La pastora, le pecore e agnelli (1867)

Nel brano che segue, Don Bosco, fondatore dell’Oratorio di Valdocco, racconta ai suoi giovani un sogno avuto tra il 29 e il 30 maggio 1867 e narrato la sera della Domenica della Santissima Trinità. In una pianura sconfinata, greggi e agnelli diventano allegoria del mondo e dei ragazzi: prati rigogliosi o deserti aridi figurano la grazia e il peccato; corna e ferite denunciano scandalo e disonore; la cifra «3» preannuncia tre carestie – spirituale, morale, materiale – che minacciano chi si allontana da Dio. Dal racconto sgorga l’appello pressante del santo: custodire l’innocenza, tornare alla grazia con la penitenza, così che ogni giovane possa rivestirsi dei fiori della purezza e partecipare alla gioia promessa dal buon Pastore.

                La Domenica della SS. Trinità, 16 giugno, nella qual festa ventisei anni addietro Don Bosco aveva celebrata la sua prima messa, i giovani erano in aspettazione del sogno, il cui racconto era stato da lui annunziato il giorno 13. Il suo ardente desiderio era il bene del suo gregge spirituale, e sempre sua norma gli ammonimenti e le promesse del capo XXVII, v. 23-25 del libro dei Proverbi: Diligenter agnosce vultum pecoris tui, tuosque greges considera: non enim habebis iugiter potestatem: sed corona tribuetur in generationem et generationem. Aperta sunt prata, et apparuerunt herbae virentes, et collecta sunt foena de montibus… (Preoccupati dello stato del tuo gregge, abbi cura delle tue mandrie, perché le ricchezze non sono eterne e una corona non dura per sempre. Tolto il fieno, ricresce l’erba nuova e si raccolgono i foraggi sui monti, Pro 27,23-25). Colle sue preghiere chiedeva di acquistare conoscenza esatta delle sue pecorelle, di aver la grazia di vigilarle attentamente, di assicurarne la custodia anche dopo la sua morte e di vederle provviste di facile e comodo nutrimento spirituale e materiale. Don Bosco adunque, dopo le orazioni della sera, così parlò:

                In una delle ultime notti del mese di Maria, il 29 o 30 maggio, essendo in letto e non potendo dormire, pensava ai miei cari giovani e diceva fra me stesso.
                – Oh se potessi sognare qualche cosa che fosse di loro profitto!
                Stetti alquanto riflettendo e mi risolsi:
                – Sì! adesso voglio fare un sogno per i giovani!
                Ed ecco che restai addormentato. Non appena il sonno mi ebbe preso, mi trovai in una immensa pianura coperta da un numero sterminato di grosse pecore, le quali divise in gregge pascolavano in prati estesi a vista d’occhio. Volli avvicinarmi ad esse e mi diedi a cercare il pastore, meravigliandomi che vi potesse essere al mondo chi possedesse così gran numero di pecore. Cercai per breve tempo, quando mi vidi innanzi un pastore appoggiato al suo bastone. Subito mi feci ad interrogarlo e gli domandai:
                – Di chi è questo gregge così numeroso?
                Il pastore non mi diede risposta. Replicai la domanda ed allora mi disse:
                – Che cosa hai da saper tu?
                – E perché, gli soggiunsi, mi rispondi in questo modo?
                – Ebbene: questo gregge è del suo padrone!
                Del suo padrone? Lo sapevo già questo; dissi fra me. Ma, continuai ad alta voce:
                – Chi è questo padrone?
                – Non t’infastidire, mi rispose il pastore: lo saprai.
                Allora percorrendo con lui quella valle mi diedi ad esaminare il gregge e tutta quella regione per la quale questo andava vagando. La valle era in alcuni luoghi coperta di ricca verdura con alberi che stendevano larghe frondi con ombre graziose ed erbe freschissime delle quali si pascevano belle e floride pecore. In altri luoghi la pianura era sterile, arenosa, piena di sassi con spineti senza foglie, e di gramigne giallastre, e non aveva un filo d’erba fresca; eppure anche qui vi erano moltissime altre pecore che pascolavano, ma d’aspetto miserabile.
                Io domandava varie spiegazioni al mio condottiero intorno a questo gregge, ed egli, senza dar veruna risposta alle mie domande, mi disse:
                – Tu non sei destinato per loro. A queste tu non devi pensare. Ti condurrò io a vedere il gregge del quale devi prenderti cura.
                – Ma tu chi sei?
                – Sono il padrone; vieni meco a guardar là, da quella parte.
                E mi condusse in un altro punto della pianura dove erano migliaia e migliaia di soli agnellini. Questi erano tanto numerosi che non si potevano contare, ma così magri che a stento passeggiavano. Il prato era secco ed arido e sabbioso e non vi si scorgeva un fil d’erba fresca, un ruscello; ma solo qualche sterpo disseccato e cespugli inariditi. Ogni pascolo era stato pienamente distrutto dagli stessi agnelli.
                Si vedeva a prima vista che quei poveri agnelli coperti di piaghe avevano molto sofferto e molto soffrivano ancora. Cosa strana! Ciascuno aveva due corna lunghe e grosse che gli spuntavano sulla fronte, come se fossero vecchi montoni e sulla punta delle corna avevano una appendice in forma di “S”. Meravigliato, me ne stava perplesso nel vedere quella strana appendice di genere così nuovo, e non sapeva darmi pace perché quegli agnellini avessero già le corna così lunghe e grosse, ed avessero distrutto già così presto tutta la loro pastura.
                – Come va questo? dissi al pastore. Son ancora così piccoli questi agnelli ed hanno già tali corna?
                – Guarda, mi rispose; osserva.
                Osservando più attentamente vidi che quegli agnelli in tutte le parti del corpo, sul dosso, sulla testa, sul muso, sulle orecchie, sul naso, sulle gambe, sulle unghie portavano stampati tanti numeri “3” in cifra.
                – Ma che vuol dire ciò? esclamai. Io non capisco niente.
                – Come, non capisci? disse il pastore: Ascolta adunque e saprai tutto. Questa vasta pianura è il gran mondo. I luoghi erbosi la parola di Dio e la grazia. I luoghi sterili ed aridi sono quei luoghi dove non si ascolta la parola di Dio e solo si cerca di piacere al mondo. Le pecore sono gli uomini fatti, gli agnelli sono i giovanetti e per questi Iddio ha mandato D. Bosco. Quest’angolo di pianura che tu vedi è l’Oratorio e gli agnelli ivi radunati i tuoi fanciulli. Questo luogo così arido figura lo stato di peccato. Le corna significano il disonore. La lettera “S” vuol dire scandalo. Essi col mal esempio vanno alla rovina. Fra questi agnelli ve ne sono alcuni che hanno le corna rotte; furono scandalosi, ma ora hanno cessato di dare scandalo. Il numero “3” vuol dire che portano la pena della colpa, cioè che soffriranno tre grandi carestie; carestia spirituale, morale, materiale. 1° La carestia d’aiuti spirituali: domanderanno questo aiuto e non l’avranno. 2 ° Carestia di parola di Dio. 3° Carestia di pane materiale. L’aver gli agnelli mangiato tutto, significa non rimaner più loro altro che il disonore e il numero “3”, ossia le carestie. Questo spettacolo mostra eziandio le sofferenze attuali di tanti giovani in mezzo al mondo. Nell’Oratorio anche quelli che pur ne sarebbero indegni non mancano di pane materiale.
                Mentre io ascoltava ed osservava ogni cosa come smemorato, ecco nuova meraviglia. Tutti quelli agnelli cambiarono aspetto!
                Alzatisi sulle gambe posteriori divennero alti e tutti presero la forma di altrettanti giovanetti. Io mi avvicinai per vedere se ne conoscessi alcuno. Erano tutti giovani dell’Oratorio. Moltissimi io non li aveva mai veduti, ma tutti si dichiaravano essere figli del nostro Oratorio. E fra quelli che non conosceva ve n’erano anche alcuni pochi che attualmente si trovano nell’Oratorio. Sono coloro che non si presentano mai a D. Bosco, che non vanno mai a prendere consiglio da lui, coloro che lo fuggono: in una parola, coloro che Don Bosco non conosce ancora! L’immensa maggioranza però degli sconosciuti era di coloro che non furono né sono ancora nell’Oratorio.
                Mentre con pena osservava quella moltitudine, colui che mi accompagnava mi prese per mano e mi disse:
                – Vieni con me e vedrai altre cose! – E mi condusse in un angolo remoto della valle, circondato da collinette, cinto da una siepe di piante rigogliose, ove era un gran prato verdeggiante, il più ridente che immaginar si possa, ripieno di ogni sorta di erbe odorifere, sparso di fiori campestri, con freschi boschetti e correnti di limpide acque. Qui trovai un altro grandissimo numero di figliuoli, tutti allegri, i quali coi fiori del prato si erano formati o andavano formandosi una vaghissima veste.
                – Almeno hai costoro che ti dànno grande consolazione.
                – E chi sono? interrogai.
                – Sono quelli che si trovano in grazia di Dio.
                Ah! io posso dire di non avere mai vedute cose e persone così belle e risplendenti, né mai avrei potuto immaginare tali splendori. È inutile che mi ponga a descriverli, perché sarebbe un guastare quello che è impossibile a dirsi senza che si veda. Erami però riserbato uno spettacolo assai più sorprendente. Mentre me ne stava guardando con immenso piacere quei giovanetti e fra questi ne contemplava molti che non conosceva ancora, la mia guida mi soggiunse:
                – Vieni, vieni con me e ti farò vedere una cosa che ti darà un gaudio ed una consolazione maggiore. – E mi condusse in un altro prato tutto smaltato di fiori più vaghi e più odorosi dei già veduti. Aveva l’aspetto di un giardino principesco. Qui si scorgeva un numero di giovani non tanto grande, ma che erano di così straordinaria bellezza e splendore da far scomparire quelli da me ammirati poc’anzi. Alcuni di costoro sono già nell’Oratorio, altri qui verranno più tardi.
                Mi disse il pastore:
                – Costoro sono quelli che conservano il bel giglio della purità. Questi sono ancora vestiti della stola dell’innocenza.
                Guardava estatico. Quasi tutti portavano in capo una corona di fiori di indescrivibile bellezza. Questi fiori erano composti di altri piccolissimi fiorellini di una gentilezza sorprendente, e i loro colori erano di una vivezza e varietà che incantava. Più di mille colori in un sol fiore, e in un sol fiore si vedevano più di mille fiori. Scendeva ai loro piedi una veste di bianchezza smagliante, anch’essa tutta intrecciata di ghirlande di fiori, simili a quelli della corona. La luce incantevole che partiva da questi fiori rivestiva tutta la persona e specchiava in essa la propria gaiezza. I fiori si riflettevano l’uno negli altri e quelli delle corone in quelli delle ghirlande, riverberando ciascuno i raggi che erano emessi dagli altri. Un raggio di un colore infrangendosi con un raggio di un altro colore formava raggi nuovi, diversi, scintillanti e quindi ad ogni raggio si riproducevano sempre nuovi raggi, sicché io non avrei mai potuto credere esservi in paradiso un incanto così molteplice. Ciò non è tutto. I raggi e i fiori della corona degli uni si specchiavano nei fiori e nei raggi della corona di tutti gli altri: così pure le ghirlande, e la ricchezza della veste degli uni si riflettevano nelle ghirlande, nelle vesti degli altri. Gli splendori poi del viso di un giovane, rimbalzando, si fondevano con quelli del volto dei compagni e riverberando centuplicati su tutte quelle innocenti e rotonde faccine producevano tanta luce da abbarbagliare la vista ed impedire di fissarvi lo sguardo.
                Così in un solo si accumulavano le bellezze di tutti i compagni con un’armonia di luce ineffabile! Era la gloria accidentale dei santi. Non vi è nessuna immagine umana per descrivere anche languidamente quanto divenisse bello ciascuno di quei giovani in mezzo a quell’oceano di splendori. Fra questi ne osservai alcuni in particolare, che adesso sono qui all’Oratorio e son certo che, se potessero vedere almeno la decima parte della loro attuale speciosità, sarebbero pronti a soffrire il fuoco, a lasciarsi tagliare a pezzi, ad andare insomma incontro a qualunque più atroce martirio, piuttosto che perderla.
                Appena potei alquanto riavermi da questo celestiale spettacolo, mi volsi al duce e gli dissi:
                – Ma dunque fra tanti miei giovani sono così pochi gli innocenti? Sono così pochi coloro che non han mai perduta la grazia di Dio?
                Mi rispose il pastore:
                – Come? Non ti pare abbastanza grande questo numero? Del resto quelli che hanno avuto la disgrazia di perdere il bel giglio della purità, e con questo l’innocenza, possono ancor seguire i loro compagni nella penitenza. Vedi là? In quel prato si ritrovano ancor molti fiori; ebbene essi possono tessersi una corona e una veste bellissima e seguire ancora gli innocenti nella gloria.
                – Suggeriscimi ancora qualche cosa da dire ai miei giovani! io soggiunsi allora.
                – Ripeti ai tuoi giovani, che se essi conoscessero quanto è preziosa e bella agli occhi di Dio l’innocenza e la purità, sarebbero disposti a fare qualunque sacrificio per conservarla. Di’ loro che si facciano coraggio a praticare questa candida virtù, che supera le altre in bellezza e splendore. Imperciocché i casti sono quelli che crescunt tanquam lilia in conspectu Domini (crescono come gigli davanti al Signore).
                Io allora volli andare in mezzo a quei miei carissimi, così vagamente incoronati, ma inciampai nel terreno e svegliatomi mi trovai in letto.
                Figliuoli miei, siete voi tutti innocenti? Forse ve ne saranno fra voi alcuni e a questi io rivolgo le mie parole. Per carità, non perdete un pregio di valore inestimabile! È una ricchezza che vale quanto vale il Paradiso quanto vale Iddio! Se aveste potuto vedere come erano belli questi giovanetti coi loro fiori. L’insieme di questo spettacolo era tale che io avrei dato qualunque cosa del mondo per godere ancora di quella vista, anzi, se fossi pittore, l’avrei per una grazia grande poter dipingere in qualche modo ciò che vidi. Se voi conosceste la bellezza di un innocente, vi assoggettereste a qualunque più penoso stento, perfino anco alla morte, per conservare il tesoro dell’innocenza.
                Il numero di coloro che erano ritornati in grazia, quantunque mi abbia recato grande consolazione, tuttavia io sperava che dovesse essere assai maggiore. E restai assai meravigliato nel vedere alcuno che or qui in apparenza sembra un buon giovane e là aveva le corna lunghe e grosse…

                 D. Bosco finì con una calda esortazione a coloro che hanno perduta l’innocenza, perché si adoperino volenterosamente a riacquistare la grazia per mezzo della penitenza.
                Due giorni dopo, il 18 giugno, D. Bosco risaliva alla sera sulla cattedra e dava alcune spiegazioni del sogno.

                Non farebbe più d’uopo nessuna spiegazione riguardo al sogno, ma ripeterò quello che già dissi. La gran pianura è il mondo, e anche i luoghi e lo stato donde furono chiamati qui tutti i nostri giovani. Quell’angolo dove erano gli agnelli è l’Oratorio. Gli agnelli sono tutti i giovani, che furono, sono presentemente, e saranno nell’Oratorio. I tre prati in questo angolo, l’arido, il verde, il fiorito, indicano lo stato di peccato, lo stato di grazia e lo stato d’innocenza. Le corna degli agnelli sono gli scandali che si sono dati nel passato. Ve ne erano poi di quelli che avevano le corna rotte e costoro furono scandalosi, ma ora cessarono dal dare scandalo. Tutte quelle cifre “3”, che si vedevano stampate su ciascuno agnello, sono, come seppi dal pastore, tre castighi che Dio manderà sui giovani: 1° Carestia d’aiuti spirituali. 2° Carestia morale, ossia mancanza d’istruzione religiosa e della parola di Dio. 3° Carestia materiale, ossia mancanza anche di vitto. I giovani risplendenti sono coloro che si trovano in grazia di Dio, e soprattutto quelli che conservano ancora l’innocenza battesimale e la bella virtù della purità. E quanta gloria li aspetta!
                Mettiamoci dunque, cari giovani, coraggiosamente a praticare la virtù. Chi non è in grazia di Dio, si metta di buona voglia e quindi con tutte le sue forze e coll’aiuto di Dio perseveri sino alla morte. Che se tutti non possiamo essere in compagnia degli innocenti a far corona all’immacolato Agnello, Gesù, almeno possiamo seguirlo dopo di loro.
                Uno mi domandò se era fra gli innocenti ed io gli dissi di no e che aveva le corna, ma rotte. Mi domandò ancora se aveva delle piaghe ed io gli dissi di sì.
                – E che cosa significano queste piaghe? egli soggiunse.
                Risposi:
                – Non temere. Sono rimarginate, spariranno; queste piaghe ora non sono più disonorevoli, come non sono disonorevoli le cicatrici di un combattente, il quale malgrado le tante ferite e l’incalzamento e gli sforzi del nemico, seppe vincere e riportare vittoria. Sono dunque cicatrici onorevoli!… Ma è più onorevole chi combattendo valorosamente in mezzo ai nemici non riporta nessuna ferita. La sua incolumità eccita la meraviglia di tutti.
Spiegando questo sogno, D. Bosco disse eziandio che non andrà più molto tempo che si faranno sentire questi tre mali: – Peste, fame e quindi mancanza di mezzi per farci del bene.
Soggiunse che non passeranno tre mesi che accadrà qualche cosa di particolare.
Questo sogno produsse nei giovani l’impressione e i frutti che avevano ottenuto tante altre volte simili esposizioni.
(MB VIII 839-845)




Beatificazione di Camille Costa de Beauregard. E dopo…?

            La diocesi di Savoia e la città di Chambéry hanno vissuto tre giornate storiche, il 16, 17 e 18 maggio 2025. Un resoconto dei fatti e delle prospettive future.

            Le reliquie di Camille Costa de Beauregard sono state trasferite dal Bocage alla chiesa di Notre-Dame (luogo del battesimo di Camille), venerdì 16 maggio. Un magnifico corteo ha quindi percorso le vie della città a partire dalle ore venti. Dopo i corni delle Alpi, le cornamuse hanno preso il testimone per aprire la marcia, seguite da una carrozza fiorita che trasportava un ritratto gigante del “padre degli orfani”. Seguivano poi le reliquie, su una barella portata da giovani studenti del liceo del Bocage, vestiti con magnifiche felpe rosse su cui si poteva leggere questa frase di Camille: “Più la montagna è alta, meglio vediamo lontano“. Diverse centinaia di persone di tutte le età sfilavano poi, in un’atmosfera “bon enfant”. Lungo il percorso, i curiosi, rispettosi, si fermavano, sbalorditi, a vedere passare questo corteo insolito.
            All’arrivo alla chiesa di Notre-Dame, un sacerdote era lì per animare una veglia di preghiera sostenuta dai canti di un bel coro di giovani. La cerimonia si svolgeva quindi in un clima rilassato, ma raccolto. Tutti sfilavano, alla fine della veglia, per venerare le reliquie e affidare a Camille un’intenzione personale. Un momento molto bello!
            Sabato 17 maggio. Gran giorno! Da Pauline Marie Jaricot (beatificata nel maggio del 2022), la Francia non aveva conosciuto un nuovo “Beato”. Così tutta la Regione Apostolica si trovava rappresentata dai suoi vescovi: Lione, Annecy, Saint-Étienne, Valence ecc… A questi si erano aggiunti due ex arcivescovi di Chambéry: monsignor Laurent Ulrich, attualmente arcivescovo di Parigi e monsignor Philippe Ballot, vescovo di Metz. Due vescovi del Burkina Faso avevano fatto il viaggio per partecipare a questa festa. Numerosi sacerdoti diocesani erano venuti a concelebrare, così come diversi religiosi tra cui sette Salesiani di Don Bosco. Il nunzio apostolico in Francia, monsignor Celestino Migliore, aveva la missione di rappresentare il cardinale Semeraro (Prefetto del Dicastero per le cause dei santi) trattenuto a Roma per l’intronizzazione di papa Leone XIV. Inutile dire che la cattedrale era gremita, così come i capitelli e il sagrato e il Bocage: più di tremila persone in tutto.
            Che emozione, quando dopo la lettura del decreto pontificio (firmato solo il giorno prima da papa Leone XIV) letto da don Pierluigi Cameroni, postulatore della causa, il ritratto di Camille è stato svelato nella cattedrale! Che fervore in questo grande vascello! Che solennità sostenuta dai canti di un magnifico coro interdiocesano e dal grande organo meravigliosamente servito dal maestro Thibaut Duré! Insomma, una cerimonia grandiosa per questo umile sacerdote che diede tutta la sua vita al servizio dei più piccoli!
            Un reportage è stato assicurato da RCF Savoie (una stazione radio regionale francese che fa parte del network RCF, Radios Chrétiennes Francophones) con interviste a diverse personalità coinvolte nella difesa della causa di Camille, e d’altra parte, dal canale KTO (il canale televisivo cattolico di lingua francese) che trasmetteva in diretta questa magnifica celebrazione.
            Una terza giornata, Domenica 18 maggio, veniva a coronare questa festa. Si svolgeva al Bocage, sotto un grande tendone; era una messa di ringraziamento presieduta da monsignor Thibault Verny, arcivescovo di Chambéry, circondato dai due vescovi africani, il Provinciale dei Salesiani e alcuni sacerdoti, tra cui padre Jean François Chiron, (presidente, da tredici anni, del Comitato Camille creato da monsignor Philippe Ballot) che pronunciava un’omelia notevole. Una folla considerevole era venuta a partecipare e pregare. Alla fine della messa, una rosa “Camille Costa de Beauregard fondatore del Bocage” è stata benedetta da padre Daniel Féderspiel, Ispettore dei Salesiani della Francia (questa rosa, scelta dagli ex allievi, offerta alle personalità presenti, è in vendita nelle serre del Bocage).
            Dopo la cerimonia, i corni delle Alpi hanno dato un concerto fino al momento in cui papa Leone, durante il suo discorso, al momento del Regina Coeli, ha dichiarato di essere molto gioioso della prima beatificazione del suo pontificato, il sacerdote di Chambéry Camille Costa de Beauregard. Tuono di applausi sotto il tendone!
            Nel pomeriggio, diversi gruppi di giovani del Bocage, liceo e casa dei bambini, o scout, si sono succeduti sul podio per animare un momento ricreativo. Sì! Che festa!

            E adesso? Tutto è finito? O c’è un dopo, un seguito?
            La beatificazione di Camille è solo una tappa nel processo di canonizzazione. Il lavoro continua e siete chiamati a contribuire. Cosa resta da fare? Far conoscere sempre meglio la figura del nuovo beato intorno a noi, con molteplici mezzi, perché è necessario che molti lo preghino affinché la sua intercessione ci ottenga una nuova guarigione inspiegabile dalla scienza, il che permetterebbe di considerare un nuovo processo e una rapida canonizzazione. La santità di Camille sarebbe allora presentata al mondo intero. È possibile, bisogna crederci! Non fermiamoci a metà strada!

            Disponiamo di diversi mezzi, come:
            – il libro Il beato Camille Costa de Beauregard La nobiltà del cuore, di Françoise Bouchard, Edizioni Salvator;
            – il libro Pregare quindici giorni con Camille Costa de Beauregard, di padre Paul Ripaud, Edizioni Nouvelle Cité;
            – un fumetto: Beato Camille Costa de Beauregard, di Gaëtan Evrard, Edizioni Triomphe;
            – i video da scoprire sul sito di “Amis de Costa“, e quello della beatificazione;
            – le visite ai luoghi della memoria, al Bocage a Chambéry; sono possibili contattando sia l’accoglienza del Bocage, sia direttamente il signor Gabriel Tardy, direttore de la Maison des Enfants.

            A tutti, grazie per sostenere la causa del beato Camille, se lo merita!

don Paul Ripaud, sdb




Quinto sogno missionario: Pechino (1886)

            Nella notte dal 9 al 10 aprile Don Bosco fece un nuovo sogno missionario, che raccontò a Don Rua, a Doli Branda e al Viglietti, con voce rotta a volte dai singulti. Il Viglietti lo scrisse subito dopo e per ordine suo ne inviò copia a Don Lemoyne, affinché se ne desse lettura a tutti i Superiori dell’Oratorio e servisse di generale incoraggiamento. “Questo però, avvertiva il segretario, non è che l’abbozzo di una magnifica e lunghissima visione”. Il testo che noi pubblichiamo è quello del Viglietti, ma un po’ ritoccato da Don Lemoyne nella forma per renderne più corretta la dizione.

            Don Bosco si trovava nelle vicinanze di Castelnuovo sul poggio, così detto, Bricco del Pino, vicino alla valle Sbarnau. Spingeva di lassù per ogni parte il suo sguardo, ma altro non gli veniva fatto di vedere che una folta boscaglia, sparsa ovunque, anzi coperta di una quantità innumerevole di piccoli funghi.
            – Ma questo, diceva Don Bosco, è pure il contado di Rossi Giuseppe (di questa terra Don Bosco per scherzo aveva creato conte il coadiutore Rossi): dovrebbe ben esserci!
            Ed infatti dopo qualche tempo, scorse Rossi il quale tutto serio stava guardando da un lontano poggio le sottostanti valli. Don Bosco lo chiamò, ma egli non rispose che con uno sguardo come chi è soprappensiero.
            Don Bosco, volgendosi dall’altra parte, vide pure in lontananza Don Rua il quale, allo stesso modo che Rossi, stava con tutta serietà tranquillamente quasi riposando seduto.
            Don Bosco li chiamava entrambi, ma essi silenziosi non rispondevano neppure a cenni.
            Allora scese da quel poggio e camminando arrivò sopra un altro, dalla cui vetta scorgeva una selva, ma coltivata e percorsa da vie e da sentieri. Di là volse intorno il suo sguardo, lo spinse in fondo all’orizzonte, ma, prima dell’occhio, fu colpito il suo orecchio dallo schiamazzo di una turba innumerevole di fanciulli.
            Per quanto egli facesse affine di scorgere donde venisse quel rumore, non vedeva nulla; poi allo schiamazzo succedette un gridare come al sopraggiungere di qualche catastrofe. Finalmente vide un’immensa quantità di giovanetti, i quali, correndo intorno a lui, gli andavano dicendo:
            – Ti abbiamo aspettato, ti abbiamo aspettato tanto, ma finalmente ci sei: sei tra noi e non ci fuggirai!
            Don Bosco non capiva niente e pensava che cosa volessero da lui quei fanciulli; ma mentre stava come attonito in mezzo a loro contemplandoli, vide un immenso gregge di agnelli guidati da una pastorella, la quale, separati i giovani e le pecore, e messi gli uni da una parte e le altre dall’altra, si fermò accanto a Don Bosco e gli disse:
            – Vedi quanto ti sta innanzi?
            – Sì, che lo vedo, rispose Don Bosco.
            – Ebbene, ti ricordi del sogno che facesti all’età di dieci anni?
            – Oh è molto difficile che lo ricordi! Ho la mente stanca; non ricordo più bene presentemente.
            – Bene, bene: pensaci e te ne ricorderai.
            Poi fatti venire i giovani con Don Bosco gli disse:
            – Guarda ora da questa parte, spingi il tuo sguardo e spingetelo voi tutti e leggete che cosa sta scritto… Ebbene, che cosa vedi?
            – Vedo montagne, poi mare, poi colline, quindi di nuovo montagne e mari.
            – Leggo, diceva un fanciullo, Valparaiso.
            – Io leggo, diceva un altro, Santiago.
            – Io, ripigliava un terzo, li leggo tutt’e due.
            – Ebbene, continuò la pastorella, parti ora da quel punto e avrai una norma di quanto i Salesiani dovranno fare in avvenire. Volgiti ora da quest’altra parte, tira una linea visuale e guarda.
            – Vedo montagne, colline e mari!…
            E i giovani aguzzavano lo sguardo ed esclamarono in coro:
            – Leggiamo Pechino.
            Vide Don Bosco allora una gran città. Essa era attraversata da un largo fiume sul quale erano gittati alcuni grandi ponti.
            – Bene, disse la donzella che sembrava la loro maestra; ora tira una sola linea da una estremità all’altra, da Pechino a Santiago, fanne un centro nel mezzo dell’Africa ed avrai un’idea esatta di quanto debbono fare i Salesiani.
            – Ma come fare tutto questo? esclamò Don Bosco. Le distanze sono immense, i luoghi difficili e i Salesiani pochi.
            – Non ti turbare. Faranno questo i tuoi figli, i figli dei tuoi figli e dei figli loro; ma si tenga fermo nell’osservanza delle Regole e nello spirito della Pia Società.
            – Ma dove prendere tanta gente?
            – Vieni qui e guarda. Vedi là cinquanta Missionari in pronto? Più in là ne vedi altri e altri ancora? Tira una linea da Santiago al centro dell’Africa. Che cosa vedi?
            – Vedo dieci centri di stazioni.
            – Ebbene, questi centri che tu vedi, formeranno studio e noviziato e daranno moltitudine di Missionari affine di provvederne queste contrade. Ed ora volgiti da quest’altra parte. Qui vedi dieci altri centri dal mezzo dell’Africa fino a Pechino. E anche questi centri somministreranno i Missionari a tutte queste altre contrade. Là c’è Hong-Kong, là Calcutta, più in là Madagascar. Questi e più altri avranno case, studi e noviziati.
            Don Bosco ascoltava guardando ed esaminando; poi disse:
            – E dove trovare tanta gente, e come inviare Missionari in quei luoghi? Là ci sono i selvaggi che si nutrono delle carni umane; là ci sono gli eretici, là i persecutori, e come fare?
            – Guarda, rispose la pastorella, mettiti di buona volontà. Vi è una cosa sola da fare: raccomandare che i miei figli coltivino costantemente la virtù di Maria.
            – Ebbene, sì, mi pare d’aver inteso. Predicherò a tutti le tue parole.
            – E guardati dall’errore che vige adesso, che è la mescolanza di quelli che studiano le arti umane, con quelli che studiano le arti divine, perché la scienza del cielo non vuol essere con le terrene cose mescolata.
            Don Bosco voleva ancora parlare; ma la visione disparve: il sogno era finito.
(MB XVIII, 71-74)




Il Servo di Dio Andrej Majcen: un salesiano tutto per i giovani

Quest’anno si ricordano i 25 anni dal passaggio all’eternità del Servo di Dio don Andrej Majcen. Da maestro a Radna è arrivato tra le file dei salesiani per amore dei giovani. Una vita tutta donata.

            La prima cosa è che don Andrej amava tantissimo i giovani: per loro ha consacrato la propria vita a Dio come Salesiano, sacerdote, missionario. Essere Salesiani non significa solo donare la propria vita a Dio: significa donargli la vita per i giovani. Quindi senza i giovani don Andrej Majcen non sarebbe stato Salesiano, sacerdote, missionario: per i giovani ha fatto scelte impegnative, accettando condizioni di povertà, stenti, preoccupazioni purché i “suoi ragazzi” trovassero un tetto sopra la testa, un piatto per riempire lo stomaco e una luce per orientarsi nell’esistenza.
Il primo messaggio, quindi, è che don Majcen vuole bene ai giovani e intercede per loro!

            La seconda cosa è che Andrej è stato un giovane capace di ascoltare. Nato nel 1904, ancora piccolo durante la Prima Guerra Mondiale, malato e povero, segnato dalla morte di un fratellino, Andrej custodiva nel cuore grandi desideri e soprattutto tante domande: si apriva alla vita e voleva capire perché meritasse di essere vissuta. Non ha mai fatto sconti sulle domande e si è sempre impegnato a cercare le risposte, anche in ambienti diversi dal proprio, senza chiusure o pregiudizi. Al tempo stesso, Andrej è stato docile: ha prestato attenzione a quello che gli dicevano e gli chiedevano la mamma, il papà, gli educatori… Andrej ha avuto fiducia che altri potessero avere alcune risposte alle sue domande e che nei loro suggerimenti ci fosse non il volersi sostituire a lui, ma l’indicargli una direzione che avrebbe poi percorso con la propria libertà e sulle proprie gambe.
Il papà, per esempio, gli raccomanda di essere sempre buono con tutti e che non se ne sarebbe mai pentito. Egli lavorava per il tribunale, si occupava delle cause di successione, di tante cose difficili dove spesso la gente litiga e anche i legami più sacri vengono offesi. Dal papà, Andrej ha imparato a essere buono, a portare pace, a ricomporre le tensioni, a non giudicare, a stare nel mondo (con le sue tensioni e contraddizioni) da persona giusta. Andrej ha ascoltato e si è fidato del papà.
La mamma era una grande donna di preghiera (Andrej la considerava una religiosa nel mondo e confiderà di non avere raggiunto la sua devozione nemmeno da religioso). Negli anni dell’adolescenza, quando avrebbe potuto smarrirsi a contatto con idee e ideologie, lei gli chiese di entrare ogni giorno per qualche istante in chiesa. Nulla di particolare, o di troppo lungo: «Quando vai alle magistrali, non ti scordare di entrare per un momento nella chiesa francescana. Puoi entrare da una porta e uscire dall’altra; ti fai il segno della croce con l’acqua santa, fai una breve preghiera e ti affidi a Maria». Andrej obbedì alla mamma e tutti i giorni passava a salutare Maria Santissima in chiesa anche se – “là fuori” – lo aspettavano tanti compagni e vivaci dibattiti. Andrej ha ascoltato e si è fidato della mamma, e scoprirà che lì c’erano le radici di tante cose, c’era un legame con Maria che lo avrebbe accompagnato per sempre. Sono queste piccole gocce che scavano in noi grandi profondità, quasi senza che ce ne accorgiamo!
Un professore lo invitò ad andare alla biblioteca e lì gli venne dato un libro con gli Aforismi di Th.G. Masaryk: politico, uomo di governo, oggi diremmo un “laico”. Andrej lesse quel libro che diventò determinante per la sua crescita. Lì scoprì cosa significasse un certo lavoro su di sé, la formazione del carattere, l’impegno. Andrej ascoltò il consiglio e ascoltò Masaryk, senza lasciarsi troppo influenzare dal suo “Curriculum” ma vedendo il bene anche in qualcuno lontano dal modo di pensare cattolico della propria famiglia. Scoprì che ci sono valori umani universali e che c’è una dimensione di impegno e serietà che sono “terreno comune” per tutti.
            Maestro presso i Salesiani, a Radna, un giovane Majcen ascoltò infine chi – in modi diversi – gli fece balenare l’idea di una possibile consacrazione. C’erano molte ragioni per cui Andrej avrebbe potuto tirarsi indietro: l’investimento della famiglia nella sua formazione; il posto di lavoro trovato da pochi mesi; il dovere lasciare tutto esponendosi alla più totale incertezza se poi avesse fallito… Lui in quel momento era un giovane ragazzo proteso al futuro, che non aveva messo in conto quella proposta. Al tempo stesso, cercava qualcosa in più e di diverso e, come uomo e come maestro, si rendeva conto che i Salesiani non solo insegnavano, ma orientavano a Gesù, Maestro di Vita. La pedagogia di Don Bosco fu per lui quel “tassello” che gli mancava. Andrej ascoltò la proposta vocazionale, affrontò una dura lotta durante la preghiera, in ginocchio, e si decise per presentare domanda di ammissione in noviziato: non fece passare tanto tempo, ma rifletté in modo serio, pregò e disse sì. Non perse l’occasione, non fece trascorrere il momento opportuno…: ascoltò, si fidò, decise acconsentendo e conoscendo così poco di ciò cui sarebbe andato incontro.
            Spesso tutti noi crediamo di vederci giusto nella nostra vita, di avere in mano le sue chiavi, il suo segreto: talvolta però sono proprio gli altri che ci invitano a raddrizzare lo sguardo, le orecchie e il cuore, indicandoci vie verso le quali da soli mai ci saremmo indirizzati. Se queste persone sono valide e vogliono il nostro bene, obbedire è importante: lì è nascosto il segreto della felicità. Don Majcen si è fidato, non ha sciupato anni, non ha sciupato vita… Ha detto di sì. Decidersi per tempo era anche il grande segreto raccomandato da don Bosco.

            La terza cosa è che Andrej Majcen si è lasciato sorprendere. Ha sempre accolto le sorprese, le proposte e i cambiamenti: l’incontro con i Salesiani, per esempio; poi l’incontro con un missionario che lo fece ardere dal desiderio di potersi spendere per gli altri in una terra lontana. Accolse anche sorprese non tanto belle: va in Cina e c’è il Comunismo; lo cacciano, entra nel Vietnam del Nord e il Comunismo fa danni anche lì; lo cacciano, procede verso sud, arriva poi nel Vietnam del Sud; ma il Comunismo raggiunge anche quella zona e lo cacciano di nuovo (sembra un film d’azione, con dentro un lungo inseguimento a sirene spiegate!). Rientra in patria, nella sua cara Slovenia e – nel frattempo – lì si è instaurato il regime comunista, c’è la persecuzione della Chiesa. Cos’è? Uno scherzo? Andrej non si è lamentato! Ha vissuto per decenni in paesi in guerra o in situazioni a rischio, con persecuzione, emergenze, lutti… Dormì per più di vent’anni mentre fuori dalla finestra, laggiù, sparavano… Altre volte piangeva… Eppure – benché avesse incarichi di responsabilità e tante vite da salvare – era quasi sempre sereno, con un bel sorriso, tanta gioia e amore nel cuore. Come faceva?
            Lui non aveva messo il cuore negli avvenimenti esteriori, nelle cose, in quello che non si può controllare o… nei propri progetti (“deve essere per forza così perché ho deciso così”: quando poi “non è così” si va in crisi). Lui aveva messo il cuore in Dio, nella Congregazione e nei suoi cari giovani. Allora era veramente libero, poteva cadere il mondo ma le radici erano salve. Le radici erano nelle relazioni, in un modo buono di spendersi per gli altri; le fondamenta erano in qualcosa che non passa.
            Tante volte, a noi basta che spostino una piccola cosa e ci arrabbiamo, perché non è secondo i nostri bisogni, desideri, progetti o aspettative. Andrej Majcen mi dice, ci dice: “sii libero!”, “affida il tuo cuore a chi non te lo ruba né te lo danneggia”, “costruisci su qualcosa che resti per sempre!”, “allora sarai felice anche se ti portano via tutto e avrai sempre il TUTTO”.

            La quarta cosa è che don Andrej Majcen faceva bene l’esame di coscienza. Tutti i giorni si esaminava per capire dove aveva fatto bene, meno bene o male. Quando ne ebbe la possibilità (cioè quando non c’erano più le bombe vicino a casa o i Viet Cong a poca distanza, ecc.) prendeva un quaderno, si segnava delle domande, rifletteva sulla Parola di Dio, verificava di averla messa in pratica… Si interrogava.
            Oggi viviamo in una società che dà molta importanza all’esteriorità: anch’essa è un dono (per esempio: avere cura di sé, vestirsi con proprietà, presentarsi bene), ma non è tutto. Bisogna scavare dentro di noi, scendere in profondità – magari con l’aiuto di qualcuno.
            Andrej ha sempre avuto il coraggio di guardarsi in faccia, di scrutare il proprio cuore e la propria coscienza, di chiedere perdono. Così facendo ha incontrato qualche aspetto poco bello di sé, su cui lavorare e da affidare: però ha visto anche tantissimo bene, bellezza, purezza, amore che altrimenti sarebbero rimasti “sottotraccia”.
            Tante volte, serve più coraggio per viaggiare dentro noi stessi che per andare dall’altra parte del mondo! Don Andrej Majcen ha affrontato entrambi questi viaggi: dalla Slovenia ha raggiunto l’Estremo Oriente eppure l’itinerario più impegnativo è rimasto sempre – fino all’ultimo – quello nel proprio cuore.
            Sant’Agostino, un giovane che ha cercato la verità in tante strade prima di incontrarla nella persona di Gesù, dentro di sé, dice: “Noli foras ire, redi in te ipsum, in interiore homini habitat veritas” (“Non voler uscire fuori, rientra in te stesso, la verità abita nell’interiorità dell’uomo”).
            E così concludo con un piccolo esercizio di latino: una lingua molto cara al nostro Andrej e legata al suo discernimento vocazionale. Ma questa sarebbe davvero…, almeno per ora, una… altra storia!




Un milione di bambini pregano il Rosario

“Se un milione di bambini pregherà il Rosario, il mondo cambierà” (San Pio da Pietrelcina – Padre Pio)

            Ogni anno, nel mese di ottobre, un’onda di preghiera si diffonde in tutto il mondo, unendo bambini di diverse nazionalità, culture e background in un unico, potente gesto di fede. Questa straordinaria iniziativa, intitolata “Un milione di bambini pregano il Rosario”, è diventata un appuntamento annuale atteso da molti, che incarna la speranza di un futuro migliore attraverso la preghiera e la devozione dei più giovani.

Origini e significato dell’iniziativa
           
L’idea di questa iniziativa è nata nel 2005 a Caracas, capitale del Venezuela, quando un gruppo di bambini si era riunito per pregare il Rosario di fronte a un’immagine della Santissima Vergine Maria. Molte delle donne ivi presenti hanno percepito fortemente la presenza della Vergine Maria, e si ricordarono della profezia di san Pio da Pietrelcina(Padre Pio): «Quando un milione di bambini pregherà il Rosario, il mondo cambierà». Quella frase, apparentemente semplice, esprimeva la profonda convinzione che la preghiera dei più piccoli ha una speciale capacità di toccare il cuore di Dio e influenzare positivamente il mondo.
Ispirate da questa esperienza e dalle parole di Padre Pio, queste donne decisero di trasformare quell’immagine in realtà. Iniziarono organizzando eventi di preghiera locali, invitando i bambini a recitare il Rosario. L’iniziativa crebbe rapidamente, superando i confini del Venezuela e diffondendosi in altri paesi dell’America Latina.
            Nel 2008, l’iniziativa attirò l’attenzione della Fondazione Pontificia “Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACS), un’organizzazione cattolica internazionale che sostiene la Chiesa in difficoltà in tutto il mondo. Riconoscendo il potenziale di questa campagna di preghiera, l’ACS decise di adottarla e promuoverla a livello globale, con l’intento di coinvolgere un milione di bambini nel recitare il Rosario, una delle preghiere più antiche e amate della tradizione cristiana cattolica.
            Sotto la guida dell’ACS, “Un milione di bambini pregano il Rosario” si è trasformata in un evento mondiale. Ogni anno, il 18 ottobre, bambini di tutti i continenti si uniscono in preghiera, recitando il Rosario per la pace e l’unità nel mondo. La data del 18 ottobre non è casuale: è il giorno in cui la Chiesa cattolica celebra la festa di San Luca evangelista, noto per la sua particolare attenzione alla Vergine Maria nei suoi scritti.

Il Rosario: preghiera mariana e simbolo di pace
           
Il Rosario è una preghiera molto antica, incentrata sulla riflessione sui misteri della vita di Gesù e di Maria, sua madre. Si compone di ripetizioni di preghiere come l’Ave Maria, il Padre Nostro e il Gloria al Padre, e permette ai fedeli di meditare sui momenti centrali del cammino di Cristo sulla terra. Questa pratica non è solo una forma di devozione individuale, ma ha una forte dimensione comunitaria e di intercessione, tanto che in molte apparizioni mariane, come quelle di Fatima e Lourdes, la Madonna ha espressamente chiesto ai bambini la recita del Rosario come mezzo per ottenere la pace nel mondo e la conversione dei peccatori.
            Il Rosario, essendo ripetitivo, permette anche a bambini piccoli, spesso incapaci di seguire preghiere complesse o letture lunghe, di partecipare attivamente e di comprendere il significato della preghiera. Attraverso il semplice atto di ripetere le parole dell’Ave Maria, i bambini si uniscono spiritualmente alla comunità globale dei fedeli, intercedendo per la pace e la giustizia nel mondo.

La dimensione spirituale e educativa
           
L’iniziativa si svolge ogni anno il 18 ottobre, anche se molti gruppi, parrocchie e scuole scelgono di prolungarla per tutto il mese, dedicato tradizionalmente alla Madonna del Rosario.
            Nel giorno dell’evento, i bambini si riuniscono in vari luoghi: scuole, chiese, case private o spazi pubblici. Spesso, i bambini vengono istruiti su come si recita il Rosario e sui significati spirituali dei vari misteri, in modo che possano partecipare con consapevolezza e fede. Sotto la guida di adulti – genitori, insegnanti o leader religiosi – i bambini recitano insieme il Rosario. Molte comunità organizzano eventi speciali intorno a questa preghiera, come canti, letture bibliche o brevi riflessioni adatte ai più giovani.
            Alcune parrocchie organizzano vere e proprie celebrazioni, durante le quali i bambini portano corone del Rosario fatte a mano o realizzate con materiali creativi, per esprimere la loro partecipazione in maniera attiva e coinvolgente. L’iniziativa si conclude con la celebrazione di una Santa Messa speciale dedicata alla Madonna del Rosario e alla pace nel mondo.
            “Un Milione di bambini pregano il Rosario” non è solo un momento di preghiera, ma anche un’opportunità educativa. Molte scuole e gruppi pastorali utilizzano questo evento per insegnare ai bambini i valori della pace, della solidarietà e della giustizia sociale. Attraverso il Rosario, i piccoli imparano l’importanza di affidare le loro preoccupazioni e le sofferenze del mondo a Dio, e comprendono che la pace comincia nei loro cuori e nelle loro famiglie.
            Inoltre, l’iniziativa cerca di far comprendere ai bambini l’universalità della Chiesa e della fede cristiana. Sapere che, contemporaneamente, migliaia di altri bambini in ogni parte del mondo stanno pregando la stessa preghiera crea un senso di comunità globale e di fraternità, che va oltre le barriere linguistiche, culturali e geografiche.

Il valore della preghiera dei bambini
           
La preghiera dei bambini è spesso vista come particolarmente potente nella tradizione cristiana, per la loro innocenza e purezza di cuore. Nella Bibbia, Gesù stesso invita i suoi discepoli a guardare ai bambini come esempio di fede: “In verità vi dico, se non cambierete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt. 18,3).
            I bambini, con il loro cuore aperto e sincero, sono capaci di pregare con una fiducia totale in Dio, senza dubbi o riserve. Questa fiducia e semplicità rendono la loro preghiera particolarmente efficace agli occhi di Dio. Inoltre, la preghiera dei bambini può avere un forte impatto anche sugli adulti, richiamandoli a una fede più pura e profonda.

L’impatto globale
           
Negli anni, “Un milione di bambini pregano il Rosario” ha visto una partecipazione crescente, coinvolgendo milioni di bambini in oltre 140 paesi. Nel 2023, oltre un milione di bambini si sono uniti in preghiera, pregando in particolare per la pace in Terra Santa e per altre intenzioni urgenti.
            L’evento ha anche attirato l’attenzione dei media in vari paesi, contribuendo a diffondere un messaggio di speranza e unità in un mondo spesso dominato da notizie negative. I social media sono diventati uno strumento importante per promuovere l’iniziativa e condividere esperienze. Hashtag come #MillionChildrenPraying e #ChildrenPrayingTheRosary sono diventati virali in molti paesi, creando un senso di comunità globale tra i partecipanti.
            L’iniziativa “Un milione di bambini pregano il Rosario” ha ricevuto il sostegno di molti leader della Chiesa cattolica, inclusi i Papi. Papa Francesco, in particolare, ha espresso più volte il suo apprezzamento per questa campagna, sottolineando l’importanza della preghiera dei bambini per la pace nel mondo.
            Al di là dell’ambito religioso, l’iniziativa ha attirato l’attenzione di educatori e psicologi, che hanno sottolineato i benefici di coinvolgere i bambini in attività che promuovono la riflessione, la compassione e un senso di connessione globale.

Obiettivi della Campagna
La campagna “Un milione di bambini pregano il Rosario” ha diversi obiettivi chiave:
Educazione Spirituale: Insegnare ai bambini l’importanza della preghiera e del Rosario come parte integrante della loro vita spirituale, per crescere nella fede.
Onorare la Vergine Maria: L’iniziativa rafforza la devozione mariana, elemento centrale della fede cattolica.
Imparare a pregare insieme: L’evento crea un senso di unità e solidarietà tra i partecipanti, superando barriere geografiche e culturali.
Promuovere la pace nel mondo: La preghiera dei bambini è vista come un potente strumento per invocare la pace in un mondo spesso afflitto da conflitti e divisioni.
Sensibilizzare sulle sfide globali: Attraverso la preghiera, i bambini vengono incoraggiati a riflettere sulle problematiche mondiali e sul loro ruolo nel creare un futuro migliore.

Come partecipare
Partecipare all’iniziativa è molto semplice. Basta:
Informarsi: Visitare il sito ufficiale di ACS per scaricare i materiali gratuiti, come locandine, storie illustrate e guide per la preghiera.
Organizzare un momento di preghiera: Scegliere un’ora per pregare il Rosario, il 18 di ottobre (o un altro giorno più vicino se non fosse possibile proprio il 18). Può essere fatto in gruppo o individualmente.
Coinvolgere i bambini: della propria famiglia, della scuola o della parrocchia in un momento di preghiera comune. Spiegare ai bambini l’importanza della preghiera e il significato del Rosario. Incoraggiarli a partecipare attivamente.
Iscriversi online: Registrare la propria partecipazione sul sito di ACS per far sentire la propria voce e contribuire a raggiungere l’obiettivo di un milione di bambini.
Condividere l’esperienza: Condividere foto, video e testimonianze sui social media utilizzando l’hashtag #MillionChildrenPraying. Questo aiuta a creare una comunità globale di preghiera.

“Un Milione di bambini pregano il Rosario” è un’iniziativa straordinaria che dimostra il potere della preghiera e l’importanza della fede. Attraverso la preghiera del Rosario, i bambini di tutto il mondo possono unirsi in una comunità globale di fede, portando speranza e pace. Uniamoci a loro in questa grande catena di preghiera e contribuiamo a costruire un mondo più bello.




San Francesco di Sales catechista dei bambini

Formato secondo la dottrina cristiana fin dall’infanzia, nel suo ambiente familiare, poi nelle scuole, e infine a contatto con i gesuiti, Francesco di Sales aveva assimilato in modo perfetto i contenuti e il metodo della catechesi dell’epoca.

Una esperienza di catechismo a Thonon
            Come catechizzare la gioventù di Thonon cresciuta tutta impregnata di calvinismo, si chiedeva il missionario del Chiablese. I mezzi autoritari non erano necessariamente i più efficaci. Non era meglio attirare la gioventù e interessarla? Era il metodo seguito di solito dal prevosto di Sales durante tutto il tempo della missione nel Chiablese.
            Aveva pure tentato un’esperienza che merita di essere ricordata. Il 16 luglio 1596, approfittando della visita dei suoi due giovani fratelli, Jean-François di diciotto anni e Bernard di tredici anni, organizzò una specie di recitazione pubblica del catechismo allo scopo di attirare la gioventù di Thonon. Ne compose egli stesso un testo sotto forma di domande e risposte sulle verità fondamentali della fede, e invitò il fratello Bernard a rispondergli.
            Il metodo del catechista è interessante. Leggendo questo piccolo catechismo dialogato, occorre ricordare che non si tratta semplicemente di un testo scritto, bensì di un dialogo destinato a essere rappresentato davanti a un pubblico di giovani nella fattispecie di un «teatrino». La «rappresentazione» ebbe effettivamente luogo su un «palco», o podio, come soleva avvenire presso i gesuiti nel collegio di Clermont. In effetti, all’inizio si leggono delle indicazioni scenografiche:

Francesco, parlando per primo, dirà: Fratello mio, sei cristiano?
Bernard, posto vis-à-vis di Francesco, risponderà: Si, fratello mio, per grazia di Dio.

            Molto probabilmente l’autore aveva previsto l’uso di gesti per conferire maggiore vivacità alla recitazione. Alla domanda: «Quante cose devi conoscere per essere salvo?», la risposta recita: «Quante le dita della mano!», espressione che Bernardo dovette pronunciare con gesti, cioè indicando le cinque dita della mano: il pollice per la fede, l’indice per la speranza, il medio per la carità, l’anulare per i sacramenti, il mignolo per le buone opere. Parimenti, trattando delle diverse unzioni del battesimo, Bernard dovette portare la mano prima sul petto, per indicare che la prima unzione consiste «nell’essere abbracciati dall’amore di Dio»; poi sulle spalle, perché la seconda unzione è diretta a «renderci forti nel portare il peso dei comandamenti e dei precetti divini»; infine sulla fronte per rivelare che l’ultima unzione ha come scopo quello di «far in modo che confessiamo la fede in Nostro Signore pubblicamente, senza timore e senza vergogna».
            Grande importanza è data al «segno della croce», normalmente accompagnato dalla formula Nel nome del Padre con cui iniziava il catechismo, segno che col gesto della mano segue, sulle parti del corpo, un percorso inverso rispetto all’unzione battesimale: la fronte, il petto e le due spalle. Il segno della croce, doveva dire Bernard, è «il vero segno del cristiano», aggiungendovi che «il cristiano lo deve fare in tutte le sue preghiere e nelle azioni principali».
            Conviene anche notare che l’uso sistematico dei numeri serviva da mezzo mnemonico. In tal modo, infatti, il catechizzato impara che ci sono tre promesse battesimali (rinunciare al diavolo, professare la fede e osservare i comandamenti), dodici articoli del Credo, dieci comandamenti di Dio, tre tipi di cristiani  (eretici, cattivi cristiani e veri cristiani), quattro parti del corpo destinati a essere unti (il petto, le due spalle e la fronte), tre unzioni, cinque cose necessarie per essere salvi (fede, speranza, carità, sacramenti e buone opere), sette sacramenti e tre buone opere (preghiera, digiuno e elemosina).
            Se si esamina attentamente il contenuto di questo catechismo dialogato, è facile rilevarne l’insistenza su parecchi punti contestati dai protestanti. Il tono deciso di certe affermazioni richiama la vicinanza di Thonon a Ginevra e l’ardore polemico dell’epoca.
            Fin dagli inizi figura un’invocazione alla «benedetta Vergine Maria». In tema di osservanza dei dieci comandamenti si precisa che bisogna aggiungervi i precetti della «nostra santa Madre Chiesa». Nei tre tipi di cristiani, gli eretici sono coloro che «altro non hanno se non il nome», «essendo fuori della Chiesa cattolica, apostolica e romana». I sacramenti sono in numero di sette. I riti e le cerimonie della Chiesa non sono solo azioni simboliche, essi infatti producono nell’animo del credente un vero cambiamento dovuto all’efficacia della grazia. Si nota anche l’insistenza sulle «buone opere» per essere salvi e la pratica del «santo segno della Croce».
            Nonostante la «messa in scena» piuttosto eccezionale con la partecipazione del fratello più giovane, questo tipo di catechesi dovette ripetersi sovente e in forme abbastanza simili. Si sa, infatti, che l’apostolo del Chiablese «insegnava il catechismo, il più sovente possibile, in pubblico o in case particolari».

Il vescovo catechista
            Diventato vescovo di Ginevra, ma residente ad Annecy, Francesco di Sales insegnava di persona il catechismo ai fanciulli. Occorreva dare l’esempio ai canonici e ai parroci che esitavano ad abbassarsi a questo tipo di ministero: è noto, dirà un giorno, che «molti vogliono predicare, ma pochi fare il catechismo». Secondo un testimone, il vescovo «si prese la briga di insegnare di persona il catechismo per due anni nella città, senza essere aiutato da altri».
            Un testimone lo descrive assiso «su un piccolo teatro creato allo scopo, e, mentre di là interroga, ascolta, ammaestra non solamente il suo piccolo pubblico, ma anche tutti coloro che accorrono da ogni parte, accogliendoli con una spigliatezza e affabilità incredibili». La sua attenzione era concentrata sui rapporti personali da stabilire con i fanciulli: prima di interrogarli, «li chiamava tutti per nome, come se» ne «avesse in mano la lista».
            Per farsi capire usava un linguaggio semplice, ricavando a volte dalla vita di ogni giorno i paragoni più inattesi, come quello del cagnolino: «Quando veniamo al mondo come nasciamo? Nasciamo come i cagnolini, i quali, leccati dalla loro madre aprono gli occhi. Così, quando nasciamo, la nostra santa madre Chiesa ci apre gli occhi con il battesimo e la dottrina cristiana che ci insegna».
            Il vescovo preparò, con l’aiuto di qualche collaboratore, dei «biglietti» sui quali erano scritti i punti principali da imparare a memoria durante la settimana per saperli recitare la domenica. Ma come fare se i fanciulli non sapevano ancora leggere e le loro famiglie erano anch’esse formate da analfabeti? Era necessario contare sull’aiuto di persone benevole: parroci, viceparroci, maestri di scuola, che durante la settimana fossero disponibili a fare delle ripetizioni.
            Da buon educatore, anch’egli ripeteva sovente le stesse domande con le medesime spiegazioni. Quando il fanciullo sbagliava nella recita dei suoi biglietti o nella pronuncia di parole difficili, «sorrideva così gentilmente e, correggendone lo sbaglio, rimetteva in carreggiata l’interrogato in maniera così amabile da sembrare che se non avesse sbagliato, non avrebbe potuto pronunciarlo tanto bene; il che raddoppiava il coraggio dei piccoli e aumentava in maniera singolare la soddisfazione dei grandicelli».
            La tradizionale pedagogia dell’emulazione e della ricompensa aveva un suo ruolo negli interventi di questo ex-allievo dei gesuiti. Un testimone riferisce questa scenetta: «I piccoli correvano esultanti di gioia, facendo a gara, gli uni contro altri; andavano orgogliosi allorché potevano ricevere dalle mani del Beato qualche regaluccio come immaginette, medaglie, corone e agnus dei, che dava loro, quando avevano risposto bene, e anche carezze particolari che faceva loro per incoraggiarli a imparare bene il catechismo e a rispondere correttamente».
            Ora, questa catechesi ai fanciulli attirava gli adulti, e non soltanto i genitori, ma anche grandi personaggi, «dottori, presidenti di camera, consiglieri e maestri di camera, religiosi e superiori di monasteri». Tutti gli strati sociali erano rappresentati, «sia nobili, che ecclesiastici, che gente del popolo», e la folla era così ammassata che «non ci si poteva muovere». Si accorreva dalla città e dai dintorni.
            S’era quindi creato un movimento, una specie di fenomeno contagioso. Secondo alcuni, «non era più il catechismo dei fanciulli, ma l’istruzione pubblica dell’intero popolo». Il paragone con il movimento creato a Roma mezzo secolo prima dalle vivaci e gioiose assemblee di san Filippo Neri si affaccia spontaneamente alla memoria. Secondo l’espressione del padre Lajeunie, «l’Oratorio di san Filippo sembrava rinascere ad Annecy».
            Il vescovo non si accontentava di formule imparate a memoria, benché fosse lungi da lui deprezzare il ruolo della memoria. Insisteva perché i fanciulli sapessero quello che devono credere e comprendere l’insegnamento.
            Voleva soprattutto che la teoria appresa durante il catechismo diventasse pratica nella vita di ogni giorno. Come scrisse un suo biografo, «insegnava non soltanto ciò che occorre credere, ma persuadeva anche a vivere secondo ciò che si crede». Incoraggiava i suoi uditori di ogni età «ad accostarsi con frequenza ai sacramenti della confessione e della comunione», «insegnava loro personalmente la maniera di prepararsi convenientemente», e «spiegava i comandamenti del decalogo e della Chiesa, i peccati capitali, usando appropriati esempi, similitudini ed esortazioni tanto amorosamente coinvolgenti, che tutti si sentivano dolcemente forzati a fare il loro dovere e ad abbracciare la virtù loro insegnata».
            In ogni caso, il vescovo catechista era felicissimo di ciò che faceva. Quando si trovava in mezzo ai bambini, afferma un testimone, sembrava «essere tra le sue delizie». Uscendo da una di queste scuole di catechismo, nel periodo del carnevale, prese la penna per descriverla a Giovanna di Chantal:

Ho terminato or ora la scuola di catechismo, dove mi sono abbandonato un po’ all’allegria, mettendo alla berlina le maschere e i balli per far ridere l’uditorio; ero in un momento di buon umore, e un grande uditorio mi invitava coi suoi applausi a continuare a fare il bambino coi bambini. Mi si dice che, in questo, riesco bene, e io ci credo!

            Gli piaceva raccontare le belle espressioni dei fanciulli, talvolta strabilianti per la profondità. Nella lettera appena citata riferiva alla baronessa la risposta che gli era appena stata data alla domanda: Gesù Cristo è nostro? «Non bisogna dubitarne minimamente: Gesù Cristo è nostro», gli aveva risposto una bambina, la quale aggiungeva: «Sì, egli è più mio di quanto io sia sua e più di quanto sia mia io stessa».

San Francesco di Sales e il suo “piccolo mondo”
            Il clima familiare, cordiale e gaio che regnava al catechismo era un importante fattore di successo, favorito dalla naturale armonia esistente tra la limpida anima amante di Francesco e i fanciulli, che chiamava il suo «piccolo mondo», perché era riuscito a «conquistarne il cuore».
            Camminando per le strade, i fanciulli gli correvano davanti; lo si vide talvolta attorniato talmente da loro da non poter procedere oltre. Lungi dall’irritarsi, li accarezzava, si intratteneva con loro, chiedendo: «Tu di chi sei figlio? come ti chiami?».
            Secondo il suo biografo, un giorno avrebbe detto «che vorrebbe avere il piacere di vedere e considerare come lo spirito di un fanciullo si va poco a poco aprendo e espandendo».




Il sogno dell’elefante (1863)

D. Bosco, non avendo potuto dare l’ultimo giorno dell’anno la strenna ai suoi alunni, ritornato da Borgo Cornalense, il giorno 4, domenica, aveva promesso loro di darla la sera della festa dell’Epifania. Era il 6 del mese di gennaio 1863 e tutti i giovani, artigiani e studenti, radunati nel medesimo parlatorio, aspettavano ansiosi la strenna. Recitate le orazioni, il buon padre salì sulla tribuna solita e così prese a dire:

            Ecco la sera della strenna. Ogni anno sino dalle feste Natalizie, soglio innalzare a Dio preghiere, perché voglia ispirarmi qualche strenna, che possa esservi di giovamento. Ma quest’anno raddoppiai le preghiere stante il cresciuto numero dei giovani. Scorse però l’ultimo giorno dell’anno, venne il giovedì, il venerdì e nulla di nuovo. La sera del venerdì vado a letto, stanco delle fatiche del giorno, né mi fu dato prendere sonno lungo la notte, di modo che al mattino mi levai spossato, quasi semimorto. Non mi conturbai per questo, anzi mi rallegrai, poiché sapeva che ordinariamente quando il Signore è per manifestarmi qualche cosa, passo malissimo la notte antecedente. Continuai le mie solite occupazioni nel paese di Borgo Cornalense e la sera del sabato giunsi qui tra voi. Dopo aver confessato mi posi a letto, e per la stanchezza cagionata dalla predicazione e dalle confessioni a Borgo, e dal poco riposo della notte antecedente facilmente mi addormentai. Ecco, qui comincia il sogno da cui riceverete la strenna.
            Cari giovani, sognai che era giorno di festa, dopo pranzo, nelle ore di ricreazione e voi eravate intenti a divertirvi in mille modi. Mi parve di essere nella mia camera col Cav. Vallauri, professore di belle lettere: avevamo discorso di parecchie cose letterarie e di altre riguardanti la religione, quando improvvisamente sento all’uscio un ticc, tacc di chi bussava.
Corro a vedere. Era mia madre, morta da sei anni, che affannata mi chiamava.
            – Vieni a vedere, vieni a vedere.
            – Che c’è? risposi.
            – Vieni, vieni! replicò.
            A queste istanze mi portai sul balcone ed ecco in cortile vedo in mezzo ai giovani un elefante di smisurata grandezza.
            – Ma come va? esclamai! Corriamo sotto! E sbigottito mi rivolgeva al Cav. Vallauri, ed egli a me, come per interrogarci in qual modo fosse entrata quella belva mostruosa. Scendemmo tosto precipitosi nel porticato col professore.
            Molti di voi, come è naturale, erano accorsi a vederla. Quell’elefante sembrava mite, docile: si divertiva correndo coi giovani; li accarezzava colla proboscide: era tanto intelligente che obbediva ai comandi, come se fosse stato ammaestrato ed allevato qui nell’Oratorio dalla sua prima età, di modo che era sempre seguito ed accarezzato da un gran numero di giovani. Non tutti però eravate intorno a lui vidi che la maggior parte spaventati fuggivate qua e là, cercando un luogo ove ricoverarvi e infine vi siete rifugiati in Chiesa. Io pure cercai d’entrarvi per l’uscio che mette nel cortile; ma nel passare vicino alla statua della Vergine, collocata presso la pompa, avendo io toccato l’estremità del suo manto, come in segno d’invocarne il patrocinio, essa alzò il braccio destro. Vallauri volle imitare il mio atto dall’altra parte e la Vergine mosse il braccio sinistro.
            Io rimasi sorpreso non sapendo come spiegare un fatto così straordinario.
            Venne intanto l’ora delle sacre funzioni e voi, o giovanetti, andaste tutti in Chiesa, lo pure entrai, e vidi l’elefante ritto in fondo vicino alla porta. Si cantarono i vespri, e dopo la predica andai all’altare assistito dal Sac. D. Alasonatti e da D. Savio per impartire la benedizione col SS. Sacramento. Ma nel momento solenne nel quale tutti erano profondamente inchinati ad adorare il Santo dei santi, vidi sempre al fondo della Chiesa, in mezzo al passaggio, fra le due file dei banchi, l’elefante inginocchiato e inchinato in senso inverso, col muso cioè e le orribili zane rivolte alla porta principale.
            Terminate le funzioni io voleva subito uscire nel cortile per osservare ciò che avvenisse, ma trattenuto da alcuno in sacrestia che bramava darmi qualche avviso, dovetti indugiare.
            Esco dopo breve tempo, sotto i portici e voi nel cortile per incominciare i divertimenti come prima. L’elefante uscito di chiesa si avanzò nel secondo cortile intorno al quale sono in costruzione gli edifizi. Notate bene questa circostanza, poiché in quel cortile, accadde la scena straziante che ora vi descriverò.
            In quel mentre là al fondo compariva uno stendardo, su cui stava scritto a caratteri cubitali: Sancta Maria succurre miseris (Santa Maria, soccorri i miseri) e lo seguivano i giovani processionalmente. Quando a un tratto, all’impensata di tutti, vidi quel brutto animale, che prima pareva tanto gentile, avventarsi con furiosi barriti in mezzo agli alunni circostanti e prendendo i più vicini colla proboscide scagliarli in alto, sfracellarli sbattendoli in terra, e coi piedi farne uno strazio orrendo. Tuttavia quelli che erano siffattamente maltrattati non rimanevano morti, ma in uno stato da poter guarire, quantunque le ferite fossero orribili. Era un fuggi fuggi generale; chi gridava, chi piangeva, e chi ferito invocava l’aiuto dei compagni: mentre, cosa straziante, alcuni giovani risparmiati dall’elefante, invece di aiutare e soccorrere i feriti, avevano fatta alleanza col mostro per procacciargli altre vittime.
            Mentre avvenivano queste cose (ed io mi trovava nel secondo arco del porticato presso la pompa) quella statuetta che vedete là (indicava la statua della SS. Vergine) si animò e s’ingrandì, divenne persona di alta statura, alzò le braccia ed aperse il manto, nel quale erano intessute con arte stupenda molte iscrizioni. Questo poi si allargò smisuratamente tanto, da coprire tutti coloro che vi si ricoveravano sotto: quivi erano sicuri della vita, pel primo un numero scelto dei più buoni corse a quel rifugio. Ma vedendo Maria SS. che molti non si prendevano cura di affrettarsi a Lei, gridava ad alta voce: Venite ad me omnes (Venite a me, tutti), ed ecco che cresceva la folla dei giovanetti sotto il manto che sempre si allargava. Alcuni però invece di ricoverarsi sotto il manto, correvano da una parte all’altra e venivano feriti prima che fosse loro dato di ripararsi al sicuro. La Vergine SS. affannata, rossa in viso, continuava a gridare, ma più rari si vedevano quelli i quali correvano a Lei. L’elefante seguitava la strage e parecchi giovani, che maneggiando una spada, chi due, sparsi qua e là, impedivano ai compagni, che ancora si trovavano nel cortile, col minacciarli e col ferirli, di andare a Maria. E costoro l’elefante non li toccava menomamente.
            Alcuni dei giovani ricoverati vicino a Maria e da lei incoraggiati, facevano intanto rapide scorrerie. Strappavano all’elefante qualche preda e trasportavano il ferito sotto il manto della statua misteriosa e quegli subito restava guarito. E quindi ripartivano correndo a nuove conquiste. Varii armati di bastone allontanavano l’elefante dalle sue vittime, e si opponevano ai suoi complici. E non cessarono, anche a rischio della loro vita da quel lavoro, finché quasi tutti li ebbero seco loro condotti in salvo.
            Il cortile ormai era deserto. Alcuni erano distesi a terra pressoché morti. Da una parte presso i portici una moltitudine di fanciulli sotto il manto della Vergine. Dall’altra in distanza l’elefante col quale erano rimasti solamente un dieci o dodici giovani, che lo avevano coadiuvato a far tanto male e che insolentemente imperterriti brandivano le spade.
            Quand’ecco quell’elefante sollevatosi sulle gambe posteriori, cambiarsi in un fantasma orribile con lunghe corna; e preso un nero copertone o rete che fosse, avviluppò quei miseri, che avevano parteggiato con lui, e mandò un ruggito, Allora un denso fumo tutti li involse e si sprofondarono e sparirono col mostro in una voragine improvvisamente apertasi sotto i loro piedi.
            Terminata questa orrenda scena mi guardai attorno per esporre qualche mia riflessione a mia madre ed al Cav. Vallauri, ma più non li vidi.
            Mi rivolsi a Maria, desideroso di leggere le iscrizioni, che apparivano intessute sovra il suo manto e vidi che parecchie erano tratte letteralmente dalla Sacra Scrittura e altre pure scritturali, ma alquanto modificate. Ne lessi alcune: Qui elucidant me vitám aeternam habebunt (Chi mi fa conoscere avrà la vita eterna, Sir. 24,31), Qui me invenerit inveniet vitam (Chi trova me, trova la vita, Pr. 8,35), Si quis est parvulus veniat ad me (Chi è piccolo venga a me, Pr. 9,4), Refugium peccatorum (Rifugio dei peccatori), Salus credentium (Salvezza dei credenti), Plena omnis pietatis, mansuetudinis et misericordiae (Piena di ogni pietà, mitezza e misericordia), Beati qui custodiunt vias meas (Beati quelli che seguono le mie vie, Pr. 8,32)
            Dopo la scomparsa dell’elefante tutto era tranquillo. La Vergine pareva quasi stanca dal suo lungo gridare. Dopo breve silenzio, rivolse ai giovani belle parole di conforto, di speranza; e, ripetendo quelle parole che là vedete sotto quella nicchia, fatte scrivere da me: Qui elucidant me, vitam aeternam habebunt, disse:
            – Voi che avete ascoltata la mia voce, e siete sfuggiti dalla strage del demonio, avete veduto ed avete potuto osservare quei vostri compagni sfracellati. Volete sapere quale è la cagione della loro perdita? Sunt colloquia prava (sono le conversazioni sbagliate); sono i cattivi discorsi contro la purità, quelle opere disoneste che tennero immediatamente dietro ai cattivi discorsi. Avete pur veduto quei vostri compagni armati colla spada: ecco quelli che cercano la vostra dannazione, allontanandovi da me e che cagionarono la perdita di tanti vostri condiscepoli. Ma quos diutius expectat durius damnat (coloro che Dio aspetta con più pazienza, più rigorosamente poi punisce, se restano ingrati). Quelli che Dio più a lungo aspetta più severamente punisce: e quel demonio infernale avviluppatili, seco li condusse all’eterna perdizione. Ora voi andatevene tranquilli ma ricordatevi delle mie parole: Fuggite quei compagni amici di Satana, fuggite i cattivi discorsi specialmente contro la purità abbiate in me una illimitata confidenza ed il mio manto vi sarà sempre sicuro rifugio.
            Dette queste ed altre simili parole, si dileguò e null’altro rimase al solito posto, se non la nostra cara statuetta. Allora mi vidi ricomparire la defunta mia madre, di bel nuovo si innalzò lo stendardo colla scritta: Sancta Maria succurre miseris; tutti i giovani si ordinarono dietro a questo in processione ed intonarono il canto “Lodate Maria, o lingue fedeli”.
            Ma non andò molto che il canto incominciò ad illanguidirsi, poi svanì tutto quello spettacolo ed io mi svegliai bagnato interamente di sudore. Ecco! Questo è quanto ho sognato.
            O figli miei; ricavate voi stessi la strenna: chi era sotto il manto chi era gettato in alto dall’elefante, e chi aveva la spada se ne accorgerà dall’esaminare la propria coscienza. Io non vi ripeto che le parole della Vergine SS.: Venite ad me omnes; ricorrete tutti a Lei, in ogni pericolo invocate Maria e vi assicuro che sarete esauditi. Del resto pensino coloro che furono sì maltrattati dalla belva a fuggire i cattivi discorsi, i cattivi compagni; e quelli che cercavano di allontanare gli altri da Maria, o mutino vita o partano subito da questa Casa. Chi poi vorrà sapere il posto che teneva, venga da me anche nella mia camera, ed io glielo manifesterò. Ma lo ripeto; i ministri di Satana o cambiare o partire. Buona notte!
            Queste parole furono pronunziate con tanta unzione e commozione di cuore, che i giovani meditando tal sogno per una settimana più non lo lasciarono in pace. Al mattino molte confessioni, dopo pranzo quasi tutti da lui per sapere qual luogo tenessero in quel sogno misterioso.
            E che non fosse sogno, ma visione, lo aveva pure indirettamente affermato D. Bosco stesso, dicendo:
            “- Quando il Signore è per manifestarmi qualche cosa, passo ecc…Soglio innalzare a Dio preghiere, perché voglia ispirarmi…” e poi col proibire che fece qualunque scherzo intorno a questa narrazione.
            Ma vi è ancora di più.
            Questa volta egli stesso scriveva in un foglietto il nome degli alunni, che nel sogno aveva visti feriti, di quelli che maneggiavano una spada, e di altri che ne maneggiavano due: e lo consegnò a D. Celestino Durando, dandogli incarico di sorvegliarli. D. Durando ci trasmise questa lista e l’abbiamo sottocchio. I feriti sono 13 quelli probabilmente che non furono ricoverati sotto il manto della Madonna, quelli che avevano una spada erano diciassette; quelli che ne avevano due si riducevano a tre. Qualche nota a fianco di un nome indica mutazione di condotta. Si osservi ancora che il sogno, come vedremo, non rappresentava solamente il tempo presente, ma riguardava anche il futuro.
            Ma soprattutto che questo sogno abbia dato nel segno lo comprovarono gli stessi giovani. Uno di questi riferiva: “Non credevo che D. Bosco così mi conoscesse; mi ha manifestato lo stato dell’anima mia, le tentazioni cui sono soggetto con tale precisione, che nulla potrei aggiungere. Due altri giovani cui D. Bosco aveva detto che portavano la spada – Ah! sì, è vero, dicevano, è molto tempo che me ne sono accorto; lo sapeva anch’io. E mutarono condotta.
            “Un giorno dopo pranzo egli parlava del suo sogno, e dopo di aver riferito come alcuni già erano partiti ed altri dovevano partire per allontanare la loro spada dalla Casa, venne a discorrere della sua furberia, come egli diceva, ed a tal proposito riferiva questo fatto. – Un giovane scriveva, è poco tempo, a casa sua appioppando alle persone dell’Oratorio più degne di stima, come a superiori e a preti, gravi calunnie ed insulti. Temendo che D. Bosco potesse vedere quel foglio, cercò, studiò finché gli fu possibile impostarlo senza, che alcuno lo sapesse. La lettera partì. Dopo pranzo lo mandai a chiamare: si presenta nella mia camera ed io, dopo di avergli mostrato il suo fallo, lo interrogava che cosa lo avesse indotto a scrivere tante menzogne. Egli negò sfacciatamente il fatto, io lo lasciai parlare, poscia, cominciando dalla prima parola, gli recitai tutta la lettera. Confuso allora e spaventato, piangendo si gettò ai miei piedi, dicendo: – Non è dunque andata la mia lettera? – Sì, gli risposi, a quest’ora sarà a casa tua, ma pensa tu di ripararvi. – Gli alunni lo interrogarono in qual modo avesse ciò saputo. – Oh! la mia furbizia, rispose ridendo …”.
            Questa furbizia doveva essere quella stessa del sogno, il quale riguardava non solo il presente stato, ma la vita futura di ciascun giovane, uno dei quali, in stretta relazione con Don Rua, cosi gli scriveva molti anni dopo. Si noti che il foglio porta il nome e cognome dello scrivente, col titolo della strada e il numero della sua abitazione in Torino.

Carissimo D. Rua,

            Fra le altre cose mi ricordo di una visione, che D. Bosco ebbe nel 1863, mentre io era ritirato nella sua casa; nella quale vide la vita fu tura di tutti i suoi, e raccontataci da lui stesso dopo le orazioni della sera. Fu il sogno dell’elefante. (Qui descritto quanto sopra abbiamo esposto, continua): Don Bosco terminata la sua narrazione ci disse:
            – Se voi desiderate sapere dove vi siete trovati venite da me nella mia camera, ed io ve lo dirò.
            Dunque anch’io andai.
            – Tu, mi disse, eri uno di coloro che correvi appresso all’elefante prima e dopo le funzioni, quindi naturalmente fosti sua preda; fosti lanciato in alto colla proboscide e cadendo rimanesti malconcio in modo, che non potevi più fuggire, ancorché facessi ogni sforzo. Quando un tuo compagno sacerdote, a te incognito, viene ti prende per un braccio e ti trasporta sotto il manto della Madonna. Fosti salvo.
            Questo non sogno, come diceva D. Bosco, ma vera rivelazione del futuro che il Signore faceva al suo Servo, avvenne nel secondo anno che io era nell’Oratorio, in un tempo che io era di esempio ai miei compagni sì nello studio che nella pietà; eppure Don Bosco mi vide in quello stato.
            Vennero le vacanze scolastiche del 1863. Andai in vacanza per motivi di salute e non ritornai più all’Oratorio. Aveva 13 anni compiuti. L’anno seguente il mio padre mi mise ad imparare il mestiere da calzolaio. Due anni dopo (1866) mi recai in Francia per ultimare d’imparare il mio mestiere. Quivi m’incontrai con gente settaria e poco per volta lasciai la Chiesa e le pratiche religiose, principiai a leggere libri scettici ed arrivai al punto di abborrire la S. Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, come la più pestifera delle religioni.
            Dopo due anni ritornai in patria e qui pure continuai sempre a leggere libri empii e sempre più lui allontanavo dalla vera Chiesa.
            In tutto questo tempo però non ho mai tralasciato di pregare il Signore Iddio Padre a nome di G. C., affinché mi illuminasse e mi facesse conoscere la vera religione.
            Durarono questi tempi ben 13 anni, durante i quali io faceva ogni sforzo per rialzarmi, ma era ferito, era preda dell’elefante, non mi poteva muovere.
            Sul finire dell’anno 1878 si diede una missione spirituale in una parrocchia. Molti intervenivano a queste istruzioni ed anch’io cominciai ad andarci tanto per sentire quei “famosi oratori”.
            Trovai tutte cose belle, verità incontestabili, e finalmente l’ultima predica che trattava appunto del SS. Sacramento, ultimo punto e principale che mi restava in dubbio (poiché io non credeva più alla presenza di G. C. nel SS. Sacramento, né reale, né spirituale) seppe l’oratore sì bene spiegare la verità, confutare gli errori e convincermi, che io tocco dalla grazia del Signore mi decisi a fare la mia confessione e ritornare sotto il manto della B. Vergine. D’allora in poi non tralascio più di ringraziare Dio e la B. Vergine della grazia ricevuta.
            Noti bene che a compimento della visione, seppi poi che quell’oratore missionario era mio compagno nell’Oratorio di D. Bosco.
            Torino, 25 febbraio 1891.

DOMENICO N…

P.S. – Se la S. V. Rev. crede bene di pubblicare questa mia, Le do ampia facoltà anche di ritoccarla, purché non si scambi il senso essendo questa la pura verità. Rispettosamente Le bacio la mano, caro Don Rua, intendendo con questo bacio di baciare quella del nostro amato D. Bosco.

            Ma da questo sogno D. Bosco aveva certamente ricevuto eziandio lume per poter giudicare le vocazioni allo stato religioso o ecclesiastico, le attitudini degli uni e degli altri nel fare in vario modo il bene. Aveva visti quei coraggiosi che affrontavano l’elefante e i suoi partigiani per salvare i compagni e strappar loro i feriti per portarli sotto il manto della Madonna. Egli perciò continuava ad accogliere le domande di quelli fra costoro, che desideravano far parte della Pia Società, oppure ad ammetterli, essendo già ascritti, a pronunciare i voti triennali. E per loro sarà in eterno titolo onorifico la scelta che ne fece D. Bosco. Una parte di questi non pronunciò i voti o compiuta la triennale promessa, uscì dall’Oratorio; ma è un fatto che questi perseverarono quasi tutti nella, loro missione di salvare ed istruire la gioventù o come preti in diocesi o come professori secolari nelle regie scuole.
            I loro nomi stanno nei tre seguenti verbali del Capitolo Salesiano.
(MBVII, 356-363)




Il cammino educativo di don Bosco (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

Il mercato delle braccia giovani
            Il tempo storico, in cui don Bosco visse, non fu tra i più felici. Nei quartieri di Torino, il santo educatore scopre un vero “mercato delle braccia giovani”: la città si riempiva sempre di più di minori sfruttati in modo disumano.
            Don Bosco stesso ricorda che i primi ragazzi che poté avvicinare erano “scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori, quadratori ed altri, che provenivano da paesi lontani”. Erano impiegati ovunque, indifesi, non protetti da alcuna legge. Erano “venditori ambulanti, venditori di zolfanelli, lustrascarpe, spazzacamini, mozzi di stalla, spacciatori di foglietti, fasservizi ai negozianti sul mercato, tutti poveri fanciulli che vivacchiavano alla giornata”. Li vedeva arrampicarsi sui palchi dei muratori, cercare un posto di garzone nelle botteghe, aggirarsi lanciando il richiamo dello spazzacamino. Li vedeva giocare ai soldi agli angoli delle strade: se tentava di avvicinarli, si allontanavano diffidenti e sprezzanti. Non erano i ragazzi dei Becchi, che cercavano racconti o giochi di prestigio. Erano i “lupi” dei suoi sogni; erano i primi effetti di una rivoluzione che avrebbe sconvolto il mondo, la rivoluzione industriale.
            Arrivano a centinaia dai piccoli centri nella città, alla ricerca di lavoro. Non trovano che luoghi squallidi, nei quali si ammassa tutta la famiglia, senz’aria, senza luce, fetidi per l’umidità e gli scoli di fogna. Nelle fabbriche e nelle botteghe nessuna misura igienica, nessun regolamento, tranne quello imposto dal padrone.
            La fuga dalla povertà della campagna verso la città comportava anche l’accettazione di misere paghe o l’adattamento a un rischioso tenore di vita, pur di avere qualcosa da guadagnare. Solo nel 1886 arrivò una prima legge, grazie anche allo zelo del prete degli artigiani, che in qualche modo regolava il lavoro minorile. Nei cantieri in costruzione, don Bosco vede “fanciulli dagli otto ai dodici anni, lontano dal proprio paese, servire i muratori, passare le loro giornate su e giù per i ponti malsicuri, al sole, al vento, salire le ripide scale a pioli carichi di calce, di mattoni, senza altro aiuto educativo che villani rabuffi o percosse”.
            Don Bosco tira rapidamente i conti. Quei ragazzi hanno bisogno di una scuola e di un lavoro che aprano loro un avvenire più sicuro: hanno bisogno di essere prima di tutto ragazzi, vivere l’esuberanza dell’età, senza intristire sui marciapiedi e affollare le prigioni. La realtà sociale dei nostri tempi sembra una risonanza di quella di ieri: altre immigrazioni, altri volti bussano come un fiume in piena alle porte delle nostre coscienze.
            Don Bosco è stato un educatore dotato di intuizione, di senso pratico, restio verso soluzioni a tavolino, metodologie astruse e progetti astratti. La pagina educativa è scritta dal santo con la sua vita, prima che con la sua penna. È il modo più convincente per rendere credibile un sistema educativo. Per far fronte alle ingiustizie, allo sfruttamento morale e materiale di minorenni crea scuole, organizza laboratori di artigianato di ogni tipo, inventa e promuove iniziative contrattuali a tutela del ragazzo, stimola le coscienze con proposte qualificate di formazione al lavoro. Alla vuota politica di palazzo e alle strumentali manifestazioni di piazza risponde con strutture efficienti di accoglienza, servizi sociali innovativi, oggetto di stima e ammirazione anche dei più accaniti anticlericali del tempo. E la storia di oggi non è poi tanto diversa da quella di ieri; oltretutto, la storia indossa l’abito che i suoi sarti confezionano con le proprie mani e le proprie idee.
            Don Bosco ha creduto nel ragazzo, ha scommesso sulle sue capacità, poche o molte, visibili o nascoste che fossero. Amico di tanti ragazzi di strada, ha saputo leggere nel loro cuore le potenzialità di bene nascoste. Egli riusciva a scavare dentro la vita di ognuno e tirare fuori risorse preziose per confezionare l’abito a misura della dignità dei suoi giovani amici. Una pedagogia che non tocchi l’essenza della persona e non sappia coniugare, al di fuori di ogni logica storica e culturale, i valori eterni di ogni creatura, rischia di intervenire su persone astratte o soltanto in superficie.
            L’impatto nel territorio del suo tempo fu determinante. Si è guardato attorno, ovunque: ha visto ed ha creato l’impossibile per realizzare le sue sante utopie. È venuto a contatto con le realtà estreme della devianza minorile. È entrato nelle carceri: ha saputo guardare dentro questa piaga con coraggio e con spirito sacerdotale. È stata l’esperienza, che lo ha segnato profondamente. Si è accostato ai mali della città con viva e commossa partecipazione: aveva coscienza dell’esistenza di tanti ragazzi che aspettavano qualcuno che si prendesse cura di loro. Ha visto con il cuore e la mente i loro traumi umani, ha anche pianto, ma non si è fermato alle sbarre; è riuscito ad urlare con la forza del suo cuore, a quanti incontrava, che quella del carcere non è la casa da ricevere in regalo dalla vita, ma che esiste un’altra possibilità di vivere la vita. Lo ha gridato con scelte concrete a quelle voci che provenivano dalle celle malsane, e con gesti di vicinanza alla moltitudine di ragazzi seminati per le strade, accecati dall’ignoranza e congelati dall’indifferenza della gente. È stato l’assillo di tutta la vita: impedire che tanti finissero dietro le sbarre o appesi alla forca. Non è neppure pensabile che il suo Sistema preventivo non avesse collegamenti con questa amara e sconvolgente esperienza giovanile. Anche volendo, non avrebbe mai potuto dimenticare quell’ultima notte passata accanto a un giovane condannato all’impiccagione, o l’accompagnamento di condannati a morte e lo svenimento in vista del patibolo. Com’è pensabile che il suo cuore non avesse una reazione, nel passare tra la gente forse compiaciuta, forse commiserante, e vedere una giovane vita spegnersi per una logica umana, che regola i conti con chi è finito in un burrone e non si china a tendere la mano per tirarlo fuori? Il contadino dei Becchi, dal cuore grande come la sabbia del mare, è stato una mano sempre tesa verso la gioventù povera e abbandonata.

Preziosa eredità
            Ogni uomo lascia sempre una traccia del suo passaggio sulla terra. Don Bosco ha lasciato alla storia l’incarnazione di un metodo educativo che è anche una spiritualità, frutto di una sapienza educativa sperimentata nella fatica quotidiana, accanto ai ragazzi. Di questa preziosa eredità si è scritto tanto!
            L’ambito educativo oggi è quanto mai complesso, perché si muove in un tessuto culturale disarticolato. Esiste un pluralismo metodologico di interventi operativi assai vasto, sia a livello sociale che a livello politico.
            L’educatore si trova di fronte a situazioni difficili da decifrare e spesso contraddittorie, con modelli ora permissivi, ora autoritari. Cosa fare? Guai all’educatore incerto, frenato dal dubbio! Chi educa non può vivere indeciso e perplesso, facendo il pendolare tra il “così o il cosà”. Educare in una società frammentaria non è semplice. Con una consistente classe di emarginati, divisa in tanti frammenti, non è facile far luce; prevale il soggettivo, l’interesse e l’attenzione al proprio “io”, al proprio interesse, la tendenza a rifugiarsi in ideali effimeri e transitori. Dagli anni in cui prevaleva la tendenza al protagonismo, si è passati al rifiuto o al disinteresse per la vita pubblica, per la politica: poca partecipazione, scarsa voglia di coinvolgimento.
            All’assenza di un centro propositore di punti di riferimento stabili, si aggiunge l’assenza di un fondamento di certezze, che dia ai giovani la voglia di vivere e l’amore al servizio per gli altri.
            Eppure, in tutto questo mondo dalle egemonie provvisorie, privo di una cultura unitaria, con elementi eterogenei ed isolati, emergono nuovi bisogni: una migliore qualità della vita, relazioni umane più costruttive, l’affermarsi di una solidarietà centrata sul volontariato. Affiorano esigenze di spazi aperti nuovi per il dialogo e l’incontro: sono i giovani a decidere come, dove e cosa dirsi.
            Nell’epoca della bioetica, del telecomando, della ricerca di cose belle e semplici della terra, si è alla ricerca di un volto nuovo della pedagogia. È la pedagogia che si veste di accoglienza, di disponibilità, di spirito di famiglia, che genera fiducia, gioia, ottimismo, simpatia, che apre orizzonti propositivi di speranza, che ricerca i mezzi e i modi per operare la novità della vita. È la pedagogia del cuore umano, l’eredità più preziosa che ha lasciato don Bosco alla società.
            Su questo tessuto, aperto e sensibile alla prevenzione, si deve costruire con coraggio e volontà un futuro migliore per i ragazzi disturbati di oggi. È possibile sempre e comunque rendere presente l’intervento pedagogico di don Bosco, perché fondato sull’essenza naturale di ogni essere umano. Sono i criteri della ragione, della religione e dell’amorevolezza: il trinomio sul quale tanti giovani sono stati formati “come onesti cittadini e buoni cristiani”.
            Non è un metodo di studio, lo ripetiamo, ma uno stile di vita, l’adesione a uno spirito, che racchiude valori nati e maturati con l’uomo, creato a immagine e somiglianza del Creatore. La straordinaria predilezione per i giovani, il profondo rispetto per la loro persona e la loro libertà, la preoccupazione di mettere insieme le esigenze materiali con quelle dello spirito, la pazienza di vivere i ritmi della crescita o del cambiamento del ragazzo soggetto attivo, non passivo, di ogni processo educativo, sono la sintesi di questa “preziosa eredità”.
            E c’è un altro aspetto. C’è un conto aperto con la società: i giovani del futuro reclamano un don Bosco “universale”, oltre i margini della sua famiglia apostolica. Quanti dei nostri ragazzi non hanno mai sentito parlare di don Bosco!
            Urge rilanciare il suo messaggio, ancora vivo: a disattendere questo processo naturale di riattualizzazione, si rischia anche di far morire i segni positivi presenti nella cultura di oggi che, anche se con sensibilità diverse e con finalità e motivazioni contrapposte, ha a cuore la promozione umana del ragazzo.
            La pedagogia di don Bosco, prima di essere tradotta in documenti riflessi, in scritti sistematici ha preso il volto di quei moltissimi giovani da lui educati. Ogni pagina del suo sistema educativo ha un nome, un fatto, una conquista, forse anche fallimenti. Il segreto della sua santità? I giovani! “Io per voi studio, per voi lavoro, per voi sono disposto a dare la vita”.
            A giovani senza amore, don Bosco ha ridonato l’amore. A giovani senza famiglia, perché inesistente o da essi fisicamente e spiritualmente lontana, don Bosco ha cercato di costruire o ricostruire l’ambiente e il clima della famiglia. Uomo dotato di una profonda disponibilità al miglioramento mediante il continuo cambio, don Bosco si lasciava guidare dalla certezza che tutti i giovani, praticamente, potevano diventare migliori. Il germe della bontà, la possibilità di riuscita era in ogni giovane; bisognava solo trovare la strada: “Si è preso a cuore la sorte di migliaia di piccoli vagabondi, ladroncelli per abbandono o miseria, ragazzini e ragazzi affamati e senza casa”.
            Quelli che la società metteva ai margini, per don Bosco erano al primo posto; erano l’oggetto della sua fede. I giovani respinti dalla società rappresentavano addirittura la sua gloria; era la sfida in un momento storico in cui le attenzioni e le cure educative da parte della società e di organismi erano dirette ai fanciulli per bene, a modo, anzi il più a modo possibile.
            Don Bosco ha intuito la forza dell’amore dell’educatore. Egli non si è per nulla preoccupato di adeguarsi e conformarsi ai sistemi, metodi e concezioni pedagogiche in uso al suo tempo. Era apertamente nemico di una educazione che accentuava soprattutto l’autorità, che predicava un rapporto freddo e distaccato tra educatori ed educandi. La violenza puniva momentaneamente il vizio, ma non guariva il vizioso. E così non accettava e non ammetteva mai punizioni “esemplari”, che avrebbero dovuto avere un effetto di prevenzione, incutendo paura, ansia e angoscia.
            Aveva capito che nessuna educazione era possibile senza guadagnare il cuore del giovane; il suo era un metodo educativo che portava al consenso, alla partecipazione del ragazzo. Era convinto che nessun tentativo pedagogico portava frutto, finché non avesse trovato fondamento nell’intera disposizione dell’ascolto.
            C’è una caratteristica che riguarda la sfera, nella quale si compie l’educazione ed è tipica della pedagogia di Don Bosco: la creazione e la conservazione di una “allegria”, per cui ogni giorno diventa una festa. Fu un’allegria che sussiste solo, e non potrebbe essere diversamente, in virtù di un’attività creativa, che esclude ogni noia, ogni senso di stanchezza per non sapere come occupare il tempo. Don Bosco possedeva in questo campo un’inventiva e un’abilità che gli permettevano, con straordinaria abilità, non solo di intrattenere, ma di attirare a sé i giovani attraverso giochi, recite, canti, passeggiate: la sfera dell’allegria rappresentava per la sua pedagogia un passaggio obbligato.
            I giovani, naturalmente, devono scoprire dov’è il loro errore, per questo hanno bisogno dell’aiuto dell’educatore, anche attraverso la disapprovazione, ma non è affatto necessario che questa sia accompagnata dalla violenza. La disapprovazione è un appello alla coscienza. L’educatore deve essere la guida ai valori, non alla propria persona. Nell’intervento educativo, un legame troppo forte dell’educando nei confronti della persona dell’educatore può minacciare il favorevole effetto della sua attività educativa; può facilmente sorgere un mito, generato da emotività, al punto da farne un ideale assolutizzato e assolutizzante. I giovani non devono essere disposti a fare la nostra volontà: devono imparare a fare ciò che è giusto e significativo per la loro crescita umana ed esistenziale. L’educatore lavora per il futuro, ma non può lavorare sul futuro; deve accettare, dunque, di essere continuamente esposto alla revisione della sua opera, delle sue metodologie e soprattutto deve essere continuamente preoccupato di scoprire sempre più profondamente la realtà dell’educando, per intervenire al momento opportuno.
            Don Bosco diceva: “non basta che il primo cerchio, cioè la famiglia, sia sano, bisogna che sia sano anche quel secondo cerchio, inevitabile, che è formato dagli amici del fanciullo. Cominciate a dirgli che vi è una grande differenza tra compagni e amici. I compagni non se li può scegliere; li ritrova nel banco della scuola e nel luogo di lavoro o di adunanze. Gli amici, invece, li può e li deve scegliere… Non ostacolate la naturale vivacità del fanciullo e non chiamatelo cattivo perché non sta fermo”.
            Però questo non basta; il gioco e il moto potranno occupare una buona parte, ma non tutta la vita del ragazzo. Il cuore ha bisogno di nutrimento suo, ha bisogno di amare.
             “Un giorno, dopo una serie di considerazioni su don Bosco, invitai i ragazzi del nostro centro ad esprimere con un disegno, con una parola, con un gesto l’immagine che si erano fatta del Santo.
            Alcuni riprodussero la figura del prete circondato da ragazzi. Un altro disegnò una sbarra: all’interno era abbozzato il volto di un ragazzo, mentre dall’esterno una mano tentava di forzare un catenaccio. Un altro ancora, dopo un lungo silenzio, abbozzò due mani che si stringevano. Un terzo disegnò cuori a volontà, dalle forme più svariate e al centro un mezzo busto di don Bosco, con tante e tante mani che toccavano questi cuori. Un ultimo scrisse una sola parola: padre! La maggior parte di questi ragazzi non conosce Don Bosco”.
             “Da tempo sognavo di accompagnarli a Torino: non sempre le circostanze ci erano state favorevoli. E dopo vari tentativi a vuoto eravamo riusciti a formare un gruppo di otto ragazzi, tutti con provvedimenti penali a carico. Due ragazzi avevano avuto il permesso di uscire dal carcere per quattro giorni, tre erano agli arresti domiciliari, gli altri erano soggetti a prescrizioni varie.
            Vorrei avere una penna da artista per descrivere le emozioni che leggevo nei loro occhi nell’ascoltare il racconto dei loro coetanei aiutati da don Bosco. Si aggiravano per quei luoghi benedetti come se rivivessero le loro storie. Nelle camerette del Santo seguirono la s. Messa con un raccoglimento commovente. Li rivedo stanchi, appoggiare la testa all’urna di Don Bosco, fissare il suo corpo, bisbigliare preghiere. Cosa abbiano detto, cosa don Bosco abbia detto a quei ragazzi non lo saprò mai. Con loro ho goduto la gioia della mia stessa vocazione”.
            In Don Bosco riscontriamo una sapienza somma nel centrare la vita concreta di ogni ragazzo o giovane che incontrava: la loro vita diventava la sua vita, le loro sofferenze diventavano le sue sofferenze. Non si dava pace fino a quando non li avesse aiutati. I ragazzi che venivano a contatto con don Bosco, avvertivano di essere suoi amici, sentivano di averlo a fianco, ne percepivano la presenza, ne gustavano l’affetto. Questo li rendeva sicuri, meno soli: per chi vive emarginato è il sostegno maggiore che possa ricevere.
            In un sussidiario delle scuole elementari, ingiallito e consunto dagli anni, ho letto alcune frasi, scritte a inchiostro, a fondo del racconto del giocoliere dei Becchi. Chi le aveva scritto era la prima volta che sentiva parlare di Giovannino Bosco: “Solo Dio, la sua Parola, è regola immortale e guida dei nostri comportamenti e delle nostre azioni. Dio c’è nonostante le guerre. La terra nonostante gli odi continua a darci il pane per vivere”.

don Alfonso Alfano, sdb




Il cammino educativo di don Bosco (1/2)

Sulle strade del cuore
            Don Bosco ha pianto alla vista dei ragazzi finiti in carcere. Ieri come oggi, il calendario del male è implacabile: per fortuna lo è anche quello del bene. E sempre di più. Sento che le radici di ieri sono le stesse di oggi. Come ieri, altri ragazzi, anche oggi, trovano casa sulla strada e nelle prigioni. Credo che la memoria del prete di tanti ragazzi che non avevano parrocchia è il termometro insostituibile per misurare la temperatura del nostro intervento educativo.
            Don Bosco vive in un momento di povertà sociale impressionante. Si era all’avvio del processo di aggregazioni giovanili nelle grandi metropoli industriali. La stessa autorità di polizia denunciava questa pericolosità: erano tanti “i figlioletti che allevati senza principi di Religione, d’Onore e d’Umanità, finivano per marcire totalmente nell’odio”, si legge nelle cronache del tempo. Era proprio la crescente povertà, che spingeva una grande moltitudine di adulti e giovani a vivere di espedienti, e in particolare di furto e di elemosine.
            Il degrado urbano fece esplodere le tensioni sociali, che viaggiavano di pari passo con quelle politiche; ragazzi discoli e gioventù traviata, verso la metà del secolo dicianovesimo, richiamano l’attenzione pubblica, scuotendo la sensibilità governativa.
            Al fenomeno sociale si aggiunge un evidente pauperismo educativo. Lo sfascio della famiglia destava preoccupazioni soprattutto nella Chiesa; il prevalere del sistema repressivo è alla base del crescente disagio giovanile; ne risente il rapporto genitori e figli, educandi ed educatori. Don Bosco dovrà confrontarsi con un sistema fatto di “cattivi tratti”, proponendo quello dell’amorevolezza.
            Una vita ai limiti del lecito e dell’illecito di tanti genitori, la necessità di procacciarsi il necessario per la sopravvivenza, porterà una moltitudine di ragazzi allo sradicamento dalla famiglia, al distacco dal proprio territorio. La città si affolla sempre di più di ragazzi e giovani alla caccia di un posto di lavoro; per molti che vengono da lontano manca anche un angolo per dormire.
            Non è raro incontrare una signora, come Maria G., mendicare servendosi di bambini sistemati ad arte nei punti strategici della città o davanti alle porte delle chiese; spesso, gli stessi genitori affidavano i propri figli a mendicanti, che se ne servivano per suscitare la pietà altrui e riceverne un maggiore guadagno. Sembra la fotocopia di un sistema collaudato in una grande città del Sud: il noleggio di bambini altrui, per impietosire il passante e rendere più redditizio l’accattonaggio.
            Il furto era comunque la vera fonte di guadagno: è un fenomeno che, nella Torino dell’ottocento, cresce e diventa inarrestabile. Il 2 febbraio del 1845 comparvero di fronte al commissario di polizia del Vicariato nove monelli di età compresa tra gli undici e i quattordici anni, accusati di aver derubato dalla bottega di un libraio numerosi volumi … e vari oggetti di cancelleria, facendo uso di grimaldello. La nuova leva di “borsajuoli” attirava continue lagnanze della gente. Erano quasi sempre fanciulli abbandonati, privi di genitori, di parenti e di mezzi di sussistenza, poverissimi, da tutti scacciati ed abbandonati che finivano a rubare.
            Il quadro della devianza minorile era impressionante: la delinquenza e lo stato di abbandono di tanti ragazzi si allargava a macchia d’olio. Il numero crescente di “discoli”, di “temerari borsajuoli” nelle strade e nelle piazze era comunque solo un aspetto di una diffusa congiuntura. La fragilità della famiglia, il forte disagio economico, la costante e forte immigrazione dalle campagne verso la città, alimenta una situazione precaria, che le forze politiche si sentono impotenti ad affrontare. Il disagio cresce, quando la criminalità si organizza e penetra nelle strutture pubbliche. Incominciano le prime manifestazioni di violenza di bande organizzate, che agiscono con azioni improvvise e ripetute, a scopo intimidatorio, destinate a creare un clima di tensione sociale, politico e religioso.
            Ne sono espressione le bande, dette le “cocche”, che si diffusero in vario numero, prendendo nomi diversi dai quartieri dove avevano il punto di riferimento. Avevano il solo scopo “di inquietare i passeggeri, di maltrattarli se si fossero lagnati, di commettere atti osceni verso le donne, e di attaccare qualche militare o preposto isolato”. In realtà non si trattava di associazioni a delinquere, ma più di aggregazioni, formate non solo da torinesi, ma anche da immigrati: giovani dai sedici ai trent’anni che erano soliti ritrovarsi in spontanee riunioni, specie nelle ore serali, dando sfogo alle proprie tensioni e alle frustrazioni della giornata. È in questa situazione della metà del secolo XIX che si inserisce l’attività di don Bosco. Non erano i ragazzi poveri, amici e compagni d’infanzia della sua terra dei Becchi in Castelnuovo, non erano i baldi giovani di Chieri, ma “i lupi, le zuffe, i discoli” dei suoi sogni.
            È in questo mondo di conflitti politici, in questa vigna, dove abbondante è la semina della zizzania, tra questo mercato delle braccia giovani, assoldati alla depravazione, tra questi ragazzi senza amore e malnutriti nel corpo e nell’anima, che è chiamato a lavorare don Bosco. Il giovane prete ascolta, andrà sulle strade: vede, si commuove, ma, concreto quale era, si rimbocca le maniche; quei ragazzi hanno bisogno di una scuola, di educazione, di catechismo, di formazione al lavoro. Non c’è tempo da perdere. Sono giovani: hanno bisogno di dare senso alla loro vita, hanno diritto ad avere tempo e mezzi per studiare, apprendere un mestiere, ma anche tempo e spazi per stare allegri, per giocare.

Andate, guardatevi intorno!
            Sedentari per professione o per scelta, computerizzati nel pensiero e nelle azioni, rischiamo di perdere l’originalità dello “stare”, della condivisione, della crescita “insieme”.
Don Bosco non è vissuto nell’epoca dei preparati in provetta: ha lasciato all’umanità la pedagogia della “compagnia”, il piacere spirituale e fisico di vivere accanto al ragazzo, piccolo tra piccoli, povero tra poveri, fragile tra fragili.
            Un prete suo amico e guida spirituale, Don Cafasso, conosce Don Bosco, conosce il suo zelo per le anime, intuisce la sua passione per quella moltitudine di ragazzi; lo esorta ad andare per le strade. “Andate, guardatevi intorno”. Fin dalle prime domeniche il prete, che veniva dalla terra, il prete che non aveva conosciuto suo padre, andò in giro per vedere la miseria delle periferie della cittadina. Ne rimane sconvolto. “Incontrò un gran numero di giovani di ogni età testimonia il suo successore, don Rua che andavano vagando per le vie e le piazze, specialmente nei dintorni della città, giocando, rissando, bestemmiando e facendo anche peggio”.
            Entra nei cantieri, parla con gli operai, contatta i datori di lavoro; prova emozioni che lo segneranno per tutta la vita nell’incontrare questi ragazzi. E talvolta ritrova questi poveri “muratorini” sdraiati per terra in un angolo di chiesa, stanchi, assenti, assonnati, incapaci di sintonizzarsi con sermoni senza senso per la loro vita vagabonda. Forse era quello l’unico posto dove potevano trovare un po’ di caldo, dopo una giornata di fatica, prima di avventurarsi alla ricerca di qualche posto, ove trascorrere la notte. Entra nelle botteghe, gira per i mercati, visita gli angoli delle strade, dove sono tanti i ragazzi dediti all’accattonaggio. Ovunque ragazzi malvestiti e denutriti; assiste a scene di malcostume e di trasgressioni: protagonisti, ancora ragazzi.
            Dopo alcuni anni, dalla strada passa alle carceri. “Per venti anni continuati ed assiduamente io frequentai le Regie prigioni di Torino ed in particolare le senatorie; dopo ci andava ancora, ma non più regolarmente…” (MB XV, 705)
            Quante incomprensioni all’inizio! Quanti insulti! Una “tonaca” stonava in quel posto, identificata magari con qualche malvisto superiore. Si avvicinò a quei “lupi”, rabbiosi e diffidenti; ascoltò le loro storie, ma soprattutto fece sue le loro sofferenze.
            Comprese il dramma di quei ragazzi: abili sfruttatori li avevano spinti dentro quelle celle. E divenne loro amico. Il suo modo di fare, semplice e umano, restituiva a ciascuno di loro dignità e rispetto.
            Bisognava fare qualcosa e presto; occorreva inventare un sistema diverso, per stare accanto a chi era finito fuori strada. “Allorché il tempo glielo permetteva, spendeva intere giornate nelle carceri. Ogni sabato si recava colle saccocce piene, ora di tabacco, ora di pagnotte, ma collo scopo di coltivare specialmente i giovinetti … assisterli, renderli amici, e così eccitarli a venire all’oratorio, quando loro toccasse la buona sorte di uscire dal luogo di perdizione”. (MB II, 173)
            Nella “Generala”, una Casa di Correzione inaugurata a Torino il 12 aprile del 1845, come si legge nei regolamenti della Casa di pena, venivano “raccolti e governati col metodo del lavoro in comune, del silenzio e della segregazione notturna in apposite celle i giovani condannati ad una pena correzionale per avere agito senza discernimento commettendo il reato ed i giovani sostenuti in carcere per amore paterno”. In questo contesto s’inquadrerebbe la straordinaria escursione a Stupinigi organizzata dal solo Don Bosco, col consenso del Ministro dell’Interno, Urbano Rattazzi, senza guardie, basata soltanto sulla reciproca fiducia, su di un impegno di coscienza e sul fascino dell’educatore. Volle sapere il “motivo per cui lo Stato non ha sopra quei giovani l’influenza” del sacerdote. “La forza che noi abbiamo è una forza morale: a differenza dello Stato, il quale non sa che comandare e punire, noi parliamo principalmente al cuore della gioventù, e la nostra parola è la parola di Dio”.
            Conoscendo il sistema di vita adottato all’interno della Generala, assume un valore incredibile la sfida lanciata dal giovane prete piemontese: chiedere una giornata di “Libera uscita” per tutti quei giovanissimi reclusi. Era una pazzia e tale fu considerata la richiesta di don Bosco. Ottenne l’autorizzazione nella primavera del 1855. Il tutto fu organizzato dal solo don Bosco, con l’aiuto dei ragazzi stessi. Il consenso avuto dal Ministro Rattazzi certamente è un segno di stima e di fiducia per il giovane prete. L’esperienza di condurre fuori di quella Casa di Correzione dei ragazzi in piena libertà e riuscire a riportarli tutti in carcere, nonostante quanto ordinariamente avvenisse all’interno della struttura carceraria, ha dello straordinario. È il trionfo dell’appello alla fiducia e alla coscienza, è il collaudo di un’idea, di un’esperienza, che lo guiderà in tutta la sua vita a scommettere sulle risorse nascoste nel cuore di tanti giovani votati a una emarginazione irreversibile.

Avanti e in maniche di camicia
            Ancora oggi, in un contesto culturale e sociale diverso, le intuizioni di Don Bosco non hanno per nulla la muffa di cose “sorpassate”, ma restano tuttora propositive. Sorprende soprattutto, nella dinamica di recupero di ragazzi e giovani entrati nel circuito penale, lo spirito di inventiva nel creare per loro occasioni concrete di lavoro.
            Oggi siamo tormentati dall’offrire possibilità di occupazioni per i nostri minori a rischio. Chi opera nel sociale sa quanto sia duro superare meccanismi e ingranaggi burocratici per la realizzazione, ad esempio, di semplici borse di lavoro per minorenni. Con formule e strutture agili si realizzò con Don Bosco un tipo di “affidamento” dei ragazzi a datori di lavoro, sotto la tutela educativa del garante.
            I primi anni di vita sacerdotale e apostolica di Don Bosco sono all’insegna della continua ricerca della via giusta per togliere ragazzi e giovani dal pericolo della strada. Erano chiari nella sua mente i progetti, come connaturato nella sua mente e nel suo animo era il metodo educativo. “Non con le percosse, ma con la mansuetudine”. Era anche convinto che non era impresa facile trasformare lupi in agnelli. Ma aveva dalla sua parte la Divina Provvidenza.
            E davanti ai problemi immediati non si tirò mai indietro. Non era il tipo per stare a “dissertare” sulla condizione sociologica del minore, non era neppure il sacerdote dei compromessi politici o comunque formali; era santamente cocciuto nei propositi di bene, ma era fortemente tenace e concreto nel realizzarli. Aveva un grande zelo per la salvezza della gioventù e non c’erano ostacoli che potessero condizionare questa santa passione, che segnava ogni passo e scandiva ogni ora della sua giornata.
             “L’incontrare nelle carceri turbe di giovinetti ed eziandio di fanciulli sull’età di dodici ai diciotto anni, tutti sani, robusti e d’ingenio svegliato; vederli là inoperosi e rosicchiati dagli insetti, stentando di pane spirituale e temporale, espiare in quei luoghi di pena coi rimorsi le colpe di una precoce depravazione, fa inorridire il giovane prete. Egli vede in quegli infelici personificato l’obbrobrio della patria, il disonore della famiglia, l’infamia di se stessi; vede soprattutto anime redente e francate dal sangue di un Dio gemere invece nel vizio, e nel più evidente pericolo di andare eternamente perdute. Chissà se avessero avuto un AMICO, che si fosse preso amorevolmente cura di loro, li avesse assistiti e istruiti nella religione nei giorni di festa, chi sa se non si sarebbero tenuti lontani dal male e dalla rovina, e se non avrebbero evitato di venire e di ritornare in questi luoghi di pena? Certo che almeno il numero di questi piccoli prigionieri sarebbe grandemente diminuito.” (MB II, 63)
            Si rimboccò le maniche e si diede anima e corpo alla prevenzione di questi mali; diede tutto il suo contributo, la sua esperienza, ma soprattutto le sue intuizioni nell’avvio di iniziative proprie o di altre associazioni. Era l’uscita dal carcere che preoccupava sia il governo che le “società” private. Proprio nel 1846 si costituisce una struttura associativa autorizzata dal governo, che sembra, almeno negli intenti e in alcune modalità, quanto oggi avviene nell’ordinamento penale minorile italiano. Si chiamerà “Società Reale per il patrocinio dei giovani liberati dalla Casa di Educazione Correzionale”. Aveva per scopo il sostegno ai giovani che uscivano dalla Generala.
            Una lettura attenta dello Statuto ci riporta nella sostanza ad alcuni provvedimenti penali, previsti oggi come misure alternative al carcere.
            I Soci della predetta Società erano divisi in “operanti”, che assumevano l’ufficio di tutori, “paganti”, e “paganti operanti”. Don Bosco fu “socio operante” Don Bosco ne accettò vari, ma con risultati sconfortanti. Forse furono questi insuccessi a fargli decidere di chiedere alle autorità di mandare i ragazzi preventivamente.
            Non importa qui affrontare il rapporto D. Bosco, case di correzione e servizi collaterali, quanto invece ricordare l’attenzione che il Santo offre a questa fascia di minori. Don Bosco conosceva il cuore dei giovani della Generala, ma soprattutto aveva in animo ben altro che restare indifferente davanti al degrado morale e umano di quei poveri e sfortunati reclusi. Continuò la sua missione: non li abbandonò: “Fin da quando il Governo aperse quel Penitenziario, e ne affidò la direzione alla Società di S. Pietro in Vincoli, Don Bosco ottenne di potersi recare di quando in quando in mezzo a quei poveri giovani […]. Egli col permesso del Direttore delle carceri li istruiva nel catechismo, faceva loro delle prediche, li confessava, e molte volte si intratteneva con essi amichevolmente in ricreazione, come praticava coi suoi figlioli dell’Oratorio” (BS 1882, n. 11 pag. 180).
            L’interesse di Don Bosco per i giovani in difficoltà si concentrò con il tempo nell’Oratorio, vera espressione di una pedagogia preventiva e di recupero, essendo un servizio sociale aperto e polifunzionale. Un contatto diretto con giovani rissosi, violenti, ai limiti della delinquenza Don Bosco lo ha intorno agli anni 1846-50. Sono gli scontri incontri con le cocche, bande o gruppi di quartiere in permanente conflitto. Si racconta di un quattordicenne, figlio di padre ubriacone e anticlericale che, capitato per caso nell’Oratorio nel 1846, si getta a capofitto nelle varie attività ricreative, ma si rifiuta di partecipare alle funzioni religiose, perché secondo gli insegnamenti paterni, non intende divenire “muffito e cretino”. Don Bosco lo affascina con la tolleranza e la pazienza, da fargli cambiare comportamento in breve tempo.
            Don Bosco fu anche interessato ad assumere la gestione di istituti di carattere rieducativo e correzionale. Proposte in questo senso erano venute da varie parti. Ci furono tentativi e contatti, ma bozze e proposte di convenzioni non approdarono a nulla. Tutto questo è sufficiente per far capire quanto Don Bosco avesse comunque a cuore il problema dei discoli. E se resistenze ci furono, venivano sempre dalla difficoltà a far uso del sistema preventivo. Laddove riscontrava un “misto” di sistema repressivo e preventivo, era categorico il rifiuto, come era chiaro anche nel rifiutare ogni denominazione o struttura che riportasse all’idea del “riformatorio”. A leggere attentamente questi tentativi, emerge il fatto che Don Bosco non rifiutava mai l’aiuto al ragazzo in difficoltà, ma era contrario alla gestione di istituti, case di correzione o a dirigere opere dal compromesso educativo evidente.
            È quanto mai interessante il colloquio avvenuto tra Don Bosco e Crispi a Roma nel febbraio del 1878. Crispi chiese a Don Bosco notizie sull’andamento della sua opera e in particolare parlò dei sistemi educativi. Lamentò i disordini che avvenivano nelle carceri dei corrigendi. Fu una conversazione in cui il Ministro restò affascinato dall’analisi di Don Bosco; gli chiese non solo consigli, ma anche un programma per queste case di correzione (MB XIII, 483).
            Le risposte e le proposte di Don Bosco trovarono simpatia, ma non disponibilità: era forte la frattura tra il mondo religioso e quello politico. Don Bosco espose il suo parere, indicando varie categorie di ragazzi: discoli, dissipati e buoni. Per il Santo educatore c’è speranza di ben riuscire per tutti, anche per i discoli, come si era solito allora indicare quelli che oggi diciamo ragazzi a rischio.
            “Che non diventino peggiori”. “…Col tempo lasciano che i buoni principi acquistati giungano più tardi a produrre il loro effetto … molti si riducono a far senno”. È una risposta esplicita e forse la più interessante.
            Dopo aver fatto cenno alla distinzione tra i due sistemi educativi, egli determina quali ragazzi debbono dirsi ne’ pericoli: quelli che vanno in altre città o paesi in cerca di lavoro quelli di cui i genitori non possono o non vogliono prendersi cura i vagabondi che cadono nelle mani della pubblica sicurezza”. Indica i provvedimenti necessari e possibili: “I giardini di ricreazione festiva l’assistenza lungo la settimana di quelli collocati al lavoro ospizi e case di preservazione con arti e mestieri e con colonie agricole”.
            Propone non una gestione governativa diretta delle istituzioni educative, ma un adeguato sostegno in edifici, attrezzature e sussidi finanziari e presenta una versione del Sistema Preventivo che ne conserva gli elementi essenziali, senza l’esplicito riferimento religioso. Oltre tutto una pedagogia del cuore non avrebbe potuto ignorare i problemi sociali, psicologici e religiosi.
            Don Bosco attribuisce il loro traviamento all’assenza di Dio, all’incertezza dei principi morali, alla corruzione del cuore, all’annebbiamento della mente, all’incapacità e incuria degli adulti, soprattutto dei genitori, all’influsso corrosivo della società e all’intenzionale azione negativa dei “compagni cattivi” o alla mancanza di responsabilità degli educatori.
            Don Bosco gioca molto sul positivo: la voglia di vivere, l’affezione al lavoro, la riscoperta della gioia, la solidarietà sociale, lo spirito di famiglia, il sano divertimento.

(continua)

            don Alfonso Alfano, sdb




Il sogno di don Bosco è più vivo che mai

Davanti a tutto quello che sto vedendo nel mondo salesiano, mi sento di dire con un po’ di autorità: amato Don Bosco, il tuo Sogno continua a realizzarsi.

            Cari amici, lettori del Bollettino Salesiano, come ogni mese, vi invio il mio personale saluto dal cuore e dalle mie riflessioni, motivate da ciò che sto vivendo, perché credo che la vita arrivi a tutti noi e che ciò che condividiamo, se è buono, ci fa bene e ci dona nuovo entusiasmo.
            Quaresima e Pasqua ci invitano a rinascere. Ogni giorno. Rinascere alla fiducia, alla speranza, alla serena pace, alla voglia di amare, di lavorare e creare, di custodire e coltivare persone e talenti e creature, tutto intero il piccolo o grande giardino che Dio ci ha affidato.
            A noi salesiani la festa di Pasqua ricorda sempre quella del 1846 a Valdocco, quando don Bosco passò dalle lacrime del prato Filippi alla povera tettoia Pinardi e alla striscia di terreno intorno, dove il sogno cominciò a diventare realtà.
            Ho visto il sogno continuare a realizzarsi.
            Vi scrivo in questo momento da Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana. Ho fatto in precedenza una visita magnifica, molto significativa a Juazeiro do Norte (nel nord-est brasiliano di Recife) e questi ultimi giorni sono stati dominicani.
            Tra poche ore proseguirò per il Vietnam, e in mezzo a questo “trambusto”, che può essere vissuto anche con molta tranquillità, ho nutrito il mio cuore salesiano di belle esperienze e di confortanti certezze.
            Ve le racconterò, perché parlano della missione salesiana, ma permettetemi di iniziare con un aneddoto che un salesiano mi ha raccontato ieri, che mi ha fatto ridere, mi ha commosso e mi ha parlato di “cuore salesiano”.

Un piccolo lanciatore di sassi
            Un confratello mi ha raccontato che qualche giorno fa, mentre viaggiava lungo una delle strade dell’interno di questo Paese, è passato vicino a un luogo dove alcuni bambini avevano preso l’abitudine di lanciare sassi contro le auto per provocare piccoli incidenti – come rompere un finestrino – e nella confusione rubare qualcosa al viaggiatore.
            Ebbene, è così che gli è successo. Stava attraversando il villaggio e un bambino ha tirato una pietra per rompere un finestrino della sua auto e ci è riuscito. Il salesiano scese dall’auto, prese in braccio il bambino e si fece portare dai suoi genitori. Solo che in quella famiglia non c’era un padre (li aveva abbandonati da tempo).  C’era solo una madre sofferente che era rimasta sola con questo figlio e una bambina più piccola. Quando il salesiano disse alla madre che il figlio aveva rotto il finestrino dell’auto (cosa che il ragazzo riconobbe), e che costava parecchio, e che avrebbe dovuto ripagarlo, la povera donna tra le lacrime si scusò, chiedendo perdono, ma facendogli capire che non aveva alcun modo di pagarlo, che era povera, che avrebbe rimproverato il figlio… In quel momento, la bambina, la sorellina del “piccolo Magone di Don Bosco”, si avvicinò timidamente con il pugnetto chiuso, lo aprì e porse al salesiano l’unica moneta, quasi senza valore, che aveva. Era tutto il suo tesoro e gli disse: “Ecco, signore, per pagare il vetro”. Il mio confratello mi disse che era così commosso che non riusciva più a parlare e finì per dare alla donna un po’ di soldi per un piccolo aiuto alla famiglia.
            Non sapevo come interpretare la storia, ma era così piena di vita, dolore, bisogno e umanità che mi sono ripromesso di condividerla con voi. E poche ore dopo, molto vicino a dove alloggiavo nella casa salesiana, mi è stata mostrata un’altra piccola casa salesiana dove accogliamo i bambini senza nessuno che vivono per strada.
            La maggior parte di loro sono haitiani. Conosciamo bene la tragedia che si sta consumando ad Haiti, dove non c’è ordine, non c’è governo, non c’è legge… Solo le mafie dominano su tutto. Ebbene, sapere che questi bambini, minori arrivati qui non si sa come, che non hanno un posto dove stare,  vengono accolti nella nostra casa (in tutto 20 al momento), per passare poi in altre case, una volta stabilizzati, con altri obiettivi educativi (dove abbiamo, tra varie case e sempre con salesiani ed educatori laici, altri 90 minori), mi ha riempito il cuore di gioia e mi ha fatto pensare che Valdocco a Torino, con Don Bosco, è nato così, e così siamo nati noi salesiani, e un piccolo gruppo di quei ragazzi di Valdocco, insieme a Don Bosco, ha dato vita “de facto” alla congregazione salesiana quel 18 dicembre 1859.
            Come non vedere “la mano di Dio in tutto questo”? Come non vedere che tutto questo lavoro è il risultato di molto più di una strategia umana? Come non vedere che qui e in migliaia di altri luoghi salesiani nel mondo si continua a fare del bene, sempre con l’aiuto di tante persone generose e di tante altre che condividono la passione per l’educazione?
            Quest’anno, in Spagna-Madrid e in altri luoghi (anche in America), è stato presentato il magnifico cortometraggio “Canillitas”, che mostra la vita di tanti di questi giovani. Sono stato felice di toccare con mano e con gli occhi questa realtà. Ed è proprio vero, amici miei, che il sogno di Don Bosco si sta realizzando ancora oggi, 200 anni dopo.
            Ieri ho poi trascorso l’intera giornata con giovani del mondo salesiano che si definiscono e si sentono leader in tutta l’America Latina salesiana di un movimento che cerca di far sì che almeno il mondo educativo salesiano prenda molto sul serio la cura del creato e l’ecologia con la sensibilità di Papa Francesco espressa nella “Laudato Si’“. I giovani di 12 Paesi dell’America Latina erano presenti (di persona o online) nel loro movimento “America Latina Sostenibile”. È bello che i giovani sognino e si impegnino in qualcosa che è buono per loro, per il mondo e per tutti noi. Perché il mondo sia salvato: salvare vuol dire conservare, e nulla andrà perduto, non un sospiro, non una lacrima, non un filo d’erba; non va perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza, nessun gesto di cura per quanto piccolo e nascosto: se potremo impedire a un Cuore di spezzarsi, non avremo vissuto invano. Se potremo alleviare il Dolore di una Vita o lenire una Pena, o aiutare un bambino a crescere non avremo vissuto invano.
            Mi sento, di fronte a tutto questo, di dire con un po’ di autorità: amato Don Bosco, il tuo Sogno è ancora MOLTO VIVO.
            State bene e siate felici.