Le lotterie: autentiche imprese

Don Bosco non fu soltanto un instancabile educatore e pastore di anime, ma anche un uomo di straordinaria intraprendenza, capace di inventare soluzioni nuove e coraggiose per sostenere le sue opere. Le necessità economiche dell’Oratorio di Valdocco, in continua espansione, lo spinsero a cercare mezzi sempre più efficaci per garantire vitto, alloggio, scuola e lavoro a migliaia di ragazzi. Tra questi, le lotterie rappresentarono una delle intuizioni più ingegnose: vere imprese collettive, che coinvolgevano nobili, sacerdoti, benefattori e semplici cittadini.Non era semplice, poiché la legislazione piemontese regolava con rigore le lotterie, consentendone l’organizzazione ai privati solo in casi ben definiti. E non si trattava soltanto di raccogliere fondi, ma di creare una rete di solidarietà che univa la società torinese intorno al progetto educativo e spirituale dell’Oratorio. La prima, nel 1851, fu un’avventura memorabile, ricca di imprevisti e successi.

            Il tanto denaro che è giunto nelle mani di don Bosco vi è rimasto per poco, perché subito impiegato nel dare vitto, alloggio, scuola e lavoro a decine di migliaia di ragazzi o nel costruire collegi, orfanotrofi e chiese o nel sostenere le missioni sudamericane. I suoi conti, si sa, erano sempre in rosso; i debiti lo hanno accompagnato tutta la vita.
            Ora fra i mezzi intelligentemente adottati da don Bosco per finanziare le sue opere si possono di certo collocare le lotterie: una quindicina quelle da lui organizzate, fra piccole e grandi. La prima, modesta, fu quella di Torino nel 1851 a favore della chiesa di san Francesco di Sales in Valdocco e l’ultima, grandiosa, a metà degli anni ottanta, fu quella per sopperire alle immense spese della chiesa e dell’ospizio del S. Cuore presso la stazione Termini di Roma.
            Una vera storia di tali lotterie non è ancora stata scritta, benché al riguardo non manchino le fonti. Solo in riferimento alla prima, quella del 1851, ne abbiamo recuperato noi stessi una dozzina di inedite. Con esse ne ricostruiamo la tormentata storia in due puntate.

Domanda di autorizzazione
            A norma di legge del 24 febbraio 1820 – modificata da Regie Patenti del gennaio 1835 e da Istruzioni dell’Azienda Generale delle Regie Finanze in data 24 agosto 1835 e successivamente da Regie Patenti del 17 luglio 1845 – per qualunque lotteria nazionale (Regno di Sardegna) si richiedeva la preventiva autorizzazione governativa.
            Per don Bosco si trattò anzitutto di avere la morale certezza di riuscire nel progetto. La ebbe dall’appoggio economico e morale dei primissimi benefattori: le nobili famiglie Callori e Fassati ed il canonico Anglesio del Cottolengo. Si lanciò dunque in quella che sarebbe risultata un’autentica impresa. In tempi brevi riuscì a costituire una Commissione organizzatrice, composta inizialmente da sedici note personalità, poi accresciuta fino a venti. Fra loro numerose autorità civili ufficialmente riconosciute, come un senatore (nominato tesoriere), due vicesindaci, tre consiglieri comunali; poi sacerdoti di prestigio come i teologi Pietro Baricco, vicesindaco e segretario della Commissione, Giovanni Borel cappellano di corte, Giuseppe Ortalda, direttore di Opera Pia di Propaganda Fide, Roberto Murialdo, cofondatore del collegio degli Artigianelli e dell’Associazione di carità; infine uomini esperti come un ingegnere, un orefice stimatore, un negoziante all’ingrosso ecc. Tutte persone, per lo più possidenti, conosciute da don Bosco e “vicine” all’opera di Valdocco.
            Completata la Commissione, ad inizio dicembre 1851 don Bosco inoltrò la domanda formale all’Intendente generale di Finanza, cavalier Alessandro Pernati di Momo (futuro senatore e ministro dell’Interno del Regno) nonché “amico” dell’opera di Valdocco.

L’appello per i doni
            Alla richiesta di autorizzazione allegò un’interessantissima circolare, in cui, dopo aver tracciato una commovente storia dell’Oratorio – apprezzato dalla famiglia reale, dalle autorità di governo, dalle autorità municipali – indicava che le continue necessità di ampiamento dell’Opera di Valdocco per accogliere sempre più giovani consumavano le risorse economiche della beneficenza privata. Perciò al fine di pagare le spese del completamento della nuova cappella in costruzione, si era presa la decisione di far appello alla pubblica carità mediante una lotteria di doni da offrire spontaneamente: “Consiste questo mezzo in una lotteria d’oggetti, che i sottoscritti vennero in pensiero d’intraprendere per sopperire alle spese di ultimazione della nuova cappella, ed a cui la signoria vostra vorrà, non vi ha dubbio, prestare il suo concorso, riflettendo all’eccellenza dell’opera cui è diretta. Qualunque oggetto piaccia alla signoria vostra offrire o di seta, o di lana, o di metallo, o di legno, ossia lavoro di riputato artista, o di modesto operaio, o di laborioso artigiano, o di caritatevole gentildonna, tutto sarà accettato con gratitudine, perché in fatto di beneficenza ogni piccolo aiuto è gran cosa, e perché le offerte anche tenui di molti insieme riunite possono bastare a compir l’opera desiderata”.
            Nella circolare indicò pure i nomi dei promotori e promotrici, cui si potevano consegnare i doni e delle persone di fiducia che li avrebbero poi raccolti e custoditi. Fra i 46 promotori figuravano varie categorie di persone: professionisti, professori, impresari, studenti, chierici, negozianti, mercanti, sacerdoti; diversamente fra la novantina di promotrici sembra prevalessero le nobildonne (baronessa, marchesa, contessa e relative damigelle).
            Non mancò di allegare alla domanda pure il “piano della lotteria” in tutti i suoi molteplici aspetti formali: raccolta degli oggetti, ricevuta di consegna degli stessi, loro valutazione, biglietti autenticati da smerciare in numero proporzionato al numero e valore degli oggetti, loro esposizione al pubblico, estrazione dei vincitori, pubblicazione dei numeri estratti, tempi di ritiro dei premi ecc. Una serie di impegnativi adempimenti cui don Bosco non si sottrasse. Per i suoi giovani non bastava più la cappella Pinardi: ci voleva una chiesa più grande, quella, progettata, di san Francesco di Sales (una dozzina di anni dopo ce ne sarebbe voluta un’altra ancora più grande, quella di Maria Ausiliatrice!).

Risposta positiva
            Vista la serietà dell’iniziativa e l’alta “qualità” dei membri della Commissione proponente, la risposta dell’Intendenza non poté che essere positiva ed immediata. Il 17 dicembre il suddetto vicesindaco Pietro Baricco trasmise a don Bosco il relativo decreto, con l’invito a trasmettere sempre in copia i futuri atti formali della lotteria all’Amministrazione comunale, responsabile delle regolarità di tutti gli adempimenti di legge. A questo punto prima di Natale don Bosco mandò alle stampe la suddetta circolare, la diffuse ed incominciò a raccogliere doni.
            Gli erano stati concessi due mesi di tempo al riguardo, in quanto durante l’anno avevano luogo anche altre lotterie. I doni arrivavano però lentamente, per cui a metà gennaio don Bosco si vide costretto a ristampare la predetta circolare e chiese la collaborazione a tutti i giovani di Valdocco ed agli amici per scrivere indirizzi, fare visita a benefattori conosciuti, propagandare l’iniziativa, raccogliere i doni.
            Ma “il bello” doveva ancora venire.

Il salone espositivo
            Valdocco non aveva spazi per l’esposizione dei doni, per cui don Bosco domandò al vicesindaco Baricco, tesoriere della commissione per la lotteria, di chiedere al Ministero della guerra, tre stanze di quella parte del Convento di san Domenico che era a disposizione dell’esercito. I padri domenicani erano d’accordo. Il ministro Alfonso Lamarmora in data 16 gennaio le concesse. Ma ben presto don Bosco si rese conto che non sarebbero state sufficientemente ampie, per cui fece chiedere al re, tramite l’elemosiniere, abate Stanislao Gazzelli, un locale più grande. Dal sovraintendente reale Pamparà gli venne risposto che il re non disponeva di locale adatto e proponeva di affittare a sue spese il locale del gioco del Trincotto (o pallacorda: una sorta di tennis a mano ante litteram). Questo locale però sarebbe stato disponibile per il solo mese di marzo e a certe condizioni. Don Bosco rifiutò la proposta ma accettò le 200 lire offerte dal re per il fitto del locale. Messosi allora alla ricerca di altro salone, ne trovò uno adatto su indicazione del municipio cittadino, dietro la chiesa di S. Domenico, a poche centinaia di metri da Valdocco.

Arrivo dei doni
            Nel frattempo don Bosco aveva chiesto al ministro delle Finanze, il famoso conte Camillo Cavour, una riduzione o l’esenzione delle spese di spedizione delle lettere circolari, dei biglietti e degli stessi doni. Tramite il fratello del conte, il religiosissimo marchese Gustavo di Cavour, ricevette il consenso per varie riduzioni postali.
            Si trattava ora di trovare un perito per la valutazione dell’ammontare dei doni e il conseguente numero dei biglietti da smerciare. Don Bosco lo chiese all’Intendente suggerendone anche il nome: un orefice membro della Commissione. L’Intendente, invece, tramite il sindaco gli rispose chiedendogli una doppia copia descrittiva dei doni arrivati onde nominare un proprio perito. Don Bosco eseguì subito la richiesta e così il 19 febbraio il perito valutò in 4124,20 lire i 700 oggetti raccolti. Dopo tre mesi si arrivò a 1000 doni, dopo quattro a 2000, sino alla conclusione di 3251 doni, grazie al continuo “questuare di don Bosco” presso singoli, sacerdoti e vescovi e alle sue ripetute richieste formali al Comune di proroga del tempo per l’estrazione. Don Bosco non mancò neppure di criticare la stima fatta dal perito comunale dei doni che continuamente arrivavano, a suo dire, inferiore all’effettivo loro valore; ed in effetti vennero aggiunti altri estimatori, soprattutto un pittore per le opere d’arte.
            La cifra finale fu tale che don Bosco fu autorizzato ad emettere 99 999 biglietti al prezzo di 50 centesimi l’uno. Al catalogo già stampato con i doni numerati con nome del donatore e dei promotori e promotrici si aggiunse un supplemento con gli ultimi doni arrivati. Fra loro quelli del papa, del re, della regina madre, della regina consorte, deputati, senatori, autorità municipali ma anche tantissime persone umili, soprattutto donne che offrirono oggetti e suppellettili per la casa, anche di poco valore (bicchiere, calamaio, candela, caraffa, cavatappi, cuffia, ditale, forbici, lampada, metro, pipa, portachiavi, saponetta, temperino, zuccheriera). Il dono più offerto furono i libri, ben 629 e i quadri-quadretti, 265. Pure i ragazzi di Valdocco andarono a gara ad offrire il loro piccolo dono, magari un libretto regalato loro da don Bosco stesso.

Un lavoro immane fino all’estrazione dei numeri
            A questo punto bisognava stampare i biglietti in serie progressiva in duplice forma (piccola matrice e biglietto), farli firmare entrambi da due membri della commissione, spedire il biglietto tenendone nota, documentare il denaro incassato… A molti benefattori si inviavano decine di biglietti, con l’invito a tenerli o a smerciarli presso amici e conoscenti.
            La data dell’estrazione, inizialmente fissata per il 30 aprile, fu rinviata al 31 maggio e quindi al 30 giugno, per effettuarlo poi a metà luglio. Quest’ultima proroga fu dovuta allo scoppio della polveriera di Borgo Dora che devastò l’area di Valdocco.
            Per due pomeriggi, 12-13 luglio 1852, sul balcone del palazzo municipale si procedette all’estrazione dei biglietti. Quattro urne a ruota di diverso colore contenevano 10 pallottole (da 0 a 9) identiche e dello stesso colore della ruota. Inserite ad una ad una dal vicesindaco nelle urne, e fatte girare, otto giovani dell’Oratorio compivano l’operazione ed il numero estratto veniva proclamato ad alta voce e poi pubblicato sulla stampa. Molti doni furono lasciati all’Oratorio, dove furono successivamente riutilizzati.

Valeva la pena?
            Per i circa 74 mila biglietti venduti, tolte le spese, a don Bosco restarono circa 26.000 lire, che poi provvide a suddividere equamente con l’attigua opera Cottolengo. Un piccolo capitale certo (la metà del prezzo di acquisto della casetta Pinardi l’anno precedente), ma il risultato più grande del lavoro massacrante cui si sottopose per effettuare la lotteria – documentata da decine di lettere spesso inedite – è stato il diretto e sentito coinvolgimento di migliaia di persone di ogni classe sociale nel suo “incipiente progetto Valdocco”: nel farlo conoscere, apprezzare e poi sostenere economicamente, socialmente, politicamente.
            Don Bosco ricorrerà molte volte alle lotterie e sempre con il duplice scopo: raccogliere fondi per le sue opere per i ragazzi poveri, per le missioni e offrire modalità a credenti (e non credenti) di praticare la carità, il mezzo più efficace, come ripeteva continuamente, per “ottenere il perdono dei peccati e assicurarsi la vita eterna”.

«Ho sempre avuto bisogno di tutti» Don Bosco

Al senatore Giuseppe Cotta

Giuseppe Cotta, banchiere, fu grande benefattore di don Bosco. In archivio si conserva la seguente dichiarazione su carta da bollo in data 5 Febbraio 1849: “I sottoscritti sacerdoti T. Borrelli Gioanni di Torino e D. Bosco Gio’ di Castelnuovo d’Asti si dichiarano debitori di franchi tre mila verso l’ill.mo Cavaliere Cotta che ne fece imprestito ai medesimi per un’opera pia. Questa somma dovrà essere dai medesimi sottoscritti restituita fra un anno cogli interessi legali”. Firmato Sacerdote Giovanni Borel, D. Bosco Gio.

In calce allo stesso foglio e nella stessa data p. Cafasso Giuseppe scrive: “Il sottoscritto rende distinte grazie all’Ill. mo Sig. Cav. Cotta per quanto sopra e nello stesso tempo si rende fideiussore verso il medesimo della somma nominata”. A fondo pagina il Cotta sottoscrive di aver ricevuto lire 2.000 il 10 aprile 1849, altre 500 lire il 21 luglio 1849 e il saldo il 4 gennaio 1851.




L’oratorio festivo di Valdocco

Nel 1935, a seguito della canonizzazione di don Bosco nel 1934, i salesiani si premurarono di raccogliere testimonianze su di lui. Un certo Pietro Pons, che fanciullo aveva frequentato l’oratorio festivo di Valdocco per una decina di anni (dal 1871 al 1882), e che pure aveva frequentato due anni di scuole elementari (con le aule sotto la basilica di Maria Ausiliatrice) l’8 novembre rilasciò una bella testimonianza di quegli anni. Ne stralciamo alcuni passi, quasi tutti inediti.

La figura di don Bosco
Era il centro di attrazione di tutto l’Oratorio. Così lo ricorda il nostro antico oratoriano Pietro Pons sul finire degli anni settanta: “Non aveva più vigore, ma era sempre pacato e sorridente. Aveva due occhi, che foravano, e penetravano nella mente. Compariva tra di noi: era una gioia per tutti. D. Rua, D. Lazzero gli stavano ai fianchi come se avessero in mezzo a loro il Signore. D. Barberis e tutti i ragazzi gli correvano incontro, lo circondavano, chi camminando sui fianchi, chi dietro per aver la faccia rivolta a lui. Era una fortuna, un ambito privilegio il poter stargli vicino, il parlare con lui. Egli passeggiava adagio parlando, e guardando tutti con quei due occhi che giravano da ogni parte, elettrizzavano di gioia i cuori”.
Fra gli episodi rimasti impressi nella mente a 60 anni di distanza ne ricorda due in particolare: “Un giorno… compare soletto dalla porta d’ingresso presso il santuario. Allora uno stuolo di ragazzi piglia la corsa per investirlo come una folata di vento. Ma egli tiene in mano l’ombrello, che ha il manico ed il fusto grosso come quello dei contadini. Lo alza e servendosene come una spada si destreggia a respingere quell’affettuoso assalto ora a destra ora a sinistra per aprirsi il passo. Tocca uno colla punta, un altro di fianco, ma intanto s’accostano gli altri dall’altra parte. Così il gioco, lo scherzo continua portando la gioia nei cuori, desiderosi di vedere il buon Padre ritornare dal suo viaggio. Sembrava un parroco di paese, ma di quelli alla buona”.

I giochi e il teatrino
Un oratorio salesiano senza gioco è impensabile. Ricorda l’anziano exallievo: “il cortile era occupato da un fabbricato, dalla chiesa di Maria A. e al termine di un muretto… appoggiava all’angolo a sinistra una specie di capanna, presso cui c’era sempre qualcuno a controllare chi entrava… Appena entrato a destra c’era l’altalena con un posto solo, le parallele poi e la sbarra fissa per i più grandicelli, che si divertivano a fare le loro giravolte e capriole, ed anche il trapezio, ed il passo volante unico, che si trovavano però presso le sacrestie oltre la cappella di S. Giuseppe”. Ed ancora: “Questo cortile era di una bella lunghezza e si prestava assai bene a fare le corse di velocità partendo dal lato della chiesa e tornando ivi al ritorno. Si giocava pure a bara rotta, alle corse dei sacchi, alle pignatte. Questi ultimi giochi erano annunziati fin dalla domenica precedente. Così pure la cuccagna; ma l’albero si piantava con la parte sottile in basso perché fosse più difficile l’ascendere. C’erano delle lotterie, ed il biglietto si pagava un soldo o due. Dentro alla casetta c’era una piccola biblioteca contenuta in un armadietto”.

Al gioco si univa il famoso “teatrino” su cui si svolgevano autentici drammi come “il figlio del Crociato”, si cantavano le romanze di don Cagliero e si presentavano “musical” come il Ciabattino personificato dal mitico Carlo Gastini [brillantissimo animatore degli exallievi]. La recita, presenti gratuitamente i genitori, si teneva nel salone sotto la navata centrale della chiesa di Maria A., ma il vecchio ex oratorio ricorda anche che “una volta si recitò presso la casa Moretta [attuale chiesa parrocchiale presso la piazza]. Ivi abitava della povera gente nella più squallida miseria. Nelle cantine che si vedono sotto il poggiolo c’era una povera madre, che sul mezzogiorno portava sulle spalle il suo Carlo, che per un morbo aveva il corpo rigido, a pigliare il sole”.

Le funzioni religiose e le riunioni formative
All’oratorio festivo non mancavano le funzioni religiose della domenica mattina: santa Messa con santa comunione, preghiere del buon cristiano; seguiva al pomeriggio la ricreazione, il catechismo, la predica di don Giulio Barberis. Ormai anziano “D. Bosco non veniva mai a dir messa o a far la predica, ma solo per visitare e trattenersi coi ragazzi durante la ricreazione… I catechisti e assistenti avevano con sé in chiesa durante le funzioni i loro allievi a cui insegnavano il catechismo. La dottrina piccola era regalata a tutti. Si esigeva la lezione a memoria ogni festa e poi anche la spiegazione”. Le feste solenni si concludevano con una processione e una merenda per tutti: “uscendo di chiesa dopo la messa c’era la colazione. Un giovane a destra fuori della porta dava la pagnotta, un altro a sinistra con una forchetta vi metteva sopra due fette di salame”. Si accontentavano di poco quei ragazzi, ma erano contentissimi. Quando poi i ragazzi interni si univano agli oratoriani per il canto dei vespri si potevano udire le loro voci in via Milano e in via Corte d’appello!
All’oratorio festivo si tenevano anche riunioni di gruppi formativi. Nella casetta presso la chiesetta di S. Francesco vi era “una stanza piccola e bassa che poteva contenere circa una ventina di persone…Nella stanza c’era un tavolinetto per il conferenziere, c’erano le panche per le adunanze e conferenze dei più grandi in genere, e della Compagnia di S. Luigi, quasi tutte le domeniche”.

Chi erano gli oratoriani?
Dei suoi circa 200 compagni – ma il loro numero diminuiva in inverno per il ritorno in famiglia degli stagionali – il nostro arzillo vecchietto ricordava che molti erano biellesi “quasi tutti ‘ bic’, portavano cioè la secchia di legno piena di calce e il cesto di vimini pieno di mattoni ai muratori delle costruzioni”. Altri erano “apprendisti muratori, meccanici, lattonieri”. Poveri garzoni: lavoravano da mattina a sera tutti i giorni e solo la domenica si potevano permettere un po’ di svago “da don Bosco” (come veniva definito il suo oratorio): “Si giocava all’Asino vola, sotto la direzione dell’allora sig. Milanesio [futuro sacerdote grande missionario in Patagonia.]. Il sig. Ponzano, poi sacerdote, era maestro di ginnastica. Egli ci faceva fare esercizi a corpo libero, coi bastoni, agli attrezzi”.
I ricordi di Pietro Pons sono molto più ampi, tanto ricchi di suggestioni lontane, quanto pervasi da un’ombra di nostalgia; attendono di essere conosciuti per intero. Speriamo di farlo presto.




La «buona notte»

            Una sera, Don Bosco, addolorato per una certa indisciplinatezza generale notata all’Oratorio di Valdocco tra i ragazzi interni, si presentò, come al solito, a dir loro due parole dopo la preghiera della sera. Stette un istante in silenzio sulla piccola cattedra posta all’angolo dei portici dove usava dare ai giovani la cosiddetta «Buona Notte» che consisteva in un breve sermoncino serale. Dato uno sguardo attorno, disse:
            — Non sono contento di voi. Questa sera non posso dir altro!
            E discese dalla cattedra nascondendo le mani nelle maniche della veste, per non permettere che gli fossero baciate, come allora i ragazzi, prima di andare a riposo, usavano fare. Poi, lentamente, si avvicinò alla scala per salire in camera sua senza indirizzare parola ad alcuno. Quel suo modo di fare produsse un effetto magico. Si sentì tra i giovani qualche singhiozzo represso, molte facce erano rigate di lacrime e tutti andarono a dormire pensierosi, convinti di aver disgustato non solo Don Bosco ma anche il Signore (MB IV, 565).

Lo squillo della sera
            Il salesiano Don Giovanni Gnolfo nel suo studio: La «Buona Notte» di Don Bosco, fa notare che il mattino è risveglio di vita e di attività, la sera invece è adatta a seminare nella mente dei giovani un’idea che germogli in loro anche nel sonno. E con un ardito paragone si richiama addirittura al dantesco «squillo della sera»:
Era già l’ora che volge il desìo
ai naviganti e intenerisce il core…
            Proprio nell’ora della preghiera serale l’Alighieri descrive, infatti, nel Canto ottavo del «Purgatorio», i Re in una valletta mentre cantano l’inno della Liturgia delle Ore Te lucis ante terminum… (Prima che termini la luce, o Dio, noi cerchiamo Te, perché ci custodisca).
            Caro e sublime momento quello della «Buona Notte» di Don Bosco! Iniziava con una lode e le preghiere della sera e terminava con le sue parole che aprivano il cuore dei suoi figli alla riflessione, alla gioia, alla speranza. Egli ci teneva proprio a quell’incontro serale con tutta la comunità di Valdocco. Don G. B. Lemoyne ne fa risalire l’origine a Mamma Margherita. La buona madre nel mettere a letto il primo orfanello giunto dalla Val Sesia, gli fece alcune raccomandazioni. Di lì sarebbe derivata nei collegi salesiani la bella usanza di rivolgere brevi parole ai giovani prima di mandarli a riposo (MB III, 208-209). Don E. Ceria, riportando le parole pronunciate dal Santo nel ripensare ai primi tempi dell’Oratorio, «Ho cominciato a fare un brevissimo sermoncino alla sera dopo le orazioni» (MO, 205), pensa piuttosto ad un’iniziativa diretta di Don Bosco. Comunque, se Don Lemoyne accettò l’idea di alcuni dei primi discepoli, era perché pensava che la «Buona Notte» di Mamma Margherita rispondesse emblematicamente allo scopo di Don Bosco nel l’introdurre quell’usanza (Annali III, 857).

Caratteristiche della «Buona Notte»
            Una caratteristica della «Buona Notte» di Don Bosco era l’argomento da lui trattato: un fatto di attualità che colpisse, qualcosa di concreto che creasse suspense e permettesse anche domande da parte degli ascoltatori. A volte interrogava lui stesso, instaurando così un dialogo di grande attrattiva per tutti.
            Altre caratteristiche erano la varietà degli argomenti trattati e la brevità del discorso per evitare monotonia e conseguente noia negli ascoltatori. Non sempre, però, Don Bosco era breve, specialmente quando raccontava i suoi famosi sogni o i viaggi da lui compiuti. Ma abitualmente si trattava di un discorsetto di pochi minuti.
            Non si trattava, insomma, né di prediche né di lezioni scolastiche, ma di brevi parole affettuose che il buon padre rivolgeva ai suoi figli prima di mandarli a riposo.
            Le eccezioni alla regola facevano, naturalmente, enorme impressione, come avvenne la sera del 16 settembre 1867. Dopo essere stato tentato dai superiori ogni mezzo di correzione, alcuni ragazzi risultavano incorreggibili ed erano di scandalo ai compagni.
            Don Bosco salì sulla piccola cattedra. Incominciò con il citare il brano del Vangelo dove il Divin Salvatore pronuncia parole terribili contro chi scandalizza i pargoli. Ricordò le serie ammonizioni da lui ripetutamente fatte a quegli scandalosi, i benefici che essi avevano ottenuto in collegio, l’amore paterno di cui erano stati circondati, e poi proseguì:
«Costoro credono di non essere conosciuti, ma io so chi sono e potrei nominarli in pubblico. Se non li nomino, non credete che non ne sia pienamente informato… Che se volessi nominarli, potrei dire: Sei tu, o A… (e pronunciò nome e cognome) un lupo che ti aggiri in mezzo ai compagni e li allontani dai superiori mettendo in ridicolo i loro avvisi… Sei tu, o B… un ladro che coi discorsi appanni il candore dell’innocenza altrui… Sei tu o C… un assassino che con certi biglietti, con certi libri, strappi dal fianco di Maria i suoi figlioli… Sei tu o D… un demonio che guasti i compagni e impedisci loro con i tuoi scherni la frequenza ai Sacramenti…».
            Sei furono nominati. La voce di Don Bosco era calma. Ogni volta che pronunciava un nome si udiva un grido soffocato del colpevole che risuonava in mezzo al cupo silenzio dei compagni esterrefatti.
            Il giorno dopo alcuni furono mandati a casa. Quelli che poterono rimanere, cambiarono vita: Il «buon padre» Don Bosco non era un buonuomo davvero! Ed eccezioni di questo genere confermano la regola della sua «Buona Notte».

La chiave della moralità
            Non per nulla Don Bosco un giorno del 1875, a chi si stupiva come mai nell’Oratorio non si verificassero certi disordini lamentati in altri collegi, enumerò i segreti messi in azione a Valdocco, e tra questi indicò il seguente: «Mezzo potente di persuasione al bene è il rivolgere ai giovani due parole confidenziali ogni sera dopo le orazioni. Si taglia la radice ai disordini, prima ancora che nascano» (MB XI, 222).
            E nel suo prezioso documento Il sistema preventivo nell’educazione della gioventù, lasciò scritto che la «Buona Notte» del Direttore della Casa poteva divenire «la chiave della moralità, del buon andamento e del successo dell’educazione» (Costituzioni della Società di San Francesco di Sales, p. 239-240)
            Don Bosco faceva vivere la giornata ai suoi giovani tra due momenti solenni, anche se ben diversi tra loro, al mattino l’Eucaristia, perché la giornata non stemperasse il loro ardore giovanile, alla sera le preghiere e la «Buona Notte» perché prima del sonno riflettessero su valori che avrebbero illuminato la notte.




Don Bosco e la musica

            Per l’educazione dei suoi giovani Don Bosco si servì molto della musica. Sin da ragazzo amava il canto. Avendo egli una bella voce, il Sig. Giovanni Roberto, capo-cantore della parrocchia, gli insegnò il canto fermo. In pochi mesi Giovanni poté salire sull’orchestra ed eseguire parti musicali con ottimo risultato. Nello stesso tempo incominciò ad esercitarsi a suonare una “spinetta”, che era lo strumento a corde pizzicate a mezzo di tastiera, ed anche il violino (MB I, 232).
            Sacerdote a Torino, fece da maestro di musica ai suoi primi oratoriani, formando a poco a poco dei veri cori che attiravano, con il loro canto, la simpatia degli ascoltatori.
            Dopo l’apertura dell’ospizio, avendo ormai ragazzi interni, iniziò la scuola di canto gregoriano e, con il tempo, portò pure i suoi piccoli cantori nelle chiese della città e fuori Torino ad eseguire il loro repertorio.
            Egli stesso compose lodi sacre come quella a Gesù Bambino, “Ah, si canti in suon di giubilo…”. Avviò pure allo studio della musica alcuni suoi discepoli, tra i quali si distinse don Giovanni Cagliero, che poi si rese celebre per le sue creazioni musicali guadagnandosi la stima degli esperti. Nel 1855 Don Bosco organizzò la prima banda strumentale dell’Oratorio.
            Non andava, tuttavia, avanti alla buona Don Bosco! Già negli anni ’60 incluse in un suo Regolamento un capitolo sulle scuole serali di musica, nel quale diceva, fra l’altro:
“Da ogni allievo musico si esige formale promessa di non andare a cantare né a suonare nei pubblici teatri, né in altro trattenimento in cui possa essere compromessa la Religione ed il buon costume” (MB VII, 855).

La musica dei ragazzi
            Ad un religioso francese che aveva fondato un Oratorio festivo e gli chiedeva se conveniva insegnare la musica ai ragazzi, rispose: “Un Oratorio senza musica è come un corpo senz’anima!” (MB V, 347).
            Don Bosco parlava il francese abbastanza bene sia pure con una certa libertà di grammatica e di espressione. In proposito riuscì celebre una sua risposta sulla musica dei ragazzi. L’Abate L. Mendre di Marsiglia, Curato della parrocchia di San Giuseppe, gli portava grande affetto. Un giorno gli sedeva a fianco durante un trattenimento nell’Oratorio di San Leone. I piccoli musici facevano ogni tanto qualche stecca. L’abate, che di musica se ne intendeva assai, friggeva e scattava ad ogni stonatura. Don Bosco gli sussurrò all’orecchio nel suo francese: “Monsieur Mendre, la musique de les enfants elle s’écoute avec le coeur et non avec les oreilles” (Signor abate Mendre, la musica dei ragazzi si ascolta con il cuore e non con le orecchie). L’abate ricordò poi infinite volte quella risposta, che rivelava la saggezza e la bontà di Don Bosco (MB XV, 76 n.2).
            Tutto questo non significa, però, che Don Bosco anteponesse la musica alla disciplina nell’Oratorio. Era sempre amabile ma non passava facilmente sopra alle mancanze di obbedienza. Per alcuni anni aveva permesso ai giovani bandisti che nella festa di Santa Cecilia andassero in luogo da lui designato a fare una passeggiata ed un pranzetto campestre. Ma nel 1859, a causa di accaduti inconvenienti, cominciò a proibire tale svago. I giovani non protestarono apertamente, ma una metà di essi, sobillati da un capo che aveva loro promesso di ottenerne licenza da Don Bosco, e sperando impunità, si decisero di uscire ugualmente dall’Oratorio ed organizzare di loro iniziativa un pranzo fuori casa prima della Festa di Santa Cecilia. Avevano preso questa decisione pensando che Don Bosco non se ne sarebbe accorto e non avrebbe preso provvedimenti. Si recarono, quindi, negli ultimi giorni di ottobre, a pranzare in una vicina trattoria. Dopo il pranzo andarono ancora a girovagare in città ed alla sera ritornarono a cenare nello stesso posto, rientrando poi a Valdocco mezzo brilli a notte tarda. Solo il sig. Buzzetti, invitato all’ultimo momento, si era rifiutato di unirsi a quei disubbidienti e ne avvertì Don Bosco. Questi, con tutta calma, dichiarò sciolta la banda musicale e ordinò al Buzzetti di ritirare e chiudere a chiave tutti gli strumenti e pensare a nuovi allievi da avviare alla musica strumentale. All’indomani mattina, poi, mandò a chiamare ad uno ad uno tutti i musici riottosi rammaricandosi con ciascuno di loro che lo costringevano ad essere molto severo. Poi li rimandò dai loro parenti o tutori raccomandandone qualcuno più bisognoso in opifici cittadini. Solo uno di quei birichini fu poi riaccettato perché Don Rua aveva assicurato Don Bosco trattarsi di un ragazzo inesperto che si era lasciato ingannare dai compagni. E Don Bosco lo tenne ancora qualche tempo in prova!
            Ma con i dispiaceri non bisogna dimenticare le consolazioni. Il 9 giugno 1868 fu una data memorabile nella vita di Don Bosco e nella storia della Congregazione. La nuova Chiesa di Maria Ausiliatrice, da lui fatta costruire con immensi sacrifici, veniva finalmente consacrata. Chi fu presente ai solennissimi festeggiamenti ne rimase profondamente commosso. Una folla strabocchevole stipava la bella chiesa di Don Bosco. L’Arcivescovo di Torino, Mons. Riccardi, compì il solenne rito della consacrazione. Alla funzione serale del giorno seguente, durante i Vespri solenni, il coro di Valdocco intonò la grandiosa antifona musicata da don Cagliero: Sancta Maria succurre miseris. La folla dei fedeli ne rimase elettrizzata. Tre cori poderosi l’avevano eseguita in modo perfetto. Centocinquanta tenori e bassi cantavano nella navata presso l’altare di San Giuseppe, duecento soprani e contralti stavano in alto lungo la ringhiera sotto la cupola, un terzo coro, composto di altri cento tenori e bassi, erano collocati sull’orchestra che allora sovrastava il fondo della chiesa. I tre cori, collegati da un congegno elettrico, mantenevano la sincronia ai comandi del Maestro. Il biografo, presente all’esecuzione, ebbe poi a scrivere:
            “Nel momento in cui tutti i cori riuscirono a fare una sola armonia, si provò una specie di incantesimo. Le voci si collegavano insieme e l’eco le rimandava per tutte le direzioni in modo che l’uditorio si sentiva immerso in un mare di voci, senza che potesse discernere come e donde veniva. Le esclamazioni, che si udirono poi, indicavano come tutti si fossero sentiti soggiogati da così alta maestrìa. Don Bosco stesso non poté trattenere l’intensa commozione. Ed egli che mai in chiesa, durante la preghiera, si permetteva di dire una parola, rivolse gli occhi umidi di pianto ad un canonico suo amico e a bassa voce gli disse: “Caro Anfossi, non ti pare di essere in Paradiso?” (MB IX, 247-248).




Il sogno dell’elefante (1863)

D. Bosco, non avendo potuto dare l’ultimo giorno dell’anno la strenna ai suoi alunni, ritornato da Borgo Cornalense, il giorno 4, domenica, aveva promesso loro di darla la sera della festa dell’Epifania. Era il 6 del mese di gennaio 1863 e tutti i giovani, artigiani e studenti, radunati nel medesimo parlatorio, aspettavano ansiosi la strenna. Recitate le orazioni, il buon padre salì sulla tribuna solita e così prese a dire:

            Ecco la sera della strenna. Ogni anno sino dalle feste Natalizie, soglio innalzare a Dio preghiere, perché voglia ispirarmi qualche strenna, che possa esservi di giovamento. Ma quest’anno raddoppiai le preghiere stante il cresciuto numero dei giovani. Scorse però l’ultimo giorno dell’anno, venne il giovedì, il venerdì e nulla di nuovo. La sera del venerdì vado a letto, stanco delle fatiche del giorno, né mi fu dato prendere sonno lungo la notte, di modo che al mattino mi levai spossato, quasi semimorto. Non mi conturbai per questo, anzi mi rallegrai, poiché sapeva che ordinariamente quando il Signore è per manifestarmi qualche cosa, passo malissimo la notte antecedente. Continuai le mie solite occupazioni nel paese di Borgo Cornalense e la sera del sabato giunsi qui tra voi. Dopo aver confessato mi posi a letto, e per la stanchezza cagionata dalla predicazione e dalle confessioni a Borgo, e dal poco riposo della notte antecedente facilmente mi addormentai. Ecco, qui comincia il sogno da cui riceverete la strenna.
            Cari giovani, sognai che era giorno di festa, dopo pranzo, nelle ore di ricreazione e voi eravate intenti a divertirvi in mille modi. Mi parve di essere nella mia camera col Cav. Vallauri, professore di belle lettere: avevamo discorso di parecchie cose letterarie e di altre riguardanti la religione, quando improvvisamente sento all’uscio un ticc, tacc di chi bussava.
Corro a vedere. Era mia madre, morta da sei anni, che affannata mi chiamava.
            – Vieni a vedere, vieni a vedere.
            – Che c’è? risposi.
            – Vieni, vieni! replicò.
            A queste istanze mi portai sul balcone ed ecco in cortile vedo in mezzo ai giovani un elefante di smisurata grandezza.
            – Ma come va? esclamai! Corriamo sotto! E sbigottito mi rivolgeva al Cav. Vallauri, ed egli a me, come per interrogarci in qual modo fosse entrata quella belva mostruosa. Scendemmo tosto precipitosi nel porticato col professore.
            Molti di voi, come è naturale, erano accorsi a vederla. Quell’elefante sembrava mite, docile: si divertiva correndo coi giovani; li accarezzava colla proboscide: era tanto intelligente che obbediva ai comandi, come se fosse stato ammaestrato ed allevato qui nell’Oratorio dalla sua prima età, di modo che era sempre seguito ed accarezzato da un gran numero di giovani. Non tutti però eravate intorno a lui vidi che la maggior parte spaventati fuggivate qua e là, cercando un luogo ove ricoverarvi e infine vi siete rifugiati in Chiesa. Io pure cercai d’entrarvi per l’uscio che mette nel cortile; ma nel passare vicino alla statua della Vergine, collocata presso la pompa, avendo io toccato l’estremità del suo manto, come in segno d’invocarne il patrocinio, essa alzò il braccio destro. Vallauri volle imitare il mio atto dall’altra parte e la Vergine mosse il braccio sinistro.
            Io rimasi sorpreso non sapendo come spiegare un fatto così straordinario.
            Venne intanto l’ora delle sacre funzioni e voi, o giovanetti, andaste tutti in Chiesa, lo pure entrai, e vidi l’elefante ritto in fondo vicino alla porta. Si cantarono i vespri, e dopo la predica andai all’altare assistito dal Sac. D. Alasonatti e da D. Savio per impartire la benedizione col SS. Sacramento. Ma nel momento solenne nel quale tutti erano profondamente inchinati ad adorare il Santo dei santi, vidi sempre al fondo della Chiesa, in mezzo al passaggio, fra le due file dei banchi, l’elefante inginocchiato e inchinato in senso inverso, col muso cioè e le orribili zane rivolte alla porta principale.
            Terminate le funzioni io voleva subito uscire nel cortile per osservare ciò che avvenisse, ma trattenuto da alcuno in sacrestia che bramava darmi qualche avviso, dovetti indugiare.
            Esco dopo breve tempo, sotto i portici e voi nel cortile per incominciare i divertimenti come prima. L’elefante uscito di chiesa si avanzò nel secondo cortile intorno al quale sono in costruzione gli edifizi. Notate bene questa circostanza, poiché in quel cortile, accadde la scena straziante che ora vi descriverò.
            In quel mentre là al fondo compariva uno stendardo, su cui stava scritto a caratteri cubitali: Sancta Maria succurre miseris (Santa Maria, soccorri i miseri) e lo seguivano i giovani processionalmente. Quando a un tratto, all’impensata di tutti, vidi quel brutto animale, che prima pareva tanto gentile, avventarsi con furiosi barriti in mezzo agli alunni circostanti e prendendo i più vicini colla proboscide scagliarli in alto, sfracellarli sbattendoli in terra, e coi piedi farne uno strazio orrendo. Tuttavia quelli che erano siffattamente maltrattati non rimanevano morti, ma in uno stato da poter guarire, quantunque le ferite fossero orribili. Era un fuggi fuggi generale; chi gridava, chi piangeva, e chi ferito invocava l’aiuto dei compagni: mentre, cosa straziante, alcuni giovani risparmiati dall’elefante, invece di aiutare e soccorrere i feriti, avevano fatta alleanza col mostro per procacciargli altre vittime.
            Mentre avvenivano queste cose (ed io mi trovava nel secondo arco del porticato presso la pompa) quella statuetta che vedete là (indicava la statua della SS. Vergine) si animò e s’ingrandì, divenne persona di alta statura, alzò le braccia ed aperse il manto, nel quale erano intessute con arte stupenda molte iscrizioni. Questo poi si allargò smisuratamente tanto, da coprire tutti coloro che vi si ricoveravano sotto: quivi erano sicuri della vita, pel primo un numero scelto dei più buoni corse a quel rifugio. Ma vedendo Maria SS. che molti non si prendevano cura di affrettarsi a Lei, gridava ad alta voce: Venite ad me omnes (Venite a me, tutti), ed ecco che cresceva la folla dei giovanetti sotto il manto che sempre si allargava. Alcuni però invece di ricoverarsi sotto il manto, correvano da una parte all’altra e venivano feriti prima che fosse loro dato di ripararsi al sicuro. La Vergine SS. affannata, rossa in viso, continuava a gridare, ma più rari si vedevano quelli i quali correvano a Lei. L’elefante seguitava la strage e parecchi giovani, che maneggiando una spada, chi due, sparsi qua e là, impedivano ai compagni, che ancora si trovavano nel cortile, col minacciarli e col ferirli, di andare a Maria. E costoro l’elefante non li toccava menomamente.
            Alcuni dei giovani ricoverati vicino a Maria e da lei incoraggiati, facevano intanto rapide scorrerie. Strappavano all’elefante qualche preda e trasportavano il ferito sotto il manto della statua misteriosa e quegli subito restava guarito. E quindi ripartivano correndo a nuove conquiste. Varii armati di bastone allontanavano l’elefante dalle sue vittime, e si opponevano ai suoi complici. E non cessarono, anche a rischio della loro vita da quel lavoro, finché quasi tutti li ebbero seco loro condotti in salvo.
            Il cortile ormai era deserto. Alcuni erano distesi a terra pressoché morti. Da una parte presso i portici una moltitudine di fanciulli sotto il manto della Vergine. Dall’altra in distanza l’elefante col quale erano rimasti solamente un dieci o dodici giovani, che lo avevano coadiuvato a far tanto male e che insolentemente imperterriti brandivano le spade.
            Quand’ecco quell’elefante sollevatosi sulle gambe posteriori, cambiarsi in un fantasma orribile con lunghe corna; e preso un nero copertone o rete che fosse, avviluppò quei miseri, che avevano parteggiato con lui, e mandò un ruggito, Allora un denso fumo tutti li involse e si sprofondarono e sparirono col mostro in una voragine improvvisamente apertasi sotto i loro piedi.
            Terminata questa orrenda scena mi guardai attorno per esporre qualche mia riflessione a mia madre ed al Cav. Vallauri, ma più non li vidi.
            Mi rivolsi a Maria, desideroso di leggere le iscrizioni, che apparivano intessute sovra il suo manto e vidi che parecchie erano tratte letteralmente dalla Sacra Scrittura e altre pure scritturali, ma alquanto modificate. Ne lessi alcune: Qui elucidant me vitám aeternam habebunt (Chi mi fa conoscere avrà la vita eterna, Sir. 24,31), Qui me invenerit inveniet vitam (Chi trova me, trova la vita, Pr. 8,35), Si quis est parvulus veniat ad me (Chi è piccolo venga a me, Pr. 9,4), Refugium peccatorum (Rifugio dei peccatori), Salus credentium (Salvezza dei credenti), Plena omnis pietatis, mansuetudinis et misericordiae (Piena di ogni pietà, mitezza e misericordia), Beati qui custodiunt vias meas (Beati quelli che seguono le mie vie, Pr. 8,32)
            Dopo la scomparsa dell’elefante tutto era tranquillo. La Vergine pareva quasi stanca dal suo lungo gridare. Dopo breve silenzio, rivolse ai giovani belle parole di conforto, di speranza; e, ripetendo quelle parole che là vedete sotto quella nicchia, fatte scrivere da me: Qui elucidant me, vitam aeternam habebunt, disse:
            – Voi che avete ascoltata la mia voce, e siete sfuggiti dalla strage del demonio, avete veduto ed avete potuto osservare quei vostri compagni sfracellati. Volete sapere quale è la cagione della loro perdita? Sunt colloquia prava (sono le conversazioni sbagliate); sono i cattivi discorsi contro la purità, quelle opere disoneste che tennero immediatamente dietro ai cattivi discorsi. Avete pur veduto quei vostri compagni armati colla spada: ecco quelli che cercano la vostra dannazione, allontanandovi da me e che cagionarono la perdita di tanti vostri condiscepoli. Ma quos diutius expectat durius damnat (coloro che Dio aspetta con più pazienza, più rigorosamente poi punisce, se restano ingrati). Quelli che Dio più a lungo aspetta più severamente punisce: e quel demonio infernale avviluppatili, seco li condusse all’eterna perdizione. Ora voi andatevene tranquilli ma ricordatevi delle mie parole: Fuggite quei compagni amici di Satana, fuggite i cattivi discorsi specialmente contro la purità abbiate in me una illimitata confidenza ed il mio manto vi sarà sempre sicuro rifugio.
            Dette queste ed altre simili parole, si dileguò e null’altro rimase al solito posto, se non la nostra cara statuetta. Allora mi vidi ricomparire la defunta mia madre, di bel nuovo si innalzò lo stendardo colla scritta: Sancta Maria succurre miseris; tutti i giovani si ordinarono dietro a questo in processione ed intonarono il canto “Lodate Maria, o lingue fedeli”.
            Ma non andò molto che il canto incominciò ad illanguidirsi, poi svanì tutto quello spettacolo ed io mi svegliai bagnato interamente di sudore. Ecco! Questo è quanto ho sognato.
            O figli miei; ricavate voi stessi la strenna: chi era sotto il manto chi era gettato in alto dall’elefante, e chi aveva la spada se ne accorgerà dall’esaminare la propria coscienza. Io non vi ripeto che le parole della Vergine SS.: Venite ad me omnes; ricorrete tutti a Lei, in ogni pericolo invocate Maria e vi assicuro che sarete esauditi. Del resto pensino coloro che furono sì maltrattati dalla belva a fuggire i cattivi discorsi, i cattivi compagni; e quelli che cercavano di allontanare gli altri da Maria, o mutino vita o partano subito da questa Casa. Chi poi vorrà sapere il posto che teneva, venga da me anche nella mia camera, ed io glielo manifesterò. Ma lo ripeto; i ministri di Satana o cambiare o partire. Buona notte!
            Queste parole furono pronunziate con tanta unzione e commozione di cuore, che i giovani meditando tal sogno per una settimana più non lo lasciarono in pace. Al mattino molte confessioni, dopo pranzo quasi tutti da lui per sapere qual luogo tenessero in quel sogno misterioso.
            E che non fosse sogno, ma visione, lo aveva pure indirettamente affermato D. Bosco stesso, dicendo:
            “- Quando il Signore è per manifestarmi qualche cosa, passo ecc…Soglio innalzare a Dio preghiere, perché voglia ispirarmi…” e poi col proibire che fece qualunque scherzo intorno a questa narrazione.
            Ma vi è ancora di più.
            Questa volta egli stesso scriveva in un foglietto il nome degli alunni, che nel sogno aveva visti feriti, di quelli che maneggiavano una spada, e di altri che ne maneggiavano due: e lo consegnò a D. Celestino Durando, dandogli incarico di sorvegliarli. D. Durando ci trasmise questa lista e l’abbiamo sottocchio. I feriti sono 13 quelli probabilmente che non furono ricoverati sotto il manto della Madonna, quelli che avevano una spada erano diciassette; quelli che ne avevano due si riducevano a tre. Qualche nota a fianco di un nome indica mutazione di condotta. Si osservi ancora che il sogno, come vedremo, non rappresentava solamente il tempo presente, ma riguardava anche il futuro.
            Ma soprattutto che questo sogno abbia dato nel segno lo comprovarono gli stessi giovani. Uno di questi riferiva: “Non credevo che D. Bosco così mi conoscesse; mi ha manifestato lo stato dell’anima mia, le tentazioni cui sono soggetto con tale precisione, che nulla potrei aggiungere. Due altri giovani cui D. Bosco aveva detto che portavano la spada – Ah! sì, è vero, dicevano, è molto tempo che me ne sono accorto; lo sapeva anch’io. E mutarono condotta.
            “Un giorno dopo pranzo egli parlava del suo sogno, e dopo di aver riferito come alcuni già erano partiti ed altri dovevano partire per allontanare la loro spada dalla Casa, venne a discorrere della sua furberia, come egli diceva, ed a tal proposito riferiva questo fatto. – Un giovane scriveva, è poco tempo, a casa sua appioppando alle persone dell’Oratorio più degne di stima, come a superiori e a preti, gravi calunnie ed insulti. Temendo che D. Bosco potesse vedere quel foglio, cercò, studiò finché gli fu possibile impostarlo senza, che alcuno lo sapesse. La lettera partì. Dopo pranzo lo mandai a chiamare: si presenta nella mia camera ed io, dopo di avergli mostrato il suo fallo, lo interrogava che cosa lo avesse indotto a scrivere tante menzogne. Egli negò sfacciatamente il fatto, io lo lasciai parlare, poscia, cominciando dalla prima parola, gli recitai tutta la lettera. Confuso allora e spaventato, piangendo si gettò ai miei piedi, dicendo: – Non è dunque andata la mia lettera? – Sì, gli risposi, a quest’ora sarà a casa tua, ma pensa tu di ripararvi. – Gli alunni lo interrogarono in qual modo avesse ciò saputo. – Oh! la mia furbizia, rispose ridendo …”.
            Questa furbizia doveva essere quella stessa del sogno, il quale riguardava non solo il presente stato, ma la vita futura di ciascun giovane, uno dei quali, in stretta relazione con Don Rua, cosi gli scriveva molti anni dopo. Si noti che il foglio porta il nome e cognome dello scrivente, col titolo della strada e il numero della sua abitazione in Torino.

Carissimo D. Rua,

            Fra le altre cose mi ricordo di una visione, che D. Bosco ebbe nel 1863, mentre io era ritirato nella sua casa; nella quale vide la vita fu tura di tutti i suoi, e raccontataci da lui stesso dopo le orazioni della sera. Fu il sogno dell’elefante. (Qui descritto quanto sopra abbiamo esposto, continua): Don Bosco terminata la sua narrazione ci disse:
            – Se voi desiderate sapere dove vi siete trovati venite da me nella mia camera, ed io ve lo dirò.
            Dunque anch’io andai.
            – Tu, mi disse, eri uno di coloro che correvi appresso all’elefante prima e dopo le funzioni, quindi naturalmente fosti sua preda; fosti lanciato in alto colla proboscide e cadendo rimanesti malconcio in modo, che non potevi più fuggire, ancorché facessi ogni sforzo. Quando un tuo compagno sacerdote, a te incognito, viene ti prende per un braccio e ti trasporta sotto il manto della Madonna. Fosti salvo.
            Questo non sogno, come diceva D. Bosco, ma vera rivelazione del futuro che il Signore faceva al suo Servo, avvenne nel secondo anno che io era nell’Oratorio, in un tempo che io era di esempio ai miei compagni sì nello studio che nella pietà; eppure Don Bosco mi vide in quello stato.
            Vennero le vacanze scolastiche del 1863. Andai in vacanza per motivi di salute e non ritornai più all’Oratorio. Aveva 13 anni compiuti. L’anno seguente il mio padre mi mise ad imparare il mestiere da calzolaio. Due anni dopo (1866) mi recai in Francia per ultimare d’imparare il mio mestiere. Quivi m’incontrai con gente settaria e poco per volta lasciai la Chiesa e le pratiche religiose, principiai a leggere libri scettici ed arrivai al punto di abborrire la S. Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, come la più pestifera delle religioni.
            Dopo due anni ritornai in patria e qui pure continuai sempre a leggere libri empii e sempre più lui allontanavo dalla vera Chiesa.
            In tutto questo tempo però non ho mai tralasciato di pregare il Signore Iddio Padre a nome di G. C., affinché mi illuminasse e mi facesse conoscere la vera religione.
            Durarono questi tempi ben 13 anni, durante i quali io faceva ogni sforzo per rialzarmi, ma era ferito, era preda dell’elefante, non mi poteva muovere.
            Sul finire dell’anno 1878 si diede una missione spirituale in una parrocchia. Molti intervenivano a queste istruzioni ed anch’io cominciai ad andarci tanto per sentire quei “famosi oratori”.
            Trovai tutte cose belle, verità incontestabili, e finalmente l’ultima predica che trattava appunto del SS. Sacramento, ultimo punto e principale che mi restava in dubbio (poiché io non credeva più alla presenza di G. C. nel SS. Sacramento, né reale, né spirituale) seppe l’oratore sì bene spiegare la verità, confutare gli errori e convincermi, che io tocco dalla grazia del Signore mi decisi a fare la mia confessione e ritornare sotto il manto della B. Vergine. D’allora in poi non tralascio più di ringraziare Dio e la B. Vergine della grazia ricevuta.
            Noti bene che a compimento della visione, seppi poi che quell’oratore missionario era mio compagno nell’Oratorio di D. Bosco.
            Torino, 25 febbraio 1891.

DOMENICO N…

P.S. – Se la S. V. Rev. crede bene di pubblicare questa mia, Le do ampia facoltà anche di ritoccarla, purché non si scambi il senso essendo questa la pura verità. Rispettosamente Le bacio la mano, caro Don Rua, intendendo con questo bacio di baciare quella del nostro amato D. Bosco.

            Ma da questo sogno D. Bosco aveva certamente ricevuto eziandio lume per poter giudicare le vocazioni allo stato religioso o ecclesiastico, le attitudini degli uni e degli altri nel fare in vario modo il bene. Aveva visti quei coraggiosi che affrontavano l’elefante e i suoi partigiani per salvare i compagni e strappar loro i feriti per portarli sotto il manto della Madonna. Egli perciò continuava ad accogliere le domande di quelli fra costoro, che desideravano far parte della Pia Società, oppure ad ammetterli, essendo già ascritti, a pronunciare i voti triennali. E per loro sarà in eterno titolo onorifico la scelta che ne fece D. Bosco. Una parte di questi non pronunciò i voti o compiuta la triennale promessa, uscì dall’Oratorio; ma è un fatto che questi perseverarono quasi tutti nella, loro missione di salvare ed istruire la gioventù o come preti in diocesi o come professori secolari nelle regie scuole.
            I loro nomi stanno nei tre seguenti verbali del Capitolo Salesiano.
(MBVII, 356-363)




Bullismo. Una cosa nuova? C’era anche nei tempi di don Bosco

Non è certamente un mistero per i più attenti conoscitori della “realtà viva” di Valdocco e non solo “ideale” o “virtuale”, che la vita quotidiana in una struttura decisamente ristretta per accogliere 24 ore su 24 e per molti mesi all’anno varie centinaia di bambini, ragazzi e giovani eterogenei per età, provenienza, dialetto, interessi, poneva problemi educativi e disciplinari non indifferenti a don Bosco e ai suoi giovani educatori. Riportiamo due episodi significativi al riguardo, per lo più sconosciuti.

La violenta colluttazione
Nell’autunno 1861 la vedova del pittore Agostino Cottolengo, fratello del famoso (san) Benedetto Cottolengo, dovendo collocare i suoi due figli, Giuseppe e Matteo Luigi, nella capitale del neonato Regno d’Italia per motivi di studio, chiese al cognato, can. Luigi Cottolengo di Chieri, di individuare un collegio adatto. Questi suggerì l’oratorio di don Bosco e così il 23 ottobre i due fratelli, accompagnati da un altro zio, Ignazio Cottolengo, frate domenicano, entrarono al Valdocco a 50 lire mensili di pensione. Prima di Natale il quattordicenne Matteo Luigi era però già ritornato a casa per motivi di salute, mentre il fratello maggiore Giuseppe, ritornato a Valdocco dopo le vacanze natalizie, un mese dopo fu allontanato per causa di forza maggiore. Che cosa era successo?
Era successo che il 10 febbraio 1862, Giuseppe, sedicenne, era venuto alle mani con un certo Giuseppe Chicco, di nove anni, nipote del can. Simone Chicco di Carmagnola, che probabilmente ne pagava la pensione.

Nella colluttazione, con tanto di bastone, il bambino ovviamente ebbe la peggio, restandone seriamente ferito. Don Bosco si premurò di farlo ricoverare presso la fidatissima famiglia Masera, onde evitare che la notizia dello spiacevole episodio si diffondesse in casa e fuori casa. Il bambino venne visitato da un medico, il quale redasse un referto piuttosto pesante, utile “per chi di ragione”.

L’allontanamento provvisorio del bullo
Per non correre rischi e per ovvi motivi disciplinari, don Bosco il 15 febbraio si vide costretto ad allontanare per qualche tempo il giovane Cottolengo, facendolo accompagnare non a Bra a casa della madre che ne avrebbe sofferto troppo, ma a Chieri, dallo zio canonico. Questi, due settimane dopo, chiese a don Bosco delle condizioni di salute del Chicco e delle spese mediche sostenute, onde risarcirle di tasca propria. Gli chiese altresì se era disposto a riaccettare a Valdocco il nipote. Don Bosco gli rispose che il fanciullo ferito era ormai quasi completamente guarito e che per le spese mediche non c’era in alcun modo da preoccuparsi perché “abbiamo da fare con onesta gente”. Quanto a riaccettargli il nipote, “s’immagini se mi ci posso rifiutare”, scriveva. Però a due condizioni: che il ragazzo riconoscesse il suo torto e che il can. Cottolengo scrivesse al can. Chicco, onde chiedergli scusa a nome del nipote e pregarlo di “dire una semplice parola” a don Bosco perché riaccogliesse a Valdocco il giovane. Don Bosco gli garantiva che il can. Chicco non solo avrebbe accolto le scuse – gli aveva già scritto al riguardo – ma aveva già fatto ricoverare il nipotino “in casa di un parente per impedire ogni pubblicità”. A metà marzo entrambi i fratelli Cottolengo venivano riaccolti a Valdocco “in modo gentile”. Matteo Luigi vi rimase però solo fino a Pasqua per i soliti disturbi di salute, mentre Giuseppe fino al termine degli studi.

Un’amicizia consolidata e un piccolo guadagno
Non ancora contento che la vicenda si fosse conclusa con comune soddisfazione, l’anno successivo il can. Cottolengo insistette nuovamente con don Bosco per pagare le spese del medico e delle medicine del bambino ferito. Il can. Chicco, interpellato da don Bosco, rispose che la spesa complessiva era stata di 100 lire, che però lui e la famiglia del bambino non chiedevano nulla; ma se il Cottolengo insisteva nel voler saldare il conto, devolvesse tale somma “a favore dell’Oratorio di S. Francesco di Sales”. Così dovette avvenire.
Dunque un episodio di bullismo si era risolto in modo brillante ed educativo: il colpevole si era ravveduto, la “vittima” era stata ben assistita, gli zii si erano uniti per il bene dei loro nipoti, le mamme non ne avevano sofferto, don Bosco e l’opera di Valdocco, dopo aver corso qualche rischio, avevano guadagnato in amicizie, simpatie… e, cosa sempre gradita in quel collegio di ragazzi poveri, un piccolo contributo economico. Far nascere il bene dal male non è da tutti, don Bosco ci è riuscito. C’è da imparare.

Un’interessantissima lettera che apre uno spiraglio sul mondo di Valdocco
Ma presentiamo un caso ancor più grave, che di nuovo può essere istruttivo per i genitori e gli educatori di oggi alle prese con ragazzi difficili e ribelli.
Ecco il fatto. Nel 1865 un certo Carlo Boglietti, schiaffeggiato per grave insubordinazione dall’assistente del laboratorio di legatoria, il chierico Giuseppe Mazzarello, denuncia il fatto alla pretura urbana di Borgo Dora, che avvia un’inchiesta, convocando l’accusato, l’accusatore e tre ragazzi quali testimoni. Don Bosco, nel desiderio di sciogliere la questione con minori disturbi delle autorità pensa bene di rivolgersi direttamente e preventivamente per lettera al pretore stesso. Come direttore di una casa educativa crede di poterlo e doverlo fare “a nome di tutti […] pronto a dare a chi che sia le più ampie soddisfazioni”.

Due importanti premesse giuridiche
Nella sua lettera anzitutto difende il suo diritto e la sua responsabilità di padre-educatore dei ragazzi a lui affidati: fa subito notare che l’articolo 650 del codice penale, chiamato in causa dall’atto di convocazione, “sembra interamente estraneo all’oggetto di cui si tratta, imperciocché interpretato nel senso preteso la pretura urbana si verrebbe ad introdurre nel Regime domestico delle famiglie, i genitori e chi ne fa le veci non potrebbero più correggere la propria figliolanza neppure impedire un’insolenza ed un’insubordinazione, [cose] che tornerebbero a grave danno della moralità pubblica e privata”.
In secondo luogo ribadisce che la facoltà “di usare tutti que’ mezzi che si fossero giudicati opportuni […] per tenere in freno certi giovanetti” gli era stata concessa dall’autorità governativa che gli inviava i ragazzi; solo nei casi disperati – invero “più volte” – aveva dovuto far intervenire “il braccio della pubblica sicurezza”.

L’episodio, i precedenti e le conseguenze educative
Quanto al giovane Carlo in questione, don Bosco scrive che, di fronte a continui gesti ed atteggiamenti di ribellione, “fu più volte paternamente, inutilmente avvisato; che egli si dimostrò non solo incorreggibile, ma insultò, minacciò ed imprecò il ch. Mazzarello in faccia a’ suoi compagni”, al punto che “quell’assistente d’indole mitissima, e mansuetissima ne rimase talmente spaventato, che d’allora in poi fu sempre ammalato senza aver mai più potuto ripigliare i suoi doveri e vive tuttora da ammalato”.
Il ragazzo era poi scappato dal collegio e tramite la sorella aveva informato i superiori della fuga solo “quando seppe che non si poteva più tenere nascosta la notizia alla questura”, cosa che non si era fatto prima “per conservargli la propria onoratezza”. Purtroppo i suoi compagni avevano continuato negli atteggiamenti di protesta violenta, tanto che – scrive ancora don Bosco – “fu mestieri cacciarne alcuni dallo stabilimento, altri con dolore consegnarli alle autorità della pubblica sicurezza che li condussero in prigione”.

Le richieste di don Bosco
A fronte di un giovane “discolo, che insulta e minaccia i suoi superiori” e che ha poi “l’audacia di citare avanti le autorità coloro che per il suo bene […] consacrano vita e sostanze” don Bosco in linea generale sostiene che “l’autorità pubblica dovrebbe sempre venire in aiuto dell’autorità privata e non altrimenti”. Nel caso specifico poi non si oppone al procedimento penale, ma a due precise condizioni: che il ragazzo presenti preventivamente un adulto che paghi “le spese che possono occorrere e che si faccia responsabile delle gravi conseguenze che forse ne potrebbero avvenire”.
Per scongiurare l’eventuale processo, che indubbiamente sarebbe stato strumentalizzato dalla stampa avversa, don Bosco calca la mano: chiede preventivamente che “siano riparati i danni che l’assistente ha sofferto nell’onore e nella persona almeno finché possa ripigliare le sue ordinarie occupazioni, “che le spese di questa causa siano a conto di lui” e che né il ragazzo né “il suo parente o consigliere” sig. Stefano Caneparo non vengano più a Valdocco “a rinnovare gli atti d’insubordinazione e gli scandali già altre volte cagionati”.

Conclusione
Come sia andata a finire la triste vicenda non è dato sapere; con ogni probabilità si venne ad una previa conciliazione fra le parti. Resta però il fatto che è bene sapere che i ragazzi di Valdocco non erano tutti dei Domenico Savio, dei Francesco Besucco e neppure dei Michele Magone. Non mancavano giovani “avanzi di galera” che davano filo da torcere a don Bosco e ai suoi giovanissimi educatori. L’educazione dei giovani è sempre stata arte impegnativa non aliena da rischi; ieri come oggi, c’è bisogno di stretta collaborazione fra genitori, insegnanti, educatori, tutori dell’ordine, tutti interessati al bene esclusivo dei giovani.