Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette

Don Bosco propone una dettagliata narrazione dell’“Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette”, avvenuta il 19 settembre 1846, sulla base di documenti ufficiali e delle testimonianze dei veggenti. Ricostruisce il contesto storico e geografico – due giovani pastorelli, Massimino e Melania, nell’asma delle Alpi – l’incontro prodigioso con la Vergine, il suo messaggio di ammonimento contro il peccato e la promessa di grazie e provvidenze, nonché i segni soprannaturali che ne accompagnarono le dimostrazioni. Presenta le vicende della diffusione del culto, l’influsso spirituale sugli abitanti e sul mondo intero, e il segreto rivelato solo a Pio IX per rinvigorire la fede dei cristiani e a testimoniare la perenne presenza dei prodigi nella Chiesa.

Protesta dell’Autore
Per ubbidire ai decreti di Urbano VIII mi protesto, che a quanto si dirà nel libro di miracoli, rivelazioni, o di altri fatti, non intendo di attribuire altra autorità, che umana; e dando ad alcuno titolo di Santo o Beato, non intendo darlo se non secondo l’opinione; eccettuate quelle cose e persone, che sono state già approvate dalla S. Sede Apostolica.

Al lettore
            Un fatto certo e meraviglioso, attestato da migliaia di persone, e che tutti possono anche oggidì verificare, è l’apparizione della beata Vergine, avvenuta il 19 settembre 1846 (Su questo fatto straordinario si possono consultare molte operette e parecchi giornali stampati contemporaneamente al fatto e segnatamente: Notizia sull’apparizione di Maria SS. Torino, 1847; Santo officiale dell’apparizione, ecc., 1848; Il libretto stampato per cura del sac. Giuseppe Gonfalonieri, Novara, presso Enrico Grotti)
Questa nostra pietosa Madre è apparsa in forma e figura di gran Signora a due pastorelli, cioè ad un fanciullo di 11 anni, e ad una villanella di 15 anni, là sopra una montagna della catena delle Alpi situata nella parrocchia di La Salette in Francia. Ed essa comparve non pel bene soltanto della Francia, come dice il Vescovo di Grenoble, ma pel bene di tutto il mondo; e ciò per avvertirci della gran collera del suo Divin Figlio, accesa specialmente pei tre peccati: la bestemmia, la profanazione delle feste e il mangiar grasso nei giorni proibiti.
A questo tengono dietro altri fatti prodigiosi raccolti eziandio da pubblici documenti, oppure attestati da persone la cui fede esclude ogni dubbio intorno a quanto riferiscono.
Questi fatti valgano a confermare i buoni nella religione, a confutare quelli che forse per ignoranza vorrebbero porre un limite alla potenza e alla misericordia del Signore dicendo: Non è più il tempo dei miracoli.
Gesù disse che nella sua Chiesa si sarebbero operati miracoli maggiori che Egli non operò: e non fissò né tempo né numero, perciò finché vi sarà la Chiesa, noi vedremo sempre la mano del Signore che farà manifesta la sua potenza con prodigiosi avvenimenti, perché ieri ed oggi e sempre G. C. sarà quello che governa e assiste la sua Chiesa fino alla consumazione dei secoli.
Ma questi segni sensibili della Onnipotenza Divina sono sempre presagio di gravi avvenimenti che manifestano la misericordia e la bontà del Signore, oppure la sua giustizia e il suo sdegno, ma in modo che se ne tragga la sua maggior gloria e il maggior vantaggio delle anime.
Facciamo che per noi siano sorgente di grazie e di benedizioni; servano di eccitamento alla fede viva, fede operosa, fede che ci muova a fare il bene e a fuggire il male per renderci degni della sua infinita misericordia nel tempo e nella eternità.

Apparizione della B. Vergine sulle montagne della Salette
            Massimino, figlio di Pietro Giraud, falegname del borgo di Corps, era un fanciullo di 11 anni: Francesca Melania figlia di poveri parenti, nativa di Corps era una giovinetta di anni 15. Niente avevano di singolare: Ambedue ignoranti e rozzi, ambedue addetti a guardare il bestiame su pei monti. Massimino non sapeva altro che il Pater e l’Ave; Melania ne sapeva poco più, tanto che per la sua ignoranza non era ancora stata ammessa alla s. Comunione.
Mandati dai loro genitori a guidare il bestiame nei pascoli, non fu se non per puro accidente che il giorno 18 settembre, vigilia del grande avvenimento, s’incontrarono sul monte, mentre abbeveravano le loro vacche ad una fontana.
La sera di quel giorno, nel far ritorno a casa col bestiame, Melania disse a Massimino: «Domani chi sarà il primo a trovarsi sulla Montagna?» E all’indomani, 19 settembre, che era un sabato vi salivano insieme, conducendo ciascuno quattro vacche ed una capra. La giornata era bella e serena il sole brillante. Verso il mezzogiorno udendo suonare la campana dell’Angelus, fanno breve preghiera col segno della s. Croce; di poi prendono le loro provvisioni di bocca e vanno a mangiare presso una piccola sorgente, che era a sinistra d’un ruscelletto. Finito di mangiare, passano il ruscello, depongono i loro sacchi presso una fontana asciutta, discendono ancora qualche passo, e contro il solito si addormentano a qualche distanza l’uno dall’altro.
Ora ascoltiamo il racconto dagli stessi pastorelli tal quale essi lo fecero la sera del 19 ai loro padroni e di poi le mille volte a migliaia di persone.
Noi ci eravamo addormentati… racconta Melania, io mi sono svegliata la prima; e, non vedendo le mie vacche, svegliai Massimino dicendogli: Su andiamo a cercare le nostre vacche. Abbiamo passato il ruscello, siamo saliti un po’ in su, e le vedemmo dalla parte opposta coricate. Esse non erano lontane. Allora tornai giù a basso; e a cinque o sei passi prima di arrivare al ruscello, vidi un chiarore come il Sole, ma ancor più brillante, non però del medesimo colore, e dissi a Massimino: Vieni, vieni presto a veder là abbasso un chiarore (Erano tra le due e le tre ore dopo mezzogiorno).
Massimino discese subito dicendomi: Dov’è questo chiarore? E glielo indicai col dito rivolto alla piccola fontana; e lui si fermò quando lo vide. Allora noi vedemmo una Signora in mezzo alla luce; essa sedeva sopra un mucchio di sassi, col volto tra le mani. Per la paura io lasciai cadere il mio bastone. Massimino mi disse: tienilo il bastone; se la ci farà qualche cosa, le darò una buona bastonata.
In seguito questa Signora si levò in piedi, incrocicchiò le braccia e ci disse: «Avanzatevi, miei ragazzi: Non abbiate paura; son qui per darvi una gran nuova.» Allora noi passammo il ruscello, ed essa si avanzò sino al luogo, dove prima ci eravamo addormentati. Essa era in mezzo a noi due, e ci disse piangendo tutto il tempo che ci parlò (ho veduto benissimo le sue lagrime): «Se il mio popolo non si vuole sottomettere, sono costretta dì lasciar libera la mano di mio Figlio. Essa è così forte, così pesante, che non posso più trattenerla.»
«È gran tempo che soffro per voi! Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni, debbo pregarlo costantemente; e voi altri non ne fate conto. Voi potrete ben pregare, ben fare, giammai non potrete compensare la sollecitudine, che mi sono data per voi.»
«Vi ho dati sei giorni per lavorare, mi sono riservato il settimo, e non si vuole accordarmelo. Questo è ciò che rende tanto pesante la mano di mio Figlio.»
«Se le patate si guastano, è tutto per causa vostra. Ve lo feci vedere l’anno scorso (1845); e voi non avete voluto farne caso, e, trovando patate guaste, bestemmiavate mettendovi frammezzo il nome di mio Figlio.»
«Continueranno a guastarsi, e quest’anno per Natale non ne avrete più (1846).»
«Se avete del grano non dovete seminarlo: tutto ciò che voi seminerete, sarà dai vermi mangiato; e quello che nascerà andrà in polvere, quando lo batterete.»
«Verrà una grande carestia» (Avvenne difatti una grande carestia in Francia, e sulle strade si trovavano grandi torme di pezzenti affamati, che si recavano a mille a mille per le città per questuare: e mentre che da noi in Italia incari il grano in sul far della primavera 1847, in Francia per tutto l’inverno del 46 – 47 si patì gran fame. Ma la vera penuria di alimenti, la vera fame fu provata nei disastri della guerra del 1870-71. In Parigi da un grande personaggio fu imbandito ai suoi amici un lauto pranzo di grasso nel venerdì Santo. Pochi mesi dopo in questa medesima città i più agiati cittadini furono costretti a nutrirsi di vili alimenti e di carni dei più sozzi animali. Non pochi morirono di fame)
«Avanti che venga la carestia, i fanciulli al di sotto dei sette anni saranno presi da un tremore e moriranno tra le mani delle persone che li terranno: gli altri faranno penitenza per la carestia.»
«Le noci si guasteranno, e le uve marciranno…» (Nel 1849 le noci andarono a male da per tutto; e quanto alle uve tutti ne lamentano ancora il guasto e la perdita. Ognuno rammenta il guasto immenso che la crittogama cagionò all’uva in tutta l’Europa per lo spazio d’oltre a venti anni dal 1849 al 1869).
«Se si convertono, le pietre e gli scogli si cambieranno in mucchi di grano, e le patate verranno prodotte dalla terra stessa.»
Quindi ci disse:
«Dite voi bene le vostre orazioni, o miei ragazzi?»
Noi rispondemmo entrambi: «Non troppo bene, o Signora.»
«Ah miei fanciulli, dovete dirle bene la sera e la mattina. Quando non avete tempo dite almeno un Pater ed un’Ave Maria: e quando avrete tempo ditene di più.»
«Alla Messa non vanno che alcune donne vecchie, e le altre lavorano alla domenica tutta l’estate; e all’inverno i giovani, quando non sanno che fare, vanno alla Messa per mettere in ridicolo la religione. In quaresima si va alla macelleria a guisa di cani.»
Quindi ella disse: «Non hai tu veduto, o mio ragazzo, del grano guasto?»
Massimino rispose: «Oh! no, Signora.» Io, non sapendo a chi facesse questa domanda, risposi sotto voce.
«No, Signora, non ne ho ancora veduto.»
«Voi dovete averne veduto, mio ragazzo (rivolgendosi a Massimino), una volta verso il territorio di Coin con vostro padre. Il padrone del campo disse a vostro padre che andasse a vedere il suo grano guasto; voi ci siete andati entrambi. Prendeste alcune spighe nelle vostre mani, e strofinate andarono tutte in polvere, e voi vi ritornaste. Quando eravate ancora una mezz’ora distanti da Corps, vostro padre vi diede un pezzo di pane, e vi disse: Prendi, o figlio mio, mangia ancora del pane in quest’anno; non so chi ne mangerà l’anno venturo, se il grano continua a guastarsi in questo modo.»
Massimino rispose: «Oh! sì, Signora, ora me ne ricordo; poco fa non me ne sovveniva.»
Dopo ciò quella Signora ci disse: «Ebbene, miei ragazzi, voi lo farete sapere a tutto il mio popolo.»
Indi ella passò il ruscello, ed a due passi di distanza, senza rivolgersi verso di noi, ci disse di nuovo: «Ebbene, miei ragazzi, voi lo farete sapere a tutto il mio popolo.»
Ella salì di poi una quindicina di passi, sino al luogo ove eravamo andati per cercare le nostre vacche; ma essa camminava sopra l’erba; i suoi piedi non ne toccavano che la cima. Noi la seguivamo; io passai davanti alla Signora e Massimino un poco di fianco, a due o tre passi di distanza. E la bella Signora si è innalzata così (Melania fa un gesto levando la mano di un metro e più); Ella rimase così sospesa nell’aria un momento. Dopo Ella rivolse uno sguardo al Cielo, indi alla terra; dopo non vedemmo più la testa… non più le braccia… non più i piedi… sembrava che si fondesse; non si vide più che un chiarore nell’aria; e dopo il chiarore disparve.
Dissi a Massimino: «È forse una gran santa? Massimino mi rispose: Oh! se avessimo saputo ch’era una gran santa, noi le avremmo detto di condurci con essa. Ed io gli dissi: E se ci fosse ancora? Allora Massimino slanciò la mano per raggiungere un poco del chiarore, ma tutto era scomparso. Osservammo bene, per scorgere se non la vedevamo più.
E dissi: Essa non vuol farsi vedere per non farci sapere dove se ne vada. Dopo ciò andammo dietro alle nostre vacche.»
Questo è il racconto di Melania; la quale interrogata come quella Signora fosse vestita rispose:
«Essa aveva scarpe bianche con rose attorno… ve ne erano di tutti i colori; aveva le calze gialle, un grembiale giallo, una veste bianca tutta cospersa di perle, un fazzoletto bianco al collo contornato di rose, una cuffia alta un poco pendente avanti con una corona di rose attorno. Aveva una catenella, alla quale era appesa una croce col suo Cristo: a diritta una tenaglia, a sinistra un martello; all’estremità della Croce un’altra gran catena pendeva, come le rose intorno al suo fazzoletto da collo. Aveva il volto bianco, allungato; io non poteva riguardarla molto tempo, perché ci abbagliava.»
Interrogato separatamente Massimino fa lo stessissimo racconto, senza variazione alcuna, né per la sostanza e neppure per la forma; il quale perciò ci asteniamo di qui ripetere.
Sono infinite e stravaganti le insidiose domande che loro si fecero, specialmente per ben due anni, e sotto interrogatori di 5, 6, 7 ore di seguito coll’intento di imbarazzarli, di confonderli, di trarli in contraddizione. Certo è, che forse mai nessun reo fu dai tribunali di giustizia investito così con tante difficoltà e interrogazioni intorno ad un delitto imputatogli.

Segreto dei due pastorelli
            Subito dopo l’apparizione, Massimino e Melania, nel far ritorno a casa, s’interrogarono tra di loro, perché mai la gran Dama dopo che ebbe detto «le uve marciranno» ha tardato un poco a parlare e non faceva che muovere le labbra, senza far intendere che cosa dicesse?
Nell’interrogarsi su di ciò a vicenda, diceva Massimino a Melania «A me essa ha detto una cosa, ma mi ha proibito di dirtelo.» S’accorsero entrambi d’aver ricevuto dalla Signora, ciascuno separatamente, un segreto colla proibizione di non dirlo ad altri. Or pensa tu, o lettore, se i ragazzi possono tacere.
È cosa incredibile a dirsi quanto sia fatto e tentato per cavar loro di bocca in qualche modo questo secreto. Fa meraviglia a leggere i mille e mille tentativi adoperati a quest’uopo da centinaia e centinaia di persone per ben vent’anni. Preghiere, sorprese, minacce, ingiurie, regali e seduzioni d’ogni maniera, tutto andò a vuoto; essi sono impenetrabili.
Il vescovo di Grenoble, uomo ottuagenario, si credette in dovere di comandare ai due privilegiati fanciulli di far almeno pervenire il loro segreto al santo Padre, Pio IX. Al nome del Vicario di Gesù Cristo i due pastorelli ubbidirono prontamente e si decisero a rivelare un segreto, che fino allora nulla aveva potuto strappar loro di bocca. L’hanno dunque scritto essi medesimi (dal giorno dell’apparizione in poi erano stati messi alla scuola, e ciascheduno separatamente); quindi piegarono e suggellarono la loro lettera; e tutto ciò alla presenza di persone ragguardevoli, scelte dallo stesso vescovo a servir loro di testimoni. Indi il vescovo inviò due sacerdoti a portare a Roma questo misterioso dispaccio.
Il 18 luglio 1851 rimettevano a S. S. Pio IX tre lettere, una di Monsignor vescovo di Grenoble, che accreditava questi due inviati, le due altre contenevano il segreto dei due giovanetti della Salette; ciascun di essi aveva scritto e sigillata la lettera contenente il suo segreto alla presenza di testimoni che avevano dichiarato l’autenticità delle medesime sulla coperta.
S. S. aprì le lettere, e cominciata a leggere quella di Massimino, «Vi ha proprio, disse, il candore e la semplicità di un fanciullo.» Durante quella lettura si manifestò sul volto del Santo Padre una certa emozione; gli si contrassero le labbra, gli si gonfiarono le gote. «Trattasi, disse il Papa ai due sacerdoti, trattasi di flagelli, di cui la Francia è minacciata. Non essa sola è colpevole, lo sono pure l’Alemagna, l’Italia, l’Europa intiera, e meritano dei castighi. Io temo assai l’indifferenza religiosa ed il rispetto umano.»

Concorso alla Salette
            La fontana, presso alla quale erasi riposata la Signora, cioè la V. Maria, era come dicemmo, asciutta; e, a detta di tutti i pastori e paesani di quei contorni, non dava acqua se non dopo abbondanti piogge e dopo lo scioglimento delle nevi. Ora questa fontana, asciutta nello stesso giorno dell’apparizione, il giorno dopo cominciò a zampillare, e da quell’epoca l’acqua scorre chiara e limpida senza interruzione.
Quella montagna nuda, dirupata, deserta, abitata dai pastori, appena quattro mesi dell’anno, è divenuta il teatro di un concorso immenso di gente. Intere popolazioni traggono da ogni parte a quella privilegiata montagna; e piangendo per tenerezza, e cantando inni e cantici si vedono chinare la fronte sopra quella terra benedetta, dove ha risuonato la voce di Maria: si vedono baciare rispettosamente il luogo santificato dai piedi di Maria; e ne discendono pieni di gioia, di fiducia e di riconoscenza.
Ogni giorno un numero immenso di fedeli vanno devotamente a visitare il luogo del prodigio. Nel primo anniversario dell’apparizione (19 settembre 1847), oltre a settanta mila pellegrini d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni condizione ed anche d’ogni nazione coprivano la superficie di quel terreno…
Ma ciò che fa sentire vie più la potenza di quella voce venuta dal Cielo, è che si produsse un mirabile cambiamento di costumi negli abitanti di Corps, di La Salette, di tutto il cantone e di tutti i dintorni, e in lontane parti ancora si diffonde e si propaga… Hanno cessato di lavorare la Domenica: hanno dismessa la bestemmia… Frequentano la Chiesa, accorrono alla voce dei loro Pastori, si accostano ai santi Sacramenti, adempiono con edificazione il precetto della Pasqua fino a quel momento generalmente negletto. Taccio le molte e strepitose conversioni, e le grazie straordinarie nell’ordine spirituale.
Nel luogo dell’apparizione sorge ora una Chiesa maestosa con vastissimo edifizio, dove i viaggiatori dopo di aver soddisfatta la loro divozione possono agiatamente ristorarsi ed anche passarvi a gradimento la notte.

Dopo il fatto di La Salette Melania fu inviata alle scuole con meraviglioso progresso nella scienza e nella virtù. Ma si sentì ognora sì accesa di divozione verso alla B. V. Maria, che determinò di consacrarsi tutta a Lei. Entrò di fatto nelle carmelitane scalze tra cui, secondo il giornale Echo de Fourvière 22 ottobre 1870, sarebbe stata dalla s. Vergine chiamata al cielo. Poco prima di morire scrisse la seguente lettera a sua madre.

11 settembre 1870.

            Carissima ed amatissima madre,

Che Gesù sia amato da tutti i cuori. – Questa lettera non è solo per voi, ma è per tutti gli abitanti del mio caro paese di Corps. Un padre di famiglia, amorosissimo verso i suoi figli, vedendo che dimenticavano i loro doveri, che disprezzavano la legge loro imposta da Dio, che diventavano ingrati, si risolvette di castigarli severamente. La sposa del Padre di famiglia domandava grazia, e nello stesso tempo si recava dai due più giovani figli del Padre di famiglia, cioè i due più deboli e più ignoranti. La sposa che non può piangere nella casa del suo sposo (che è il Cielo) trova nei campi di questi miserabili figliuoli lagrime in abbondanza: essa espone i suoi timori e le sue minacce, se non si torna indietro, se non si osserva la legge del Padrone di casa. Un piccolissimo numero di persone abbraccia la riforma del cuore, e si mette ad osservare la santa legge del Padre di famiglia; ma ahimè! la maggioranza rimane nel delitto e vi si immerge sempre più. Allora il Padre di famiglia manda dei castighi per punirli e per trarli da questo stato di induramento. Questi figli sciagurati pensano di poter sottrarsi al castigo, afferrano e spezzano le verghe che li percuotono, invece di cader ginocchioni, domandar grazia e misericordia, e specialmente promettere di cambiar vita. Infine il padre di famiglia, irritato ancor di più, da mano ad una verga ancor più forte e batte e batterà infino a che lo si riconosca, si umilino e domandino misericordia a Colui che regna sulla terra e nei cieli.
Voi mi avete capito, cara madre e cari abitanti di Corps: questo Padre di famiglia è Dio. Noi siamo tutti suoi figli; né io né voi l’abbiamo amato come avremmo dovuto; non abbiamo adempito, come conveniva, i suoi comandamenti: ora Dio ci castiga. Un gran numero dei nostri fratelli soldati muoiono, famiglie e città intere son ridotte alla miseria; e se non ci rivolgiamo a Dio, non è finito. Parigi è colpevole assai perché ha premiato un uomo cattivo che ha scritto contro la divinità di Gesù Cristo. Gli uomini hanno un tempo solo per commettere peccati; ma Dio è eterno, e castiga i peccatori. Dio è irritato per la molteplicità dei peccati, e perché è quasi sconosciuto e dimenticato. Ora chi potrà arrestare la guerra che fa tanto male in Francia, e che fra poco ricomincerà in Italia? ecc. ecc. Chi potrà arrestare questo flagello?
Bisogna 1o che la Francia riconosca che in questa guerra vi è unicamente la mano di Dio; 2° che si umili e chieda colla mente e col cuore perdono dei suoi peccati; che prometta sinceramente di servire Dio colla mente e col cuore, e di obbedire ai suoi comandamenti senza rispetto umano. Alcuni pregano, domandano a Dio il trionfo di noi Francesi. No, non è questo che vuole il buon Dio: vuole la conversione dei francesi. La Beatissima Vergine è venuta in Francia, e questa non si è convertita: è perciò più colpevole delle altre nazioni; se non si umilia, sarà grandemente umiliata. Parigi, questo focolare della vanità e dell’orgoglio, chi potrà salvarla se fervorose preghiere non s’innalzano al cuore del buon Maestro?
Mi ricordo, cara madre e carissimi abitanti, del mio caro paese, mi ricordo, quelle devote processioni, che facevate sul sacro monte della Salette, perché la collera di Dio non colpisse il vostro paese! La S. Vergine ascoltò le vostre fervide preci, le vostre penitenze e tutto quanto faceste per amor di Dio. Penso e spero, che attualmente tanto più dovete fare delle belle processioni per la salvezza della Francia; cioè perché la Francia ritorni a Dio, perché Dio non aspetta che questo per ritirare la verga, di cui si serve per flagellare il suo popolo ribelle. Preghiamo dunque molto, sì, preghiamo; fate le vostre processioni, come le faceste nel 1846 e ‘47: credete che Dio ascolta sempre le preghiere sincere dei cuori umili. Preghiamo molto, preghiamo sempre. Non ho mai amato Napoleone, perché ricordo la intiera sua vita. Possa il divin Salvatore perdonargli tutto il male che ha fatto; e che fa ancora!
Ricordiamoci che siam creati per amare e servire Dio, e che fuori di questo non vi ha vera felicità. Le madri allevino cristianamente i loro figliuoli, perché il tempo delle tribolazioni non è finito. Se io ve ne svelassi il numero e le qualità, ne restereste inorriditi. Ma non voglio spaventarvi; abbiate fiducia in Dio, che ci ama infinitamente più dì quello che noi possiamo amarlo. Preghiamo, preghiamo, e la buona, la divina, la tenera Vergine Maria sarà sempre con noi: la preghiera disarma la collera di Dio; la preghiera è la chiave del Paradiso.
Preghiamo pei nostri poveri soldati, preghiamo per tante madri desolate per la perdita dei loro figliuoli, consacriamo noi stessi alla nostra buona Madre celeste: preghiamo per questi ciechi, che non vedono che è la mano di Dio, che ora percuote la Francia. Preghiamo molto e facciamo penitenza. Tenetevi tutti attaccati alla santa Chiesa, e al nostro S. Padre che ne è il Capo visibile e il Vicario di Nostro Signor Gesù Cristo sulla terra. Nelle vostre processioni, nelle vostre penitenze pregate molto per lui. Infine mantenetevi in pace, amatevi come fratelli, promettendo a Dio di osservare i suoi comandamenti e di osservarli davvero. E per la misericordia di Dio voi sarete felici, e farete una buona e santa morte, che desidero a tutti mettendovi tutti sotto la protezione dell’augusta Vergine Maria. Abbraccio di cuore (i parenti). La mia salute è nella Croce. Il cuore di Gesù veglia su di me.

Maria, della Croce, vittima di Gesù

Prima parte della pubblicazione “Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette con altri fatti prodigiosi, raccolti da pubblici documenti pel sacerdote Giovanni Bosco”, Torino, Tipografia dell’Oratorio di s. Francesco di Sales, 1871




Il sogno delle 22 lune (1854)

Nel marzo del 1854 in giorno di festa, D. Bosco dopo i vespri radunò tutti gli alunni interni nella retro sagrestia dicendo di voler raccontar loro un sogno. Erano presenti fra gli altri i giovani Cagliero, Turchi, Anfossi, il Ch. Reviglio, il Ch. Buzzetti, dai quali abbiamo raccolta la nostra narrazione. Tutti erano persuasi che sotto il nome di sogno D. Bosco occultasse le manifestazioni che aveva dal cielo. Il sogno fu questo:

            – Io mi trovava con voi nel cortile e godeva nel mio cuore di vedervi vispi, allegri e contenti. Chi saltava, chi gridava, chi correva. Ad un tratto vedo che uno di voi esce da una porta della casa e si mette a passeggiare in mezzo ai compagni, con una specie di cilindro, ossia turbante, sul capo. Era questo trasparente, tutto illuminato nell’interno; e colla figura di una grossa luna, nel bel mezzo della quale era scritta la cifra 22. Io stupito cercai subito di avvicinarlo per dirgli che lasciasse quell’arnese da carnevale: ma ecco mentre l’aria si oscurava, come se fosse stato dato un segnale di campanello, il cortile si sgombra e scorgo tutti i giovani sotto i portici della casa, disposti in fila. Il loro aspetto manifestava un gran timore, e dieci o dodici di essi avevano il viso ricoperto di strana pallidezza. Io passai davanti a tutti questi per osservarli; e scorgo fra di loro quello che aveva la luna sul capo, più pallido degli altri; dai suoi omeri pendeva una coltre funebre. M’incammino verso di lui per chiedergli che cosa significasse quello strano spettacolo; ma una mano mi trattiene, e vedo uno sconosciuto di grave aspetto e nobile portamento, che mi dice:
            – Ascoltami, prima di avvicinarti a lui; egli ha ancora 22 lune di tempo, e prima che siano passate, morrà. Tienilo d’occhio e preparalo!
            Io voleva domandargli qualche spiegazione del suo parlare e della sua improvvisa comparsa, ma più non lo vidi.
            – Il giovane, miei cari figliuoli, io lo conosco ed è tra di voi!
            Un vivo terrore si impossessò di tutti i giovani, tanto più essendo la prima volta che D. Bosco annunziava in pubblico e con una certa solennità la morte di uno della casa. Il buon padre non poté a meno di notarlo e proseguì:
            – Io lo conosco ed è tra voi quel delle lune. Ma non voglio che vi spaventiate. È un sogno come vi ho detto, e sapete che non sempre si deve prestar fede ai sogni. Ad ogni modo, comunque sia la cosa, quello che è certo si è che dobbiamo essere sempre preparati come ci raccomanda il divin Salvatore nel santo Vangelo e non commettere peccati; ed allora la morte non ci farà più paura. Fatevi tutti buoni, non offendete il Signore, ed io intanto starò attento e terrò d’occhio quello del numero ventidue, il che vuol dire 22 lune, ossia 22 mesi: e spero che farà una buona morte.
            Questo annunzio, se spaventò sul principio i giovani, fece però in appresso grandissimo bene, perché stavano tutti attenti a mantenersi in grazia di Dio, col pensiero della morte, ed a contare intanto le lune che trascorrevano. D. Bosco a quando a quando li interrogava:
            – Quante lune vi sono ancora?
            E gli veniva risposto:
            – Venti, diciotto, quindici, ecc.
            Talora i giovani che badavano a tutte le sue parole, gli si accostavano per annunziargli le lune già passate, e cercavano far pronostici, indovinare; ma D. Bosco stava in silenzio. Il giovane Piano, entrato come studente nell’Oratorio nel mese di novembre 1854, sentiva parlare della nona luna e dai compagni e dai superiori venne a sapere ciò che D. Bosco aveva predetto. Ed egli pure, come tutti gli altri, stette in osservazione.
            Finì l’anno 1854, trascorsero molti mesi del 1855 e venne l’ottobre, cioè la luna ventesima. Cagliero, già chierico, era incaricato di sorvegliare tre stanzette vicine nell’antica casa Pinardi, che servivano di dormitorio ad una camerata di giovani. Fra questi era un certo Gurgo Secondo, Biellese da Pettinengo, in sui 17 anni, di belle e robuste forme, tipo di una florida sanità, che dava tutte le speranze di lunga vita, fino ad estrema vecchiezza. Suo padre l’aveva raccomandato a D. Bosco perché lo tenesse in pensione. Valente suonatore di pianoforte e di organo studiava da mane a sera la musica e guadagnava di bei soldi dando lezioni in Torino. D. Bosco lungo l’anno, a quando a quando, aveva interrogato il Ch. Cagliero sulla condotta dei suoi assistiti, con particolare premura. Nell’ottobre lo chiamò a sé e gli disse:
            – Dove dormi tu?
            – Nella stanzetta ultima, rispose il Ch. Cagliero, e di là assisto le altre due.
            – E non sarebbe meglio che trasportassi il tuo letto in quella di mezzo?
            – Come vuole; ma le faccio notare che le altre due stanze sono asciutte, mentre nella seconda una parete è formata dalla muraglia del campanile della chiesa, costrutto di fresco. Vi è quindi un po’ di umidità: si avvicina l’inverno e potrei prendermi qualche malanno. D’altronde di dove mi trovo adesso, posso benissimo assistere tutti i giovani del mio dormitorio.
            – Quanto ad assisterli lo so che puoi; ma è meglio, replicò D. Bosco, che te ne vada in quella di mezzo.
            Il Ch. Cagliero obbedì, ma dopo qualche tempo chiese licenza a D. Bosco di tramutare il suo letto nella stanza primiera. D. Bosco non acconsentì, ma gli disse:
            – Sta dove sei e riposa tranquillo che la tua sanità nulla avrà a soffrirne.
            Il Ch. Cagliero si acquietò e alcuni giorni dopo di bel nuovo fu chiamato da D. Bosco:
            – Quanti siete nella tua nuova stanza?
            Rispose:
            – Siamo tre: io, il giovane Gurgo Secondo, il Garovaglia; ed il pianoforte che fa quattro.
            – Bene, disse D. Bosco; va bene: siete tre suonatori, e Gurgo potrà darvi lezioni di pianoforte. Tu guarda di assisterlo bene. E null’altro aggiunse. Il chierico, punta da curiosità e venuto in sospetto, incominciò a fargli qualche domanda, ma D. Bosco lo interruppe dicendogli:
            – Il perché lo saprai a suo tempo.
            Il segreto era che in quella stanza stava il giovane delle 22 lune.
            Al principio di dicembre non vi era alcun ammalato nell’Oratorio, e D. Bosco, salito in cattedra alla sera dopo le orazioni, annunziò che uno dei giovani sarebbe morto prima del santo Natale. Per questa nuova predizione e perché le 22 lune ormai si compievano, in casa regnava una grande trepidazione, si ricordavano frequentemente le parole di D. Bosco e se ne temeva l’avveramento.
            D. Bosco in quei giorni aveva chiamato a sé ancora una volta il Ch. Cagliero, e gli domandò se Gurgo si portasse bene e se, date le lezioni di musica in città, ritornasse a casa per tempo. Cagliero gli rispose che tutto andava bene e che non vi erano novità né suoi compagni. Ottimamente; sono contento: invigila perché siano tutti buoni, e avvisami se accadessero degli inconvenienti. Cosi gli disse D. Bosco che più altro non aggiunse.
            Ed ecco verso la metà di dicembre essere il Gurgo assalito da una colica violenta e così pericolosa che, mandato a chiamare in fretta il medico, per suo consiglio gli si amministrarono i santi Sacramenti. Per otto giorni, e molto penosa, durò la malattia e volgeva in meglio, grazie alle cure del dottore Debernardi, sicché Gurgo poté levarsi da letto convalescente. Il male era come sparito e il medico ripeteva averla il giovane scappata bella. Intanto era stato avvisato il padre, poiché, non essendo ancora morto alcuno all’Oratorio, D. Bosco voleva impedire agli allievi un funereo spettacolo. La novena del Santo Natale era incominciata e Gurgo pressoché guarito contava d’andare al paese nelle feste natalizie. Tuttavia, quando si davano buone nuove di lui a D. Bosco, ci aveva l’aria di chi non voglia credere. Venne il padre, e trovato il figlio già in buono stato, chiesta e ottenuta licenza, andò a prendere il posto alla vettura per condurlo l’indomani a Novara, e poi a Pettinengo, perché si ristabilisse pienamente in salute. Era di domenica, 23 dicembre; Gurgo però quella stessa sera mostrò desiderio di mangiare un po’ di carne, cibo vietato dal medico. Il padre per rafforzarlo corse a comprarla e la fece cuocere in una macchinetta da caffè. Il giovane bevette il brodo e mangiò la carne, che certo doveva essere mezzo cruda e mezzo cotta e forse troppo – più del necessario. Il padre si ritirò; nella camera rimase l’infermiere e Cagliero. Ed ecco ad una certa ora della notte l’infermo comincia a lamentarsi per i dolori di ventre. La colica era tornata ad assalirlo nel modo più straziante. Gurgo chiamò per nome l’assistente:
            – Cagliero, Cagliero? Ho finito di farti scuola di pianoforte.
            – Abbi pazienza: coraggio! rispondeva Cagliero.
            – Io non vado più a casa: non parto più. Prega per me; se sapessi quanto male mi sento. Raccomandami alla Madonna.
            – Sì, pregherò: invoca anche tu Maria SS..
            Intanto Cagliero incominciò a pregare; ma vinto dal sonno si addormentò. Ed ecco all’improvviso l’infermiere lo scuote e accennandogli Gurgo corre subito a chiamare D. Alasonatti, che dormiva nella camera vicina. Questi venne, e dopo qualche istante Gurgo spirava. Fu una desolazione in tutta la casa. Cagliero al mattino incontrò Don Bosco che scendeva le scale per andare a dire la S. Messa ed era molto mesto, perché già gli era stata comunicata la dolorosa notizia.
            Intanto nella casa si faceva un gran parlare di questa morte. Si era alla vigesima seconda luna e questa non ancora compiuta; e Gurgo, morendo il 24 dicembre prima dell’aurora, compieva anche la seconda predizione, cioè che egli non avrebbe vista la festa del santo Natale.
            Dopo pranzo i giovani e i chierici circondavano silenziosi D. Bosco. A un tratto il Ch. Turchi Giovanni lo interrogò se Gurgo fosse quello delle lune.
            – Sì, rispose D. Bosco: era proprio lui; è appunto desso che io vidi nel sogno!
            Quindi soggiunse ancora:
– Avrete osservato, che io, tempo fa, lo aveva messo a dormire in una camerata speciale, raccomandando a taluno dei migliori assistenti, che là trasportasse il suo letto acciocché potesse continuamente vigilar su di lui. E l’assistente fu il Ch. Giovanni Cagliero. E improvvisamente voltosi a questo chierico gli disse: Un’altra volta non farai più tante osservazioni a quanto ti dirà D. Bosco. Adesso capisci perché io non voleva che tu lasciassi la camera ove era quel poveretto? Tu mi supplicavi; ma io non volli contentarti, appunto perché Gurgo avesse un custode. Se egli fosse ancor vivo, potrebbe dire le quante volte gli andava parlando così alla larga della morte e le cure che gli prodigai per disporlo ad un felice passaggio.
            “Io – scrisse Mons. Cagliero – intesi allora il motivo delle speciali raccomandazioni fattemi da D. Bosco, ed imparai a conoscere ed apprezzare vie meglio l’importanza, delle sue parole e dei suoi paterni avvisi”.
            “La sera, vigilia di Natale – narra Enria Pietro – mi ricordo ancora D. Bosco che saliva sulla cattedra girando gli occhi intorno come se cercasse qualcuno. E disse: il primo giovane che muore nell’Oratorio. Ha fatto le sue cose bene e speriamo che sia in paradiso. Raccomando a voi che siate sempre preparati…E non poté più parlare perché il suo cuore era troppo addolorato. La morte le aveva rapito un figlio”.
(MB V, 377-383)




Il Vicario del Rettor Maggiore. Don Stefano Martoglio

Abbiamo la gioia di annunciare che don Stefano Martoglio è stato rieletto come Vicario del Rettor Maggiore.
I capitolari, lo hanno eletto oggi con maggioranza assoluta e dal primo scrutinio.

Auguriamo un fruttuoso apostolato a don Stefano e le assicuriamo le nostre preghiere.




Nuovo Rettor Maggiore: Fabius Attard

Abbiamo la gioia di annunciare che don Fabius Attard è il nuovo Rettor Maggiore, l’undicesimo successore di don Bosco.

Brevissime informazioni del nuovo Rettor Maggiore:
Nato: 23.03.1959 a Gozo (Malta), diocesi di Gozo.
Noviziato: 1979-1980 a Dublin.
Professione perpetua: 11.08.1985 a Malta.
Ordinazione presbiterale: 04.07.1987 a Malta.
Ha svolto diversi incarichi pastorali e formativi all’interno della sua ispettoria di origine.
È stato per 12 anni il Consigliere generale per la Pastorale Giovanile, 2008-2020.
Dal 2020 è stato il Delegato del Rettor Maggiore per la Formazione Permanente dei salesiani e dei laici in Europa.
Ultima comunità di appartenenza: Roma CNOS.
Lingue conosciute: Maltese, Inglese, Italiano, Francese, Spagnolo.

Auguriamo un fruttuoso apostolato a don Fabio e le assicuriamo le nostre preghiere.




Elezione del primo Rettor Maggiore

Durante l’undicesimo Capitolo Generale della Congregazione Salesiana venne eletto il primo Rettor Maggiore, don Paolo Albera. Sebbene formalmente rappresenti il secondo successore di don Bosco, in realtà fu il primo a essere eletto, poiché don Rua era stato già nominato personalmente da don Bosco, per ispirazione divina e su sollecitazione di Papa Pio IX (la nomina di don Rua fu ufficializzata il 27 novembre 1884 e successivamente confermata dalla Santa Sede l’11 febbraio 1888). A seguire, lasciamoci guidare dal racconto di don Eugenio Ceria, che narra l’elezione del primo successore di don Bosco e i lavori del Capitolo Generale.

            Non sembra quasi possibile parlare di antichi Salesiani senza prendere le mosse da Don Bosco. Questa volta è per ammirare la divina Provvidenza, che a Don Bosco lungo l’arduo cammino fece incontrare gli uomini a lui indispensabili nei vari gradi e uffici dell’istituenda sua Congregazione. Uomini, dico, non fatti, ma da fare. Toccò al fondatore cercarseli giovanetti, crescerli, educarli, istruirli, informarli del suo spirito, sicché, dovunque li mandasse, lo rappresentassero degnamente in mezzo ai Soci e di fronte agli estranei. Ecco il caso anche del suo secondo successore. Il piccolo ed esile Paolino Albera, quando dal paesello nativo venne all’Oratorio, non spiccava tra la turba dei compagni per alcuna di quelle caratteristiche, le quali richiamano l’attenzione sopra un nuovo arrivato; ma Don Bosco non tardò a scorgere in lui innocenza di costumi, capacità intellettuale velata da naturale timidezza, e indole di fanciullo, che gli dava bene a sperare. Portatolo su su fino all’altare, lo mandò Direttore a Sampierdarena, poi Direttore a Marsiglia e Ispettore per la Francia, dove lo chiamavano petit Don Bosco, finché nel 1886 la fiducia dei confratelli lo elesse Catechista generale ossia Direttore spirituale della Società. Ma lì non si arrestarono le sue ascensioni.
            Dopo la morte di Don Rua il governo della Società passò, secondo la Regola, nelle mani del Prefetto Generale Don Filippo Rinaldi, che perciò presiedeva il Capitolo Superiore e dirigeva i preparativi per il Capitolo Generale da tenersi entro l’anno 1910. Il grande convegno fu stabilito che si aprisse il 15 agosto, preceduto da un corso di esercizi spirituali, fatti dai Capitolari e predicati da Don Albera.
            Un diario intimo di Don Albera, in inglese, ci mette in grado di conoscere quali fossero i suoi sentimenti nel periodo dell’attesa. Sotto il 21 aprile troviamo: “Parlo a lungo con Don Rinaldi e con gran piacere. Io desidero di tutto cuore, che sia eletto alla carica di Rettor Maggiore della nostra Congregazione. Pregherò lo Spirito Santo per ottenere questa grazia». E sotto il 26: “Raramente si parla del successore di Don Rua. Io spero che si elegga il Prefetto. Ha le virtù necessarie per la carica. Ogni giorno prego per questa grazia». Di nuovo 1’11 maggio: “Accetto di andare a Milano per il funerale di Don Rua. Sono contentissimo di obbedire a Don Rinaldi, nel quale riconosco il mio vero Superiore. Prego tutti i giorni domandando che sia eletto Rettor Maggiore”. Sotto il 6 giugno rivela il perché di tanta propensione per Don Rinaldi scrivendo di lui: “Ho un’alta idea della sua virtù, della sua capacità e iniziativa”. Andando poco dopo a Roma in sua compagnia, scriveva l’8 in Firenze: “Vedo che Don Rinaldi è bene accetto dappertutto e considerato come il successore di Don Rua. Lascia buona impressione in quelli con i quali parla”.
            Se fosse dunque stato lecito fare propaganda, egli sarebbe stato suo grande elettore. Né erano pochi i Salesiani che la pensavano allo stesso modo. Non parliamo degli spagnoli, tra i quali aveva lasciato grande eredità d’affetti. Ispettori e delegati, quando arrivavano dalla Spagna per il Capitolo Generale, non facevano tanti misteri nemmeno parlando con lui. Ma egli a tali discorsi mostrava tutta l’indifferenza di un sordo, che non intenda sillaba di quanto gli si dice. In questo il suo atteggiamento era tale, che impressionava i suoi giocondi interlocutori. C’era veramente del mistero.
            La sera dell’Assunta si tenne l’adunanza di apertura, nella quale Don Rinaldi “parlò molto bene”, nota nel diario Don Albera. All’elezione del Rettor Maggiore si procedette nella seduta del mattino seguente. Dall’inizio dello scrutinio i nomi di Don Albera e di Don Rinaldi si avvicendavano a brevi intervalli. Il primo appariva sempre più turbato e sbigottito; l’altro invece non dava il menomo segno di commozione. La cosa era notata, e non senza una puntolina di curiosità. Un grande applauso salutò il voto, che raggiungeva la maggioranza assoluta, richiesta dalla Regola. Don Rinaldi, com’ebbe compiuto l’ultimo atto nella sua qualità di presidente dell’assemblea con la proclamazione dell’eletto, domandò di poter leggere un suo promemoria. Ottenuto l’assenso, si fece restituire da Don Lemoyne, Segretario del Capitolo1 Superiore, una busta chiusa, consegnatagli il 27 febbraio e recante la soprascritta: “Da aprirsi dopo le elezioni che avverrebbero alla morte del caro Don Rua”. Avutala nelle mani, la dissuggellò e lesse: “Il sig. Don Rua è gravemente ammalato ed io mi credo in dovere di consegnare per iscritto, quanto si conserva nel mio cuore, al suo successore. Il 22 novembre 1877 si celebrava a Borgo S. Martino la solita festa di S. Carlo. Alla tavola presieduta dal Ven. Giovanni Bosco e da Mons. Ferrò sedeva io pure al fianco di Don Belmonte. Ad un certo punto cadde la conversazione su Don Albera, raccontando Don Bosco le difficoltà, che gli mosse il clero del suo paese. Fu allora che Mons. Ferrò volle sapere, se Don Albera avesse superato quelle difficoltà: — Certamente, rispose Don Bosco. Egli è il mio secondo… — E passando una mano sulla fronte, sospese la frase. Ma io calcolai subito che non era il secondo entrato né il secondo in dignità, non essendo del Capitolo Superiore, né il secondo Direttore ed arguii che fosse il secondo successore; ma conservai queste cose nel mio cuore, aspettando gli eventi. Torino, 27 febbraio 1910». Gli elettori compresero allora il perché del suo contegno e si sentirono allargare il cuore: avevano dunque eletto colui che da Don Bosco era stato preconizzato trentatré anni prima.
            Venne subito incaricato Don Bertello di formulare due telegrammi di comunicazione al Santo Padre e al Card. Rampolla, Protettore della Società. Al Papa si diceva: “Don Paolo Albera, nuovo Rettor Maggiore Pia Società Salesiana e Capitolo Generale, che con massima concordia di animi oggi novantacinquesimo anniversario nascita Ven. Don Bosco lo elesse e col massimo giubilo lo festeggia eletto, ringraziano Vostra Santità preziosi consigli e preghiere e protestano profondo ossequio ed illimitata obbedienza”. Sua Santità rispose tosto inviando l’apostolica benedizione. Nel telegramma si allude a un autografo pontificio del 9 agosto. Era del tenore seguente: “Ai diletti figli della Congregazione Salesiana del Ven. Don Bosco raccolti per la elezione del Rettor Generale, nella certezza, che tutti, quacumque humana affectione postposita, daranno il loro voto a quel Confratello, che giudicheranno in Domino il più adatto per mantenere il vero spirito della Regola, per incoraggiare e dirigere alla perfezione tutti i Membri del religioso Istituto, e per far prosperare le molteplici opere di carità e di religione, alle quali si sono consacrati, impartiamo con paterno affetto l’Apostolica Benedizione. Dal Vaticano li 9 agosto 1910. Pius PP. X”.
            Anche il Cardinale Protettore aveva indirizzato il 12 agosto “al Regolatore ed Elettori del Capitolo “una parola paterna di augurio e di incoraggiamento, dicendo tra l’altro: “Il vostro amatissimo Don Bosco col più intenso affetto di padre già vi rivolge senza dubbio dal Cielo lo sguardo ed implora ferventemente dal Divino Paracleto che spanda su di voi i celesti lumi ispirandovi savi consigli. La santa Chiesa attende dai vostri suffragi un degno successore di Don Bosco e di Don Rua, il quale sappia sapientemente conservare l’opera loro, anzi accrescerla con nuovi incrementi. Ed anch’io col più vivo interessamento, unito a voi nella preghiera, formo caldissimi voti, affinché col divino favore la vostra scelta sia sotto ogni rapporto felice e tale da recarmi la dolce consolazione di vedere la Congregazione Salesiana ognora più rigogliosa fiorire a vantaggio delle anime e ad onore dell’Apostolato cattolico. Fate dunque che in atto così sacro e solenne gli animi vostri si tengano lungi da umani riguardi e personali sentimenti; onde guidati unicamente da rette intenzioni e ardente brama della gloria di Dio e del maggior bene dell’Istituto, congiunti nel nome del Signore nella più perfetta concordia e carità, possiate scegliere a vostro reggitore colui che per santità di vita vi sia esempio, per bontà di cuore padre amoroso, per prudenza e saggezza guida sicura, per zelo e fermezza vigile custode della disciplina, della religiosa osservanza e dello spirito del Venerabile Fondatore”. Sua Eminenza, ricevendo non molto dopo Don Albera, gli diede segni non dubbi di ritenere che la scelta fosse stata fatta conforme ai voti da lui espressi.
            Quale fosse nei primi istanti il sentimento dell’eletto, lo dice il diario, nel quale sotto il 16 agosto leggiamo: “Questo è un giorno di grande sfortuna per me. Sono stato eletto Rettor Maggiore della Pia Società di S. Francesco di Sales. Quale responsabilità sulle mie spalle! Ora più che mai debbo gridare: Deus, in adiutorium meum intende. Ho pregato moltissimo, specialmente davanti alla tomba di Don Bosco”. Nel suo portafoglio fu rinvenuto un foglietto ingiallito, nel quale si era tracciato e firmato questo programma: “Avrò sempre Dio in vista, Gesù Cristo qual modello, l’Ausiliatrice in aiuto, me stesso in sacrificio”.
            Erano scaduti nel medesimo tempo tutti i membri del Capitolo Superiore e bisognava farne l’elezione, il che si eseguì nella terza seduta. Primo fu eletto il Prefetto Generale. La votazione sul nome di Don Rinaldi risultò plebiscitaria. Dei 73 votanti, 71 diedero a lui il voto. Mancò dunque un voto solo, che andò a Don Paolo Virion, Ispettore francese. L’altro, assai probabilmente il suo, fu per Don Pietro Ricaldone, Ispettore nella Spagna, da lui molto stimato. Ripigliò pertanto la sua quotidiana fatica, che doveva durare ancora dodici anni, fino a quando diventò egli stesso Rettor Maggiore.
            Fatto questo, il Capitolo passò all’elezione dei rimanenti, che furono: Don Giulio Barberis, Catechista Generale; Don Giuseppe Bertello, Economo; Don Luigi Piscetta, Don Francesco Cerruti, Don Giuseppe Vespignani, Consiglieri. Quest’ultimo, Ispettore nell’Argentina, ringraziata l’assemblea per l’atto di fiducia, si disse obbligato da motivi particolari e anche dalla salute a declinare la nomina, pregando si volesse addivenire a un’altra elezione. Ma il Superiore non credette doversene accettare così su due piedi la rinuncia e lo pregò di sospendere fino al domani ogni decisione. Al domani, invitato dal Rettor Maggiore a notificare la risoluzione presa, rispose che, seguendo il consiglio del Superiore, si rimetteva interamente all’obbedienza con faccettare la carica.
            Primo atto del rieletto Prefetto Generale fu di portare ufficialmente a conoscenza dei Soci l’elezione del nuovo Rettor Maggiore. In una breve lettera, accennate di volo le varie fasi della sua vita, ricordava opportunamente il così detto “Sogno della Ruota”, nel quale Don Bosco aveva visto Don Albera con una lucerna in mano illuminare e guidare gli altri (MB VI,910). Quindi molto opportunamente conchiudeva: “Miei cari confratelli, risuonino ancora una volta alle vostre orecchie le amorose parole di Don Bosco nella lettera-testamento: “Il vostro Rettore è morto, ma ve ne sarà eletto un altro, che avrà cura di voi e della vostra eterna salvezza. Ascoltatelo, amatelo, ubbiditelo, pregate per lui, come avete fatto per me”.
            Alle Figlie di Maria Ausiliatrice Don Albera stimò opportuno fare senza troppo indugio una sua comunicazione, tanto più che da esse riceveva lettere in buon numero. Le ringraziava pertanto dei loro rallegramenti, ma soprattutto delle loro preghiere. “Spero, scriveva, che Iddio esaudirà i vostri voti e che non permetterà che la mia inettezza abbia ad essere di nocumento a quelle opere, a cui il Ven. Don Bosco e l’indimenticabile Don Rua consacrarono tutta la loro vita”. Si augurava infine che tra i due rami della famiglia di Don Bosco regnasse ognora una santa gara nel conservare lo spirito di carità e di zelo lasciato in eredità dal fondatore.
            Diamo ora un fuggevole sguardo ai lavori del Capitolo Generale. Tema fondamentale si può dire che ve ne fu uno solo. Il Capitolo antecedente, compiuta una revisione piuttosto sommaria dei Regolamenti, aveva deliberato che, così com’erano, si praticassero per sei anni ad experimentum e che il Capitolo XI li ripigliasse in esame fissandone il testo definitivo. Questi Regolamenti erano sei: per gl’Ispettori, per tutte le case salesiane, per le case di noviziato, per le parrocchie, per gli oratori festivi e per la Pia Unione dei Cooperatori. Il medesimo Capitolo X con una petizione firmata da 36 membri aveva chiesto che nell’XI si trattasse la questione amministrativa e soprattutto il modo di rendere sempre più proficui i cespiti d’entrata, che la Provvidenza concedeva a ogni casa salesiana. Ad agevolare l’arduo lavoro fu nominata per ogni Regolamento una Commissione, dirò così, di tecnici, extracapitolare con l’incarico di fare gli studi relativi e di presentare al Capitolo medesimo le conclusioni.
            Le discussioni, incominciate alla quinta seduta, si protrassero per altre 21. A voler esaurire la materia sarebbe stato necessario prolungare ben più i lavori; ma il Capitolo Generale con votazione unanime deferì il compito di ultimare la revisione al Capitolo Superiore, il quale promise di eseguirla, nominando un’apposita Commissione. Tuttavia il Capitolo Generale, per mostrare che non se ne disinteressava e per aiutare l’opera, manifestò il desiderio di creare una Commissione incaricata di formulare i principali criteri, che avrebbero dovuto guidare la nuova Commissione dei Regolamenti nella sua lunga e delicata fatica. Cosi fu fatto. Vennero pertanto portate a conoscenza dell’assemblea e approvate dieci norme direttive, elaborate da suoi delegati sotto la presidenza di Don Ricaldone. Lo sfondo di esse era di mantenere saldo lo spirito di Don Bosco, integri conservando quegli articoli che si riconoscevano suoi, e di eliminare dai Regolamenti quanto contenevano di puramente esortativo.
            Dell’XI Capitolo Generale altro più non ricorderò fuorché due episodi, i quali sembrano avere particolare importanza. Il primo si riferisce al Regolamento degli Oratori festivi. La Commissione extracapitolare aveva creduto bene di sfrondarlo, massime nella parte concernente le svariate cariche. A Don Rinaldi parve che ne risultasse distrutto il concetto di Don Bosco circa gli Oratori festivi; onde insorse dicendo; “Il Regolamento stampato nel 1877 fu veramente compilato da Don Bosco, e me lo assicurava Don Rua quattro mesi prima della morte. Faccio quindi voti, che sia conservato intatto, perché, se sarà praticato, si vedrà che è sempre buono anche oggi”.
            Qui si accese un’animata discussione, della quale colgo le battute più notevoli. Il relatore dichiarò che la Commissione ignorava affatto questa particolarità; ma osservò pure non essersi mai quel Regolamento praticato integralmente in nessun Oratorio festivo, nemmeno a Torino. Opinare la Commissione che il Regolamento fosse stato fatto compilare da Don Bosco su Regolamenti degli Oratori festivi lombardi; a ogni modo aver essa inteso soltanto di sfrondarlo e d’introdurvi quanto di pratico si riscontrasse nei migliori Oratori salesiani. Ma Don Rinaldi non si acquietò, e insistette nel desiderio di Don Rua che quel Regolamento venisse rispettato, come opera di Don Bosco, pur con l’introduzione di quanto si giudicasse utile per i giovani adulti.
            Rincalzò questa tesi Don Vespignani. Egli, venuto all’Oratorio già sacerdote nel 1876, aveva ricevuto da Don Rua l’incarico di trascrivere dall’originale di Don Bosco quel Regolamento e ne conservava ancora le prime bozze. Anche Don Barberis assicurò di aver veduto l’autografo. Gli oppositori l’avevano contro le cariche. Ma Don Rinaldi non disarmò, anzi proferì queste energiche parole: “Nulla si alteri del Regolamento di Don Bosco, che altrimenti perderebbe l’autorità”. Don Vespignani confermò un’altra volta il pensiero di lui con esempi dell’America e specialmente dell’Uruguay, dove, essendosi voluto al tempo di Mons. Lasagna provare diversamente, non si era riusciti a nulla. Finalmente la controversia fu chiusa col votare il seguente ordine del giorno: “Il Capitolo Generale XI delibera che si conservi intatto il “Regolamento degli Oratori festivi” di Don Bosco, quale fu stampato nel 1877, facendovi solo in appendice quelle aggiunte che vi si ritenessero opportune, specialmente per le sezioni dei giovani più adulti». Va encomiata la sensibilità dell’assemblea di fronte a un tentativo di riforma in cose sancite da Don Bosco.
            Il secondo episodio appartiene alla penultima seduta per una questione non estranea ai Regolamenti, come a prima vista potrebbe sembrare. La sollevò di nuovo Don Rinaldi, resosi interprete del desiderio di molti, che venisse definita la posizione dei Direttori nelle case dopo il decreto sulle confessioni. Fino al 1901 l’essere essi confessori ordinari dei soci e degli alunni faceva sì che nel dirigere agissero abitualmente con uno spirito paterno (questo argomento è ampiamente esposto in Annali III,170-194). Dopo d’allora invece si cominciava a osservare che veniva smettendosi il carattere paterno voluto da Don Bosco nei suoi Direttori e da lui insinuato nel Regolamento delle case e altrove; i Direttori infatti si davano ad accudire gli affari materiali, disciplinari e scolastici, sicché diventavano Rettori e non più Direttori. “Dobbiamo tornare, diceva Don Rinaldi, allo spirito e al concetto di Don Bosco, manifestatoci specialmente nei “Ricordi confidenziali “(Annali III,49-53) e nel Regolamento. Il Direttore sia sempre Direttore salesiano. Eccetto il ministero della confessione, nulla è mutato».
            Don Bertello deplorò che i Direttori avessero creduto di dover lasciare con la confessione anche la cura spirituale della casa, dedicandosi ad uffici materiali. “Speriamo, disse, che sia stata cosa di un momento. Bisogna tornare all’ideale di Don Bosco, descrittoci nel Regolamento. Si leggano quegli articoli, si meditino e si pratichino” (Li citò secondo l’edizione d’allora’; nella presente sarebbero i 156, 157, 158, 159, 57, 160, 91, 195). Conchiuse Don Albera dicendo: “È questione essenziale per la vita della nostra Società, che si conservi lo spirito del Direttore secondo l’ideale di Don Bosco; altrimenti cambiamo il modo di educare e non saremo più salesiani. Dobbiamo fare di tutto per conservare lo spirito di paternità, praticando i ricordi che Don Bosco ci lasciò: essi ci diranno come bisogna fare. Specialmente nei rendiconti noi potremo conoscere i nostri sudditi e dirigerli. Quanto ai giovani, la paternità non importa carezze o concessioni illimitate, ma l’interessarsi di loro, il dar loro facoltà di venirci a trovare. Non dimentichiamo poi l’importanza del discorsino della sera. Siano fatte bene e con cuore le prediche. Facciamo vedere che ci sta a cuore la salvezza delle anime e lasciamo ad altri le parti odiose. Così sarà conservata al Direttore l’aureola, di cui lo voleva circondato Don Bosco”.
            Anche questa volta i Capitolari trovarono aperta nell’Oratorio un’Esposizione generale delle Scuole Professionali e Agricole Salesiane, la terza, che durò dal 3 luglio al 16 ottobre. Avendo già descritte le due precedenti, non occorre più fermarci a ripetere su per giù le medesime cose (Annali III,452-472). Naturalmente l’esperienza passata servì a una migliore organizzazione della mostra. Prevalse il criterio enunciato già due volte dall’organizzatore Don Bertello, che cioè, secondo un ordinamento voluto da Don Bosco, ogni Esposizione di tal genere è un fatto destinato a ripetersi periodicamente ad ammaestramento e stimolo delle scuole. L’apertura e la chiusura ricevettero lustro dall’intervento delle autorità cittadine e di rappresentanti del Governo. Visitatori non ne mancarono mai, e fra essi personalità d’alto grado ed anche di vera competenza. Nell’ultimo giorno il prof. Piero Gribaudi fece al nuovo Rettor Maggiore la prima presentazione di ex-allievi torinesi in numero di circa 300. Il Deputato Cornaggia nel suo discorso finale pronunciò questo giudizio ben degno di restare (Bollettino Salesiano, nov.1910, p.332): “Chi ha avuto occasione di approfondire lo studio sull’ordinamento di queste scuole e dei concetti che le ispirano, non può non ammirare la sapienza di quel Grande, che ha compreso i bisogni operai nelle condizioni dei tempi nuovi, prevenendo filantropi e legislatori”.
            Avevano partecipato alla mostra 55 case con un numero complessivo di 203 scuole. L’esame dei lavori esposti fu affidato a nove giurie distinte, delle quali fecero parte 50 tra i più insigni professori, artisti e industriali di Torino. Dovendo avere l’Esposizione carattere esclusivamente scolastico, secondo tale criterio vennero giudicati i lavori e aggiudicati i premi. Questi ultimi furono cospicui, offerti dal Papa (una medaglia d’oro), dal Ministero di Agricoltura e Commercio (cinque medaglie d’argento), dal Municipio di Torino (una medaglia d’oro e due d’argento), dal Consorzio agrario di Torino (due medaglie d’argento), dalla “Pro Torino” (una medaglia vermeil, una d’argento e due di bronzo), dagli ex-allievi del Circolo “Don Bosco” (una medaglia d’oro), dalla Ditta “Augusta” di Torino (lire 500 in materiale tipografico da dividersi in tre premi), dal Capitolo Superiore salesiano (corona d’alloro in argento dorato per il gran premio) (Le assegnazioni stanno elencate nel citato numero del Bollettino Salesiano).
            Mette conto riportare gli ultimi periodi della relazione, che Don Bertello lesse prima che si proclamassero i premiati. Disse: “Circa tre mesi fa, nell’atto d’inaugurare la nostra piccola Esposizione, noi abbiamo deplorato che per la morte del Rev.mo sig. Don Rua fosse mancato Colui, al quale intendevamo di fare l’omaggio dei nostri studi e dei nostri lavori nel suo giubileo sacerdotale. La Divina Provvidenza ci ha dato un nuovo Superiore e Padre nella persona del Rev.mo sig. Don Albera. Orbene, chiudendo l’Esposizione, noi deponiamo nelle sue mani i nostri propositi e le nostre speranze, sicuri che l’artigiano, che fu già prima cura del Ven. Don Bosco e delizia del signor Don Rua, avrà sempre un posto conveniente nell’affetto e nelle sollecitudini del loro Successore”.
            Quello fu l’ultimo trionfo di Don Bertello. Poco più di un mese dopo, il 20 novembre, un malore improvviso spegneva d’un tratto un’esistenza così operosa. L’ingegno robusto, la soda cultura, la fermezza del carattere e la bontà dell’animo fecero di lui prima un saggio Direttore di collegio, poi un solerte Ispettore e infine per dodici anni un esperto Direttore Generale delle scuole professionali e agricole salesiane. Tutto egli doveva, dopo Dio, a Don Bosco, che l’aveva allevato nell’Oratorio fin da piccolo e se l’era formato a sua immagine e somiglianza.
            Don Albera non aveva frapposto il menomo indugio a compiere il gran dovere di rendere omaggio al Vicario di Gesù Cristo, a Colui che la Regola chiama “arbitro e supremo Superiore “della Società. Subito il 1° settembre partì per Roma, dove, giunto il 2, trovò già il biglietto di udienza per la mattina del 3. Sembrò quasi che Pio X fosse impaziente di vederlo. Dalle labbra del Papa raccolse alcune amabili espressioni, che si ripose nel cuore. Ai ringraziamenti per l’autografo e la benedizione rispose il Papa d’aver creduto di agire così per far conoscere quanto gli tornasse gradita l’attività mondiale dei Salesiani e soggiunse: -— Siete nati ieri, è vero, ma siete sparsi in tutto il mondo e dappertutto lavorate molto. — Essendo informato delle vittorie già ottenute nei tribunali contro i calunniatori di Varazze (Annali III,729-749), ammonì: — Vigilate, perché altri colpi vi preparano i vostri nemici. — Finalmente, richiesto umilmente di qualche norma pratica per il governo della Società, rispose; — Non vi scostate dagli usi e dalle tradizioni introdotti da Don Bosco e da Don Rua.
            Era già finito il 1910 e Don Albera non aveva ancora fatto una comunicazione all’intera Società. Occupazioni nuove per lui e incessanti, massime le molte conferenze con i 32 Ispettori, gl’impedivano sempre di raccogliersi al tavolino. Solo nella prima metà di gennaio, come si rileva dal diario, scrisse le prime pagine di una circolare, che doveva riuscirgli lunghetta. La spedi con la data del 25. Scusatosi del ritardo a farsi vivo, commemorato Don Rua ed elogiato Don Rinaldi per il suo buon governo interinale della Società, si diffondeva in particolari notizie sul Capitolo Generale, sulla propria elezione, sulla visita al Papa, sulla morte di Don Bertello. In tutto aveva l’aria di un padre che s’intrattiene familiarmente con i figli. Li mise pure a parte delle sue pene per i fatti del Portogallo. Spodestata a Lisbona la monarchia nell’ottobre 1910, i rivoluzionari avevano preso accanitamente di mira i religiosi, assalendoli con una furia selvaggia. I Salesiani non ebbero a lamentare vittime; tuttavia i confratelli del Pinheiro presso Lisbona passarono una brutta giornata. Un branco di energumeni invase e svaligiò quella casa, non solo prendendosi ludibrio dei sacerdoti e dei chierici, ma anche profanando sacrilegamente la cappella e più sacrilegamente disperdendo al suolo e perfino calpestando le ostie consacrate. Quasi tutti i Salesiani dovettero lasciare il Portogallo, rifugiandosi nella Spagna o nell’Italia. I rivoluzionari ne occuparono le scuole e i laboratori, donde furono scacciati gli alunni. Anche alle colonie si estese la persecuzione, sicché bisognò abbandonare Macao e Mozambico, dove si faceva gran bene (Annali III, 606 e 622-4). Ma già allora Don Albera poteva scrivere: “Coloro stessi che ci hanno dispersi, riconoscono che hanno privato il loro paese delle uniche scuole professionali che possedesse”.
            Egli, che tante volte aveva udito Don Bosco nei primordi della Società predire il moltiplicarsi de’ suoi figli in ogni nazione anche remota, e vedeva allora avverate mirabilmente quelle predizioni, sentiva certo tutto il peso dell’immensa eredità ricevuta e riteneva che per qualche tempo non fosse da metter mano a opere nuove, ma convenisse applicarsi a consolidare le esistenti. Stimava quindi doveroso inculcare la stessa cosa a tutti i Salesiani: a ottener ciò non bastando da soli i Superiori, si raccomandava caldamente alla cooperazione comune. Siccome poi in quegli anni il modernismo tendeva insidie anche alle famiglie religiose, metteva sull’avviso i Salesiani, supplicandoli a fuggire ogni novità, che Don Bosco e Don Rua non avrebbero potuto approvare.
            Insieme con la circolare inviava pure a ogni casa un esemplare delle circolari di Don Rua, che dal letto di morte aveva dato a lui l’incarico di raccoglierle in un volume. Il lavoro tipografico era già terminato da circa due mesi; infatti la pubblicazione recava in fronte una lettera di Don Albera con la data dell’8 dicembre 1910.
            Per il vicino anniversario della morte di Don Bosco inviava dunque alle case un doppio regalo, la circolare e il libro. A questo secondo egli teneva in modo speciale, perché sapeva di offrire in esso un gran tesoro di ascetica e di pedagogia salesiana. Le tracce di Don Rua egli si era proposto di seguire, prefiggendosi specialmente d’imitarne la carità e lo zelo nel procurare il bene spirituale di tutti i Salesiani.

Annali della Società salesiana, vol. IV (1910-1921), p. 1-13




Una ruota misteriosa e profetica (1861)

Il Cuore del saggio conosce il tempo (di operare) e la maniera di rispondere (per rendere ragione delle sue azioni). Per ogni cosa v’ha il suo tempo opportuno; ma è di grande afflizione per l’uomo il non sapere il passato e il non potere avere novella pel futuro (Qo 8, 6-7).
Di tale conoscenza di Don Bosco e del non essere a lui nascoste le cose passate e le future che lo interessavano ce ne dà novella riprova la persuasione, che ispirò le cronache di D. Ruffino Domenico, di D. Bonetti Giovanni e le memorie scritte da D. Giovanni Cagliero, da D. Cesare Chiala e da altri, tutti testimoni auricolari delle parole del servo di Dio. Con singolare accordo ci espongono un altro sogno da lui raccontato, nel quale ci vide il suo Oratorio di Valdocco e i frutti che produceva, la condizione degli alunni al cospetto di Dio; quelli che erano chiamati allo stato ecclesiastico, o allo stato religioso nella Pia Società, o a vivere nello stato laico; e l’avvenire della nascente Congregazione.

            Don Bosco adunque sognò nella notte precedente il 2 maggio, ed il sogno durò circa sei ore. Appena fu giorno si alzò del letto per iscrivere gli appunti principali e i nomi di alcuni fra i personaggi, che aveva visti passarglisi innanzi mentre dormiva. Per raccontarlo impiegò tre sere consecutive stando sul pulpitino sotto i portici dopo le orazioni.
            Il 2 maggio parlò per circa tre quarti d’ora. L’esordio, al solito di queste sue narrazioni apparve alquanto confuso e strano per le ragioni che abbiamo già altre volte esposte, e per quelle che presenteremo al giudizio dei nostri lettori.
            Così egli prese a parlare ai giovani dopo aver annunziato l’argomento.

            Questo sogno riguarda solo gli studenti. Moltissime cose da me viste non possono essere descritte, perché non mi bastano né la mente, né le parole. Mi pareva di essere uscito dalla mia casa dei Becchi. Era avviato per un sentiero, il quale conduceva ad un paese vicino a Castelnuovo, detto Capriglio. Voleva recarmi ad un campo tutto sabbioso di nostra proprietà, in una valletta dietro alla casa, detta Valcappone, il cui raccolto basta appena a pagare le imposte. Ivi nella mia fanciullezza sono andato sovente a lavorare. Avevo già percorso un bel tratto di strada, quando vicino a quel campo incontrai un uomo sui quarant’anni, di statura ordinaria, con la barba lunga, ben fatta e bruno di faccia. Era vestito di un abito che gli scendeva sino alle ginocchia e stretto ai fianchi; in testa portava una specie di candido berretto. Stava in atto di aspettare qualcuno. Costui mi salutò famigliarmente, come se io fossi persona a lui nota da molto tempo, e mi domandò:
            – Dove vai?
            Arrestando il passo, gli risposi:
            – Eh! Vado a vedere un campo che abbiamo da queste parti. E tu cosa fai qui?
            – Non essere curioso, mi rispose; non hai bisogno di saperlo.
            – Benissimo. Ma intanto favorisci di dirmi il tuo nome e chi tu sia, poiché mi avvedo che tu mi conosci. Io però non ti conosco.
            – Non occorre che io ti dica il mio nome e le mie qualità. Vieni. Facciamoci compagnia.
            Mi rimisi in cammino con lui e dopo alcuni passi mi vidi innanzi un vasto campo coperto di alberi di fico. Il mio compagno mi disse:
            – Vedi i bei fichi che qui ci sono? Se ne vuoi, prendine pure e mangiane.
            Io risposi meravigliato:
            – Non vi furono mai fichi in questo campo.
            Ed egli:
            – E adesso ve ne sono: eccoli là.
            – Ma essi sono immaturi: non è ancora la stagione dei fichi.
            – Eppure guarda; ve ne sono già dei belli e ben maturi; se ne vuoi, fa presto perché è tardi.
            Ma io non mi muoveva e l’amico instava:
            – Ma fa presto, non perdere tempo, perché la sera è vicina.
            – Ma per qual motivo mi fai tanta fretta? Eh no! non ne voglio; mi piace il vederli, il regalarli, ma gustano poco al mio palato.
            – Se la cosa è così andiamo: ma ricordati quel che dice il Vangelo di S. Matteo, dove parla dei grandi avvenimenti che sovrastavano a Gerusalemme. Diceva Gesù Cristo ai suoi Apostoli. Ab arbore fici discite parabolam. Cum iam ramus ejus tener fuerit et folia nata, scitis quia prope est aestas (Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina, Mt. 24,32). Ed ora tanto più è vicina se i fichi incominciano a maturare.
            Ci rimettemmo in via ed ecco comparire un altro campo messo tutto a viti. Lo sconosciuto tosto mi disse:
            – Vuoi dell’uva? Se non ti piacciono i fichi, vedi là quell’uva: prendine e mangiane.
            – Oh! dell’uva ne prenderemo a suo tempo nella vigna.
            – Ce n’è anche qui.
            – A suo tempo! gli risposi.
            – Ma non vedi là tutta quell’uva matura?
            – Possibile? a questa stagione?
            – Ma fa presto! Si fa sera; non hai tempo da perdere.
            – E che premura c’è da far presto? Purché passi la giornata e mi trovi a casa in sulla sera.
            – Fa presto: dico fa presto, che tosto si fa notte.
            – Ah! Se si fa notte, ritornerà giorno.
            – Non è vero; non ritornerà più il giorno.
            – Ma come? Che cosa vuoi dire?
            – Che si avvicina la notte.
            – Ma di qual sera mi vai parlando? Vorrai dire che debbo proprio preparare il fagotto e partire? Che io debba presto andarmene alla mia eternità?
            – Si avvicina la notte: hai più poco tempo.
            – Ma dimmi almeno se sarà presto! Quando sarà?
            – Non voler essere tanto curioso. Non plus sapere quam oportet sapere (Rom. 12,3).
            Così diceva mia madre ai ficcanaso: pensai fra me stesso e risposi ad alta voce:
            Per ora non ho voglia di uva!
            Intanto camminammo ancora avanti di conserva per breve tratto di via e siamo arrivati in capo al nostro podere, dove trovammo il mio fratello Giuseppe che caricava un carro. Egli avvicinandosi mi salutò: poi salutò il mio compagno, ma vedendo che quegli non rispondeva al saluto e non gli dava retta, mi domandò se fosse stato mio condiscepolo alle scuole.
            – No; non l’ho mai visto, risposi.
            Allora ei gli volse di nuovo la parola:
            – Di grazia, mi dica il suo nome; mi favorisca di una risposta: che io sappia con chi parlo. – Ma l’altro non gli badava. Mio fratello meravigliato si rivolse a me per interrogarmi.
            – Ma chi è costui?
            – Non lo so: non me lo volle dire! – Ambedue insistemmo ancora qualche poco per sapere donde venisse, ma l’altro sempre ripeteva: Non plus sapere quam oportet sapere.
Intanto mio fratello si era allontanato e più non lo vidi, e quello sconosciuto rivoltosi a me, disse:          – Vuoi vedere qualche cosa di singolare?
            – Vedrò volentieri, risposi.
            – Vuoi vedere i tuoi ragazzi tali e quali sono al presente? Quali saranno in futuro? E li vuoi tu contare?
            – Oh sì, sì.
            – Vieni adunque.

I parte

            Allora egli trasse fuori, non so di dove, una grossa macchina, la quale non saprei descrivere, che aveva dentro una grande ruota e la piantò per terra.
            – Che cosa significa questa ruota? domandai.
            Mi fu risposto:
            – L’Eternità nelle mani di Dio! – E prese la manovella di quella ruota e la fece girare: quindi mi disse:
            – Prendi il manubrio e dà un giro.
            Così feci; e mi soggiunse:
            – Ora guarda là dentro.
            Osservai la macchina e vidi esservi un gran vetro in figura di una lente, largo un metro e mezzo circa, che si trovava nel mezzo della macchina, fisso alla ruota. Intorno a questa lente stava scritto: Hic est oculus qui humilia respicit in coelo et in terra (Sal 112,6). Subito misi la faccia su quella lente. Guardai. Oh spettacolo! Vidi là entro tutti i giovani dell’Oratorio. – Ma come è possibile questo? diceva fra me. Fino adesso ho visto nessuno in questa regione ed ora vedo tutti i miei figli! Non si trovano essi tutti a Torino? – Guardai al disopra ed ai lati della macchina, ma fuori di quella lente niente vedeva. Alzai la faccia per fare le mie meraviglie con quell’amico, ma dopo qualche istante egli mi ordino di dare un secondo giro alla manovella e vidi una singolare e strana separazione dei giovani. I buoni divisi dai cattivi. I primi erano raggianti di gioia. I secondi, che però non erano molti, facevano compassione. Io li riconobbi tutti, ma come erano diversi da quelli che i compagni li credevano. Gli uni avevano la lingua bucata, altri gli occhi compassionevolmente stravolti, altri oppressi da male al capo per ulceri ributtanti, altri avevano il cuore roso dai vermi. Io più li guardava tanto più mi sentiva afflitto dicendo: – Ma è possibile che questi siano i miei figli? Non capisco che cosa vogliano significare queste così strane infermità.
            A tali mie parole, colui che mi aveva condotto alla ruota, mi disse:
            -Ascolta me: la lingua forata significa i discorsi cattivi; gli occhi guerci coloro che interpretano e apprezzano stortamente le grazie di Dio preferendo la terra al cielo; la testa ammalata è la noncuranza dei tuoi consigli, la soddisfazione dei propri capricci; i vermi sono le malvagie passioni che rodono i cuori: vi sono anche dei sordi che non vogliono udire le tue parole per non metterle in pratica.
            Quindi mi fece un cenno ed io dato un terzo giro alla ruota applicai l’occhio alla lente dell’apparecchio. Vi erano quattro giovani legati con grosse catene. Li osservai attentamente e li conobbi tutti. Chiesi spiegazione allo sconosciuto, e mi rispose:
            – Lo puoi sapere facilmente: sono quelli che non ascoltano i tuoi consigli e, se non mutano costume, sono in pericolo di essere messi in prigione e di marcirvi pei loro delitti o gravi disobbedienze.
            – Voglio prendere nota del loro nome per non dimenticarlo, io dissi; ma l’amico rispose:
            -Non fa di bisogno; sono tutti notati: eccoli scritti in questo quaderno!
            Mi accorsi allora di un libretto che egli teneva in mano. Mi comandò di dare un altro giro. Obbedii e mi posi nuovamente a guardare. Si vedevano sette altri giovani, i quali stavano tutti fieri, in contegno diffidente, con un lucchetto alla bocca che chiudeva le loro labbra. Tre di costoro si turavano eziandio le orecchie colle mani. Mi alzai nuovamente dal vetro: voleva estrarre il taccuino per notare colla matita i loro nomi, ma quell’uomo disse:
            – Non fa di bisogno; eccoli qui notati su questo quaderno, che non mi lascia mai.
            E assolutamente non volle che scrivessi. Io stupito e addolorato per quella stranezza, domandai per qual motivo il lucchetto stringesse le labbra di quei tali. Egli mi rispose:
            – E non lo intendi? Questi sono coloro che tacciono.
            – Ma che cosa tacciono?
            – Tacciono!
            Allora capii che ciò voleva significare per rispetto alla confessione. Sono coloro che, anche interrogati dal confessore, non rispondono, o rispondono evasivamente, o contro la verità. Rispondono no, quando è sì.
            L’amico continuò:
            – Vedi quei tre che, oltre il lucchetto alla bocca, hanno le mani alle orecchie? quanto è deplorevole la loro condizione! Questi sono quei tali che non solo tacciono in confessione, ma non vogliono in nessuna maniera ascoltare gli avvisi, i consigli, i comandi del confessore. Essi sono quelli che udirono le tue parole, ma non le ascoltarono, non vi diedero retta. Potrebbero metter giù quelle mani, ma non vogliono. Gli altri quattro ascoltarono le tue esortazioni, raccomandazioni, ma non ne approfittarono.
            – E come debbono fare per togliersi quel lucchetto?
            – Ejiciatur superbia e cordibus eorum (scacciando la superbia dal loro cuore).
            – Io avviserò tutti costoro, ma per quelli che hanno le mani alle orecchie ci è poca speranza.
Quell’uomo diede poi a me un consiglio: cioè che quando si dicono due parole in pulpito, una sia intorno al far bene le confessioni. Promisi che avrei obbedito. Non voglio dire di regolarmi assolutamente così, perché mi renderei noioso; ma farò il possibile per inculcare spesse e spesse volte questa massima necessaria. Infatti è più grande il numero di coloro che si dannano confessandosi, che di coloro che si dannano per non confessarsi, perché anche i più cattivi qualche volta si confessano, ma moltissimi non si confessano bene.
            Quel personaggio misterioso mi fece dare un altro giro di ruota.
            Detto, fatto. Guardai e vidi tre altri giovani in un pauroso atteggiamento. Avevano ciascuno un grosso scimmione sulle spalle. Osservava attentamente e vidi che gli scimmioni avevano le corna. Ciascuna di quelle orribili bestiacce colle zampe davanti stringeva un infelice al collo talmente stretto, che lo faceva venir rosso ed infiammato in volto, quasi schizzandogli fuori dalle orbite gli occhi iniettati di sangue; colle zampe di dietro lo serrava nelle cosce dimodoché a stento poteva muoversi, e colla coda, che andava giù fino a terra, lo avvolgeva ancora attorno alle gambe, sicché gli rendeva più difficile e quasi impossibile il camminare. Questo significava quei giovani che dopo gli esercizi sono in peccato mortale, specialmente d’impurità e d’immodestia, rei di materia grave contro il sesto comandamento. Il demonio li stringeva al collo non lasciandoli parlare quando dovrebbero: li faceva venir rossi in faccia al punto che perdono il cervello e non sanno più quel che si facciano, rimanendo poi legati da vergogna fatale, la quale invece di condurli a salute li conduce a perdizione; per le sue strette loro faceva schizzar gli occhi fuori dal capo, per cui non son capaci di vedere la loro miseria, e i mezzi per uscire da questo orribile stato, perché trattenuti da una paurosa apprensione e ripugnanza dei Sacramenti. Li tiene poi stretti alle cosce ed alle gambe, affinché non possano più camminare, né fare passo per mettersi sulla via del bene: tale essendo il predominio della passione per causa dell’abito, da far loro credere impossibile l’emendazione.
            Vi assicuro, o cari giovani, che io piansi a tale spettacolo. Avrei voluto gettarmi avanti per andare a liberare quei disgraziati, ma appena mi allontanava dalla lente più nulla vedeva. Volli allora notarmi il nome di questi tre, ma l’amico replicò:
            – Cosa inutile perché sono scritti in questo libro che tengo in mano.
Allora pieno il cuore di commozione indicibile, colle lagrime agli occhi, mi volsi al compagno e dissi:
            – Ma come? In tale stato questi poveri giovani, per i quali ho spese tante parole, ho usate tante cure in confessione e fuori di confessione? – E chiesi come dovessero fare quei giovani per gettar via dalle spalle così brutto mostro. Egli si mise a dire in fretta e borbottando: Labor, sudor, fervor (Lavoro, sudore, fervore).
            – Io non capisco: parla più chiaro.
            Di nuovo ripeté, ma sempre borbottando:
            – Labor, sudor, fervor.
            – È inutile: se tu parli così io non capisco.
            – Oh! tu vuoi burlarti di me.
            – Sia come si vuole, ma ripeto che io non capisco.
            – Già! tu sei uso alle grammatiche ed alle costruzione delle scuole: sta dunque attento. Labor, punto e virgola; Sudor, punto e virgola; Fervor, punto. Hai capito?
            – Ho capito materialmente le parole, ma conviene che tu me ne dia la spiegazione.
            – Labor in assiduis operibus; Sudor in poenitentiis continuis; Fervor in orationibus ferventibus et perseverantibus (Lavoro in un assiduo operare; Sudore in continue penitenze; Fervore nelle preghiere ferventi e perseveranti). Ma per costoro hai un bel sacrificarti: non riuscirai a guadagnarli, perché non vogliono scuotere il giogo di satana del quale sono schiavi.
            Io intanto guardava e continuava a corrucciarmi pensando: – Ma come! Tutti questi adunque sono perduti? Possibile! Anche dopo gli esercizi spirituali… quei tali… dopo aver io fatto tanto per loro… dopo aver tanto lavorato… dopo tante prediche… dopo tanti consigli che loro ho dato… e tante promesse!… Averli tante volte avvisati… Non mi sarei mai aspettato simile disinganno. E non poteva darmi pace.
            Allora il mio interprete prese a rimproverarmi:
            – Oh il superbo! Vedete il superbo! E chi sei tu dunque che pretendi di convertire perché lavori? Perché tu ami i tuoi giovani, pretendi di vederli tutti corrispondere alle tue intenzioni? Credi tu forse di essere dappiù del nostro divin Salvatore nell’amare le anime, faticare e patire per esse? Credi tu che la tua parola debba essere più efficace di quella di Gesù Cristo? Predichi tu forse meglio di lui? Credi tu di aver usata più carità, maggior cura verso i tuoi giovani, di quella che abbia usata il Salvatore verso i suoi apostoli? Tu sai che vivevano con lui continuamente, erano ricolmi ad ogni istante di ogni sorta di suoi benefizi, udivano giorno e notte i suoi ammonimenti e i precetti della sua dottrina, vedevano le opere sue che essere dovevano un vivo stimolo per la santificazione dei loro costumi. Quanto non ha fatto e detto intorno a Giuda! Eppure Giuda lo tradì e morì impenitente. Sei tu forse dappiù degli apostoli? Ebbene: gli apostoli elessero sette diaconi: erano solo sette, scelti con ogni cura: eppure uno prevaricò! E tu fra cinquecento ti meravigli di questo piccolo numero, che non corrisponde alle tue cure? Pretendi di riuscire a non averne alcuno cattivo, che sia perverso? Oh il superbo! – Ciò udito io tacqui, ma non senza sentirmi l’anima oppressa dal dolore.
            – Del resto consolati, riprese quell’uomo, vedendomi tanto abbattuto: e mi fece dare un altro giro alla ruota, ripigliando: – Ammira quanto è generoso Iddio! Guarda quante anime ti vuol donare! Vedi là quel numero di giovani?
            Mi rimisi a guardare nella lente e vidi uno stuolo grandissimo di giovani che non aveva mai conosciuti in vita mia:
            – Sì, li vedo, risposi, ma non li conosco.
            – Ebbene costoro sono quelli che il Signore ti darà in compenso di quei quattordici che non corrispondono alle tue cure. Sappi che per ognuno di essi il Signore te ne darà cento.
            – Ah! povero me! io esclamava: ho già la casa piena! dove metterò io tutti questi giovani nuovi?
            – Non corrucciarti! Pel momento i posti ci sono. Più tardi Colui che te li manda, sa Egli dove li metterai. Egli stesso troverà i posti.
            – Ma, non è tanto il posto che mi dà fastidio: il più è il refettorio che mi dà seriamente da studiare.
            – Lascia adesso le celie: il Signore provvederà.
            – Se è così, sono contentissimo; risposi tutto consolato.
            E osservando per lungo tempo e con viva compiacenza tutti quei giovani, di molti ne ritenni le fisionomie, in modo di poterli riconoscere, qualora li incontrassi.
            E così Don Bosco fini di parlare la sera del 2 maggio.

II Parte

            La sera del 3 ripigliava il suo racconto. In quel cristallo aveva contemplato eziandio lo spettacolo della vocazione, che riguardava ciascuno dei suoi alunni. Fu conciso e vibrato nel dire. Non fece alcun nome, e rimise ad altro tempo la narrazione delle domande da lui mosse alla sua guida e le spiegazioni udite, intorno a certi simboli o allegorie che gli erano passate innanzi agli occhi. Di questi nomi però ne raccolse parecchi il Ch. Ruffino, per le confidenze dei giovani stessi, avendo loro D. Bosco spiegato privatamente ciò, che di essi aveva veduto; e ce ne trasmise la nota. Questa fu scritta nel 1861.
            Noi intanto per maggior chiarezza di esposizione e per non essere costretti a troppe ripetizioni, faremo un sol tutto, introducendo nel racconto i nomi ommessi e le spiegazioni date; ma queste le più volte senza forma di dialogo. Tuttavia saremo esatti nel riportare alla lettera ciò che scrisse il cronista.
            D. Bosco adunque prese a dire:

            Quello sconosciuto era presso il suo apparecchio della ruota e della lente. Io mi era rallegrato nel vedere tanti giovanetti che sarebbero venuti con noi, quando mi fu detto:
            – Vuoi tu ancora vedere uno spettacolo dei più belli?
            – Vediamo pure!
            – Gira la ruota! – Girai, guardai nella lente e vidi tutti i miei giovani divisi in due numerose schiere, alquanto distanti una dall’altra, sopra una stessa vasta regione. Da una parte scorgeva un terreno messo a legumi, erbaggi e prati, sulla sponda del quale vi erano alcuni filari di viti selvatiche. Quivi i giovani di una di quelle due schiere con le vanghe, le zappe, i picconi a due punte, i rastrelli, i badili lavoravano la terra. Erano sparsi in squadre che avevano i loro sovrastanti. Presiedeva il Cavaliere Oreglia di S. Stefano, il quale distribuiva strumenti agricoli di ogni sorta a quelli che zappavano; e faceva lavorare coloro che ne avevano poca voglia. Lontani, in fondo a quel terreno, vidi anche giovani che gettavano le sementi.
            La seconda schiera si trovava dall’altra parte in un esteso campo di grano coperto di spighe biondeggianti. Un lungo fosso serviva di confine tra questo e altri campi coltivati che da ogni lato si perdevano nell’estremo orizzonte. Quei giovani lavoravano a raccogliere la messe, ma non tutti facevano lo stesso lavoro. Molti mietevano e facevano grossi covoni; chi formava le biche, chi spigolava, chi guidava un carro, chi trebbiava, chi arrotava le falci, chi le affilava, chi le distribuiva, chi suonava la chitarra. Vi assicuro che era una bella scena di una varietà sorprendente.
            In quel campo, all’ombra di alberi annosi si vedevano tavole col cibo necessario per tutta quella gente; e più in là poco lontano un vasto e magnifico giardino recinto ed ombreggiato, ridente di ogni specie di aiuole di fiori.
            La separazione dei coltivatori della terra dai mietitori, indicava quelli che abbracciavano lo stato ecclesiastico e quelli che no. Io però non intendeva il mistero e rivoltomi alla mia guida:
            – Che cosa vuol dir questo? domandai: chi sono quei là che zappano?
            – Non sai ancora queste cose? Mi fu risposto; quelli che zappano sono coloro che lavorano solo per sé stessi, cioè che non sono chiamati allo stato ecclesiastico, ma ad uno stato laicale. – E intesi subito che quelli che zappavano erano gli artigiani, pei quali, nel loro stato, basta che pensino a salvare l’anima propria, senza che abbiano obbligo speciale di adoperarsi alla salvezza di quella degli altri.
            – E coloro che mietono, che sono nell’altra parte del campo replicai: e conobbi senz’altro essere quelli che erano chiamati allo stato ecclesiastico. Ed ora io so chi si deve far prete, e chi deve abbracciare altra carriera.
            Io contemplava con viva curiosità quel campo di grano. Provera distribuiva le falci ai mietitori e ciò indicava che egli avrebbe potuto divenire Rettore di Seminario o Direttore di Comunità religiosa o di casa di studio, o forse anche qualche cosa di più. È da notarsi che non tutti quelli che lavoravano prendevano la falce da lui, perché coloro che gliela chiedevano erano quelli, che avrebbero fatto parte della nostra Congregazione. Gli altri la ricevevano da alcuni distributori, che non erano dei nostri e con ciò si voleva significare, che si sarebbero fatti preti, ma per dedicarsi al Sacro Ministero fuori dell’Oratorio. La falce è simbolo della parola di Dio.
            Non a tutti quelli che la volevano, Provera dava subito la falce. Alcuni erano da lui mandati a mangiar prima, chi un boccone, chi due bocconi, cioè quello della pietà e quello dello studio. Rossi Giacomo fu mandato a prenderne uno. Costoro si recavano nel boschetto ove era il chierico Durando che faceva molte cose e tra le altre preparava la tavola pei mietitori e dava loro da mangiare. Tale uffizio indicava quelli che sono destinati in modo speciale a promuovere la divozione verso il SS. Sacramento. Intanto Galliano Matteo si affaccendava a portar da bere ai mietitori.
            Costamagna andò pure a prendere una falce ma fu da Provera mandato nel giardino a raccogliere due fiori. Lo stesso accadde a Quattroccolo. A Rebuffo venne indicato di raccogliere tre fiori con promessa che poi gli sarebbe stata messa in mano la falce. Vi era anche Olivero.
            Intanto tutti gli altri giovani si vedevano sparsi qua e là in mezzo alle spighe. Molti erano disposti in linea; alcuni avevano innanzi una porca larga, altri una meno larga. D. Ciattino parroco di Maretto mieteva con una falce ricevuta da Provera. D. Francesia e Vibert tagliavano il grano. Mietevano pure Perucatti Giacinto, Merlone, Momo, Garino, Iarach, i quali, cioè, avrebbero salvate le anime colla predicazione, se corrisponderanno alla loro vocazione. Chi tagliava più e chi meno. Bondioni mieteva da disperato, ma cosa violenta durerà? Altri davano con tutta forza la falce nel grano, ma non tagliavano mai niente. Vaschetti prese una falce e si mise a tagliare, tagliare, finché uscì fuori del campo e andò a lavorare altrove. Ad altri accadde lo stesso. Fra quelli che mietevano molti non avevano la falce affilata; ad altre falci mancava la punta. Alcuni l’avevano così guasta che, volendo tuttavia mietere, laceravano e guastavano ogni cosa.
            Ruffino Domenico mieteva e gli era stata assegnata una porca larga molto; la sua falce tagliava bene: aveva solo questo difetto che le mancava la punta, simbolo dell’umiltà. Era il desiderio di tendere a più alto grado tra gli eguali. Egli andava da Cerruti Francesco per farla martellare. Infatti osservai Cerruti che martellava le falci, indizio che doveva mettere nei cuori scienza e pietà, alludendo che sarebbe divenuto un insegnante. Il martellare era l’ufficio di colui che si dà all’insegnamento del clero e Provera consegnava a lui le falci guaste. A D. Rocchietti e ad altri consegnava quelle che avevano bisogno di essere affilate, tale essendo la loro occupazione. L’ufficio di affilare era proprio di colui, il quale dirige il clero alla pietà. Si presentò Viale e andò a prendere una falce che non era affilata, ma Provera volle dargliene un’altra tagliente passata allora sulla coté. Vidi eziandio un fabbro ferraio, che doveva preparare i ferri agricoli e questi era Costanzo.
            Mentre ferveva tutto questo complicato lavoro, Fusero faceva i covoni, e ciò voleva dire conservare le coscienze in grazia di Dio: ma venendo anche più al particolare e prendendo i covoni non come immagini dei semplici fedeli, ma di quelli che sono destinati allo stato ecclesiastico, si capiva che avrebbe egli occupato un posto d’insegnante nell’istruzione dei chierici.
            Vi era chi lo aiutava a legare i covoni e ricordo aver veduti tra gli altri D. Turchi e Ghivarello. Ciò significa coloro che sono destinati ad aggiustare le coscienze, come sarebbe confessando; e specialmente per gli addetti o aspiranti allo stato ecclesiastico.
            Altri trasportavano i covoni sopra di un carro, il quale rappresentava la grazia di Dio. I peccatori convertiti debbono mettersi sopra di questo, ad incamminarsi per la retta via della salute, che ha per termine il cielo. Il carro si mosse quando fu colmo di covoni. Veniva tirato non da giovani, ma dai buoi simbolo di forza perseverante. Vi erano coloro che li conducevano. D. Rua precedeva il carro e lo guidava e ciò vuol dire che a lui toccherebbe guidare le anime al cielo. D. Savio veniva dietro colla scopa raccogliendo le spiche e i covoni che cadevano.
            Sparsi pel campo si vedevano quelli che spigolavano, tra i quali Bonetti Giovanni e Bongiovanni Giuseppe, cioè quelli che raccoglievano i peccatori ostinati. Bonetti specialmente è chiamato dal Signore in modo particolare a cercare questi disgraziati sfuggiti dalla falce dei mietitori.
            Con Fusero anche Anfossi rizzava sul campo mucchi di covoni del grano segato, perché fosse battuto a tempo opportuno: ciò forse era indizio di qualche cattedra. Altri come D. Alasonatti formavano le biche e sono quelli che amministrano i danari, vegliano per l’esecuzione delle regole, insegnano le orazioni e il canto delle laudi sacre, che insomma cooperano materialmente e moralmente a mettere le anime sulla strada del paradiso.
            Uno spazio di terra appariva spianato e accomodato per battervi le biade. D. Cagliero Giovanni, che prima era andato nel giardino a cogliere dei fiori e li aveva distribuiti ai compagni, col suo mazzolino in mano si recò in quell’aia a trebbiare il grano. Trebbiare il grano si riferisce a coloro che sono destinati da Dio ad occuparsi dell’istruzione del basso popolo.
            A distanza si vedevano parecchie nere fumate alzarsi verso il cielo. Era opera di quelli che raccoglievano il loglio e, usciti fuori dal confine del campo occupato dalle spighe, lo mettevano a mucchio e lo abbruciavano. Significava coloro che sono specialmente destinati a togliere i cattivi di mezzo ai buoni, indicando i direttori delle nostre case future. Fra questi si vedevano D. Cerruti Francesco, Tamietti Giovanni, Belmonte Domenico, Albera Paolo e altri che ora giovanetti studiano nelle prime classi ginnasiali.
            Tutte le scene sopra descritte si svolgevano ad un tempo e vidi tra quella moltitudine di giovani alcuni, i quali portavano una lucerna in mano per far lume anche in pieno mezzogiorno. Sono coloro che sarebbero stati di buon esempio agli altri operai del vangelo e con questo devono illuminare il clero. Fra essi era Albera Paolo il quale oltre avere la lucerna, suonava eziandio la chitarra; e ciò significa che mostrerà la via ai sacerdoti, e farà loro coraggio per andare avanti nella loro missione. Si alludeva a qualche alta carica che sarà da lui occupata nella Chiesa.
            In mezzo però a tanto movimento non tutti i giovani che io vedeva, erano occupati in qualche lavoro. Uno di questi teneva una pistola in mano, cioè tendeva alla milizia; non si era però ancora deciso.
            Chi stava colla mano alla cintola osservando quelli che mietevano, e nello stesso tempo risoluti di non imitare il loro esempio; chi si mostrava indeciso, ma pesandogli la fatica, non sapeva se avesse anch’egli da risolversi alla mietitura; chi invece correva a por mano alla falce. Alcuni però là giunti, se ne stavano oziosi. Altri adoperavano la falce tenendola rivolta all’indietro e fra questi Molino. Sono coloro che fanno l’opposto di ciò che debbono fare. Vi erano di quelli, e ne contavo molti, che si allontanavano per andare a raccogliere lambrusche: cioè quelli che perdono il tempo in cose estranee al loro ministero.
            Mentre io contemplava ciò che andava accadendo nel campo di grano, vedeva l’altra schiera di giovani che zappavano, la quale presentava essa pure uno spettacolo singolare. La maggior parte di quei robusti lavorava con molto impegno, non mancavano però i negligenti. Chi maneggiava la zappa al contrario; altri dava il colpo sulle zolle, ma la zappa era sempre fuori di terra; ad alcuni ad ogni zappata sfuggiva il ferro dal manico. Il manico significa la retta intenzione.
            Quello che allora osservai si è che alcuni, i quali adesso sono artigiani, erano sul campo di biade che mietevano, ed altri che adesso studiano, erano là che zappavano. Tentai nuovamente di prender nota di ogni cosa; ma il mio interprete mi mostrava sempre il suo quaderno e mi impediva di scrivere.
            Nello stesso tempo vedeva moltissimi giovani che stavano là senza far nulla, non sapendo determinarsi, se dovessero mettersi a mietere o a zappare. I due Dalmazzo, Gariglio Primo, Monasterolo con molti altri guardavano ma risoluti di prendere una decisione.
            Continuando ad osservare distinsi di quelli che usciti di mezzo a coloro che zappavano, volevano andare a mietere. Uno corse nel campo di grano così sbadatamente da non pensare a procurarsi prima una falce. Arrossendo di quella stolta precipitazione ritornò indietro per chiederla. Colui che le distribuiva non voleva dargliela ed egli la pretendeva:
            – Non è ancor tempo, gli disse quel distributore.
            – Si è tempo: la voglio.
            – No; va ancora a prendere due fiori in quel giardino.
            – Ah! esclamò alzando le spalle quel presuntuoso; vado a prenderne finché vuole dei fiori.
            – No; due soli.
            Corse tosto, ma quando fu nel giardino pensò che non aveva domandato, quali fiori dovesse prendere; e si affrettò a rifare il sentiero:
            – Prenderai, gli fu risposto, il fiore della carità e il fiore dell’umiltà.
            – Li ho già.
            – Li avrai nella presunzione, ma in realtà non li hai.
            E quel giovane, rissava, si arrabbiava, saltava per la stizza che tutto lo agitava.
            – Non è più tempo adesso di andare sulle furie, gli disse il distributore, negandogli risolutamente la falce. E quegli si mordeva i pugni per la rabbia.
            Visto quest’ultimo spettacolo tolsi gli occhi per un istante da quella lente, per mezzo della quale tante cose aveva apprese, commosso eziandio delle applicazioni morali, che mi erano state suggerite dal mio amico. Volli ancora pregarlo che mi desse alcune spiegazioni, e mi ripeté:
            – Il campo di grano significa la Chiesa: la messe il frutto riportato: la falce è simbolo dei mezzi per fare frutto e specialmente la parola di Dio: la falce senza filo mancanza di pietà, senza punta mancanza di umiltà: l’uscire dal campo mietendo, vuol dire abbandonare l’Oratorio e la Pia Società.

III Parte

            La sera del 4 maggio D. Bosco veniva alla conclusione del sogno che nel primo quadro gli aveva presentato l’Oratorio i suoi alunni in ispecie gli studenti; e nel secondo coloro che erano chiamati allo stato ecclesiastico. Siamo ora al terzo quadro nel quale in visioni successive apparivano quelli che in quest’anno 1861 erano ascritti alla Pia Società di S. Francesco di Sales col prodigioso ingrandimento di questa, e collo scomparire a poco a poco dal mondo dei primi Salesiani ai quali succedevano i continuatori dell’Opera loro.
            D. Bosco parlò:

            Dopo che con pieno mio agio ebbi considerata la scena della mietitura ricca di tante varietà, quel gentile sconosciuto mi comandò:
            – Ora dà colla ruota dieci giri: conta e poi guarda.
            Mi posi a far girare la ruota e compiuto il decimo giro guardai. Ed ecco che vidi tutti i medesimi giovani, che io ricordava aver pochi giorni prima accarezzati ragazzi, comparire adulti, d’aspetto virile, gli uni colla barba lunga, altri coi capelli brizzolati.
            – Ma come va, domandai: l’altro giorno quel lì era bambino e quasi lo si prendeva ancora in braccio! e adesso è già così grande?
            L’amico mi rispose:
            – È naturale, quanti giri hai numerati?
            – Dieci.
            – Ebbene; 61 e 71. Contano già tutti dieci anni di più.
            – Ah! Ho capito. E osservai in fondo alla lente, panorami sconosciuti, case nuove che ci appartenevano e molti giovani alunni sotto la direzione dei miei cari figliuoli dell’Oratorio, già preti, maestri e direttori che li istruivano e poi li facevano divertire.
            – Dà di bel nuovo dieci giri, – mi disse quel personaggio – e andremo al 1881. Presi il manubrio e la ruota fece dieci altri giri. Guardai ed ecco io vidi più solo la metà dei giovani visti la prima volta, quasi tutti coi capelli grigi e alcuni un po’ curvi.
            – E gli altri dove sono? – domandai.
            – Sono già passati, mi fu risposto, nel numero dei più.
            Questa così notevole diminuzione dei miei giovani mi cagionò vivo dispiacere, ma rimasi consolato dallo scorgere anche, come in un quadro immenso paesi nuovi e regioni sconosciute ed una moltitudine di ragazzi sotto la custodia e direzione di maestri nuovi dipendenti ancora dai miei antichi giovani, alcuni dei quali divenuti di età matura.
            Poi diedi altri dieci giri alla ruota, ed ecco che ne vidi soltanto una quarta parte dei miei giovani visti pochi momenti prima più vecchi colla barba e coi capelli bianchi:
            – E tutti gli altri? chiesi.
            – Sono già nel numero dei più. Siamo nel 1891.
            Ed ecco succedere sotto i miei occhi un’altra scena commovente. I miei figli preti, logori dalle fatiche erano circondati da fanciulli, che io non aveva mai visti, e molti di pelle e di colore diverso da quello degli abitanti dei nostri paesi.
            Girai ancora dieci volte la ruota ed io vidi un terzo solo dei miei primi giovani, già cadenti vecchi, gobbi, sfigurati, macilenti, nei loro ultimi anni. Tra gli altri mi ricordo di aver visto D. Rua così vecchio e sparuto da non potersi più riconoscere tanto era cambiato.
            – E tutti gli altri? domandai.
            – Sono già nel numero dei più. Siamo al 1901.
            In molte case non riconobbi più nessuno dei nostri antichi; ma direttori e maestri da me mai veduti ed una moltitudine di giovani sempre più ingrossata, di case aumentate, di personali dirigenti mirabilmente accresciuti.
            – Ora continuò a dirmi il cortese interprete darai altri dieci giri e vedrai cose che ti consolano e cose che ti angustiano.
            Diedi altri dieci giri.
            – Ecco il 1911! esclamò quel misterioso amico. Ah! miei cari giovani! vidi case nuove, giovani nuovi, direttori e maestri con abiti e costumi nuovi.
            E dei miei dell’Oratorio di Torino? Cercai e cercai molto in mezzo a tanta moltitudine di giovani, e ne raffigurai solo più uno di voi altri incanutito e cadente per gli anni molti, il quale, circondato da bella corona di fanciulli, raccontava i principii del nostro Oratorio e loro ricordava e ripeteva le cose imparate da D. Bosco; e ne mostrava il ritratto che stava appeso alle pareti del loro parlatorio. E degli altri nostri vecchi allievi, superiori delle case, che aveva già visti invecchiati?…
            Dopo un nuovo cenno presi il manubrio e più volte girai. Non vidi che una vasta solitudine senza persona viva:
            – Oh! esclamai stupito, non vedo più nessuno dei miei! E dove dunque sono ora tutti i giovani che furono da me accolti, così allegri, vispi e robusti, e che attualmente si trovano con me all’Oratorio?
            – Sono col numero dei più. Sappi che sono passati dieci anni per ogni decimo girar di ruota.
            Contai allora quante volte aveva fatto dare dieci giri alla ruota e ne risultò che erano trascorsi cinquant’anni e che intorno al 1911 tutti gli attuali giovani dell’Oratorio sarebbero già morti.
            E ora vuoi ancor vedere qualche cosa di sorprendente? – mi disse quell’uomo benevolo.
            – Si: io risposi.
            – Dunque sta attento se ti piace vedere e sapere di più. Gira la ruota in senso contrario, contando altrettanti giri quanti ne hai dati prima.
            La ruota girò.
            – Ora guarda! Mi fu detto.
            Guardai; ed ecco io ebbi innanzi una quantità immensa di giovani tutti nuovi, di un’infinita varietà di costumi, paesi, fattezze e linguaggi, sicché non ostante che io mi sforzassi quanto poteva, non mi fu dato distinguerne che una minima parte coi loro superiori, direttori, maestri, assistenti.
            – Mi sono costoro affatto ignoti, io dissi alla mia guida.
            – Eppure, mi fu risposto, sono tutti figli tuoi. Ascoltali parlano di te e dei tuoi antichi figli e loro superiori che ora non sono più da tempo; e ricordano gli insegnamenti avuti da te e da loro.
            Guardai ancora con attenzione; ma quando alzai la faccia dalla lente, la ruota si mise a girare da per sé con tanta fretta e con tanto fragore, che io mi svegliai trovandomi sul letto stanco a morte.
            Adesso che vi ho raccontato tutte queste cose voi penserete: Chi sa! D. Bosco è un uomo straordinario, qualche cosa di grande, un santo sicuramente! Miei cari giovani! Per impedire stolti giudizi intorno a me, vi lascio tutti in piena libertà di credere o non credere queste cose, di dar loro più o meno importanza; solo raccomando di mettere niente in derisione, sia coi compagni, sia cogli estranei. Stimo bene però di dirvi che il Signore ha molti mezzi per manifestare agli uomini la sua volontà. Alcune volte si serve degli istrumenti più inetti ed indegni, come si servì dell’asina di Balaam facendola parlare: e di Balaam falso profeta che predisse molte cose riguardanti il Messia. Perciò lo stesso può accadere di me. Io vi dico adunque che non guardiate le mie opere per regolare le vostre. Quel che voi dovete unicamente fare si è di badare a quello che dico, perché questo, almeno lo spero, sarà sempre la volontà di Dio, e ridonderà a bene delle anime. Riguardo a quel che faccio non dite mai: l’ha fatto D. Bosco, dunque è bene: no. Osservate prima quello che faccio; se vedete che è buono imitatelo; se per caso mi vedeste a fare qualche cosa di male, prendetevi guardia dall’imitarlo: lasciatelo come malfatto.
(MB VI, 898-916)




I precedenti delle missioni salesiane (1/5)

Il 150° anniversario delle missioni salesiane si terrà l’11 novembre 2025. Crediamo possa essere interessante raccontare ai nostri lettori una breve storia dei precedenti e delle prime fasi di quella che sarebbe diventata una sorta di epopea missionaria salesiana in Patagonia. Lo facciamo in cinque puntate, con l’aiuto di inedite fonti che ci permettono di correggere le tante imprecisioni passate alla storia.

            Sgombriamo subito il campo: si dice e si scrive che don Bosco volesse partire per le missioni tanto da seminarista, che da giovane sacerdote. Non è documentato. Se studente di 17 anni (1834) fece la domanda di entrare tra i frati Francescani Riformati del convento degli Angeli a Chieri che avevano missioni, la richiesta, a quanto pare, era stata avanzata soprattutto per motivi economici. Se dieci anni dopo (1844), al momento di lasciar il “Convitto Ecclesiastico” in Torino, fu tentato di entrare nella Congregazione degli Oblati di Maria Vergine, cui erano appena state affidate missioni in Birmania (Myanmar), è però vero che quella missionaria, per la quale aveva forse anche intrapreso qualche studio di lingue estere, era solo per il giovane sacerdote Bosco una delle possibilità di apostolato che gli si aprivano davanti. In entrambi i casi don Bosco seguì immediatamente il consiglio, prima, di don Comollo di entrare in seminario diocesano e, dopo, di don Cafasso, di continuare a dedicarsi ai giovani di Torino. Anche nel ventennio 1850-1870, impegnato com’era nel progettare una continuità della sua “opera degli Oratori”, nel dare un fondamento giuridico alla società salesiana che stava avviando e nella formazione spirituale e pedagogica dei primi salesiani, tutti giovani del suo Oratorio, non era certo in condizione di poter dar seguito ad eventuali aspirazioni missionarie personali o degli stessi suoi “figli”. Dell’andata sua o dei salesiani in Patagonia neanche l’ombra, benché lo si trovi scritto su carta o sul web.

Acuirsi della sensibilità missionaria
            Ciò non toglie che la sensibilità missionaria in don Bosco, ridotta probabilmente a deboli spunti e vaghe aspirazioni negli anni di formazione sacerdotale e del primo sacerdozio, si acuì notevolmente lungo gli anni. La lettura degli Annali della Propagazione della Fede gli offriva infatti una buona informazione sul mondo missionario, tanto da ricavarne episodi per alcuni suoi libri e da lodare papa Gregorio XVI che incentivava l’espandersi del vangelo nei remoti angoli della terra ed approvava nuovi Ordini religiosi con finalità missionarie. Notevole influenza don Bosco poté ricevere dal canonico G. Ortalda, direttore del Consiglio diocesano dell’Associazione di Propaganda Fide per 30 anni (1851-1880) ed anche promotore di “Scuole Apostoliche” (una sorta di seminario minore per vocazioni missionarie). Nel dicembre 1857 aveva pure lanciato il progetto di un’Esposizione a favore delle Missioni Cattoliche affidate ai seicento Missionari Sardi. Don Bosco ne era informatissimo.
            L’interesse missionario poté crescere in lui nel 1862 al momento della solennissima canonizzazione in Roma dei 26 protomartiri di giapponesi e nel 1867 in occasione della beatificazione di oltre duecento martiri giapponesi, celebrata questa con solennità pure a Valdocco. Sempre nella città papale nel corso dei lunghi soggiorni degli anni 1867, 1869 e 1870 poté rendersi conto di altre iniziative missionarie locali, come la fondazione del Pontificio seminario dei santi apostoli Pietro e Paolo per le missioni straniere.
            Il Piemonte con quasi il 50% dei missionari italiani (1500 con 39 vescovi) si poneva all’avanguardia in tale ambito e a Torino venne in visita nel novembre 1859 il francescano monsignor Luigi Celestino Spelta, Vicario Apostolico di Hupei. Non visitò l’Oratorio, lo fece invece nel dicembre 1864 don Daniele Comboni che proprio in Torino diede alle stampe il Piano di rigenerazione per l’Africa con l’intrigante progetto di evangelizzare l’Africa attraverso gli africani.
            Don Bosco ebbe uno scambio di idee con lui, che nel 1869 tentò, senza esito, di associarlo al suo progetto e l’anno dopo lo invitò a mandargli qualche prete e laico per dirigere un istituto al Cairo e così prepararlo alle missioni in Africa, al cui centro contava di affidare ai Salesiani un Vicariato apostolico. A Valdocco la richiesta, non accolta, fu sostituita dalla disponibilità ad accettare ragazzi da educare in vista delle missioni. Colà però il drappello di algerini raccomandati da monsignor Charles Martial Lavigerie trovò difficoltà, per cui furono mandati a Nizza Marittima, in Francia. La richiesta nel 1869 dello stesso arcivescovo di avere aiutanti salesiani in un orfanotrofio di Algeri in momento di emergenza non fu accolta. Così come dal 1868 era sospesa la petizione del missionario bresciano Giovanni Bettazzi di mandare dei salesiani a dirigere un erigendo istituto di arti e mestieri, nonché un piccolo seminario minore, nella diocesi di Savannah (Georgia, USA). Le proposte altrui, tanto di direzione di opere educative in “territori di missione”, quanto di diretta azione in partibus infidelium, potevano essere anche appetibili, ma don Bosco non avrebbe mai rinunciato né alla sua piena libertà di azione – che forse vedeva compromessa nelle proposte altrui pervenutegli – né soprattutto al suo peculiare lavoro con i giovani, per i quali al momento era impegnatissimo a sviluppare la società salesiana appena approvata (1869) oltre i confini torinesi e piemontesi. Insomma fino al 1870 don Bosco, pur teoricamente sensibile alle necessità missionarie, coltivava altri progetti in sede nazionale.

Quattro anni di richieste non accolte (1870-1874)
            Il tema missionario e le importanti questioni che vi si riferivano furono oggetto di attenzione nel corso del Concilio Vaticano I (1868-1870). Se il documento Super Missionibus Catholicis non fu mai presentato in assemblea generale, la presenza in Roma di 180 vescovi di “terre di missioni” e le informazioni positive sul modello di vita religiosa salesiana, diffuse fra loro da alcuni vescovi piemontesi, diedero occasione a Don Bosco di incontrarne molti e anche di essere da loro contattato, tanto in Roma che in Torino.
            Qui il 17 novembre 1869 fu ricevuta la delegazione cilena, con l’arcivescovo di Santiago e il vescovo di Concepción. Nel 1870 fu la volta di mons. D. Barbero, Vicario Apostolico a Hyderabad (India), già conosciuto da Don Bosco, che gli chiese delle suore disponibili per l’India. A Valdocco si recò nel luglio 1870 il domenicano mons. G. Sadoc Alemany, arcivescovo di San Francisco in California (USA), che chiese ed ottenne dei Salesiani per un ospizio con scuola professionale (poi mai realizzato). Visitarono pure Valdocco il francescano mons. L. Moccagatta, Vicario Apostolico di Shantung (Cina) e il suo confratello mons. Eligio Cosi poi suo successore. Nel 1873 fu la volta del milanese mons. T. Raimondi che offrì a Don Bosco la possibilità di andare a dirigere scuole cattoliche nella Prefettura apostolica di Hong Kong. La trattativa, durata oltre un anno, per vari motivi si arenò, così come nello stesso 1874 rimase sulla carta anche un progetto di nuovo seminario del succitato don Bertazzi per Savannah (USA). Lo stesso avvenne in quegli anni per fondazioni missionarie in Australia ed in India, per le quali Don Bosco intavolò con i singoli vescovi trattative, da lui date talora come concluse alla Santa Sede, mentre in realtà erano solo progetti in fieri.
            In quei primi anni settanta, con un personale costituito da poco più di due decine di persone (fra preti, chierici e coadiutori), un terzo delle quali con voti temporanei, sparsi in sei case difficilmente Don Bosco avrebbe potuto mandarne alcune in terra di missione. Tanto più che le missioni estere offertegli fino a quel momento fuori Europa presentavano serie difficoltà di lingua, cultura e tradizioni non neolatine e il tentativo a lungo condotto di disporre di giovane personale di lingua inglese anche con l’aiuto del rettore del collegio irlandese di Roma, mons. Toby Kirby, erano andato fallito.

(continua)

Foto d’epoca: il porto di Genova, 14 novembre 1877.




Quinto sogno missionario: Pechino (1886)

            Nella notte dal 9 al 10 aprile Don Bosco fece un nuovo sogno missionario, che raccontò a Don Rua, a Doli Branda e al Viglietti, con voce rotta a volte dai singulti. Il Viglietti lo scrisse subito dopo e per ordine suo ne inviò copia a Don Lemoyne, affinché se ne desse lettura a tutti i Superiori dell’Oratorio e servisse di generale incoraggiamento. “Questo però, avvertiva il segretario, non è che l’abbozzo di una magnifica e lunghissima visione”. Il testo che noi pubblichiamo è quello del Viglietti, ma un po’ ritoccato da Don Lemoyne nella forma per renderne più corretta la dizione.

            Don Bosco si trovava nelle vicinanze di Castelnuovo sul poggio, così detto, Bricco del Pino, vicino alla valle Sbarnau. Spingeva di lassù per ogni parte il suo sguardo, ma altro non gli veniva fatto di vedere che una folta boscaglia, sparsa ovunque, anzi coperta di una quantità innumerevole di piccoli funghi.
            – Ma questo, diceva Don Bosco, è pure il contado di Rossi Giuseppe (di questa terra Don Bosco per scherzo aveva creato conte il coadiutore Rossi): dovrebbe ben esserci!
            Ed infatti dopo qualche tempo, scorse Rossi il quale tutto serio stava guardando da un lontano poggio le sottostanti valli. Don Bosco lo chiamò, ma egli non rispose che con uno sguardo come chi è soprappensiero.
            Don Bosco, volgendosi dall’altra parte, vide pure in lontananza Don Rua il quale, allo stesso modo che Rossi, stava con tutta serietà tranquillamente quasi riposando seduto.
            Don Bosco li chiamava entrambi, ma essi silenziosi non rispondevano neppure a cenni.
            Allora scese da quel poggio e camminando arrivò sopra un altro, dalla cui vetta scorgeva una selva, ma coltivata e percorsa da vie e da sentieri. Di là volse intorno il suo sguardo, lo spinse in fondo all’orizzonte, ma, prima dell’occhio, fu colpito il suo orecchio dallo schiamazzo di una turba innumerevole di fanciulli.
            Per quanto egli facesse affine di scorgere donde venisse quel rumore, non vedeva nulla; poi allo schiamazzo succedette un gridare come al sopraggiungere di qualche catastrofe. Finalmente vide un’immensa quantità di giovanetti, i quali, correndo intorno a lui, gli andavano dicendo:
            – Ti abbiamo aspettato, ti abbiamo aspettato tanto, ma finalmente ci sei: sei tra noi e non ci fuggirai!
            Don Bosco non capiva niente e pensava che cosa volessero da lui quei fanciulli; ma mentre stava come attonito in mezzo a loro contemplandoli, vide un immenso gregge di agnelli guidati da una pastorella, la quale, separati i giovani e le pecore, e messi gli uni da una parte e le altre dall’altra, si fermò accanto a Don Bosco e gli disse:
            – Vedi quanto ti sta innanzi?
            – Sì, che lo vedo, rispose Don Bosco.
            – Ebbene, ti ricordi del sogno che facesti all’età di dieci anni?
            – Oh è molto difficile che lo ricordi! Ho la mente stanca; non ricordo più bene presentemente.
            – Bene, bene: pensaci e te ne ricorderai.
            Poi fatti venire i giovani con Don Bosco gli disse:
            – Guarda ora da questa parte, spingi il tuo sguardo e spingetelo voi tutti e leggete che cosa sta scritto… Ebbene, che cosa vedi?
            – Vedo montagne, poi mare, poi colline, quindi di nuovo montagne e mari.
            – Leggo, diceva un fanciullo, Valparaiso.
            – Io leggo, diceva un altro, Santiago.
            – Io, ripigliava un terzo, li leggo tutt’e due.
            – Ebbene, continuò la pastorella, parti ora da quel punto e avrai una norma di quanto i Salesiani dovranno fare in avvenire. Volgiti ora da quest’altra parte, tira una linea visuale e guarda.
            – Vedo montagne, colline e mari!…
            E i giovani aguzzavano lo sguardo ed esclamarono in coro:
            – Leggiamo Pechino.
            Vide Don Bosco allora una gran città. Essa era attraversata da un largo fiume sul quale erano gittati alcuni grandi ponti.
            – Bene, disse la donzella che sembrava la loro maestra; ora tira una sola linea da una estremità all’altra, da Pechino a Santiago, fanne un centro nel mezzo dell’Africa ed avrai un’idea esatta di quanto debbono fare i Salesiani.
            – Ma come fare tutto questo? esclamò Don Bosco. Le distanze sono immense, i luoghi difficili e i Salesiani pochi.
            – Non ti turbare. Faranno questo i tuoi figli, i figli dei tuoi figli e dei figli loro; ma si tenga fermo nell’osservanza delle Regole e nello spirito della Pia Società.
            – Ma dove prendere tanta gente?
            – Vieni qui e guarda. Vedi là cinquanta Missionari in pronto? Più in là ne vedi altri e altri ancora? Tira una linea da Santiago al centro dell’Africa. Che cosa vedi?
            – Vedo dieci centri di stazioni.
            – Ebbene, questi centri che tu vedi, formeranno studio e noviziato e daranno moltitudine di Missionari affine di provvederne queste contrade. Ed ora volgiti da quest’altra parte. Qui vedi dieci altri centri dal mezzo dell’Africa fino a Pechino. E anche questi centri somministreranno i Missionari a tutte queste altre contrade. Là c’è Hong-Kong, là Calcutta, più in là Madagascar. Questi e più altri avranno case, studi e noviziati.
            Don Bosco ascoltava guardando ed esaminando; poi disse:
            – E dove trovare tanta gente, e come inviare Missionari in quei luoghi? Là ci sono i selvaggi che si nutrono delle carni umane; là ci sono gli eretici, là i persecutori, e come fare?
            – Guarda, rispose la pastorella, mettiti di buona volontà. Vi è una cosa sola da fare: raccomandare che i miei figli coltivino costantemente la virtù di Maria.
            – Ebbene, sì, mi pare d’aver inteso. Predicherò a tutti le tue parole.
            – E guardati dall’errore che vige adesso, che è la mescolanza di quelli che studiano le arti umane, con quelli che studiano le arti divine, perché la scienza del cielo non vuol essere con le terrene cose mescolata.
            Don Bosco voleva ancora parlare; ma la visione disparve: il sogno era finito.
(MB XVIII, 71-74)




Che dono, il tempo!

L’inizio del nuovo anno, nella nostra liturgia, è illuminato dall’antichissima benedizione con cui i sacerdoti israeliti benedicevano il popolo: «Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia, il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace»

Cari amici e lettori del Bollettino Salesiano, siamo all’inizio di un anno nuovo, esprimiamoci quindi a vicenda i migliori auguri per il tempo che verrà, per il tempo che viene, dono che contiene ogni altro dono in cui si sviluppa la nostra vita.
Riempiamo dunque questo augurio di contenuti che lo illuminino. Diamo la parola a Don Bosco che quando arrivò nel seminario di Chieri, si soffermò sulla meridiana che, ancora oggi, campeggia sul muro del cortile, e raccontava: «Alzando lo sguardo sopra una meridiana, lessi questo verso: Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae». Ecco, dissi all’amico, ecco il nostro programma: stiamo sempre allegri e passerà presto il tempo (Memorie Biografiche I,374).
Il primo augurio che ci scambiamo, per viverlo, è quello che don Bosco ci ricorda: vivi bene, vivi sereno e trasmetti serenità a chi ti circonda, il tempo avrà un altro valore! Ogni momento del tempo è un tesoro; ma è un tesoro che passa in fretta. Sempre don Bosco amava commentare: «I tre nemici dell’uomo sono; la morte (che sorprende); il tempo (che gli sfugge), il demonio (che gli tende i suoi lacci)» (MB V,926).
«Ricordati che essere felice non è avere un cielo senza tempeste, una strada senza incidenti stradali, lavoro senza fatica, relazioni senza delusioni» raccomanda un antico augurio. «Essere felici non è solo celebrare i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti. Essere felici è riconoscere che vale la pena vivere la vita, nonostante tutte le sfide, incomprensioni e periodi di crisi. È ringraziare Dio ogni mattina per il miracolo della vita».
Un saggio teneva nel suo studio un enorme orologio a pendolo che ad ogni ora suonava con solenne lentezza, ma anche con gran rimbombo.
«Ma non la disturba?» chiese uno studente.
«No» rispose il saggio. «Perché così ad ogni ora sono costretto a chiedermi: che cosa ho fatto dell’ora appena trascorsa?».
Il tempo è l’unica risorsa non rinnovabile. Si consuma ad una velocità incredibile. Sappiamo che non avremo un’altra possibilità. Perciò tutto il bene che possiamo fare, l’amore, la bontà e la gentilezza di cui siamo capaci li dobbiamo donare adesso. Perché non torneremo su questa terra un’altra volta. Con un perenne velo di rimorso nel nostro intimo, sentiamo che Qualcuno ci chiederà: «Che ne hai fatto di tutto quel tempo che ti ho regalato?»

La nostra speranza si chiama Gesù
Nel tempo nuovo che abbiamo appena cominciato, le date e i numeri di un calendario sono segni convenzionali, sono segni e numeri inventati per misurare il tempo. Nel passaggio dall’anno vecchio al nuovo anno è cambiato molto poco, eppure la percezione di un anno che finisce ci costringe a fare sempre un bilancio. Quanto abbiamo amato? Quanto abbiamo perduto? Quanto siamo diventati migliori, o quanto siamo diventati peggiori? Il tempo che passa non ci lascia mai uguali.
La liturgia, nel sorgere dell’anno nuovo, ha un modo tutto suo di farci fare un bilancio. Essa lo fa attraverso le parole iniziali del vangelo di Giovanni; parole che possono sembrare difficili ma che in realtà riflettono la profondità della vita: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta”. Al fondo di ogni nostra vita risuona una Parola più grande di noi. Essa è il motivo per cui esistiamo, per cui il mondo esiste, per cui ogni cosa esiste. Questa Parola, questo Verbo, è Dio stesso, è il Figlio, è Gesù. Il nome del motivo per cui siamo stati fatti si chiama Gesù.
È Lui il vero motivo per cui ogni cosa esiste, ed è in Lui che possiamo capire ciò che esiste. La nostra vita non va giudicata confrontandola con la storia, con i suoi eventi e la sua mentalità. La nostra vita non può essere giudicata guardando a noi stessi e alla nostra sola esperienza. La nostra vita è comprensibile solo se la si accosta a Gesù. In Lui tutto assume un senso e un significato, anche di quello che di contradditorio e ingiusto ci è capitato. È guardando a Gesù che capiamo qualcosa di noi stessi. Lo dice bene un salmo quando afferma: “Alla tua luce vediamo la luce”.
Questo è il modo di vedere il Tempo secondo il Cuore di Dio, e noi ci auguriamo di vivere questo tempo nuovo così.
Il nuovo anno porterà a tutti noi, alla famiglia salesiana, alla Congregazione importanti eventi e novità. Tutte dentro il dono del Giubileo che nella Chiesa stiamo vivendo.
Dentro lo spirito del Giubileo lasciamo trasportare dalla Speranza che è la presenza di Dio nella nostra vita.
Il primo mese di questo nuovo anno, gennaio, è trapuntato di feste Salesiane che di portano alla Festa di Don Bosco, ringraziamo Dio di questa delicatezza con cui ci dona di iniziare l’anno nuovo.
Lasciamo quindi l’ultima parola a don Bosco e fissiamo questa sua massima, perché forgi il nostro 2025: Figlioli miei, conservate il tempo e il tempo conserverà voi in eterno (MB XVIII 482,864).




Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (13/13)

(continuazione dall’articolo precedente)

Grazie ottenute per intercessione di Maria Ausiliatrice.I. Grazia ricevuta da Maria SS. Ausiliatrice.
            Correva l’anno del Signore 1866 quando la mia consorte nel mese d’ottobre fu colta da una gravissima malattia, vale a dire da una grande infiammazione congiunta con una gran costipazione, e con mal verminoso. In questi dolorosi frangenti si fece in prima ricorso ai periti dell’arte i quali non stettero molto a dichiarare che la malattia era pericolosissima. Vedendo io che il male molto più s’aggravava, e che a poco o nulla giovavano i rimedii umani, suggerii alla mia compagna che si raccomandasse a Maria Ausiliatrice, e che ella certamente le avrebbe concesso la salute se era necessaria per quella dell’anima; aggiunsi nello stesso tempo la promessa che se avesse ottenuto la sanità, appena terminata la chiesa, che si sta facendo in Torino, di portarci ambedue a visitarla e farvi qualche oblazione. A tal proposta essa rispose che poteva raccomandarsi a qualche Santuario più vicino per non aver poi l’obbligo di andar così lontano; a quella risposta io le dissi che non bisognava guardar tanto il comodo, quanto la grandezza del benefizio che si spera.
            Allora essa si raccomandò, e promise quanto si proponeva. O potenza di Maria! non erano ancora 30 minuti dacché essa aveva fatto la promessa quando interrogata da me come stava ella mi disse: sto molto più bene, ho la mente più libera, non ho più oppresso lo stomaco, sento abborrimento al ghiaccio che poco prima tanto desiderava, e son più vogliosa di brodo che poco prima tanto abborriva.
            A queste parole io mi sentii nascere a nuova vita, e se non fosse stato di notte sarei subito uscito di camera a pubblicare la grazia ricevuta da Maria SS. Il fatto sta che essa passò la notte tranquilla, ed al mattino seguente comparendo il medico la dichiarò immune da ogni pericolo. Chi la risanò se non Maria Ausiliatrice? Infatti essa dopo pochi giorni abbandonò il letto, ed intraprese le faccende domestiche. Ora aspettiamo ansiosamente che si compia la chiesa a lei dedicata, per quindi adempir la promessa fatta.
            Ho scritto questo, qual figlio umile dell’una, santa, cattolica ed apostolica Chiesa, e desidero che al medesimo si dia tutta quella pubblicità che si giudicherà bene per la maggior gloria di Dio e dell’augusta Madre del Salvatore.

COSTAMAGNA Luigi
di Caramagna.

II. Maria Ausiliatrice Protettrice delle campagne.
            Mornese è un paesello della diocesi di Acqui, provincia di Alessandria, di circa mille abitanti. Questo nostro paese, come tanti altri, era tristamente travaglialo dalla crittogama che da oltre venti anni divorava quasi tutto il raccolto dell’uva che è la nostra ricchezza principale. Avevamo già usato altri ed altri specifici per allontanare quel malanno, ma inutilmente. Quando si sparge la voce che alcuni contadini dei paesi confinanti avendo promesso una parte del frutto dei loro vigneti per la continuazione dei lavori della chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice in Torino furono meravigliosamente favoriti ed ebbero uva in abbondanza. Mossi i Mornesini dalla speranza di migliore raccolto e più ancora animati dal pensiero di concorrere ad un’opera di religione, determinarono di offrire per questo scopo la decima parte delle nostre vendemmie. La protezione della santa Vergine si fece sentire tra noi in modo veramente pietoso. Abbiamo avuto l’abbondanza dei tempi più felici, e fummo ben lieti di poter scrupolosamente offrire in genere o in danaro quanto avevamo promesso. All’occasione che il direttore dei lavori di quella chiesa invitato venne tra noi per raccogliere le offerte vi fu una festa di vera gioia e di pubblica esultanza.
            Egli apparve profondamente commosso per la prontezza e disinteresse con cui erano fatte le offerte, e per le cristiane parole con cui le accompagnavano. Ma un nostro patriota a nome di tutti diede ad alta voce ragione di quanto avveniva. Noi, esso prese a dire, siamo debitori di grandi cose alla santa Vergine Ausiliatrice. L’anno scorso molti di codesto paese dovendo andare alla guerra si posero tutti sotto alla protezione di Maria Ausiliatrice, mettendosi per lo più una medaglia al collo andarono coraggiosamente, e dovettero affrontare i più gravi pericoli, ma niuno restò vittima di quel flagello del Signore. Inoltre nei paesi confinanti fu strage del colera, della grandine, della siccità, e noi fummo affatto risparmiati. Quasi nulla è la vendemmia dei nostri vicini, e noi siamo stati benedetti con tale abbondanza che da venti anni non si è più veduta. Per questi motivi noi siamo lieti di poter manifestare in tal modo la incancellabile nostra gratitudine verso la grande Protettrice del genere umano.
            Credo di essere fedele interprete dei miei concittadini asserendo che quanto abbiamo fatto ora, lo faremo eziandio in avvenire, persuasi così di renderci sempre più degni delle celesti benedizioni.
            25 marzo 1868

Un Abitante di Mornese.

III. Pronta guarigione.
            Il giovanetto Bonetti Giovanni di Asti nel collegio di Lanzo ebbe il favore seguente. La sera dei 23 di dicembre ultimo scorso entrò improvvisamente in camera del direttore con passo incerto e col viso stravolto. Gli si avvicina, appoggia la sua persona a quella del pio Sacerdote, e colla destra si stropiccia la fronte e non dice parola. Meravigliato egli di vederlo così convulso, lo sorregge, e ponendolo a sedere lo richiede che cosa desideri. Alle replicate domande il poveretto non rispondeva che con sospiri sempre più stentati e profondi. Allora lo fissa più attentamente in fronte, e vede che i suoi occhi erano immobili, le labbra pallide, ed il corpo consentendo al peso della testa minacciava cadere. Vedendo allora in qual pericolo della vita stesse il giovanetto si manda tosto pel medico. Intanto il male peggiorava ad ogni istante, la sua fisonomia erasi contraffatta, e non sembrava più quella di prima, le braccia, le gambe, la fronte erano gelate, il catarro lo soffocava; il respiro sempre si faceva più breve, ed i polsi non si sentivano più che leggermente. Durò in questo stato cinque penosissime ore.
            Giunse il Dottore, applicò vari rimedi, ma sempre con nessun risultato. È finito, disse addolorato il medico, prima di domattina cotesto giovanetto sarà morto.
            Sfidato così delle speranze umane il buon Sacerdote si rivolse al cielo, pregando che se non era suo volere che il giovanetto vivesse, almeno gli concedesse un po’di tempo per confessarsi e comunicarsi. Prese quindi una piccola medaglia di Maria Ausiliatrice. Le grazie già ottenute dalla invocazione della Vergine con quella medaglina erano molte, ed aumentarono la speranza di ottenere aiuto dalla celeste Protettrice. Pieno adunque di fiducia in Lei si inginocchiò, gli mise sul cuor la medaglia e con altre pie persone accorse si dissero alcune preghiere a Maria ed al SS. Sacramento. E Maria ascoltò le preghiere che con tanta confidenza Le erano innalzate. Il respiro del piccolo Giovanni diventò più libero, gli occhi, che erano come impietriti, si volsero caramente intorno a mirare e a ringraziare gli astanti delle cure pietose che gli facevano. Né il miglioramento fu cosa di breve durata, anzi ognuno tenne certa la guarigione. Il medico stesso sbalordito dell’avvenuto ebbe ad esclamare: – Fu la grazia di Dio, che operò la salute. Nella mia lunga carriera ho veduto un gran numero di ammalati e moribondi, ma nessuno di quelli che si trovarono al punto del Bonetti vidi riaversi. Senza l’intervento benefico del cielo, è questo per me un fatto inesplicabile. E la scienza, usa oggidì a rompere quel mirabile vincolo che la unisce a Dio, rese umile omaggio a Lui giudicandosi essa impotente ad ottenere quello che solo Iddio compì. Il giovanetto che fu oggetto di gloria della Vergine, continua tuttora a stare molto e molto bene. Dice e predica a tutti che la sua vita la deve doppiamente a Dio ed alla potentissima sua Madre, dalla cui valida intercessione ottenne la grazia. Egli si crederebbe ingrato di cuore se non rendesse pubblica testimonianza di gratitudine, ed invitare così altri ed altri infelici che in questa valle di lagrime soffrono e vanno in cerca e di conforto e di aiuto.

(Dal giornale: La Vergine).

IV. Maria Ausiliatrice libera un suo devoto da forte mal di denti.
            In una casa d’educazione di Torino vi era un giovinetto di 19 o 20 anni, che già da parecchi giorni soffriva acerbissimi dolori ai denti. Tutto quello che l’arte medica suole in tali casi suggerire erasi già usato senza alcun felice esito. Onde il povero giovane era a tal punto di esacerbazione ridotto, che destava la pietà in tutti quelli che lo sentivano. Se il giorno gli pareva orrido, eterna e sciaguratissima la notte, in cui non poteva chiudere l’occhio al sonno che ad istanti interrotti e brevissimi. Che stato deplorabile era mai questo suo! Continuò così per qualche tempo; ma alla sera del 29 aprile il male parve diventar furiosissimo. Gemeva il giovanetto nel suo letto senza posa, sospirava ed altamente gridava senza che lo potesse qualcuno alleviare. I compagni inteneriti sulla condizione di lui infelice andarono a farne parte al direttore che volesse degnarsi di venirlo a confortare. Ci venne, e tentò a parole di ridonargli la calma tanto a lui necessaria e ai suoi compagni perché potessero riposare. Ma tanto era il furore del male, che egli sebben obbedientissimo, non poté cessare il lamento; dicendo che non sapeva se pur anche nell’inferno stesso si potevano soffrire più crudeli dolori. Il superiore allora pensò bene di collocarlo sotto alla protezione di Maria Ausiliatrice, al cui onore si solleva pur anche in questa nostra città maestoso tempio. C’inginocchiammo tutti, e facemmo breve preghiera. Ma che? L’aiuto di Maria non si fece molto aspettare. Nell’atto che il sacerdote compartiva al desolato giovane la benedizione, sull’istante ebbe calma, e prese placido e profondo sonno. In quell’istante ci balenò alla mente un terribile sospetto; che cioè il povero giovane soccombette al male, ma no, egli erasi già profondamente addormentato, e Maria aveva udita la preghiera del suo devoto, e Dio la benedizione del suo ministro.
            Passarono più mesi, e il giovane soggetto al male dei denti non ne fu più molestato.

(Dallo stesso).

V. Alcune meraviglie di Maria Ausiliatrice.
            Credo che il vostro nobile periodico farà buon viso ad alcuni avvenimenti succeduti tra di noi, che io espongo ad onore di Maria Ausiliatrice. Ne trascelgo solamente alcuni di cui sono stato testimonio in questa città, ommettendone molti altri che si raccontano ogni dì.
            Il primo riguarda ad una signora di Milano che da cinque mesi si andava consumando da una polmonite congiunta ad una totale prostrazione dell’economia vitale.
Passando da queste parti il Sac. B… venne da esso consigliata a fare ricorso a Maria Ausiliatrice, mercè una novena di preghiera ad onore di lei, con promessa di qualche oblazione per continuare i lavori della chiesa, che appunto sotto il titolo di Maria aiuto dei cristiani si va innalzando in Torino. Questa oblazione per altro era soltanto da farsi a grazia ottenuta.
            Meraviglia a dirsi! In quel giorno stesso l’inferma poté ripigliare le sue ordinarie e gravi occupazioni, accomodarsi a qualsiasi genere di cibi, andare a passeggio, entrare e uscire da casa liberamente, come se non fosse mai stata ammalata. Quando poi si terminava la novena, ella si trovava nello stato di florida sanità, quale non si ricordava mai aver in addietro goduta.
            Un’altra Signora da tre anni pativa un male di palpitazione, con molti incomodi che a questo male vanno congiunti. Ma la venuta di qualche febbre e di una specie di idropisia l’aveva resa immobile in letto. Il suo male era giunto a tal segno, che quando il mentovato sacerdote le dava la benedizione, il marito di lei dovette alzarle la mano, affinché potesse fare il segno della santa croce. Fu parimente raccomandata una novena ad onore di Gesù Sacramentato e di Maria Ausiliatrice, con promessa di qualche oblazione pel sopra citato sacro edifizio, ma a grazia compiuta. Nel giorno stesso, in cui si terminava la novena, la inferma era libera da ogni male, e poté ella medesima compilare la narrazione del suo male, in cui leggo quanto segue:
            “Maria Ausiliatrice mi ha fatto guarire da una malattia, per cui si reputava inutile ogni ritrovato dell’arte. Oggi, ultimo giorno della novena, io sono libera da ogni male, e vado a mensa colla mia famiglia, cosa che da tre anni non aveva più potuto fare. Finché vivrò, non cesserò di magnificare la potenza e la bontà dell’augusta Regina del cielo, e mi adopererò per promuovere il culto di lei, specialmente nella chiesa che si sta costruendo in Torino.”
            Aggiungo ancora un altro fatto, che è altresì più meraviglioso degli antecedenti.
            Un giovinetto sul fiore degli anni si vedeva aperta una delle più luminose carriere per la via delle scienze, quando fu colpito da crudo male ad una mano. Malgrado ogni cura, ogni sollecitudine dei medici più accreditati non si poterono ottenere miglioramenti, né poteva arrestarsi il progresso del male. Tutte le conclusioni dei periti dell’arte concorrevano a dire doversi venire all’amputazione, per impedire la totale rovina del corpo. Spaventato egli a questa sentenza, volle fare ricorso a Maria Ausiliatrice, mettendo in opera i medesimi rimedii spirituali, che altri con tanto frutto avevano praticato. L’acutezza dei dolori cessò sull’istante, le piaghe si mitigarono, e in breve tempo apparve compiuta guarigione. Chi volesse soddisfare alla propria curiosità potrebbe rimirare quella mano che presenta le tacche ed i fori delle piaghe cicatrizzate, che ricordano la gravezza del suo male e la meravigliosa guarigione del medesimo. Esso volle andare a compiere in persona la sua oblazione a Torino, per dimostrare viepiù la sua gratitudine verso l’augusta Regina del cielo.
            Ho ancora molti altri racconti di questo genere, che vi esporrò con altre mie lettere, se giudicherete questa essere materia opportuna pel vostro periodico. Vi prego di omettere i nomi delle persone, cui i fatti si riferiscono, per non esporle ad importune dimande ed osservazioni. Valgano tuttavia questi fatti a ravvivare ognora più fra i cristiani la fiducia nella protezione di Maria Ausiliatrice, per accrescerle i devoti in terra, e per avere un giorno più gloriosa corona dei suoi devoti in cielo.

(Dalla Vera Buona Novella di Firenze).

Con approvazione Ecclesiastica.

Fine