Il Venerabile mons. Stefano Ferrando

Mons. Stefano Ferrando è stato un esempio straordinario di dedizione missionaria e servizio episcopale, coniugando il carisma salesiano con una vocazione profonda al servizio dei più poveri. Nato nel 1895 in Piemonte, entrò giovane nella Congregazione salesiana e, dopo aver prestato servizio militare durante la Prima guerra mondiale, che gli valse la medaglia d’argento al valore, si dedicò all’apostolato in India. Vescovo di Krishnagar e poi di Shillong per oltre trent’anni, camminò instancabilmente fra le popolazioni, promuovendo l’evangelizzazione con umiltà e profondo amore pastorale. Fondò istituzioni, sostenne i catechisti laici e incarnò nel suo vivere il motto “Apostolo di Cristo”. La sua vita fu un esempio di fede, abbandono a Dio e totale donazione, lasciando un’eredità spirituale che continua ad ispirare la missione salesiana nel mondo.

            Il venerabile Mons. Stefano Ferrando seppe coniugare la propria vocazione salesiana con il carisma missionario e il ministero episcopale. Nato il 28 settembre 1895 a Rossiglione (Genova, diocesi di Acqui) da Agostino e Giuseppina Salvi, si contraddistinse per un ardente amore a Dio e una tenera devozione alla beata Vergine Maria. Nel 1904 entrò nelle scuole salesiane, prima a Fossano e poi a Torino – Valdocco, dove conobbe i successori di Don Bosco e la prima generazione di Salesiani, e intraprese gli studi sacerdotali; nel frattempo nutrì il desiderio di partire missionario. Il 13 settembre 1912, a Foglizzo fece la sua prima professione religiosa nella Congregazione salesiana. Chiamato alle armi nel 1915, partecipò alla Prima guerra mondiale. Per il coraggio dimostrato gli venne conferita la medaglia d’argento al valore. Tornato a casa nel 1918, il 26 dicembre 1920 emise i voti perpetui.
            Fu ordinato sacerdote a Borgo San Martino (Alessandria) il 18 marzo 1923. Il 2 dicembre dello stesso anno, con nove compagni, s’imbarcò a Venezia come missionario in India. Il 18 dicembre, dopo 16 giorni di viaggio, il gruppo arrivò a Bombay e il 23 dicembre a Shillong, luogo del suo nuovo apostolato. Maestro dei novizi, educò i giovani salesiani all’amore per Gesù e Maria ed ebbe un grande spirito di apostolato.
            Il 9 agosto 1934 papa Pio XI lo nominò vescovo di Krishnagar. Il suo motto fu “Apostolo di Cristo”. Nel 1935, il 26 novembre, venne trasferito a Shillong dove rimarrà vescovo per 34 anni. Pur operando in una gravosa situazione di impatto culturale, religioso e sociale, Mons. Ferrando si prodigò instancabilmente per stare accanto al popolo che gli era stato affidato, lavorando con zelo nella vasta diocesi che comprendeva l’intera regione dell’India del Nord Est. Preferì alla macchina, di cui avrebbe potuto disporre, muoversi a piedi: questo gli permetteva infatti di incontrare le persone, fermarsi a parlare con loro, essere reso partecipe della loro vita. Tale contatto in diretta con la vita delle persone fu una delle principali ragioni della fecondità del suo annuncio evangelico: umiltà, semplicità, amore per i poveri spingono molti a convertirsi e a richiedere il Battesimo. Istituì un seminario per la formazione dei giovani salesiani indiani, costruì un ospedale, edificò un santuario dedicato a Maria Ausiliatrice e fondò la prima Congregazione di suore autoctone, la Congregazione delle Suore Missionarie di Maria Aiuto dei Cristiani (1942).

            Uomo dal carattere forte, non si scoraggiò di fronte alle innumerevoli difficoltà, che affrontò con il sorriso e la mitezza. La perseveranza di fronte agli ostacoli fu una delle sue caratteristiche principali. Cercò di unire il messaggio evangelico alla cultura locale nella quale esso andava inserito. Fu intrepido nelle visite pastorali, che compì nei luoghi più sperduti della diocesi, pur di ricuperare l’ultima pecorella smarrita. Manifestò una particolare sensibilità e promozione per i catechisti laici, che considerava complementari alla missione del vescovo e da cui dipese buona parte della fecondità dell’annuncio del Vangelo e della sua penetrazione nel territorio. Immensa anche la sua attenzione alla pastorale familiare. Nonostante i numerosi impegni, il venerabile fu un uomo dalla ricca vita interiore, alimentata dalla preghiera e dal raccoglimento. Come Pastore fu apprezzato dalle sue suore, dai sacerdoti, dai confratelli salesiani e nell’episcopato, nonché dal popolo che lo sentì profondamente vicino. Si donò in maniera creativa al suo gregge, occupandosi dei poveri, difendendo gli intoccabili, curando i malati di colera.
            I punti-cardine della sua spiritualità furono il legame filiale con la Vergine Maria, lo zelo missionario, il continuo riferimento a Don Bosco, come emerge dai suoi scritti e in tutta la sua attività missionaria. Il momento più luminoso ed eroico della sua vita virtuosa fu l’abbandono della diocesi di Shillong. Mons. Ferrando dovette presentare al Santo Padre le dimissioni quando era ancora nel pieno delle proprie facoltà fisiche e intellettive, per consentire la nomina del suo successore, che andava scelto, secondo le superiori indicazioni, fra i sacerdoti indigeni da lui stesso formati. Fu un momento particolarmente doloroso, vissuto dal grande vescovo con umiltà e obbedienza. Egli comprese che era tempo di ritirarsi in preghiera secondo la volontà del Signore.
            Tornato a Genova nel 1969, continuò la sua attività pastorale, presiedendo le cerimonie per il conferimento della Cresima e dedicandosi al sacramento della Penitenza.
            Fu sino all’ultimo fedele alla vita religiosa salesiana, decidendo di vivere in comunità e rinunciando ai privilegi che la sua posizione di vescovo poteva riservargli. Egli in Italia continuò ad essere «a missionary». Non «a missionary who moves, but […] a missionary who is»: non un missionario che si muove, ma un missionario che è. La sua vita in questa ultima stagione diventò un “irradiare”. Egli diventa un “missionario della preghiera” che dice: «Sono contento di essere venuto via perché altri subentrassero a compiere opere così meravigliose».
            Da Genova Quarto, continuò ad animare la missione dell’Assam, sensibilizzando le coscienze ed inviando aiuti economici. Visse quest’ora di purificazione con spirito di fede, di abbandono alla volontà di Dio e di obbedienza, toccando con mano tutto il senso dell’espressione evangelica «siamo solo servi inutili», e confermando con la sua vita il caetera tolle, l’aspetto oblativo-sacrificale della vocazione salesiana. Morì il 20 giugno 1978 e venne sepolto a Rossiglione, sua terra natale. Nel 1987 le sue spoglie mortali furono riportate in India.

            Nella docilità allo Spirito svolse una feconda azione pastorale, che si manifestò nel grande amore per i poveri, nell’umiltà di spirito e nella carità fraterna, nella gioia e nell’ottimismo dello spirito salesiano.
            Mons. Ferrando ha inaugurato, insieme a tanti missionari che con lui hanno condiviso l’avventura dello Spirito nella terra dell’India, tra i quali i Servi di Dio Francesco Convertini, Costantino Vendrame e Oreste Marengo, un nuovo metodo missionario: essere missionario itinerante. Tale esempio è un provvidenziale monito, soprattutto per le congregazioni religiose tentate da un processo di istituzionalizzazione e di chiusura, a non perdere la passione di andare incontro alle persone e alle situazioni di maggior povertà e indigenza materiale e spirituale, andando là dove nessuno vuole andare e affidandosi come lei fece. «Guardo con fiducia all’avvenire fidando in Maria Ausiliatrice… Mi affiderò all’Ausiliatrice che mi salvò già da tanti pericoli».




Diventare un segno di speranza in eSwatini – Lesotho – Sudafrica dopo 130 anni

Nel cuore dell’Africa australe, tra le bellezze naturali e le sfide sociali di eSwatini, Lesotho e Sudafrica, i Salesiani celebrano 130 anni di presenza missionaria. In questo tempo di Giubileo, di Capitolo Generale e di anniversari storici, l’Ispettoria Africa Meridionale condivide i suoi segni di speranza: la fedeltà al carisma di Don Bosco, l’impegno educativo e pastorale tra i giovani e la forza di una comunità internazionale che testimonia fraternità e resilienza. Nonostante le difficoltà, l’entusiasmo dei giovani, la ricchezza delle culture locali e la spiritualità dell’Ubuntu continuano a indicare strade di futuro e di comunione.

Saluti fraterni dai Salesiani della più piccola Visitatoria e della più antica presenza nella Regione Africa-Madagascar (dal 1896, i primi 5 confratelli furono inviati da Don Rua). Quest’anno ringraziamo i 130 SDB che hanno lavorato nei nostri 3 Paesi e che ora intercedono per noi dal cielo. “Piccolo è bello”!

Nel territorio dell’AFM vivono 65 milioni di persone che comunicano in 12 lingue ufficiali, tra tante meraviglie della natura e grandi risorse del sottosuolo. Siamo tra i pochi Paesi dell’Africa sub-sahariana in cui i cattolici sono una piccola minoranza rispetto alle altre Chiese cristiane, con soli 5 milioni di fedeli.

Quali sono i segni di speranza che i nostri giovani e la società stanno cercando?
In primo luogo, stiamo cercando di superare i famigerati record mondiali del crescente divario tra ricchi e poveri (100.000 milionari contro 15 milioni di giovani disoccupati), della mancanza di sicurezza e della crescente violenza nella vita quotidiana, del collasso del sistema educativo, che ha prodotto una nuova generazione di milioni di analfabeti, alle prese con diverse dipendenze (alcool, droga…). Inoltre, a 30 anni dalla fine del regime di apartheid nel 1994, la società e la Chiesa sono ancora divise tra le varie comunità in termini di economia, opportunità e molte ferite non ancora rimarginate. In effetti, la comunità del “Paese dell’Arcobaleno” sta lottando con molte “lacune” che possono essere “riempite” solo con i valori del Vangelo.

Quali sono i segni di speranza che la Chiesa cattolica in Sudafrica sta cercando?
Partecipando all’incontro triennale “Joint Witness” dei superiori religiosi e dei vescovi nel 2024, ci siamo resi conto di molti segni di declino: meno fedeli, mancanza di vocazioni sacerdotali e religiose, invecchiamento e diminuzione del numero di religiosi, alcune diocesi in bancarotta, continua perdita/diminuzione di istituzioni cattoliche (assistenza medica, istruzione, opere sociali o media) a causa del forte calo di religiosi e laici impegnati. La Conferenza episcopale cattolica (SACBC – che comprende Botswana, eSwatini e Sudafrica) indica come priorità l’assistenza ai giovani dipendenti dall’alcool e da altre sostanze varie.

Quali sono i segni di speranza che i salesiani dell’Africa meridionale stanno cercando?
Preghiamo ogni giorno per nuove vocazioni salesiane, per poter accogliere nuovi missionari. È infatti finita l’epoca dell’Ispettoria anglo-irlandese (fino al 1988) e il Progetto Africa non comprendeva la punta meridionale del continente. Dopo 70 anni in eSwatini (Swaziland) e 45 anni in Lesotho, abbiamo solo 4 vocazioni locali da ciascun Regno. Oggi abbiamo solo 5 giovani confratelli e 4 novizi in formazione iniziale. Tuttavia, la Visitatoria più piccola dell’Africa-Madagascar, attraverso le sue 7 comunità locali, è incaricata dell’educazione e della cura pastorale in 6 grandi parrocchie, 18 scuole primarie e secondarie, 3 centri di formazione professionale (TVET) e diversi programmi di assistenza sociale. La nostra comunità ispettoriale, con 18 nazionalità diverse tra i 35 SDB che vivono nelle 7 comunità, è un grande dono e una sfida da accogliere.

Come comunità cattolica minoritaria e fragile dell’Africa australe
Crediamo che l’unica strada per il futuro sia quella di costruire più ponti e comunione tra i religiosi e le diocesi: più siamo deboli più ci sforziamo di lavorare insieme. Poiché tutta la Chiesa cattolica cerca di puntare sui giovani, Don Bosco è stato scelto dai vescovi come Patrono della Pastorale Giovanile e la sua Novena viene celebrata con fervore nella maggior parte delle diocesi e delle parrocchie all’inizio dell’anno pastorale.

Come Salesiani e Famiglia Salesiana, ci incoraggiamo costantemente a vicenda: “work in progress” (un lavoro costante)
Negli ultimi due anni, dopo l’invito del Rettor Maggiore, abbiamo cercato di rilanciare il nostro carisma salesiano, con la saggezza di una visione e direzione comune (a partire dall’assemblea annuale ispettoriale), con una serie di piccoli e semplici passi quotidiani nella giusta direzione e con la saggezza della conversione personale e comunitaria.

Siamo grati per l’incoraggiamento di don Pascual Chávez per il nostro recente Capitolo Ispettoriale del 2024: «Sapete bene che è più difficile, ma non impossibile, “rifondare” che fondare [il carisma], perché ci sono abitudini, atteggiamenti o comportamenti che non corrispondono allo spirito del nostro Santo Fondatore, don Bosco, e al suo Progetto di Vita, e hanno “diritto di cittadinanza” [nell’Ispettoria]. C’è davvero bisogno di una vera conversione di ogni confratello a Dio, tenendo il Vangelo come suprema regola di vita, e di tutta l’Ispettoria a Don Bosco, assumendo le Costituzioni come vero progetto di vita».

È stato votato il consiglio di don Pascual e l’impegno: “Diventare più appassionati di Gesù e dedicati ai giovani”, investendo nella conversione personale (creando uno spazio sacro nella nostra vita, per lasciare che Gesù la trasformi), nella conversione comunitaria (investendo nella formazione permanente sistematica mensile secondo un tema) e nella conversione ispettoriale (promuovendo la mentalità ispettoriale attraverso “One Heart One Soul” – frutto della nostra assemblea ispettoriale) e con incontri mensili online dei direttori.

Sull’immaginetta-ricordo della nostra Visitatoria del Beato Michele Rua, accanto ai volti di tutti i 46 confratelli e 4 novizi (35 vivono nelle nostre 7 comunità, 7 sono in formazione all’estero e 5 SDB sono in attesa del visto, con uno a San Callisto-catacombe e un missionario che sta facendo chemioterapia in Polonia). Siamo anche benedetti da un numero crescente di confratelli missionari che vengono inviati dal Rettor Maggiore o per un periodo specifico da altre Ispettorie africane per aiutarci (AFC, ACC, ANN, ATE, MDG e ZMB). Siamo molto grati a ciascuno di questi giovani confratelli. Crediamo che, con il loro aiuto, la nostra speranza di rilancio carismatico stia diventando tangibile. La nostra Visitatoria – la più piccola dell’Africa-Madagascar, dopo quasi 40 anni dalla fondazione, non ha ancora una vera e propria casa ispettoriale. La costruzione è iniziata, con l’aiuto del Rettor Maggiore, solo l’anno scorso. Anche qui diciamo: “lavori in corso”…

Vogliamo condividere anche i nostri umili segni di speranza con tutte le altre 92 Ispettorie in questo prezioso periodo del Capitolo Generale. L’AFM ha un’esperienza unica di 31 anni di volontari missionari locali (coinvolti nella Pastorale Giovanile del Centro Giovanile Bosco di Johannesburg dal 1994), il programma “Love Matters” per una sana crescita sessuale degli adolescenti dal 2001. I nostri volontari, infatti, coinvolti per un anno intero nella vita della nostra comunità, sono membri più preziosi della nostra Missione e dei nuovi gruppi della Famiglia Salesiana che stanno lentamente crescendo (VDB, Salesiani Cooperatori e Ex-allievi di Don Bosco).

La nostra casa madre di Città del Capo celebrerà già l’anno prossimo il suo cento trentesimo (130°) anniversario e, grazie al cento cinquantesimo (150°) anniversario delle Missioni Salesiane, abbiamo realizzato, con l’aiuto dell’Ispettoria della Cina, una speciale “Stanza della Memoria di San Luigi Versiglia”, dove il nostro Protomartire trascorse un giorno durante il suo ritorno dall’Italia in Cina-Macao nel maggio 1917.

Don Bosco ‘Ubuntu’ – cammino sinodale
 “Siamo qui grazie a voi!” – Ubuntu è uno dei contributi delle culture dell’Africa meridionale alla comunità globale. La parola in lingua Nguni significa “Io sono perché voi siete” (“I’m because you are!”. Altre possibili traduzioni: “Ci sono perché ci siete voi”). L’anno scorso abbiamo intrapreso il progetto “Eco Ubuntu” (progetto di sensibilizzazione ambientale della durata di 3 anni) che coinvolge circa 15.000 giovani delle nostre 7 comunità in eSwatini, Lesotho e Sudafrica. Oltre alla splendida celebrazione e alla condivisione del Sinodo dei Giovani 2024, i nostri 300 giovani [che hanno partecipato] conservano soprattutto Ubuntu nei loro ricordi. Il loro entusiasmo è una fonte di ispirazione. L’AFM ha bisogno di voi: Ci siamo grazie a voi!

Marco Fulgaro




Il volontariato missionario cambia la vita dei giovani in Messico

Il volontariato missionario rappresenta un’esperienza che trasforma profondamente la vita dei giovani. In Messico, l’Ispettoria Salesiana di Guadalajara ha sviluppato da decenni un percorso organico di Volontariato Missionario Salesiano (VMS) che continua a incidere in modo duraturo nel cuore di molti ragazzi e ragazze. Grazie alle riflessioni di Margarita Aguilar, coordinatrice del volontariato missionario a Guadalajara, condivideremo il cammino riguardante le origini, l’evoluzione, le fasi di formazione e le motivazioni che spingono i giovani a mettersi in gioco per servire le comunità in Messico.

Origini
Il volontariato, inteso come impegno a favore degli altri nato dall’esigenza di aiutare il prossimo tanto sul piano sociale quanto su quello spirituale, si rafforzò nel tempo con il contributo di governi e ONG per sensibilizzare sui temi della salute, dell’istruzione, della religione, dell’ambiente e altro ancora. Nella Congregazione Salesiana, lo spirito volontario è presente fin dalle origini: Mamma Margherita, accanto a Don Bosco, fu tra i primi “volontari” nell’Oratorio, impegnandosi nell’assistenza ai giovani per compiere la volontà di Dio e contribuire alla salvezza delle loro anime. Già il Capitolo Generale XXII (1984) iniziò a parlare esplicitamente di volontariato, e i capitoli successivi insistettero su questo impegno come dimensione inscindibile della missione salesiana.

In Messico i Salesiani sono suddivisi in due Ispettorie: Città del Messico (MEM) e Guadalajara (MEG). È proprio in quest’ultima che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, si è strutturato un progetto di volontariato giovanile. L’Ispettoria di Guadalajara, fondata 62 anni fa, offre da quasi 40 anni la possibilità a giovani desiderosi di sperimentare il carisma salesiano di dedicare un periodo di vita al servizio delle comunità, soprattutto nelle zone di frontiera.

Nel 24 ottobre 1987 l’ispettore inviò un gruppo di quattro giovani insieme a salesiani nella città di Tijuana, in una zona di confine in forte espansione salesiana. Fu l’avvio del Volontariato Giovanile Salesiano (VJS), che si sviluppò gradualmente e si organizzò in modo sempre più strutturato.

L’obiettivo iniziale era proposto ai giovani di circa 20 anni, disponibili a dedicare da uno a due anni per costruire i primi oratori nelle comunità di Tijuana, Ciudad Juárez, Los Mochis e altre località al nord. Molti ricordano i primi giorni: paletta e martello in mano, convivenza in case semplici con altri volontari, pomeriggi trascorsi con bambini, adolescenti e giovani del quartiere giocando nel terreno dove sarebbe sorto l’oratorio. Mancava talvolta il tetto, ma non mancavano la gioia, il senso di famiglia e l’incontro con l’Eucaristia.

Quelle prime comunità di salesiani e volontari portarono nei cuori l’amore per Dio, per Maria Ausiliatrice e per Don Bosco, manifestando spirito pionieristico, ardore missionario e cura totale per gli altri.

Evoluzione
Con il crescere dell’Ispettoria e della Pastorale Giovanile, emerse la necessità di itinerari formativi chiari per i volontari. L’organizzazione si rafforzò attraverso:
Questionario di candidatura: ogni aspirante volontario compilava una scheda e rispondeva a un questionario che delineava le sue caratteristiche umane, spirituali e salesiane, avviando il processo di crescita personale.

Corso di formazione iniziale: laboratori teatrali, giochi e dinamiche di gruppo, catechesi e strumenti pratici per le attività sul campo. Prima della partenza, i volontari si riunivano per concludere la formazione e ricevere l’invio nelle comunità salesiane.

Accompagnamento spirituale: si invitava il candidato a farsi accompagnare da un salesiano nella sua comunità di origine. Per un certo periodo, la preparazione fu svolta insieme agli aspiranti salesiani, rafforzando l’aspetto vocazionale, anche se poi questa prassi subì modifiche in base all’animazione vocazionale dell’Ispettoria.

Incontro ispettoriale annuale: ogni dicembre, in prossimità della Giornata Internazionale del Volontario (5 dicembre), i volontari si incontrano per valutare l’esperienza, riflettere sul cammino di ciascuno e consolidare i processi di accompagnamento.

Visite alle comunità: l’équipe di coordinamento visita regolarmente le comunità in cui operano i volontari, per sostenere non solo i giovani stessi, ma anche salesiani e laici della comunità educativa-pastorale, rafforzando le reti di sostegno.

Progetto di vita personale: ogni candidato elabora, con l’aiuto dell’accompagnatore spirituale, un progetto di vita che aiuti a integrare la dimensione umana, cristiana, salesiana, vocazionale e missionaria. È previsto un periodo minimo di sei mesi di preparazione, con momenti online dedicati alle varie dimensioni.

Coinvolgimento delle famiglie: incontri informativi con i genitori sui processi del VJS, per far comprendere il percorso e rafforzare il supporto familiare.

Formazione continua durante l’esperienza: ogni mese viene affrontata una dimensione (umana, spirituale, apostolica, ecc.) attraverso materiali di lettura, riflessione e lavoro di approfondimento in corso d’opera.

Post-volontariato: dopo la conclusione dell’esperienza, si organizza un incontro di chiusura per valutare l’esperienza, progettare i passi successivi e accompagnare il volontario nel reinserimento nella comunità di origine e nella famiglia, con fasi in presenza e online.

Nuove tappe e rinnovamenti
Recentemente, l’esperienza ha assunto il nome di Volontariato Missionario Salesiano (VMS), in linea con l’enfasi della Congregazione sulla dimensione spirituale e missionaria. Alcune novità introdotte:

Pre-volontariato breve: durante le vacanze scolastiche (dicembre-gennaio, Settimana Santa e Pasqua, e soprattutto estate) i giovani possono sperimentare per brevi periodi la vita in comunità e l’impegno di servizio, per farsi un primo “assaggio” dell’esperienza.

Formazione all’esperienza internazionale: si è istituito un processo specifico per preparare i volontari a vivere l’esperienza fuori dai confini nazionali.

Maggiore enfasi sull’accompagnamento spirituale: non più solo “inviare a lavorare”, ma porre al centro l’incontro con Dio, affinché il volontario scopra la propria vocazione e missione.

Come sottolinea Margarita Aguilar, coordinatrice del VMS a Guadalajara: “Un volontario ha bisogno di avere le mani vuote per poter abbracciare la sua missione con fede e speranza in Dio.”

Motivazioni dei giovani
Alla base dell’esperienza VMS c’è sempre la domanda: “Qual è la tua motivazione per diventare volontario?”. Si possono individuare tre gruppi principali:

Motivazione operativa/pratica: chi crede di svolgere attività concrete legate alle proprie competenze (insegnare in una scuola, servire in mensa, animare un oratorio). Spesso scopre che il volontariato non è solo lavoro manuale o didattico e può restare deluso se si aspettava un’esperienza meramente strumentale.

Motivazione legata al carisma salesiano: ex-fruitori di opere salesiane che desiderano approfondire e vivere più a fondo il carisma, immaginando un’esperienza intensa come un lungo incontro festivo del Movimento Giovanile Salesiano, ma per un periodo prolungato.

Motivazione spirituale: chi intende condividere la propria esperienza di Dio e scoprirlo negli altri. Talvolta però questa “fedeltà” è condizionata da aspettative (es. “sì, ma solo in questa comunità” o “sì, ma se posso tornare per un evento familiare”), e serve aiutare il volontario a maturare il “sì” in modo libero e generoso.

Tre elementi chiave del VMS
L’esperienza di Volontariato Missionario Salesiano si articola su tre dimensioni fondamentali:

Vita spirituale: Dio è il centro. Senza preghiera, sacramenti e ascolto dello Spirito, l’esperienza rischia di ridursi a semplice impegno operativo, stancando il volontario fino all’abbandono.

Vita comunitaria: la comunione con i salesiani e con gli altri membri della comunità rafforza la presenza del volontario presso bambini, adolescenti e giovani. Senza comunità non c’è sostegno nei momenti di difficoltà né contesto per crescere insieme.

Vita apostolica: la testimonianza gioiosa e la presenza affettiva tra i giovani evangelizza più di qualsiasi attività formale. Non si tratta solo di “fare”, ma di “essere” sale e luce nel quotidiano.

Per vivere pienamente queste tre dimensioni, serve un percorso di formazione integrale che accompagni il volontario dall’inizio alla fine, abbracciando ogni aspetto della persona (umano, spirituale, vocazionale) secondo la pedagogia salesiana e il mandato missionario.

Il ruolo della comunità di accoglienza
Il volontario, per essere strumento autentico di evangelizzazione, ha bisogno di una comunità che lo sostenga, ne sia esempio e guida. Allo stesso modo, la comunità accoglie il volontario per integrarlo, sostenendolo nei momenti di fragilità e aiutandolo a liberarsi da legami che ostacolano la dedizione totale. Come evidenzia Margarita: “Dio ci ha chiamati ad essere sale e luce della Terra e molti dei nostri volontari hanno trovato il coraggio di prendere un aereo lasciandosi alle spalle la famiglia, gli amici, la cultura, il loro modo di vivere per scegliere questo stile di vita incentrato sull’essere missionari.”

La comunità offre spazi di confronto, preghiera comune, accompagnamento pratico ed emotivo, affinché il volontario possa restare saldo nella sua scelta e portare frutto nel servizio.

La storia del volontariato missionario salesiano a Guadalajara è un esempio di come un’esperienza possa crescere, strutturarsi e rinnovarsi imparando dagli errori e dai successi. Ponendo sempre al centro la motivazione profonda del giovane, la dimensione spirituale e comunitaria, si offre un percorso capace di trasformare non solo le realtà servite, ma anche la vita dei volontari stessi.
Ci dice Margarita Aguilar: “Un volontario ha bisogno di avere le mani vuote per poter abbracciare la sua missione con fede e speranza in Dio.”

Ringraziamo Margarita per le sue preziose riflessioni: la sua testimonianza ci ricorda che il volontariato missionario non è un mero servizio, ma un cammino di fede e crescita che tocca la vita dei giovani e delle comunità, rinnovando la speranza e il desiderio di donarsi per amore di Dio e del prossimo.




Patagonia: “La più grande impresa della nostra Congregazione

Appena giunti in Patagonia, i Salesiani – guidati da Don Bosco – puntarono a ottenere un Vicariato apostolico che garantisse autonomia pastorale e sostegno di Propaganda Fide. Tra il 1880 e il 1882 ripetute richieste a Roma, al presidente argentino Roca e all’arcivescovo di Buenos Aires si infransero contro disordini politici e diffidenze ecclesiastiche. Missionari come Rizzo, Fagnano, Costamagna e Beauvoir percorrevano il Río Negro, il Colorado e fino al lago Nahuel-Huapi, fondando presenze tra indios e coloni. La svolta giunse il 16 novembre 1883: un decreto eresse il Vicariato della Patagonia settentrionale, affidato a mons. Giovanni Cagliero, e la Prefettura meridionale, guidata da mons. Giuseppe Fagnano. Da quel momento l’opera salesiana si radicò «alla fine del mondo», preparandone la futura fioritura.

            Erano appena arrivati i Salesiani in Patagonia, che don Bosco il 22 marzo 1880 tornò nuovamente alla carica presso varie Congregazioni Romane e lo stesso papa Leone XIII
per l’erezione di Vicariato o Prefettura della Patagonia con sede a Carmen, che abbracciasse le colonie già costituite o che si sarebbero andate organizzando sulle sponde del Río Negro, dal 36° al 50° grado di latitudine Sud. Carmen sarebbe potuta divenire “il centro delle Missioni Salesiane fra gli Indi”.
            Ma i disordini militari al momento dell’elezione del generale Roca a Presidente della Repubblica (maggio-agosto 1880) e la morte dell’ispettore salesiano don Francesco Bodrato (agosto 1880) fecero sospendere le pratiche. Don Bosco insistette anche presso il Presidente in novembre, ma senza risultati. Il Vicariato non era voluto né dall’arcivescovo né era gradito all’autorità politica.
            Pochi mesi dopo, nel gennaio 1881 don Bosco incoraggiava il neoispettore don Giacomo Costamagna a darsi da fare per il Vicariato in Patagonia ed assicurava il direttore-parroco don Fagnano che a proposito della Patagonia – “la più grande impresa della nostra Congregazione” – una grande responsabilità sarebbe presto ricaduta su di lui. Ma si rimaneva nell’impasse.
            Intanto in Patagonia don Emilio Rizzo, che aveva accompagnato nel 1880 il vicario di Buenos Aires monsignor Espinosa lungo il Río Negro fino a Roca (50 km), con altri salesiani si apprestava ad ulteriori missioni volanti lungo lo stesso fiume. Don Fagnano poi nel 1881 poté accompagnare l’esercito fino alla Cordigliera. Don Bosco, impaziente, fremeva e don Costamagna ancora nel novembre 1881 lo consigliò di trattare direttamente con Roma.
            Fortuna volle che a fine 1881 venisse in Italia monsignor Espinosa; don Bosco ne approfittò per informare suo tramite l’arcivescovo di Buenos Aires, che nell’aprile del 1882 sembrò favorevole al progetto di un Vicariato affidato ai Salesiani. Più che altro forse per l’impossibilità di attendervi con il suo clero. Ma ancora una volta non se ne fece nulla.           Nell’estate 1882 e poi ancora nel 1883 don Beauvoir accompagnò l’esercito fino al lago Nahuel-Huapi sulle Ande (880 km); altrettante escursioni apostoliche avevano fatto altri salesiani in aprile lungo il Río Colorado, mentre don Beauvoir ritornava a Roca e in agosto don Milanesio si inoltrava fino a Ñorquín nel Neuquén (900 km).
            Don Bosco era sempre più convinto che senza un proprio Vicariato apostolico i Salesiani non avrebbero goduto della necessaria libertà di azione, visti i difficilissimi rapporti che aveva avuto lui con il suo arcivescovo di Torino e tenuto pure conto che lo stesso Concilio Vaticano I non aveva deciso nulla circa i non facili rapporti fra Ordinari e superiori di Congregazioni religiose nei territori di missione. Inoltre, cosa non di poco conto, solo un Vicariato missionario avrebbe potuto avere il sostegno finanziario dalla Congregazione di Propaganda Fide.
            Pertanto don Bosco riprese i suoi sforzi, avanzando alla Santa Sede la proposta di suddivisione amministrativa della Patagonia e Terra del Fuoco in tre Vicariati o Prefetture: dal Río Colorado al Río Chubut, da questi al Río Santa Cruz, e da questi alle isole della Terra del Fuoco, Malvine (Falkland) comprese.
            Papa Leone XIII alcuni mesi dopo acconsentì e gli fece chiedere i nominativi. Don Bosco allora suggerì al cardinale Simeoni l’erezione di un solo Vicariato per la Patagonia settentrionale con sede a Carmen, dal quale dipendesse una Prefettura apostolica per la Patagonia meridionale. Per quest’ultima proponeva don Fagnano; per il Vicariato don Cagliero o don Costamagna.

Un sogno che si avvera
            Il 16 novembre 1883 un decreto di Propaganda Fide eresse il Vicario apostolico della Patagonia settentrionale e centrale, che comprendeva il sud della provincia di Buenos Aires, i territori nazionali di La Pampa centrale, il Río Negro, il Neuquén e il Chubut. Quattro giorni dopo lo affidò a don Cagliero come Provicario apostolico (e successivamente Vicario apostolico). Il 2 dicembre 1883 fu la volta del Fagnano ad essere nominato Prefetto apostolico della Patagonia cilena, del territorio cileno di Magallanes-Punta Arenas, del territorio argentino di Santa Cruz, delle isole Malvinas e delle non meglio definite isole che si estendevano fino allo stretto di Magellano. Ecclesiasticamente la Prefettura copriva aree appartenenti alla diocesi cilena di San Carlos de Ancud.
            Il sogno del famoso viaggio in treno da Cartagena in Colombia a Punta Arenas in Cile del 10 agosto 1883 iniziava così a realizzarsi, tanto più che alcuni Salesiani da Montevideo in Uruguay all’inizio del 1883 erano arrivati a fondare la casa di Niteroi in Brasile. Il lungo processo di poter gestire una missione in piena libertà canonica era arrivato a conclusione. Nell’ottobre del 1884 don Cagliero sarebbe stato insignito della nomina di Vicario apostolico della Patagonia, là dove avrebbe fatto la sua entrata l’8 luglio successivo, sette mesi dopo la sua consacrazione episcopale avvenuta a Valdocco il 7 dicembre 1884.

Il seguito
            Sia pure in mezzo a difficoltà di ogni genere che la storia ricorda – comprese accuse e vere calunnie – l’opera salesiana da quei timidi inizi si dispiegò rapidamente sia nella Patagonia Argentina sia in quella cilena. Si radicò per lo più in piccolissimi centri di indios e di coloni, oggi diventati cittadine e città. Monsignor Fagnano nel 1887 si stabilì a Punta Arenas (Cile), da dove iniziò poco dopo le missioni nelle isole della Terra del Fuoco. Generosi e capaci missionari spesero generosamente la vita al di qua e al di là dello Stretto di Magellano “per la salvezza delle anime” e pure dei corpi (per quanto era nelle loro possibilità) degli abitanti di quelle terre “laggiù, alla fine del mondo”. Lo hanno riconosciuto in tanti, fra loro una persona che se ne intende, perché a sua volta venuto “quasi dalla fine del mondo”: papa Francesco.

Foto d’epoca: I tre Bororòs che accompagnarono i missionari salesiani a Cuyabà (1904)




Finalmente in Patagonia

Tra il 1877 e il 1880 si compie la svolta missionaria salesiana verso la Patagonia. Dopo l’offerta del 12 maggio 1877 della parrocchia di Carhué, don Bosco sogna l’evangelizzazione delle terre australi, ma don Cagliero lo invita alla prudenza dinanzi alle difficoltà culturali. I tentativi iniziali subiscono ritardi, mentre la “campagna del deserto” del generale Roca (1879) ridefinisce gli equilibri con gli indios. Il 15 agosto 1879 l’arcivescovo Aneiros affida ai salesiani la missione patagonica: «È arrivato finalmente il momento, in cui posso offrirvi la Missione della Patagonia, verso la quale il vostro cuore ha tanto sospirato». Il 15 gennaio 1880 parte il primo gruppo guidato da don Giuseppe Fagnano, inaugurando l’epopea salesiana nel sud argentino.

            A far sospendere a don Bosco e don Cagliero, almeno temporaneamente, qualunque progetto missionario in Asia fu la notizia del 12 maggio 1877: l’arcivescovo di Buenos Aires aveva offerto ai salesiani la missione di Caruhé (a sud est della provincia di Buenos Aires), luogo di presidio e di frontiera tra numerose tribù di indigeni del vastissimo deserto della Pampa e della Provincia di Buenos Aires.
            Si aprivano così ai salesiani per la prima volta le porte della Patagonia: don Bosco ne rimase come elettrizzato, ma a raffreddare decisamente i suoi entusiasmi ci pensò subito don Cagliero: “Le ripeto però che a riguardo della Patagonia non bisogna correre con velocità elettrica, né andarci a vapore, perché a questa impresa i Salesiani non sono ancor preparati […] si è pubblicato troppo ed abbiamo potuto fare troppo poco a riguardo degli Indii. L’impresa non bisogna disconoscerla, facile assai ad idearsi, difficile a realizzarsi, ed è troppo poco tempo che siamo qui venuti, e ci conviene sì con zelo ed attività lavorare a questo scopo, ma non fare fracasso, per non suscitare ammirazione a questa gente di qui, per volere aspirare noi, arrivati jeri, alla conquista di un paese che ancora non conosciamo e di cui ignoriamo persino la lingua”.
            Venuta meno l’opzione di Carmen de Patagónes con la parrocchia affidata dall’arcivescovo ad un padre lazzarista, ai salesiani rimasero aperte quella appunto più a nord di Carhué e quella più a sud di Santa Cruz, per la quale don Cagliero ottenne un passaggio navale in primavera, che gli avrebbe fatto rimandare di sei mesi il previsto rientro in Italia.
            La decisione di chi dovesse “entrare il primo nella Patagonia” la lasciava così a don Bosco, che invece intendeva offrire a lui tale onore. Ma prima ancora di venirne a conoscenza, don Cagliero decise di rientrare: “La Patagonia mi attende, quei di Dolores, del Carhué, del Chaco ci domandano, ed io li contento tutti scappando!” (8 luglio 1877). Rientrò per partecipare al 1°Capitlo Generale della società salesiana che si sarebbe tenuto a Lanzo Torinese nel settembre. Fra l’altro era sempre membro del Capitolo superiore della congregazione, in cui ricopriva l’importante ruolo di Catechista generale (vale il numero tre della congregazione, dopo don Bosco e don Rua).
            L’anno 1877 si chiuse con la terza spedizione di 26 missionari capitanati da don Giacomo Costamagna e con la nuova richiesta di don Bosco alla Santa Sede di una Prefettura a Carhué e un Vicariato a Santa Cruz. Eppure, a dire il vero, in tutto l’anno l’evangelizzazione diretta dei salesiani fuori città si era limitata alla breve esperienza di don Cagliero e del chierico Evasio Rabagliati nella colonia italiana di Villa Libertad a Entre Ríos (aprile 1877) ai confini della Diocesi del Paranà e ad alcune escursioni nel campo pampeano dei salesiani di S. Nicolás de los Arroyos.

Il sogno si realizza (1880)
            Nel maggio 1878 falliva per una tormenta oceanica il primo tentativo di raggiungere Carhué da parte di don Costamagna e del chierico Rabagliati. Ma intanto don Bosco era già ritornato alla carica con il nuovo Prefetto di Propaganda Fide, cardinal Giovanni Simeoni proponendogli un Vicariato o Prefettura con sede a Carmen, come aveva suggerito lo stesso don Fagnano che lo vedeva come punto strategico per raggiungere gli indigeni.
            L’anno dopo (1879), proprio mentre veniva meno un progetto di entrata dei Salesiani in Paraguay, si aprivano loro finalmente le porte della Patagonia. Nell’aprile infatti il generale Julio A. Roca dava inizio alla famosa “campagna del deserto” con l’obiettivo di sottomettere gli indios e ottenere sicurezza interna, respingendoli oltre i fiumi Río Negro e Neuquén. Era il “colpo di grazia” al loro sterminio, dopo i numerosi massacri dell’anno precedente.
            Il vicario generale di Buenos Aires, monsignor Espinosa, come cappellano di un esercito forte di seimila uomini, si fece accompagnare dal chierico argentino Luigi Botta e da don Costamagna. Il futuro vescovo si rese subito conto dell’ambiguità della loro posizione, ne scrisse immediatamente a don Bosco, ma non vide altra via per aprire la strada della Patagonia ai missionari salesiani. Ed in effetti appena il governo chiese all’arcivescovo di stabilire alcune missioni sulle sponde del Río Negro e nella Patagonia, si pensò subito ai salesiani.
            Questi, dal loro canto, avevano in animo di chiedere al governo la concessione per dieci anni di un territorio da loro amministrato in cui costruire, con materiali pagati dal governo e con manodopera degli indios, gli edifici indispensabili per una sorta di reducción in quel territorio: gli indigeni avrebbero evitato la contaminazione dei coloni cristiani “corrotti e viziosi” ed i missionari vi avrebbero piantato la croce di Cristo e la bandiera argentina. Ma l’ispettore salesiano don Francesco Bodrato non se la sentì di decidere da solo e don Lasagna nel maggio lo sconsigliò per il fatto che il governo Avellaneda era alla fine del suo mandato e non era interessato al problema religioso. Meglio dunque conservare salesianamente indipendenza e libertà d’azione.
            Il 15 agosto 1879 monsignor Aneiros offriva formalmente a don Bosco la missione patagonica: “È arrivato finalmente il momento, in cui posso offrirvi la Missione della Patagonia, verso la quale il vostro cuore ha tanto sospirato, come la cura d’anime tra i Patagoni, che può servire di centro alla missione”.
            Don Bosco la accettò subito e di buon grado, anche se essa non era ancora il tanto sospirato consenso all’erezione di circoscrizioni ecclesiastiche autonome rispetto all’arcidiocesi di Buenos Aires, realtà costantemente avversata dall’Ordinario diocesano.

La partenza
            Il drappello di missionari partì alla volta della sospirata Patagonia il 15 gennaio 1880: era composto da don Giuseppe Fagnano, direttore della Missione e parroco a Carmen de Patagónes (il padre lazzarista si era ritirato), due sacerdoti, di cui uno si occupava della parrocchia di Viedma sull’altra riva del Río Negro, un salesiano laico (coadiutore) e quattro suore. In dicembre a dar man forte arrivò don Domenico Milanesio e pochi mesi dopo don Giuseppe Beauvoir con un altro coadiutore novizio. L’epopea missionaria salesiana in Patagonia incominciava.




Padre Crespi e il Giubileo del 1925

Nel 1925, in vista dell’Anno Santo, Padre Carlo Crespi si fece promotore di una mostra missionaria internazionale. Richiamato dal Collegio Manfredini di Este, fu incaricato di documentare le imprese missionarie in Ecuador, raccogliendo materiali scientifici, etnografici e audiovisivi. Grazie a viaggi e proiezioni, la sua opera collegò Roma e Torino, evidenziando l’impegno salesiano e rafforzando i legami tra istituzioni ecclesiastiche e civili. Il suo coraggio e la sua visione trasformarono la sfida missionaria in un successo espositivo, lasciando un segno indelebile nella storia della Propaganda Fide e dell’azione missionaria salesiana.

            Quando Pio XI, in vista dell’Anno Santo del 1925, volle programmare a Roma una documentata Esposizione Missionaria Internazionale Vaticana, i Salesiani fecero propria l’iniziativa con una Mostra Missionaria, da tenersi a Torino nel 1926, anche in funzione del 50° delle Missioni salesiane. A tale scopo i Superiori pensarono subito a don Carlo Crespi e lo chiamarono dal Collegio Manfredini di Este, dove era stato assegnato per insegnare Scienze naturali, Matematica e Musica.
            A Torino don Carlo conferì con il Rettore Maggiore, don Filippo Rinaldi, con il superiore referente per le missioni, don Pietro Ricaldone e, in particolare, con Mons. Domenico Comin, vicario apostolico di Méndez e Gualaquiza (Ecuador), che ne doveva appoggiare l’opera. In quel momento, viaggi, esplorazioni, ricerche, studi e quant’altro doveva nascere dall’opera di Carlo Crespi, ebbero l’avallo e il via ufficiale dai Superiori. Seppure mancassero quattro anni alla progettata Esposizione, chiesero a don Carlo di occuparsene direttamente, affinché svolgesse al completo un lavoro scientificamente serio e credibile.
Si trattava di:
            1. Creare un clima d’interesse a favore dei Salesiani operanti nella missione ecuadoriana di Méndez, valorizzandone le imprese tramite documentazioni scritte e orali, e provvedendo ad una congrua raccolta di fondi.
            2. Raccogliere materiale per l’allestimento dell’Esposizione Missionaria Internazionale di Roma e, trasferirlo successivamente a Torino, per commemorare solennemente i primi cinquant’anni delle missioni salesiane.
            3. Effettuare uno studio scientifico del suddetto territorio al fine di convogliare i risultati, non solo nelle mostre di Roma e Torino, ma soprattutto in un Museo permanente e in un’opera “storico-geo-etnografica” precisa.
            Dal 1921 in avanti, i Superiori incaricarono don Carlo di condurre in diverse città italiane attività propagandistiche a favore delle missioni. Per sensibilizzare l’opinione pubblica al riguardo, don Carlo organizzò la proiezione di documentari sulla Patagonia, la Terra del Fuoco e gli indios del Mato Grosso. Ai filmati girati dai missionari, abbinò commenti musicali eseguiti personalmente al pianoforte.
            La propaganda con conferenze fruttò circa 15 mila lire [rivalutati corrispondono a € 14.684] spese poi per i viaggi, il trasporto e per i seguenti materiali: una macchina fotografica, una cinepresa, una macchina da scrivere, alcune bussole, teodoliti, livelle, pluviometri, una cassetta di medicinali, attrezzi da agricoltura, tende da campo.
            Diversi industriali del milanese offersero alcuni quintali di tessuti per il valore di 80 mila lire [€ 78.318], tessuti che furono ripartiti più tardi fra gli indios.
            Il 22 marzo 1923 padre Crespi s’imbarca, dunque, sul piroscafo “Venezuela”, alla volta di Guayaquil, il porto fluviale e marittimo più importante dell’Ecuador, di fatto la capitale commerciale ed economica del Paese, soprannominata per la sua bellezza: “La Perla del Pacifico”.
            In uno scritto successivo rievocherà con grande commozione la sua partenza per le Missioni: “Ricordo la mia partenza da Genova il 22 marzo dell’anno 1923 […]. Quando, tolti i ponti che ancora ci tenevano avvinti alla terra natia, il bastimento incominciò a muoversi, l’anima mia fu pervasa da una gioia così travolgente, così sovrumana, così ineffabile, che tale non l’avevo mai provata in nessun istante della mia vita, neppure nel giorno della mia prima Comunione, neppure nel giorno della mia prima Messa. In quell’istante cominciai a comprendere che cosa era il missionario e che cosa a lui riserbava Iddio […]. Pregate fervidamente, affinché Iddio ci conservi la santa vocazione e ci renda degni della nostra santa missione; affinché nessuna perisca delle anime, che nei suoi eterni decreti Iddio ha voluto che si salvassero per mezzo nostro, affinché ci faccia baldi campioni della fede, fino alla morte, fino al martirio” (Carlo Crespi, Nuovo drappello. L’inno della riconoscenza, in Bollettino Salesiano, L, nr.12, dicembre 1926).
            Don Carlo adempì l’incarico ricevuto mettendo in pratica le conoscenze universitarie, in particolare attraverso la campionatura di minerali, flora e fauna provenienti dall’Ecuador. Ben presto, però, andò oltre la missione affidatagli, entusiasmandosi su temi di carattere etnografico e archeologico che, in seguito, occuperanno molto tempo della sua intensa vita.
            Fin dai primi itinerari, Carlo Crespi non si limita ad ammirare, ma raccoglie, classifica, appunta, fotografa, filma e documenta qualunque cosa attragga la sua attenzione di studioso. Con entusiasmo, si addentra nell’Oriente ecuadoriano per film, documentari e per raccogliere valide collezioni botaniche, zoologiche, etniche e archeologiche.
            Questo è quel mondo magnetico che già gli vibrava nel cuore ancor prima di arrivarci, del quale così riferisce all’interno dei suoi quadernetti: “In questi giorni una voce nuova, insistente, mi suona nell’animo, una sacra nostalgia dei paesi di missione; qualche volta anche per il desiderio di conoscere in particolare cose scientifiche. Oh Signore! Sono disposto a tutto, ad abbandonare la famiglia, i parenti, i compagni di studi; il tutto per salvare qualche anima, se questo è il tuo desiderio, la tua volontà” (Senza luogo, senza data. – Appunti personali e riflessioni del Servo di Dio su temi di natura spirituale tratti da 4 quadernetti).
            Un primo itinerario, durato tre mesi, iniziò a Cuenca, toccò Gualaceo, Indanza e terminò al fiume Santiago. Raggiunse poi la valle del fiume San Francesco, la laguna di Patococha, Tres Palmas, Culebrillas, Potrerillos (la località più alta, a 3.800 m s.l.m.), Rio Ishpingo, la collina di Puerco Grande, Tinajillas, Zapote, Loma de Puerco Chico, Plan de Milagro e Pianoro. In ognuno di questi luoghi raccolse campioni da essiccare e integrare nelle varie collezioni. Taccuini da campo e numerose fotografie documentano il tutto con precisione.
            Carlo Crespi organizzò un secondo viaggio attraverso le valli di Yanganza, Limón, Peña Blanca, Tzaranbiza, nonché lungo il sentiero di Indanza. Com’è facile supporre, gli spostamenti all’epoca erano difficoltosi: esistevano solamente mulattiere, oltre a precipizi, condizioni climatiche inospitali, belve pericolose, ofidi letali e malattie tropicali.
            A ciò si aggiungeva il pericolo di attacchi da parte degli indomiti abitanti dell’Oriente che don Carlo, però, riuscì ad avvicinare, ponendo le premesse del lungometraggio “Los invencibles Shuaras del Alto Amazonas”, che girerà nel 1926 e verrà proiettato il 26 febbraio 1927 a Guayaquil. Superando tutte queste insidie, riuscì a riunire seicento varietà di coleotteri, sessanta uccelli imbalsamati dal meraviglioso piumaggio, muschi, licheni, felci. Studiò circa duecento specie locali e, utilizzando la sotto classificazione dei luoghi visitati dai naturalisti sulle Allioni, s’imbatte in 21 varietà di felci, appartenenti alla zona tropicale al di sotto degli 800 m s.l.m.; 72 a quella subtropicale che va dagli 800 ai 1.500 m s.l.m.; 102 a quella Subandina, tra i 1.500 e i 3.400 m s.l.m., e 19 a quella Andina, superiore ai 3.600 m s.l.m. (Interessantissimo è il commento del prof. Roberto Bosco, prestigioso botanico e componente della Società Botanica Italiana che, quattordici anni dopo, nel 1938, decise di studiare e ordinare sistematicamente “la vistosa collezione di felci” preparata in pochi mesi dal “Prof. Carlo Crespi, erborizzando nell’Equatore).
            Le specie maggiormente degne di nota, studiate da Roberto Bosco, furono battezzate “Crespiane”.
            Per riassumere: già nell’ottobre del 1923, don Carlo, per preparare l’Esposizione Vaticana, aveva organizzato le prime escursioni missionarie per tutto il Vicariato, fino a Méndez, Gualaquiza e Indanza, raccogliendo materiali etnografici e molta documentazione fotografica. Le spese furono coperte con i tessuti e i finanziamenti raccolti in Italia. Con il materiale raccolto, che in seguito avrebbe trasferito in Italia, organizzò un’Esposizione fieristica, tra i mesi di giugno e luglio del 1924, nella città di Guayaquil. Il lavoro suscitò giudizi entusiastici, riconoscimenti e aiuti. Di questa Esposizione riferirà, dieci anni dopo, in una lettera del 31 dicembre 1935 ai Superiori di Torino, per informarli sui fondi raccolti dal novembre 1922 al novembre 1935.
            Padre Crespi passò il primo semestre del 1925 nelle foreste della zona di Sucùa-Macas, studiando la lingua Shuar e raccogliendo ulteriore materiale per l’Esposizione missionaria di Torino. Nell’agosto dello stesso anno cominciò una trattativa con il Governo per ottenere un grosso finanziamento, che si concluse il 12 settembre con un contratto per 110.000 sucres (pari a 500.000 lire di allora e che oggi sarebbero € 489.493,46), che permettesse di ultimare la mulattiera Pan-Méndez). Inoltre, ottenne pure il permesso di ritirare dalla dogana 200 quintali di ferro e materiale sequestrato ad alcuni commercianti.
            Nel 1926 don Carlo, rientrato in Italia, portò gabbie con animali vivi della zona orientale dell’Ecuador (una difficile raccolta di uccelli ed animali rari) e casse con materiale etnografico, per l’Esposizione Missionaria di Torino, che organizzò personalmente tenendovi anche il discorso ufficiale di chiusura il 10 ottobre.
            Nello stesso anno fu occupato nell’organizzare l’Esposizione e, poi, nel tenere diverse conferenze e partecipando al Congresso Americano di Roma con due conferenze scientifiche. Questo suo entusiasmo e questa sua competenza e ricerca scientifica rispondevano perfettamente alle direttive dei Superiori, e, pertanto, attraverso l’Esposizione Missionaria Internazionale del 1925 a Roma e del 1926 a Torino, l’Ecuador poté essere ampiamente conosciuto. Inoltre, a livello ecclesiale, contattò l’Opera di Propaganda Fide, la Santa Infanzia e l’Associazione per il Clero Indigeno. A livello civile, intrecciò rapporti con il Ministero degli Esteri del Governo Italiano.
            Da questi contatti e dalle interviste con i Superiori della Congregazione Salesiana, si ottennero alcuni risultati. In primo luogo i Superiori gli fecero il regalo di concedergli 4 sacerdoti, 4 seminaristi, 9 fratelli coadiutori, e 4 suore per il Vicariato. Inoltre, ottenne una serie di aiuti economici dagli Organismi Vaticani e la collaborazione con materiale sanitario per gli ospedali, per il valore di circa 100.000 lire (€ 97.898,69). Come regalo dei Superiori Maggiori per l’aiuto prestato per l’Esposizione Missionaria, essi si fecero carico della costruzione della Chiesa di Macas, con due quote di 50.000 lire (€ 48,949, 35), inviate direttamente a Mons. Domenico Comin.
            Esaurito il compito di collezionista fornitore e animatore delle grandi mostre internazionali, padre Crespi nel 1927 tornò in Ecuador, che divenne la sua seconda patria. Si stabilì nel Vicariato, sotto la giurisdizione del vescovo, Mons. Comin, sempre dedito, in spirito di obbedienza, a escursioni di propaganda, per assicurare sovvenzioni e fondi speciali, necessari alle opere delle missioni, quali la strada Pan Méndez, l’Hospital Guayaquil, la scuola Guayaquil a Macas, l’Hospital Quito a Méndez, la Scuola agricola di Cuenca, città dove, già dal 1927, incominciò a sviluppare il suo apostolato sacerdotale e salesiano.
            Per alcuni anni, poi continuò a occuparsi di scienze, ma sempre con lo spirito dell’apostolo.

Carlo Riganti
Presidente Associazione Carlo Crespi

Immagine: 24 marzo 1923 – Padre Carlo Crespi In partenza per l’Ecuador sul Piroscafo Venezuela




Se la Patagonia deve aspettare… andiamo in Asia

Si ripercorre l’espansione dei missionari salesiani in Argentina nella seconda metà dell’Ottocento, in un Paese aperto ai capitali stranieri e caratterizzato da intensa immigrazione italiana. Le riforme legislative e la carenza di scuole favorirono i progetti educativi di Don Bosco e Don Cagliero, ma la realtà si rivelò più complessa di quanto immaginato in Europa. Un contesto politico instabile e un nazionalismo ostile alla Chiesa si intrecciavano con tensioni religiose anticlericali e protestanti. Vi era inoltre la drammatica condizione degli indigeni, respinti verso sud dalla forza militare. Il ricco carteggio tra i due religiosi mostra come dovettero adeguare obiettivi e strategie di fronte a nuove sfide sociali e religiose, mantenendo però vivo il desiderio di estendere la missione anche in Asia.

Con la missio giuridica ricevuta dal papa, con il titolo e le facoltà spirituali dei missionari apostolici concessi dalla Congregazione di Propaganda Fide, con una lettera di presentazione di don Bosco all’arcivescovo di Buenos Aires, i dieci missionari dopo un mese di viaggio attraverso l’oceano Atlantico, a metà dicembre 1875, arrivarono in Argentina, paese immenso popolato da poco meno di due milioni di abitanti (quattro milioni nel 1895, nel 1914 sarebbero stati otto milioni). Di essa conoscevano a malapena la lingua, la geografia e un po’ di storia.
Accolti con simpatia dalle autorità civili, dal clero locale e da benefattori, vissero inizialmente mesi felici. La situazione nel paese si presentava infatti favorevole, tanto dal punto di vista economico, con grandi investimenti di capitali stranieri, quanto sociale con l’apertura legale (1875) all’immigrazione, soprattutto italiana: 100 000 immigrati, di cui 30 000 nella sola Buenos Aires. Favorevole era anche la congiuntura educativa data dalla nuova legge sulla libertà d’insegnamento (1876) e dal vuoto di scuole per “ragazzi poveri ed abbandonati”, come quelli cui volevano dedicarsi i salesiani.
Difficoltà sorgevano invece dal punto di vista religioso – data la forte presenza di anticlericali, massoni, liberali ostili, inglesi (gallesi) protestanti in alcune zone – e dal modesto spirito religioso di molto clero nativo e immigrato. Analogamente sul versante politico per i sempre incombenti rischi d’instabilità politica, economica e commerciale, per un nazionalismo ostile alla Chiesa cattolica e suscettibilissimo ad ogni influenza esterna e per il problema irrisolto degli indigeni della Pampa e della Patagonia. Il continuo avanzamento della linea di frontiera meridionale infatti li costringeva con la forza ad arretrare sempre più a sud e verso la Cordigliera, quando addirittura non li eliminava o, catturati, non li vendeva come schiavi. Se ne rese subito conto il capospedizione don Cagliero. Due mesi dopo il suo sbarco scriveva: “Gli Indi sono esasperati contro il Governo Nazionale. Vanno per essi armati di Remington, fanno prigionieri uomini, donne, fanciulli, cavalli e pecore […] bisogna pregare Dio che loro mandi missionari per liberarli dalla morte dell’anima e del corpo”.

Dall’utopia del sogno al realismo della situazione
Nel biennio 1876-1877 ebbe luogo una sorta di dialogo a distanza fra don Bosco e don Cagliero: in meno di venti mesi ben 62 loro lettere hanno attraversato l’Atlantico. Don Cagliero in loco s’impegnava ad attenersi alle direttive date da don Bosco sulla base delle lacunose letture a sua disposizione e delle sue ispirazioni dall’Alto, non facilmente decifrabili. Don Bosco a sua volta veniva a sapere dal suo condottiero sul campo come la realtà in Argentina si presentasse diversa da quella pensata in Italia. Il progetto operativo studiato in Torino poteva sì essere condiviso negli obiettivi e nella stessa strategia generale, ma non nelle coordinate geografiche, cronologiche e antropologiche previste. Don Cagliero se ne rendeva perfettamente conto, a differenza di don Bosco che invece continuava instancabilmente ad allargare gli spazi per le missioni salesiane.
Il 27 aprile 1876 infatti annunciava a don Cagliero l’accettazione di un Vicariato Apostolico in India – esclusi dunque gli altri due proposti dalla Santa Sede, in Australia e Cina – da affidare appunto a lui stesso, che dunque avrebbe lasciato ad altri le missioni in Patagonia. Due settimane dopo però don Bosco presentava a Roma la richiesta di erigere un Vicariato Apostolico pure per la Pampa e la Patagonia, che riteneva, erroneamente, territorio nullius [di nessuno] sia civilmente sia ecclesiasticamente. Lo ribadiva nell’agosto successivo firmando il lungo manoscritto La Patagonia e le terre australi del continente americano, redatto assieme a don Giulio Barberis. La situazione era resa ancor più complicata dall’acquisizione da parte del governo argentino (d’accordo con quello cileno) delle terre abitate dagli indigeni, che le autorità civili di Buenos Aires avevano suddiviso in quattro governatorati e che l’arcivescovo di Buenos Aires riteneva a ragione soggette alla sua giurisdizione ordinaria.
Ma le furibonde lotte governative contro gli indigeni (settembre 1876) fecero sì che il sogno salesiano “Alla Patagonia, alla Patagonia. Dio lo vuole!” per il momento restasse tale.

Gli italiani “indianizzati”
Intanto nell’ottobre 1876 l’arcivescovo aveva proposto ai missionari salesiani di assumere la parrocchia della Boca in Buenos Aires a servizio di migliaia di italiani “più indianizzati che gli Indiani quanto a costume e religione” (avrebbe scritto don Cagliero). La accettarono. Lungo il primo anno di permanenza in Argentina infatti avevano già reso stabile la loro posizione nella capitale: con l’acquisto formale della cappella Mater misericordiae in centro città, con l’impianto di oratori festivi per Italiani in tre punti della città, con l’ospizio di “artes y officios” e la chiesa di San Carlo ad Ovest – che sarebbe rimasto colà dal maggio 1877 al marzo 1878 quando si trasferì ad Almagro – e ora la parrocchia della Boca al sud con oratorio in via di attivazione. Progettavano anche un noviziato e mentre aspettavano le Figlie di Maria Ausiliatrice prospettavano un ospizio e un collegio a Montevideo in Uruguay.
A fine anno 1876 don Cagliero era pronto a rientrare in Italia, visto anche che si prolungava eccessivamente sia la possibilità di entrare nel Chubut sia la fondazione di una colonia a Santa Cruz (all’estremo sud del continente) a causa di un governo che creava impacci ai missionari e che gli indigeni avrebbe preferito “distruggerli anziché ridurli”.
Ma con l’arrivo in gennaio 1877 della seconda spedizione di 22 missionari, don Cagliero progettò autonomamente di ritentare un’escursione a Carmen de Patagones, sul Río Negro, in accordo con l’arcivescovo. Don Bosco a sua volta lo stesso mese suggerì alla Santa Sede l’erezione di tre Vicariati Apostolici (Carmen de Patagones, Santa Cruz, Punta Arenas) o almeno uno a Carmen de Patagones, impegnandosi ad accettare nel 1878 quello di Mangalor in India con don Cagliero Vicario. Non solo, ma il 13 febbraio con immenso coraggio si dichiarava pure disponibile per lo stesso 1878 per il Vicariato apostolico di Ceylon a preferenza di quello dell’Australia, entrambi propostogli dal papa (o suggeriti da lui al papa?). Insomma a don Bosco non bastava l’America Latina, ad occidente, sognava di mandare i suoi missionari in Asia, ad oriente.




Venerabile Francesco Convertini, pastore secondo il Cuore di Gesu

Il venerabile don Francesco Convertini, salesiano missionario in India, emerge come un pastore secondo il Cuore di Gesù, forgiato dallo Spirito e totalmente fedele al progetto divino sulla sua vita. Attraverso le testimonianze di quanti l’hanno incontrato, si delineano la sua umiltà profonda, la dedizione incondizionata all’annuncio del Vangelo e il fervido amore per Dio e per il prossimo. Visse con gioiosa semplicità evangelica, affrontando fatiche e sacrifici con coraggio e generosità, sempre attento a chiunque incontrasse sul suo cammino.

1. Contadino nella vigna del Signore
            Presentare il profilo virtuoso di padre Francesco Convertini, missionario salesiano in India, un uomo che si è lasciato plasmare dallo Spirito e ha saputo realizzare la sua fisionomia spirituale secondo il disegno di Dio su di lui, è qualcosa di bello e di serio nello stesso tempo, perché richiama il senso vero della vita, come risposta a una chiamata, a una promessa, a un progetto di grazia.
            Molto originale è la sintesi tratteggiata su di lui da un sacerdote suo conterraneo, don Quirico Vasta, che conobbe padre Francesco nelle rare visite nella sua amata terra di Puglia. Questo testimone ci offre una sintesi del profilo virtuoso del grande missionario, introducendoci in modo autorevole e avvincente a scoprire qualcosa della statura umana e religiosa di questo uomo di Dio. «La “maniera” per misurare la statura spirituale di questo sant’uomo, di don Francesco Convertini, non è quella, analitica, di comparare la sua vita ai molteplici “parametri di condotta” religiosi (don Francesco, in quanto salesiano, accettò anche gli impegni propri di un religioso: la povertà, l’obbedienza, la castità e vi rimase fedele per tutta la vita). Al contrario, don Francesco Convertini appare, in sintesi, come fu realmente fin dall’inizio: un giovane contadino che, dopo – e forse a causa delle brutture della guerra –, si apre alla luce dello Spirito e, lasciando tutto, si pone al seguito del Signore. Da un lato sa quello che lascia; e lo lascia non solo con il vigore proprio del contadino meridionale, povero ma tenace; ma anche gioiosamente e con quella forza d’animo tutta personale che la guerra ha rinvigorito: quella di chi intende perseguire a testa bassa, ancorché silenziosamente e nel profondo dell’anima, ciò su cui ha concentrato l’attenzione. Dall’altro lato, sempre come un contadino, che ha colto in qualcosa o in qualcuno le “certezze” del futuro e la fondatezza delle proprie speranze e sa “di chi si sta fidando”; lascia che la luce di chi gli ha parlato lo ponga in condizioni di chiarezza operativa. E ne adopera fin da subito le strategie per conseguire lo scopo: la preghiera e la disponibilità senza misura, a qualunque costo. Non a caso, le virtù chiave di questo sant’uomo sono: l’azione silenziosa e senza clamori (cf. S. Paolo: “È quando sono debole che io sono forte”) e un rispettosissimo senso dell’altro (cf. Atti: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”).
Colto in tal modo, don Francesco Convertini risulta per davvero un uomo: schivo, incline a nascondere doti e meriti, alieno dal vantarsi, dolce con gli altri e forte con sé stesso, misurato, equilibrato, prudente e fedele; un uomo di fede, di speranza ed in abituale comunione con Dio; un religioso esemplare, nell’obbedienza, nella povertà, nella castità».

2. Tratti distintivi: “Sprigionava da lui un fascino, che ti sanava”
            Ripercorrendo le tappe della sua infanzia e giovinezza, della preparazione al sacerdozio e della vita missionaria, risulta evidente l’amore particolare di Dio per il suo servo e la corrispondenza di lui verso questo buon Padre. In particolare risaltano come tratti distintivi della sua fisionomia spirituale:

            – Illimitata fede-fiducia in Dio, incarnata nell’abbandono filiale alla divina volontà.
            Viveva una grandissima fiducia nella infinita bontà e misericordia di Dio e nei grandi meriti della passione e morte di Gesù Cristo, a cui tutto confidava e dal quale tutto si aspettava. Sulla salda roccia di tale fede si sobbarcò tutte le fatiche apostoliche. Freddo o caldo, pioggia tropicale o sole scottante, difficoltà o fatica, niente gli impedì di procedere sempre con fiducia, quando si trattava della gloria di Dio e della salvezza delle anime.

            – Incondizionato amore a Gesù Cristo Salvatore, a cui tutto offriva in sacrificio, cominciando dalla sua vita, consegnata alla causa del Regno.
            Padre Convertini si rallegrava della promessa del Salvatore e gioiva nella venuta di Gesù, come Salvatore universale e unico mediatore tra Dio e gli uomini: «Gesù ci diede tutto sé stesso morendo sulla croce e noi non saremo capaci di dare noi stessi a Lui completamente?».

            – Salvezza integrale del prossimo, perseguita con un’appassionata evangelizzazione.
            Gli abbondanti frutti della sua opera missionaria erano dovuti alla sua incessante preghiera e ai sacrifici senza risparmio fatti per il prossimo. Sono uomini e missionari di tale tempra che lasciano un solco indelebile nella storia delle missioni, del carisma salesiano e del ministero sacerdotale.
            Anche nel contatto con gli Indù, con i Musulmani, se da una parte era sollecitato da un vero desiderio di annuncio del Vangelo, che spesso portava alla fede cristiana, dall’altro si sentiva come obbligato a valorizzare quelle verità di fondo facilmente percepibili anche dai non cristiani, quali l’infinita bontà di Dio, l’amore del prossimo come via della salvezza e la preghiera come mezzo per ottenere grazie.

            – Incessante unione con Dio attraverso la preghiera, i sacramenti, l’affidamento a Maria Madre di Dio e nostra, l’amore alla Chiesa e al Papa, la devozione ai santi.
            Si sentiva figlio della Chiesa e la serviva con cuore di autentico discepolo di Gesù e missionario del Vangelo, affidato al Cuore Immacolato di Maria e nella compagnia dei santi sentiti come intercessori e amici.

            – Ascesi evangelica semplice e umile nella sequela della croce, incarnata in una vita straordinariamente ordinaria.
            Traspariva da tutta la sua persona la profonda umiltà, la povertà evangelica (portava con sé l’indispensabile), il volto angelico. Penitenza volontaria, controllo di sé: poco o quasi niente riposo, pasti irregolari. Si privava di tutto per donare ai poveri, anche i vestiti, le scarpe, il letto e il cibo. Dormiva sempre per terra. Digiunava a lungo. Con il passare degli anni contrasse parecchie malattie che minarono la sua salute: soffriva di asma, bronchiti, enfisema, mal di cuore… parecchie volte lo attaccavano in modo tale da costringerlo a stare a letto. Meravigliava come potesse sopportare tutto senza lamentarsi. Era proprio questo che gli attirava la venerazione degli indù, per cui egli era il “sanyasi”, colui che sapeva rinunciare a tutto per amor di Dio e per loro.

            La sua vita appare come una lineare ascesa verso le vette della santità nell’adempimento fedele della volontà di Dio e nella donazione di sé stesso ai fratelli, attraverso il ministero sacerdotale vissuto in fedeltà. Laici, religiosi ed ecclesiastici in modo concorde parlano del suo modo straordinario di vivere il quotidiano.

3. Missionario del Vangelo della gioia: «Ho annunziato loro Gesù. Gesù Salvatore. Gesù misericordioso»
            Non c’è stato un giorno in cui non sia andato da qualche famiglia per parlare di Gesù e del Vangelo. Padre Francesco aveva tale entusiasmo e zelo, da fargli sperare anche cose che sembravano umanamente impossibili. Padre Francesco divenne famoso come pacificatore tra le famiglie, o tra i villaggi in discordia. «Non è per mezzo delle discussioni che si arriva a capire. Dio e Gesù sono oltre le nostre discussioni. Bisogna soprattutto pregare e Dio ci darà il dono della fede. Per mezzo della fede si troverà il Signore. Non è forse scritto nella Bibbia che Dio è amore? Per la via dell’amore si giunge a Dio».

            Era un uomo pacificato interiormente e portava la pace. Voleva che tra la gente, nelle case o nei villaggi, non ci fossero alterchi, o risse, o divisioni. «Nel nostro villaggio eravamo cattolici, protestanti, indù e musulmani. Perché la pace regnasse tra di noi, di tanto in tanto il padre ci radunava tutti insieme e ci diceva come si poteva e si doveva vivere in pace tra di noi. Poi ascoltava coloro che volevano dire qualche cosa e alla fine, dopo aver pregato, dava la benedizione: un modo meraviglioso per conservare la pace tra di noi». Aveva una tranquillità d’animo veramente sorprendente; era la forza che gli veniva dalla certezza che aveva di fare la volontà di Dio, ricercata con fatica, ma poi abbracciata con amore una volta trovata.
            Un uomo che visse con semplicità evangelica, trasparenza di bambino, disponibilità ad ogni sacrificio, sapendo entrare in sintonia con ogni persona che incontrava sul suo cammino, viaggiando a cavallo, o in bicicletta, o più spesso camminando intere giornate a piedi con lo zaino sulle spalle. Appartenne a tutti senza distinzione di religione, di casta, di condizione sociale. Da tutti fu amato, perché a tutti portava “l’acqua di Gesù che salva”.

4. Un uomo dalla fede contagiosa: labbra in preghiera, rosario nelle mani, occhi al cielo
            «Noi sappiamo da lui che egli mai tralasciò la preghiera, sia quando si trovava con gli altri, sia quando era da solo, anche da soldato. Questo lo aiutò a fare tutto per Dio, specialmente quando faceva la prima evangelizzazione tra noi. Per lui non c’era tempo fisso: mattina o sera, sole o pioggia; caldo o freddo non erano un impedimento per lui, quando si trattava di parlare di Gesù o di fare del bene. Quando andava nei villaggi si sobbarcava a camminare anche di notte e senza prendere cibo pur di arrivare in qualche casa o in qualche villaggio per predicare il Vangelo. Anche quando fu messo come confessore a Krishnagar, veniva da noi per le confessioni durante il caldo soffocante del dopo pranzo. Gli dissi una volta: “Perché viene a quest’ora?”. Ed egli: “Nella passione, Gesù non scelse il suo tempo conveniente quando era condotto da Anna o Caifa o Pilato. Dovette farlo anche contro la sua volontà, per fare la volontà del Padre”.
            Evangelizzava non per proselitismo, ma per attrazione. Era il suo comportamento che attirava le persone. La sua dedizione e l’amore facevano dire alla gente che padre Francesco era la vera immagine del Gesù che predicava. L’amore di Dio lo portava a cercare l’intima unione con lui, a raccogliersi in preghiera, a evitare ciò che poteva dispiacere a Dio. Egli sapeva che si conosce Dio solo attraverso la carità. Soleva dire: “Ama Dio, non darGli dispiacere”».

            «Se c’era un sacramento in cui padre Francesco eccelleva in modo eroico, era l’amministrazione del sacramento della Riconciliazione. Per qualsiasi persona della nostra diocesi di Krishnagar dire padre Francesco è dire l’uomo di Dio che mostrava la paternità del Padre nel perdonare specialmente al confessionale. I suoi ultimi 40 anni di vita li spese più in confessionale che in ogni altro ministero: ore e ore, specialmente in preparazione alle feste e alle solennità. Così tutta la notte di Natale e di Pasqua o delle feste patronali. Era sempre puntualmente presente nel confessionale ogni giorno, ma specialmente nelle domeniche prima delle Messe o alla vigilia vespertina delle feste e al sabato. Poi si avviava verso altri luoghi dove lui era confessore abituale. Era un compito questo molto caro a lui e molto atteso da tutti i religiosi della diocesi, dai quali appunto si recava settimanalmente. Il suo confessionale era sempre il più affollato e il più desiderato. I sacerdoti, i religiosi, la gente comune: sembrava che padre Francesco conoscesse ciascuno personalmente, tanto era pertinente nei suoi consigli e nei suoi ammonimenti. Io stesso mi meravigliavo per la saggezza dei suoi ammonimenti quando mi confessavo da lui. Infatti il servo di Dio fu il mio confessore per tutta la sua vita, da quando era missionario nei villaggi, fino al termine dei suoi giorni. Dicevo tra me: “È proprio quello che volevo sentire da lui…”. Il vescovo Mons. Morrow, che si confessava da lui regolarmente, lo considerava la sua guida spirituale, dicendo che padre Francesco era guidato dallo Spirito Santo nei suoi consigli e che la sua santità personale suppliva alla mancanza di doni naturali».

            La fiducia nella misericordia di Dio era un tema quasi assillante nelle sue conversazioni, e lo utilizzò bene come confessore. Il suo ministero del confessionale era ministero di speranza per sé e per coloro che si confessavano da lui. Le sue parole ispiravano speranza in tutti coloro che andavano a lui. «Al confessionale il servo di Dio era il sacerdote modello, famosissimo nell’amministrare questo sacramento. Il servo di Dio ammaestrava sempre cercando di condurre tutti alla salvezza eterna… Al servo di Dio piaceva indirizzare le sue preghiere al Padre che è nei cieli, e così pure insegnava alla gente di vedere in Dio il Padre buono. Specialmente a chi si trovava in difficoltà, anche spirituali e ai peccatori pentiti, ricordava che Dio è misericordioso e che si deve sempre confidare in lui. Il servo di Dio aumentava le sue preghiere e mortificazioni per scontare le sue infedeltà, come egli diceva, e per i peccati del mondo».

            Eloquenti le parole di don Rosario Stroscio, superiore religioso, che così concluse l’annuncio del decesso di padre Francesco: «Quelli che hanno conosciuto don Francesco ricorderanno sempre con amore i piccoli avvisi e le esortazioni che egli soleva dare in confessione. Con la sua vocina così debole, eppure così piena di ardore: “Amiamo le anime, lavoriamo solo per le anime… Avviciniamo il popolo… Trattiamo con esso in modo che il popolo capisca che l’amiamo…”. Tutta la sua vita fu una magnifica testimonianza della tecnica più fruttuosa del ministero sacerdotale e del lavoro missionario. Possiamo sintetizzarla nella semplice espressione: “Per vincere anime a Cristo non c’è mezzo più potente della bontà e dell’amore!”».

5. Amava Dio e amava il prossimo per amor di Dio: Metti amore! Metti amore!
            A Ciccilluzzo, nome famigliare, che aiutava nei campi guardando i tacchini e facendo altri lavori adatti alla sua giovane età, la mamma Caterina soleva ripetere: «Metti amore! Metti amore!».
            «Padre Francesco diede a Dio tutto, perché era convinto che essendosi consacrato tutto a Lui come religioso e sacerdote missionario, Iddio aveva su di lui pieno diritto. Quando gli chiedevamo perché non andasse a casa (in Italia), ci rispondeva che ormai si era dato tutto a Dio e a noi». Il suo essere sacerdote era tutto per gli altri: «Io sono prete per il bene del prossimo. Questo è il mio primo dovere». Si sentiva debitore di Dio in tutto, anzi, tutto apparteneva a Dio e al prossimo, mentre lui si era donato totalmente, non riservandosi nulla: padre Francesco ringraziava continuamente il Signore per averlo scelto ad essere sacerdote missionario. Mostrava questo senso di gratitudine verso chiunque avesse fatto qualche cosa per lui, fosse anche il più povero.
            Diede esempi di fortezza in modo straordinario adattandosi alle condizioni di vita del lavoro missionario a lui assegnato: una lingua nuova e difficile, che cercò di imparare abbastanza bene, perché questo era il modo per comunicare con il suo popolo; un clima durissimo, quello del Bengala, tomba di tanti missionari, che imparò a sopportare per amore di Dio e delle anime; viaggi apostolici a piedi attraverso zone sconosciute, con il rischio di incontrare animali selvatici.

            Fu un missionario e un evangelizzatore instancabile in una zona difficilissima come quella di Krishnagar – che voleva trasformare in Crist-nagar, città di Cristo –, dove erano difficili le conversioni, senza dimenticare l’opposizione dei protestanti e dei membri di altre religioni. Per l’amministrazione dei sacramenti affrontò tutti i pericoli possibili: pioggia, fame, malattie, belve selvatiche, persone malevoli. «Ho sentito spesso l’episodio di padre Francesco, che una notte, portando il SS. Sacramento ad un ammalato, s’imbatté in una tigre che stava accovacciata sul sentiero dove lui e i suoi compagni dovevano passare… Mentre gli accompagnatori cercavano di fuggire, il servo di Dio ordinò alla tigre: “Lascia passare il tuo Signore!”; e la tigre si scostò. Ma ho sentito altri simili esempi sul servo di Dio, che moltissime volte viaggiava a piedi di notte. Una volta un gruppo di briganti lo assaltò, credendo di avere qualche cosa da lui. Ma quando lo videro così privo di ogni cosa eccetto ciò che portava addosso, si scusarono e lo accompagnarono fino al prossimo villaggio».
            La sua vita di missionario è stata un continuo viaggiare: in bicicletta, a cavallo e il più delle volte a piedi. Questo suo camminare a piedi è forse l’atteggiamento che meglio ritrae l’instancabile missionario e il segno dell’autentico evangelizzatore: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza» (Is 52,7).

6. Occhi limpidi e rivolti al cielo
            «Osservando il viso sorridente del servo di Dio e guardando ai suoi occhi limpidi e rivolti al cielo, si pensava che egli non fosse di quaggiù, ma del cielo». Nel vederlo, fin dalla prima volta molti riportavano un’impressione indimenticabile di lui: i suoi occhi splendenti che mostravano un volto pieno di semplicità e innocenza e la barba lunga e venerabile richiamavano l’immagine di una persona piena di bontà e compassione. Un testimone afferma: «Padre Francesco era un santo. Non saprei dare un giudizio, ma penso che persone simili non si trovino. Noi eravamo piccoli, ma egli parlava con noi, non disprezzava mai nessuno. Non faceva differenza tra musulmani e cristiani. Il padre andava da tutti allo stesso modo e quando ci trovavamo insieme ci trattava tutti nella stessa maniera. A noi piccoli dava consigli: “Obbedite ai genitori, fate bene i vostri compiti, amatevi tutti come fratelli”. Ci dava poi piccoli dolci: nelle sue tasche c’era sempre qualche cosa per noi».
            Padre Francesco manifestò il suo amore per Dio soprattutto con la preghiera, che sembrava essere senza interruzioni. Si poteva vederlo sempre muovendo le labbra in preghiera. Anche quando parlava con le persone, teneva gli occhi sempre sollevati come se stesse vedendo qualcuno a cui stava parlando. Ciò che maggiormente e spesso colpiva la gente era la capacità di padre Convertini di essere totalmente concentrato su Dio e, allo stesso tempo, sulla persona che stava di fronte a lui, guardando con occhi sinceri il fratello che incontrava sul suo cammino: «Aveva, senza alcun dubbio, i suoi occhi fissi sul volto di Dio. Questo era un tratto indelebile della sua anima, una concentrazione spirituale di impressionante livello. Ti seguiva attentamente e ti rispondeva con estrema precisione quando tu parlavi con lui. Eppure, tu avvertivi che egli era “altrove”, in un’altra dimensione, in dialogo con l’Altro».

            Alla conquista della santità incoraggiava altri, come nel caso del cugino Lino Palmisano che si preparava al sacerdozio: «Sono molto contento sapendoti già al tirocinio; anche questo passerà presto, se saprai approfittare delle grazie del Signore che ogni giorno ti darà, per trasformarti in un santo cristiano di buon senso. Ti attendono gli studi più soddisfacenti della teologia che nutrirà la tua anima di Spirito di Dio, il quale ha chiamato ad aiutare Gesù nel Suo apostolato. Non pensare ad altri, ma a te solo, del come diventare un santo sacerdote come Don Bosco. Anche a suo tempo Don Bosco diceva: i tempi sono difficili, ma noi faremo puf, puf, andremo avanti anche contro corrente. Era la mamma celeste che gli diceva: infirma mundi elegitDeus. Niente paura, io ti aiuterò. Caro fratello, il cuore, l’anima di un sacerdote santo agli occhi del Signore vale più di tutti i tesserati, il giorno del tuo sacrificio assieme a quello di Gesù sull’altare è vicino, preparati. Non ti pentirai mai di essere stato generoso verso Gesù e verso i Superiori. Confidenza in loro, essi ti aiuteranno a vincere le piccole difficoltà del giorno che la tua bell’anima potrà incontrare. Ti ricorderò nella S. Messa di ogni giorno, perché tu pure possa un giorno offrirti tutto al Buon Dio».

Conclusione
            Come all’inizio, così anche al termine di questo breve excursus sul profilo virtuoso di padre Convertini, ecco una testimonianza che sintetizza quanto presentato.
            «Una delle figure di pionieri che mi colpì profondamente fu quella del Venerando don Francesco Convertini, zelante apostolo dell’amore cristiano, che riuscì a portare la notizia della Redenzione nelle chiese, nelle zone parrocchiali, nei vicoletti e capanne dei rifugiati e con chiunque incontrava, consolando, consigliando, aiutando con la sua squisita carità: un vero testimone delle opere di misericordia corporali e spirituali, sulle quali saremo giudicati: sempre pronto e zelante nel ministero del sacramento del perdono. Cristiani di ogni confessione, musulmani e indù, accettavano con gioia e prontezza colui che chiamavano l’uomo di Dio. Egli sapeva portare a ciascuno il vero messaggio dell’amore, che Gesù predicò e portò in questa terra: con l’evangelico contatto diretto e personale, per piccoli e grandi, bambini e bambine, poveri e ricchi, autorità e paria (fuori casta), cioè l’ultimo e il più disprezzato gradino dei rifiuti (sub)umani. Per me e per molti altri, è stata un’esperienza sconvolgente che mi ha aiutato a capire e vivere il messaggio di Gesù: “Amatevi come io vi ho amati”».

            L’ultima parola è a padre Francesco, come un’eredità che consegna a ciascuno di noi. Il 24 settembre 1973, scrivendo ai parenti da Krishnagar, il missionario vuole coinvolgerli nel lavoro per i non cristiani che sta facendo con fatica dopo la sua ultima malattia, ma sempre con zelo: «Dopo sei mesi di ospedale la mia salute è un po’ debole, mi sembra di essere una pignatta rotta e rattoppata. Tuttavia il misericordioso Gesù mi aiuta miracolosamente nel Suo lavoro delle anime. Mi faccio portare in città e poi ritorno a piedi, dopo aver fatto conoscere Gesù e la nostra santa religione. Finite le confessioni a casa, vado tra i pagani, molto più buoni di certi cristiani. Aff.mo nel Cuore di Gesù, sacerdote Francesco».




I ragazzi del cimitero

Il dramma dei giovani abbandonati continua a far rumore nel mondo contemporaneo. Le statistiche parlano di circa 150 milioni di ragazzi costretti a vivere per strada, una realtà che si manifesta in maniera drammatica anche a Monrovia, capitale della Liberia. In occasione della festa di San Giovanni Bosco, a Vienna, si è svolta una campagna di sensibilizzazione promossa da Jugend Eine Welt, un’iniziativa che ha messo in luce non solo la situazione locale ma anche le difficoltà incontrate in paesi lontani, come la Liberia, dove il salesiano Lothar Wagner dedica la sua vita a dare una speranza a questi giovani.

Lothar Wagner: un salesiano che dedica la sua vita ai ragazzi di strada in Liberia
Lothar Wagner, salesiano coadiutore tedesco, ha dedicato oltre vent’anni della sua vita al sostegno dei ragazzi in Africa Occidentale. Dopo aver maturato esperienze significative in Ghana e Sierra Leone, negli ultimi quattro anni si è concentrato con passione sulla Liberia, un paese segnato da conflitti prolungati, crisi sanitarie e devastazioni come l’epidemia di Ebola. Lothar si è fatto portavoce di una realtà spesso ignorata, dove le cicatrici sociali ed economiche compromettono le opportunità di crescita per i giovani.

La Liberia, con una popolazione di 5,4 milioni di abitanti, è un paese in cui la povertà estrema si accompagna a istituzioni fragili e a una corruzione diffusa. Le conseguenze di decenni di conflitti armati e crisi sanitarie hanno lasciato il sistema educativo tra i peggiori al mondo, mentre il tessuto sociale si è logorato sotto il peso di difficoltà economiche e mancanza di servizi essenziali. Molte famiglie non riescono a garantire ai propri figli i bisogni primari, spingendo così un gran numero di giovani a cercare rifugio per strada.

In particolare, a Monrovia, alcuni ragazzi trovano rifugio nei luoghi più inaspettati: i cimiteri della città. Conosciuti come “ragazzi del cimitero”, questi giovani, privi di un’abitazione sicura, si rifugiano tra le tombe, luogo che diventa simbolo di un abbandono totale. Dormire all’aperto, nei parchi, nelle discariche, persino nelle fogne o all’interno di tombe, è diventato il tragico rifugio quotidiano per chi non ha altra scelta.

“È davvero molto commovente quando si cammina per il cimitero e si vedono ragazzi che escono dalle tombe. Si sdraiano con i morti perché non hanno più un posto nella società. Una situazione del genere è scandalosa.”

Un approccio multiplo: dal cimitero alle celle di detenzione
Non solo i ragazzi dei cimiteri sono al centro dell’attenzione di Lothar. Il salesiano si dedica anche a un’altra realtà drammatica: quella dei detenuti minorenni nelle prigioni liberiane. La prigione di Monrovia, costruita per 325 detenuti, ospita oggi oltre 1.500 prigionieri, tra cui molti giovani incarcerati senza una formale accusa. Le celle, estremamente sovraffollate, sono un chiaro esempio di come la dignità umana venga spesso sacrificata.

“Manca cibo, acqua pulita, standard igienici, assistenza medica e psicologica. La fame costante e la drammatica situazione spaziale a causa del sovraffollamento indeboliscono enormemente la salute dei ragazzi. In una piccola cella, progettata per due detenuti, sono rinchiusi otto-dieci giovani. Si dorme a turno, perché questa dimensione della cella offre spazio solo in piedi ai suoi numerosi abitanti”.

Per far fronte a questa situazione, organizza visite quotidiane nella prigione, portando acqua potabile, pasti caldi e un supporto psicosociale che diventa un’ancora di salvezza. La sua presenza costante è fondamentale per cercare di ristabilire un dialogo con le autorità e le famiglie, sensibilizzando anche sull’importanza di tutelare i diritti dei minori, spesso dimenticati e abbandonati a un destino infausto. “Non li lasciamo soli nella loro solitudine, ma cerchiamo di donare loro una speranza,” sottolinea Lothar con la fermezza di chi conosce il dolore quotidiano di queste giovani vite.

Una giornata di sensibilizzazione a Vienna
Il sostegno a queste iniziative passa anche dall’attenzione internazionale. Il 31 gennaio, a Vienna, Jugend Eine Welt ha organizzato una giornata dedicata a evidenziare la precaria situazione dei ragazzi di strada, non solo in Liberia, ma in tutto il mondo. Durante l’evento, Lothar Wagner ha condiviso le sue esperienze con studenti e partecipanti, coinvolgendoli in attività pratiche – come l’uso di un nastro segnaletico per simulare le condizioni di una cella sovraffollata – per far comprendere in prima persona le difficoltà e l’angoscia dei giovani che vivono quotidianamente in spazi minimi e in condizioni degradanti.

Oltre alle emergenze quotidiane, il lavoro di Lothar e dei suoi collaboratori si concentra anche su interventi a lungo termine. I missionari salesiani, infatti, sono impegnati in programmi di riabilitazione che spaziano dal supporto educativo alla formazione professionale per i giovani detenuti, fino all’assistenza legale e spirituale. Questi interventi mirano a reintegrare i ragazzi nella società una volta rilasciati, aiutandoli a costruire un futuro dignitoso e pieno di possibilità. L’obiettivo è chiaro: offrire non solo un aiuto immediato, ma creare un percorso che consenta ai giovani di sviluppare le proprie potenzialità e contribuire attivamente alla rinascita del paese.

Le iniziative si estendono anche alla costruzione di centri di formazione professionale, scuole e strutture di accoglienza, con la speranza di ampliare il numero di giovani beneficiari e garantire un sostegno costante, giorno e notte. La testimonianza di successo di molti ex “ragazzi del cimitero” – alcuni dei quali sono diventati insegnanti, medici, avvocati e imprenditori – è la conferma tangibile che, con il giusto sostegno, la trasformazione è possibile.

Nonostante l’impegno e la dedizione, il percorso è costellato di ostacoli: la burocrazia, la corruzione, la diffidenza dei ragazzi e la mancanza di risorse rappresentano sfide quotidiane. Molti giovani, segnati da abusi e sfruttamento, faticano a fidarsi degli adulti, rendendo ancor più arduo il compito di instaurare un rapporto di fiducia e di offerta di un supporto reale e duraturo. Tuttavia, ogni piccolo successo – ogni giovane che ritrova la speranza e inizia a costruire un futuro – conferma l’importanza di questo lavoro umanitario.

Il percorso intrapreso da Lothar e dai suoi collaboratori testimonia che, nonostante le difficoltà, è possibile fare la differenza nella vita dei ragazzi abbandonati. La visione di una Liberia in cui ogni giovane possa realizzare il proprio potenziale si traduce in azioni concrete, dalla sensibilizzazione internazionale alla riabilitazione dei detenuti, passando per programmi educativi e progetti di accoglienza. Il lavoro, improntato su amore, solidarietà e una presenza costante, rappresenta un faro di speranza in un contesto in cui la disperazione sembra prevalere.

In un mondo segnato dall’abbandono e dalla povertà, le storie di rinascita dei ragazzi di strada e dei giovani detenuti sono un invito a credere che, con il giusto sostegno, ogni vita possa risorgere. Lothar Wagner continua a lottare per garantire a questi giovani non solo un riparo, ma anche la possibilità di riscrivere il proprio destino, dimostrando che la solidarietà può davvero cambiare il mondo.




150° anniversario della prima spedizione missionaria. La Giornata Missionaria

Il Settore per le Missioni della Congregazione Salesiana ha preparato i consueti materiali per la Giornata Missionaria Salesiana 2025 “Ringraziare, Ripensare e Rilanciare”, ricordando il 1875, anno della prima spedizione missionaria.

Centocinquant’anni sono un lungo periodo di tempo e la Famiglia Salesiana si sta preparando a celebrare questa occorrenza in maniera appropriata. Il libretto della Giornata Missionaria Salesiana 2025 è una risorsa ricca e utile per ringraziare, ripensare e rilanciare le missioni salesiane, insieme al poster, alla preghiera e al video (disponibile al link Youtube Settore per le Missioni Salesiane)

La prima Giornata Missionaria Salesiana (GMS) è stata nel 1988 e, nonostante i cambiamenti, continua ad essere un’occasione che viene offerta alle comunità SDB, alle Comunità Educativo-Pastorali (CEP), a tutti i giovani e ai membri della Famiglia Salesiana per vivere bene questo aspetto del carisma salesiano e diffondere la sensibilità missionaria.
Nonostante il nome può ingannare, non si tratta di una giornata in particolare, non esiste una data unica perché ogni Ispettoria può scegliere il periodo che più si adatta al proprio ritmo e calendario per vivere al meglio questo momento forte di animazione missionaria. La GMS, inoltre, è il culmine di itinerari educativi-pastorali e non un’attività slegata dal resto.

Il libretto inizia con alcune parole del vicario don Stefano Martoglio SDB: “In questo anno abbiamo il dono di celebrare il 150° della prima spedizione Missionaria della Congregazione Salesiana, fatta da Don Bosco nel 1875. Celebrare questa spedizione vuol dire rinnovare lo stesso spirito e chiedere al Signore di avere il cuore missionario di Don Bosco. Questa spedizione, e tutte quelle che sono seguite, non sono per noi solamente degli elementi cronologici. Sono la fedeltà allo spirito di Don Bosco, in obbedienza al Dono di Dio, che hanno segnato e segnano la crescita, nella fedeltà, della Congregazione Salesiana nel segno e nel Sogno di Don Bosco.”

Don Alfred Maravilla SDB, Consigliere Generale per le Missioni, condivide una riflessione sull’Opzione Missionaria di Don Bosco. Anche se Don Bosco non è mai partito come missionario ad gentes ad exteros ad vitam, possiamo ritrovare il suo spirito missionario sin dalla sua infanzia. Don Bosco visse in Piemonte durante un vivace risveglio missionario e già nel 1848 parlava ai suoi ragazzi di inviare missionari in regioni lontane, parlando spesso del suo desiderio di evangelizzare coloro che non conoscevano Cristo in Africa, America e Asia. L’opzione missionaria di Don Bosco fu la confluenza di tre fattori: in primo luogo, fu la realizzazione del suo desiderio personale, a lungo coltivato, di “andare in missione”, espresso nei suoi cinque “sogni missionari”. In secondo luogo, Don Bosco riteneva che l’impegno missionario della sua Congregazione appena approvata avrebbe impedito ai membri di cadere nel pericolo reale di uno stile di vita morbido e facile. Soprattutto, l’impegno missionario della sua Congregazione è l’espressione più piena del suo carisma, riassunto nel suo motto e in quello della Congregazione: Da mihi animas, caetera tolle.

Alcuni contributi da prospettive diverse: la Strenna 2025 “Ancorati alla speranza, pellegrini con i giovani”, il giubileo del Sacro cuore di Gesù, con alcune parti dell’enciclica “Dilexit nos,” scritta da Papa Francesco e, ovviamente, l’Anno Santo della Chiesa, il Giubileo. Possiamo leggere tutti questi stimoli come un invito dello Spirito Santo a diventare “più missionari” nella nostra vita quotidiana, con fede e speranza.

Sappiamo che, tra i tanti appuntamenti del 2025, uno sarà molto speciale per i Salesiani: il 29° Capitolo Generale della Congregazione. Don Alphonse Owoudou SDB sarà il regolatore del CGXXIX e ha preparato una riflessione profetica sulle missioni salesiane alla luce del Capitolo Generale. “Il tema del Capitolo Generale 29, Appassionati per Gesù Cristo e dedicati ai giovani ci offre un’ottica privilegiata per riflettere sulla nostra missione alla luce dei tre assi tematici: la vocazione e la fedeltà profetica (ringraziare), la comunità come profezia di fraternità (ripensare) e la riorganizzazione istituzionale della Congregazione (rilanciare). La missione salesiana non è solo un’eredità da custodire, ma una sfida da rilanciare con rinnovato entusiasmo e con una visione profetica.
Con gratitudine per il passato, con discernimento per il presente e con coraggio per il futuro, continuiamo a camminare insieme, animati dallo stesso zelo missionario che ha portato i primi missionari salesiani oltre i confini, spinti dal desiderio di rendere visibile l’amore di Dio tra i giovani.”

Poi, la presentazione dei membri della prima spedizione del 1875, conosciuta soprattutto grazie alla famosa foto scattata da Michele Schemboche, un fotografo professionista: Giovanni Battista Allavena, don Giovanni Battista Baccino, don Valentino Cassini, don Domenico Tomatis, Stefano Belmonte, Vincenzo Gioia, Bartolomeo Molinari, Bartolomeo Scavini, don Giuseppe Fagnano e don Giovanni Cagliero, capo della spedizione. L’11 Novembre 1875 fu un giorno solenne e di grande emozione. Don Bosco preparò un sermone per accompagnare i suoi figli che per primi avrebbero varcato l’oceano, verso l’Argentina: “Il nostro Divin Salvatore, quando era su questa terra, prima di andare al Celeste Padre, radunati i suoi Apostoli, disse loro: Ite in mundum universum… docete omnes gentes… Praedicate evangelium meum omni creaturae. Con queste parole il Salvatore dava non un consiglio, ma un comando ai suoi Apostoli, affinché andassero a portare la luce del Vangelo in tutte le parti della terra.”

Per comprendere meglio il contesto dei missionari salesiani, sul libretto troverete un articolo sulla corrispondenza con Don Bosco e una sintesi dei cinque sogni missionari Fra le centinaia di lettere di don Bosco che dal 1874 al 1887 hanno varcato l’Oceano Atlantico, la maggior parte sono quelle indirizzate ai salesiani, da don Cagliero a don Fagnano, da don Bodrato a don Vespignani, da don Costamagna a don Tomatis e via via a molti dei salesiani, sacerdoti, coadiutori, chierici, partiti nel corso delle 12 spedizioni missionarie organizzate dal 1875.

Come dicono le Costituzioni della Società di San Francesco di Sales all’articolo 138, “il Consigliere per le Missioni promuove in tutta la Società lo spirito e l’impegno missionario. Coordina le iniziative e orienta l’azione delle missioni perché risponda con stile salesiano alle urgenze dei popoli da evangelizzare. È anche suo compito assicurare la preparazione specifica e l’aggiornamento dei missionari.” Abbiamo così l’opportunità di conoscere meglio e ricordare gli otto Consiglieri Generali per le Missioni fino al 2025: don Modesto Bellido Iñigo (1948-1965), don Bernard Tohill (1971-1983); don Luc Van Looy (1984-1990); don Luciano Odorico (1990-2002); don Francis Alencherry (2002-2008); don Václav Klement (2008-2014), don Guillermo Basañes (2014-2020) e don Alfred Maravilla (2020-2025).

Inoltre, presentiamo alcune figure di salesiani “pionieri” meno noti che hanno contribuito a diffondere il carisma salesiano nei cinque continenti: don Francisque Dupont, l’iniziatore della missione salesiana in Vietnam, don Valeriano Barbero, il seminatore del carisma salesiano in Papua Nuova Guinea, don Jacques Ntamitalizo, l’ispiratore del Progetto Africa, don Raffaele Piperni, il precursore dei Salesiani negli U.S.A., don Pascual Chavez, come ideatore del Progetto Europa, e don Bronisław Chodanionek, il  pioniere in incognito in Moldavia.
 
La crescita della Famiglia Salesiana è un segno della fecondità del carisma salesiano e, in particolare, molti gruppi della Famiglia Salesiana sono stati fondati da missionari salesiani: nel libretto c’è una breve presentazione di ognuno di essi. Inoltre, è bello vedere la santità missionaria della Famiglia Salesiana, con un numero crescente di persone che camminano sulla strada della santità. Un altro frutto tangibile delle missioni salesiane è la vita di quattro giovani che possono essere considerati giovani testimoni della speranza cristiana: Zeffirino Namuncurá, Laura Vicuña, Simão Bororo e Akash Bashir.

Le nuove presenze Salesiane, soprattutto nei Paesi dove i Salesiani ancora non sono presenti, sono indicazioni dello slancio missionario della Congregazione Salesiana che rinvigorisce la fede, dà nuovo entusiasmo vocazionale e rivitalizza l’identità carismatica dei Salesiani sia nell’Ispettoria che si assume la responsabilità della nuova presenza, sia in quella che invia o che riceve missionari. In più, lo slancio missionario della Congregazione ci libera dai pericoli dell’imborghesimento, della superficialità spirituale e del genericismo, ci spinge ad uscire dalle nostre zone di comfort e ci proietta con speranza al futuro. Con questo spirito, possiamo conoscere meglio le nuove frontiere missionarie salesiane: Niger, Botswana, Algeria, Grecia e Vanuatu.

La ricchezza delle missioni salesiane supera le frontiere e raggiunge molti ambiti: i musei missionari salesiani, come custodi del patrimonio culturale e salesiano, i Volontari Missionari Salesiani, che donano tempo e vita agli altri, i gruppi missionari, come quelli diffusi nella Repubblica Democratica del Congo, nell’Ispettoria AFC.

Ogni GMS propone un progetto, legato al tema dell’anno, come opportunità concreta di solidarietà e animazione missionaria. Quest’anno abbiamo scelto l’apertura di un oratorio a Pagos, in Grecia, una delle nuove frontiere missionarie salesiane. L’apertura di un oratorio a Pagos, nell’isola di Syros, sarà una delle chiavi per coinvolgere i giovani greci cattolici e i migranti presenti nel territorio e iniziare con loro il lavoro salesiano. Tutti i fondi raccolti verranno utilizzati per l’avvio delle attività pastorali, la sistemazione degli ambienti e l’acquisto di materiali di animazione. Il coinvolgimento dei salesiani nella pastorale giovanile della diocesi permetterà di condividere il nostro carisma per arricchire la Chiesa locale, una minoranza esigua e bisognosa di animazione.

Il libretto si conclude con alcuni giochi per divertirsi e migliorare la conoscenza delle missioni salesiane, la presentazione dei membri del Settore Missioni, che aiutano il Consigliere per le Missioni a svolgere il suo ruolo di promozione dello spirito e dell’impegno missionario nella Congregazione Salesiana, e la preghiera finale.

Sia lodato Dio nostro Padre,
per lo spirito missionario
che hai effuso nel cuore di Don Bosco
come elemento essenziale del suo carisma.

Ti rendiamo grazie per i 150 anni
delle missioni salesiane,
e per tanti missionari Salesiani
che hanno dato la loro vita
portando il Vangelo e il carisma salesiano
nei 137 paesi del mondo.

Manda il tuo Spirito per guidarci
a ripensare una visione rinnovata
delle missioni salesiane,
con instancabile creatività missionaria.

Accendi i nostri cuori con il fuoco del tuo amore
affinché, appassionati di Gesù Cristo,
possiamo rilanciarci
con zelo ed entusiasmo missionario
per annunciarlo a tutti,
soprattutto ai giovani poveri e abbandonati.

O tutti santi missionari salesiani,
pregate per noi!

I materiali della GMS 2025 sono disponibili al link Giornata Missionaria Salesiana 2025 per maggiori info scrivere a cagliero11@sdb.org.

Marco Fulgaro