Il seme crescente del carisma salesiano nella missione del Bangladesh

Abbiamo incontrato don Joseph Cosma Dang, salesiano vietnamita che presta servizio in Bangladesh, che ci ha raccontato la storia e le sfide di questa particolare missione.

Il Bangladesh odierno è un paese formato dopo la divisione dell’India del 1947. La regione di Bengala si divise secondo criteri religiosi: la parte occidentale, induista, rimasta sotto l’India e la parte orientale, musulmana, congiunta al Pakistan come provincia chiamata Bengala orientale e poi rinominata Pakistan orientale. Nel momento della divisione ci furono milioni di indù che emigrarono dal Bangladesh all’India e alcune migliaia di musulmani che si spostarono all’India al Bangladesh. Si capisce che il carattere religioso di questa divisione e migrazione a una grande importanza nella vita di questo popolo numeroso, di circa 170 milioni di persone, dai quali più di 89% sono musulmani, 9% induisti, 1% buddisti e 1% cristiani.
Il paese divenne indipendente dal Pakistan nel 1971 e attualmente è un paese in via di sviluppo che sta affrontando molte sfide, nonostante la sua ricchezza culturale. Molti bambini non frequentano le scuole e passano il loro tempo ad aiutare le famiglie a trovare un modo per sopravvivere, pescando, cercando legna da ardere o in altri modi. I servizi sanitari sono insufficienti per la popolazione, e tanti abitanti non possono permettersi le spese mediche.

In questa complessa situazione, i salesiani hanno sentito la chiamata di Dio a servire in questo paese, in particolare per la mancanza di pastori cattolici e per l’enorme numero di giovani emarginati e poveri. Nel 2009 don Francis Alencherry, che era Consigliere Generale per le Missioni, ha gettato le prime fondamenta della missione salesiana nella diocesi di Mymensingh come risposta all’invito del Vescovo locale. La missione, sotto l’Ispettoria di Kolkata (INC), si è sviluppata rapidamente con l’aiuto di altri missionari, tra cui don Joseph Cosma Dang, proveniente dal Vietnam, che è arrivato il 29 ottobre 2012, in occasione della festa del Beato Michele Rua, dopo un interminabile periodo di diciotto mesi di attesa per il visto. Gradualmente, il numero delle case salesiane, degli ostelli, delle scuole, dei centri giovanili, delle chiese parrocchiali e delle cappelle dei villaggi cresce al servizio dei giovani poveri e delle esigenze pastorali della chiesa locale. Attualmente, i salesiani sono presenti in due comunità canoniche composte da 5 presenze stabili: Utrail-Telunjia a Mymensingh, Lukhikul-Khonjonpur a Rajshahi, Moushair a Dhaka. Vedendo ciò che i salesiani stanno facendo, le autorità ecclesiastiche locali hanno espresso il loro riconoscimento e apprezzamento, e alcuni vescovi sono ancora in attesa di una presenza salesiana nelle loro diocesi.

Quest’opera è un seme della Chiesa che sta lentamente crescendo grazie all’aiuto di molti benefattori e collaboratori. La Provvidenza sta benedicendo il Bangladesh con vocazioni salesiane locali: 14 giovani salesiani professi provengono dalla terra del Bangladesh; tra questi, cinque giovani hanno emesso la professione perpetua e poco più tardi, entro il 19 maggio 2024, altri 4 giovani salesiani emetteranno i voti definitivi e si impegneranno in modo permanente per il “Da mihi animas, cetera tolle”. Recentemente è stato ordinato il primo sacerdote salesiano del Bangladesh, don Victor Mankhin. I salesiani si occupano di animazione vocazionale organizzando regolarmente ogni anno il campo vocazionale “Vieni e vedi” per invitare i giovani che hanno il desiderio di diventare salesiani. Il carisma salesiano si è radicato e sembra che, in cielo, don Bosco sorrida e si prenda cura del Bangladesh.

Don Joseph Cosma Dang racconta la sua vita missionaria come esperienza di fede del mistero dell’incarnazione, che cos’è la seconda nascita. “Ho dovuto imparare a mangiare, a parlare nuove lingue e a vivere con la gente del posto. Ho imparato a fare molti lavori a cui non avevo mai pensato prima di venire in Bangladesh. Con la mentalità dell’apprendimento, mi sono aperto alle nuove situazioni e alle nuove sfide con un occhio sorprendente”.
La crescita della fede è il dono più prezioso concesso da Dio. Senza dubbio, Dio è il fornitore, l’autore e noi siamo semplici collaboratori.

Marco Fulgaro




Canillitas. Minorenni lavoratori nella Repubblica Dominicana (video)

Il lavoro minorile non è una realtà del passato, purtroppo. Nel mondo ci sono ancora circa 160 milioni di ragazzi che lavorano, e quasi la metà di loro sono impiegati in varie forme di lavoro a rischio; alcuni di loro iniziano a lavorare a 5 anni! Questo fatto li allontana dall’istruzione e ha gravi conseguenze negative sullo sviluppo cognitivo, volitivo, emotivo e sociale, incidendo sulla salute e sulla qualità della loro vita.

Prima di parlare del lavoro minorile, bisogna riconoscere che non tutti i lavori svolti dai minori si possono classificare come tali. La partecipazione dei ragazzi a certe attività familiari, scolastiche o sociali che non ostacolano la loro scolarizzazione, non solo non danneggia la loro salute e il loro sviluppo, ma risulta proficua. Tali attività fanno parte dell’educazione integrale, aiutano i ragazzi ad apprendere delle abilità molto utili nella loro vita e li preparano alle responsabilità.

La definizione di lavoro minorile fatta dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro è l’attività lavorativa che priva i bambini della loro infanzia, del loro potenziale e della loro dignità e che è dannosa per il loro sviluppo fisico e psicologico. Si tratta di lavori in strada, nelle fabbriche, nelle miniere, con lunghe ore di lavoro che tante volte privano anche del riposo necessario. Sono lavori che fisicamente, mentalmente, socialmente o moralmente sono rischiosi o dannosi per i ragazzi, e che interferiscono con la loro scolarizzazione privandoli dell’opportunità di andare a scuola, costringendoli ad abbandonare la scuola prima del tempo o obbligandoli a cercare di conciliare la frequenza scolastica con lunghe ore di duro lavoro.
È una definizione di lavoro minorile non condivisa da tutti i paesi. Però ci sono dei parametri che la possono definire: l’età, la difficoltà o pericolosità del lavoro, il numero di ore lavorate, le condizioni in cui viene svolto il lavoro e anche il livello di sviluppo del paese. Quanto all’età, è comunemente accettato che non si deve lavorare sotto i 12 anni: le norme internazionali parlano di età minima per l’ammissione al lavoro, cioè non inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo.

Le statistiche recenti parlano di circa 160 milioni di ragazzi che lavorano, e questa cifra nella realtà può essere sensibilmente più alta, dato che è difficile calcolare la situazione reale. Concretamente, un ragazzo su 10 nel mondo è vittima del lavoro minorile. E bisogna tener presente che questa statistica comprende anche lavori degradanti – se si possono chiamare lavori – come il reclutamento forzato nei conflitti armati, la schiavitù o lo sfruttamento sessuale. Ed è preoccupante il fatto che le statistiche indichino che oggi ci sono 8 milioni i ragazzi in più che lavorano rispetto al 2016, e che questo aumento si riscontri soprattutto nei ragazzi tra i 5 e gli 11 anni. Le organizzazioni internazionali avvertono che se la tendenza continuerà così, il numero di bambini impiegati nel lavoro minorile potrebbe aumentare di 46 milioni nei prossimi anni, se non verranno adottate adeguate misure di protezione sociale.

La causa del lavoro minorile è soprattutto la povertà, ma lo sono anche il mancato accesso all’istruzione e la vulnerabilità nel caso dei ragazzi orfani o abbandonati.
Questi lavori nella stragrande maggioranza dei casi comportano anche delle conseguenze fisiche (malattie e patologie croniche, mutilazioni), psicologiche (da abusati, i ragazzi diventano abusatori, dopo aver vissuto in ambienti ostili e violenti diventano a loro volta ostili e violenti, sviluppano bassa autostima e mancanza di speranza per il futuro) e sociali (corruzione dei costumi, alcool, droga, prostituzione, infrazioni).

Non è un fenomeno nuovo, è accaduto anche ai tempi di don Bosco quando tanti ragazzi, spinti dalla povertà, cercavano nelle grandi città espedienti per la sopravvivenza. La risposta del santo è stata quella di accoglierli, assicurare loro vito e alloggio, alfabetizzare, istruire, trovare un lavoro degno e fare sentire a quei ragazzi abbandonati che erano parte di una famiglia.
Anche oggi questi ragazzi mostrano grande insicurezza e sfiducia, sono malnutriti e con gravi carenze emotive. Anche oggi bisogna cercarli, incontrarli, offrendo loro gradualmente ciò che amano per dare loro finalmente ciò di cui hanno bisogno: una casa, un’istruzione, un ambiente familiare e in prospettiva nel futuro un degno lavoro.
Si cerca di conoscere la situazione particolare di ognuno di loro, si va alla ricerca dei famigliari per reinserire i ragazzi in famiglia quando possibile, si propone di abbandonare il lavoro minorile, di socializzare, di frequentare la scuola, accompagnandoli in modo che possano realizzare il loro sogno e il progetto di vita grazie all’istruzione, e di diventare testimoni per altri ragazzi che si trovano nella loro stessa situazione.

In 70 paesi del mondo i salesiani sono attivi nel campo del lavoro minorile. Presentiamo uno di loro, quello della Repubblica Dominicana.

Canillitas erano denominati i ragazzi venditori ambulanti di giornali, che per la povertà avevano pantaloni rimasti corti, lasciando scoperte le loro “canillas”, ossia le gambe. Simili a questi, i ragazzi di oggi devono muovere le gambe per strada ogni giorno per guadagnarsi da vivere, perciò il progetto a loro favore si è chiamato Canillitas con Don Bosco.
Si tratta di un progetto nato come progetto salesiano oratoriano, che poi è arrivato a essere un’attività permanente: il Centro Canillitas con Don Bosco di Santo Domingo.

Il progetto è partito nell’8 dicembre 1985 con tre giovani dell’ambiente salesiano che si sono dedicati a tempo pieno, rinunciando alle loro occupazioni. Avevano chiare le quattro tappe del percorso da seguire: Ricerca, Accoglienza, Socializzazione e Accompagnamento. Hanno iniziato a cercare ragazzi sulle strade e nei parchi di Santo Domingo, a contattarli, a conquistare la loro fiducia e a stabilire legami di amicizia. Dopo due mesi li hanno invitati a passare una domenica insieme e sono stati sorpresi quando più di 300 minori si presentarono all’incontro. Fu un pomeriggio di festa con giochi, musica e merende che ha spinto i ragazzi a chiedere spontaneamente quando potevano tornare. La risposta non poteva essere altra che: “domenica prossima”.
Il loro numero crebbe costantemente, dopo aver capito che l’accoglienza, gli spazi e le attività erano a misura loro. Al campo organizzato nell’estate hanno partecipato un centinaio dei più fedeli. Qui i ragazzi hanno ricevuto una tessera di canillitas nel campo, per dare un’identità e un senso di appartenenza, anche perché tanti di loro non conoscevano neanche la loro data di nascita.
Con la crescita dei numeri dei ragazzi è arrivata anche la crescita delle spese. Questo ha condotto a dover ricercare dei finanziamenti e implicitamente a far conoscere il progetto con questi ragazzi.

Il 2 maggio 1986, la comunità salesiana ha presentato il progetto ai superiori salesiani dell’Ispettoria Salesiana delle Antille, progetto che ottenne un sostegno unanime. Così, il programma Canillitas con Don Bosco fu ufficialmente lanciato e continua anche oggi dopo quasi 38 anni di esistenza. E non solo continua ma è cresciuto e si è ampliato, essendo un modello per altre iniziative. È così che è nato anche il programma Canillitas con Laura Vicuña, sviluppato dalle Figlie di Maria Ausiliatrice per le ragazze lavoratrici, i programmi Chiriperos con Don Bosco, per aiutare i giovani che – per guadagnarsi da vivere – facevano qualsiasi “lavoretto” (come portare l’acqua, buttare la spazzatura, fare commissioni…), e il programma Apprendisti con Don Bosco che si occupa dei minori che lavoravano nelle numerose officine meccaniche, sfruttati da certi imprenditori. Per questi ultimi, i salesiani hanno costruito un’officina con l’aiuto di alcuni bravi industriali e della Prima Donna della Repubblica, in modo da essere liberi di imparare un mestiere e non essere in balia delle ingiustizie.
In seguito a questo successo, tutte queste iniziative e altre sono confluite nella Rete dei Ragazzi e delle Ragazze con Don Bosco, attualmente composta da 11 centri con programmi adeguati alle fasce d’età dei ragazzi, diventati un esempio nella lotta al lavoro minorile nel paese caraibico. Di questa rete fanno parte: Canillitas con Don Bosco, Chiriperos con Don Bosco, Aprendices con Don Bosco, Hogar Escuela de Niñas Doña Chucha, Hogar de Niñas Nuestra Señora de la Altagracia, Hogar Escuela Santo Domingo Savio, Quédate con Nosotros, Don Bosco Amigo, Amigos y Amigas de Domingo Savio, Mano a Mano con Don Bosco e Sur Joven.
La rete ha svolto programmi incentrati sullo sviluppo di abilità nei ragazzi e nei giovani, favorendo la loro formazione e crescita integrale. Ha accompagnato direttamente circa 93.000 ragazzi, adolescenti e giovani, ha raggiunto più di 70.000 famiglie e, indirettamente, ha avuto più di 150.000 beneficiari, lavorando ogni anno con una media di oltre 2500 beneficiari. Tutto ciò è stato realizzato avendo come base il Sistema Preventivo di Don Bosco che ha portato i ragazzi e i giovani a recuperare la propria autostima, a essere protagonisti della propria vita per diventare “onesti cittadini e buoni cristiani”.

Questo lavoro ha avuto anche un impatto socio-politico. Ha contribuito alla crescita della sensibilità sociale verso questi poveri ragazzi che facevano quello che potevano per sopravvivere. L’eco del programma salesiano nei mass-media della Repubblica Dominicana ha dato la possibilità a un gruppo di Canillitas di partecipare a una sessione del Congresso Nazionale del paese e alla redazione del Codice del Sistema di Protezione e dei Diritti Fondamentali dei Ragazzi e degli Adolescenti della Repubblica Dominicana (Legge 136-03), promulgato il 7 agosto 2003.
In seguito, sono stati firmati diversi accordi con l’Istituto di Formazione Tecnico Professionale, con il Consiglio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza e con la Scuola della Magistratura.
Grazie al sostegno di molti imprenditori e della società civile sono state avviate collaborazioni e interrelazioni con l’UNICEF, con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, con il governo nazionale, con la Coalizione delle ONG per l’infanzia della Repubblica Dominicana e si è perfino arrivati a partecipare alla Conferenza delle Americhe alla Casa Bianca nel 2007, con il ricevimento del presidente George Bush e del Segretario di Stato Condoleezza Rice.

Il lavoro salesiano ha contribuito alla riduzione del lavoro minorile e all’aumento del tasso di istruzione nel paese. Il salesiano missionario promotore, don Juan Linares, è stato nominato Uomo dell’Anno della Repubblica Dominicana nel 2011, e per 10 anni è stato membro del consiglio di amministrazione del Consiglio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, l’organo di governo del Sistema Nazionale per la Protezione dei Diritti dei Ragazzi e degli Adolescenti.

Recentemente è stato realizzato un documentario, “Canillitas”, che vuole informare, denunciare e sensibilizzare l’opinione pubblica sul lavoro minorile. Il breve documentario riflette la vita quotidiana di sei ragazzi lavoratori nella Repubblica Dominicana, nonché il lavoro dei missionari salesiani per cambiare questa realtà, grazie all’istruzione.

Presentiamo la scheda del film.

Titolo: Canillitas
Anno di produzione: 2022
Durata: 21 minuti
Genere: Documentario
Pubblico adatto: Tutti
Paese: Spagna
Regia: Raúl de la Fuente, Premio Goya 2014 per “Minerita” e nel 2019 per “Un día más con vida”
Produzione: Kanaki Films
Versioni e sottotitoli: spagnolo, inglese, francese, italiano, portoghese, tedesco e polacco

Versione online:



(Articolo realizzato con il materiale inviato da Missiones Salesianas di Madrid, Spagna.)




1924-2024. 100 anni a supporto delle Missioni Salesiane. Istituto Salesiano per le Missioni

Il 13 gennaio del 1924, con un decreto reale, veniva eretto in ente morale l’Istituto Salesiano per le Missioni, per un’iniziativa del Rettor Maggiore, il beato Filippo Rinaldi, che voleva sostenere le attività missionarie. L’Istituto prosegue anche oggi il suo compito a favore di tante missioni nel mondo.

Negli anni ’20, le missioni salesiane stavano aumentando, coltivate dalle lettere dei missionari che venivano presentate costantemente nel Bollettino Salesiano, dell’effervescenza prodotta in quelli anni dalle nuove scoperte geografiche e culturali e da tante persone che, emigrando lontano dalla patria in cerca di una vita migliore, inviavano notizie a coloro che erano rimasti a casa. Una serie di avvenimenti venne a rafforzare l’attenzione per le missioni.

Nel 1922, per la formazione dei futuri missionari don Rinaldi aveva fondato ad Ivrea l’Istituto Cardinal Cagliero, che solo dopo un anno dall’inizio contava già centosessanta candidati. Codesto istituto verrà riconosciuto dalla S. Congregazione di Propaganda Fide il 30 aprile 1924 con un decreto nel quale si erigeva canonicamente l’Istituto Cardinal Cagliero come seminario di aspiranti alle Missioni Salesiane, lo si dichiarava «alle sue dipendenze, e partecipe di tutti i diritti e privilegi di cui godono simili Istituti» e se ne sanciva e comunicava lo statuto.

Questo interesse in crescita nel 1923 ha portato il Rettor Maggiore Filippo Rinaldi a fondare una rivista chiamata “Gioventù missionaria” con lo scopo di animare e coltivare il lavoro per le missioni tra le nuove generazioni. Nel primo numero si leggeva: “Gioventù Missionaria fa dunque assegnamento sulla vostra attiva propaganda [di far conoscere l’attività dei missionari]. E attende anche meglio da voi tutti: spera trovare in voi i missionari dei… missionari. Essa lancerà frequenti, continui appelli al vostro buon cuore perché vogliate farvi apostoli zelanti di un’idea: le Missioni.”

Nel 9 di novembre 1923, il re d’Italia, Vittorio Emanuele III, aveva firmato un decreto sulla dispensa provvisoria della leva militare per i giovani che si preparavano ad andare nelle missioni, oppure per coloro che erano già missionari. Questo cambiamento ha favorito e ha dato un impulso alla preparazione dei missionari, tanto che la Congregazione Salesiana ha stabilito un numero di 31 istituti religiosi che preparavano i giovani per le missioni: 15 in Italia e i restanti all’estero.

Nel giugno 1924 il Rettor Maggiore, don Filippo Rinaldi, scriveva ai salesiani a proposito delle missioni:
“E, cosa mirabile, i giovani stessi di molti nostri collegi, pensionati, convitti, e principalmente oratorii festivi, sono già divenuti apostoli ferventi, suscitano e tengono viva tra i compagni una nobile gara di privazioni e mortificazioni spontanee a pro delle nostre Missioni; di lotterie, recite drammatiche, e altri trattenimenti per lo stesso fine; di letterine ai genitori, ai fratelli, ai conoscenti ed amici per avere qualche offerta, o per indurli a iscriversi tra i Cooperatori o ad abbonarsi al caro periodico Gioventù Missionaria. E non di rado avviene che, a forza di questuare per le Missioni, qualche giovane finisce per dare anche sé stesso, facendosi missionario salesiano.”

Nel 1925 era programmata una nuova Esposizione Missionaria Mondiale che si doveva tenere in Vaticano, alla quale partecipavano anche i salesiani, e l’inaugurazione solenne, presieduta dal Santo Padre Pio XI, era pianificata per il dicembre 1924. Una spinta in più che induce don Filippo Rinaldi ad affidare il compito delle missioni (fino a quel momento riservato a sé), al Prefetto Generale, don Pietro Ricaldone che doveva seguire i preparativi. Diceva a questo proposito: “L’articolo 62 dei nostri Regolamenti dice: La cura delle Missioni è affidata a uno del Capitolo Superiore, a ciò delegato dal Rettor Maggiore. Valendomi di tale facoltà, delego a ciò il R.mo D. Pietro Ricaldone, Prefetto Generale. Già per altre sue attribuzioni egli è in rapporto coi nostri missionari, e mi pare quindi il più indicato anche per ragioni di semplicità. Essendo poi egli colui che fa le veci del Rettor Maggiore, tale delegazione non diminuisce quel contatto ch’io desidero conservare coi miei carissimi missionari, così lontani e alle volte esposti a così gravi pericoli e sorprese.”

Quando don Bosco finì la sua vita terrena, i salesiani missionari erano presenti in cinque paesi dell’America Latina, in numero di circa 150, fra i 773 salesiani in tutta la Congregazione. Il loro numero crebbe tanto che fino al 1925 erano partiti per le missioni circa 3000 salesiani. Un numero così grande di missionari, con un numero grande anche delle opere missionarie, per non parlare dei beneficiari delle missioni, richiedeva un’organizzazione ingente, tanto nella preparazione di questi generosi salesiani quanto nelle risorse materiali.

Si stavano approntando anche i preparativi per celebrare il cinquantesimo della prima Spedizione Missionaria (1875-1925). A proposito di questo, il Bollettino Salesiano del giugno 1924 scriveva:
“Avvicinandosi il Cinquantenario delle Missioni Salesiane (1875-1925), raccomandiamo a tutti la celebrazione delle Giornate Missionarie a favore delle Missioni Salesiane, per diffonderne la conoscenza e i bisogni, e guadagnare ad esse maggiori simpatie, perché raggiungano quell’appoggio di cui abbisognano quotidianamente.
Ma le Giornate Missionarie non possono raccogliere, d’un tratto, quegli aiuti che sono necessari. I nostri Missionari, ad es., chiedono con quotidiana insistenza — non solo lini e oggetti per l’esercizio del sacro ministero — ma anche, e soprattutto, tele, abiti, calzature, per vestire i piccoli alunni dei numerosi Orfanotrofi e gli altri neofiti, e medicine e mille altre cose necessarie per assistere fraternamente ed iniziare alla vita civile i nuovi cristiani.”

A questo scopo fu necessario fondare un ente giuridico, Istituto Salesiano per le Missioni, che si occupasse delle necessità missionarie. Il suo atto costitutivo fu registrato già il 18 ottobre del 1922 presso il registro notarile di Moncalieri (oggi un comune nell’area metropolitana di Torino), da parte di don Rinaldi, Rettor Maggiore e alcuni suoi collaboratori. Fu un atto di nascita di un ente che rifletteva l’interesse in crescita per le missioni salesiane. Nel 1924 fu riconosciuto civilmente come ente morale, con il decreto reale n. 22 del 13.01.1924.

Lungo un secolo, l’Istituto Salesiano per le Missioni ha fatto da intermediario tra i benefattori e i beneficiati delle missioni. Un bene incalcolabile fatto da tante persone – molte volte in modo nascosto – che hanno voluto partecipare a questa nobile attività e che con certezza saranno copiosamente ricompensate da Dio. Don Bosco sosteneva che la generosità dei benefattori è sempre riscambiata da Dio, e non solo nella vita eterna.

Il compito dell’Istituto Salesiano per le Missioni iniziato cento anni fa non si è fermato, non essendosi fermate le necessità. Continua anche oggi perché l’educazione dei ragazzi, specialmente dei più poveri, è una missione continua. Di benefattori c’è sempre bisogno perché Dio vuol far partecipare tutti alla sua opera salvifica. Dipende da ognuno se vuol essere cooperatore di Dio. E se qualcuno vuole, lo può fare contattando questo istituto ai recapiti indicati in calce.

Istituto Salesiano per le Missioni
Via Maria Ausiliatrice, 32
10152 Torino
CF 00155220494
tel. +39 011.5224.248
istitutomissioni@sdb.org
istitutosalesianoperlemissioni@pec.it




Alberto Marvelli, il cristiano che piaceva anche ai comunisti

Alberto Marvelli (1918-1946), un giovane formato nell’oratorio salesiano di Rimini, ha vissuto la sua breve vita nell’impegno quotidiano di servizio per gli altri, con tutta l’intensità che le permettevano le forze. La sua vita normale ma intensamente cristiana lo ha portato alla santità, essendo beatificato nel 2004 dal papa san Giovanni Paolo II.

Alberto Marvelli, «ingegnere della carità», ha il fascino di una santità straordinariamente normale. Alberto ha un papà direttore di banca e una famiglia cristianissima. È nato a Ferrara nel 1918, ma a 13 anni con la sua famiglia si stabilisce definitivamente a Rimini, seguendo papà nei suoi spostamenti di lavoro. È un ragazzo di salute robusta e di temperamento impetuoso, ma è anche così serio che a tratti fa pensare a un uomo adulto. Il ginnasio lo supera tra tirate di studio e gare sportive clamorose. A 15 anni si iscrive al liceo classico. Ma proprio in quei mesi la famiglia è colpita duramente dalla morte di papà. Lui è già delegato aspiranti e animatore dell’oratorio nella parrocchia Maria Ausiliatrice. Insegna catechismo, anima le adunanze, organizza la messa dei giovani. A soli 18 anni diventerà presidente dell’Azione Cattolica.
Iniziando il liceo, Alberto comincia il suo Diario e scrive: «Dio è grande, infinitamente grande, infinitamente buono». Ma vi registrerà per tutta la vita la sua crescita di uomo e di cristiano. Vi leggiamo un «piccolo schema» rigido e forte che egli si dà. Si propone in particolare: preghiera e meditazione al mattino e alla sera, l’incontro con l’eucaristia, possibilmente anche tutti i giorni, la lotta contro i difetti più grossi: la pigrizia, la gola, l’impazienza, la curiosità… Un programma che Alberto attuerà per tutta la vita.

Studente pendolare
Tra i 60 candidati alla maturità classica Alberto si classifica secondo. Il 1° dicembre 1936 (a 18 anni) inizia il primo anno di ingegneria all’Università di Bologna. Comincia così la vita dello studente pendolare tra Rimini e Bologna. Studio e apostolato in entrambe le città. La donna di servizio della zia che lo ospita a Bologna testimonierà con le parole dei semplici: «Lo vedevo di giorno e di notte ammazzato di lavoro per l’università e l’apostolato. Qualche volta lo trovavo addormentato sui libri e con la corona in mano. Al mattino lo vedevo in chiesa alle 6 per messa e comunione. Se gli impegni non gli consentivano di comunicarsi prima, stava digiuno fino a mezzogiorno. Imponeva una formidabile penitenza al suo appetito».
Mentre Alberto sta terminando l’università, sull’Europa scoppia il ciclone della seconda guerra mondiale. Anche l’Italia vi è coinvolta. Laureando in ingegneria, dall’agosto al novembre 1940 Alberto è a Milano, impiegato nella fonderia Bagnagatti, sotto i primi bombardamenti. L’industriale testimonierà: «Trascorse presso di me alcuni mesi. Familiarizzò subito con tutti i dipendenti e particolarmente con i più giovani e i più umili. S’interessò dei bisogni familiari degli operai e mi prospettò le particolari necessità di ognuno, sollecitando gli aiuti che riteneva opportuni. Visitava gli ammalati, incitava gli apprendisti a frequentare le scuole serali. Infondeva in tutti un immediato e vivo senso di simpatia e cordialità».
30 giugno 1941. Mentre l’Italia inizia il suo secondo anno di guerra, Alberto si laurea in ingegneria industriale con il massimo dei voti. Subito dopo indossa pure lui la divisa grigioverde e parte per fare il soldato.

Il servizio militare e la guerra
Nel rigidissimo gennaio 1943 i russi scatenano l’offensiva su tutto il fronte ovest. L’Armir (armata italiana in Russia), che occupa il fronte sul Don, è costretta a una leggendaria ritirata sugli sconfinati campi ghiacciati, mentre i russi e il gelo uccidono. Lassù è appena arrivato Raffaello Marvelli, ed è ucciso in combattimento. Per mamma Maria è un’ora durissima. Alberto scrive sul Diario parole scarne, sanguinanti: «La guerra è un castigo per la nostra cattiveria, per punire il nostro poco amore a Dio e agli uomini. Manca lo spirito di carità nel mondo, e perciò ci odiamo come nemici invece di amarci come fratelli».
È destinato a una caserma di Treviso. Ed è qui che si compie il «miracolo» di Marvelli. Don Zanotto, parroco di S. Maria di Piave, ha scritto: «Quando l’ingegner Marvelli arrivò a Treviso, nella caserma di duemila soldati, tutti bestemmiavano e la malavita imperava. Dopo qualche tempo nessuno più bestemmiava, dico proprio nessuno, nemmeno i superiori. Il colonnello, da bestemmiatore, si diede a reprimere lui stesso, nei soldati, la bestemmia». In settembre l’Italia si ritira dalla guerra. L’esercito si sfascia. Alberto è a casa. Ma la guerra non è finita. I soldati tedeschi hanno occupato l’Italia, e gli alleati intensificano i bombardamenti sulle nostre città.

Tra i rifugiati a San Marino
Il 1° novembre Rimini è investita dal primo bombardamento aereo. Ne subirà trecento e sarà ridotta a un tappeto di macerie. Occorre fuggire lontano, nella libera Repubblica di San Marino. In poche settimane, quel francobollo di terra libera passa da 14 mila a 120 mila abitanti.
Alberto vi arriva reggendo la cavezza di un asino. Sul calesse è la mamma. Giorgio e Geltrude spingono biciclette cariche di cibo con cui sopravvivere. Vengono accettati in uno dei cameroni del collegio Belluzzi. Altre famiglie sono nei magazzini della Repubblica, moltissime altre si ammucchiano nelle gallerie ferroviarie.
È facilissimo, in momenti come questi, chiudersi in sé stessi, pensare alla sopravvivenza dei propri cari e basta. Alberto è invece al centro dell’assistenza, a disposizione di tutti. Scrive una testimone: «A sera recitava forte il rosario nei cameroni del collegio Belluzzi, poi andava a dormire alla meglio presso i conventuali; e al mattino, nella chiesa zeppa di sfollati, serviva la messa e si comunicava. Poi via di nuovo per tutte le vie e per andare incontro a tutti i bisognosi. Prendeva nota delle necessità, e quando non poteva arrivare, affidava ad altri il lavoro. C’era da andare nelle gallerie da dove la gente non osava uscire». Aggiunge Domenico Mondrone: «Ogni giorno faceva chilometri di strada in bicicletta, raccogliendo roba da mangiare. Talvolta tornò a casa con il tascapane forato dalle schegge di granate che scoppiavano da ogni parte. Ma lui, con gli amici che ne emulavano il coraggio, non si arrestava».

Lo volevano sindaco
21 novembre 1944. Gli alleati entrano in Rimini. Tutto intorno sono paesi e boschi che bruciano, ingorghi di carri, camion, macchine. Morti e desolazione. Alberto vi torna con la famiglia. Trova la sua casa (colpita, ma ancora abitabile) occupata da ufficiali inglesi. I Marvelli si sistemano alla meglio nello scantinato. In quel terribile inverno (l’ultimo di guerra) Alberto diventa servo di tutti. Il Comitato di Liberazione lo incarica dell’ufficio alloggi, il comune gli affida il genio civile per la ricostruzione, il vescovo gli consegna i «Laureati cattolici» della diocesi. I poveri assediano in permanenza le due stanzucce del suo ufficio, lo seguono a casa quando va a mangiare un boccone con sua madre. Alberto non ne allontana mai neppure uno. Dice: «I poveri passino subito, gli altri abbiano la cortesia di aspettare». Dopo la pace, la miseria della gente continua. Nella guerra molti hanno perso tutto.
L’anno 1946 è mangiato giorno per giorno da infinite necessità, tutte urgenti. Alberto va a messa, poi è a disposizione. Alla fine di quell’anno ci sono le prime elezioni amministrative. Battaglie roventi tra comunisti e democratici cristiani. Un comunista, che vede ogni giorno in Marvelli non un democristiano ma un cristiano, dice: «Anche se perde il mio partito… purché risulti sindaco l’ingegnere Marvelli». Non lo diventerà. La sera del 5 ottobre cena in fretta accanto alla mamma, poi esce in bicicletta per tenere un comizio a San Giuliano a Mare. A 200 metri da casa sua, un camion alleato correndo a velocità pazzesca lo investe, lo scaglia nel giardino di una villa e scompare nella notte. Viene raccolto dal filobus. Due ore dopo muore. Ha 28 anni. Quando la sua bara passa per le strade, i poveri piangono e mandano baci. Un manifesto proclama a caratteri cubitali: «I comunisti di Bellariva si inchinano riverenti a salutare il figlio, il fratello, che ha sparso su questa terra tanto bene».

don Mario PERTILE, sdb




“Voglio essere utile al mio popolo”. Lezioni di vita in Africa missionaria

Nel 1995, 28 anni fa, ho lasciato la mia amata Argentina per l’Africa missionaria con lo stesso ideale di Zeffirino Namuncurà: diventare salesiano e sacerdote “utile al mio popolo” nella mia amata Africa.
Ed eccomi qui, seduto sotto un nobile e centenario albero africano, con 36 gradi di temperatura e il 70% di umidità, a riflettere sulla mia vita missionaria. Da qui contemplo la bellissima foresta pluviale dipinta in mille sfumature di verde infinito, traboccante di vita, piena di misteri e di mille domande in attesa di risposta. Un vero e proprio murales multicolore come la mia vita missionaria: tratteggiata in mille colori, dipinta con sfumature e toni diversi, benedetta da sfide e ricompense, da progetti e sogni, da pennellate di luce per sfumare i toni più scuri e difficili della missione.

I primi passi
I miei primi passi in Africa sono stati passi di scoperta e di riverenza. Mi sono detto: “L’Africa è ricca!” e, come un adolescente, me ne sono innamorato a prima vista… Mi sono innamorato della molteplicità dei suoi paesaggi e della sua esuberante geografia, della sua fauna e della sua flora, dei suoi mari e delle sue giungle, delle sue immense savane e dei suoi deserti. È ricca di risorse naturali: oro, diamanti, petrolio, uranio, legname, agricoltura e pesca. Ho capito subito che l’Africa non è povera, ma è gestita molto male. Mi sono innamorato delle sue culture, delle lingue, dei colori, degli odori e dei sapori. Sono stato catturato dai loro ritmi, dalla musica, dalla vibrazione dei timpani, dal suono dei loro strumenti musicali, dalle loro canzoni e dalle loro danze piene di vita. E soprattutto mi sono innamorato della sua gente e dei suoi giovani, perché questa è certamente la sua più grande ricchezza: i suoi bambini, i suoi giovani che rappresentano il presente e il futuro del continente della speranza.

Tentazione missionaria
Quando si è giovani, inesperti, e si arriva in terra di missione con mille aspettative e il cuore pieno di sogni, la prima tentazione è quella di pensare che si viene per “salvare”, che si è un “inviato”, chiamato a “cambiare il mondo”, a “trasformare”, a “insegnare”, a “evangelizzare”, a “guarire”. È lì che la vostra terra promessa vi insegna il valore dell’umiltà. E il tuo popolo ti insegna che, per essere missionario, devi farti piccolo come un bambino, devi nascere di nuovo: devi imparare a parlare nuove lingue, a capire nuovi e diversi costumi, a cambiare stili di vita, modi di pensare e di sentire. In missione si impara a tacere, a ricevere correzioni, ad accettare umiliazioni e a subire shock culturali. Il vero missionario disimpara per imparare di nuovo, fino ad arrivare alla scoperta più bella: è la tua gente, la tua gente che ti “educa”, ti “evangelizza”, ti “trasforma”, ti “guarisce”. Diventano il tuo “Kairos”, il tuo “tempo di Dio”, sono il “luogo teologico” in cui Dio si manifesta a te e finalmente ti “salva”.

Lezioni africane
Dall’emisfero meridionale, l’Africa ha molto da insegnare all’Occidente e al Nord, cristiani e “sviluppati”. Ecco alcune lezioni che ho imparato in Africa.

La prima lezione è “Ubuntu”: “Io sono, perché noi siamo”
Gli africani amano la famiglia, la comunità, lavorare e festeggiare insieme. Sono profondamente generosi e premurosi, sempre pronti a dare una mano a chiunque ne abbia bisogno. Sanno che l’individualista muore nell’isolamento. La saggezza africana lo conferma: “Se cammini da solo, vai più veloce, ma se cammini in gruppo, vai più lontano”. “Ci vogliono tre pietre per tenere la pentola sul fuoco”. “L’albero che è solo appassisce; l’albero che è nella foresta vive”. “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”. E sulla stessa linea: “Ci vuole un intero villaggio per uccidere un cane rabbioso”. “Se due elefanti combattono, è l’erba a perdere”. La vita fraterna e la comunità mantengono in vita la famiglia, il clan e la tribù.

Il secondo è il rispetto per la vita e per gli anziani
Un figlio o una figlia sono sempre una benedizione del cielo, una gioia per tutta la famiglia, e mani per lavorare la terra e per il raccolto. La vita è un dono di Dio. Per questo si dice “dove c’è vita, c’è speranza” e “proteggendo il seme si protegge il raccolto”. E poiché l’aspettativa di vita è bassa, gli anziani sono apprezzati, amati e “curati”. Qui non ci sono case di cura o case di riposo. I nonni sono il patrimonio del villaggio. I bambini si siedono intorno agli anziani per ascoltare le storie ancestrali e la saggezza degli antenati. Ecco perché qui diciamo che “quando muore un anziano, è come se bruciasse una biblioteca” e “se dimentichi gli anziani, dimentichi la tua ombra”.

Il terzo riguarda la sofferenza e la resilienza
La saggezza africana dice che “il dolore è un ospite silenzioso” e afferma che “attraverso la sofferenza si acquisisce saggezza”. Ecco perché si dice che “la pazienza è la medicina per ogni dolore”. Trasformano gli ostacoli in opportunità. Non hanno paura del sacrificio o della morte. Per loro, perdere un raccolto, un bene materiale, una persona cara, è un’opportunità per ricominciare, per creare qualcosa di nuovo. Sanno che non si ottiene nulla senza sforzo e sacrificio; che l’unico modo per avere successo è entrare dalla porta stretta e benedicono Dio che dà e toglie allo stesso tempo.

Una quarta lezione riguarda la spiritualità e la preghiera
Gli africani sono “spirituali” per natura. Sono disposti a dare la vita per ciò in cui credono. Dio è onnipresente nella loro vita, nella loro storia, nei loro discorsi, nelle loro celebrazioni. Ogni attività inizia con una preghiera e finisce con una preghiera. Ecco perché i loro proverbi dicono: “Quando preghi, muovi i piedi”, “non guardare a Dio solo quando sei nei guai” e “dove c’è preghiera, c’è speranza”. Se non si prega, la vita diventa insipida e sterile. Pregano come se “tutto dipendesse da Dio, sapendo che alla fine tutto dipende da loro”, come direbbe un grande santo africano.

Nella mia vita missionaria, io sono missione
In tre decenni abbiamo costruito scuole e centri di formazione professionale, edificato chiese e santuari, cappelle e centri comunitari, fatto interventi di emergenza durante le guerre civili in Sierra Leone e Liberia, aperto case per i bambini soldato, aiutato gli orfani dell’Ebola, fornito assistenza ai bambini di strada o alle ragazze che si prostituiscono. Ma queste attività non si identificano con la missione. I frutti dell’attività missionaria si misurano in termini di trasformazione della vita. E in questo senso confesso di aver visto miracoli: ho visto bambini soldato ricostruire la loro vita, ho visto bambini di strada diventare avvocati all’università, li ho visti sorridere di nuovo e tornare a scuola, ho visto ragazze in prostituzione tornare dalle loro famiglie, imparare un mestiere e ricominciare.

Come dice papa Francesco, “non abbiamo una missione, o facciamo missione”. Noi siamo missione. Io sono la missione. La mia missione è essere il “sacramento dell’amore di Dio” per i più vulnerabili. Cioè, che loro, attraverso le mie mani, i miei occhi, le mie orecchie, le mie gambe, il mio cuore, possano sperimentare che Dio li ama follemente, che dà loro la vita, attraverso la mia vita donata a loro. Questo è ciò che significa per me essere missionario salesiano. Per questo sono missione quando mi inginocchio davanti all’Eucaristia chiedendo la loro salvezza; sono missione quando sono in cortile o in casa ad accompagnare i bambini, sono missione quando viaggio per raggiungere le zone più lontane e pericolose, sono missione quando celebro l’Eucaristia, ascolto le confessioni o battezzo. Sono missione quando mi siedo a leggere o a studiare pensando a loro. Sono in missione quando metto insieme un piano strategico con i miei fratelli e sorelle o scrivo un progetto per migliorare la qualità della vita della mia gente. Sono in missione quando costruisco una scuola o una cappella. Sono missione quando condivido la mia vita con voi che state leggendo.

Tutti siamo missionari per vocazione
Cari amici, con il battesimo siamo tutti chiamati a essere missionari, a essere missione. Non dobbiamo andare in Africa per essere missionari. La chiamata missionaria è una chiamata interiore a lasciare tutto, a dare tutto dove Dio ci ha piantato. Non per dare cose, ma per “darsi”, per “condividere” il mio tempo, i miei talenti, la mia fede, la mia professionalità, il mio amore, il mio servizio con i più vulnerabili. Se sentite questa chiamata, non rimandate. La carità di Cristo e l’urgenza del Regno vi chiamano.

don Jorge Mario CRISAFULLI, sdb, ispettore Africa Niger Niger




Luigi Variara – fondatore fondato

Fondato in uno sguardo che segna una vita
            Luigi Variara nacque il 15 gennaio 1875 a Viarigi (Asti). In questo paese nel 1856 era venuto Don Bosco per predicare una missione. E fu a Don Bosco che il papà, il 1° ottobre 1887, affidò suo figlio affinché lo conducesse a Valdocco. Il Santo dei giovani morirà quattro mesi dopo, ma la conoscenza che Luigi ne fece fu sufficiente a segnarlo per tutta la vita. Egli stesso così ricorda l’evento: “Eravamo nella stagione invernale e un pomeriggio stavamo giocando nell’ampio cortile dell’oratorio, quando all’improvviso s’intese gridare da una parte all’altra: ‘Don Bosco, don Bosco!’. Istintivamente ci slanciammo tutti verso il punto dove appariva il nostro buon Padre, che facevano uscire per una passeggiata nella sua carrozza. Lo seguimmo fino al posto dove doveva salire sul veicolo; subito si vide don Bosco circondato dall’amata turba infantile. Io cercavo affannosamente il modo per mettermi in un posto da dove potessi vederlo a mio piacere, poiché desideravo ardentemente di conoscerlo. Mi avvicinai più che potei e, nel momento in cui lo aiutavano a salire sulla carrozza, mi rivolse un dolce sguardo, e i suoi occhi si posarono attentamente su di me. Non so ciò che provai in quel momento… fu qualcosa che non so esprimere! Quel giorno fu uno dei più felici per me; ero sicuro d’aver conosciuto un Santo, e che quel Santo aveva letto nella mia anima qualcosa che solo Dio e lui potevano sapere”.
            Chiese di farsi salesiano: entrò in noviziato il 17 agosto 1891 e lo concluse il 2 ottobre 1892 con i voti perpetui nelle mani del beato Michele Rua, il quale gli sussurrò all’orecchio: “Variara, non variare!”. Fece gli studi di Filosofia a Valsalice, dove conobbe il venerabile don Andrea Beltrami. Qui nel 1894 passò don Michele Unia, il celebre missionario che da poco aveva cominciato a lavorare tra i lebbrosi di Agua de Dios, in Colombia. “Quale non fu il mio stupore e la mia gioia – racconta lo stesso don Variara – quando, tra i 188 compagni che avevano la stessa aspirazione, fissando il suo sguardo su di me, disse: ‘Questo è mio’”.
            Giunse ad Agua de Dios il 6 agosto 1894. Il lazzaretto comprendeva 2.000 abitanti di cui 800 lebbrosi. S’immerse totalmente nella propria missione. Dotato di capacità musicali, organizzò una banda che creò subito un clima di festa nella “Città del dolore”. Trasformò la tristezza del lazzaretto con l’allegria salesiana, con la musica, il teatro, lo sport, lo stile di vita dell’oratorio salesiano.
            Il 24 aprile 1898 fu ordinato sacerdote e si rivelò presto un ottimo direttore di spirito. Fra le sue penitenti c’erano anche i membri dell’Associazione delle Figlie di Maria, un gruppo di circa 200 ragazze di cui molte lebbrose. Fu davanti a questa constatazione che nacque in lui la prima idea di giovani consacrate, anche se lebbrose. La Congregazione delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria ebbe inizio il 7 maggio 1905. Fu “fondatore” a partire dalla sua realtà di “fondato” nella sottomissione piena all’obbedienza religiosa e, caso unico nella storia della Chiesa, fondò la prima comunità religiosa composta da persone colpite dalla lebbra o figlie di malati di lebbra. Scriveva: “Mai mi son sentito contento di essere Salesiano come quest’anno e benedico il Signore per avermi mandato in questo lazzaretto, dove ho imparato a non lasciarmi rubare il cielo”.
            Erano trascorsi dieci anni da quando era giunto ad Agua de Dios: un decennio felice e ricco di realizzazioni, tra le quali l’ultimazione dell’asilo “Don Michele Unia”. Ora però si apriva un periodo di sofferenze e d’incomprensioni per il generoso missionario. Questo periodo durerà 18 anni, fino alla morte avvenuta a Cúcuta in Colombia il 1° febbraio 1923 a 48 anni d’età e 24 di sacerdozio.
            Don Variara seppe coniugare in sé sia la fedeltà all’opera che il Signore gli chiedeva, sia la sottomissione agli ordini che gli impose il suo superiore legittimo e che sembravano allontanarlo dalle vie volute da Dio. È stato beatificato da papa Giovanni Paolo II il 14 aprile 2002.

Fondato in un’amicizia spirituale
            A Torino-Valsalice don Variara conobbe il venerabile Andrea Beltrami, un sacerdote salesiano colpito dalla tisi, che si era offerto vittima a Dio per la conversione di tutti i peccatori del mondo. Tra don Variara e don Beltrami nasce un’amicizia spirituale e don Variara s’ispirerà a lui quando fonderà in Colombia la congregazione delle Figlie dei Santissimi Cuori di Gesù e di Maria a cui proporrà la «consacrazione vittimale».
            Il Venerabile Andrea Beltrami è l’apripista della dimensione vittimale-oblativa del carisma salesiano: “La missione che Dio mi affida è di pregare e di soffrire”, diceva. “Né guarire né morire, ma vivere per soffrire”, fu il suo motto. Esattissimo nell’osservanza della Regola, ebbe un’apertura filiale con i superiori e un amore ardentissimo a don Bosco e alla Congregazione. Il suo letto diventerà altare e cattedra, in cui immolarsi insieme a Gesù e da cui insegnare come si ama, come si offre e come si soffre. La sua cameretta diventa tutto il suo mondo, da cui scrive e in cui celebra la sua cruenta Messa: “Mi offro vittima con Lui, per la santificazione dei sacerdoti, per gli uomini del mondo intero”, ripete; ma la sua salesianità lo spinge ad intrattenere anche rapporti con il mondo esterno. Si offrì come vittima d’amore per la conversione dei peccatori e per la consolazione dei sofferenti. Don Beltrami colse in pieno la dimensione sacrificale del carisma salesiano, voluta dal fondatore don Bosco.
            Le figlie di don Variara così scrissero di don Beltrami: «Siamo povere giovani colpite dal terribile male della lebbra, violentemente strappate e separate dai nostri genitori, private in un solo istante delle nostre più vive speranze e dei nostri più ardenti desideri… Abbiamo sentito la mano carezzevole di Dio nei santi incoraggiamenti e nelle pietose industrie di Don Luigi Variara di fronte ai nostri acuti dolori del corpo e dell’anima. Persuase che sia volontà del Sacro Cuore di Gesù e trovando facile il modo di compierla, abbiamo cominciato ad offrirci come vittime di espiazione, seguendo l’esempio di Don Andrea Beltrami, salesiano».

Fondato nei Cuori di Gesù e di Maria
            Fondatore … fondato, dell’Istituto delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. Nella sua vita incontrò grandi difficoltà, come nel 1901 quando si stava costruendo la casa “Don Miguel Unia”, ma si affidò alla Vergine scrivendo: “Ora più che mai ho fiducia nel successo di questo lavoro, Maria Ausiliatrice mi aiuterà”; “Ho soldi solo per pagare una settimana, quindi … Maria Ausiliatrice penserà, perché il lavoro è nelle sue mani”. Nei momenti dolorosi Padre Variara ha rinnovato la sua devozione alla Vergine, trovando così la serenità e la fiducia in Dio per continuare la sua missione.
            Nei grandi ostacoli incontrati per fondare la Congregazione delle Figlie dei Sacri Cuori, Padre Variara ha agito nello stesso modo delle altre volte. Al momento di doversi allontanare da Agua de Dios. Allo stesso modo ha agito quando gli è stato detto che aveva contratto la lebbra. “Alcuni giorni, confessò, la disperazione mi assale, con pensieri che mi affretto ad allontanare invocando la Vergine”. E alle sue figlie spirituali, lontano e rimosso dalla sua guida paterna, scrive: “… Gesù sarà la vostra forza, e Maria Ausiliatrice vi spalancherà il suo mantello. “Non ho illusioni, scrisse in un’altra occasione, lascio tutto nelle mani della Vergine”. “Possano Gesù e Maria essere benedetti mille volte, vivere sempre nei nostri cuori”.




Zatti buon samaritano, per malati, medici e infermieri (video)

«Zatti-hospital»
Zatti e l’ospedale erano un binomio inscindibile. Padre Entraigas ricorda che quando c’era una chiamata telefonica il coadiutore rispondeva quasi a scatto: «Zatti-Hospital». Senza darsene conto egli esprimeva la realtà inscindibile tra la sua persona e l’ospedale. Divenuto responsabile dell’ospedale nel 1913 dopo la morte di padre Garrone e l’abbandono della Congregazione da parte di Giacinto Massini, egli poco a poco ne assunse ogni compito, ma fu prima di tutto e inconfondibilmente l’«infermiere» del San José. Non procedette alla buona nella preparazione, ma cercò di perfezionare anche con lo studio personale quanto aveva appreso empiricamente. Continuò a studiare per tutta la vita e soprattutto acquisì un’esperienza di grande livello grazie ai 48 anni di pratica al San José. Il dottor Sussini, che fu tra coloro che lo praticarono più a lungo, dopo aver affermato che Zatti curava i malati «con santa vocación» aggiunge: «Per quanto ne so, il Sig. Zatti, da quando lo conobbi, essendo uomo maturo, già formato, non aveva trascurato la sua cultura generale, né le sue conoscenze di infermieristica e di farmacista preparatore».
Padre De Roia così parla dell’aggiornamento professionale di Zatti: «A proposito di formazione culturale e professionale ricordo di aver visto libri e pubblicazioni di medicina e di avergli chiesto una volta quando li leggesse, mi rispose che lo faceva di notte o durante l’ora della siesta dei malati, una volta che aveva finito i suoi compiti in ospedale. Mi ha anche detto che il dottor Sussini a volte gli prestava qualche libro e ho visto che consultava spesso il “Vademecum e ricettari”».
Il dottor Pietro Echay afferma che per Zatti «el Hospital era un Santuario». Padre FelicianoLópez così descrive la posizione di Zatti all’ospedale, dopo lunga consuetudine con lui: «Zatti era un uomo di governo, sapeva esprimere con chiarezza quello che voleva, ma accompagnava l’azione di governo con dolcezza, rispetto e gioia. Mai perdeva la calma, anzi, bonariamente minimizzava le cose, ma il suo esempio di operosità era travolgente e più che un direttore, senza titolo, era diventato una specie di lavoratore universale; a parte questo, avanzò rapidamente in competenza professionale, fino a raggiungere anche il rispetto dei medici e ancor più dei subordinati: per questo non ho mai sentito dire che in quel piccolo mondo di 60 o 70 ricoverati, nei primi tempi parecchie suore, donne che prestavano il loro servizio ed alcune infermiere, non regnasse sempre la pace, e anche se, come è logico, a volte c’erano delle liti, queste non degeneravano grazie alla prudenza di Zatti che sapeva rimediare alle deviazioni».
L’Ospedale San José era un particolare santuario della sofferenza umana dove Artemide in ogni fratello e sorella in difficoltà abbracciava e curava la carne sofferente di Cristo, dando senso e speranza al soffrire umano. Zatti – e con lui tanti uomini e donne di buona volontà – ha incarnato la parabola del Buon Samaritano: si è fatto prossimo, ha teso la mano, ha sollevato, ha curato. Per lui ogni infermo era come un figlio da amare. Uomini e donne, grandi e piccoli, ricchi e poveri, intelligenti e ignoranti tutti erano trattati in modo rispettoso e amabile, senza infastidirsi o respingere quelli insolenti e poco simpatici. Era solito dire: «A volte ti può capitare uno con una faccia simpatica, altre volte uno antipatico, però davanti a Dio siamo tutti uguali».
Se c’era povertà di mezzi, e se poveri erano molti di coloro che erano ricoverati, tuttavia Zatti all’ospedale, dati i tempi, i luoghi e le situazioni di tutti gli ospedali anche nazionali di allora, seguiva le corrette norme di sanità e igiene. Si procedeva allora con criteri più larghi, ma non risulta affatto che il salesiano coadiutore, come infermiere, verso i malati abbia mancato di giustizia e di carità. Aveva buona cultura per il suo compito e buona esperienza, sapeva quello che doveva fare e i limiti delle sue competenze, non c’è ricordo di qualche errore, di qualche trascuratezza o di qualche accusa contro di lui. Il dottor Sussini ha affermato: «Negli interventi con i malati sempre rispettava le norme legali, senza eccedere nei suoi poteri […]. Tengo a precisare che in tutti i suoi interventi consultava qualche medico tra quelli che stavano sempre al suo fianco per sostenerlo. Per quanto ne so, non ha effettuato nessun intervento difficile […]. È certo che usava le prescrizioni igieniche stabilite, anche se talvolta, data la sua grande fede, le riteneva eccessive. Lo scenario socioeconomico in cui il Sig. Zatti svolse principalmente la sua attività era di scarsa economia e istruzione e in genere di bassa istruzione. Nella sua azione all’interno dell’ospedale metteva in pratica le consolidate conoscenze di igiene e tecnica che già conosceva e altre che apprendeva chiedendo ai professionisti. Fuori dall’ospedale, la sua azione era più difficile poiché modificare l’ambiente esistente era molto difficile e al di là dei suoi sforzi».
Luigi Palma allarga la sua considerazione: «Era voce corrente a Viedma la discrezione e la prudenza del comporta-mento del Sig. Zatti; d’altra parte, qualsiasi abuso in questa materia sarebbe rapidamente risaputo in un piccolo agglomerato come Viedma e non si è mai sentito nulla. Il Sig. Zatti non ha mai ecceduto dalla sua competenza. Non credo che abbia eseguito operazioni difficili. Se ci fosse stato qualche abuso, i medici l’avrebbero segnalato, ma questi non hanno fatto altro che elogiare l’opera di Zatti […]. Il Sig. Zatti utilizzava le dovute precauzioni igieniche. Lo so perché mi ha curato in più occasioni: iniezioni o piccole cure con tutta la diligenza del caso».
A un uomo che ha speso tutta la vita con enorme sacrificio per i malati, che era ricercato da loro come una benedizione, che ha conquistato la stima di tutti i dottori che hanno collaborato con lui e contro cui mai poté essere elevata una voce di accusa, risulterebbe ingiusto rinfacciare qualche libertà che la sua esperienza e prudenza gli potevano permettere in qualche particolare circostanza: l’esercizio sublime della carità, anche in questo caso, valeva più dell’osservanza di una prescrizione formale.

Con il cuore di don Bosco
In Zatti si realizzato ciò che Don Bosco aveva raccomandato ai primi missionari salesiani in partenza per l’Argentina: «Prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri, e guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini». Zatti come Buon Samaritano ha accolto nella locanda del suo cuore e nell’Ospedale San José di Viedma i poveri, gli infermi, gli scartati dalla società. In ciascuno di essi ha visitato Cristo, ha curato Cristo, ha alimentato Cristo, ha vestito Cristo, ha ospitato Cristo, ha onorato Cristo. Come testimoniò un medico dell’ospedale: «L’unico miracolo che ho visto nella mia vita è il Sig. Zatti, per la straordinarietà del suo carattere, la capacità di servizio al prossimo e la straordinaria pazienza con gli infermi».
Zatti seppe riconoscere in ogni fratello, in ogni sorella, in ogni persona soprattutto povera e bisognosa che incontrava un dono: riuscirà a vedere in ciascuno di loro il volto luminoso di Gesù. Quante volte esclamerà accogliendo un povero o un infermo: «Gesù viene! – Cristo arriva!». Questo tener fisso lo sguardo su Gesù, soprattutto nell’ora della prova e della notte dello spirito, sarà la forza che gli permetterà di non cadere prigioniero dei propri pensieri e delle proprie paure.
Nell’esercizio di tale carità, Zatti faceva trasparire l’abbraccio di Dio per ogni uomo, in particolare per gli ultimi e i sofferenti, coinvolgendo cuore, anima e tutto il suo essere, perché viveva con i poveri e per i poveri. Non era semplice prestazione di servizi, ma manifestazione tangibile dell’amore di Dio, riconoscendo e servendo nel povero e nell’ammalato il volto del Cristo sofferente con la delicatezza e la tenerezza di una madre. Vivendo con i poveri praticava la carità con spirito di povertà. Non era un funzionario o un burocrate, un prestatore di servizi, ma un autentico operatore di carità: e nel vedere, riconoscere e servire Cristo nei poveri e negli esclusi, educava anche gli altri. Quando chiedeva qualcosa, lo chiedeva per Gesù: «Mi dia un vestito per un Gesù vecchietto»; «Mi dia dei vestiti per un Gesù di 12 anni!».
Impossibile non ricordare le sue avventure in bicicletta, i suoi giri instancabili, con il suo classico spolverino bianco con le estremità annodate e allacciato in vita, salutato con tenero affetto da quanti incontrava sul suo cammino. Nel lento procedere con la bicicletta aveva tempo per tutto: il saluto affettuoso, la parola cordiale, il consiglio misurato, qualche indicazione terapeutica, un aiuto spontaneo e disinteressato: le sue ampie tasche erano sempre piene di medicinali, che distribuiva a piene mani ai bisognosi. Raggiungeva personalmente coloro che lo chiamavano, prodigando non solo le sue conoscenze mediche, che possedeva ben solide, ma anche la fiducia, l’ottimismo, la fede che irradiava il suo sorriso costante, ampio e dolce e la bontà del suo sguardo; l’infermo gravemente ammalato che riceveva la visita del Sig. Zatti ne sentiva il sollievo imponderabile che gli dispensava colui che stava al suo fianco; l’infermo che moriva con la presenza di Zatti lo faceva senza angosce né contorsioni. La carità dispensata tanto generosamente per le strade fangose di Viedma ha ben meritato che Artemide Zatti fosse ricordato in città con una via, un ospedale e un monumento a suo nome.
Esercitava un apostolato spicciolo che dava la misura della sua carità, ma che comportava per lui tempo, lavoro, difficoltà e fastidi molteplici. Siccome era a tutti nota la sua bontà e la sua buona volontà nel servire gli altri, tutti si rivolgevano a lui per le cose più disparate. I direttori salesiani delle case dell’ispettoria scrivevano per consigli medici, gli mandavano confratelli da assistere, affidavano al suo ospedale persone di servizio diventate inabili. Le Figlie di Maria Ausiliatrice non erano da meno dei salesiani nel chiedere favori. Gli emigranti italiani chiedevano aiuti, facevano scrivere in Italia, sollecitavano pratiche. Coloro che erano stati ben curati all’ospedale, quasi fosse espressione di gratitudine, gli inviavano parenti e amici da assistere per la stima che avevano delle sue cure. Le autorità civili avevano spesso persone inabili da sistemare e ricorrevano a Zatti. I carcerati e altre persone, vedendolo in buoni rapporti con le autorità, si raccomandavano perché chiedesse clemenza per loro o facesse procedere la soluzione dei loro problemi.
Un fatto che esprime bene la forza autorevole di Zatti nell’incidere nella vita delle persone con la sua testimonianza evangelica e la parola persuasiva è la conversione di Lautaro Montalva. Costui, detto il Cileno dal paese d’origine, era un rivoluzionario, sfruttato dai soliti agitatori politici. Diffondeva riviste contro la religione. Abbandonato infine da tutti, cadde in miseria e fu ridotto in fin di vita, con una numerosa famiglia. Solo Zatti ebbe il coraggio di entrare nella sua stamberga di legno, resistere alla sua prima reazione di ribellione e conquistarlo con la sua carità. Il rivoluzionario si ammansì e chiese di essere battezzato: furono battezzati anche i suoi figli. Zatti lo ricoverò all’ospedale. Poco prima di morire aveva chiesto al parroco: «Datemi i sacramenti che deve ricevere un cristiano!». La conversione del Montalva fu una conquista della carità e del coraggio cristiano di Zatti.
Zatti fa della missione a servizio dei malati il proprio spazio educativo dove incarnare quotidianamente il Sistema preventivo di Don Bosco – ragione, religione, amorevolezza – nella vicinanza e assistenza ai bisognosi, nell’aiuto a comprendere e accettare le situazioni dolorose della vita, nella testimonianza viva della presenza del Signore.

Zatti infermiere
Il profilo professionale di Artemide Zatti, iniziato con una promessa, era radicato nella fiducia nella Provvidenza e si sviluppò una volta guarito dalla malattia. La frase “Credetti, Promisi, Guarii”, motto della sua canonizzazione, mostra la totale dedizione che Zatti aveva per i suoi fratelli malati, i più poveri e bisognosi.
Questo impegno lo portò avanti quotidianamente fino alla sua morte nell’ospedale di San José, fondato dai primi salesiani arrivati in Patagonia, e lo ribadiva durante in ogni visita domiciliare, urgente o meno, che faceva ai malati che avevano bisogno di lui.
In bicicletta, nel suo ufficio di amministratore, in sala operatoria, nel cortile durante la ricreazione con i suoi poveri “parenti”, nei reparti dell’ospedale che visitava ogni giorno, era sempre un infermiere; un santo infermiere dedito a curare e alleviare, portando la migliore medicina: la presenza allegra e ottimista dell’empatia.

Una persona e una squadra che fanno del bene
Era la fede che spingeva Artemide Zatti ad un’attività instancabile, ma ragionevole. La sua consacrazione religiosa lo aveva introdotto direttamente e completamente nella cura dei poveri, dei malati e di coloro che hanno bisogno della salute e della consolazione misericordiosa di Dio.
Il sig. Zatti lavorava nel mondo della sanità a fianco di medici, infermieri, personale sanitario, Figlie di Maria Ausiliatrice e di tante persone che collaborarono con lui al sostegno dell’ospedale San José, il primo della Patagonia argentina, nella Viedma della prima metà del XX secolo.
La tubercolosi che contrasse all’età di vent’anni non fu un ostacolo a perseverare nella sua scelta professionale. Egli trovò nella figura del salesiano coadiutore lo stile dell’impegno a lavorare direttamente con i poveri. La sua consacrazione religiosa, vissuta nella sua professione di infermiere, è stata la combinazione della sua vita dedicata a Dio e ai fratelli. Naturalmente questo si è manifestato in una personalità peculiare, unica e irripetibile. Artemide Zatti era una persona buona, che lavorava direttamente con i poveri, facendo del bene.

Il contatto diretto con i poveri era finalizzato alla salute, cioè a lenire il dolore, a sopportare la sofferenza, ad accompagnare gli ultimi momenti della loro vita, ad offrire un sorriso di fronte all’irreversibile, a dare una mano con speranza. Per questo motivo, Zatti divenne una “presenza-medicina”: curava direttamente con la sua gradevole presenza.
Il suo principale biografo, il salesiano Raul Entraigas, ha fatto una scoperta originale. Individuò nella frase di un compaesano la sintesi della vita di Artemide Zatti: sembra essere “il parente di tutti i poveri”. Zatti vede Gesù stesso negli orfani, nei malati e negli indigeni. E li trattava con tanta vicinanza, apprezzamento e amore, che sembrava che fossero tutti suoi familiari.

Formarsi per aiutare
Vedendo i bisogni del villaggio, Zatti perfezionò la sua professione. Gradualmente divenne responsabile dell’ospedale, studiò e convalidò le sue conoscenze con lo Stato quando gli venne richiesto. I medici che lavoravano con Artemide, come i dottori Molinari e Sussini, testimoniano che Zatti possedeva una grande conoscenza medica, frutto non solo della sua esperienza, ma anche dei suoi studi.
Don De Roia aggiunge: “Per quanto riguarda la sua formazione culturale e professionale, ricordo di aver visto libri e pubblicazioni di medicina e, chiedendogli una volta quando li leggeva, mi disse che lo faceva la sera o durante il riposo pomeridiano dei pazienti, una volta finite tutte le mansioni all’Ospedale”.
Esiste a tal proposito un documento, “Credenziali Professionali”, rilasciato dalla Segreteria della Salute Pubblica della Nazione Argentina con tanto di matricola professionale di infermiere numero 07253. Furono gli studi che aveva realizzato all’Università Nazionale di La Plata nel 1948, all’età di 67 anni. A ciò si aggiunge una precedente certificazione, nel 1917, come “Idoneo” in Farmacia.
Il suo stile di vita lo portò ad un impegno in cui incontrava direttamente i poveri, i malati, i più bisognosi. Per questo la professione infermieristica aveva un valore aggiunto: la sua presenza era una testimonianza della bontà di Dio. Questo semplice modo di guardare la realtà possa aiutare a capire meglio la vita di Zatti, prestando particolare attenzione al termine “direttamente”.
In questa prospettiva troviamo ciò che di più genuino c’è in Zatti, che evidenzia ciò che si definisce “vita religiosa” o “consacrazione”. Per questo Artemide è un salesiano santo. È un infermiere santo. Questa è l’eredità che ha lasciato a tutti. E questa è la sfida che lancia a tutti e che invita a raccogliere.

1908
Guarita la salute, Zatti entrò nella Congregazione Salesiana come coadiutore. Inizia ad occuparsi della farmacia dell’ospedale San José, l’unico a Viedma.
1911
Dopo la morte di don Evasio Garrone, direttore dell’ospedale, Zatti resta a capo della farmacia e dell’ospedale, il primo in Patagonia. Ci ha lavorato per quarant’anni.
1917
Ha conseguito il titolo di “Idóneo in Farmacia” presso l’Università di La Plata.
1941
L’edificio dell’ospedale viene demolito. Pazienti e professionisti si trasferiscono con Zatti alla scuola agraria “San Isidro”.
1948
Zatti ottiene l’iscrizione all’Infermieristica presso l’Università di La Plata.

Zatti con i medici: era un padre!
Tra i principali collaboratori di Zatti all’Ospedale San José vi furono i medici. I rapporti erano delicati, perché un medico era il direttore dell’ospedale dal punto di vista legale e aveva la responsabilità professionale sui malati. Zatti aveva la responsabilità organizzativa e infermieristica e potevano sorgere contrasti. Dopo i primi anni, a Viedma, capitale del Rio Negro, e a Patagones vennero parecchi medici e Zatti doveva servirsi delle loro specializzazioni all’ospedale senza destare rivalità. Agì in modo tale da conquistare la stima di tutti per la sua bontà e competenza. Nella documentazione troviamo i nomi dei direttori dottor Riccardo Spurr e dottor Francesco Pietrafraccia; poi di Antonio Gumersindo Sussini, di Ferdinando Molinari, di Pietro Echay, di Pasquale Attilio Guidi e Giovanni Cadorna Guidi, che deporranno circa la santità di Zatti; e infine di Harosteguy, di Quaranta e Cessi. Altri certo ce ne furono, più di passaggio, perché, dopo un periodo di tirocinio, i medici aspiravano a sedi più centrali e sviluppate. È unanime il riconoscimento che Zatti, come infermiere, era sottomesso alle indicazioni e norme dei dottori: presso tutti aveva un gran prestigio per la sua bontà e non destava rimostranze per l’assistenza da lui prestata ai malati degenti nella propria casa. Il dottor Sussini che lo seguì fino alla morte ha dichiarato: «Tutti i medici, nessuno escluso, gli manifestavano affetto e rispetto per le sue virtù personali, per la sua bontà, la sua misericordia e la sua fede pura, sincera e disinteressata»[i].
Il dottor Pasquale Attilio Guidi ha precisato: «Sempre corretto, seguiva le disposizioni dei medici. Ricordo che il dottor Harosteguy, che era abbastanza “contestatore”, nervoso, quando ero presente durante un’operazione, a volte incolpava il Sig. Zatti dei suoi problemi; ma alla fine delle operazioni lo accarezzava e gli chiedeva scusa. Così capivamo che non c’era tanta lamentela contro Zatti. Zatti era una persona stimata da tutti»[ii]. La figlia del dottor Harosteguy e il dottor Echay confermano il carattere forte di Harosteguy e gli ingiustificati scatti contro Zatti che lo conquistava con la sua sopportazione. Anzi proprio il dottor Harosteguy, quando si ammalerà, solo a Zatti permetterà di vistarlo, gradendo e apprezzando la sua presenza e vicinanza.
Il dottor Molinari testimoniò: «Il Sig. Zatti rispettava il corpo medico e ne seguiva rigorosamente le istruzioni. Ma dato il gran numero di pazienti che richiedevano esclusivamente il suo intervento, dovette agire molte volte spontaneamente, ma sempre sulla base delle sue grandi conoscenze, della sua esperienza e secondo le proprie conoscenze mediche. Mai osò un intervento chirurgico difficile. Sempre chiamava il dottore. Noi medici abbiamo avuto affetto, rispetto e ammirazione per il Sig. Zatti. Era generale questo sentimento […] Direi che i pazienti “adoravano” il Sig. Zatti e avevano cieca fiducia in lui»[iii].
Il dottor Echay fa questa singolare constatazione: «Con tutto il personale dell’ospedale Zatti era un padre; anche con noi medici più giovani era un buon consigliere»[iv]. A proposito delle visite che Zatti faceva in città, dice il dottor Guidi: «I medici non hanno mai visto negativamente quest’opera di Zatti, ma come collaborazione. […]. I pazienti da lui assistiti gli eleverebbero un monumento»[v].
Anche gli estranei videro sempre stretti rapporti di collaborazione e di stima tra Zatti e i dottori, come testimonia padre López: «Il comportamento del Sig. Zatti verso i dottori era da loro giudicato con spirito di cordiale accoglienza. Tutti i medici con cui ho parlato ne erano, senza eccezione, suoi ammiratori»[vi]. E ancora lo stesso padre López: «C’è sempre stata fama di amabilità di Zatti nei confronti dei dottori, la sua tolleranza e umanità di fronte alle scortesie tipiche di molti medici; in particolare il dottor Harosteguy era un uomo violento e la virtù di Zatti nei suoi confronti si può dedurre perché divenne un ammiratore di Zatti, con sfumature di venerazione»[vii]. Oscar Garcia usa un’espressione efficace: «I medici collaboravano con l’ospedale in buona parte perché lì c’era il Sig. Zatti con una carità che trascinava i cuori»[viii]. La sua vita scuoteva l’indifferenza religiosa di qualcuno di essi: «Quando vedo Zatti vacilla la mia incredulità»[ix]. In non pochi casi c’erano conversioni e inizi di vita cristiana.

Zatti e le infermiere: per noi era tutto!
Il gruppo più numeroso per il servizio dell’ospedale era costituito dalle collaboratrici femminili. Il San José aveva in certi momenti fino a 70 letti: è naturale che fossero necessarie infermiere professionalmente preparate, aiutanti di cucina, lavandaie e stiratrici, incaricate della pulizia e altro personale. Per le occupazioni più umili e ordinarie non era difficile trovare personale, perché la popolazione aveva molti elementi poveri e una sistemazione di lavoro all’ospedale sembrava apparire particolarmente ambita e sicura. Più difficile doveva essere trovare le infermiere per le quali, forse in tutta la nazione e certamente in Patagonia, non esistevano scuole di preparazione. Zatti dovette provvedere da sé: scegliere, formare, organizzare, assistere le infermiere, procurare i mezzi di lavoro, pensare a una ricompensa, a tal punto che egli risulta essere iniziatore nella formazione del personale femminile dell’ospedale.
La Provvidenza faceva giungere all’ospedale diverse giovani buone, ma povere, che dopo essere state assistite e guarite cercavano una sistemazione nella vita. Zatti si rendeva conto della loro bontà e disponibilità; mostrava col suo esempio e con la sua parola come fosse bello servire il Signore nei fratelli malati; e poi avanzava la proposta discreta di fermarsi con lui e condividere la missione all’ospedale. Le ragazze più buone sentivano la grandezza e la gioia di questo ideale e restavano al San José. Zatti si prendeva la responsabilità di prepararle professionalmente e – da buon religioso –ne curava la formazione spirituale. Esse vennero così a costituire in gruppo una specie di congregazione senza voti, di anime elette che sceglievano di servire i poveri. Zatti dava loro tutto il necessario per la vita, anche se ordinariamente non le pagava, e pensava a una buona sistemazione qualora volessero lasciare il servizio all’ospedale. Non dobbiamo pensare che la situazione in quei tempi richiedesse tutte le garanzie che oggi esigono le strutture ospedaliere. Per quelle ragazze la soluzione offerta da Zatti dal punto di vista materiale era invidiabile non meno che dal punto di vista spirituale. Di fatto esse erano contente e quando fu chiuso l’Ospedale San José, o prima, per nessuna fu difficile trovare una buona sistemazione. Coralmente manifestarono sempre espressioni di riconoscenza.
Padre Entraigas ricorda 13 nomi del personale femminile che in tempi diversi ha lavorato all’ospedale. Tra i documenti sono raccolte le relazioni delle infermiere: Noelia Morero, Teodolinda Acosta, Felisa Botte, Andrea Rafaela Morales, Maria Danielis. Noelia Morero racconta la sua storia, che fu identica a quella di parecchie altre infermiere. Giunse al San José malata: «Qui sono stata malata e poi ho iniziato a collaborare fino alla fine del 1944, quando mi sono trasferita all’Ospedale Nazionale Regionale di Viedma, aperto nel 1945 […]. Zatti era molto amato e rispettato da tutto il personale e dai pazienti; era “il panno delle lacrime” di tutti. Non ricordo lamentele di alcun genere contro di lui. Quando Zatti entrava nelle stanze, sembrava che entrasse “Dio stesso!”. Non saprei come dirlo. Per noi era tutto. Non ho conosciuto particolari difficoltà; da malata non mi è mai mancato nulla: né cibo, né medicine, né vestiti. Il Sig. Zatti si preoccupava soprattutto della formazione morale del personale. Ricordo che ci ha fatto imparare con lezioni pratiche, accompagnandolo nei momenti in cui visitava gli infermi e dopo una o due volte ce lo faceva fare soprattutto con i casi più gravi»[x].

Film visto prima della conferenza



Video de la conferenza: Zatti buon samaritano, per malati, medici e infermieri
Conferenza tenuta da don Pierluigi CAMERONI, Postulatore Generale della Società Salesiana di san Giovanni Bosco a Valdocco, nel 15.11.2023.




[i] Testimonianza del dottor Antonio Gumersindo Sussini. Positio – Summarium, p. 139, § 561.

[ii] Testimonianza di Attilio Guidi, farmacista. Conobbe Zatti dal 1926 al 1951. Positio – Summarium, p. 99, § 386.

[iii] Testimonianza del dottor Ferdinando Molinari. Conobbe Zatti dal 1942 al 1951. Divenne medico dell’Ospedale San José e nell’ultima malattia lo curò. Tenne il discorso ufficiale in occasione dell’inaugurazione del monumento a Zatti. Positio – Summarium, p. 147, § 600.

[iv] Testimonianza del dottor Pietro Echay. Positio – Informatio, p. 108.

[v] Testimonianza di Attilio Guidi. Positio – Summarium, p. 100, § 391.

[vi] Testimonianza di padre Feliciano López. Positio – Summarium, p. 171, § 694.

[vii] Ivi, p. 166, § 676.

[viii] Testimonianza di Oscar García, impiegato di polizia. Conobbe Zatti nel 1925, ma trattò con lui soprattutto dopo il 1935, sia come dirigente degli ex-allievi, sia come membro del Circolo Operaio. Positio – Summarium, p. 111, § 440.

[ix] Testimonianza di padre Feliciano López. Positio – Summarium, p. 181, § 737.

[x] Testimonianza di Noelia Morero, infermiera. Positio – Informatio, p. 112.




Il grande dono della santità di Artemide Zatti, salesiano coadiutore (video)

            La cronaca del collegio salesiano di Viedma ricorda che, secondo l’usanza, il 15 marzo 1951 al mattino il campanone annuncia il volo al cielo del confratello coadiutore Artemide Zatti, e riporta queste profetiche parole: «Un fratello in meno in casa e un santo in più in cielo».
            La canonizzazione di Artemide Zatti, il 9 ottobre 2022, è un dono di grazia; la testimonianza di santità che il Signore ci dona attraverso questo fratello che ha vissuto la sua vita nella docilità allo Spirito Santo, nello spirito di famiglia tipico del carisma salesiano, incarnando la fraternità verso i confratelli e la comunità salesiana, e la prossimità verso i poveri e gli ammalati e verso chiunque incontrava sulla sua strada, è un evento di benedizione da accogliere e far fruttificare.
            Sant’Artemide Zatti risulta modello, intercessore e compagno di vita cristiana, vicino a ciascuno. Infatti, la sua avventura ce lo presenta come persona che ha sperimentato la fatica quotidiana dell’esistenza con i suoi successi e i suoi fallimenti. Basta ricordare il distacco dal paese natale per emigrare in Argentina; la malattia della tubercolosi che irrompe come un uragano nella sua giovane esistenza, frantumando ogni sogno e ogni prospettiva di futuro; il vedere demolire l’ospedale che aveva costruito con tanti sacrifici ed era diventato santuario dell’amore misericordioso di Dio. Ma Zatti trova sempre nel Signore la forza di rialzarsi e proseguire il cammino.

Testimone di speranza
            Per il tempo drammatico che stiamo vivendo segnato dalla pandemia, da tante guerre, dall’emergenza climatica e soprattutto dalla crisi e dall’abbandono della fede in tante persone, Artemide Zatti ci incoraggia a vivere la speranza come virtù e come atteggiamento di vita in Dio. La sua storia ci ricorda come il cammino verso la santità richieda molto spesso un cambio di rotta e di visione. Artemide in diversi passaggi della sua vita ha scoperto nella Croce la grande opportunità di rinascere e ripartire:
            – quando da ragazzo, nei duri e faticosi lavori di campagna, impara subito ad affrontare le fatiche e le responsabilità che lo avrebbero sempre accompagnato negli anni della maturità;
            – quando a 17 anni con la sua famiglia emigra in Argentina in cerca di maggior fortuna;
            – quando giovane aspirante alla vita salesiana è colpito da tubercolosi, contagiato da un giovane sacerdote che stava aiutando proprio perché molto malato. Il giovane Zatti sperimenta nella propria carne il dramma della malattia, non solo come fragilità e sofferenza del corpo, ma anche come un qualcosa che tocca il cuore, che genera paure e moltiplica interrogativi, facendo emergere con preponderanza la domanda di senso per tutto quello che succede e quale futuro gli si pari davanti, vedendo che ciò che sognava, e a cui anelava, d’improvviso viene meno. Nella fede si rivolge a Dio, ricerca un nuovo significato e una nuova direzione all’esistenza a cui non trova né subito, né facilmente risposta. Grazie alla presenza saggia e incoraggiante di padre Cavalli e di padre Garrone e leggendo in spirito di discernimento e di obbedienza le circostanze della vita, matura la vocazione salesiana come fratello coadiutore dedicando tutta la vita alla cura materiale e spirituale degli ammalati e all’assistenza ai poveri e ai bisognosi. Decide di restare con Don Bosco, vivendo in pienezza l’originale vocazione del coadiutore;
            – quando deve affrontare prove, sacrifici e debiti per portare avanti la missione a favore dei poveri e degli ammalati gestendo l’ospedale e la farmacia, confidando sempre nell’aiuto della Provvidenza;
            – quando vede demolire l’ospedale a cui aveva dedicato tante energie e risorse, per costruirne uno nuovo;
            – quando nel 1950 cade da una scala e si manifestano i sintomi di un tumore, da lui stesso lucidamente diagnosticato, che lo avrebbe portato alla morte, poi avvenuta il 15 marzo 1951: continua tuttavia ad attendere alla missione alla quale si era consacrato, accettando le sofferenze di questo ultimo tratto di vita.

L’esodo pasquale: da Bahía Blanca a Viedma
            Con tutta probabilità Artemide giunse a Bahía Blanca da Bernal nella seconda metà di febbraio del 1902. La famiglia lo ricevette con la pena e l’affetto che si può immaginare. Soprattutto la mamma si dedicò a lui con tanto amore perché recuperasse forze e salute, vista l’estrema debolezza in cui versava, e desiderava curarlo lei stessa. Chi si oppose a questa soluzione fu proprio Artemide che, sentendosi ormai intimamente legato ai salesiani, voleva ubbidire a quanto avevano deciso i superiori di Bernal e recarsi a Junín de los Andes per curare la salute. Il pensiero dominante e non più rinunciabile per lui era la volontà di seguire la vocazione per la quale si era incamminato, diventare salesiano sacerdote e, nonostante il buio sul suo futuro, per essa avrebbe affrontato ogni difficoltà e sacrificio: intendeva rinunziare anche alle cure della mamma e della famiglia, nel timore che avrebbero potuto fermarlo nel suo proposito. Egli ha incontrato Gesù, ne ha sentito la chiamata, lo vuole seguire, anche se forse non sarà nei modi che lui pensa e desidera.
            I genitori, per risolvere il problema del figliolo, si rivolsero al consigliere di famiglia padre Carlo Cavalli, il quale sconsigliò assolutamente e provvidenzialmente di mandare Artemide a Junín, località troppo lontana per le sue deboli forze. Invece, poiché proprio in quegli anni si era affermata a Viedma la fama di padre Evasio Garrone come dottore, molto saggiamente padre Cavalli pensò che fosse miglior cosa affidarlo a lui per una buona cura. Anche la distanza di soli 500 km, con i mezzi di trasporto dell’epoca, faceva propendere per questa soluzione. La famiglia accettò, il buon parroco pagò il viaggio sulla Galera del signor Mora e Artemide, convinto dal suo direttore spirituale, partì per Viedma.
            La Galera, una specie di corriera tirata da cavalli, era l’unico mezzo di trasporto pubblico del tempo per viaggiare da Bahía Blanca a Viedma, attraversando il fiume Colorado. Ci fu anche il contrattempo che la Galera smarrì il cammino, per cui i viaggiatori dovettero dormire alle intemperie e arrivarono il martedì e non il lunedì, come previsto. Il viaggio dovette essere molto doloroso, anche se Artemide «copre tutto con l’ottimismo di un santo con fame e sete di immolazione. Ma cosa ha sofferto quel pover’uomo solo Dio lo sa».

            Ecco il testo della lettera scritta da Artemide ai familiari subito dopo l’arrivo a Viedma.

Cari genitori e fratelli.
Viedma, 5.3.902

Arrivato a Viedma ieri mattina, dopo felice viaggio di «Galera» oggi prendo l’occasione di scrivervi facendovi noto che andai bene, come dissi, perché la «Galera» andava poco carica di gente e mercanzie, solo altro vi dirò che dovevamo arrivare al lunedì a Patagones, ma per aver perduto il cammino dormimmo nel campo a cielo scoperto ed arrivammo martedì mattina, dove con gran giubilo trovai i miei confratelli salesiani. In quanto alla salute mi visitò il medico R. D. Garrone e mi promise che in un mese sarò perfettamente sano. Con l’aiuto di Maria SS. nostra buona Madre, e di D. Bosco speriamo sempre bene. Pregate per me ed io pregherò per voi e mi firmo vostro

ARTEMIDE ZATTI
Addio a tutti

            Questa lettera è un capolavoro di speranza, un condensato di ottimismo evangelico: è una parabola di vita dove, nonostante aleggi lo spettro della morte e si smarrisca la strada, c’è un orizzonte che si apre all’infinito. In quella notte, passata nei campi della terra patagonica contemplando le stelle, il giovane Artemide esce dal suo turbamento, dal suo scoraggiamento. Liberato da uno sguardo puntato solo verso il basso, può alzare gli occhi e guardare il cielo per contare le stelle; liberato dalla tristezza e dalla paura di non avere futuro, liberato dalla paura di rimanere solo, dalla paura della morte, fa l’esperienza che la bontà di Dio è immensa come un cielo stellato e che le grazie possono essere infinite, come le stelle. Così al mattino giunge a Viedma come nella terra promessa, dove «con grande giubilo» è accolto da quelli che ritiene già confratelli, dove sente parole e promesse che parlano di guarigione, dove con piena fiducia nell’«aiuto di Maria SS. nostra buona Madre e di Don Bosco», approda alla città dove avrebbe profuso la sua carità per tutta la vita. Passati i guadi in piena del Rio Colorado, rinasceva anche la speranza per la sua salute e per il suo futuro.

El pariente de todos los pobres
            Artemide Zatti ha consacrato la sua vita a Dio nel servizio ai malati e ai poveri, che diventano i suoi tesori. Responsabile dell’Ospedale San José in Viedma, allarga la cerchia degli assistiti raggiungendo, con l’inseparabile bicicletta, tutti i malati della città, specialmente i più poveri. Amministra tanto denaro, ma la sua vita è poverissima: per il viaggio in Italia in occasione della canonizzazione di Don Bosco gli si dovettero prestare vestito, cappello e valigia. È amato e stimato dagli ammalati; amato e stimato dai medici che gli danno la massima fiducia, e si arrendono all’ascendente che scaturisce dalla sua santità. Il segreto di tanto ascendente? Eccolo: per lui ogni ammalato era Gesù in persona. Alla lettera! Da parte sua non ci sono dubbi: tratta ciascuno con la medesima tenerezza con cui avrebbe trattato Gesù stesso, offrendo la propria camera in casi di emergenza, o collocandovi anche un cadavere in momenti di necessità. Continua instancabile la sua missione tra i malati con serenità, fino al termine della vita, senza prendersi mai riposo.
            Con il suo retto atteggiamento ci restituisce una visione salesiana del «saper rimanere» nella nostra terra di missione per illuminare chi rischia di perdere la speranza, per rafforzare la fede di chi si sente venir meno, per essere segno dell’amore di Dio quando “sembra” che Egli sia assente dalla vita di ogni giorno.
            Tutto questo lo portava a riconoscere la singolarità di ogni malato, con la sua dignità e le sue fragilità, sapendo che il malato è sempre più importante della malattia, e per questo curava l’ascolto dei pazienti, della loro storia, delle loro ansie, delle loro paure. Sapeva che anche quando non è possibile guarire, sempre è possibile curare, sempre è possibile consolare, sempre è possibile far sentire una vicinanza che mostra interesse alla persona prima che alla sua malattia. Si ferma, ascolta, stabilisce una relazione diretta e personale con l’infermo, sente empatia e commozione per lui o per lei, si lascia coinvolgere dalla sua sofferenza fino a farsene carico nel servizio.
Artemide ha vissuto la prossimità come espressione dell’amore di Gesù Cristo, il Buon Samaritano, che con compassione si è fatto vicino a ogni essere umano, ferito dal peccato. Si è sentito chiamato ad essere misericordioso come il Padre e ad amare, in particolare, i fratelli malati, deboli e sofferenti. Zatti ha stabilito un patto tra lui e i bisognosi di cura, un patto fondato sulla fiducia e il rispetto reciproci, sulla sincerità, sulla disponibilità, così da superare ogni barriera difensiva, mettendo al centro la dignità del malato. Questa relazione con la persona malata aveva per Zatti la sua fonte inesauribile di motivazione e di forza nella carità di Cristo.
            E ha vissuto questa vicinanza, oltre che personalmente, in forma comunitaria: infatti ha generato una comunità capace di cura, che non abbandona nessuno, che include e accoglie soprattutto i più fragili. La testimonianza di Artemide ad essere Buon Samaritano, ad essere misericordioso come il Padre, era una missione e uno stile che coinvolgeva tutti coloro che in qualche modo si dedicavano all’ospedale: medici, infermieri, addetti all’assistenza e alla cura dei malati, religiose, volontari che donavano tempo prezioso a chi soffre. Alla scuola di Zatti il loro servizio accanto ai malati, svolto con amore e competenza, diventa una missione. Zatti sapeva e inculcava la consapevolezza che le mani di tutti coloro che erano con lui toccavano la carne sofferente di Cristo e dovevano essere segno delle mani misericordiose del Padre.

Salesiano coadiutore
            La simpatica figura di Artemide Zatti è invito a proporre ai giovani il fascino della vita consacrata, la radicalità della sequela di Cristo obbediente, povero e casto, il primato di Dio e dello Spirito, la vita fraterna in comunità, lo spendersi totalmente per la missione. La vocazione del salesiano coadiutore fa parte della fisionomia che Don Bosco volle dare alla Congregazione Salesiana. Essa sboccia più facilmente laddove sono promosse tra i giovani le vocazioni laicali apostoliche e viene loro offerta una gioiosa ed entusiastica testimonianza della consacrazione religiosa, come quella di Artemide Zatti.

Artemide Zatti santo!
            Sulla scia di San Francesco di Sales, assertore e promotore della vocazione alla santità per tutti, la testimonianza di Artemide Zatti ci ricorda, come afferma il Concilio Vaticano II, che: «tutti i fedeli d’ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità, la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste». Sia san Francesco di Sales, sia Don Bosco, sia Artemide fanno della vita quotidiana un’espressione dell’amore di Dio, ricevuto e ricambiato. La testimonianza di Artemide Zatti ci illumina, ci attrae e ci mette anche in discussione, perché è “Parola di Dio” incarnata nella storia e vicina a noi.
            Attraverso la parabola della vita di Artemide Zatti risalta anzitutto la sua esperienza dell’amore incondizionato e gratuito di Dio. In primo luogo, non ci sono le opere che lui ha compiuto, ma lo stupore di scoprirsi amato e la fede in questo amore provvidenziale in ogni stagione della vita. È da questa certezza vissuta che sgorga la totalità di donazione al prossimo per amore di Dio. L’amore che riceve dal Signore è la forza che trasforma la sua vita, dilata il suo cuore e lo predispone ad amare. Con lo stesso Spirito, lo Spirito di santità, amore che ci guarisce e ci trasforma Artemide:
            – fin da ragazzo fa scelte e compie gesti di amore in ogni situazione e con ogni fratello e sorella che incontra, perché si sente amato e ha la forza di amare;
            – ancora adolescente in Italia, egli sperimenta i disagi della povertà e del lavoro, ma pone il fondamento di una solida vita cristiana, dando le prime prove della sua carità generosa;
            – emigrato con la famiglia in Argentina, sa custodire e far crescere la sua fede, resistendo a un ambiente spesso immorale e anticristiano e maturando, grazie all’incontro con i salesiani e all’accompagnamento spirituale di padre Carlo Cavalli, l’aspirazione alla vita salesiana, accettando di ritornare sui banchi di scuola con ragazzini di dodici anni, lui che di anni ne aveva già venti;
            – si offre con pronta disponibilità ad assistere un sacerdote malato di tubercolosi e ne contrae il male, senza dire una parola di lamento o di recriminazione, ma vivendo la malattia come tempo di prova e purificazione, portandone con fortezza e serenità le conseguenze;
            – guarito in modo straordinario, per intercessione di Maria Ausiliatrice, dopo aver fatto la promessa di dedicare la sua vita agli ammalati e ai poveri, vive con radicalità evangelica e gioia salesiana la consacrazione apostolica quale salesiano coadiutore;
            – vive in forma straordinaria il ritmo ordinario delle sue giornate: pratica fedele ed edificante della vita religiosa in gioiosa fraternità; servizio sacrificato a tutte le ore e con tutte le prestazioni più umili ai malati e ai poveri; lotta continua contro la povertà, nella ricerca di risorse e di benefattori per far fronte ai debiti, confidando esclusivamente nella Provvidenza; disponibilità pronta a tutte le sventure umane che chiedono il suo intervento; resistenza ad ogni difficoltà e accettazione di ogni caso avverso; dominio di sé e serenità gioiosa e ottimistica che si comunica a tutti coloro che lo avvicinano.

Settantun anni di questa vita di fronte a Dio e di fronte agli uomini: una vita consegnata con gioia e fedeltà fino alla fine, incarnata nella quotidianità, nelle corsie dell’ospedale, in bicicletta per le strade di Viedma, nei travagli della vita concreta per far fronte a esigenze e bisogni di ogni genere, vivendo le cose di ogni giorno in spirito di servizio, con amore e senza clamore, senza rivendicare niente, con la gioia della donazione, abbracciando con entusiasmo la vocazione di salesiano coadiutore e diventando riflesso luminoso del Signore.

Film visto prima della conferenza



Video de la conferenza: Il grande dono della santità di Artemide Zatti
Conferenza tenuta da don Pierluigi CAMERONI, Postulatore Generale della Società Salesiana di san Giovanni Bosco a Torino-Valdocco, nel 14.11.2023.






Salesiani in Azerbaigian, seminatori di speranza

Il racconto di un ragazzo che esprime gratitudine per l’operato dell’unica comunità salesiana dell’Azerbaigian, punto di riferimento per tanti giovani della capitale.

L’Azerbaigian (ufficialmente Repubblica dell’Azerbaigian), è un paese localizzato nella regione transcaucasica, che confina con il Mar Caspio a est, con la Russia a nord, la Georgia e l’Armenia a ovest e l’Iran a sud. Ospita una popolazione di circa 10 milioni di abitanti, che parla la lingua azera, appartenente alla famiglia delle lingue turche. La ricchezza principale del paese è rappresentata dal petrolio e dal gas. Diventato indipendente nel 1918, è stato il primo stato laico democratico a maggioranza musulmana. La sua indipendenza però duro solo due anni, dato che nel 1920 venne incorporato dalla nuova Unione Sovietica appena costituita. Con la caduta dell’impero sovietico, ha riconquistato l’indipendenza nel 1991. In questo periodo, la regione del Nagorno Karabakh, abitata principalmente da armeni, dichiarò la sua indipendenza sotto in nome di Repubblica dell’Artsakh, evento che portò a varie guerre. È riapparsa nei notiziari internazionali dopo il recente attacco dell’Azerbaigian, il 19 settembre 2023, che ha condotto alla soppressione della sopraddetta repubblica e all’esodo di quasi tutti gli abitanti armeni da questa regione verso l’Armenia.

La presenza dei cristiani in quest’area geografica è menzionata fin dai primi secoli dopo Cristo. Nel sec. IV il re caucasico Urnayr dichiarò ufficialmente il cristianesimo religione di stato e rimase così fino all’VIII secolo quando, in seguito ad una guerra, si impose l’islam. Attualmente la religione maggioritaria è proprio l’islam a predominanza sciita, e i cristiani di tutte le confessioni rappresentano il 2,6% della popolazione.
La presenza dei cattolici nel paese risale al 1882 quando fu fondata una parrocchia; nel 1915 fu costruita una chiesa nella capitale Baku, demolita dai comunisti sovietici nel 1931, dissolvendo la comunità e arrestando il parroco, che morì un anno dopo in un campo di lavoro forzato.

In seguito alla caduta del comunismo, si ricostituì la comunità cattolica di Baku nel 1997, e dopo la visita in Azerbaigian di papa san Giovanni Paolo II nel 2002, si ottenne il terreno per la costruzione di una nuova chiesa, consacrata all’Immacolata Concezione e inaugurata il 29 aprile 2007.
La presenza salesiana in Azerbaigian è stata aperta nell’anno del Giubileo 2000, nella capitale Baku, la più grande città del paese, con una popolazione di più di 2 milioni di abitanti.

Il direttore della casa salesiana di Baku, don Martin Bonkálo, ci racconta che la missione salesiana si incarna in contesti diversi e sempre nuovi, come risposta alle sfide e ai bisogni della gioventù. Gli echi di don Bosco si sentono anche in Azerbaigian, in Asia Centrale, paese a maggioranza musulmana, che nello scorso secolo ha conosciuto il regime sovietico.
In questa casa vivono e lavorano sette salesiani, di cui cinque sacerdoti e due coadiutori, appartenenti all’Ispettoria slovacca (SLK), che si curano della parrocchia di Santa Maria e del Centro educativo “Maryam”. Si tratta di un’opera per lo sviluppo integrale dei giovani: evangelizzazione, catechesi, educazione ed aiuto sociale.
In tutto il paese i cattolici sono un piccolo gregge che professa con coraggio e speranza la propria fede. Il lavoro dei salesiani quindi, si basa sulla testimonianza dell’amore di Dio, sotto varie forme. I rapporti con la gente sono aperti, chiari ed amichevoli: questo favorisce il prosperare dell’azione educativa.

I giovani sono come tutti gli altri giovani del mondo, con le loro paure e i loro talenti. La loro sfida più grande è quella di ricevere una buona istruzione per guadagnarsi da vivere. I giovani cercano un ambiente educativo e persone capaci a livello professionale ed umano, che sappiano comunicare il cammino da seguire per cercare il senso della vita.
I salesiani sono impegnati a guardare al futuro, per arricchire la presenza nel paese, renderla più internazionale e rimanere fedeli al carisma trasmesso da don Bosco, con gioia ed entusiasmo.

Shamil, exallievo del centro salesiano di Baku, racconta: “Sono entrato a contatto con il centro Maryam nel 2012 e quell’incontro si è rivelato fondamentale per il resto della mia vita. A quel tempo, avevo prestato il servizio militare e stavo terminando la mia formazione presso un collegio d’informatica. Avvertivo la necessità di crescere a livello professionale, ma allo stesso tempo avevo un gran bisogno di amici nel mondo reale! Arrivai a Baku dalla provincia, incontrai per strada un mio amico che mi parlò del Centro Maryam. Così siamo andati insieme per visitarlo e da lì è iniziato un capitolo bellissimo nella mia vita. Fin dal primo giorno mi sono trovato in un mondo diverso, non facile da spiegare, io nel mio cuore dico che è un’isola. È diventata per me un’isola di umanità, nel mondo moderno spesso interessato a usare le persone, e non a interessarsi realmente a loro.

Senza che neanche me ne rendessi conto, era iniziato il programma nel centro giovanile e io ero parte di una squadra. Qualcuno giocava a pallavolo, qualcuno a ping-pong, un gruppo di ragazzi strimpellava la chitarra… Più tardi, ci siamo seduti in refettorio e a tutti è stata data la possibilità di condividere una parola per esprimere la propria opinione sulla giornata passata, sulle impressioni o sulle nuove idee. Io ero un ragazzo piuttosto timido, eppure ho iniziato a parlare con piacere degli eventi del giorno e degli argomenti generali, senza alcuna difficoltà o freno. Tra i tanti corsi del centro, ho deciso di iniziare con il corso di grafica Photoshop e il corso di lingua inglese. Quando poi ho dovuto lasciare il mio lavoro per motivi di salute, ho perso anche un tetto sopra la testa. La soluzione è stata quella di lavorare al centro come guardia, con determinati obblighi e responsabilità. Sono stato in prova per un mese e sono contento di non aver deluso nessuno e di aver trovato una nuova casa. Quando don Stefan nel 2014 ha iniziato a sviluppare al centro il progetto di rete informatica dell’Accademia Cisco, è iniziato il mio percorso professionale come ingegnere di rete. Nello stesso periodo, ho potuto imparare tre mestieri domestici: saldatura, elettricità e idraulica. Nel 2016 sono diventato istruttore ufficiale di Cisco e ormai sono sei anni che lavoro come ingegnere di rete. Questo lavoro ha permesso a me e alla mia famiglia di rimetterci in piedi dopo anni di vita molto precaria. Oltre al lavoro, tengo corsi sulle reti informatiche, sono diventato animatore e aiuto a organizzare campi estivi per bambini. Non posso che essere grato a don Bosco per tutto quello che mi ha donato nella vita”.

Sono tante le storie di giovani come Shamil, che sono riusciti a indirizzare la propria vita grazie al lavoro dei Salesiani a Baku, e speriamo che quest’opera possa prosperare e continuare ancora a essere feconda.

Marco Fulgaro




Asia Meridionale. Don Bosco tra i giovani

Vediamo cosa significa vivere oggi la missione di don Bosco verso i giovani, specialmente quelli che sono poveri di risorse in Asia Meridionale.

Il Signore disse chiaramente a don Bosco che doveva rivolgere la sua missione innanzitutto ai giovani, soprattutto a quelli più poveri. Questa missione verso i giovani, soprattutto quelli più poveri, divenne la ragione dell’esistenza della Congregazione Salesiana.

Come nostro padre don Bosco, ogni salesiano dice a Dio il giorno della sua professione religiosa: “Mi offro totalmente a Te. Mi impegno a dedicare tutte le mie forze a coloro ai quali mi manderai, specialmente ai giovani più poveri”. Ogni collaboratore salesiano è impegnato in questa stessa missione.

L’ultimo Capitolo Generale della Congregazione ha rinnovato la richiesta di dare priorità assoluta ai più poveri, abbandonati e indifesi.

Quando mi è stata offerta l’opportunità di scrivere un articolo per il Bollettino Salesiano, il mio pensiero è andato immediatamente a quello che considero uno dei maggiori interventi a favore dei giovani più poveri nella Regione dell’Asia Meridionale della Congregazione Salesiana, ossia la preparazione dei giovani poveri all’occupazione attraverso una formazione professionale a breve termine. Dopo il 28° Capitolo Generale, la Regione Asia Meridionale ha fatto una scelta per aiutare i giovani a eliminare la povertà dalle loro famiglie. Ma prima di approfondire questo, permettetemi di presentarvi la Regione Asia Meridionale della Congregazione Salesiana.

La Regione Asia Meridionale comprende tutte le opere salesiane in India, Sri Lanka, Bangladesh, Nepal, Kuwait ed Emirati Arabi. Ci sono 11 Ispettorie e 1 Visitatoria. Con oltre 3000 salesiani professi, la Regione Asia Meridionale rappresenta il 21,5% dei salesiani nel mondo; questi lavorano in 413 Case religiose salesiane, pari al 23,8% delle Case salesiane della Congregazione. L’età media dei confratelli è di 45 anni. È provvidenziale che così tanti salesiani lavorino nella regione che ha la più grande popolazione di giovani e di giovani poveri al mondo.

La Famiglia Salesiana nella Regione comprende, oltre ai salesiani, l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1789), l’Associazione dei Salesiani Cooperatori (3652), la Confederazione Mondiale degli Exallievi (34091), l’Istituto Secolare dei Volontari di Don Bosco (15), le Suore Missionarie di Maria Ausiliatrice (915), l’Associazione di Maria Ausiliatrice (905), le Suore Catechiste di Maria Immacolata Ausiliatrice (748), I Discepoli – Istituto Secolare Don Bosco (317), le Suore di Maria Ausiliatrice (102) e le Suore della Visitazione di Don Bosco (109).

Le opere dei salesiani, in collaborazione con altri membri della Famiglia Salesiana e con altri religiosi e laici, raggiungono oltre 21.170.893 beneficiari. Una varietà di opere (istruzione tecnica formale e non formale, opere per i giovani a rischio [YaR, youth at risk], scuole, istruzione superiore, parrocchie, centri giovanili, oratori, lavoro sociale ecc.) sono rivolte al servizio dei beneficiari. Gli altri membri della Famiglia Salesiana hanno opere indipendenti che raggiungono molti altri.

Il mondo, sotto la guida delle Nazioni Unite, ha fissato l’obiettivo di “porre fine alla povertà in tutte le sue forme, ovunque” come primo degli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Le opere salesiane raggiungono questi obiettivi in molti modi, ma un’opera di spicco tra queste è la formazione di competenze a breve termine offerta ai giovani poveri, che vengono poi aiutati a trovare un impiego e a guadagnarsi da vivere per essere i protagonisti che portano le loro famiglie fuori dalla povertà.

La Conferenza Ispettoriale Salesiana dell’Asia Meridionale (SPCSA) ha creato Don Bosco Tech (DBTech) come veicolo per coordinare gli sforzi di tutte le Ispettorie salesiane in quest’area di lavoro. Fondato nel 2006, il modello DBTech e il suo nome sono stati imitati in altre parti del mondo. In questi anni la rete (DBTech India) ha formato oltre 440.000 giovani. Il lavoro viene svolto attraverso le varie istituzioni salesiane, nonché attraverso un’ampia rete di collaborazione con altre Congregazioni diocesane e religiose e con un ampio pool di collaboratori laici altamente motivati, che si impegnano a lavorare per la parte più povera della gioventù.

Sebbene i risultati ottenuti nel corso degli anni a favore dei giovani più poveri siano stati grandi, vorrei sottolineare i risultati del 2022-2023 per apprezzare il lavoro di tutti i Salesiani e dei loro collaboratori per portare avanti il sogno di don Bosco di dedicarci ai giovani, soprattutto a quelli più poveri.

Ho scelto di presentarvi in particolare questo lavoro soprattutto perché ha raggiunto il risultato più grande e migliore per le famiglie più povere.

Qui abbiamo una rete con 26.243 studenti formati in un anno! Pochissime grandi istituzioni al mondo possono vantare così tanti studenti diplomati (20.121) in un anno. Anche fra queste, raramente i diplomati sarebbero così numerosi e provenienti dalle fasce più povere della società.

Di questi, circa 18.370 trovano un’occupazione al termine della loro formazione professionale (circa il 70% di quelli formati).

A tutti questi studenti sono stati offerti una formazione e un inserimento lavorativo totalmente gratuiti, senza addebiti. Questo risultato è stato ottenuto grazie al generoso contributo dei benefattori e dei partner della Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI). DBTech ha oltre 30 partner finanziatori, tra cui aziende, fondazioni e governo.

La predilezione salesiana per i giovani più poveri è testimoniata dal fatto che quasi tutti i tirocinanti provengono dalle “fasce economicamente più deboli” della società, il 98%.

Ancora più importante da notare è che 10.987 (55%) dei 20.121 studenti già diplomati (gli altri sono in formazione, in attesa della conclusione dei loro corsi) provengono da famiglie che hanno un reddito annuo inferiore a 100.000 Rupie, ossia circa 1111 Euro all’anno (calcolato al cambio 1 Euro = 90 Rupie). Si tratta di un reddito familiare inferiore a 100 euro al mese. Ciò significa che le famiglie vivono con meno di 3 euro al giorno. Stiamo parlando di famiglie e non di individui!

Reddito familiare annuo Reddito giornaliero approssimativo delle famiglie Totale giovani formati % dei giovani formati
Al di sotto di 1 Lakh / Al di sotto di 1.111 Euro al di sotto di 3 Euro 10.987 55%
1-3 Lakh Sotto 3-9 Euro 8144 40%
3-5 Lakh Sotto 9-15 Euro 469 2%
5-7 Lakh Sotto 15-21 Euro 161 1%
7 Lakh e oltre 21 euro e oltre 360 2%
Totale generale   20.121 (+ 6.302 in classe)  
Nota: 1 Euro = 90 Rupie

Dopo la formazione gratuita, questi giovani poveri guadagnano oggi in media 10.000 rupie al mese, il che ha reso il loro reddito personale annuo superiore al reddito familiare annuo delle loro famiglie.

Nel contesto della necessità di interventi trasformativi basati sui risultati, la Famiglia Salesiana dell’Asia Meridionale, con il ruolo primario svolto dai giovani che vengono qualificati e assunti, sta veramente formando dei “cittadini onesti”. I giovani che sono stati formati e inseriti nel mondo del lavoro stanno oggi contribuendo alla costruzione della nazione. Il reddito annuale generato da questi studenti occupati dopo la formazione gratuita è di circa 2.204.400.000 Rupie, che equivale a circa 24.493.333 Euro all’anno.

La durata della formazione varia a seconda degli ambiti di intervento. I corsi di formazione vengono erogati in vari settori: Agricoltura e affini; Abbigliamento, Make up e arredamento per la casa; Automobile; Banche e Finanza; Bellezza e Benessere; Beni strumentali; Edilizia; Elettronica e Hardware IT; Trasformazione alimentare; Mobili e Arredi; Lavori verdi; Artigianato e Tappeti; Sanità; IT-ITES; Logistica; Media e Intrattenimento; Gestione degli uffici; Industria idraulica; Energia; Commercio al dettaglio; Turismo e Ospitalità e altri.

Va inoltre notato che nei Paesi in via di sviluppo, dove le ragazze e le donne sono più deboli e indifese, i servizi offerti dai Salesiani sono maggiormente al servizio delle donne: oltre il 53% dei tirocinanti che hanno completato il corso sono donne.

Le storie dei giovani che hanno trasformato la loro vita cogliendo le opportunità offerte dalle opere salesiane sono molto importanti nella narrazione dell’attenzione salesiana verso i più poveri.

I Salesiani hanno davvero ricevuto il sostegno di molte persone generose, di fondazioni, di aziende e di governi per realizzare la trasformazione di tanti giovani svantaggiati in cittadini onesti e produttivi. Siamo veramente grati a tutti loro. Dio ha benedetto la Regione anche con una crescita delle vocazioni salesiane.

Per maggiori informazioni, è possibile visitare il sito web di DBTech India, https://dbtech.in.

Questo lavoro, come ci direbbe don Bosco, è “la nostra più grande soddisfazione”! Si rivolge ai più poveri. Comporta una collaborazione su larga scala tra enti religiosi e secolari. È un grande esempio di collaborazione tra laici. Si rivolge a tutti i giovani: il 72% dei giovani beneficiari appartiene alla religione indù, che è la religione più numerosa nella Regione dell’Asia Meridionale.

Nelle Memorie Biografiche leggiamo le parole di don Bosco: “Procurate di attenervi sempre ai poveri figli del popolo. Non fallite il vostro scopo primiero e la vostra società l’abbia sempre sott’occhio: non aspiri a cose maggiori. […] Se educherete i poveri, se sarete poveri, se non farete chiasso, nessuno avrà invidia di voi, nessuno vi cercherà, vi lasceranno tranquilli e farete del bene.” (MB IX,566)

Presentiamo anche alcuni giovani che hanno cambiato la loro vita dopo l’incontro con il carisma di don Bosco.

Adna Javaid

Le lotte di Adna Javaid sono iniziate in giovane età. È cresciuta in povertà. È nata a Bemina, una regione nel cuore di Srinagar, la capitale estiva del Jammu e Kashmir, in India. Il padre di Adna, Javaid Ahmad Bhat, era un negoziante che riusciva a malapena a mantenere la famiglia. Ha abbandonato gli studi dopo aver completato la 12esima classe ed è rimasta a casa sua per alcuni anni. Voleva inseguire i suoi sogni, ma non riusciva a trovare un modo per realizzarli.
Nonostante le circostanze difficili, ha iniziato a scrivere opere teatrali e a rappresentarle in piccoli locali della sua zona. Tuttavia, i suoi primi sforzi non hanno avuto successo e ha affrontato un rifiuto dopo l’altro. Nel 2021, Adna mise in scena la sua prima opera, “So di essere stata una ragazza”, nella sua comunità. Lo spettacolo è stato accolto male e Adna ha perso tutti i suoi risparmi. Tuttavia, ha continuato ad avere fede e ha costruito lentamente il suo futuro.
Durante la mobilitazione del Don Bosco Tech di Srinagar vicino alla sua località, Adna ha visto il team del Don Bosco Tech e ha parlato con loro dei suoi problemi. Il team l’ha convinta a partecipare alla formazione e le ha assicurato l’assistenza al lavoro, così lei ha deciso di entrare a far parte del CRM Domestic Voice Domain.

La svolta di Adna è arrivata nel 2021, quando si è resa conto di essere più vicina ai suoi sogni dopo la formazione presso il Centro di formazione Don Bosco Tech di Srinagar. 
Da allora, Adna è diventata una delle figure più influenti e di successo del settore Business Process Outsourcing. Nonostante abbia affrontato ostacoli e battute d’arresto significative, ha perseverato, ha continuato a lavorare sodo e ha creduto in se stessa e nella sua visione.
Ora lavora come Customer Care Executive Process presso la J&K Bank, supportata da DigiTech, Call System Pvt. Ltd, con una retribuzione mensile di 12.101 rupie.
Adna ora è molto soddisfatta della sua vita e sta anche aiutando tante ragazze a partecipare al corso di formazione professionale presso il Don Bosco Tech Training Centre, Rajbagh, Srinagar.

Peesara Niharika

Peesara Niharika proviene da un luogo rurale situato lontano dal centro Don Bosco Tech, Karunapuram. Ha conseguito la laurea con il sostegno dei suoi genitori, che sono lavoratori salariati giornalieri. Difficoltà e carenze sono state le parole d’ordine della sua vita fin dalla più tenera età. A un certo punto della vita, ha persino abbandonato gli studi e ha sostenuto finanziariamente i suoi genitori, lavorando in un’azienda agricola con gli abitanti del villaggio. Ma desiderava proseguire gli studi superiori, quando vedeva i suoi compagni di scuola andare all’università, mentre lei lavorava nella risaia.
Un giorno, mentre cercava un’opportunità di lavoro, Niharika si è imbattuta nell’ala di mobilitazione a Karunapuram, organizzata dal personale del Don Bosco Tech Centre e ha preso la ferma decisione di iscriversi al programma di formazione professionale. Avendo un interesse per la gestione delle relazioni con i clienti, si è iscritta al programma CRM Domestic Non-Voice presso il centro Don Bosco Tech, Karunapuram.
Si è dimostrata molto attiva e versatile durante il programma di formazione, cercando di comunicare in modo efficace con tutti i partecipanti al suo gruppo. Ha un talento multiforme, con abilità come ballare, cantare e giocare, e diffonde con entusiasmo la positività intorno a sé. Grazie alle sessioni di life skill, è riuscita a liberarsi della timidezza e della paura del palcoscenico.

Al momento del colloquio, è stata assunta da Ratnadeep, a Hyderabad, per il ruolo di Rappresentante del Servizio Clienti con una retribuzione di 14.600 rupie al mese, assicurazioni incluse. Ora è in grado di occuparsi della sua famiglia e di sostenere i suoi genitori, che sono estremamente grati alla Don Bosco Tech Society per l’enorme trasformazione della vita della loro figlia. Niharika afferma con forza che il suo percorso presso il centro Don Bosco Tech Karunapuram rimarrà per sempre un ricordo felice per il resto della sua vita.

Chanti V.

“La differenza tra chi sei e chi vuoi essere, è ciò che fai”.
Chanti proviene da una famiglia a basso reddito di Vepagunta, Vishkapattanam. Dopo aver completato la scuola media, voleva frequentare gli studi superiori, ma non poteva permettersi la spesa delle tasse. Poi, è venuto a conoscenza del centro di formazione Don Bosco Tech di Sabbavaram attraverso un amico del vicinato e dell’attività di mobilitazione nel suo villaggio. Ha saputo dai consulenti che questo istituto offre una formazione gratuita con certificazioni National Skill Development Corporation.
Dopo essersi iscritto al Don Bosco Tech, oltre al corso di e-commerce, Chanti ha imparato anche l’inglese parlato e ad utilizzare il computer. I formatori ricordano ancora che nel suo primo giorno al Don Bosco Tech, avevano notato le sue scarse capacità comunicative e le sue conoscenze informatiche non proprio minime. Nel suo villaggio non c’era un sistema educativo adeguato o strutture che gli permettessero di acquisire tali competenze. Ma la sua perseveranza per consolidare l’apprendimento di una nuova materia e la necessità di un lavoro migliore hanno convinto i formatori a inserirlo nel settore dell’e-commerce.
Riuscì a farsi inserire nell’azienda Ecom Express come fattorino. Dopo aver constatato il suo talento, l’azienda gli ha affidato una responsabilità maggiore e ora percepisce 20.000 rupie al mese.

Lui e i suoi genitori sono estremamente felici per il risultato ottenuto. È molto grato all’Istituto per averlo reso ciò che è oggi. Ora è diventato un esempio di ispirazione per i ragazzi del suo villaggio che stanno lottando per trovare un lavoro decente. Ha informato molti di loro su DB Tech, Sabbavaram, e molti hanno espresso il desiderio di iscriversi all’istituto.

Klerina N Arengh

Klerina N Arengh di Meghalaya ha completato il suo decimo anno nel 2009 come candidata privata. Poi ha sentito parlare della Don Bosco Tech Society, che offre una formazione gratuita e un collocamento fuori dallo Stato. Era molto interessata e ha deciso di partecipare alla formazione.
Si è iscritta al corso Skill Meghalaya F& B Service Associate Batch-2 presso il centro Don Bosco Tech di Shillong. Tutti i suoi compagni di classe erano più giovani di lei, quindi la maggior parte di loro la prendeva in giro e la chiamava mamma, ma lei li ignorava.
Era molto puntuale, rispettosa e imparava molto bene. Apprendeva tutto più velocemente dei suoi compagni di gruppo. In tutti i 2 mesi di formazione, ha dimostrato disciplina e conseguito risultati eccellenti. Infine, dopo il completamento della formazione, DB Tech le ha offerto un lavoro presso JW Marriott Sahar Mumbai, come Steward con uno stipendio mensile di 15.000 rupie.
È molto grata a DBTech e a MSSDS Skill Meghalaya per averle dato l’opportunità di guadagnarsi da vivere in modo dignitoso. Ora, con lo stipendio sarà in grado di sostenere finanziariamente i suoi genitori.

don Biju Michael, SDB
Consigliere generale per l’Asia Meridionale