. I giri della Ruota procedono per decenni: e così pure sembra che’ abbracci simile spazio di tempo il procedere di collina in collina. Ognuna della dieci colline rappresenta dieci anni, sicché vengono a significare cento anni il massimo della vita di un uomo. Ora noi vediamo D. Bosco ancor fanciullo, nel primo decennio, incominciare la sua missione tra i compagni dei Becchi e così dar principio al suo viaggio; percorre interamente le sette colline cioè sette decenni quindi la sua età giunge a settant’anni: sale l’ottava collina e qui fa una sosta: vede case e campi meravigliosamente belli, ovvero la sua Pia Società resa grande e fruttifera dalla bontà infinita di Dio. È ancor lunga la via da percorrere sulla ottava collina e si rimette in viaggio; ma non giunge alla nona, perché si risveglia. Così egli non campò l’ottavo decennio, morendo a 72 anni e 5 mesi.
                Che ne dice il lettore? Aggiungeremo che la sera dopo Don Bosco avendo interrogato noi stessi qual fosse il nostro pensiero intorno al sogno, gli abbiamo risposto, che non riguardava solamente i giovani, ma sebbene indicava la dilatazione della Pia Società in tutto il mondo.
                – Ma che? replicò uno dei nostri confratelli; abbiamo già i collegi di Mirabello e di Lanzo e se ne aprirà qualche altro in Piemonte. Che cosa vuoi di più?
                – No; sono ben altri i destini che ci annunzia il sogno.
                E D. Bosco approvava, sorridendo, la nostra persuasione.
(MB VII, 796-802)




Don Bosco assiste a un conciliabolo di demoni (1884)

Le pagine che seguono ci conducono nel cuore dell’esperienza mistica di San Giovanni Bosco, attraverso due vividi sogni avuti fra settembre e dicembre 1884. Nel primo, il Santo attraversa la pianura verso Castelnuovo con un misterioso personaggio e riflette sulla scarsità di preti, ammonendo che soltanto lavoro indefesso, umiltà e moralità possono far fiorire autentiche vocazioni. Nel secondo ciclo onirico, Bosco assiste a un concilio infernale: mostruosi demoni complottano di annientare la nascente Congregazione Salesiana, diffondendo gola, brama di ricchezze, libertà senza obbedienza e orgoglio intellettuale. Tra presagi di morte, minacce interne e segni di Provvidenza, questi sogni diventano uno specchio drammatico delle lotte spirituali che attendono ogni educatore e la Chiesa intera, offrendo insieme avvertimenti severi e speranze luminose.

            Ricchi di ammaestramenti sono due sogni fatti in settembre e in dicembre.

            Il primo, avuto nella notte dal 29 al 30 settembre, è una lezione per i preti. Gli parve di andare verso Castelnuovo attraverso una pianura; gli camminava a fianco un venerando sacerdote, del quale disse di non ricordare più il nome. Cadde il discorso sui preti. – Lavoro, lavoro, lavoro! dicevano. Ecco quale dovrebbe essere l’obiettivo e la gloria dei preti. Non stancarsi mai di lavorare, Così, quante anime si salverebbero! Quante cose vi sarebbero da fare per la gloria di Dio! Oh se il missionario facesse davvero il missionario, se il parroco facesse davvero il parroco, quanti prodigi di santità splenderebbero da ogni parte! Ma purtroppo molti hanno paura di lavorare e preferiscono le proprie comodità…
            Ragionando a questo modo fra loro, giunsero ad un luogo detto Filippelli. Allora Don Bosco prese a lamentare l’odierna scarsità di preti.
            – É vero, rincalzò l’altro, i preti scarseggiano; ma se tutti i preti facessero il prete, ve ne sarebbero abbastanza, Quanti preti invece vi sono che non fan nulla per il ministero! Gli unì non fanno altro che il prete di famiglia, altri per timidità se ne stanno oziosi, mentre se si mettessero nel ministero, se prendessero l’esame di confessione, riempirebbero un gran vuoto nelle file della Chiesa… Iddio le vocazioni le proporziona alla necessità. Quando venne la leva dei chierici, tutti erano spaventati, come se nessuno più si dovesse far prete; ma, quando le fantasie si calmarono, si vede che le vocazioni invece di scemare andavano crescendo.
            – E adesso, interrogò Don Bosco, che cosa bisogna fare per promuovere le vocazioni in mezzo ai giovanetti?
            – Nient’altro, rispose il compagno di viaggio, che coltivare gelosamente fra essi la moralità. La moralità è il semenzaio delle vocazioni.
            – E che cosa debbono fare specialmente i preti per ottenere che la loro vocazione rechi frutto?
            – Presbyter discat domum suam regere et sanctificare. (il sacerdote deve imparare a governare e santificare la sua casa). Ognuno sia esempio di santità nella propria famiglia e nella propria parrocchia. Non disordini di gola, non ingolfarsi nelle cure temporali… Sia anzitutto modello in casa e poi sarà il primo fuori.
            A un certo punto del cammino quel sacerdote chiese a Don Bosco ove andasse; Don Bosco indicò Castelnuovo. Egli allora, lasciatolo proseguire, rimase con un gruppo di persone che lo precedevano. Fatti pochi passi, Don Bosco si svegliò. In questo sogno possiamo vedere una rimembranza delle antiche passeggiate attraverso quei luoghi.

Predice la morte di salesiani
            Il secondo sogno si riferisce alla Congregazione e mette in guardia contro pericoli che potrebbero minacciarne l’esistenza. Veramente, più che un sogno, è un argomento che si svolge in una successione di sogni.
            Nella notte del io dicembre il chierico Viglietti fu svegliato di soprassalto da strazianti grida, che partivano dalla camera di Don Bosco. Balzò subito di letto e stette ad ascoltare. Don Bosco, con voce soffocata dal singhiozzo gridava:
            – Ohimè! ohimè! aiuto! aiuto!
            Viglietti senza più entrò e:
            – Oh Don Bosco, disse, si sente male?
            – Oh Viglietti! rispose svegliandosi. No, non sto male; ma non poteva proprio più respirare, sai. Ma basta: ritorna tranquillo a letto e dormi.
            Al mattino, quando Viglietti secondo il solito gli portò dopo la Messa il caffè:
            – Oh Viglietti! prese a dire, non ne posso proprio più, ho lo stomaco tutto rotto dalle grida di questa notte. Sono quattro notti consecutive che faccio sogni, i quali mi costringono a gridare e mi stancano all’eccesso. Quattro notti fa io vedeva una lunga schiera di Salesiani che andavano tutti uno dietro all’altro, portando ciascuno un’asta, in cima alla quale stava un cartello e sul cartello un numero stampato. Si leggeva in uno 73, in un altro 30, in un terzo 62 e così via. Dopo che furono passati molti, in cielo apparve la luna, nella quale di mano in mano che compariva un Salesiano, si vedeva una cifra non mai maggiore di 12, e dietro venivano tanti punti neri. Tutti i Salesiani da me visti andarono a sedersi ciascuno sopra una tomba preparata.
            Ed ecco la spiegazione datagli di quello spettacolo. Il numero che stava sui cartelli era il numero degli anni di vita destinato a ciascuno; l’apparire della luna in varie forme e fasi, indicava il mese ultimo di vita; i punti neri erano i giorni del mese, in cui sarebbero morti. Più e più ne vedeva talvolta riuniti in gruppi: erano quelli che dovevano morire insieme, in un medesimo giorno. Se avesse voluto narrare minutamente tutte le cose e le circostanze accessorie, assicurò che avrebbe impiegato almeno una decina di giorni interi.

Assiste a un conciliabolo di demoni
            Tre notti fa, continuò, sognai di nuovo. Ti racconterò in breve. Mi parve di essere in una gran sala, dove diavoli in gran numero tenevano congresso e trattavano del modo di sterminare la Congregazione Salesiana. Sembravano leoni, tigri, serpenti e altre bestie; ma la loro figura era come indeterminata e si avvicinava piuttosto alla figura umana. Parevano ombre, che ora si abbassavano e ora si alzavano, si accorciavano, si stendevano, come farebbero molti corpi che dietro avessero un lume trasportato or da una parte or dall’altra, ora abbassato al suolo e ora sollevato. Ma quella fantasmagoria metteva spavento.
            Or ecco uno dei demoni avanzarsi e aprire la seduta. Per distruggere la Pia Società propose un mezzo: la gola. Fece vedere le conseguenze di questo vizio: inerzia per il bene, corruzione dei costumi, scandalo, nessuno spirito di sacrificio, nessuna cura dei giovani… Ma un altro diavolo gli rispose:
            – Il tuo mezzo non è generale ed efficace, né si possono assalire con esso tutti i membri insieme, perché la mensa dei religiosi sarà sempre parca e il vino misurato: la regola fissa il loro vitto ordinario: i Superiori invigilano per impedire che succedano disordini. Chi eccedesse talvolta nel mangiare e nel bere, invece di scandalizzare, farebbe piuttosto ribrezzo. No, non è questa l’arma per combattere i Salesiani; procurerò io un altro mezzo, che sarà più efficace e ci farà ottenere meglio il nostro intento: l’amore alle ricchezze. In una Congregazione religiosa, quando c’entra l’amore alle ricchezze, c’entra insieme l’amore alle comodità, si cerca ogni via per avere un peculio, si rompe il vincolo della carità, pensando ognuno a sé stesso, si trascurano i poveri per occuparsi solo di quelli che hanno fortuna, si ruba alla Congregazione…
            Colui voleva continuare, ma sorse un terzo demonio.
            – Ma che gola! esclamò. Ma che ricchezze! Fra i Salesiani l’amore delle ricchezze può vincere pochi. Sono tutti poveri i Salesiani; hanno poche occasioni di procurarsi un peculio. In generale poi essi sono così costituiti e sono così immensi i loro bisogni per i tanti giovani e per le tante case, che qualunque somma anche grossa verrebbe consumata. Non è possibile che tesoreggino. Ma ho un mezzo io, infallibile, per guadagnare a noi la Società Salesiana, e questo è la libertà. Indurre quindi i Salesiani a sprezzare le Regole, a rifiutare certi uffizi come pesanti e poco onorifici, spingerli a fare scismi dai loro Superiori con opinioni diverse, ad andare a casa col pretesto d’inviti e simili.
            Mentre i demoni parlamentavano, Don Bosco pensava: – Io sto bene attento, sapete, a quello che andate dicendo. Parlate, parlate pure, che così potrò sventare le vostre trame.
            Intanto saltava su un quarto demonio e:
            – Ma che! gridò. Armi spezzate le vostre! I Superiori sapranno frenare questa libertà, scacceranno via dalle case chi osasse dimostrarsi ribelle alle Regole. Qualcheduno forse sarà trascinato dall’amore di libertà, ma la gran maggioranza si manterrà nel dovere. Io, ho un mezzo adattato per guastar tutto fin dalle fondamenta; un mezzo tale che a stento i Salesiani se ne potranno guardare: sarà proprio un guasto in radice. Ascoltatemi con attenzione. Persuaderli che l’essere dotto è quello che deve formare la loro gloria principale. Quindi indurli a studiare molto per sé, per acquistare fama, e non per praticare quello che imparano, non per usufruire della scienza a vantaggio del prossimo. Perciò boria nelle maniere verso gl’ignoranti e i poveri, poltroneria nel sacro ministero. Non più oratorii festivi, non più catechismi ai fanciulli, non più scuolette basse per istruii e i poveri ragazzi abbandonati, non più le lunghe ore di confessionale. Terranno solo la predicazione, ma rara e misurata e questa sterile, perché fatta a sfogo di superbia col fine di avere le lodi degli uomini e non di salvare anime.
            La proposta di costui fu accolta con applausi generali. Allora Don Bosco intravide il giorno in cui i Salesiani potrebbero darsi a credere che il bene della Congregazione e il suo onore dovesse unicamente consistere nel sapere, e paventò che non solo così praticassero, ma anche predicassero a gran voce doversi così praticare.
            Anche stavolta Don Bosco se ne stava in un angolo della sala ad ascoltare e a vedere tutto, quando uno dei demoni lo scoperse e gridando lo indicò agli altri. A quel grido, tutti si avventarono contro di lui urlando:
            – La faremo finita! Era una ridda infernale di spettri, che lo urtavano, lo afferravano per le braccia e per la persona, ed egli a gridare: Lasciatemi! Aiuto! – Finalmente si svegliò con lo stomaco tutto sconquassato dal molto gridare.

Leoni, tigri e mostri vestiti da agnelli
            La notte seguente s’avvide che il demonio aveva assalito i Salesiani nel punto più essenziale, spingendoli alla trasgressione delle Regole. Fra essi gli si parava innanzi, distintamente chi le osservava e chi non le osservava.
            Nella notte ultima poi il sogno era stato spaventevole. Don Bosco vedeva un grosso gregge di agnelli e di pecore che raffiguravano altrettanti Salesiani. Egli si avvicinò cercando di accarezzare gli agnelli; ma s’accorse che la loro lana invece di essere lana d’agnelli, faceva solo da copertura, nascondendo leoni, tigri, cani arrabbiati, porci, pantere, orsi, e ognuno aveva ai fianchi un mostro brutto e feroce. In mezzo al gregge stavano alcuni radunati a consiglio. Don Bosco inosservato si avvicinò ad essi per udire che cosa dicessero: concertavano il modo di distruggere la Congregazione Salesiana. Uno diceva:
            – Bisogna scannarli i Salesiani.
            E un altro sghignazzando soggiungeva:
            – Bisogna strangolarli.
            Ma sul più bello tino di loro vide Don Bosco là vicino che ascoltava. Diede l’allarme e tutti a una voce gridarono che bisognava cominciare da Don Bosco. Ciò detto, gli si avventarono contro come per strozzarlo. In quel punto egli mandò il grido che svegliò Viglietti. Un’altra cosa oltre le violenze diaboliche opprimeva allora il suo spirito: aveva veduto su quel gregge spiegarsi una grande insegna, che portava scritto: BESTIIS COMPARATI SUNT (sono paragonati alle bestie). Raccontato questo, chinò il capo e piangeva.
            Viglietti gli prese la mano e stringendosela al cuore:
            – Ah! Don Bosco, gli disse, noi però con l’aiuto di Dio le saremo sempre fedeli e buoni figliuoli, non è vero?
            – Caro Viglietti, rispose, sta’ buono e preparati a vedere gli avvenimenti. Questi sogni io te li ho appena accennati; che se ti dovessi narrare particolareggiatamente ogni cosa, ne avrei per molto tempo ancora. Quante cose vidi! Ci sono alcuni nelle nostre case che non arriveranno più a far la novena del Santo Natale. Oh se potessi parlare ai giovani, se mi reggessero le forze per intrattenermi con essi, se potessi girare per le case, fare quello che facevo una volta, rivelare a ciascuno lo stato della sua coscienza, come l’ho visto nel sogno e dire a certi tali: Rompi il ghiaccio, fa’ una volta una buona confessione! Essi mi risponderebbero: Ma io mi sono confessato bene! Invece io potrei replicare, dicendo loro quello che hanno taciuto le in modo che non oserebbero più aprir bocca. Anche certi Salesiani, se potessi far giungere loro una mia parola, vedrebbero il bisogno che hanno di aggiustare le proprie partite rifacendo le confessioni. Vidi chi osservava le Regole e chi no. Vidi molti giovani che andranno a S. Benigno, si faranno Salesiani e poi defezioneranno. Defezioneranno anche certuni che ora sono già Salesiani. Vi saranno di quelli che vorranno soprattutto la scienza che gonfia, che procaccia foro le lodi degli uomini e che li rende sprezzanti dei consigli di chi essi credono da meno di loro per sapere…
            A questi affliggenti pensieri s’intrecciavano provvidenziali consolazioni, che gli rallegravano il cuore. La sera del 3 dicembre giungeva all’Oratorio il Vescovo di Para, cioè del paese centrale nel sogno sulle Missioni. E giorno dopo diceva a Viglietti:
            – Come è grande la Provvidenza! Senti, e poi di’ se non siamo protetti da Dio. Don Albera mi scriveva di non poter più andare avanti e abbisognargli subito mille franchi; nel giorno stesso una signora di Marsiglia, che sospirava di rivedere tiri suo fratello religioso a Parigi, contenta d’aver ottenuta la grazia dalla Madonna, portò mille franchi a Don Albera. Don Ronchail versa in gravi strettezze ed ha assolutamente bisogno di quattromila franchi; una signora scrive oggi stesso a Don Bosco che mette a sua disposizione quattromila franchi. Don Dalmazzo non sa più ove dare del capo per aver danaro; oggi una signora dona per la chiesa del Sacro Cuore una somma considerevolissima. – E poi il 7 dicembre vi fu la gioia per la consacrazione di monsignor Cagliero. Tutti questi fatti erano tanto più incoraggianti, perché segni visibili della mano di Dio nell’Opera del suo Servo.
(MB XVII 383-389)




Don Bosco e il Sacro Cuore. Custodire, riparare, amare

Nel 1886, alle soglie della consacrazione della nuova Basilica del Sacro Cuore al centro di Roma, il “Bollettino Salesiano” volle preparare i suoi lettori – cooperatori, benefattori, giovani, famiglie – a un incontro vitale con «il Cuore trafitto che continua ad amare». Per un anno intero, la rivista fece scorrere davanti agli occhi del mondo salesiano un vero “rosario” di meditazioni: ciascun numero legava un aspetto della devozione a un’urgenza pastorale, educativa o sociale che don Bosco – già stremato ma lucidissimo – considerava strategica per il futuro della Chiesa e della società italiana. A quasi centoquarant’anni di distanza quella serie resta un piccolo trattato di spiritualità del cuore, scritto con toni semplici ma pieni d’ardore, capace di coniugare contemplazione e prassi. Presentiamo qui, una lettura unitaria di quel percorso mensile, mostrando come l’intuizione salesiana sappia ancora parlare all’oggi.

Febbraio – La guardia d’onore: vegliare sull’Amore ferito
Il nuovo anno liturgico si apre, nel Bollettino, con un invito sorprendente: non solo adorare Gesù presente nel tabernacolo, ma “fargli la guardia” – un turno di un’ora scelta liberamente in cui ogni cristiano, senza interrompere le attività quotidiane, si fa sentinella amorosa che consola il Cuore trafitto dalle indifferenze del carnevale. L’idea, nata a Paray-le-Monial e fiorita in molte diocesi, diventa programma educativo: trasformare il tempo in spazio di riparazione, insegnare ai giovani che la fedeltà nasce da piccoli atti costanti, fare della giornata una liturgia diffusa. Il voto collegato – destinare il ricavato del Manuale della Guardia d’Onore alla costruzione della Basilica romana – rivela la logica salesiana: contemplazione che subito si traduce in mattoni, perché la preghiera vera edifica (letteralmente) la casa di Dio.

Marzo – Carità creativa: il timbro salesiano
Nella grande conferenza dell’8 maggio 1884, il cardinale Parocchi sintetizzò la missione salesiana in una parola: “carità”. Il Bollettino riprende quel discorso per ricordare che la Chiesa conquista il mondo più con gesti d’amore che con dispute teoriche. Don Bosco non fonda scuole d’elite ma ospizi popolari; non toglie i ragazzi dall’ambiente solo per proteggerli, bensì per restituirli alla società come cittadini solidi. È la carità “secondo le esigenze del secolo”: risposta al materialismo non con polemiche, bensì con opere che mostrano la forza del Vangelo. Da qui l’urgenza di un grande santuario dedicato al Cuore di Gesù: far svettare nel cuore di Roma un segno visibile di quell’amore che educa e trasforma.

Aprile – Eucaristia: “capolavoro del Cuore di Gesù”
Nulla, per don Bosco, è più urgente che riportare i cristiani alla Comunione frequente. Il Bollettino ricorda che «non v’è cattolicismo senza Madonna e senza Eucaristia». La mensa eucaristica è “genesi della società cristiana”: da lì nascono fraternità, giustizia, purezza. Se la fede languisce, bisogna riaccendere il desiderio del Pane vivo. Non a caso san Francesco di Sales consegnò alle Visitandine la missione di custodire il Cuore eucaristico: la devozione al Sacro Cuore non è sentimento astratto, ma strada concreta che conduce al tabernacolo e da lì si riversa nelle strade. Ed è ancora il cantiere romano a fare da verifica: ogni lira offerta per la basilica diventa “mattone spirituale” che consacra l’Italia al Cuore che si dona.

Maggio – Il Cuore di Gesù risplende nel Cuore di Maria
Il mese mariano porta il Bollettino a intrecciare le due grandi devozioni: tra i due Cuori esiste una comunione profonda, simboleggiata dall’immagine biblica dello “specchio”. Il Cuore immacolato di Maria riflette la luce del Cuore divino, rendendola sopportabile agli occhi umani: chi non osa fissare il Sole guarda il suo chiarore riflesso nella Madre. Culto di latria per il Cuore di Gesù, di “iperdulia” per quello di Maria: distinzione che evita gli equivoci dei polemisti giansenisti di ieri e di oggi. Il Bollettino smonta le accuse di idolatria e invita i fedeli a un amore equilibrato, dove contemplazione e missione si alimentano a vicenda: Maria introduce al Figlio e il Figlio conduce alla Madre. In vista della consacrazione del nuovo tempio, si chiede di unire le due invocazioni che campeggiano sulle colline di Roma e Torino: Sacro Cuore di Gesù e Maria Ausiliatrice.

Giugno – Consolazioni soprannaturali: l’amore operante nella storia
Duecento anni dopo la prima consacrazione pubblica al Sacro Cuore (Paray-le-Monial, 1686), il Bollettino afferma che la devozione risponde alla malattia del tempo: «raffreddamento della carità per sovrabbondanza d’iniquità». Il Cuore di Gesù – Creatore, Redentore, Glorificatore – viene presentato come centro di tutta la storia: dalla creazione alla Chiesa, dall’Eucaristia all’escatologia. Chi adora quel Cuore entra in un dinamismo che trasforma la cultura e la politica. Per questo il Papa Leone XIII ha chiesto a tutti di concorrere al santuario romano: monumento di riparazione ma anche “argine” contro la «fiumana immonda» dell’errore moderno. È un appello che suona attuale: senza carità ardente, la società si sfilaccia.

Luglio – Umiltà: la fisionomia di Cristo e del cristiano
La meditazione estiva sceglie la virtù più trascurata: l’umiltà, «gemma trapiantata dalla mano di Dio nel giardino della Chiesa». Don Bosco, figlio spirituale di san Francesco di Sales, sa che l’umiltà è la porta delle altre virtù e il sigillo di ogni vero apostolato: chi serve i giovani senza cercare visibilità rende presente «il nascondimento di Gesù per trent’anni». Il Bollettino smaschera la superbia mascherata da falsa modestia e invita a coltivare una doppia umiltà: dell’intelletto, che si apre al mistero, e della volontà, che obbedisce alla verità riconosciuta. La devozione al Sacro Cuore non è sentimentalismo: è scuola di pensiero umile e di azione concreta, capace di costruire pace sociale perché toglie dal cuore il veleno dell’orgoglio.

Agosto – Mansuetudine: la forza che disarma
Dopo l’umiltà, la mansuetudine: virtù che non è debolezza ma dominio di sé, «il leone che genera miele», dice il testo rimandando all’enigma di Sansone. Il Cuore di Gesù appare mite nell’accogliere i peccatori, fermo nel difendere il tempio. I lettori sono invitati a imitare quel duplice movimento: dolcezza verso le persone, fermezza contro l’errore. San Francesco di Sales torna modello: con un tono pacato riversò fiumi di carità nella turbolenta Ginevra, convertendo più cuori di quanti ne avrebbero vinti le polemiche aspre. In un secolo che «pecca di essere senza cuore», edificare il santuario del Sacro Cuore significa erigere una palestra di mansuetudine sociale – una risposta evangelica al disprezzo e alla violenza verbale che già allora avvelenavano il dibattito pubblico.

Settembre – Povertà e questione sociale: il Cuore che riconcilia ricchi e poveri
Il rombo del conflitto sociale, avverte il Bollettino, minaccia di «scagliare in rottami l’edificio civile». Siamo in piena “questione operaia”: i socialisti agitano le masse, i capitali si concentrano. Don Bosco non nega la legittimità della ricchezza onesta, ma ricorda che la vera rivoluzione comincia dal cuore: il Cuore di Gesù proclamò beati i poveri e vissuta in prima persona la povertà. Il rimedio passa per una solidarietà evangelica alimentata dalla preghiera e dalla generosità. Finché il tempio romano non sarà terminato – scrive il giornale – il segno visibile della riconciliazione mancherà. Nei decenni seguenti la dottrina sociale della Chiesa svilupperà queste intuizioni; ma il germe è già qui: la carità non è elemosina, è giustizia che nasce da un cuore trasformato.

Ottobre – Fanciullezza: sacramento della speranza
«Guai a chi scandalizza uno di questi piccoli»: sulle labbra di Gesù, l’invito diventa ammonimento. Il Bollettino ricorda gli orrori del mondo pagano contro i bambini e mostra come il Cristianesimo abbia cambiato la storia affidando ai piccoli un posto centrale. Per don Bosco, l’educazione è atto religioso: nella scuola e nell’oratorio si custodisce il tesoro della Chiesa futura. La benedizione di Gesù ai bimbi, riprodotta sulle prime pagine del giornale, è manifestazione del Cuore che «si stringe come un padre» e annuncia la vocazione salesiana: fare della gioventù un “sacramento” che rende presente Dio nella città. Scuole, collegi, laboratori non sono un optional: sono il modo concreto di onorare il Cuore di Gesù vivo nei ragazzi.

Novembre – Trionfi della Chiesa: umiltà che vince la morte
La liturgia ricorda i santi e i defunti; il Bollettino medita sul “trionfo mite” di Gesù che entra a Gerusalemme. L’immagine diventa chiave di lettura della storia ecclesiale: successi e persecuzioni si alternano, ma la Chiesa, come il Maestro, risorge sempre. I lettori sono invitati a non lasciarsi paralizzare dal pessimismo: le ombre del momento (leggi anticlericali, riduzione degli ordini, propaganda massonica) non cancellano il dinamismo del Vangelo. Il tempio del Sacro Cuore, sorto fra ostilità e povertà, sarà il segno tangibile che «la pietra con i suggelli viene ribaltata». Collaborare alla sua costruzione significa scommettere sul futuro di Dio.

Dicembre – Beatitudine del dolore: la Croce accolta dal cuore
L’anno si chiude con la più paradossale delle beatitudini: «Beati quelli che piangono». Il dolore, scandalo per la ragione pagana, diventa nel Cuore di Gesù via di redenzione e di fecondità. Il Bollettino vede in questa logica la chiave per leggere la crisi contemporanea: società fondate sul divertimento a tutti i costi producono ingiustizia e disperazione. Accettato in unione con Cristo, invece, il dolore trasforma i cuori, rende forte il carattere, stimola la solidarietà, libera dalla paura. Anche le pietre del santuario sono “lacrime trasformate in speranza”: offerte piccole, a volte frutto di sacrifici nascosti, che costruiranno un luogo da cui pioveranno, promette il giornale, «torrenti di caste delizie».

Un lascito profetico
Nel montare mensile del Bollettino Salesiano 1886 colpisce la pedagogia del crescendo: si parte dalla piccola ora di guardia e si approda alla consacrazione del dolore; dal singolo fedele al cantiere nazionale; dal tabernacolo turrito dell’oratorio ai bastioni dell’Esquilino. È un itinerario che intreccia tre assi portanti:
Contemplazione – Il Cuore di Gesù è prima di tutto mistero da adorare: veglia, Eucaristia, riparazione.
Formazione – Ogni virtù (umiltà, mansuetudine, povertà) viene proposta come medicina sociale, in grado di guarire le ferite collettive.
Costruzione – La spiritualità diventa architettura: la basilica non è ornamento, ma laboratorio di cittadinanza cristiana.
Senza forzare, possiamo riconoscere qui la pre-annunciazione di temi che la Chiesa svilupperà lungo il XX secolo: l’apostolato dei laici, la dottrina sociale, la centralità dell’Eucaristia nella missione, la tutela dei minori, la pastorale della sofferenza. Don Bosco e i suoi collaboratori colgono i segni dei tempi e rispondono con la lingua del cuore.

Il 14 maggio 1887, quando Leone XIII consacrò la Basilica del Sacro Cuore, tramite il suo vicario Cardinale Lucido Maria Parocchi, don Bosco – troppo debole per salire l’altare – assistette nascosto tra i fedeli. In quel momento, tutte le parole del Bollettino 1886 divennero pietra viva: la guardia d’onore, la carità educativa, l’Eucaristia centro del mondo, la tenerezza di Maria, la povertà riconciliatrice, la beatitudine del dolore. Oggi quelle pagine chiedono nuovo fiato: tocca a noi, consacrati o laici, giovani o anziani, continuare la veglia, erigere cantieri di speranza, imparare la geografia del cuore. Il programma resta lo stesso, semplice e audace: custodire, riparare, amare.

Nella foto: Dipinto del Sacro Cuore, collocato sull’altare maggiore della Basilica del Sacro Cuore di Roma. L’opera fu voluta da Don Bosco e affidata al pittore Francesco de Rohden (Roma, 15 febbraio 1817 – 28 dicembre 1903).