Diventare un segno di speranza in eSwatini – Lesotho – Sudafrica dopo 130 anni

Nel cuore dell’Africa australe, tra le bellezze naturali e le sfide sociali di eSwatini, Lesotho e Sudafrica, i Salesiani celebrano 130 anni di presenza missionaria. In questo tempo di Giubileo, di Capitolo Generale e di anniversari storici, l’Ispettoria Africa Meridionale condivide i suoi segni di speranza: la fedeltà al carisma di Don Bosco, l’impegno educativo e pastorale tra i giovani e la forza di una comunità internazionale che testimonia fraternità e resilienza. Nonostante le difficoltà, l’entusiasmo dei giovani, la ricchezza delle culture locali e la spiritualità dell’Ubuntu continuano a indicare strade di futuro e di comunione.

Saluti fraterni dai Salesiani della più piccola Visitatoria e della più antica presenza nella Regione Africa-Madagascar (dal 1896, i primi 5 confratelli furono inviati da Don Rua). Quest’anno ringraziamo i 130 SDB che hanno lavorato nei nostri 3 Paesi e che ora intercedono per noi dal cielo. “Piccolo è bello”!

Nel territorio dell’AFM vivono 65 milioni di persone che comunicano in 12 lingue ufficiali, tra tante meraviglie della natura e grandi risorse del sottosuolo. Siamo tra i pochi Paesi dell’Africa sub-sahariana in cui i cattolici sono una piccola minoranza rispetto alle altre Chiese cristiane, con soli 5 milioni di fedeli.

Quali sono i segni di speranza che i nostri giovani e la società stanno cercando?
In primo luogo, stiamo cercando di superare i famigerati record mondiali del crescente divario tra ricchi e poveri (100.000 milionari contro 15 milioni di giovani disoccupati), della mancanza di sicurezza e della crescente violenza nella vita quotidiana, del collasso del sistema educativo, che ha prodotto una nuova generazione di milioni di analfabeti, alle prese con diverse dipendenze (alcool, droga…). Inoltre, a 30 anni dalla fine del regime di apartheid nel 1994, la società e la Chiesa sono ancora divise tra le varie comunità in termini di economia, opportunità e molte ferite non ancora rimarginate. In effetti, la comunità del “Paese dell’Arcobaleno” sta lottando con molte “lacune” che possono essere “riempite” solo con i valori del Vangelo.

Quali sono i segni di speranza che la Chiesa cattolica in Sudafrica sta cercando?
Partecipando all’incontro triennale “Joint Witness” dei superiori religiosi e dei vescovi nel 2024, ci siamo resi conto di molti segni di declino: meno fedeli, mancanza di vocazioni sacerdotali e religiose, invecchiamento e diminuzione del numero di religiosi, alcune diocesi in bancarotta, continua perdita/diminuzione di istituzioni cattoliche (assistenza medica, istruzione, opere sociali o media) a causa del forte calo di religiosi e laici impegnati. La Conferenza episcopale cattolica (SACBC – che comprende Botswana, eSwatini e Sudafrica) indica come priorità l’assistenza ai giovani dipendenti dall’alcool e da altre sostanze varie.

Quali sono i segni di speranza che i salesiani dell’Africa meridionale stanno cercando?
Preghiamo ogni giorno per nuove vocazioni salesiane, per poter accogliere nuovi missionari. È infatti finita l’epoca dell’Ispettoria anglo-irlandese (fino al 1988) e il Progetto Africa non comprendeva la punta meridionale del continente. Dopo 70 anni in eSwatini (Swaziland) e 45 anni in Lesotho, abbiamo solo 4 vocazioni locali da ciascun Regno. Oggi abbiamo solo 5 giovani confratelli e 4 novizi in formazione iniziale. Tuttavia, la Visitatoria più piccola dell’Africa-Madagascar, attraverso le sue 7 comunità locali, è incaricata dell’educazione e della cura pastorale in 6 grandi parrocchie, 18 scuole primarie e secondarie, 3 centri di formazione professionale (TVET) e diversi programmi di assistenza sociale. La nostra comunità ispettoriale, con 18 nazionalità diverse tra i 35 SDB che vivono nelle 7 comunità, è un grande dono e una sfida da accogliere.

Come comunità cattolica minoritaria e fragile dell’Africa australe
Crediamo che l’unica strada per il futuro sia quella di costruire più ponti e comunione tra i religiosi e le diocesi: più siamo deboli più ci sforziamo di lavorare insieme. Poiché tutta la Chiesa cattolica cerca di puntare sui giovani, Don Bosco è stato scelto dai vescovi come Patrono della Pastorale Giovanile e la sua Novena viene celebrata con fervore nella maggior parte delle diocesi e delle parrocchie all’inizio dell’anno pastorale.

Come Salesiani e Famiglia Salesiana, ci incoraggiamo costantemente a vicenda: “work in progress” (un lavoro costante)
Negli ultimi due anni, dopo l’invito del Rettor Maggiore, abbiamo cercato di rilanciare il nostro carisma salesiano, con la saggezza di una visione e direzione comune (a partire dall’assemblea annuale ispettoriale), con una serie di piccoli e semplici passi quotidiani nella giusta direzione e con la saggezza della conversione personale e comunitaria.

Siamo grati per l’incoraggiamento di don Pascual Chávez per il nostro recente Capitolo Ispettoriale del 2024: «Sapete bene che è più difficile, ma non impossibile, “rifondare” che fondare [il carisma], perché ci sono abitudini, atteggiamenti o comportamenti che non corrispondono allo spirito del nostro Santo Fondatore, don Bosco, e al suo Progetto di Vita, e hanno “diritto di cittadinanza” [nell’Ispettoria]. C’è davvero bisogno di una vera conversione di ogni confratello a Dio, tenendo il Vangelo come suprema regola di vita, e di tutta l’Ispettoria a Don Bosco, assumendo le Costituzioni come vero progetto di vita».

È stato votato il consiglio di don Pascual e l’impegno: “Diventare più appassionati di Gesù e dedicati ai giovani”, investendo nella conversione personale (creando uno spazio sacro nella nostra vita, per lasciare che Gesù la trasformi), nella conversione comunitaria (investendo nella formazione permanente sistematica mensile secondo un tema) e nella conversione ispettoriale (promuovendo la mentalità ispettoriale attraverso “One Heart One Soul” – frutto della nostra assemblea ispettoriale) e con incontri mensili online dei direttori.

Sull’immaginetta-ricordo della nostra Visitatoria del Beato Michele Rua, accanto ai volti di tutti i 46 confratelli e 4 novizi (35 vivono nelle nostre 7 comunità, 7 sono in formazione all’estero e 5 SDB sono in attesa del visto, con uno a San Callisto-catacombe e un missionario che sta facendo chemioterapia in Polonia). Siamo anche benedetti da un numero crescente di confratelli missionari che vengono inviati dal Rettor Maggiore o per un periodo specifico da altre Ispettorie africane per aiutarci (AFC, ACC, ANN, ATE, MDG e ZMB). Siamo molto grati a ciascuno di questi giovani confratelli. Crediamo che, con il loro aiuto, la nostra speranza di rilancio carismatico stia diventando tangibile. La nostra Visitatoria – la più piccola dell’Africa-Madagascar, dopo quasi 40 anni dalla fondazione, non ha ancora una vera e propria casa ispettoriale. La costruzione è iniziata, con l’aiuto del Rettor Maggiore, solo l’anno scorso. Anche qui diciamo: “lavori in corso”…

Vogliamo condividere anche i nostri umili segni di speranza con tutte le altre 92 Ispettorie in questo prezioso periodo del Capitolo Generale. L’AFM ha un’esperienza unica di 31 anni di volontari missionari locali (coinvolti nella Pastorale Giovanile del Centro Giovanile Bosco di Johannesburg dal 1994), il programma “Love Matters” per una sana crescita sessuale degli adolescenti dal 2001. I nostri volontari, infatti, coinvolti per un anno intero nella vita della nostra comunità, sono membri più preziosi della nostra Missione e dei nuovi gruppi della Famiglia Salesiana che stanno lentamente crescendo (VDB, Salesiani Cooperatori e Ex-allievi di Don Bosco).

La nostra casa madre di Città del Capo celebrerà già l’anno prossimo il suo cento trentesimo (130°) anniversario e, grazie al cento cinquantesimo (150°) anniversario delle Missioni Salesiane, abbiamo realizzato, con l’aiuto dell’Ispettoria della Cina, una speciale “Stanza della Memoria di San Luigi Versiglia”, dove il nostro Protomartire trascorse un giorno durante il suo ritorno dall’Italia in Cina-Macao nel maggio 1917.

Don Bosco ‘Ubuntu’ – cammino sinodale
 “Siamo qui grazie a voi!” – Ubuntu è uno dei contributi delle culture dell’Africa meridionale alla comunità globale. La parola in lingua Nguni significa “Io sono perché voi siete” (“I’m because you are!”. Altre possibili traduzioni: “Ci sono perché ci siete voi”). L’anno scorso abbiamo intrapreso il progetto “Eco Ubuntu” (progetto di sensibilizzazione ambientale della durata di 3 anni) che coinvolge circa 15.000 giovani delle nostre 7 comunità in eSwatini, Lesotho e Sudafrica. Oltre alla splendida celebrazione e alla condivisione del Sinodo dei Giovani 2024, i nostri 300 giovani [che hanno partecipato] conservano soprattutto Ubuntu nei loro ricordi. Il loro entusiasmo è una fonte di ispirazione. L’AFM ha bisogno di voi: Ci siamo grazie a voi!

Marco Fulgaro




Venerabile Ottavio Ortiz Arrieta Coya, vescovo

Ottavio Ortiz Arrieta Coya, nato a Lima, in Perù, il 19 aprile 1878, è stato il primo salesiano peruviano. Da giovane si formò come falegname, ma il Signore lo chiamò a una missione più alta. Emise la sua prima professione salesiana il 29 gennaio 1900 e fu ordinato sacerdote nel 1908. Nel 1922 fu consacrato vescovo della diocesi di Chachapoyas, incarico che mantenne con dedizione fino alla morte, avvenuta il 1º marzo 1958. Due volte rifiutò la nomina alla più prestigiosa sede di Lima, preferendo restare vicino al suo popolo. Instancabile pastore, percorse tutta la diocesi per conoscere personalmente i fedeli e promosse numerose iniziative pastorali per l’evangelizzazione. Il 12 novembre 1990, sotto il pontificato di San Giovanni Paolo II, fu aperta la sua causa di canonizzazione, e gli fu attribuito il titolo di Servo di Dio. Il 27 febbraio 2017, papa Francesco ne ha riconosciuto le virtù eroiche, dichiarandolo Venerabile.


            Il venerabile Mons. Ottavio Ortiz Arrieta Coya trascorse la prima parte della vita quale oratoriano, studente e quindi diventò egli stesso Salesiano, impegnato nelle opere dei Figli di Don Bosco in Perù. Fu il primo Salesiano formatosi nella prima casa salesiana del Perù, fondata nel Rimac, un quartiere povero, dove imparò a vivere una vita austera di sacrificio. Tra i primi Salesiani che arrivarono in Perù nel 1891, conobbe lo spirito di Don Bosco e il Sistema Preventivo. Come Salesiano della prima generazione apprese che il servizio e il dono di sé sarebbero stati l’orizzonte della sua vita; per questo fin da giovane salesiano assunse importanti responsabilità, come l’apertura di nuove opere e la direzione di altre, con semplicità, sacrificio e totale dedizione ai poveri.
            Visse la seconda parte della vita, dall’inizio degli anni venti, come vescovo di Chachapoyas, diocesi immensa, vacante da anni, in cui le proibitive condizioni del territorio si sommavano a una certa chiusura, soprattutto nei villaggi più sperduti. Qui il campo e le sfide dell’apostolato erano immensi. Ortiz Arrieta era di temperamento vivace, abituato alla vita comunitaria; inoltre delicatissimo d’animo, al punto da venire chiamato “pecadito” nei suoi giovani anni, per la sua esattezza nel rilevare le mancanze e aiutare sé stesso e gli altri a emendarsene. Disponeva inoltre di un innato senso del rigore e del dovere morale. Le condizioni in cui dovette svolgere il ministero episcopale gli si prospettano invece diametralmente opposte: solitudine e sostanziale impossibilità a condividere una vita salesiana e sacerdotale, nonostante le reiterate e quasi supplicanti richieste alla propria Congregazione; necessità di contemperare il proprio rigore morale con una fermezza sempre più docile e quasi disarmata; fine coscienza morale continuamente messa alla prova da grossolanità di scelte e tiepidezza nella sequela, da parte di alcuni collaboratori meno eroici di lui, e di un popolo di Dio che sapeva opporsi al vescovo quando la sua parola diveniva denuncia di ingiustizia e diagnosi dei mali spirituali. Il cammino del venerabile verso la pienezza della santità, nell’esercizio delle virtù, fu pertanto segnato da fatiche, difficoltà e dalla continua necessità di convertire il proprio sguardo e il proprio cuore, sotto l’azione dello Spirito.
            Se senz’altro troviamo nella sua vita episodi definibili come eroici in senso stretto, occorre però evidenziare nel suo cammino virtuoso anche e forse soprattutto quei momenti in cui egli avrebbe potuto agire diversamente, ma non lo fece; cedere all’umana disperazione, mentre rinnovò la speranza; accontentarsi di una carità grande, senza però dare piena disponibilità all’esercizio di quella carità eroica che invece praticò con esemplare fedeltà per diversi decenni. Quando, per due volte, gli venne proposto di cambiare sede, e nel secondo caso gli fu offerta la sede primaziale di Lima, decise di restare tra i suoi poveri, quelli che nessuno voleva, davvero alla periferia del mondo, rimanendo nella diocesi che aveva per sempre sposato e amato così come essa era, impegnandosi con tutto sé stesso a renderla anche solo un poco migliore. Fu pastore “moderno” nel suo stile di presenza e nel ricorso a mezzi di azione come l’associazionismo e la stampa. Uomo di temperamento deciso e di salde convinzioni di fede, Mons. Ortiz Arrieta usò certamente di questo “don de gobierno” nella sua guida, sempre unita però al rispetto e alla carità, espressi con coerenza straordinaria.
            Benché sia vissuto prima del Concilio Vaticano II, tuttavia è attuale il modo in cui egli pianificò e svolse gli incarichi pastorali a lui affidati: dalla pastorale vocazionale al concreto appoggio ai suoi seminaristi e sacerdoti; dalla formazione catechetica e umana dei più giovani a quella pastorale familiare attraverso cui incontra coppie di sposi in crisi o coppie di conviventi restii nel regolarizzare la loro unione. Mons. Ortiz Arrieta del resto non educa solo con la sua concreta azione pastorale, ma con il suo stesso comportamento: con la capacità di discernere per sé stesso, prima di tutto, che cosa significhi e che cosa comporti rinnovare la fedeltà alla strada intrapresa. Egli davvero ha perseverato nella povertà eroica, nella fortezza attraverso le numerose prove della vita e nella radicale fedeltà alla diocesi cui era stato assegnato. Umile, semplice, sempre sereno; tra il serio e il gentile; la dolcezza del suo sguardo faceva trasparire tutta la tranquillità del suo spirito: questo fu il cammino della santità che percorse.
            Le belle caratteristiche che i suoi superiori salesiani riscontrarono in lui prima dell’ordinazione sacerdotale – quando lo definiscono una “perla di salesiano” e ne valorizzano lo spirito di sacrificio – ritornano come una costante in tutta la sua vita, anche episcopale. Davvero si può dire che Ortiz Arrieta si sia «fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22): autorevole con le autorità, semplice con i bambini, povero tra i poveri; mite con chi lo insultava o tentava per rancore di delegittimarlo; sempre pronto a non restituire male per male, ma a vincere il male con il bene (cf Rm 12,21). Tutta la sua vita fu dominata dal primato della salvezza delle anime: una salvezza cui vorrebbe fattivamente dedicati anche i suoi sacerdoti, dei quali prova a contrastare la tentazione di rinserrarsi entro facili sicurezze o trincerarsi dietro incarichi di maggior prestigio, per impegnarli invece nel servizio pastorale. Si può davvero dire che si sia situato in quella misura “alta” della vita cristiana, che ne fa un pastore che incarnò in modo originale la carità pastorale, cercando la comunione nel popolo di Dio, andando verso i più bisognosi e testimoniando una vita evangelica povera.




La sindrome di Filippo e quella di Andrea

Nel racconto del vangelo di Giovanni, capitolo 6, versetti 4-14, che presenta la moltiplicazione dei pani, abbiamo alcuni dettagli sui quali mi soffermo un po’ a lungo tutte quelle volte che io medito o commento questo brano.

Tutto inizia quando davanti alla “grande” folla affamata, Gesù invita i discepoli a prendere la responsabilità di darle da mangiare.
I dettagli di cui parlo sono, il primo, quando Filippo dice che non è possibile assumere questa chiamata a causa della quantità di gente presente. Andrea, invece, mentre fa notare che “c’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci” per poi sottovalutare questa stessa possibilità con un semplice commento: “ma che cos’è questo per tanta gente?” (v.9).
Desidero semplicemente condividere con voi, carissimi lettrici e lettori, come noi cristiani, che abbiamo la chiamata di condividere la gioia della nostra fede, alcune volte, senza saperlo, possiamo essere contagiati dalla sindrome di Filippo o da quella di Andrea. Qualche volta forse anche da ambedue!
Nella vita della Chiesa, come anche nella vita della Congregazione e della Famiglia Salesiana le sfide non mancano e non mancheranno mai. La nostra non è una chiamata a formare un gruppo di persone dove si cerca soltanto di stare bene, senza disturbare e senza essere disturbati. Non è una esperienza fatta di certezze prefabbricate. Fare parte del corpo di Cristo non ci deve distrarre e neanche toglierci dalla realtà del mondo, così com’è. Al contrario, ci spinge ad esserne pienamente coinvolti nelle vicende della storia umana. Ciò significa innanzitutto guardare la realtà con soltanto con gli occhi umani, ma anche, e soprattutto, con gli occhi di Gesù. Siamo invitati a rispondere guidato dall’amore che trova la sua fonte nel cuore di Gesù, cioè vivere per gli altri come Gesù ci insegna e ci mostra.

La sindrome di Filippo
La sindrome di Filippo è sottile e per questo motivo che è anche molto pericolosa. L’analisi che fa Filippo è giusta e corretta. La sua risposta all’invito di Gesù non è sbagliata. Il suo ragionamento segue una logica umana molto lineare e senza difetti. Guardava la realtà con i suoi occhi umani, con una mente razionale e, a conti fatti, non percorribile. Davanti a questo modo “ragionato” di procedere, l’affamato smette di interpellarmi, il problema è suo, non mio. Per essere più precisi alla luce di ciò che viviamo quotidianamente: il rifugiato poteva stare a casa sua, non deve disturbarmi; il povero e il malato se la vedono loro e non spetta a me essere parte del loro problema, tantomeno per trovare loro la soluzione. Ecco la sindrome di Filippo. È un seguace di Gesù, però la sua maniera di vedere e interpretare la realtà ancora è ferma, non sfidata, lontana anni luce di quella del suo maestro.

La sindrome di Andrea
Segue la sindrome di Andrea. Non dico che è peggio della sindrome di Filippo, ma ci manca poco per essere più tragica. È una sindrome fine e cinica: vede qualche possibile opportunità, però non va oltre. C’è una piccolissima speranza, però umanamente non è percorribile. Allora si giunge a squalificare sia il dono come anche il donatore. E il donatore a chi in questo caso tocca “sfortuna”, è un ragazzo che è semplicemente pronto a condivider quello che ha!
Due sindromi che sono ancora con noi, nella Chiesa e anche tra noi pastori e educatori. Stroncare una piccola speranza è più facile che dare spazio alla sorpresa di Dio, una sorpresa che può far sbocciare una seppur piccola speranza. Lasciarsi condizionare da clichés dominanti per non esplorare opportunità che sfidano letture ed interpretazioni riduttive, è una tentazione permanente. Se non stiamo attenti, diventiamo profeti ed esecutori della nostra stessa rovina. A forza di restare chiusi in una logica umana, “accademicamente” raffinata e “intellettualmente” qualificata, lo spazio ad una lettura evangelica diventa sempre più limitato, e finisce per sparire.
Quando questa logica umana e orizzontale è messa in crisi, per difendersi uno dei segni che suscita è quello del “ridicolo”. Chi osa sfidare la logica umana perché lascia entrare l’aria fresca del Vangelo, sarà riempito di ridicolo, attaccato, preso in giro. Quando questo è il caso, stranamente possiamo dire che siamo davanti ad una strada profetica. Le acque si muovono.

Gesù e le due sindromi
Gesù supera le due sindromi “prendendo” i pani considerati pochi e per conseguenza irrilevanti. Gesù apre la porta a quello spazio profetico e di fede che ci è chiesto di abitare. Davanti alla folla non possiamo accontentarci di fare letture e interpretazioni autoreferenziali. Seguire Gesù implica andare oltre il ragionamento umano. Siamo chiamati a guardare alle sfide con i suoi occhi. Quando Gesù ci chiama, da noi non chiede soluzioni ma donazione di tutto noi stessi, con ciò che siamo e ciò che abbiamo. Eppure, il rischio è che davanti alla sua chiamata rimaniamo fermi, per conseguenza schiavi, del nostro pensiero e avidi di ciò che crediamo di possedere.
Solo nella generosità fondata sull’abbandono alla sua Parola arriviamo a raccogliere l’abbondanza dell’agire provvidenziale di Gesù. “Essi quindi li raccolsero e riempirono dodici ceste di pezzi che di quei cinque pani d’orzo erano avanzati a quelli che avevano mangiato” (v.13): il piccolo dono del ragazzo fruttifica in maniera sorprendente solo perché i due sindromi non hanno avuto l’ultima parola.
Papa Benedetto così commenta questo gesto del ragazzo: “Nella scena della moltiplicazione, viene segnalata anche la presenza di un ragazzo, che, di fronte alla difficoltà di sfamare tanta gente, mette in comune quel poco che ha: cinque pani e due pesci. Il miracolo non si produce da niente, ma da una prima modesta condivisione di ciò che un semplice ragazzo aveva con sé. Gesù non ci chiede quello che non abbiamo, ma ci fa vedere che se ciascuno offre quel poco che ha, può compiersi sempre di nuovo il miracolo: Dio è capace di moltiplicare il nostro piccolo gesto di amore e renderci partecipi del suo dono” (Angelus, 29 luglio 2012).
Davanti alle sfide pastorali che abbiamo, davanti a tanta sete e fame di spiritualità che i giovani esprimono, cerchiamo di non aver paura, di non restare attaccati alle nostre cose, ai nostri modi di pensare. Offriamo quel poco che abbiamo a Lui, affidiamoci alla luce della sua Parola e che questa e solo questa sia il criterio permanente delle nostre scelte e la luce che guida le nostre azioni.

Foto: Miracolo evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci, vetrata dell’Abbazia Tewkesbury di Gloucestershire (Regno Unito), opera del 1888, realizzata dalla Hardman & Co




Il Venerabile padre Carlo Crespi “testimone e pellegrino di speranza”

Padre Carlo Crespi, missionario salesiano in Ecuador, ha vissuto la sua vita dedicandosi alla fede e alla speranza. Negli ultimi anni, nel santuario di Maria Ausiliatrice, ha consolato fedeli, infondendo ottimismo anche nei momenti di crisi. La sua pratica esemplare delle virtù teologali, evidenziata dalla testimonianza di chi lo conosceva, si è espressa anche nell’impegno per l’educazione: fondando scuole e istituti, ha offerto ai giovani nuove prospettive. Il suo esempio di resilienza e dedizione continua ad illuminare il cammino spirituale e umano della comunità. Il suo lascito perdura e ispira generazioni di credenti.

            Negli ultimi anni della sua vita, padre Carlo Crespi (Legnano, 29 maggio 1891 – Cuenca, 30 aprile 1982), missionario salesiano in Ecuador, messi gradualmente in secondo piano gli aneliti accademici della giovinezza, si circonda di essenzialità e la sua crescita spirituale appare inarrestabile. Viene visto nel santuario di Maria Ausiliatrice a divulgare la devozione alla Vergine, a confessare e a consigliare file interminabili di fedeli, rispetto ai quali gli orari, i pasti e persino il sonno non contano più. Così come aveva fatto in modo esemplare per tutta la vita, tiene lo sguardo fisso verso i beni eterni, che ora appaiono quanto mai vicini.
            Egli aveva quella speranza escatologica che si lega alle aspettative dell’uomo in vita e oltre la morte, influenzando in modo significativo la visione del mondo e il comportamento quotidiano. Secondo san Paolo, la speranza è un ingrediente indispensabile per una vita che si dona, che cresce collaborando con gli altri e sviluppando la propria libertà. Il futuro diventa così un compito collettivo che ci fa crescere come persone. La sua presenza ci invita a guardare al futuro con un senso di fiducia, intraprendenza e connessione con gli altri.
            Questa era la speranza del Venerabile padre Crespi! Una grande virtù che, come le braccia di un giogo, sorregge la fede e la carità; come il braccio trasverso della croce è trono di salvezza, è appoggio del serpente salutare alzato da Mosè nel deserto; ponte dell’anima per spiccare il volo nella luce.
            Il non comune livello raggiunto dal padre Crespi nella pratica di tutte le virtù è stato evidenziato, in maniera concorde, dai testimoni ascoltati nel corso della Inchiesta diocesana della Causa di beatificazione, ma emerge anche dall’analisi attenta dei documenti e dalle vicende biografiche di padre Carlo Crespi. L’esercizio delle virtù cristiane da parte sua fu, a detta di chi lo conobbe, non solo fuori dal comune, ma anche costante nel corso della sua lunga vita. La gente lo seguiva fedelmente perché nel suo quotidiano traspariva, quasi naturalmente, l’esercizio delle virtù teologali, tra le quali la speranza spiccava in modo particolare nei tanti momenti di difficoltà. Egli seminò la speranza nel cuore delle persone e visse tale virtù in massimo grado.
            Quando la scuola “Cornelio Merchan” fu distrutta da un incendio, al popolo accorso in lacrime davanti alle rovine fumanti, egli, pure piangente, manifestò una costante e non comune speranza incoraggiando tutti: “Pachilla non c’è più, ma noi ne costruiremo una migliore e i bambini saranno più felici e più contenti“. Dalle sue labbra non uscì mai una parola di amarezza o di dolore per ciò che era andato perduto.
            Alla scuola di don Bosco e di Mamma Margherita, ha vissuto e testimoniato la speranza in pienezza perché, confidando nel Signore e sperando nella Divina Provvidenza, ha realizzato grandi opere e servizi senza budget, anche se non gli è mai mancato il denaro. Non aveva tempo per agitarsi o disperarsi, il suo atteggiamento positivo dava fiducia e speranza agli altri.
            Don Carlo veniva spesso descritto come un uomo dal cuore ricco di ottimismo e speranza davanti alle grandi sofferenze della vita, perché era portato a relativizzare le vicende umane, anche le più difficili; in mezzo alla sua gente era testimone e pellegrino di speranza nel cammino della vita!
            Molto edificante, al fine di comprendere in che modo ed in quali ambiti della vita del Venerabile la virtù della speranza trovò concreta espressione, è anche il racconto che lo stesso padre Carlo Crespi fa in una lettera, inviata da Cuenca nel 1925, al Rettor Maggiore don Filippo Rinaldi. In essa, accogliendo una sua insistente richiesta, gli riferisce un episodio vissuto in prima persona, quando, nel consolare una donna kivara per la perdita prematura del figlio, le annuncia la buona novella della vita senza fine: “Commosso fino alle lacrime mi accostai alla veneranda figlia della selva dai capelli sciolti al vento: l’assicurai che il figlio era morto bene, che prima di morire non aveva avuto sulle labbra che il nome della madre lontana, e che aveva avuto una sepoltura in una cassa espressamente lavorata, essendo certamente la sua anima stata raccolta dal grande Iddio nel Paradiso […]. Potei quindi scambiare tranquillamente alcune parole, gettando in quel cuore infranto il soave balsamo della Fede e della Speranza cristiana”.
            La pratica della virtù della speranza crebbe parallelamente alla pratica delle altre virtù cristiane, incentivandole: fu uomo ricco di fede, di speranza e di carità.
            Quando la situazione socio-economica di Cuenca nel XX secolo peggiorò notevolmente, creando importanti ripercussioni sulla vita della popolazione, ebbe l’intuizione di comprendere che formando i giovani da un punto di vista umano, culturale e spirituale, avrebbe seminato in loro la speranza in una vita e in futuro migliore, contribuendo a cambiare le sorti dell’intera società.
            Padre Crespi intraprese, pertanto, numerose iniziative in favore della gioventù di Cuenca, partendo anzitutto dall’educazione scolastica. La Scuola Popolare Salesiana “Cornelio Merchán”; il Collegio Normale Orientalista rivolto agli insegnanti salesiani; la fondazione delle scuole d’arti e mestieri – che in seguito diventarono il “Técnico Salesiano” e l’Istituto Tecnologico Superiore, culminante nell’Università Politecnica Salesiana – confermano il desiderio del Servo di Dio di offrire alla popolazione cuencana migliori e più numerose prospettive per una crescita spirituale, umana e professionale. I giovani e i poveri, considerati anzitutto quali figli di Dio destinati alla beatitudine eterna, furono quindi raggiunti da padre Crespi attraverso una promozione umana e sociale capace di confluire in una più ampia dinamica, quella della salvezza.
            Tutto ciò fu da lui attuato con pochi mezzi economici, ma abbondante speranza nel futuro dei giovani. Lavorò attivamente senza perdere di vista lo scopo ultimo della propria missione: il conseguimento della vita eterna. È proprio in questo senso che padre Carlo Crespi intese la virtù teologale della speranza ed è attraverso questa prospettiva che passò tutto il suo sacerdozio.
La riaffermazione della vita eterna fu senza dubbio uno dei temi centrali trattati negli scritti di padre Carlo Crespi. Questo dato ci permette di cogliere l’evidente importanza da lui assegnata alla virtù della speranza. Tale dato mostra chiaramente come la pratica di questa virtù permeò costantemente il percorso terreno del Servo di Dio.
            Nemmeno la malattia poté spegnere l’inesauribile speranza che sempre animò padre Crespi.
            Poco prima di chiudere la propria esistenza terrena don Carlo chiese che gli fosse dato fra le mani un crocifisso. La sua morte avvenne il 30 aprile 1982 alle ore 17.30 nella Clinica Santa Inés di Cuenca a causa di una broncopolmonite e d’un attacco cardiaco.
            Il medico personale del Venerabile Servo di Dio, che per 25 anni e fino alla morte, fu testimone diretto della serenità e della consapevolezza con la quale padre Crespi, che sempre aveva vissuto con lo sguardo rivolto al cielo, visse il tanto atteso incontro con Gesù.
            Nel processo testimoniò: “Per me un segno speciale è proprio quell’atteggiamento di aver comunicato con noi in un atto semplicemente umano, ridendo e scherzando e, quando -dico- ha visto che le porte dell’eternità erano aperte e forse la Vergine l’aspettava, ci ha zittito e ci ha fatto pregare tutti”.

Carlo Riganti,
Presidente Associazione Carlo Crespi




Padre Crespi e il Giubileo del 1925

Nel 1925, in vista dell’Anno Santo, Padre Carlo Crespi si fece promotore di una mostra missionaria internazionale. Richiamato dal Collegio Manfredini di Este, fu incaricato di documentare le imprese missionarie in Ecuador, raccogliendo materiali scientifici, etnografici e audiovisivi. Grazie a viaggi e proiezioni, la sua opera collegò Roma e Torino, evidenziando l’impegno salesiano e rafforzando i legami tra istituzioni ecclesiastiche e civili. Il suo coraggio e la sua visione trasformarono la sfida missionaria in un successo espositivo, lasciando un segno indelebile nella storia della Propaganda Fide e dell’azione missionaria salesiana.

            Quando Pio XI, in vista dell’Anno Santo del 1925, volle programmare a Roma una documentata Esposizione Missionaria Internazionale Vaticana, i Salesiani fecero propria l’iniziativa con una Mostra Missionaria, da tenersi a Torino nel 1926, anche in funzione del 50° delle Missioni salesiane. A tale scopo i Superiori pensarono subito a don Carlo Crespi e lo chiamarono dal Collegio Manfredini di Este, dove era stato assegnato per insegnare Scienze naturali, Matematica e Musica.
            A Torino don Carlo conferì con il Rettore Maggiore, don Filippo Rinaldi, con il superiore referente per le missioni, don Pietro Ricaldone e, in particolare, con Mons. Domenico Comin, vicario apostolico di Méndez e Gualaquiza (Ecuador), che ne doveva appoggiare l’opera. In quel momento, viaggi, esplorazioni, ricerche, studi e quant’altro doveva nascere dall’opera di Carlo Crespi, ebbero l’avallo e il via ufficiale dai Superiori. Seppure mancassero quattro anni alla progettata Esposizione, chiesero a don Carlo di occuparsene direttamente, affinché svolgesse al completo un lavoro scientificamente serio e credibile.
Si trattava di:
            1. Creare un clima d’interesse a favore dei Salesiani operanti nella missione ecuadoriana di Méndez, valorizzandone le imprese tramite documentazioni scritte e orali, e provvedendo ad una congrua raccolta di fondi.
            2. Raccogliere materiale per l’allestimento dell’Esposizione Missionaria Internazionale di Roma e, trasferirlo successivamente a Torino, per commemorare solennemente i primi cinquant’anni delle missioni salesiane.
            3. Effettuare uno studio scientifico del suddetto territorio al fine di convogliare i risultati, non solo nelle mostre di Roma e Torino, ma soprattutto in un Museo permanente e in un’opera “storico-geo-etnografica” precisa.
            Dal 1921 in avanti, i Superiori incaricarono don Carlo di condurre in diverse città italiane attività propagandistiche a favore delle missioni. Per sensibilizzare l’opinione pubblica al riguardo, don Carlo organizzò la proiezione di documentari sulla Patagonia, la Terra del Fuoco e gli indios del Mato Grosso. Ai filmati girati dai missionari, abbinò commenti musicali eseguiti personalmente al pianoforte.
            La propaganda con conferenze fruttò circa 15 mila lire [rivalutati corrispondono a € 14.684] spese poi per i viaggi, il trasporto e per i seguenti materiali: una macchina fotografica, una cinepresa, una macchina da scrivere, alcune bussole, teodoliti, livelle, pluviometri, una cassetta di medicinali, attrezzi da agricoltura, tende da campo.
            Diversi industriali del milanese offersero alcuni quintali di tessuti per il valore di 80 mila lire [€ 78.318], tessuti che furono ripartiti più tardi fra gli indios.
            Il 22 marzo 1923 padre Crespi s’imbarca, dunque, sul piroscafo “Venezuela”, alla volta di Guayaquil, il porto fluviale e marittimo più importante dell’Ecuador, di fatto la capitale commerciale ed economica del Paese, soprannominata per la sua bellezza: “La Perla del Pacifico”.
            In uno scritto successivo rievocherà con grande commozione la sua partenza per le Missioni: “Ricordo la mia partenza da Genova il 22 marzo dell’anno 1923 […]. Quando, tolti i ponti che ancora ci tenevano avvinti alla terra natia, il bastimento incominciò a muoversi, l’anima mia fu pervasa da una gioia così travolgente, così sovrumana, così ineffabile, che tale non l’avevo mai provata in nessun istante della mia vita, neppure nel giorno della mia prima Comunione, neppure nel giorno della mia prima Messa. In quell’istante cominciai a comprendere che cosa era il missionario e che cosa a lui riserbava Iddio […]. Pregate fervidamente, affinché Iddio ci conservi la santa vocazione e ci renda degni della nostra santa missione; affinché nessuna perisca delle anime, che nei suoi eterni decreti Iddio ha voluto che si salvassero per mezzo nostro, affinché ci faccia baldi campioni della fede, fino alla morte, fino al martirio” (Carlo Crespi, Nuovo drappello. L’inno della riconoscenza, in Bollettino Salesiano, L, nr.12, dicembre 1926).
            Don Carlo adempì l’incarico ricevuto mettendo in pratica le conoscenze universitarie, in particolare attraverso la campionatura di minerali, flora e fauna provenienti dall’Ecuador. Ben presto, però, andò oltre la missione affidatagli, entusiasmandosi su temi di carattere etnografico e archeologico che, in seguito, occuperanno molto tempo della sua intensa vita.
            Fin dai primi itinerari, Carlo Crespi non si limita ad ammirare, ma raccoglie, classifica, appunta, fotografa, filma e documenta qualunque cosa attragga la sua attenzione di studioso. Con entusiasmo, si addentra nell’Oriente ecuadoriano per film, documentari e per raccogliere valide collezioni botaniche, zoologiche, etniche e archeologiche.
            Questo è quel mondo magnetico che già gli vibrava nel cuore ancor prima di arrivarci, del quale così riferisce all’interno dei suoi quadernetti: “In questi giorni una voce nuova, insistente, mi suona nell’animo, una sacra nostalgia dei paesi di missione; qualche volta anche per il desiderio di conoscere in particolare cose scientifiche. Oh Signore! Sono disposto a tutto, ad abbandonare la famiglia, i parenti, i compagni di studi; il tutto per salvare qualche anima, se questo è il tuo desiderio, la tua volontà” (Senza luogo, senza data. – Appunti personali e riflessioni del Servo di Dio su temi di natura spirituale tratti da 4 quadernetti).
            Un primo itinerario, durato tre mesi, iniziò a Cuenca, toccò Gualaceo, Indanza e terminò al fiume Santiago. Raggiunse poi la valle del fiume San Francesco, la laguna di Patococha, Tres Palmas, Culebrillas, Potrerillos (la località più alta, a 3.800 m s.l.m.), Rio Ishpingo, la collina di Puerco Grande, Tinajillas, Zapote, Loma de Puerco Chico, Plan de Milagro e Pianoro. In ognuno di questi luoghi raccolse campioni da essiccare e integrare nelle varie collezioni. Taccuini da campo e numerose fotografie documentano il tutto con precisione.
            Carlo Crespi organizzò un secondo viaggio attraverso le valli di Yanganza, Limón, Peña Blanca, Tzaranbiza, nonché lungo il sentiero di Indanza. Com’è facile supporre, gli spostamenti all’epoca erano difficoltosi: esistevano solamente mulattiere, oltre a precipizi, condizioni climatiche inospitali, belve pericolose, ofidi letali e malattie tropicali.
            A ciò si aggiungeva il pericolo di attacchi da parte degli indomiti abitanti dell’Oriente che don Carlo, però, riuscì ad avvicinare, ponendo le premesse del lungometraggio “Los invencibles Shuaras del Alto Amazonas”, che girerà nel 1926 e verrà proiettato il 26 febbraio 1927 a Guayaquil. Superando tutte queste insidie, riuscì a riunire seicento varietà di coleotteri, sessanta uccelli imbalsamati dal meraviglioso piumaggio, muschi, licheni, felci. Studiò circa duecento specie locali e, utilizzando la sotto classificazione dei luoghi visitati dai naturalisti sulle Allioni, s’imbatte in 21 varietà di felci, appartenenti alla zona tropicale al di sotto degli 800 m s.l.m.; 72 a quella subtropicale che va dagli 800 ai 1.500 m s.l.m.; 102 a quella Subandina, tra i 1.500 e i 3.400 m s.l.m., e 19 a quella Andina, superiore ai 3.600 m s.l.m. (Interessantissimo è il commento del prof. Roberto Bosco, prestigioso botanico e componente della Società Botanica Italiana che, quattordici anni dopo, nel 1938, decise di studiare e ordinare sistematicamente “la vistosa collezione di felci” preparata in pochi mesi dal “Prof. Carlo Crespi, erborizzando nell’Equatore).
            Le specie maggiormente degne di nota, studiate da Roberto Bosco, furono battezzate “Crespiane”.
            Per riassumere: già nell’ottobre del 1923, don Carlo, per preparare l’Esposizione Vaticana, aveva organizzato le prime escursioni missionarie per tutto il Vicariato, fino a Méndez, Gualaquiza e Indanza, raccogliendo materiali etnografici e molta documentazione fotografica. Le spese furono coperte con i tessuti e i finanziamenti raccolti in Italia. Con il materiale raccolto, che in seguito avrebbe trasferito in Italia, organizzò un’Esposizione fieristica, tra i mesi di giugno e luglio del 1924, nella città di Guayaquil. Il lavoro suscitò giudizi entusiastici, riconoscimenti e aiuti. Di questa Esposizione riferirà, dieci anni dopo, in una lettera del 31 dicembre 1935 ai Superiori di Torino, per informarli sui fondi raccolti dal novembre 1922 al novembre 1935.
            Padre Crespi passò il primo semestre del 1925 nelle foreste della zona di Sucùa-Macas, studiando la lingua Shuar e raccogliendo ulteriore materiale per l’Esposizione missionaria di Torino. Nell’agosto dello stesso anno cominciò una trattativa con il Governo per ottenere un grosso finanziamento, che si concluse il 12 settembre con un contratto per 110.000 sucres (pari a 500.000 lire di allora e che oggi sarebbero € 489.493,46), che permettesse di ultimare la mulattiera Pan-Méndez). Inoltre, ottenne pure il permesso di ritirare dalla dogana 200 quintali di ferro e materiale sequestrato ad alcuni commercianti.
            Nel 1926 don Carlo, rientrato in Italia, portò gabbie con animali vivi della zona orientale dell’Ecuador (una difficile raccolta di uccelli ed animali rari) e casse con materiale etnografico, per l’Esposizione Missionaria di Torino, che organizzò personalmente tenendovi anche il discorso ufficiale di chiusura il 10 ottobre.
            Nello stesso anno fu occupato nell’organizzare l’Esposizione e, poi, nel tenere diverse conferenze e partecipando al Congresso Americano di Roma con due conferenze scientifiche. Questo suo entusiasmo e questa sua competenza e ricerca scientifica rispondevano perfettamente alle direttive dei Superiori, e, pertanto, attraverso l’Esposizione Missionaria Internazionale del 1925 a Roma e del 1926 a Torino, l’Ecuador poté essere ampiamente conosciuto. Inoltre, a livello ecclesiale, contattò l’Opera di Propaganda Fide, la Santa Infanzia e l’Associazione per il Clero Indigeno. A livello civile, intrecciò rapporti con il Ministero degli Esteri del Governo Italiano.
            Da questi contatti e dalle interviste con i Superiori della Congregazione Salesiana, si ottennero alcuni risultati. In primo luogo i Superiori gli fecero il regalo di concedergli 4 sacerdoti, 4 seminaristi, 9 fratelli coadiutori, e 4 suore per il Vicariato. Inoltre, ottenne una serie di aiuti economici dagli Organismi Vaticani e la collaborazione con materiale sanitario per gli ospedali, per il valore di circa 100.000 lire (€ 97.898,69). Come regalo dei Superiori Maggiori per l’aiuto prestato per l’Esposizione Missionaria, essi si fecero carico della costruzione della Chiesa di Macas, con due quote di 50.000 lire (€ 48,949, 35), inviate direttamente a Mons. Domenico Comin.
            Esaurito il compito di collezionista fornitore e animatore delle grandi mostre internazionali, padre Crespi nel 1927 tornò in Ecuador, che divenne la sua seconda patria. Si stabilì nel Vicariato, sotto la giurisdizione del vescovo, Mons. Comin, sempre dedito, in spirito di obbedienza, a escursioni di propaganda, per assicurare sovvenzioni e fondi speciali, necessari alle opere delle missioni, quali la strada Pan Méndez, l’Hospital Guayaquil, la scuola Guayaquil a Macas, l’Hospital Quito a Méndez, la Scuola agricola di Cuenca, città dove, già dal 1927, incominciò a sviluppare il suo apostolato sacerdotale e salesiano.
            Per alcuni anni, poi continuò a occuparsi di scienze, ma sempre con lo spirito dell’apostolo.

Carlo Riganti
Presidente Associazione Carlo Crespi

Immagine: 24 marzo 1923 – Padre Carlo Crespi In partenza per l’Ecuador sul Piroscafo Venezuela




Venerabile Francesco Convertini, pastore secondo il Cuore di Gesu

Il venerabile don Francesco Convertini, salesiano missionario in India, emerge come un pastore secondo il Cuore di Gesù, forgiato dallo Spirito e totalmente fedele al progetto divino sulla sua vita. Attraverso le testimonianze di quanti l’hanno incontrato, si delineano la sua umiltà profonda, la dedizione incondizionata all’annuncio del Vangelo e il fervido amore per Dio e per il prossimo. Visse con gioiosa semplicità evangelica, affrontando fatiche e sacrifici con coraggio e generosità, sempre attento a chiunque incontrasse sul suo cammino.

1. Contadino nella vigna del Signore
            Presentare il profilo virtuoso di padre Francesco Convertini, missionario salesiano in India, un uomo che si è lasciato plasmare dallo Spirito e ha saputo realizzare la sua fisionomia spirituale secondo il disegno di Dio su di lui, è qualcosa di bello e di serio nello stesso tempo, perché richiama il senso vero della vita, come risposta a una chiamata, a una promessa, a un progetto di grazia.
            Molto originale è la sintesi tratteggiata su di lui da un sacerdote suo conterraneo, don Quirico Vasta, che conobbe padre Francesco nelle rare visite nella sua amata terra di Puglia. Questo testimone ci offre una sintesi del profilo virtuoso del grande missionario, introducendoci in modo autorevole e avvincente a scoprire qualcosa della statura umana e religiosa di questo uomo di Dio. «La “maniera” per misurare la statura spirituale di questo sant’uomo, di don Francesco Convertini, non è quella, analitica, di comparare la sua vita ai molteplici “parametri di condotta” religiosi (don Francesco, in quanto salesiano, accettò anche gli impegni propri di un religioso: la povertà, l’obbedienza, la castità e vi rimase fedele per tutta la vita). Al contrario, don Francesco Convertini appare, in sintesi, come fu realmente fin dall’inizio: un giovane contadino che, dopo – e forse a causa delle brutture della guerra –, si apre alla luce dello Spirito e, lasciando tutto, si pone al seguito del Signore. Da un lato sa quello che lascia; e lo lascia non solo con il vigore proprio del contadino meridionale, povero ma tenace; ma anche gioiosamente e con quella forza d’animo tutta personale che la guerra ha rinvigorito: quella di chi intende perseguire a testa bassa, ancorché silenziosamente e nel profondo dell’anima, ciò su cui ha concentrato l’attenzione. Dall’altro lato, sempre come un contadino, che ha colto in qualcosa o in qualcuno le “certezze” del futuro e la fondatezza delle proprie speranze e sa “di chi si sta fidando”; lascia che la luce di chi gli ha parlato lo ponga in condizioni di chiarezza operativa. E ne adopera fin da subito le strategie per conseguire lo scopo: la preghiera e la disponibilità senza misura, a qualunque costo. Non a caso, le virtù chiave di questo sant’uomo sono: l’azione silenziosa e senza clamori (cf. S. Paolo: “È quando sono debole che io sono forte”) e un rispettosissimo senso dell’altro (cf. Atti: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”).
Colto in tal modo, don Francesco Convertini risulta per davvero un uomo: schivo, incline a nascondere doti e meriti, alieno dal vantarsi, dolce con gli altri e forte con sé stesso, misurato, equilibrato, prudente e fedele; un uomo di fede, di speranza ed in abituale comunione con Dio; un religioso esemplare, nell’obbedienza, nella povertà, nella castità».

2. Tratti distintivi: “Sprigionava da lui un fascino, che ti sanava”
            Ripercorrendo le tappe della sua infanzia e giovinezza, della preparazione al sacerdozio e della vita missionaria, risulta evidente l’amore particolare di Dio per il suo servo e la corrispondenza di lui verso questo buon Padre. In particolare risaltano come tratti distintivi della sua fisionomia spirituale:

            – Illimitata fede-fiducia in Dio, incarnata nell’abbandono filiale alla divina volontà.
            Viveva una grandissima fiducia nella infinita bontà e misericordia di Dio e nei grandi meriti della passione e morte di Gesù Cristo, a cui tutto confidava e dal quale tutto si aspettava. Sulla salda roccia di tale fede si sobbarcò tutte le fatiche apostoliche. Freddo o caldo, pioggia tropicale o sole scottante, difficoltà o fatica, niente gli impedì di procedere sempre con fiducia, quando si trattava della gloria di Dio e della salvezza delle anime.

            – Incondizionato amore a Gesù Cristo Salvatore, a cui tutto offriva in sacrificio, cominciando dalla sua vita, consegnata alla causa del Regno.
            Padre Convertini si rallegrava della promessa del Salvatore e gioiva nella venuta di Gesù, come Salvatore universale e unico mediatore tra Dio e gli uomini: «Gesù ci diede tutto sé stesso morendo sulla croce e noi non saremo capaci di dare noi stessi a Lui completamente?».

            – Salvezza integrale del prossimo, perseguita con un’appassionata evangelizzazione.
            Gli abbondanti frutti della sua opera missionaria erano dovuti alla sua incessante preghiera e ai sacrifici senza risparmio fatti per il prossimo. Sono uomini e missionari di tale tempra che lasciano un solco indelebile nella storia delle missioni, del carisma salesiano e del ministero sacerdotale.
            Anche nel contatto con gli Indù, con i Musulmani, se da una parte era sollecitato da un vero desiderio di annuncio del Vangelo, che spesso portava alla fede cristiana, dall’altro si sentiva come obbligato a valorizzare quelle verità di fondo facilmente percepibili anche dai non cristiani, quali l’infinita bontà di Dio, l’amore del prossimo come via della salvezza e la preghiera come mezzo per ottenere grazie.

            – Incessante unione con Dio attraverso la preghiera, i sacramenti, l’affidamento a Maria Madre di Dio e nostra, l’amore alla Chiesa e al Papa, la devozione ai santi.
            Si sentiva figlio della Chiesa e la serviva con cuore di autentico discepolo di Gesù e missionario del Vangelo, affidato al Cuore Immacolato di Maria e nella compagnia dei santi sentiti come intercessori e amici.

            – Ascesi evangelica semplice e umile nella sequela della croce, incarnata in una vita straordinariamente ordinaria.
            Traspariva da tutta la sua persona la profonda umiltà, la povertà evangelica (portava con sé l’indispensabile), il volto angelico. Penitenza volontaria, controllo di sé: poco o quasi niente riposo, pasti irregolari. Si privava di tutto per donare ai poveri, anche i vestiti, le scarpe, il letto e il cibo. Dormiva sempre per terra. Digiunava a lungo. Con il passare degli anni contrasse parecchie malattie che minarono la sua salute: soffriva di asma, bronchiti, enfisema, mal di cuore… parecchie volte lo attaccavano in modo tale da costringerlo a stare a letto. Meravigliava come potesse sopportare tutto senza lamentarsi. Era proprio questo che gli attirava la venerazione degli indù, per cui egli era il “sanyasi”, colui che sapeva rinunciare a tutto per amor di Dio e per loro.

            La sua vita appare come una lineare ascesa verso le vette della santità nell’adempimento fedele della volontà di Dio e nella donazione di sé stesso ai fratelli, attraverso il ministero sacerdotale vissuto in fedeltà. Laici, religiosi ed ecclesiastici in modo concorde parlano del suo modo straordinario di vivere il quotidiano.

3. Missionario del Vangelo della gioia: «Ho annunziato loro Gesù. Gesù Salvatore. Gesù misericordioso»
            Non c’è stato un giorno in cui non sia andato da qualche famiglia per parlare di Gesù e del Vangelo. Padre Francesco aveva tale entusiasmo e zelo, da fargli sperare anche cose che sembravano umanamente impossibili. Padre Francesco divenne famoso come pacificatore tra le famiglie, o tra i villaggi in discordia. «Non è per mezzo delle discussioni che si arriva a capire. Dio e Gesù sono oltre le nostre discussioni. Bisogna soprattutto pregare e Dio ci darà il dono della fede. Per mezzo della fede si troverà il Signore. Non è forse scritto nella Bibbia che Dio è amore? Per la via dell’amore si giunge a Dio».

            Era un uomo pacificato interiormente e portava la pace. Voleva che tra la gente, nelle case o nei villaggi, non ci fossero alterchi, o risse, o divisioni. «Nel nostro villaggio eravamo cattolici, protestanti, indù e musulmani. Perché la pace regnasse tra di noi, di tanto in tanto il padre ci radunava tutti insieme e ci diceva come si poteva e si doveva vivere in pace tra di noi. Poi ascoltava coloro che volevano dire qualche cosa e alla fine, dopo aver pregato, dava la benedizione: un modo meraviglioso per conservare la pace tra di noi». Aveva una tranquillità d’animo veramente sorprendente; era la forza che gli veniva dalla certezza che aveva di fare la volontà di Dio, ricercata con fatica, ma poi abbracciata con amore una volta trovata.
            Un uomo che visse con semplicità evangelica, trasparenza di bambino, disponibilità ad ogni sacrificio, sapendo entrare in sintonia con ogni persona che incontrava sul suo cammino, viaggiando a cavallo, o in bicicletta, o più spesso camminando intere giornate a piedi con lo zaino sulle spalle. Appartenne a tutti senza distinzione di religione, di casta, di condizione sociale. Da tutti fu amato, perché a tutti portava “l’acqua di Gesù che salva”.

4. Un uomo dalla fede contagiosa: labbra in preghiera, rosario nelle mani, occhi al cielo
            «Noi sappiamo da lui che egli mai tralasciò la preghiera, sia quando si trovava con gli altri, sia quando era da solo, anche da soldato. Questo lo aiutò a fare tutto per Dio, specialmente quando faceva la prima evangelizzazione tra noi. Per lui non c’era tempo fisso: mattina o sera, sole o pioggia; caldo o freddo non erano un impedimento per lui, quando si trattava di parlare di Gesù o di fare del bene. Quando andava nei villaggi si sobbarcava a camminare anche di notte e senza prendere cibo pur di arrivare in qualche casa o in qualche villaggio per predicare il Vangelo. Anche quando fu messo come confessore a Krishnagar, veniva da noi per le confessioni durante il caldo soffocante del dopo pranzo. Gli dissi una volta: “Perché viene a quest’ora?”. Ed egli: “Nella passione, Gesù non scelse il suo tempo conveniente quando era condotto da Anna o Caifa o Pilato. Dovette farlo anche contro la sua volontà, per fare la volontà del Padre”.
            Evangelizzava non per proselitismo, ma per attrazione. Era il suo comportamento che attirava le persone. La sua dedizione e l’amore facevano dire alla gente che padre Francesco era la vera immagine del Gesù che predicava. L’amore di Dio lo portava a cercare l’intima unione con lui, a raccogliersi in preghiera, a evitare ciò che poteva dispiacere a Dio. Egli sapeva che si conosce Dio solo attraverso la carità. Soleva dire: “Ama Dio, non darGli dispiacere”».

            «Se c’era un sacramento in cui padre Francesco eccelleva in modo eroico, era l’amministrazione del sacramento della Riconciliazione. Per qualsiasi persona della nostra diocesi di Krishnagar dire padre Francesco è dire l’uomo di Dio che mostrava la paternità del Padre nel perdonare specialmente al confessionale. I suoi ultimi 40 anni di vita li spese più in confessionale che in ogni altro ministero: ore e ore, specialmente in preparazione alle feste e alle solennità. Così tutta la notte di Natale e di Pasqua o delle feste patronali. Era sempre puntualmente presente nel confessionale ogni giorno, ma specialmente nelle domeniche prima delle Messe o alla vigilia vespertina delle feste e al sabato. Poi si avviava verso altri luoghi dove lui era confessore abituale. Era un compito questo molto caro a lui e molto atteso da tutti i religiosi della diocesi, dai quali appunto si recava settimanalmente. Il suo confessionale era sempre il più affollato e il più desiderato. I sacerdoti, i religiosi, la gente comune: sembrava che padre Francesco conoscesse ciascuno personalmente, tanto era pertinente nei suoi consigli e nei suoi ammonimenti. Io stesso mi meravigliavo per la saggezza dei suoi ammonimenti quando mi confessavo da lui. Infatti il servo di Dio fu il mio confessore per tutta la sua vita, da quando era missionario nei villaggi, fino al termine dei suoi giorni. Dicevo tra me: “È proprio quello che volevo sentire da lui…”. Il vescovo Mons. Morrow, che si confessava da lui regolarmente, lo considerava la sua guida spirituale, dicendo che padre Francesco era guidato dallo Spirito Santo nei suoi consigli e che la sua santità personale suppliva alla mancanza di doni naturali».

            La fiducia nella misericordia di Dio era un tema quasi assillante nelle sue conversazioni, e lo utilizzò bene come confessore. Il suo ministero del confessionale era ministero di speranza per sé e per coloro che si confessavano da lui. Le sue parole ispiravano speranza in tutti coloro che andavano a lui. «Al confessionale il servo di Dio era il sacerdote modello, famosissimo nell’amministrare questo sacramento. Il servo di Dio ammaestrava sempre cercando di condurre tutti alla salvezza eterna… Al servo di Dio piaceva indirizzare le sue preghiere al Padre che è nei cieli, e così pure insegnava alla gente di vedere in Dio il Padre buono. Specialmente a chi si trovava in difficoltà, anche spirituali e ai peccatori pentiti, ricordava che Dio è misericordioso e che si deve sempre confidare in lui. Il servo di Dio aumentava le sue preghiere e mortificazioni per scontare le sue infedeltà, come egli diceva, e per i peccati del mondo».

            Eloquenti le parole di don Rosario Stroscio, superiore religioso, che così concluse l’annuncio del decesso di padre Francesco: «Quelli che hanno conosciuto don Francesco ricorderanno sempre con amore i piccoli avvisi e le esortazioni che egli soleva dare in confessione. Con la sua vocina così debole, eppure così piena di ardore: “Amiamo le anime, lavoriamo solo per le anime… Avviciniamo il popolo… Trattiamo con esso in modo che il popolo capisca che l’amiamo…”. Tutta la sua vita fu una magnifica testimonianza della tecnica più fruttuosa del ministero sacerdotale e del lavoro missionario. Possiamo sintetizzarla nella semplice espressione: “Per vincere anime a Cristo non c’è mezzo più potente della bontà e dell’amore!”».

5. Amava Dio e amava il prossimo per amor di Dio: Metti amore! Metti amore!
            A Ciccilluzzo, nome famigliare, che aiutava nei campi guardando i tacchini e facendo altri lavori adatti alla sua giovane età, la mamma Caterina soleva ripetere: «Metti amore! Metti amore!».
            «Padre Francesco diede a Dio tutto, perché era convinto che essendosi consacrato tutto a Lui come religioso e sacerdote missionario, Iddio aveva su di lui pieno diritto. Quando gli chiedevamo perché non andasse a casa (in Italia), ci rispondeva che ormai si era dato tutto a Dio e a noi». Il suo essere sacerdote era tutto per gli altri: «Io sono prete per il bene del prossimo. Questo è il mio primo dovere». Si sentiva debitore di Dio in tutto, anzi, tutto apparteneva a Dio e al prossimo, mentre lui si era donato totalmente, non riservandosi nulla: padre Francesco ringraziava continuamente il Signore per averlo scelto ad essere sacerdote missionario. Mostrava questo senso di gratitudine verso chiunque avesse fatto qualche cosa per lui, fosse anche il più povero.
            Diede esempi di fortezza in modo straordinario adattandosi alle condizioni di vita del lavoro missionario a lui assegnato: una lingua nuova e difficile, che cercò di imparare abbastanza bene, perché questo era il modo per comunicare con il suo popolo; un clima durissimo, quello del Bengala, tomba di tanti missionari, che imparò a sopportare per amore di Dio e delle anime; viaggi apostolici a piedi attraverso zone sconosciute, con il rischio di incontrare animali selvatici.

            Fu un missionario e un evangelizzatore instancabile in una zona difficilissima come quella di Krishnagar – che voleva trasformare in Crist-nagar, città di Cristo –, dove erano difficili le conversioni, senza dimenticare l’opposizione dei protestanti e dei membri di altre religioni. Per l’amministrazione dei sacramenti affrontò tutti i pericoli possibili: pioggia, fame, malattie, belve selvatiche, persone malevoli. «Ho sentito spesso l’episodio di padre Francesco, che una notte, portando il SS. Sacramento ad un ammalato, s’imbatté in una tigre che stava accovacciata sul sentiero dove lui e i suoi compagni dovevano passare… Mentre gli accompagnatori cercavano di fuggire, il servo di Dio ordinò alla tigre: “Lascia passare il tuo Signore!”; e la tigre si scostò. Ma ho sentito altri simili esempi sul servo di Dio, che moltissime volte viaggiava a piedi di notte. Una volta un gruppo di briganti lo assaltò, credendo di avere qualche cosa da lui. Ma quando lo videro così privo di ogni cosa eccetto ciò che portava addosso, si scusarono e lo accompagnarono fino al prossimo villaggio».
            La sua vita di missionario è stata un continuo viaggiare: in bicicletta, a cavallo e il più delle volte a piedi. Questo suo camminare a piedi è forse l’atteggiamento che meglio ritrae l’instancabile missionario e il segno dell’autentico evangelizzatore: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza» (Is 52,7).

6. Occhi limpidi e rivolti al cielo
            «Osservando il viso sorridente del servo di Dio e guardando ai suoi occhi limpidi e rivolti al cielo, si pensava che egli non fosse di quaggiù, ma del cielo». Nel vederlo, fin dalla prima volta molti riportavano un’impressione indimenticabile di lui: i suoi occhi splendenti che mostravano un volto pieno di semplicità e innocenza e la barba lunga e venerabile richiamavano l’immagine di una persona piena di bontà e compassione. Un testimone afferma: «Padre Francesco era un santo. Non saprei dare un giudizio, ma penso che persone simili non si trovino. Noi eravamo piccoli, ma egli parlava con noi, non disprezzava mai nessuno. Non faceva differenza tra musulmani e cristiani. Il padre andava da tutti allo stesso modo e quando ci trovavamo insieme ci trattava tutti nella stessa maniera. A noi piccoli dava consigli: “Obbedite ai genitori, fate bene i vostri compiti, amatevi tutti come fratelli”. Ci dava poi piccoli dolci: nelle sue tasche c’era sempre qualche cosa per noi».
            Padre Francesco manifestò il suo amore per Dio soprattutto con la preghiera, che sembrava essere senza interruzioni. Si poteva vederlo sempre muovendo le labbra in preghiera. Anche quando parlava con le persone, teneva gli occhi sempre sollevati come se stesse vedendo qualcuno a cui stava parlando. Ciò che maggiormente e spesso colpiva la gente era la capacità di padre Convertini di essere totalmente concentrato su Dio e, allo stesso tempo, sulla persona che stava di fronte a lui, guardando con occhi sinceri il fratello che incontrava sul suo cammino: «Aveva, senza alcun dubbio, i suoi occhi fissi sul volto di Dio. Questo era un tratto indelebile della sua anima, una concentrazione spirituale di impressionante livello. Ti seguiva attentamente e ti rispondeva con estrema precisione quando tu parlavi con lui. Eppure, tu avvertivi che egli era “altrove”, in un’altra dimensione, in dialogo con l’Altro».

            Alla conquista della santità incoraggiava altri, come nel caso del cugino Lino Palmisano che si preparava al sacerdozio: «Sono molto contento sapendoti già al tirocinio; anche questo passerà presto, se saprai approfittare delle grazie del Signore che ogni giorno ti darà, per trasformarti in un santo cristiano di buon senso. Ti attendono gli studi più soddisfacenti della teologia che nutrirà la tua anima di Spirito di Dio, il quale ha chiamato ad aiutare Gesù nel Suo apostolato. Non pensare ad altri, ma a te solo, del come diventare un santo sacerdote come Don Bosco. Anche a suo tempo Don Bosco diceva: i tempi sono difficili, ma noi faremo puf, puf, andremo avanti anche contro corrente. Era la mamma celeste che gli diceva: infirma mundi elegitDeus. Niente paura, io ti aiuterò. Caro fratello, il cuore, l’anima di un sacerdote santo agli occhi del Signore vale più di tutti i tesserati, il giorno del tuo sacrificio assieme a quello di Gesù sull’altare è vicino, preparati. Non ti pentirai mai di essere stato generoso verso Gesù e verso i Superiori. Confidenza in loro, essi ti aiuteranno a vincere le piccole difficoltà del giorno che la tua bell’anima potrà incontrare. Ti ricorderò nella S. Messa di ogni giorno, perché tu pure possa un giorno offrirti tutto al Buon Dio».

Conclusione
            Come all’inizio, così anche al termine di questo breve excursus sul profilo virtuoso di padre Convertini, ecco una testimonianza che sintetizza quanto presentato.
            «Una delle figure di pionieri che mi colpì profondamente fu quella del Venerando don Francesco Convertini, zelante apostolo dell’amore cristiano, che riuscì a portare la notizia della Redenzione nelle chiese, nelle zone parrocchiali, nei vicoletti e capanne dei rifugiati e con chiunque incontrava, consolando, consigliando, aiutando con la sua squisita carità: un vero testimone delle opere di misericordia corporali e spirituali, sulle quali saremo giudicati: sempre pronto e zelante nel ministero del sacramento del perdono. Cristiani di ogni confessione, musulmani e indù, accettavano con gioia e prontezza colui che chiamavano l’uomo di Dio. Egli sapeva portare a ciascuno il vero messaggio dell’amore, che Gesù predicò e portò in questa terra: con l’evangelico contatto diretto e personale, per piccoli e grandi, bambini e bambine, poveri e ricchi, autorità e paria (fuori casta), cioè l’ultimo e il più disprezzato gradino dei rifiuti (sub)umani. Per me e per molti altri, è stata un’esperienza sconvolgente che mi ha aiutato a capire e vivere il messaggio di Gesù: “Amatevi come io vi ho amati”».

            L’ultima parola è a padre Francesco, come un’eredità che consegna a ciascuno di noi. Il 24 settembre 1973, scrivendo ai parenti da Krishnagar, il missionario vuole coinvolgerli nel lavoro per i non cristiani che sta facendo con fatica dopo la sua ultima malattia, ma sempre con zelo: «Dopo sei mesi di ospedale la mia salute è un po’ debole, mi sembra di essere una pignatta rotta e rattoppata. Tuttavia il misericordioso Gesù mi aiuta miracolosamente nel Suo lavoro delle anime. Mi faccio portare in città e poi ritorno a piedi, dopo aver fatto conoscere Gesù e la nostra santa religione. Finite le confessioni a casa, vado tra i pagani, molto più buoni di certi cristiani. Aff.mo nel Cuore di Gesù, sacerdote Francesco».




I ragazzi del cimitero

Il dramma dei giovani abbandonati continua a far rumore nel mondo contemporaneo. Le statistiche parlano di circa 150 milioni di ragazzi costretti a vivere per strada, una realtà che si manifesta in maniera drammatica anche a Monrovia, capitale della Liberia. In occasione della festa di San Giovanni Bosco, a Vienna, si è svolta una campagna di sensibilizzazione promossa da Jugend Eine Welt, un’iniziativa che ha messo in luce non solo la situazione locale ma anche le difficoltà incontrate in paesi lontani, come la Liberia, dove il salesiano Lothar Wagner dedica la sua vita a dare una speranza a questi giovani.

Lothar Wagner: un salesiano che dedica la sua vita ai ragazzi di strada in Liberia
Lothar Wagner, salesiano coadiutore tedesco, ha dedicato oltre vent’anni della sua vita al sostegno dei ragazzi in Africa Occidentale. Dopo aver maturato esperienze significative in Ghana e Sierra Leone, negli ultimi quattro anni si è concentrato con passione sulla Liberia, un paese segnato da conflitti prolungati, crisi sanitarie e devastazioni come l’epidemia di Ebola. Lothar si è fatto portavoce di una realtà spesso ignorata, dove le cicatrici sociali ed economiche compromettono le opportunità di crescita per i giovani.

La Liberia, con una popolazione di 5,4 milioni di abitanti, è un paese in cui la povertà estrema si accompagna a istituzioni fragili e a una corruzione diffusa. Le conseguenze di decenni di conflitti armati e crisi sanitarie hanno lasciato il sistema educativo tra i peggiori al mondo, mentre il tessuto sociale si è logorato sotto il peso di difficoltà economiche e mancanza di servizi essenziali. Molte famiglie non riescono a garantire ai propri figli i bisogni primari, spingendo così un gran numero di giovani a cercare rifugio per strada.

In particolare, a Monrovia, alcuni ragazzi trovano rifugio nei luoghi più inaspettati: i cimiteri della città. Conosciuti come “ragazzi del cimitero”, questi giovani, privi di un’abitazione sicura, si rifugiano tra le tombe, luogo che diventa simbolo di un abbandono totale. Dormire all’aperto, nei parchi, nelle discariche, persino nelle fogne o all’interno di tombe, è diventato il tragico rifugio quotidiano per chi non ha altra scelta.

“È davvero molto commovente quando si cammina per il cimitero e si vedono ragazzi che escono dalle tombe. Si sdraiano con i morti perché non hanno più un posto nella società. Una situazione del genere è scandalosa.”

Un approccio multiplo: dal cimitero alle celle di detenzione
Non solo i ragazzi dei cimiteri sono al centro dell’attenzione di Lothar. Il salesiano si dedica anche a un’altra realtà drammatica: quella dei detenuti minorenni nelle prigioni liberiane. La prigione di Monrovia, costruita per 325 detenuti, ospita oggi oltre 1.500 prigionieri, tra cui molti giovani incarcerati senza una formale accusa. Le celle, estremamente sovraffollate, sono un chiaro esempio di come la dignità umana venga spesso sacrificata.

“Manca cibo, acqua pulita, standard igienici, assistenza medica e psicologica. La fame costante e la drammatica situazione spaziale a causa del sovraffollamento indeboliscono enormemente la salute dei ragazzi. In una piccola cella, progettata per due detenuti, sono rinchiusi otto-dieci giovani. Si dorme a turno, perché questa dimensione della cella offre spazio solo in piedi ai suoi numerosi abitanti”.

Per far fronte a questa situazione, organizza visite quotidiane nella prigione, portando acqua potabile, pasti caldi e un supporto psicosociale che diventa un’ancora di salvezza. La sua presenza costante è fondamentale per cercare di ristabilire un dialogo con le autorità e le famiglie, sensibilizzando anche sull’importanza di tutelare i diritti dei minori, spesso dimenticati e abbandonati a un destino infausto. “Non li lasciamo soli nella loro solitudine, ma cerchiamo di donare loro una speranza,” sottolinea Lothar con la fermezza di chi conosce il dolore quotidiano di queste giovani vite.

Una giornata di sensibilizzazione a Vienna
Il sostegno a queste iniziative passa anche dall’attenzione internazionale. Il 31 gennaio, a Vienna, Jugend Eine Welt ha organizzato una giornata dedicata a evidenziare la precaria situazione dei ragazzi di strada, non solo in Liberia, ma in tutto il mondo. Durante l’evento, Lothar Wagner ha condiviso le sue esperienze con studenti e partecipanti, coinvolgendoli in attività pratiche – come l’uso di un nastro segnaletico per simulare le condizioni di una cella sovraffollata – per far comprendere in prima persona le difficoltà e l’angoscia dei giovani che vivono quotidianamente in spazi minimi e in condizioni degradanti.

Oltre alle emergenze quotidiane, il lavoro di Lothar e dei suoi collaboratori si concentra anche su interventi a lungo termine. I missionari salesiani, infatti, sono impegnati in programmi di riabilitazione che spaziano dal supporto educativo alla formazione professionale per i giovani detenuti, fino all’assistenza legale e spirituale. Questi interventi mirano a reintegrare i ragazzi nella società una volta rilasciati, aiutandoli a costruire un futuro dignitoso e pieno di possibilità. L’obiettivo è chiaro: offrire non solo un aiuto immediato, ma creare un percorso che consenta ai giovani di sviluppare le proprie potenzialità e contribuire attivamente alla rinascita del paese.

Le iniziative si estendono anche alla costruzione di centri di formazione professionale, scuole e strutture di accoglienza, con la speranza di ampliare il numero di giovani beneficiari e garantire un sostegno costante, giorno e notte. La testimonianza di successo di molti ex “ragazzi del cimitero” – alcuni dei quali sono diventati insegnanti, medici, avvocati e imprenditori – è la conferma tangibile che, con il giusto sostegno, la trasformazione è possibile.

Nonostante l’impegno e la dedizione, il percorso è costellato di ostacoli: la burocrazia, la corruzione, la diffidenza dei ragazzi e la mancanza di risorse rappresentano sfide quotidiane. Molti giovani, segnati da abusi e sfruttamento, faticano a fidarsi degli adulti, rendendo ancor più arduo il compito di instaurare un rapporto di fiducia e di offerta di un supporto reale e duraturo. Tuttavia, ogni piccolo successo – ogni giovane che ritrova la speranza e inizia a costruire un futuro – conferma l’importanza di questo lavoro umanitario.

Il percorso intrapreso da Lothar e dai suoi collaboratori testimonia che, nonostante le difficoltà, è possibile fare la differenza nella vita dei ragazzi abbandonati. La visione di una Liberia in cui ogni giovane possa realizzare il proprio potenziale si traduce in azioni concrete, dalla sensibilizzazione internazionale alla riabilitazione dei detenuti, passando per programmi educativi e progetti di accoglienza. Il lavoro, improntato su amore, solidarietà e una presenza costante, rappresenta un faro di speranza in un contesto in cui la disperazione sembra prevalere.

In un mondo segnato dall’abbandono e dalla povertà, le storie di rinascita dei ragazzi di strada e dei giovani detenuti sono un invito a credere che, con il giusto sostegno, ogni vita possa risorgere. Lothar Wagner continua a lottare per garantire a questi giovani non solo un riparo, ma anche la possibilità di riscrivere il proprio destino, dimostrando che la solidarietà può davvero cambiare il mondo.




I precedenti delle missioni salesiane (1/5)

Il 150° anniversario delle missioni salesiane si terrà l’11 novembre 2025. Crediamo possa essere interessante raccontare ai nostri lettori una breve storia dei precedenti e delle prime fasi di quella che sarebbe diventata una sorta di epopea missionaria salesiana in Patagonia. Lo facciamo in cinque puntate, con l’aiuto di inedite fonti che ci permettono di correggere le tante imprecisioni passate alla storia.

            Sgombriamo subito il campo: si dice e si scrive che don Bosco volesse partire per le missioni tanto da seminarista, che da giovane sacerdote. Non è documentato. Se studente di 17 anni (1834) fece la domanda di entrare tra i frati Francescani Riformati del convento degli Angeli a Chieri che avevano missioni, la richiesta, a quanto pare, era stata avanzata soprattutto per motivi economici. Se dieci anni dopo (1844), al momento di lasciar il “Convitto Ecclesiastico” in Torino, fu tentato di entrare nella Congregazione degli Oblati di Maria Vergine, cui erano appena state affidate missioni in Birmania (Myanmar), è però vero che quella missionaria, per la quale aveva forse anche intrapreso qualche studio di lingue estere, era solo per il giovane sacerdote Bosco una delle possibilità di apostolato che gli si aprivano davanti. In entrambi i casi don Bosco seguì immediatamente il consiglio, prima, di don Comollo di entrare in seminario diocesano e, dopo, di don Cafasso, di continuare a dedicarsi ai giovani di Torino. Anche nel ventennio 1850-1870, impegnato com’era nel progettare una continuità della sua “opera degli Oratori”, nel dare un fondamento giuridico alla società salesiana che stava avviando e nella formazione spirituale e pedagogica dei primi salesiani, tutti giovani del suo Oratorio, non era certo in condizione di poter dar seguito ad eventuali aspirazioni missionarie personali o degli stessi suoi “figli”. Dell’andata sua o dei salesiani in Patagonia neanche l’ombra, benché lo si trovi scritto su carta o sul web.

Acuirsi della sensibilità missionaria
            Ciò non toglie che la sensibilità missionaria in don Bosco, ridotta probabilmente a deboli spunti e vaghe aspirazioni negli anni di formazione sacerdotale e del primo sacerdozio, si acuì notevolmente lungo gli anni. La lettura degli Annali della Propagazione della Fede gli offriva infatti una buona informazione sul mondo missionario, tanto da ricavarne episodi per alcuni suoi libri e da lodare papa Gregorio XVI che incentivava l’espandersi del vangelo nei remoti angoli della terra ed approvava nuovi Ordini religiosi con finalità missionarie. Notevole influenza don Bosco poté ricevere dal canonico G. Ortalda, direttore del Consiglio diocesano dell’Associazione di Propaganda Fide per 30 anni (1851-1880) ed anche promotore di “Scuole Apostoliche” (una sorta di seminario minore per vocazioni missionarie). Nel dicembre 1857 aveva pure lanciato il progetto di un’Esposizione a favore delle Missioni Cattoliche affidate ai seicento Missionari Sardi. Don Bosco ne era informatissimo.
            L’interesse missionario poté crescere in lui nel 1862 al momento della solennissima canonizzazione in Roma dei 26 protomartiri di giapponesi e nel 1867 in occasione della beatificazione di oltre duecento martiri giapponesi, celebrata questa con solennità pure a Valdocco. Sempre nella città papale nel corso dei lunghi soggiorni degli anni 1867, 1869 e 1870 poté rendersi conto di altre iniziative missionarie locali, come la fondazione del Pontificio seminario dei santi apostoli Pietro e Paolo per le missioni straniere.
            Il Piemonte con quasi il 50% dei missionari italiani (1500 con 39 vescovi) si poneva all’avanguardia in tale ambito e a Torino venne in visita nel novembre 1859 il francescano monsignor Luigi Celestino Spelta, Vicario Apostolico di Hupei. Non visitò l’Oratorio, lo fece invece nel dicembre 1864 don Daniele Comboni che proprio in Torino diede alle stampe il Piano di rigenerazione per l’Africa con l’intrigante progetto di evangelizzare l’Africa attraverso gli africani.
            Don Bosco ebbe uno scambio di idee con lui, che nel 1869 tentò, senza esito, di associarlo al suo progetto e l’anno dopo lo invitò a mandargli qualche prete e laico per dirigere un istituto al Cairo e così prepararlo alle missioni in Africa, al cui centro contava di affidare ai Salesiani un Vicariato apostolico. A Valdocco la richiesta, non accolta, fu sostituita dalla disponibilità ad accettare ragazzi da educare in vista delle missioni. Colà però il drappello di algerini raccomandati da monsignor Charles Martial Lavigerie trovò difficoltà, per cui furono mandati a Nizza Marittima, in Francia. La richiesta nel 1869 dello stesso arcivescovo di avere aiutanti salesiani in un orfanotrofio di Algeri in momento di emergenza non fu accolta. Così come dal 1868 era sospesa la petizione del missionario bresciano Giovanni Bettazzi di mandare dei salesiani a dirigere un erigendo istituto di arti e mestieri, nonché un piccolo seminario minore, nella diocesi di Savannah (Georgia, USA). Le proposte altrui, tanto di direzione di opere educative in “territori di missione”, quanto di diretta azione in partibus infidelium, potevano essere anche appetibili, ma don Bosco non avrebbe mai rinunciato né alla sua piena libertà di azione – che forse vedeva compromessa nelle proposte altrui pervenutegli – né soprattutto al suo peculiare lavoro con i giovani, per i quali al momento era impegnatissimo a sviluppare la società salesiana appena approvata (1869) oltre i confini torinesi e piemontesi. Insomma fino al 1870 don Bosco, pur teoricamente sensibile alle necessità missionarie, coltivava altri progetti in sede nazionale.

Quattro anni di richieste non accolte (1870-1874)
            Il tema missionario e le importanti questioni che vi si riferivano furono oggetto di attenzione nel corso del Concilio Vaticano I (1868-1870). Se il documento Super Missionibus Catholicis non fu mai presentato in assemblea generale, la presenza in Roma di 180 vescovi di “terre di missioni” e le informazioni positive sul modello di vita religiosa salesiana, diffuse fra loro da alcuni vescovi piemontesi, diedero occasione a Don Bosco di incontrarne molti e anche di essere da loro contattato, tanto in Roma che in Torino.
            Qui il 17 novembre 1869 fu ricevuta la delegazione cilena, con l’arcivescovo di Santiago e il vescovo di Concepción. Nel 1870 fu la volta di mons. D. Barbero, Vicario Apostolico a Hyderabad (India), già conosciuto da Don Bosco, che gli chiese delle suore disponibili per l’India. A Valdocco si recò nel luglio 1870 il domenicano mons. G. Sadoc Alemany, arcivescovo di San Francisco in California (USA), che chiese ed ottenne dei Salesiani per un ospizio con scuola professionale (poi mai realizzato). Visitarono pure Valdocco il francescano mons. L. Moccagatta, Vicario Apostolico di Shantung (Cina) e il suo confratello mons. Eligio Cosi poi suo successore. Nel 1873 fu la volta del milanese mons. T. Raimondi che offrì a Don Bosco la possibilità di andare a dirigere scuole cattoliche nella Prefettura apostolica di Hong Kong. La trattativa, durata oltre un anno, per vari motivi si arenò, così come nello stesso 1874 rimase sulla carta anche un progetto di nuovo seminario del succitato don Bertazzi per Savannah (USA). Lo stesso avvenne in quegli anni per fondazioni missionarie in Australia ed in India, per le quali Don Bosco intavolò con i singoli vescovi trattative, da lui date talora come concluse alla Santa Sede, mentre in realtà erano solo progetti in fieri.
            In quei primi anni settanta, con un personale costituito da poco più di due decine di persone (fra preti, chierici e coadiutori), un terzo delle quali con voti temporanei, sparsi in sei case difficilmente Don Bosco avrebbe potuto mandarne alcune in terra di missione. Tanto più che le missioni estere offertegli fino a quel momento fuori Europa presentavano serie difficoltà di lingua, cultura e tradizioni non neolatine e il tentativo a lungo condotto di disporre di giovane personale di lingua inglese anche con l’aiuto del rettore del collegio irlandese di Roma, mons. Toby Kirby, erano andato fallito.

(continua)

Foto d’epoca: il porto di Genova, 14 novembre 1877.




Il Servo di Dio Andrej Majcen: un salesiano tutto per i giovani

Quest’anno si ricordano i 25 anni dal passaggio all’eternità del Servo di Dio don Andrej Majcen. Da maestro a Radna è arrivato tra le file dei salesiani per amore dei giovani. Una vita tutta donata.

            La prima cosa è che don Andrej amava tantissimo i giovani: per loro ha consacrato la propria vita a Dio come Salesiano, sacerdote, missionario. Essere Salesiani non significa solo donare la propria vita a Dio: significa donargli la vita per i giovani. Quindi senza i giovani don Andrej Majcen non sarebbe stato Salesiano, sacerdote, missionario: per i giovani ha fatto scelte impegnative, accettando condizioni di povertà, stenti, preoccupazioni purché i “suoi ragazzi” trovassero un tetto sopra la testa, un piatto per riempire lo stomaco e una luce per orientarsi nell’esistenza.
Il primo messaggio, quindi, è che don Majcen vuole bene ai giovani e intercede per loro!

            La seconda cosa è che Andrej è stato un giovane capace di ascoltare. Nato nel 1904, ancora piccolo durante la Prima Guerra Mondiale, malato e povero, segnato dalla morte di un fratellino, Andrej custodiva nel cuore grandi desideri e soprattutto tante domande: si apriva alla vita e voleva capire perché meritasse di essere vissuta. Non ha mai fatto sconti sulle domande e si è sempre impegnato a cercare le risposte, anche in ambienti diversi dal proprio, senza chiusure o pregiudizi. Al tempo stesso, Andrej è stato docile: ha prestato attenzione a quello che gli dicevano e gli chiedevano la mamma, il papà, gli educatori… Andrej ha avuto fiducia che altri potessero avere alcune risposte alle sue domande e che nei loro suggerimenti ci fosse non il volersi sostituire a lui, ma l’indicargli una direzione che avrebbe poi percorso con la propria libertà e sulle proprie gambe.
Il papà, per esempio, gli raccomanda di essere sempre buono con tutti e che non se ne sarebbe mai pentito. Egli lavorava per il tribunale, si occupava delle cause di successione, di tante cose difficili dove spesso la gente litiga e anche i legami più sacri vengono offesi. Dal papà, Andrej ha imparato a essere buono, a portare pace, a ricomporre le tensioni, a non giudicare, a stare nel mondo (con le sue tensioni e contraddizioni) da persona giusta. Andrej ha ascoltato e si è fidato del papà.
La mamma era una grande donna di preghiera (Andrej la considerava una religiosa nel mondo e confiderà di non avere raggiunto la sua devozione nemmeno da religioso). Negli anni dell’adolescenza, quando avrebbe potuto smarrirsi a contatto con idee e ideologie, lei gli chiese di entrare ogni giorno per qualche istante in chiesa. Nulla di particolare, o di troppo lungo: «Quando vai alle magistrali, non ti scordare di entrare per un momento nella chiesa francescana. Puoi entrare da una porta e uscire dall’altra; ti fai il segno della croce con l’acqua santa, fai una breve preghiera e ti affidi a Maria». Andrej obbedì alla mamma e tutti i giorni passava a salutare Maria Santissima in chiesa anche se – “là fuori” – lo aspettavano tanti compagni e vivaci dibattiti. Andrej ha ascoltato e si è fidato della mamma, e scoprirà che lì c’erano le radici di tante cose, c’era un legame con Maria che lo avrebbe accompagnato per sempre. Sono queste piccole gocce che scavano in noi grandi profondità, quasi senza che ce ne accorgiamo!
Un professore lo invitò ad andare alla biblioteca e lì gli venne dato un libro con gli Aforismi di Th.G. Masaryk: politico, uomo di governo, oggi diremmo un “laico”. Andrej lesse quel libro che diventò determinante per la sua crescita. Lì scoprì cosa significasse un certo lavoro su di sé, la formazione del carattere, l’impegno. Andrej ascoltò il consiglio e ascoltò Masaryk, senza lasciarsi troppo influenzare dal suo “Curriculum” ma vedendo il bene anche in qualcuno lontano dal modo di pensare cattolico della propria famiglia. Scoprì che ci sono valori umani universali e che c’è una dimensione di impegno e serietà che sono “terreno comune” per tutti.
            Maestro presso i Salesiani, a Radna, un giovane Majcen ascoltò infine chi – in modi diversi – gli fece balenare l’idea di una possibile consacrazione. C’erano molte ragioni per cui Andrej avrebbe potuto tirarsi indietro: l’investimento della famiglia nella sua formazione; il posto di lavoro trovato da pochi mesi; il dovere lasciare tutto esponendosi alla più totale incertezza se poi avesse fallito… Lui in quel momento era un giovane ragazzo proteso al futuro, che non aveva messo in conto quella proposta. Al tempo stesso, cercava qualcosa in più e di diverso e, come uomo e come maestro, si rendeva conto che i Salesiani non solo insegnavano, ma orientavano a Gesù, Maestro di Vita. La pedagogia di Don Bosco fu per lui quel “tassello” che gli mancava. Andrej ascoltò la proposta vocazionale, affrontò una dura lotta durante la preghiera, in ginocchio, e si decise per presentare domanda di ammissione in noviziato: non fece passare tanto tempo, ma rifletté in modo serio, pregò e disse sì. Non perse l’occasione, non fece trascorrere il momento opportuno…: ascoltò, si fidò, decise acconsentendo e conoscendo così poco di ciò cui sarebbe andato incontro.
            Spesso tutti noi crediamo di vederci giusto nella nostra vita, di avere in mano le sue chiavi, il suo segreto: talvolta però sono proprio gli altri che ci invitano a raddrizzare lo sguardo, le orecchie e il cuore, indicandoci vie verso le quali da soli mai ci saremmo indirizzati. Se queste persone sono valide e vogliono il nostro bene, obbedire è importante: lì è nascosto il segreto della felicità. Don Majcen si è fidato, non ha sciupato anni, non ha sciupato vita… Ha detto di sì. Decidersi per tempo era anche il grande segreto raccomandato da don Bosco.

            La terza cosa è che Andrej Majcen si è lasciato sorprendere. Ha sempre accolto le sorprese, le proposte e i cambiamenti: l’incontro con i Salesiani, per esempio; poi l’incontro con un missionario che lo fece ardere dal desiderio di potersi spendere per gli altri in una terra lontana. Accolse anche sorprese non tanto belle: va in Cina e c’è il Comunismo; lo cacciano, entra nel Vietnam del Nord e il Comunismo fa danni anche lì; lo cacciano, procede verso sud, arriva poi nel Vietnam del Sud; ma il Comunismo raggiunge anche quella zona e lo cacciano di nuovo (sembra un film d’azione, con dentro un lungo inseguimento a sirene spiegate!). Rientra in patria, nella sua cara Slovenia e – nel frattempo – lì si è instaurato il regime comunista, c’è la persecuzione della Chiesa. Cos’è? Uno scherzo? Andrej non si è lamentato! Ha vissuto per decenni in paesi in guerra o in situazioni a rischio, con persecuzione, emergenze, lutti… Dormì per più di vent’anni mentre fuori dalla finestra, laggiù, sparavano… Altre volte piangeva… Eppure – benché avesse incarichi di responsabilità e tante vite da salvare – era quasi sempre sereno, con un bel sorriso, tanta gioia e amore nel cuore. Come faceva?
            Lui non aveva messo il cuore negli avvenimenti esteriori, nelle cose, in quello che non si può controllare o… nei propri progetti (“deve essere per forza così perché ho deciso così”: quando poi “non è così” si va in crisi). Lui aveva messo il cuore in Dio, nella Congregazione e nei suoi cari giovani. Allora era veramente libero, poteva cadere il mondo ma le radici erano salve. Le radici erano nelle relazioni, in un modo buono di spendersi per gli altri; le fondamenta erano in qualcosa che non passa.
            Tante volte, a noi basta che spostino una piccola cosa e ci arrabbiamo, perché non è secondo i nostri bisogni, desideri, progetti o aspettative. Andrej Majcen mi dice, ci dice: “sii libero!”, “affida il tuo cuore a chi non te lo ruba né te lo danneggia”, “costruisci su qualcosa che resti per sempre!”, “allora sarai felice anche se ti portano via tutto e avrai sempre il TUTTO”.

            La quarta cosa è che don Andrej Majcen faceva bene l’esame di coscienza. Tutti i giorni si esaminava per capire dove aveva fatto bene, meno bene o male. Quando ne ebbe la possibilità (cioè quando non c’erano più le bombe vicino a casa o i Viet Cong a poca distanza, ecc.) prendeva un quaderno, si segnava delle domande, rifletteva sulla Parola di Dio, verificava di averla messa in pratica… Si interrogava.
            Oggi viviamo in una società che dà molta importanza all’esteriorità: anch’essa è un dono (per esempio: avere cura di sé, vestirsi con proprietà, presentarsi bene), ma non è tutto. Bisogna scavare dentro di noi, scendere in profondità – magari con l’aiuto di qualcuno.
            Andrej ha sempre avuto il coraggio di guardarsi in faccia, di scrutare il proprio cuore e la propria coscienza, di chiedere perdono. Così facendo ha incontrato qualche aspetto poco bello di sé, su cui lavorare e da affidare: però ha visto anche tantissimo bene, bellezza, purezza, amore che altrimenti sarebbero rimasti “sottotraccia”.
            Tante volte, serve più coraggio per viaggiare dentro noi stessi che per andare dall’altra parte del mondo! Don Andrej Majcen ha affrontato entrambi questi viaggi: dalla Slovenia ha raggiunto l’Estremo Oriente eppure l’itinerario più impegnativo è rimasto sempre – fino all’ultimo – quello nel proprio cuore.
            Sant’Agostino, un giovane che ha cercato la verità in tante strade prima di incontrarla nella persona di Gesù, dentro di sé, dice: “Noli foras ire, redi in te ipsum, in interiore homini habitat veritas” (“Non voler uscire fuori, rientra in te stesso, la verità abita nell’interiorità dell’uomo”).
            E così concludo con un piccolo esercizio di latino: una lingua molto cara al nostro Andrej e legata al suo discernimento vocazionale. Ma questa sarebbe davvero…, almeno per ora, una… altra storia!




Tra ammirazione e dolore

Oggi vi saluto per l’ultima volta da questa pagina del Bollettino Salesiano. Il 16 agosto, nel giorno in cui si commemora la nascita di Don Bosco, termina il mio servizio come Rettor Maggiore dei Salesiani di Don Bosco.
È sempre un motivo per ringraziare, sempre Grazie! Innanzitutto a Dio, alla Congregazione e alla Famiglia Salesiana, a tante persone care e amiche, a tanti amici del carisma di Don Bosco, i molti benefattori.

            Anche in questa occasione il mio saluto trasmette qualcosa che ho vissuto recentemente. Di qui il titolo di questo saluto: Tra ammirazione e dolore. Vi racconto la gioia che ha riempito il mio cuore a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, ferita da una guerra interminabile, e alla gioia e alla testimonianza che ho ricevuto ieri.
            Tre settimane fa quando, dopo aver visitato l’Uganda (nel campo profughi di Palabek che, grazie all’aiuto e al lavoro salesiano di questi anni, non è più un campo per rifugiati sudanesi ma un luogo dove decine di migliaia di persone si sono insediate e hanno trovato una nuova vita), ho attraversato il Ruanda e sono arrivato al confine nella regione di Goma, una terra meravigliosa, bella e ricca di natura (e proprio per questo così desiderata e desiderabile). Ebbene, a causa dei conflitti armati, in quella regione ci sono più di un milione di sfollati che hanno dovuto lasciare le loro case e la loro terra. Anche noi abbiamo dovuto lasciare la presenza salesiana a Sha-Sha che è stata occupata militarmente.
            Questo milione di sfollati è arrivato nella città di Goma. A Gangi, uno dei quartieri, c’è l’opera salesiana “Don Bosco”. Sono stato immensamente felice di vedere il bene che là viene fatto. Centinaia di ragazzi e ragazze hanno una casa. Decine di adolescenti sono stati tolti dalla strada e vivono nella casa di Don Bosco. Proprio lì, a causa della guerra, hanno trovato casa 82 bambini neonati e ragazzini e ragazzine che hanno perso i genitori o sono stati lasciati indietro (“abbandonati”) perché i genitori non potevano occuparsene.
            E lì, in quella nuova Valdocco, una delle tante Valdocco del mondo, una comunità di tre suore di San Salvador, insieme a un gruppo di signore, tutte sostenute dalla casa salesiana con aiuti che arrivano grazie alla generosità dei benefattori e della Provvidenza, si prendono cura di questi bambini e bambine. Quando sono andato a trovarli, le suore avevano vestito tutti a festa, anche i bambini che dormivano nelle loro culle. Come non sentire il cuore pieno di gioia per questa realtà di bontà, nonostante il dolore causato dall’abbandono e dalla guerra!
            Ma il mio cuore è stato toccato quando ho incontrato alcune centinaia di persone che sono venute a salutarmi in occasione della mia visita. Sono tra i 32.000 sfollati che hanno lasciato le loro case e la loro terra a causa delle bombe e sono venuti a cercare rifugio. Lo hanno trovato nei campi da gioco e nei terreni della casa Don Bosco di Gangi. Non hanno nulla, vivono in baracche di pochi metri quadrati. Questa è la loro realtà. Insieme cerchiamo ogni giorno un modo per trovare da mangiare. Ma sapete cosa mi ha colpito di più? La cosa che mi ha colpito di più è che quando ero con queste centinaia di persone, per lo più anziani e madri con bambini, non avevano perso la loro dignità e non avevano perso la loro gioia o il loro sorriso. Sono rimasto stupito e il mio cuore si è rattristato per tanta sofferenza e povertà, anche se stiamo facendo la nostra parte nel nome del Signore.

Un concerto straordinario
            Un’altra grande gioia ho provato quando ho ricevuto una testimonianza di vita che mi ha fatto pensare agli adolescenti e ai giovani delle nostre presenze, e a tanti figli di genitori che forse mi leggono e che sentono che i loro figli sono demotivati, annoiati dalla vita, o che non hanno passione per quasi nulla. Tra gli ospiti della nostra casa, in questi giorni, c’era una straordinaria pianista che ha girato il mondo dando concerti e che ha fatto parte di grandi orchestre filarmoniche. È un’ex allieva dei Salesiani e ha avuto un salesiano, ora scomparso, come grande riferimento e modello. Ha voluto offrirci questo concerto nell’atrio del tempio del Sacro Cuore come omaggio a Maria Ausiliatrice, che tanto ama, e come ringraziamento per tutto ciò che è stata la sua vita finora.
            E dico quest’ultimo perché la nostra cara amica ci ha regalato un concerto meraviglioso, con una qualità eccezionale a 81 anni. Era accompagnata dalla figlia. E a quell’età, forse quando alcuni dei nostri anziani in famiglia hanno già detto da tempo che non hanno più voglia di fare nulla, né di fare nulla che richieda uno sforzo, la nostra cara amica, che si esercita ogni giorno al pianoforte, muoveva le mani con un’agilità meravigliosa ed era immersa nella bellezza della musica e della sua esecuzione. La buona musica, un sorriso generoso alla fine della sua esibizione e la consegna delle orchidee alla Vergine Ausiliatrice erano tutto ciò di cui avevamo bisogno in quella meravigliosa mattinata. E il mio cuore salesiano non ha potuto fare a meno di pensare a quei ragazzi, ragazze e giovani che forse non hanno avuto o non hanno più nulla che li motivi nella loro vita. Lei, la nostra amica concertista, a 81 anni vive con grande serenità e, come mi ha detto, continua a offrire il dono che Dio le ha fatto e ogni giorno trova sempre più motivi per farlo.
            Un’altra lezione di vita e un’altra testimonianza che non lascia il cuore indifferente.

            Grazie, amici miei, grazie dal profondo del cuore per tutto il bene che stiamo facendo insieme. Per quanto piccolo possa essere, contribuisce a rendere il nostro mondo un po’ più umano e più bello. Che il buon Dio vi benedica.