Capo XV. Divozione e progetto di una chiesa a Maria A. in Torino.
Prima di parlare della chiesa eretta in Torino ad onore di Maria Ausiliatrice stimo bene di notare, come la divozione dei Torinesi verso di questa celeste Benefattrice rimonta ai primi tempi del cristianesimo. S. Massimo primo vescovo di questa città ne parla come di un fatto pubblico ed antico. Il santuario della Consolata è un meraviglioso monumento parlante di quanto diciamo. Ma dopo la vittoria di Lepanto i Torinesi furono dei primi ad invocare Maria sotto al titolo speciale di Ausiliatrice. Il cardinale Maurizio principe di Savoia ha grandemente promossa questa divozione, e sul principio del secolo decimosettimo fece costruire nella chiesa di s. Francesco di Paola una cappella con altare e con una bellissima statua dedicata a Maria Ausiliatrice, di marmo prezioso ed elegante. La Vergine è presentata tenente in mano il Divin Fanciullo. Questo principe era fervoroso devoto di Maria Ausiliatrice, e siccome vivendo faceva sovente l’offerta del cuore alla sua celeste Madre, così morendo lasciò per testamento che appunto il cuore, qual pegno più caro di sé stesso, fosse deposto in una cassa e collocato nel muro a destra dell’altare[1]. Il tempo avendo logorato e resa questa cappella alquanto abbietta, il re Vittorio Emanuele II ordinò che ogni cosa fosse a sue spese ristorata. Così il pavimento, la predella, e lo stesso altare furono come rinnovati. Osservando i Torinesi il ricorso a Maria Ausiliatrice essere mezzo efficacissimo per ottenere grazie straordinarie, cominciarono ad aggregarsi alla Confraternita di Monaco in Baviera, ma pel numero stragrande dei confratelli fu instituita in questa medesima chiesa una Confraternita. Essa ebbe l’apostolica approvazione del Pontefice Pio VI, che con rescritto 9 febbraio 1798 concedeva molte indulgenze con altri favori spirituali. Così andava ognora più dilatandosi la divozione dei Torinesi all’augusta Madre del Salvatore, e ne provavano i più salutari effetti, quando fu ideato il progetto di una chiesa da dedicarsi appunto a Maria Ausiliatrice in Valdocco popolatissimo quartiere di questa città. Qui adunque abitano molte migliaia di cittadini senza chiesa di sorta fuori quella di Borgo Dora, la quale tuttavia non può contenere più di 1500 persone[2]. In questo distretto esistevano le chiesette della Piccola Casa della divina Provvidenza e dell’Oratorio di s. Francesco di Sales, ma si l’una che l’altra appena bastavano al servizio delle rispettive loro comunità. Nel vivo desiderio pertanto di provvedere all’urgente bisogno degli abitanti di Valdocco, e dei molti giovani che nei di festivi vengono all’Oratorio dalle varie parti della città, e che non possono più contenersi nella chiesetta attuale, si deliberò di tentare la costruzione di una chiesa abbastanza capace per questo doppio scopo. Ma un motivo tutto speciale della costruzione di questa chiesa era un bisogno comunemente sentito di dare un segno pubblico di venerazione alla B. Vergine Maria, che con viscere di Madre veramente misericordiosa aveva protetto i nostri paesi scampandoci dai mali cui tanti altri soggiacquero. Due cose si presentavano davanti per dar mano alla pia impresa; il luogo dell’edifizio, il titolo sotto cui dovesse consacrarsi. Affinché si potessero secondare i disegni della Divina Provvidenza, questa chiesa doveva edificarsi nella via Cottolengo in sito spazioso, libero, nel centro di quella grande popolazione. Venne pertanto scelto un’area posta fra la detta via Cottolengo e l’Oratorio di s. Francesco di Sales. Mentre poi si stava deliberando intorno al titolo sotto cui porre il novello edifizio, un incidente sciolse ogni dubbio. Il sommo Pontefice il regnante Pio IX, cui nulla sfugge di quanto può tornare vantaggioso alla Religione, informato della necessità di una chiesa nel luogo sopra indicato, mandò la sua prima graziosa offerta di franchi 500, facendo sentire che Maria Ausiliatrice sarebbe stato un titolo certamente gradito all’augusta Regina del cielo. Accompagnava poi la caritatevole offerta con una speciale benedizione agli oblatori aggiungendo queste parole: “Questa tenue offerta abbia più potenti e generosi oblatori che cooperino a promuovere la gloria dell’augusta Madre di Dio in terra, e così si accresca il numero di quelli che un giorno le faranno gloriosa corona in cielo.” Stabilito così il luogo e il nome dell’edifizio, un benemerito ingegnere, cav. Antonio Spezia, ne concepì il disegno, lo sviluppò in forma di croce latina sopra una superficie di 1200 metri quadrati. In questo tratto di tempo nacquero non piccole difficoltà, ma la Santa Vergine, che voleva questo edifizio a sua maggior gloria, dileguò, o meglio allontanò tutti gli ostacoli che si presentavano allora e che più gravi ancora si sarebbero in appresso presentati. Laonde non si pensò più ad altro che a dar cominciamento al sospirato edifizio.
Capo XVI. Principio dell’edifizio e funzione della pietra fondamentale.
Fatti gli scavi all’ordinaria profondità, eravamo in procinto di gettare giù le prime pietre, e la prima calce, quando ci siamo accorti che le fondamenta appoggiavano sopra terreno di alluvione e perciò inetto a sostenere le basi di un edifizio di quella fatta. Si dovettero perciò approfondare di più gli scavi, fare una forte e larga palificata corrispondente alla periferia della progettata costruzione. Il palificare e scavare a notabile profondità fu cagione di maggiori spese sia per l’aumento dei lavori, sia per la copia di materiali e di legnami che dovevano collocarsi sotto terra. Ciò nonostante i lavori furono alacremente continuati, e il 27 aprile 1865 si poterono benedire le fondamenta e porre la pietra angolare. Per comprendere il significato di questa funzione conviene osservare essere disciplina della Chiesa Cattolica che niuno debba incominciare la fabbrica di un sacro edifizio senza espressa licenza del vescovo, sotto la cui giurisdizione si ritrova il terreno che si vuole destinare a questo scopo. Aedificare ecclesiam nemo potest, nisi auctoritate dioecesani[3]. Conosciuta la necessità della Chiesa e stabilitone il luogo, il vescovo in persona o per mezzo di un suo incaricato va a porre la pietra fondamentale. Questa pietra figura Gesù Cristo che nei libri santi è detto pietra angolare, ovvero il fondamento di ogni autorità, di ogni santità. Il vescovo poi con quell’atto indica che egli riconosce la sua autorità da Gesù Cristo, cui quell’edificio appartiene, e da cui deve dipendere ogni esercizio religioso che sia per farsi in avvenire in quella chiesa, mentre il vescovo ne prende possesso spirituale mettendo la pietra fondamentale. I fedeli della Chiesa primitiva, quando volevano fabbricare qualche chiesa, ne contrassegnavano prima il luogo colla croce per denotare che quel sito, destinandosi al culto del vero Dio, non poteva più servire ad uso profano. La benedizione poi si fa dal vescovo ad esempio di quanto fece il patriarca Giacobbe allora che in un deserto alzò una pietra sopra cui fece sacrificio al Signore: Lapis iste, quem erexi in titulum, vocabitur domus Dei. È pur bene qui di notare che ogni chiesa, ed ogni culto che in quella si esercita è sempre rivolto a Dio, cui ogni atto, ogni parola, ogni segno è dedicato e consacrato. Questo atto religioso si dice Latria ossia culto supremo, o servizio per eccellenza che si presta solamente a Dio. Le chiese si sogliono anche dedicare ai santi con un secondo culto che si dice Dulia, che vuol dire servizio prestato ai servi del Signore. Quando poi il culto è indirizzato alla Beata Vergine dicesi Iperdulia, vale a dire servizio sopra eminente a quello che si rende ai santi. Ma la gloria e l’onore che si tributano ai santi ed alla B. Vergine non si fermano in loro, ma per loro mezzo vanno a finire in Dio che è il termine delle nostre preghiere e delle nostre azioni. Quindi le chiese sono tutte consacrate primieramente a DioOttimo Massimo, poi alla B. Vergine; quindi a qualche santo a beneplacito dei fedeli. Così leggiamo che s. Marco Evangelista in Alessandria d’Egitto consacrò una chiesa a Dio ed al suo maestro s. Pietro apostolo[4]. Conviene eziandio osservare intorno a queste funzioni, che talvolta il vescovo benedice la pietra angolare e qualche distinto personaggio la depone al suo posto, e mette sopra la prima calce. Così abbiamo dalla storia che il Sommo Pontefice Innocenzo X nell’anno 1652 benedisse la pietra fondamentale della chiesa di s. Agnese in Piazza Navona, mentre il principe Pamfili Duca di Carpinete la depose giù nelle fondamenta. Così nel nostro caso Mons. Odone di felice memoria vescovo di Susa era incaricato di fare la funzione religiosa mentre il Principe Amedeo di Savoia collocava a suo posto la pietra angolare, e vi metteva sopra la prima calce. Pertanto il giorno 27 aprile 1865, alle due di sera si cominciò la religiosa funzione. Il tempo era sereno, una moltitudine di gente, la prima nobiltà torinese ed anche non torinese era intervenuta. I giovanetti appartenenti alla casa di Mirabello in quella occasione erano venuti a formare coi loro compagni torinesi una specie di esercito. Il venerando Prelato dopo le preci e i salmi prescritti asperse con acqua lustrale le fondamenta del disegnato edifizio, di poi si portò presso al pilastro della cupola nel lato del Vangelo, il quale sorgeva già al livello dell’attuale pavimento. Qui fu redatto un verbale di quanto si faceva, e si lesse ad alta voce nel tenore seguente: “L’anno del Signore mille ottocento sessantacinque, il ventisette aprile, ore due di sera; l’anno decimonono del Pontificato di Pio IX, dei Conti Mastai Ferretti felicemente regnante; l’anno decimosettimo di Vittorio Emanuele II; essendo vacante la sede arcivescovile di Torino per la morte di Monsignor Luigi dei Marchesi Franzoni, Vicario Capitolare il Teologo Collegiato Giuseppe Zappata; curato della Parrocchia di Borgo Dora il Teologo Cattino Cav. Agostino; direttore dell’Oratorio di san Francesco il sacerdote Bosco Giovanni; alla presenza di S. A. R. il Principe Amedeo di Savoia, Duca d’Aosta; del conte Costantino Radicati Prefetto di Torino; della Giunta Municipale rappresentata dal Sindaco di questa città Lucerna di Rorà marchese Emanuele, e dalla Commissione promotrice di questa chiesa[5] da dedicarsi a Dio OttimoMassimo ed a Maria Ausiliatrice, Monsignor Odone G. Antonio vescovo di Susa, avuta l’opportuna facoltà dall’Ordinario di questa Archidiocesi, ha proceduto alla benedizione delle fondamenta di questa chiesa e collocazione della pietra angolare della medesima nel pilastro grande della cupola nel lato del Vangelo dell’altare maggiore. In questa pietra sono state chiuse alcune monete di metallo e di valore diverso, alcune medaglie portanti l’effigie del Sommo Pontefice Pio IX e del nostro Sovrano, una iscrizione in latino che ricorda l’oggetto di questa sacra funzione. Il benemerito ingegnere architetto cav. Spezia Antonio, il quale ne concepì il disegno e con spirito cristiano prestò e presta tuttora l’opera sua nella direzione dei lavori. La forma della chiesa è di croce latina, della superficie di mille duecento metri; motivo di questa costruzione è la mancanza di chiese fra i fedeli di Valdocco, e per dare un pubblico attestato di gratitudine alla gran Madre di Dio pei grandi benefizi ricevuti, per quelli che in maggior copia si attendono da questa celeste Benefattrice. L’opera fu cominciata, e si spera che sarà condotta a felice termine colla carità dei devoti. Gli abitanti di questo Borgo di Valdocco, i Torinesi ed altri fedeli da Maria beneficati, riuniti ora in questo benedetto recinto, mandano unanimi al Signore Iddio, alla Vergine Maria, aiuto dei cristiani, una fervida preghiera per ottenere dal cielo copiose benedizioni sopra i Torinesi sopra i cristiani di tutto il mondo, e in modo particolare sopra il Capo supremo della Chiesa cattolica, promotore ed insigne benefattore di questo sacro edifizio, sopra tutte le autorità ecclesiastiche, sopra l’augusto nostro Sovrano, e sopra tutta la reale Famiglia, e specialmente sopra S. A. R. il Principe Amedeo, che accettando l’umile invito diede un segno di venerazione alla gran Madre di Dio. L’augusta Regina del Cielo assicuri un posto nella eterna beatitudine a tutti quelli che hanno dato o daranno opera a condurre a termine questo sacro edifizio, o in qualche altro modo contribuiranno ad accrescere il culto e la gloria di Lei sopra la terra.” Letto ed approvato questo verbale, fu sottoscritto da tutti quelli che furono sopra nominati e dai più illustri personaggi che si trovano presenti. Di poi fu piegato e fasciato col disegno della chiesa e con qualche altro scritto, e riposto in un vaso di vetro appositamente preparato. Chiuso questo ermeticamente venne collocato nel cavo fatto in mezzo alla pietra fondamentale. Benedetta ogni cosa dal vescovo, fu sopra posta altra pietra, e il Principe Amedeo vi pose la prima calce. Dopo i muratori continuarono il loro lavoro fino all’altezza di oltre un metro di costruzione. Compiuti ancora gli altri riti religiosi, i prelodati personaggi visitarono lo stabilimento, di poi assistettero ad una rappresentazione dei giovani stessi. Loro si lessero varie poesie di opportunità, si eseguirono diversi pezzi di musica vocale e strumentale con un dialogo, in cui si dava un cenno storico sulla solennità del giorno[6]. Terminato il piacevole trattenimento chiudeva la giornata una devota azione di grazie al Signore colla benedizione del SS. Sacramento. S. A. R. col suo corteggio lasciavano l’Oratorio alle ore 5 1/2 mostrandosi ognuno pienamente soddisfatto. L’Augusto Principe fra gli altri segni di gradimento offrì la graziosa somma di fr. 500 della sua cassetta particolare, e regalò gli attrezzi di sua ginnastica ai giovani di questo stabilimento. Poco dopo l’ingegnere era decorato della croce dei santi Maurizio e Lazzaro.
[1] Alla morte di quel principe, il conte Tesauro fece la seguente epigrafe, che venne scolpita nel pavimento dell’altare. D. O. M. SERENISSIMIS PRINCEPS MAURITIUS SABAUDIAE MELIOREM SUI PARTEM COR QUOD VIVENS SUMMAE REGINAE COELORUM LITAVERAT MORIENS CONSECRAVIT HICQUE AD MINIMOS QUOS CORDE DILIGERAT APPONI VOLUIT CLAUSIT ULTIMUM DIEM QUINTO NONAS OCTOBRIS MDCLVII.
[2] Questo quartiere si chiama Valdocco dalle iniziali Val. Oc. Vallis Occisorum ossia valle degli uccisi, perché essa fu innaffiata dal sangue dei santi Avventore ed Ottavio, i quali qui riportarono la palma del martirio.
Dalla chiesa parrocchiale di Borgo Dora tirando una linea fino alla chiesa della Consolata ed a quella di Borgo s. Donato; di poi volgendo alla regia fucina delle canne sino al fiume Dora, avvi uno spazio coperto di case, ove hanno stanza oltre a 35,000 abitanti, tra cui non esisteva alcuna pubblica chiesa.
Capo XIII. Istituzione della festa di Maria aiuto dei cristiani Il modo meraviglioso con cui Pio VII fu liberato dalla sua prigionia è il grande avvenimento che ha dato occasione alla istituzione della festa di Maria aiuto dei cristiani. L’Imperatore Napoleone I aveva già in più guise oppresso il sommo Pontefice, spogliandolo dei suoi beni, disperdendo Cardinali, Vescovi, Preti e Frati, privandoli parimenti dei loro beni. Dopo ciò Napoleone chiedeva al Papa cose che egli non poteva concedere. Al rifiuto di Pio VII l’Imperatore rispose colla violenza e col sacrilegio. Il Papa venne arrestato nel proprio palazzo e col Cardinal Pacca suo segretario tradotto in viaggio forzato a Savona dove il perseguitato, ma sempre glorioso Pontefice, passò oltre a cinque anni in severa prigionia. Ma siccome dove c’è il Papa là vi è il Capo della religione e quindi il concorso di tutti i veri cattolici, così Savona divenne in certo modo un’altra Roma. Tante dimostrazioni di affetto mossero ad invidia l’Imperatore, che voleva umiliato il Vicario di Gesù Cristo; e perciò comandò che il Pontefice fosse traslocato a Fontainebleau, che è un castello non molto distante da Parigi. Mentre il Capo della Chiesa gemeva prigioniero separato dai suoi consiglieri ed amici, ai cristiani altro più non rimaneva che imitar i fedeli della Chiesa primitiva quando s. Pietro era in prigione, pregare. Pregava il venerando Pontefice e con lui pregavano tutti i Cattolici implorando l’aiuto di Colei che è detta: Magnum in Ecclesia praesidium: Grande presidio nella Chiesa. Si crede comunemente che il Pontefice abbia promesso alla Santa Vergine di instituire una festa per onorare l’Augusto titolo di Maria aiuto dei Cristiani, qualora egli avesse potuto ritornare a Roma sul trono Pontificio. Intanto tutto sorrideva al terribile conquistatore. Dopo aver fatto risuonare il temuto suo nome in tutta la terra camminando di vittoria in vittoria aveva portate le sue armi nelle regioni più fredde della Russia, credendo trovare colà nuovi trionfi; ma la divina Provvidenza invece gli aveva preparato disastri e sconfitte. Maria mossa a pietà dai gemiti del Vicario di Gesù Cristo e dalle preghiere dei suoi figliuoli cangiò in un momento le sorti d’Europa e di tutto il mondo. Il rigor dell’inverno nella Russia e l’infedeltà di molti generali francesi delusero tutte le speranze di Napoleone. La maggior parte di quel formidabile esercito perì assiderato dal gelo o sepolto nella neve. Le poche truppe risparmiate dai rigori del freddo abbandonarono l’Imperatore ed egli dovette fuggire, ritirarsi a Parigi e consegnarsi nelle mani degli Inglesi, che lo tradussero prigioniero nell’isola d’Elba. Allora la giustizia poté fare di nuovo il suo corso; il Pontefice venne tosto messo in libertà; Roma l’accolse col massimo entusiasmo, e il Capo della Cristianità fatto libero e indipendente poté ripigliare l’amministrazione della Chiesa universale. Fatto così libero Pio VII volle tosto dare un pubblico segno di gratitudine alla Beata Vergine dalla cui intercessione tutto il mondo riconosceva l’inaspettata sua libertà. Accompagnato da alcuni Cardinali andò a Savona dove incoronò la prodigiosa immagine detta della Misericordia che si venera in quella città; e con inaudito concorso di popolo in presenza del re Vittorio Emanuele I e di altri Principi fu fatta la maestosa funzione in cui il Papa pose una corona di gemme e di diamanti sul capo della veneranda effigie di Maria. Ritornato di poi a Roma volle compiere la seconda parte della sua promessa instituendo nella Chiesa una festa speciale, che attestasse alla posterità quel gran prodigio. Considerando egli adunque come in ogni tempo la santa Vergine fu sempre proclamata aiuto dei cristiani, appoggiato a quanto s. Pio V aveva fatto dopo la vittoria di Lepanto ordinando d’inserire nelle Litanie Lauretane le parole: Auxilium Christianorum ora pro nobis; spiegando e dilatando ognor più quanto aveva decretato il Pontefice Innocenzo XI quando instituì la festa del nome di Maria; Pio VII per rendere perpetuala memoria della prodigiosa liberazione sua, dei Cardinali, dei Vescovi e della libertà ridonata alla Chiesa, e perché ne esistesse perpetuo monumento fra tutti i popoli Cristiani instituì la festa di Maria Auxilium Christianorum da celebrarsi ogni anno al giorno 24 maggio. Fu scelto quel giorno perché appunto in esso l’anno 1814 Egli era stato fatto libero e poté ritornare a Roma fra i più vivi applausi dei Romani (chi volesse istruirsi di più intorno a quanto abbiamo qui brevemente esposto può consultare Artaud: Vita di Pio VII. Moroni articolo Pio VII. P. Carini: Il sabato santificato. Carlo Ferreri: Corona di fiori ecc. Discursus praedicabiles super litanias Lauretanas del P. Giuseppe Miecoviense). Il glorioso Pontefice Pio VII finché visse promosse il culto verso Maria; approvò associazioni e Confraternite a Lei dedicate, concedette molte Indulgenze alle pratiche di pietà che a onore di Lei si fossero fatte. Valga per tutti un solo fatto per dimostrare la grande venerazione di questo Pontefice verso Maria Ausiliatrice. L’anno 1817 era compiuto un dipinto che doveva essere collocato in Roma nella chiesa di s. Maria in Monticelli diretta dai Sacerdoti della dottrina cristiana. All’11 maggio quel dipinto fu portato al Pontefice in Vaticano affinché lo benedicesse, e gli imponesse un titolo. Appena egli vide la devota immagine, provò sì grande emozione di cuore, che senza prevenzione alcuna, proruppe all’istante nel magnifico preconio: Maria Auxilium Christianorum, ora pro nobis. A queste voci del Santo Padre fecero eco i Figli devoti di Maria e nel primo scoprimento di quello (15 dello stesso mese) vi fu un vero trasporto di popolo, di gioia e di divozione. Le offerte, i voti e le fervorose preghiere hanno continuato fino al giorno presente. Così che si può dire che quella immagine è continuamente circondata dai devoti che domandano ed ottengono grazie per intercessione di Maria aiuto dei cristiani.
Capo XIV. Ritrovamento dell’immagine di Maria Auxilium Christianorum di Spoleto Nel raccontar la storia del ritrovamento della prodigiosa immagine di Maria Auxilium Christianorum nelle vicinanze di Spoleto noi trascriviamo letteralmente la relazione che n’ha fatto Monsignor Arnaldi Arcivescovo di quella città. Nella Parrocchia di s. Luca tra Castelrinaldi e Montefalco Archidiocesi di Spoleto nell’aperta campagna lungi dall’abitato e fuori di strada esisteva sul culmine di una piccola collina un’antica immagine di Maria SS. dipinta a fresco in una nicchia nell’atteggiamento di abbracciare il Bambino Gesù. Di fianco a questa appaiono pure alterate dal tempo quattro immagini rappresentanti i ss. Bartolomeo, Sebastiano, Biagio e Rocco. Esposte da lunga pezza all’intemperie hanno perduto non solo la loro vivacità, ma sono quasi interamente scomparse. La sola veneranda immagine di Maria e del Bambino Gesù si è conservata benissimo. Sussiste tuttora un avanzo di muro che fa vedere esservi esistita una chiesa. Del resto da oltre a memoria d’uomo era questo luogo totalmente dimenticato, ed era ridotto a covile di rettili e particolarmente di serpi. Già da vari mesi questa veneranda immagine aveva eccitato in qualche modo il suo culto per mezzo di una voce più volte udita da un fanciullo non ancora di cinque anni, nominato Enrico, chiamandolo per nome e col darglisi a vedere in maniera non bene espressa dal fanciullo medesimo. Tuttavia non attirò l’attenzione del pubblico se non ai 19 marzo dell’anno 1862. Un giovane contadino di quei dintorni dell’età di anni trenta aggravato successivamente da molti mali, divenuti cronici, abbandonato dai medici, sentissi inspirato di recarsi a venerare la suddetta immagine. Egli dichiarò che, dopo essersi raccomandato alla SS. Vergine in detto luogo, si senti tutto rinfrancato nelle perdute forze, ed in pochi giorni senza uso di alcun naturale rimedio è ritornato in perfetta sanità. Altre persone ugualmente, senza sapere spiegare il come ed il perché, hanno sentito un naturale impulso di recarsi a venerare questa santa immagine e ne riportarono segnalate grazie. Questi avvenimenti richiamarono a memoria e a discussione fra quei terrazzani la sopita voce del sopraccennato fanciullo, al quale non si era dato naturalmente, come si doveva, alcun credito ed importanza. Fu allora che in ordine al fanciullo medesimo si poté risapere come la madre nella circostanza della supposta apparizione lo avesse smarrito, né lo potesse trovare, e finalmente lo rinvenne da presso alta diroccata chiesolina. Si riseppe pure come una donna di buona vita tribolata da Dio con gravi afflizioni, nella sua morte avvenuta da un anno indietro, annunziasse che la Vergine SS. in quel luogo voleva riscuotere culto e venerazione, che si sarebbe costrutto un tempio e vi sarebbero accorsi in gran copia i fedeli. È vero in fatti che affollatissimo popolo non solo della Diocesi, ma delle altre circonvicine, Todi, Perugia, Fuligno, Nocera, Narni, Norcia ecc. vi accorre e cresce di giorno in giorno specialmente nei di festivi a cinque in sei migliaia. Questo è il più gran portento veramente segnalato, poiché non si vede l’eguale in altri scoprimenti prodigiosi. Il gran concorso dei fedeli che accorrono da tutte le parti quasi condotti da un lume e da una forza celeste, concorso spontaneo, concorso inesplicabile ed inesprimibile è il miracolo dei miracoli. Gli stessi nemici della Chiesa, gli stessi claudicanti nella fede sono costretti di confessare non potersi spiegare questo sacro entusiasmo dei popoli…. Molti sono gli infermi che diconsi risanati, non poche le prodigiose e singolari grazie largite, e quantunque bisogni procedere colla massima cautela per discernere le voci e i fatti, pure sembra indubitato che una civile donna giacesse afflitta da malattia mortale e risanò coll’invocazione a quella sacra immagine. Un giovinetto della Villa di s. Giacomo affranto nei piedi dalle ruote di un carro è costretto a reggersi colle stampelle; visitata la ss. effigie sentì tale miglioramento, che gettate le stampelle poté ritornare a casa senza di esse, ed è libero perfettamente. Così pure avvennero altre guarigioni. Non si deve ommettere che taluni increduli essendosi recati a visitare la ss. immagine dileggiandola, giunti al luogo, contro ogni loro idea si sono sentiti il bisogno di inginocchiarsi e pregare, e sono ritornati con tutt’altri sentimenti, parlando pubblicamente dei prodigi di Maria. Il cambiamento prodotto in queste persone corrotte di mente e di cuore ha prodotto una santa impressione nei popoli. (Fin qui Mons. Arnaldi). Questo Arcivescovo volle recarsi egli stesso con numeroso Clero e col suo Vicario al luogo della immagine per accertarsi della verità dei fatti, e vi trovò migliaia di devoti. Prescrisse il restauro dell’effigie alquanto fessa in varie parti, ed essendosi già raccolta fino d’allora in pie oblazioni là somma di seicento scudi, commise a valenti artisti il disegno di un tempio, instando perché se ne gettassero le fondamenta colla massima sollecitudine. Per promuovere viemaggiormente la gloria di Maria e la divozione dei fedeli a tanta Madre, dispose che si coprisse in modo provvisorio ma decente la nicchia ove si venera la taumaturga immagine e vi si ergesse un altare per celebrare la santa Messa. Queste disposizioni sono state d’indicibile consolazione ai fedeli, e d’allora in poi ogni giorno andò sempre crescendo il concorso d’ogni ceto di persone. La devota immagine non aveva alcun titolo proprio, e il pio Arcivescovo giudicò che fosse venerata sotto il nome di Auxilium Christianorum come parve più adatto all’attitudine che presentava. Provvide parimenti che si trovasse sempre un sacerdote in custodia del Santuario od almeno un qualche laico di conosciuta probità. La relazione di questo prelato finisce col racconto di un nuovo tratto della bontà di Maria operato dietro l’invocazione ai ’piedi questa immagine. “Una giovane di Acquaviva si trovava probanda in questo Monastero di s. Maria della Stella, ove doveva vestire l’abito di conversa. Un’affezione reumatica generale la invase per maniera che, paralizzate tutte le membra, fu costretta ritornare alla propria famiglia. “Per quanti rimedi si adoperassero dai provvidi genitori non si poté mai raggiungere la guarigione; e volgevano quattro anni da che giaceva sempre in letto, vittima di un cronicismo. All’udire le grazie di questa taumaturga effigie mostrò desiderio di esservi condotta sopra d’un carro; ed appena si trovo innanzi alla veneranda immagine conobbe un notabile miglioramento; di lì a poco si senti a prosciogliere le membra in modo che se ne tornò a piedi alla paterna casa. Altre grazie singolari si raccontano ottenute da persone di Fuligno. “La divozione verso Maria va sempre crescendo in maniera al mio cuore consolantissima. Sia sempre benedetto Iddio che nella sua misericordia si è degnato ravvivare la fede in tutta l’Umbria con la prodigiosa manifestazione della sua gran Madre Maria. Sia benedetta la Vergine Santissima che con questa manifestazione si è degnata segnalare a preferenza l’Archidiocesi di Spoleto. Sia benedetto Gesù e Maria che con questa misericordiosa manifestazione aprono il cuore dei cattolici a più viva speranza.
Spoleto, 17 maggio 1862.”
† GIOVANNI BATTISTA ARNALDI.
Così la veneranda immagine di Maria Ausiliatrice presso Spoleto dipinta nell’anno 1570, rimasta quasi tre secoli senza onore, è salita ai nostri tempi ad altissima gloria per le grazie che la Regina del cielo comparte in quel luogo ai suoi devoti: e quell’umile luogo è divenuto un vero santuario, dove concorre gente da tutte parti. I devoti e beneficati figli di Maria diedero segni di gratitudine con vistose oblazioni, cui mercè si poterono gettare le fondamenta di un maestoso tempio che giungerà quanto prima al termine desiderato.
Esposti così di volo alcuni dei molti fatti che confermano in generale quanto Maria protegga le armi dei cristiani quando combattono per la fede, passiamo ad altri più particolari che hanno dato motivo alla Chiesa di appellare Maria col glorioso titolo di Auxilium Christianorum. Principale tra essi è la battaglia di Lepanto. Alla metà del secolo XVI la nostra Penisola godette alquanto di pace quando una nuova insurrezione dalla parte di Oriente venne a mettere lo scompiglio fra i cristiani. I Turchi che da oltre cento anni si erano stabiliti a Costantinopoli vedevano con rincrescimento che i popoli d’Italia, e segnatamente i Veneziani, possedessero isole e città in mezzo al vasto loro impero. Cominciarono pertanto chiedere ai Veneziani l’isola di Cipro. La qual cosa essendo loro rifiutala, diedero mano alle armi e con un esercito di ottanta mila fanti, con tre mila cavalli e con formidabile artiglieria, guidati dallo stesso loro imperatore Selimo II, assediarono Nicosia e Famagosta che erano le città più forti dell’Isola. Queste città dopo eroica difesa caddero ambedue in potere dei nemici. I Veneziani allora ricorsero al Papa affinché volesse venire in loro soccorso per combattere ed abbassare l’orgoglio dei nemici del cristianesimo. Il Romano Pontefice, che allora era s. Pio V, nel timore che i Turchi se fossero riusciti vittoriosi avrebbero portato fra i cristiani desolazione e rovina, pensò di impegnare la potente intercessione di colei che santa Chiesa proclama terribile come un esercito ordinato a battaglia: Terribilis ut castrorum aeies ordinata. Ordinò pertanto pubbliche preghiere per tutta la cristianità: ricorse al re di Spagna Filippo II e al duca Emanuele Filiberto. Il re di Spagna messo in piedi un poderoso esercito lo affidò ad un fratello minore detto D. Gioanni d’Austria. Il duca di Savoia mandò di buon grado un numero scelto di prodi, i quali unitisi al rimanente delle forze italiane andarono a congiungersi cogli spagnoli presso a Messina. Lo scontro dell’esercito nemico ebbe luogo vicino a Lepanto città della Grecia. I cristiani assalgono ferocemente i Turchi; questi fanno gagliardissima resistenza. Ogni vascello volgendosi d’improvviso tra vortici di fiamme e di fumo pareva che vomitasse il fulmine da cento cannoni di cui era armato. La morte pigliava tutte le forme, gli alberi ed i cordami delle navi spezzati dalle palle cadevano sopra i combattenti e li stritolavano. Le grida strazianti dei feriti si frammischiavano al rumoreggiar dei flutti e dei cannoni. In mezzo al comune sconvolgimento Vernieri, condottiero dell’armata cristiana, si accorge che la confusione comincia entrare nelle navi turche. Subito egli fa mettere in ordine alcune galere basse e piene di artiglieri destrissimi, circonda i bastimenti nemici, e a colpi di cannone li squarcia e li fulmina. In quel momento crescendo la confusione fra i nemici si eccita grande entusiasmo fra i cristiani e da tutte le parti si leva un grido di vittoria! vittoria! e la vittoria è con loro. Le navi turche fuggono verso terra, i Veneziani le inseguono e le fracassano; non è più battaglia, è un macello. Il mare è sparso di vesti, di tele, di frantumi di navi, di sangue e di corpi sbranati; trenta mila turchi sono morti; duecento delle loro galere vengono in potere dei cristiani. La notizia della vittoria recò nei paesi cristiani una gioia universale. Il senato di Genova e di Venezia decretarono che il dì 7 ottobre fosse giorno solenne e festivo in perpetuo perché in cotal giorno nell’anno 1571 era succeduta quella grande battaglia. Fra le preghiere che il santo Pontefice aveva ordinato pel giorno di quella grande battaglia fu il Rosario, e nell’ora stessa che si compieva quell’avvenimento, lo recitava egli stesso con una schiera di fedeli con lui raccolti. In quel momento gli apparve la santa Vergine rivelandogli il trionfo delle navi cristiane, il quale trionfo s. Pio V annunziò tosto per Roma prima che alcuno avesse in altra guisa potuto portare quella notizia. Allora il santo Pontefice in riconoscenza a Maria, al cui patrocinio attribuiva la gloria di quella giornata, ordinò che nelle Litanie Lauretane si aggiungesse la giaculatoria: Maria Auxilium Christianorum, ora pro nobis. Maria aiuto dei cristiani, pregate per noi. Il medesimo Pontefice, affinché fosse perpetua la memoria di quel prodigioso avvenimento, istituì la solennità del SS. Rosario da celebrarsi ogni anno la prima domenica di ottobre.
Capo X. La liberazione di Vienna
L’anno 1683 i Turchi per vendicare la sconfitta di Lepanto formarono il disegno di portare le loro armi al di là del Danubio e del Reno, minacciando così tutta la cristianità. Con un esercito di ducento mila uomini, avanzandosi a marcie forzale, vennero a porre l’assedio davanti alle mura di Vienna. Il Sommo Pontefice, che allora era Innocenzo XI, pensò di fare ricorso ai principi cristiani eccitandoli a venire in soccorso della cristianità minacciata. Pochi peraltro risposero all’invito del Pontefice: per la qual cosa egli ad esempio del suo antecessore Pio V deliberò di porsi sotto alla protezione di colei che la Chiesa proclama terribilis ut castrorum acies ordinata. Pregava egli, ed aveva invitati i fedeli di tutto il mondo a pregare con lui. Intanto a Vienna la costernazione era generale, il popolo temendo di cadere nelle mani degli infedeli usciva dalla città, ed ogni cosa abbandonava. L’imperatore non avendo forze da opporre abbandonò la sua capitale. Il principe Carlo di Lorena, che a stento aveva potuto raccogliere trenta mila tedeschi, era riuscito di entrare in città per tentarne in qualche modo la difesa. I borghi vicini furono incendiati. Il 14 di agosto i Turchi aprirono le loro trincee dalla porta principale, ed ivi si accamparono malgrado il fuoco degli assediati. Stringendo poi di assedio tutte le mura della città, appiccarono il fuoco e misero in fiamme parecchi pubblici e privati edifizi. Un caso doloroso aumentò il coraggio dei nemici e diminuì quello degli assediati. Appiccossi il fuoco alla chiesa degli Scozzesi, consumò quel superbo edifizio, e giungendo all’arsenale, dove erano le polveri e le munizioni, stava per aprire la città ai nemici se per una protezione specialissima di Maria Santissima, nel giorno della sua gloriosa Assunzione, il fuoco non si fosse spento, dando così tempo a mettere in salvo le munizioni militari. Quella sensibile protezione della Madre di Dio riaccese il coraggio dei soldati e degli abitanti. Al ventidue dello stesso mese i Turchi tentarono di abbattere altri edifici lanciando gran quantità di palle e di bombe, con cui fecero grandissimo guasto, ma non poterono impedire gli abitanti di implorare giorno e notte i soccorsi del cielo nelle chiese, né i predicatori di esortarli a riporre, dopo Dio, tutta la loro fiducia in quella che loro aveva tante volte dato potente aiuto. Il 31 gli assedianti spinsero i lavori a segno, che i soldati delle due parti si battevano corpo a corpo. La città era un mucchio di rovine, quando il giorno della natività di Maria V. i cristiani raddoppiando le loro preghiere ricevettero come per miracolo avviso di vicino soccorso. Infatti l’indomani, secondo giorno dell’ottava della Natività, videro la montagna, che sta dirimpetto alla città, tutta coperta di truppe. Era Gioanni Sobieschi re di Polonia, che quasi solo fra i principi cristiani, cedendo all’invito del Pontefice, veniva coi suoi prodi in soccorso. Persuaso che col piccolo numero dei suoi soldati gli sarebbe stata impossibile la vittoria, ricorse egli pure a colei che è formidabile in mezzo ai più ordinati ed agguerriti eserciti. Il 12 di settembre si portò in chiesa col principe Carlo, ed ivi udirono la santa messa, che egli stesso volle servire tenendo le braccia distese in forma di croce. Dopo essersi comunicato, ed aver ricevuto la santa benedizione per sé e per tutto il suo esercito, quel principe si levò, e disse ad alta voce: Soldati, per la gloria della Polonia, per la liberazione di Vienna, per la salute di tutta la cristianità, sotto alla protezione di Maria noi possiamo con sicurezza marciare contro ai nemici e nostra sarà la vittoria. L’esercito cristiano discendendo allora dalle montagne avanzossi verso il campo dei Turchi, i quali dopo aver combattuto per qualche tempo si ritirarono dall’altra parte del Danubio con tanta precipitazione e confusione, che lasciarono nel campo lo stendardo ottomano, circa cento mila uomini, la maggior parte dei loro equipaggi, tutte le loro munizioni da guerra, con cento ottanta pezzi di artiglieria. Non fuvvi mai vittoria più gloriosa e che abbia costato tanto poco sangue ai vincitori. Si vedevano i soldati carichi di bottino entrare nella città, cacciandosi davanti molte greggi di buoi, che i nemici avevano abbandonato. L’imperatore Leopoldo, udita la disfatta dei Turchi, tornò a Vienna in quello stesso giorno, fece cantare un Te Deum colla più grande solennità, e riconoscendo poi che una vittoria così inaspettata era totalmente dovuta alla protezione di Maria, fece portare nella chiesa maggiore lo stendardo che si era trovato nella tenda del Gran Visir. Quello di Maometto, più ricco ancora, e che si inalberava in mezzo del campo, fu mandato a Roma e presentato al Papa. Quel santo Pontefice egli pure intimamente persuaso che la gloria di quel trionfo fosse tutta dovuta alla grande Madre di Dio, e desideroso di perpetuare la memoria di quel benefizio, ordinò che la festa del SS. Nome di Maria, già da qualche tempo praticata in alcuni paesi, fosse per l’avvenire celebrata in tutta la Chiesa nella domenica che si trova fra l’ottava della sua Natività.
Capo XI. Associazione di Maria Ausiliatrice in Monaco
La vittoria di Vienna accrebbe maravigliosamente nei fedeli la divozione verso Maria e diede occasione ad una pia società di devoti sotto il titolo di Confraternita di Maria Ausiliatrice. Un padre Cappuccino che con gran zelo predicava nella chiesa parochiale di s. Pietro a Monaco di Baviera, con fervorose e commoventi espressioni esortava i fedeli a mettersi essi pure sotto la protezione di Maria Ausiliatrice, e ad implorare il patrocinio di lei contro ai Turchi che da Vienna minacciavano di invadere la Baviera. La divozione alla SS. Vergine Ausiliatrice si accrebbe talmente che i fedeli vollero continuarla anche dopo la vittoria di Vienna sebbene i nemici fossero già stati costretti ad allontanarsi dalla loro città. Fu allora che per eternare la memoria del gran benefizio ottenuto dalla Santa Vergine venne istituita una Confraternita sotto il titolo di Maria Ausiliatrice. Il duca di Baviera, che aveva avuto il comando d’una parte dell’esercito cristiano, mentre il re di Polonia ed il duca di Lorena comandavano il rimanente della milizia, per secondare quanto si era fatto nella sua capitale, chiese al sommo Pontefice Innocenzo XI l’erezione della suddetta Confraternita. Di buon grado il Papa accondiscese e accordò l’implorata istituzione con una Bolla in data del 18 agosto 1684, arricchendola d’indulgenze. Così addì 8 settembre dell’anno successivo, mentre quel principe stringeva d’assedio la città di Buda, s’instituì per suo ordine con gran solennità nella chiesa di s. Pietro a Monaco l’anzidetta Confraternita. D’allora in poi i confratelli di quella Associazione, uniti di cuore nell’amore di Gesù e di Maria, si radunano a Monaco ed offrono a vicenda preghiere e sacrifizi a Dio per implorare la infinita sua misericordia. Mercè la protezione della Vergine SS. questa Confraternita si è diffusa rapidamente, sicchè i più grandi personaggi furono solleciti di farvisi inscrivere per assicurarsi l’assistenza di questa grande Regina de’cieli nei pericoli della vita e specialmente in punto di morte. Imperatori, re, regine, prelati, sacerdoti, ed un’infinità di popolo di tutte parti di Europa reputano tuttora a grande ventura l’esservi inscritti. I Papi concedettero molte indulgenze a chi è in quella Confraternita. I sacerdoti che sono aggregati possono aggregare gli altri. Migliaia di Messe e di Rosari si recitano durante la vita e dopo la morte per quelli che ne sono membri.
Capo XII. Convenienza della festa di Maria Ausiliatrice
I fatti che abbiamo finora esposti in onore di Maria aiuto dei cristiani fanno chiaramente conoscere quanto Maria gradisca di essere invocata sotto a questo titolo. La Chiesa cattolica ogni cosa osservava, esaminava, approvava guidando ella stessa le pratiche dei fedeli, affinché nè il tempo nè la malizia degli uomini travisassero il vero spirito di divozione. Richiamiamo qui quanto abbiamo sparsamente detto intorno alle glorie di Maria aiuto dei cristiani. Nei libri santi è simboleggiata nell’arca di Noè, che salva dall’universale diluvio i seguaci del vero Dio nella scala di Giacobbe che si solleva fino al cielo; nel roveto ardente di Mosè; nell’arca dell’alleanza; nella torre di Davide, che difende da ogni assalto; nella rosa di Gerico; nella fontana sigillata; nell’orto ben coltivato e custodito di Salomone; è figurata in un acquedotto di benedizioni; nel vello di Gedeone. Altrove è chiamata stella di Giacobbe, bella come la luna, eletta come il sole, iride di pace; pupilla dell’occhio di Dio; aurora portatrice di consolazioni, Vergine e Madre e Genitrice del suo Signore. Questi simboli ed espressioni che la Chiesa applica a Maria, fanno manifesti i disegni provvidenzali di Dio che voleva farcela conoscere prima della sua nascita come la primogenita fra tutte le creature, la più eccellente protettrice, aiuto e sostegno del genere umano. Nel nuovo Testamento poi cessano le figure e le espressioni simboliche; tutto è realtà ed avveramento del passato. Maria è salutata dall’arcangelo Gabriele che la chiama piena di grazia; rimira Iddio la grande umiltà di Maria e la solleva alla dignità di Madre del Verbo Eterno. Gesù Dio immenso diventa figliuolo di Maria; da lei nasce, da lei è educato, assistito. E il Verbo Eterno fatto carne sottomettesi in tutto all’ubbidienza dell’augusta sua Genitrice. A richiesta di lei Gesù opera il primo de’suoi miracoli in Cana di Galilea; sul Calvario è costituita di fatto Madre comune dei cristiani. Gli Apostoli se la fanno guida e maestra di virtù. Con lei si raccolgono a pregare nel cenacolo; con lei attendono all’orazione, e in fine ricevono lo Spirito Santo. Agli Apostoli dirige le sue ultime parole e se ne vola gloriosa al Cielo. Dall’altissimo suo seggio di gloria va dicendo: Ego in altissimis habito ut ditem diligentes me et thesauros corum repleam. Io abito il più alto trono di gloria per arricchire di benedizioni quelli che mi amano e per riempiere i loro tesori di celesti favori. Onde dalla sua Assunzione al cielo cominciò il costante e non mai interrotto concorso de’cristiani a Maria, nè mai si udì, dice s. Bernardo, che alcuno abbia con fiducia fatto ricorso a lei che non sia stato esaudito. Di qui si ha la ragione per cui ogni secolo, ogni anno, ogni giorno e possiamo dire ogni momento è segnalato nella storia da qualche gran favore concesso a chi con fede l’ha invocata. Di qui pure si ha la ragione per cui ogni regno, ogni città, ogni paese, ogni famiglia ha una chiesa, una cappella, un altare, una immagine, un dipinto o qualche segno che ricorda una grazia concessa a chi fece a lei ricorso nelle necessità della vita. I fatti gloriosi contro i Nestoriani e contro agli Albigei; le parole da Maria dette a s. Domenico allora che gli raccomandava la predicazione del Rosario, che la stessa Beata Vergine nominò magnum in Ecclesia praesidium; la vittoria di Lepanto, di Vienna, di Buda, la Confraternita di Monaco, quella di Roma, di Torino e molte altre erette in vari paesi della cristianità, fanno abbastanza conoscere quanto sia antica e diffusa la divozione a Maria Ausiliatrice, quanto questo titolo torni a lei gradito e quanto vantaggio arrechi ai popoli cristiani. Sicchè poteva ben con ragione Maria profferire le parole che le mette in bocca lo Spirito Santo: In omni gente primatum habui. Sono riconosciuta padrona presso a tutte le nazioni. Questi fatti cotanto gloriosi alla Santa Vergine facevano desiderare l’intervento espresso della Chiesa a dare il limite e il modo con cui Maria potesse invocarsi col titolo di aiuto dei cristiani, e la Chiesa era già in certo modo intervenuta coll’approvazione delle confraternite, delle preghiere e di molte pratiche di pietà cui sono annesse le sante indulgenze, e che per tutto il mondo proclamano Maria Auxilium Christianorum. Una cosa mancava ancora ed era un giorno dell’anno stabilito per onorare il titolo di Maria Ausiliatrice, che è quanto dire, una festa con rito, Messa, Officio dalla Chiesa approvato, e si fissasse il giorno di tale solennità. Affinché i Pontefici si determinassero a questa importante istituzione ci voleva qualche fatto straordinario che non tardò molto a farsi manifesto agli uomini.
Capo VII. Maria favorisce chi lavora per la fede; mentre Dio punisce chi oltraggia la Santa Vergine. Vi fu un tempo in cui, gl’imperatori di Costantinopoli mossero una violenta persecuzione contro ai cattolici perché veneravano le sacre immagini. Tra questi fu Leone Isaurico. Costui per abolirne affatto il culto uccideva ed imprigionava chiunque fosse denunziato di aver dato segno di venerazione alle immagini od alle reliquie dei Santi e specialmente della Beata Vergine. Per ingannar poi il semplice popolo fece chiamare alcuni vescovi ed abati e a forza di danaro e di promesse li indusse a stabilire che non si dovessero venerare le immagini di Gesù crocifisso, nè della Vergine né dei Santi. Ma in quei tempi viveva il dotto e celebre s. Giovanni Damasceno. Per combattere gli eretici ed anche per dare un antiveleno in mano ai cattolici, Giovanni scrisse tre libri nei quali difendeva il culto delle sante immagini. Gl’Iconoclasti (così si chiamavano quegli eretici perché sprezzavano le sacre immagini) furono grandemente offesi da tali scritti, perciò l’accusarono di tradimento presso il principe. Essi dicevano che aveva mandate lettere sottoscritte di sua mano per far rompere l’alleanza che esso aveva con principi stranieri, e che coi suoi scritti perturbava la pubblica tranquillità. Il credulo imperatore incominciò a sospettare del santo, e quantunque fosse innocente, lo condannò al taglio della mano destra. Ma questa perfidia ebbe un esito molto più felice di quello che egli non si aspettava, poiché la Madonna SS. volle rimunerare il suo servo dello zelo avuto verso di Lei. Come si fece sera s. Giovanni si prostra avanti l’immagine della Madre di Dio, e sospirando pregò gran parte della notte e diceva: O Vergine SS. pel zelo verso Voi e le sante immagini mi fu tagliata la destra, accorrete dunque in mio soccorso e fate che possa continuare a scrivere le vostre lodi e quelle del vostro figliuolo Gesù. Così dicendo si addormentò. In sogno vide l’immagine della madre di Dio che lo guardava lietamente e gli diceva: Ecco, la tua mano è guarita. Su adunque levati e scrivi le mie glorie. Svegliatosi trovò effettivamente la mano guarita attaccata al braccio. Sparsa la notizia di sì grande miracolo ognuno lodava e glorificava la B. Vergine che rimunera tanto largamente i suoi devoti che patiscono per la fede. Ma alcuni nemici di Cristo vollero sostenere che la mano non si era tagliala a lui, ma ad un suo servo, e dicevano: non vedete che Giovanni sta in casa sua cantando e sollazzandosi come se si celebrasse un festino da nozze? Fu adunque nuovamente arrestato Giovanni e condotto al principe. Ma qui un nuovo prodigio. Mostrando la destra si vedeva in essa come una linea rilucente che dimostrò verissima l’amputazione. Stupito il principe a questo prodigio, gli domandò qual medico gli avesse resa la sanità, e qual medicina avesse adoperata. Egli allora ad alta voce narrò il miracolo. È il mio Dio, dice, medico onnipotente che mi restituì la sanità. Il principe allora si mostrò pentito del male operato, e lo voleva innalzare a grandi dignità. Senonché il Damasceno avverso alle umane grandezze amò meglio la vita privata, e finché visse impiegò il suo ingegno a scrivere e a pubblicare la potenza dell’augusta Madre del Salvatore (V. Gio. Patriarca di Ger. Baronio all’anno 727). Se Dio spesse volte concede grazie straordinarie a chi promuove le glorie dell’augusta sua Genitrice, non di rado però punisce terribilmente anche nella vita presente coloro che sprezzano Lei o le sue immagini. Costantino Copronimo, figliuolo di Leone Isaurico salì al trono paterno al tempo del sommo Pontefice s. Zaccaria (741-75). Costui seguendo le empietà di suo padre proibì di invocare i santi, di onorare le reliquie, e di implorarne l’intercessione. Profanava le chiese, distruggeva i monasteri, perseguitava ed imprigionava i monaci, invocava con notturni sacrifizi l’aiuto degli stessi demonii. Ma il suo odio era specialmente rivolto contro la Santa Vergine. Per confermare quanto diceva era solito di prendere in mano una borsa piena di monete d’oro, e la mostrava ai circostanti dicendo: Quanto vale questa borsa? Molto, dicevan quelli. Gettatone poi l’oro, nuovamente domandava di qual prezzo fosse la borsa. Rispondendo essi che niente valeva, così tosto ripigliava quell’empio, cosi è della Madre di Dio; per quel tempo, che aveva Cristo in sè, era grandemente da onorarsi, ma dal punto che lo diede in luce niente più differisce dalle altre donne. Queste enormi bestemmie meritavano certamente un esemplare castigo che Dio non tardò a mandare all’empio bestemmiatore. Costantino Copronimo venne punito con vergognose infermità, con ulceri che si cangiarono in pustole infuocate, che gli facevano mandare alte grida, mentre un’ardentissima febbre lo divorava. Così smaniando e gridando come se fosse arso vivo, mandò l’ultimo respiro. Il figlio seguì le pedate del padre. Egli si compiaceva molto delle gemme e dei diamanti e vedendone le molte e belle corone che l’imperatore Maurizio aveva dedicate alla Madre di Dio ad ornamento della chiesa di santa Sofia in Costantinopoli, le fece prendere e se le pose sul capo e lo porto nel proprio palazzo. Ma sull’istante la sua fronte fu coperta da pestiferi carbonchi che di quel medesimo giorno trassero a morte colui che osò sporgere la sacrilega mano contro l’ornamento del vergineo capo di Maria (V. Teofane e Niceforo contemporanei. Baronio an. 767).
Capo VIII. Maria protettrice degli eserciti che combattono per la fede. Ora diamo un rapido cenno sopra alcuni fatti che riguardano alla speciale protezione che la santa Vergine ha costantemente prestato agli eserciti che combattono per la fede. Giustiniano imperatore ricuperò l’Italia oppressa da sessant’anni dai Goti. Narsete suo generale era avvisato da Maria quando doveva scendere in campo e non prendeva mai le armi senza i cenni di lei. (Procopio, Evagrio, Niceforo, e Paolo Diacono. Baronio all’anno 553). Eraclio imperatore riportò una gloriosa vittoria contro i Persiani e s’impadronì delle ricche loro spoglie, riferendo il prospero esito delle sue armi alla Madre di Dio cui si era raccomandato. (Ist. Greca art. 626). Lo stesso Imperatore l’anno dopo trionfò ancora dei Persiani. Una grandine spaventosa lanciata nel campo dei nemici li scompigliò e li mise in fuga. (Ist. Greca). La città di Costantinopoli venne un’altra volta liberata dai Persiani in una maniera affatto prodigiosa. Mentre durava l’assedio videro i Barbari sul far del mattino una nobile matrona scortata da un corteggio di Eunuchi uscire dalla porta della città. Credendo essi che fosse la moglie dell’Imperatore e si recasse dal marito per implorar la pace le lasciarono libero il passo. Come poi la videro recarsi dall’Imperatore le tennero dietro fino ad un luogo detto del vecchio sasso, dove scomparve dai loro occhi. Allora si suscito fra loro un tumulto, si batterono a vicenda e fu così terribile la strage che il loro generale fu costretto a levar l’assedio. Si crede che quella matrona fosse la Beatissima Vergine. (Baronio). L’immagine di Maria portata processionalmente intorno le mura di Costantinopoli liberò questa città dai Mori che la tenevano da tre anni assediata. Già il condottiero nemico disperando di vincere domandò per favore di poter entrare a veder la città promettendo di non osarvi alcuna violenza. Mentre i suoi soldati entravano senza difficoltà, giunto il suo cavallo alla porta detta del Bosforo, non fu verso di farlo andare avanti. Allora il barbaro guardando in su vide sulla porta l’immagine della Vergine che egli aveva poco prima bestemmiato. Rimosse allora il passo e prese il cammino verso il mare Egeo dove fece naufragio. (Baronio anno 718). Lo stesso anno i Saraceni portarono le armi contro Pelagio Principe degli Asturi. Questo pio generale ricorse a Maria ed i dardi e le saette lanciate contro di lui si ritorcevano contro i nemici della fede. Ventimila Saraceni rimasero estinti, e sessanta mila perirono sommersi nelle acque. Pelagio insieme coi pochi suoi si era rifugiato in una spelonca. Riconoscente poscia a Maria della vittoria riportata fece edificare in quella spelonca un tempio alla beatissima Vergine. (Baronio). Andrea generale di Basilio Imperatore di Costantinopoli sconfisse i Saraceni l’anno 867. Il nemico aveva in questo conflitto insultato a Maria scrivendo ad Andrea: Vedrò ora se il figliuol di Maria e sua Madre ti potranno salvare dalle mie armi. Il pio generale prese l’insolente scritto, lo appese all’immagine di Maria dicendo: Vedi, o Madre di Dio: vedi, o Gesù, quali insolenze pronunci contro il tuo popolo questo barbaro arrogante. Ciò fatto sale in arcione ed intimata la zuffa mena di tutti i suoi nemici sanguinosissima strage. (Curopalate ann. 867). L’anno 1185 il sommo Pontefice Urbano II mise le armi dei Crociati sotto gli auspici di Maria, e Goffredo Buglione alla testa dell’esercito cattolico liberava i luoghi santi dal dominio degli infedeli. Alfonso VIII re di Castiglia ottenne sopra i Mori una gloriosa vittoria portando nel campo di battaglia l’immagine di Maria sui vessilli. Duecento mila Mori rimasero in campo. A perpetuare la memoria di questo fatto la Spagna celebrò ogni anno al giorno 16 luglio la festa della santa Croce. Lo stendardo poi su cui era impressa l’immagine di Maria, che aveva trionfato dei nemici, si conserva tuttora nella chiesa di Toledo. (Ant. de Balimghera). Alfonso IX re di Spagna sconfisse pure col soccorso di Maria duecento mila Saraceni. (Idem die XXI junii). Giacomo I re di Aragona strappò dai Mori tre nobilissimi regni e sconfisse dieci mila dei loro. Riconoscente di questa vittoria innalzò vari templi a Maria. (Idem die XXI julii). I Carnotesi assediati nella loro città da una banda di corsari esposero sopra di un’asta a modo di vessillo una parte della veste di Maria che Carlo Calvo aveva portato da Costantinopoli. I barbari avendo lanciato contro questa reliquia i loro dardi rimasero ciechi d’improvviso, nè poterono più fuggire. Di che avvedutisi i devoti Carnotesi presero le armi e ne fecero strage. Carlo VII re di Francia ridotto alle strette dagli Inglesi ebbe ricorso a Maria, e non solo poté in più battaglie sconfiggerli, ma liberò ancora una città dall’assedio e ne ridusse molte altre sotto il proprio dominio. (Lo stesso al giorno 22 luglio). Filippo il Bello Re di Francia sorpreso dai nemici e abbandonato dai suoi ricorre a Maria e si trova incontanente circondato da una prodigiosa schiera di guerrieri pronti a combattere in sua difesa. In breve trentasei mila nemici sono atterrati, gli altri si arrendono prigionieri o si danno alla fuga. Riconoscente di tanto trionfo a Maria, le innalzò un tempio e quivi appese tutte le armi di cui si era servito in quel conflitto. (Idem XVII aug.). Filippo Valesio re di Francia sconfisse con un pugno d’uomini venti mila nemici. Reduce trionfante in quello stesso giorno in Parigi si recò tosto alla cattedrale dedicala alla Vergine. Quivi offerse alla sua generosa Ausiliatrice il suo cavallo e le regie sue armi. (Idem XXIII aug.). Giovanni Zemisca imperatore dei Greci sbaragliò i Bulgari, Russi, Sciti ed altri barbari, i quali insieme collegati in numero di trecento trenta mila minacciavano l’impero di Costantinopoli. La Beatissima Vergine vi mandò il martire s. Teodoro, il quale comparso sopra un bianco cavallo ruppe le file nemiche; onde Zemisca edificò un tempio in onore di s. Teodoro e fece portare in trionfo l’immagine di Maria. (Curopalate). Giovanni Comneno aiutato dalla protezione di Maria vinse un’orda di Sciti ed in memoria del fatto ordinò una pubblica festa in cui l’immagine della Madre di Dio venne portata trionfalmente sopra d’un carro trapuntato di argento e di preziosissime gemme. Quattro cavalli bianchissimi guidati dai Principi e famigliari dell’Imperatore traevano il carro; l’Imperatore camminava a piedi portando la croce. (Niceta nei suoi Annali). I cittadini di Ipri assediati dagli Inglesi e ridotti agli estremi ricorsero colle lacrime all’aiuto della Madre di Dio, e Maria apparsa visibilmente li consolò e pose in fuga i nemici. Il fatto avvenne nel 1383 e gli Ipresi celebrano ogni anno la memoria della loro liberazione con una festa religiosa la prima domenica di agosto. (Maffeo lib. 18, Cronaca Univers.). Simone conte di Monforte con ottocento cavalieri e mille pedoni sconfisse presso Tolosa cento mila Albigesi. (Bzovio Annali anno 1213). Vladislao re di Polonia poste le sue armi sotto la protezione della Vergine sconfisse cinquanta mila Teutoni e prese le loro spoglie le portò in trofeo al sepolcro del martire s. Stanislao. Martino Cromero nella sua storia di Polonia racconta che questo santo martire fu veduto, finché durò la battaglia, vestito di abiti pontificali in atto di animare i Polacchi e di minacciare i nemici. Credesi che questo santo vescovo fosse stato mandato dalla Vergine in aiuto ai Polacchi, i quali prima della pugna si erano raccomandati a Maria. Nell’anno 1546 i Portoghesi assediati da Mamudio re delle Indie invocarono il soccorso di Maria. Contava il nemico oltre sessanta mila uomini peritissimi nella guerra. Durava da sette mesi l’assedio e già si trattava della resa, quando un’improvvisa costernazione invase i nemici. Una nobile matrona circondata di celeste splendore erasi mostrata sopra una chiesuola della città, e faceva sfolgorare tanta luce sugl’Indiani, che non potendosi più distinguere fra loro si diedero a precipitosa fuga. (Maffeo lib. 3 Stor. delle Indie). L’anno 1480 pugnando i Turchi contro la città di Rodi erano già riusciti a piantare i loro vessilli sulle mura, quando apparve la beata Vergine armata di scudo e di lancia col precursore s. Gio. Battista e con una schiera di guerrieri celesti armati. Allora si scompigliarono i nemici e si trucidarono a vicenda. (Giacomo Bosso St. dei cav. di Rodi). Massimiliano duca di Baviera ridusse al dovere un’orda di ribelli eretici Austriaci e Boemi. Sul vessillo del suo esercito aveva fatto imprimere l’effigie della Vergine colle parole: Da mihi virtutem contro hostes tuos. Dammi forza contro ai tuoi nemici. (Jeremias Danelius. Trimegisti cristiani lib. 2 cap. 4, § 4). Arturo re d’Inghilterra portando l’immagine di Maria sul suo scudo si rese invulnerabile nelle battaglie; ed il Principe Eugenio col nostro Duca Vittorio Amedeo, i quali la portavano sullo scudo e sul petto, vinsero con un pugno di prodi l’esercito francese forte di 80 mila uomini sotto Torino. La maestosa Basilica di Superga fu innalzata dal suddetto Duca poi Re Vittorio Amedeo in segno di gratitudine per questa vittoria.
Capo V. Divozione dei cristiani primitivi alla Santa Vergine Maria. Dagli stessi fedeli della Chiesa primitiva si faceva un costante ricorso a Maria come potente aiuto dei cristiani. Ciò è dimostrato in modo particolare dalla generale commozione cagionata dalla notizia di sua vicina partenza dal mondo. Non solo quei di Gerusalemme ma i fedeli ancora dei dintorni della città si affollarono intorno alla povera casa di Maria, bramosi di contemplare ancora una volta quel volto benedetto. Commossa Maria nel vedersi circondata da tanti figliuoli che le dimostravano colle lagrime l’amore che le portavano e il dolore che sentivano nel doversi separare da lei fece loro le più calde promesse; che li avrebbe assistiti dal cielo, che in cielo alla destra del suo divin Figliuolo avrebbe avuto maggior potere ed autorità e tutto avrebbe adoperato in benefizio degli uomini. Ecco come s. Giovanni Damasceno racconta questo meraviglioso avvenimento: Al tempo della gloriosa dormizione della Beata Vergine, tutti i santi Apostoli, i quali percorrevano l’orbe della terra per la salvezza delle nazioni furono in un momento trasportati in Gerusalemme. Quivi giunti apparve loro una visione d’angeli e si fece sentire una soave armonia di podestà celesti, e così Maria circondata di gloria divina rese l’anima santa nelle mani di Dio. Quindi il suo corpo trasportato col canto degli Angeli e degli Apostoli, fu posto in un feretro e portato a Getsemani, nel qual luogo il canto degli Angeli si fece sentire per tre giorni continui. Dopo tre giorni il canto angelico cessò. S. Tommaso, che non erasi trovato cogli altri Apostoli alla morte di Maria, giunse al terzo giorno e avendo manifestato vivissimo desiderio di venerare quel corpo che era stato l’abitazione di un Dio, gli Apostoli che là ancor si trovavano, apersero il sepolcro, ma in nessuna parte il sacro corpo di lei poterono rinvenire. Avendo però trovato i pannilini in cui era stato avvolto, i quali esalavano un odore soavissimo, chiusero il tumulo. Sommamente meravigliati di quel miracolo questo solo poterono conchiudere, che Colui, a cui era piaciuto di prender carne da Maria Vergine, farsi uomo e nascere quantunque fosse Dio, il Verbo ed il Signore della gloria e che dopo il parto serbò intatta la verginità di lei, abbia pure voluto che il corpo immacolato di essa dopo la morte, conservatolo incorrotto, fosse onorato colla traslazione al cielo prima della risurrezione comune ed universale (fin qui s. Giovanni Damasceno). Un’esperienza di diciotto secoli ci fa vedere in modo luminosissimo che Maria ha continuato dal cielo e col più gran successo la missione di madre della Chiesa ed ausiliatrice dei cristiani che aveva incominciato sulla terra. Le grazie innumerevoli ottenute dopo la sua morte fecero propagare colla massima celerità il suo culto di modo che anche in quei primi tempi di persecuzione, dovunque sorgeva il segno della Religione Cattolica, ivi pure si scorgeva l’immagine di Maria. Anzi fin dai giorni in cui viveva ancora Maria si trovarono già molti devoti di lei che si raccolsero sul monte Carmelo e colà convivendo in comunità si erano dedicati in tutto e per tutto a Maria. Non dispiaccia al devoto lettore che riferiamo questo fatto quale si trova narrato nell’uffizio di s. Chiesa sotto al giorno 16 luglio, festa della Beata Vergine del monte Carmelo. Nel sacro giorno della Pentecoste essendo stati riempiuti dello Spirito Santo gli Apostoli, molti fervorosi fedeli (viri plurimi) si erano dati a seguire gli esempi dei santi profeti Elia ed Eliseo, e alla predicazione di Giovanni Battista si erano preparati alla venuta del Messia. Dopo aver vedute verificate le predizioni che avevano dal gran Precursore udite eglino abbracciarono subito la fede evangelica. Presi poi da speciale affetto verso la Beatissima Vergine, mentre essa tuttora viveva, presero ad onorarla talmente che sul monte Carmelo, dove Elia aveva veduto ascendere quella nuvoletta, che fu un’insigne figura di Maria, costruissero alla medesima Vergine un piccolo santuario. Quivi radunandosi essi tutti i giorni con pii riti, preghiere e lodi la veneravano come singolare protettrice dell’Ordine. Per la qual cosa cominciarono qua e colà a chiamarsi i fratelli della beata Vergine del monte Carmelo. In progresso di tempo i sommi pontefici non solo confermarono questo titolo, ma concessero eziandio speciali indulgenze. Maria poi diede, ella stessa la denominazione, accordò la sua assistenza a questo istituto, stabili per loro divisa un sacro scapolare, che diede al beato Simone Stock inglese affinché con quest’abitino celeste si distinguesse quel sacro ordine e venisse protetto da ogni male chi lo portasse. Appena poi gli Apostoli vennero nelle nostre contrade a portar la luce del Vangelo, non tardò la divozione di Maria a germogliare in Occidente. Quelli che visitano le catacombe di Roma, e ne siamo testimoni oculari, trovano tuttora in quei sotterranei antiche immagini che rappresentano o lo sposalizio di Maria con s. Giuseppe, o l’assunzione di Maria al cielo, ed altre esprimono la Madre di Dio col bambino in braccio. Un rinomato scrittore dice, che “nei primi tempi della Chiesa si ebbe per man dei cristiani un tipo della Vergine nel modo più soddisfacente che comportar poteva la condizione dell’arte a quei tempi. Il sentimento della modestia che splendeva, al dir di s. Ambrogio[1], in queste immagini della Vergine, prova che in difetto d’una effigie reale della Madre di Dio l’arte cristiana saputo aveva riprodurre in essa le sembianze dell’anima sua, quella fisica bellezza simbolo della perfezione morale che far non si poteva di non attribuire alla Vergine divina. Questo carattere pure si trova per quanto l’inettitudine degli artefici e la mediocrità del lavoro il comportano in certe pitture delle catacombe, nelle quali la Vergine è dipinta a sedere con Gesù Bambino sulle ginocchia, ora in piedi ed ora in mezza figura sempre in guisa che sembra conforme ad un tipo ieratico[2].” “Nelle catacombe di sant’Agnese, scrive il Ventura, fuori la Porta Pia, in cui si vedono non solo sepolcri, ma oratorii ancora dei cristiani del secondo secolo ripieni di immense ricchezze d’archeologia cristiana e di memorie preziosissime del primitivo cristianesimo, si trovano in gran copia immagini di Maria col divino Infante nelle sue braccia che attestano la fede dell’antica Chiesa intorno alla necessità della mediazione di Maria per ottenere grazie da Gesù Cristo, ed intorno al culto delle sacre immagini che l’eresia ha tentato di distruggere, tacciandole di novità superstiziosa[3].”
Capo VI. La B. Vergine spiega a s. Gregorio i misteri della fede. – Castigo di Nestorio Sebbene la santa Vergine Maria si è in ogni tempo dimostrata aiuto dei cristiani in tutte le necessità della vita, tuttavia sembra che abbia voluto in modo particolare far palese la sua potenza quando la Chiesa era attaccata nelle verità di fede o dall’eresia o dalle armi nemiche. Noi raccogliamo qui alcuni dei più gloriosi avvenimenti che tutti concorrono a confermare quanto sta scritto nella Bibbia. Tu sei come la torre di Davide, la cui fabbrica è cinta di bastioni; mille scudi sono sospesi all’intorno ed ogni sorta d’armatura dei più valorosi.[4] Vediamo ora queste parole verificate nei fatti della storia ecclesiastica. Circa la metà del secolo terzo viveva s. Gregorio detto taumaturgo per la moltitudine dei miracoli che egli operava. Essendo morto il vescovo di Neocesarea sua patria, s. Fedimo Arcivescovo di Amasea, da cui quella era dipendente, pensava di elevare a quel vescovado s. Gregorio. Ma egli riputandosi indegno di quella sublime dignità erasi nascosto nel deserto; anzi per non essere trovato passava di una solitudine in un’altra; ma s. Fedimo illuminato dal Signore suo malgrado lo elesse vescovo di Neocesarea quantunque assente. Quella diocesi adorava ancora le false divinità, e quando fu eletto s. Gregorio non contava in tutto che 17 cristiani. Grande sbigottimento provò Gregorio quando si vide costretto ad accettare così elevata e pericolosa dignità, tanto più che in quella città vi erano di coloro che facevano un mostruoso miscuglio dei misteri della fede colle ridicole favole dei Gentili. Gregorio pertanto pregò Fedimo a dargli qualche tempo per meglio istruirsi nei sacri misteri, e passava intere le notti nello studio e nella meditazione, raccomandandosi alla SS. Vergine che è la madre della sapienza, e di cui era assai devoto. Or avvenne una notte che dopo lunga meditazione sui sacri misteri gli apparve un vecchio venerando di bellezza e maestà tutta celeste. Meravigliato a quella vista gli domandò chi fosse e che cosa volesse. Benignamente il vegliardo lo rassicurò e gli disse esser mandato da Dio per dilucidargli quei misteri che stava meditando. Ciò udito con grande gioia incominciò a guardarlo, e colla mano gli accennò di rimpetto un’altra apparizione in forma di donna che risplendeva qual folgore, e in bellezza superava ogni creatura umana. Viepiù spaventato si prostrò a terra in atto di venerazione. Intanto udiva la donna, che era la Santa Vergine, chiamar quel vecchio col nome di Giovanni Evangelista, ed invitarlo a spiegare a lui i misteri della vera religione. S. Giovanni rispondeva che era prontissimo a farlo, poiché così piaceva alla Madre del Signore. Ed in fatti si mise a spiegargli molti punti della dottrina cattolica, allora non ancora dilucidati dalla Chiesa perciò assai oscuri. Gli spiegò che vi era un Dio solo in tre persone, Padre, Figliuolo, e Spirito Santo, che tutte tre sono perfette, invisibili, incorruttibili, immortali, eterne; che al Padre si attribuisce specialmente la potenza e la creazione di tutte le cose; che al Figliuolo si attribuisce specialmente la sapienza, e che si fece veramente uomo, ed è uguale al Padre quantunque generato da lui; che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figliuolo ed è la fonte di ogni santità; Trinità perfetta senza divisione o disuguaglianza, che è sempre stata e sarà sempre immutabile ed invariabile. Spiegate queste ed altre altissime dottrine, la visione svanì, e Gregorio scrisse subito le cose imparate e le insegnò costantemente nella sua Chiesa, né mai lasciava di ringraziare la Beata Vergine che in modo così portentoso lo aveva istruito[5]. Se Maria si dimostro aiuto dei Cristiani a favore della fede cattolica in modo prodigioso, Dio fa vedere quanto siano terribili i castighi inflitti verso chi bestemmia contro la fede. Ciò noi vediamo verificato nella fine funesta che toccò a Nestorio vescovo di Costantinopoli. Costui negava che Maria Vergine fosse propriamente madre di Dio. I gravi scandali adunque cagionati dalla sua predicazione mossero il sommo Pontefice, che si chiamava Celestino I, ad esaminare la dottrina dell’eresiarca che trovò erronea e piena di empietà. Il paziente Pontefice però da prima lo ammonì, poscia minacciò di separarlo dalla Chiesa se rientrando in sé stesso non si ritrattasse dei suoi errori. L’ostinazione di Nestorio obbligò il papa a convocare un concilio di oltre a 200 vescovi nella città di Efeso presieduto da s. Cirillo in qualità di legato pontificio. Questo concilio che fu il terzo Ecumenico si radunò l’anno di Cristo 431. Gli errori di Nestorio furono anatemizzati, ma l’autore non si converti, anzi divenne più ostinato. Fu pertanto deposto dalla sua sede, esiliato nell’Egitto, dove dopo molte tabulazioni cadde prigione nelle mani di una banda di masnadieri. A motivo dell’esilio, della povertà, dell’abbandono, di una caduta da cavallo, della sua avanzata età ebbe a soffrire pene atrocissime. Finalmente il suor corpo vivo si risolse in marciume, e la sua lingua, organo di tante bestemmie, imputridì e fu rosa dai vermi. Così morì colui che osò profferire con ostinazione tante bestemmie contro all’Augusta Madre del Salvatore[6].
Capo III. Maria manifesta nelle nozze di Cana il suo zelo e la sua potenza presso suo figlio Gesù. Nel Vangelo di s. Giovanni troviamo un fatto che dimostra chiaramente la potenza e lo zelo di Maria nell’accorrere in nostro aiuto. Noi riferiamo il fatto quale ce lo narra l’evangelista s. Giovanni al c. II. In Cana di Galilea vi fu uno sposalizio ed era quivi la madre di Gesù. E fu invitato anche Gesù coi suoi discepoli alle nozze. Essendo venuto a mancare il vino, disse a Gesù la madre: Essi non hanno più vino. E Gesù le disse: Che ho io a fare con te, o donna? non è per anco venuta la mia ora. Disse la madre a coloro che servivano: Fate quello che lui vi dirà. Ora vi erano sei idrie di pietra preparate per la purificazione giudaica, le quali contenevano ciascuna da due a tre metrete. Gesù disse loro: Empite d’acqua quelle idrie. Ed essi le empirono fino all’orlo. E Gesù disse loro: Attingete adesso e portate al maestro di casa. E ne portarono. E appena ebbe fatto il saggio dell’acqua convertita in vino, il maestro di casa, che non sapeva d’onde questo uscisse (lo sapevano però i servi che avevano attinta l’acqua), il maestro di casa chiama lo sposo e gli dice: Tutti servono da principio il vino di miglior qualità, e quando la gente si è esilarata, allora danno dell’inferiore, ma tu hai serbato il migliore fino ad ora. Così Gesù in Cana di Galilea diede principio a far miracoli e manifestò la sua gloria e in lui credettero i suoi discepoli. Qui s. Giovanni Grisostomo domanda: Perché Maria aspettò a questa occasione delle nozze di Cana ad invitare Gesù a far miracoli e non lo pregò di farne prima? E risponde, che ciò fece Maria per spirito di sommissione alla divina provvidenza. Per trent’anni Gesù aveva menato vita nascosta. E Maria che faceva preziosa conserva di tutti gli atti di Gesù, conservabathaec omnia conferens in corde suo, come dice s. Luca (capo II, v. 19), venerava con rispettoso silenzio quell’umiliazione di Gesù. Quando poi si accorse che Gesù aveva cominciata la sua vita pubblica, che s. Giovanni nel deserto aveva già cominciato nelle sue prediche a parlare di lui e che Gesù aveva già dei discepoli, allora secondò l’avviamento della grazia con quello stesso spirito di unione a Gesù con cui aveva per trent’anni rispettato il suo nascondimento ed interpose la sua preghiera per sollecitarlo a fare un miracolo e manifestarsi agli uomini. S. Bernardo, nelle parole Vinum non habent, non, hanno vino, ravvisa una grande delicatezza di Maria. Ella non fa una prolissa preghiera a Gesù come Signore, né gli comanda come a figlio; non fa che annunziargli il bisogno, la mancanza del vino. Coi cuori benefici e propensi alla liberalità non occorre di strappare colle industrie e colla violenza la grazia, basta proporre l’occasione. (S. Bernardo serm. 4 in cant.) L’angelico dottore s. Tommaso ammira in questa breve preghiera la tenerezza e la misericordia di Maria. Imperciocché è proprio della misericordia il reputar nostro il bisogno altrui, giacché la parola misericordioso vuol quasi dire cuore fatto pei miseri, per sollevare i miseri, e cita qui il testo di s. Paolo ai Corinti: Quis infirmatur et ego non infirmor? Chi è infermo, che non sia io infermo? Or siccome Maria era piena di misericordia, voleva provvedere alla necessità di questi ospiti e perciò dice il Vangelo: Mancando il vino, lo disse la Madre di Gesù a lui. Onde ci anima s. Bernardo a ricorrere a Maria perché se ebbe tanta compassione della vergogna di quella povera gente e loro provvide, quantunque non pregata, quanto più avrà pietà di noi se la invochiamo con fiducia? (S. Bernardo serm. 2 dominiate II Èpif.) S. Tommaso loda poi ancora la sollecitudine e diligenza di Maria nel non aspettare che il vino fosse del tutto mancato ed i convitati venissero ad accorgersene con disonore degli invitanti. Appena fu imminente il bisogno trasse opportuno il soccorso secondo il detto del Salmo 9: Adiutor in opportunitatibus, in tribulatione. La bontà di Maria verso di noi dimostrata in questo fatto splende maggiormente nella condotta che tenne dopo la risposta del suo divin figliuolo. Alle parole di Gesù un’anima meno confidente, meno coraggiosa di Maria, avrebbe desistito dallo sperare più in là. Maria invece per nulla conturbata si rivolge ai servi della mensa e dice loro: Fate quello che egli vi dirà. Quodcumque dixerit vobis, facite (cap. II, v. 4). Come se dicesse: Sebbene sembra che neghi di fare, tuttavia farà (Beda). Il dotto P. Silbeira enumera un gran complesso di virtù che risplendono in queste parole di Maria. Diede la Vergine (dice questo autore) luminoso esempio di fede, imperciocché sebbene udisse dal figliuolo la dura risposta: “Che ho da fare con te”, tuttavia non esitò. La fede quando è perfetta, non esita a fronte di qualunque avversità. Insegnò la fiducia: imperciocché sebbene udisse dal figliuolo parole che sembravano esprimere una negativa, anzi, come dice il ven. Beda sopracitato, poteva la Vergine credere benissimo che Cristo avrebbe respinto le sue preghiere, tuttavia operò contro la speranza, molto confidando nella misericordia del figlio. Insegnò l’amore verso Dio, mentre procurò che con un miracolo se ne manifestasse la gloria. Insegnò l’obbedienza mentre persuase ai servi di obbedire a Dio non in questo né in quello ma in ogni cosa senza distinzione; quodcumque dixerit, qualunque cosa vi dirà. Diede pure esempio di modestia mentre non approfittò di questa occasione per gloriarsi d’essere madre d’un tanto figlio giacché non disse: Qualunque cosa vi dirà mio figlio; ma parlò in terza persona. Inspirò ancora la riverenza verso Dio col non pronunziare il santo nome di Gesù. Non ho ancora mai trovato, dice questo autore, nella Scrittura che la beata Vergine abbia pronunziato questo santissimo nome per la somma venerazione che ne professava. Diede esempio di prontezza, imperciocché non li esorta ad udire ciò che avrebbe detto, ma a farlo. Insegnò finalmente la prudenza colla misericordia, poiché disse ai servi che facessero qualunque cosa avesse loro detto affinché quando avessero inteso l’ordine di Gesù di riempir d’acqua le idrie, non lo avessero imputato una ridicolaggine: era proprio d’una misericordia somma e prudente il prevenire che altri cada nel male (P. Silveira tom. 2, lib. 4, quest. 21).
Capo IV. Maria eletta aiuto dei Cristiani sul monte Calvario da Gesù moribondo La più splendida prova che Maria è aiuto dei Cristiani noi la troviamo sul monte Calvario. Mentre Gesù pendeva agonizzante sulla croce, Maria superando la naturale debolezza lo assisteva con fortezza inaudita. Pareva che nulla più rimanesse a Gesù da fare per dimostrar quanto ci amava. Il suo affetto però gli fece ancora trovare un dono che doveva suggellare tutta la serie dei suoi benefizi. Dall’alto della croce volge lo sguardo moribondo sulla sua madre, l’unico tesoro che gli rimanesse sulla terra. Donna, disse Gesù a Maria, ecco il tuo figliuolo; dipoi disse al discepolo Giovanni: ecco la madre tua. E da quel punto, conchiude l’evangelista, il discepolo la prese fra i beni suoi. I santi Padri in queste parole riconoscono tre grandi verità: 1. Che s. Giovanni successe in tutto e per tutto a Gesù come figliuolo di Maria; 2. Che perciò tutti gli uffizi di maternità che Maria esercitava sopra Gesù passarono in favore del nuovo figliuolo Giovanni; 3. Che nella persona di Giovanni Gesù ha inteso di comprendere tutto il genere umano. Maria, dice s. Bernardino da Siena, colla sua cooperazione amorosa al ministero della Redenzione ci ha veramente generati sul Calvario alla vita della grazia; nell’ordine della salute tutti siamo nati dai dolori di Maria come dall’amore del Padre Eterno e dai patimenti del suo Figliuolo. In quei preziosi momenti Maria divenne rigorosamente nostra Madre. Le circostanze che accompagnarono quest’atto solenne di Gesù sul Calvario confermano quanto asseriamo. Le parole scelte da Gesù sono generiche ed appellative, osserva il detto P. Silveira, ma bastano a farci conoscere che qui si tratta d’un mistero universale, che comprende non già un solo uomo, ma tutti quegli uomini ai quali conviene questo titolo di discepolo diletto di Gesù. Sicché le parole del Signore sono una dichiarazione amplissima e solenne, che la Madre di Gesù è divenuta la madre di tutti i cristiani: Ioannes est nomen particulare, discipulus commune ut denotetur quod Maria omnibus detur in Matrem. Gesù sulla croce non era una semplice vittima della malignità dei Giudei, era un Pontefice universale che operava come riparatore a pro di tutto il genere umano. Quindi nella stessa maniera che implorando il perdono ai crocifissori lo ottenne a tutti i peccatori; aprendo il Paradiso al buon ladrone lo apri a tutti i penitenti. E come i crocifissori sul Calvario secondo l’energica espressione di s. Paolo rappresentarono tutti i peccatori, ed il buon ladrone tutti i veri penitenti, così s. Giovanni rappresentò tutti i veri discepoli di Gesù, i cristiani, la Chiesa Cattolica. E Maria divenne, come dice s. Agostino, la vera Eva, la madre di tutti coloro che spiritualmente vivono, Mater viventium; o come s. Ambrogio afferma, la madre di tutti coloro che cristianamente credono; Mater omnium credentium.Maria pertanto diventando nostra madre sul monte Calvario non solo ebbe il titolo di aiuto dei cristiani, ma ne acquistò l’uffizio, il magistero, il dovere. Noi abbiamo dunque un sacro diritto di ricorrere all’aiuto di Maria. Questo diritto è consacrato dalla parola di Gesù e garantito dalla tenerezza materna di Maria. Ora che Maria abbia interpretato l’intenzione di Gesù Cristo in croce in questo senso e che Egli la facesse madre ed ausiliatrice di tutti i cristiani lo prova la condotta che essa tenne di poi. Sappiamo dagli scrittori della sua vita quanto zelo essa dimostrasse in tutti i tempi per la salute del mondo e per l’incremento e la gloria di santa Chiesa. Essa dirigeva e consigliava gli Apostoli ed i discepoli, esortava, animava tutti a mantener la fede, a conservar la grazia e renderla operosa. Sappiamo dagli atti degli Apostoli come ella fosse assidua a tutte le radunanze religiose che tenevano quei primi fedeli di Gerusalemme, perché non mai si celebravano i divini misteri senza che ella vi prendesse parte. Quando Gesù salì al cielo ella lo seguì coi discepoli sul monte Oliveto, al luogo della Ascensione. Quando lo Spirito Santo discese sugli Apostoli, il giorno della Pentecoste, ella si trovava nel cenacolo con essi. Così racconta s. Luca il quale dopo aver nominato ad uno ad uno gli Apostoli radunati nel cenacolo dice: “Tutti questi perseveravano di concordia nell’orazione insieme colle donne e con Maria madre di Gesù.” Gli Apostoli inoltre e i discepoli e quanti cristiani vivevano in quel tempo in Gerusalemme e nei dintorni, tutti accorrevano a Maria per essere consigliati e diretti.
Il Sogno dei nove anni di don Bosco. Lettura teologica. Video
Un commento ai temi teologico-spirituali presenti nel sogno dei nove anni potrebbe avere sviluppi tanto ampi da includere una trattazione a tutto campo della “salesianità”. Letto, infatti, a partire dalla sua storia degli effetti, il sogno apre innumerevoli piste di approfondimento dei tratti pedagogici e apostolici che hanno caratterizzato la vita di san Giovanni Bosco e l’esperienza carismatica che da lui ha preso origine. Scegliamo di concentrare l’attenzione su cinque piste di riflessione spirituale che riguardano rispettivamente (1) la missione oratoriana, (2) la chiamata all’impossibile, (3) il mistero del Nome, (4) la mediazione materna e, infine, (5) la forza della mansuetudine.
1. La missione oratoriana Il sogno dei nove anni è pieno di ragazzi. Essi sono presenti dalla prima all’ultima scena e sono i beneficiari di tutto ciò che avviene. La loro presenza è caratterizzata dall’allegria e dal gioco, che sono tipici della loro età, ma anche dal disordine e da comportamenti negativi. I fanciulli non sono dunque nel sogno dei nove anni l’immagine romantica di un’età incantata, non ancora toccata dai mali del mondo, né corrispondono al mito postmoderno della condizione giovanile, come stagione dell’agire spontaneo e della perenne disponibilità al cambiamento, che dovrebbe essere conservata in un’eterna adolescenza. I ragazzi del sogno sono straordinariamente “veri”, sia quando appaiono con la loro fisionomia, sia quando sono raffigurati simbolicamente sotto forma di animali. Essi giocano e bisticciano, si divertono ridendo e si rovinano bestemmiando, proprio come avviene nella realtà. Non paiono né innocenti, come li immagina una pedagogia spontaneista, né capaci di fare da maestri a sé stessi, come li ha pensati Rousseau. Dal momento in cui appaiono, in un “cortile assai spazioso”, che fa presagire i grandi cortili dei futuri oratori salesiani, essi invocano la presenza e l’azione di qualcuno. Il gesto impulsivo del sognatore, però, non è l’intervento giusto; è necessaria la presenza di un Altro. Con la visione dei fanciulli s’intreccia l’apparizione della figura cristologica, come ormai possiamo apertamente chiamarla. Colui che nel Vangelo ha detto: «Lasciate che i bambini vengano a me» (Mc 10,14), viene a indicare al sognatore l’atteggiamento con cui i ragazzi vanno avvicinati e accompagnati. Egli appare maestoso, virile, forte, con tratti che ne evidenziano chiaramente il carattere divino e trascendente; il suo modo di agire è contrassegnato da sicurezza e potenza e manifesta una piena signoria sulle cose che avvengono. L’uomo venerando, però, non incute paura, ma anzi porta la pace dove prima c’era confusione e schiamazzo, manifesta benevola comprensione nei confronti di Giovanni e lo orienta su una via di mansuetudine e carità. La reciprocità tra queste figure – i ragazzi da una parte e il Signore (cui si aggiunge poi la Madre) dall’altra – definisce i contorni del sogno. Le emozioni che Giovanni prova nell’esperienza onirica, le domande che pone, il compito che è chiamato a svolgere, il futuro che gli si apre davanti sono totalmente vincolati alla dialettica tra questi due poli. Forse il messaggio più importante che il sogno gli trasmette, quello che probabilmente ha capito per primo perché gli è rimasto impresso nell’immaginazione, prima ancora di comprenderlo in modo riflesso, è che quelle figure si richiamano a vicenda e che egli per tutta la vita non potrà più dissociarle. L’incontro tra la vulnerabilità dei giovani e la potenza del Signore, tra il loro bisogno di salvezza e la sua offerta di grazia, tra il loro desiderio di gioia e il suo dono di vita devono diventare ormai il centro dei suoi pensieri, lo spazio della sua identità. La partitura della sua vita sarà tutta scritta nella tonalità che questo tema generatore gli consegna: modularlo in tutte le sue potenzialità armoniche sarà la sua missione, in cui dovrà riversare tutte le sue doti di natura e di grazia.
Il dinamismo della vita di Giovanni si prospetta dunque nel sogno-visione come un continuo movimento continuo, una sorta di andirivieni spirituale, tra i ragazzi e il Signore. Dal gruppo di fanciulli in mezzo a cui si è buttato con impeto Giovanni deve lasciarsi attirare al Signore che lo chiama per nome, per poi ripartire da Colui che lo invia e andare a mettersi, con ben altro stile, alla testa dei compagni. Anche se dai ragazzi riceve in sogno pugni così forti, da sentirne il male ancora al risveglio, e dall’uomo venerando ascolta parole che lo lasciano interdetto, il suo andare e venire non è un viavai inconcludente, ma un percorso che gradualmente lo trasforma e fa arrivare ai giovani un’energia di vita e di amore. Che tutto ciò avvenga in un cortile è altamente significativo e ha un chiaro valore prolettico, poiché della missione di don Bosco il cortile oratoriano diventerà il luogo privilegiato e il simbolo esemplare. Tutta la scena è collocata in quest’ambiente, insieme vasto (cortile assai spazioso) e familiare (vicino a casa). Il fatto che la visione vocazionale non abbia come sfondo un luogo sacro o uno spazio celeste, ma l’ambiente in cui i ragazzi vivono e giocano, indica chiaramente che l’iniziativa divina assume il loro mondo come luogo dell’incontro. La missione che viene affidata a Giovanni, anche se è chiaramente indirizzata in senso catechetico e religioso («fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e la preziosità della virtù»), ha come proprio habitat l’universo dell’educazione. L’associazione della figura cristologica con lo spazio del cortile e le dinamiche del gioco, che certamente un ragazzo di nove anni non può aver “costruito”, costituisce una trasgressione dell’immaginario religioso più consueto, la cui forza ispiratrice è pari alla profondità misterica. Essa infatti sintetizza in sé tutta la dinamica del mistero dell’incarnazione, per cui il Figlio prende la nostra forma per poterci offrire la sua, e mette in luce come non vi sia nulla di umano che debba essere sacrificato per far spazio a Dio. Il cortile dice dunque la vicinanza della grazia divina al “sentire” dei ragazzi: per accoglierla non occorre uscire dalla propria età, trascurarne le esigenze, forzarne i ritmi. Quando don Bosco, ormai adulto, scriverà nel Giovane provveduto che uno degli inganni del demonio è far pensare ai giovani che la santità sia incompatibile con la loro voglia di stare allegri e con l’esuberante freschezza della loro vitalità, non farà che restituire in forma matura la lezione intuita nel sogno e divenuta poi un elemento centrale del suo magistero spirituale. Il cortile dice allo stesso tempo la necessità di intendere l’educazione a partire dal suo nucleo più profondo, che riguarda l’atteggiamento del cuore verso Dio. Lì, insegna il sogno, non vi è solo lo spazio di un’apertura originaria alla grazia, ma anche l’abisso di una resistenza, in cui si annida la bruttezza del male e la violenza del peccato. Per questo l’orizzonte educativo del sogno è francamente religioso, e non solo filantropico, e mette in scena la simbolica della conversione, e non solo quella dello sviluppo di sé. Nel cortile del sogno, colmo di ragazzi e abitato dal Signore, si dischiude dunque a Giovanni quella che sarà in futuro la dinamica pedagogica e spirituale dei cortili oratoriani. Di essa vogliamo ancora sottolineare due tratti, chiaramente evocati nelle azioni che nel sogno compiono i fanciulli prima, e gli agnelli mansueti poi. Il primo tratto va ravvisato nel fatto che i ragazzi «cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui che parlava». Questo tema del “radunarsi” è una delle matrici teologiche e pedagogiche più importanti della visione educativa di don Bosco. In una celebre pagina scritta nel 1854, l’Introduzione al Piano di Regolamento per l’Oratorio maschile di S. Francesco di Sales in Torino nella regione Valdocco, egli presenta la natura ecclesiale e il senso teologico dell’istituzione oratoriana citando le parole dell’evangelista Giovanni: «Ut filios Dei, qui erant dispersi, congregaret in unum» (Gv 11,52). L’attività dell’Oratorio è così posta sotto il segno del raduno escatologico dei figli di Dio che ha costituito il centro della missione del Figlio di Dio:
Le parole del santo Vangelo che ci fanno conoscere essere il divin Salvatore venuto dal cielo in terra per radunare insieme tutti i figliuoli di Dio, dispersi nelle varie parti della terra, parmi che si possano letteralmente applicare alla gioventù de’ nostri giorni.
La gioventù, «questa porzione la più delicata e la più preziosa dell’umana Società», si trova spesso a essere dispersa e sbandata per il disinteresse educativo dei genitori o per l’influenza di cattivi compagni. La prima cosa da fare per provvedere all’educazione di questi giovani è proprio «radunarli, loro poter parlare, moralizzarli». In queste parole dell’Introduzione al Piano di Regolamento l’eco del sogno, maturata nella coscienza dell’educatore ormai adulto, è presente in modo chiaro e riconoscibile. L’oratorio vi è presentato come una gioiosa “radunanza” dei giovani intorno all’unica forza calamitante in grado di salvarli e di trasformarli, quella del Signore: «Sono questi oratori certe radunanze in cui si trattiene la gioventù in piacevole ed onesta ricreazione, dopo di aver assistito alle sacre funzioni di chiesa». Fin da bambino, infatti, don Bosco ha capito che «questa fu la missione del figliuolo di Dio; questo può solamente fare la santa sua religione». Il secondo elemento che diventerà un tratto identitario della spiritualità oratoriana è quello che nel sogno si rivela attraverso l’immagine degli agnelli che corrono «per fare festa a quell’uomo e a quella signora». La pedagogia della festa sarà una dimensione portante del sistema preventivo di don Bosco, che vedrà nelle numerose ricorrenze religiose dell’anno l’occasione per offrire ai ragazzi la possibilità di respirare a pieni polmoni la gioia della fede. Don Bosco saprà coinvolgere entusiasticamente la comunità giovanile dell’oratorio nella preparazione di eventi, rappresentazioni teatrali, ricevimenti che permettono di fornire uno svago rispetto alla fatica del dovere quotidiano, di valorizzare i talenti dei ragazzi per la musica, la recitazione, la ginnastica, di orientare la loro fantasia in direzione di una creatività positiva. Se si tiene conto che l’educazione proposta negli ambienti religiosi dell’Ottocento aveva solitamente un tenore piuttosto austero, che sembrava presentare come ideale pedagogico da raggiungere quello di una devota compostezza, le sane baraonde festive dell’oratorio si stagliano come espressione di un umanesimo aperto a cogliere le esigenze psicologiche del ragazzo e capace di assecondare il suo protagonismo. L’allegria festosa che segue alla metamorfosi degli animali del sogno è dunque ciò cui deve mirare la pedagogia salesiana.
2. La chiamata all’impossibile Mentre per i ragazzi il sogno finisce con la festa, per Giovanni termina con lo sgomento e addirittura con il pianto. Si tratta di un esito che non può che stupire. Si è soliti pensare, infatti, con qualche semplificazione, che le visite di Dio siano portatrici esclusivamente di gioia e di consolazione. È paradossale dunque che per un apostolo della gioia, per colui che da seminarista fonderà la “società dell’allegria” e che da prete insegnerà ai suoi ragazzi che la santità consiste nello “stare molto allegri”, la scena vocazionale termini con il pianto. Ciò può certamente indicare che l’allegria di cui si parla non è puro svago e semplice spensieratezza ma risonanza interiore alla bellezza della grazia. Come tale, essa potrà essere raggiunta solo attraverso impegnative battaglie spirituali, di cui don Bosco dovrà in larga misura pagare il prezzo a beneficio dei suoi ragazzi. Egli rivivrà così su di sé quello scambio di ruoli che affonda le sue radici nel mistero pasquale di Gesù e che si prolunga nella condizione degli apostoli: «noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo, noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati» (1Cor 4,10), ma proprio così «collaboratori della vostra gioia» (2Cor 1,24). Il turbamento con cui il sogno si chiude, tuttavia, richiama soprattutto la vertigine che i grandi personaggi biblici provano di fronte alla vocazione divina che si manifesta nella loro vita, orientandola in una direzione del tutto imprevedibile e sconcertante. Il Vangelo di Luca afferma che perfino Maria Santissima, alle parole dell’angelo, provò un senso di profondo turbamento interiore («a queste parole ella fu molto turbata» Lc 1,29). Isaia si era sentito perduto di fronte alla manifestazione della santità di Dio nel tempio (Is 6), Amos aveva paragonato al ruggito di un leone (Am 3,8) la forza della Parola divina da cui era stato afferrato, mentre Paolo sperimenterà sulla via di Damasco il capovolgimento esistenziale che deriva dall’incontro con il Risorto. Pur testimoniando il fascino di un incontro con Dio che seduce per sempre, nel momento della chiamata gli uomini biblici sembrano più esitare impauriti di fronte a qualcosa che li eccede, che lanciarsi a capofitto nell’avventura della missione. Il turbamento che Giovanni sperimenta nel sogno sembra un’esperienza analoga. Esso nasce dal carattere paradossale della missione che gli viene assegnata e che egli non esita a definire “impossibile” («Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»). L’aggettivo potrebbe sembrare “esagerato”, come a volte sono le reazioni dei bambini, soprattutto quando esprimono un senso d’inadeguatezza di fronte a un compito impegnativo. Ma questo elemento di psicologia infantile non sembra sufficiente a illuminare il contenuto del dialogo onirico e la profondità dell’esperienza spirituale che esso comunica. Tanto più che Giovanni ha una vera stoffa da leader e un’ottima memoria, che gli consentiranno nei mesi successivi al sogno di iniziare subito a fare un po’ di oratorio, intrattenendo i suoi amici con giochi da saltimbanco e ripetendo loro per filo e per segno la predica del parroco. Per questo nelle parole con cui dichiara schiettamente di essere «incapace di parlare di religione» ai suoi compagni, sarà bene sentir risuonare l’eco lontana dell’obiezione di Geremia alla vocazione divina: «non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6). Non è sul piano delle attitudini naturali che si gioca qui la richiesta dell’impossibile, bensì sul piano di ciò che può rientrare nell’orizzonte del reale, di ciò che ci si può attendere in base alla propria immagine del mondo, di ciò che rientra nel limite dell’esperienza. Oltre questa frontiera, si apre appunto la regione dell’impossibile, che è però, biblicamente, lo spazio dell’agire di Dio. “Impossibile” è per Abramo avere un figlio da una donna sterile e anziana come Sara; “impossibile” è per la Vergine concepire e dare al mondo il Figlio di Dio fatto uomo; “impossibile” pare ai discepoli la salvezza, se è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli. Eppure Abramo si sente rispondere: «C’è forse qualcosa di impossibile per il Signore?» (Gen 18,14); l’angelo dice a Maria che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37); e Gesù risponde agli discepoli increduli che «ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27). Il luogo supremo in cui si pone la questione teologica dell’impossibile è, però, il momento decisivo della storia della salvezza, ossia il dramma pasquale, in cui la frontiera dell’impossibile da superare è lo stesso abisso tenebroso del male e della morte. È in questo spazio generato dalla risurrezione che l’impossibile diventa effettiva realtà, è in esso che l’uomo venerando del sogno, splendente di luce pasquale, chiede a Giovanni di rendere possibile l’impossibile. E lo fa con una formula sorprendente: «Perché tali cose ti sembrano impossibili devi renderle possibili coll’ubbidienza». Sembrano le parole con cui i genitori esortano i bambini, quando sono riluttanti, a fare qualcosa di cui non si sentono capaci o che non hanno voglia di fare. «Obbedisci e vedrai che ci riesci» dicono allora mamma o papà: la psicologia del mondo infantile è perfettamente rispettata. Ma sono anche, e assai più, le parole con cui il Figlio rivela il segreto dell’impossibile, un segreto che è tutto nascosto nella sua obbedienza. L’uomo venerando che comanda una cosa impossibile, sa attraverso la sua umana esperienza che l’impossibilità è il luogo in cui il Padre opera con il suo Spirito, a condizione che gli si apra la porta con la propria obbedienza. Giovanni ovviamente rimane turbato e sbalordito, ma è l’atteggiamento che l’uomo sperimenta di fronte all’impossibile pasquale, di fronte cioè al miracolo dei miracoli, di cui ogni altro evento salvifico è segno. Non deve dunque stupire che nel sogno la dialettica del possibile-impossibile s’intrecci con l’altra dialettica, quella della chiarezza e della oscurità. Essa caratterizza anzitutto la stessa immagine del Signore, la cui faccia è talmente luminosa che Giovanni non riesce a guardarla. Su quel volto splende, infatti, una luce divina che paradossalmente produce oscurità. Vi sono poi le parole dell’uomo e della donna che, mentre spiegano in modo limpido ciò che Giovanni deve fare, lo lasciano però confuso e spaventato. Vi è infine un’illustrazione simbolica, attraverso la metamorfosi degli animali, che però conduce a un’incomprensione ancora maggiore. Giovanni non può che chiedere ulteriori chiarimenti: «pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare», ma la risposta che ottiene dalla donna di maestoso aspetto rinvia in avanti il momento della comprensione: «A suo tempo tutto comprenderai». Ciò significa certamente che solo attraverso l’esecuzione di ciò che del sogno è già afferrabile, ossia attraverso l’obbedienza possibile, si dischiuderà in modo più ampio lo spazio per chiarirne il messaggio. Esso non consiste, infatti, semplicemente in un’idea da spiegare, ma in una parola performativa, una locuzione efficace, che proprio realizzando la propria potenza operativa manifesta il suo senso più profondo.
3. Il mistero del Nome Giunti a questo punto della riflessione, siamo in grado di interpretare meglio un altro elemento importante dell’esperienza onirica. Si tratta del fatto che al centro della duplice tensione tra possibile e impossibile e tra conosciuto e sconosciuto, e anche, materialmente, al centro della narrazione del sogno, vi sia il tema del Nome misterioso dell’uomo venerando. Il fitto dialogo della sezione III è, infatti, intessuto di domande che ribattono lo stesso tema: «Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»; «Chi siete voi che parlate in questo modo?», e infine: «Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome». L’uomo venerando dice a Giovanni di chiedere il Nome a sua madre, ma in realtà quest’ultima non glielo dirà. Esso resta fino alla fine avvolto nel mistero. Abbiamo già accennato, nella parte dedicata a ricostruire lo sfondo biblico del sogno, che il tema del Nome è strettamente correlato all’episodio della vocazione di Mosè al roveto ardente (Es 3). Questa pagina costituisce uno dei testi centrali della rivelazione veterotestamentaria e pone le basi di tutto il pensiero religioso di Israele. André LaCoque ha proposto di definirla “rivelazione delle rivelazioni”, perché costituisce il principio di unità della struttura narrativa e prescrittiva che qualifica la narrazione dell’Esodo, cellula-madre dell’intera Scrittura.[i] È importante notare come il testo biblico articoli in stretta unità la condizione di schiavitù del popolo in Egitto, la vocazione di Mosè e la rivelazione teofanica. La rivelazione del Nome di Dio a Mosè non avviene come la trasmissione di un’informazione da conoscere o di un dato da acquisire, ma come la manifestazione di una presenza personale, che intende suscitare una relazione stabile e generare un processo di liberazione. In questo senso la rivelazione del Nome divino è orientata in direzione dell’alleanza e della missione. «Il Nome è insieme teofanico e performativo, poiché quelli che lo ricevono non sono semplicemente introdotti nel segreto divino, ma sono i destinatari di un atto di salvezza».[ii] Il Nome, infatti, a differenza del concetto, non designa meramente un’essenza da pensare, ma un’alterità cui riferirsi, una presenza da invocare, un soggetto che si propone come vero interlocutore dell’esistenza. Pur implicando l’annuncio di un’incomparabile ricchezza ontologica, quella stessa dell’Essere che non può mai essere adeguatamente definito, il fatto che Dio si riveli come un “Io” indica che solo attraverso la relazione personale con Lui sarà possibile accedere alla sua identità, al Mistero dell’Essere che Egli è. La rivelazione del Nome personale è dunque un atto di parola che interpella il destinatario, chiedendogli di situarsi nei confronti del parlante. Solo così, infatti, è possibile coglierne il senso. Tale rivelazione, inoltre, si pone esplicitamente come fondamento per la missione liberatrice che Mosè deve realizzare: «Io-sono mi ha mandato a voi» (Es 3,14). Presentandosi come un Dio personale, e non un Dio legato a un territorio, e come il Dio della promessa, e non puramente come il signore dell’immutabile ripetizione, Jahwè potrà sostenere il cammino del popolo, il suo viaggio verso la libertà. Egli ha dunque un Nome che si fa conoscere in quanto suscita alleanza e muove la storia. «Ditemi il vostro nome»: questa domanda di Giovanni non può ricevere risposta semplicemente attraverso una formula, un nome inteso come etichetta esteriore della persona. Per conoscere il Nome di Colui che parla nel sogno non basta ricevere un’informazione, ma è necessario prendere posizione di fronte al suo atto di parola. È necessario cioè entrare in quel rapporto di intimità e di consegna, che i Vangeli descrivono come un “rimanere” presso di Lui. Per questo quando i primi discepoli interrogano Gesù sulla sua identità – «Maestro, dove abiti?» o alla lettera «dove rimani?» – egli risponde «Venite e vedrete» (Gv 1,38s.). Solo “rimanendo” con lui, abitando nel suo mistero, entrando nella sua relazione con il Padre, si può conoscere realmente Chi egli sia. Il fatto che il personaggio del sogno non risponda a Giovanni con un appellativo, come noi faremmo presentando ciò che c’è scritto sulla nostra carta di identità, indica che il suo Nome non può essere conosciuto come una pura designazione esterna, ma mostra la sua verità solo quando sigilla un’esperienza di alleanza e di missione. Giovanni dunque conoscerà quel Nome proprio attraversando la dialettica del possibile e dell’impossibile, della chiarezza e dell’oscurità; lo conoscerà realizzando la missione oratoriana che gli è stata affidata. Lo conoscerà, dunque, portandolo dentro di sé, grazie a una vicenda vissuta come storia abitata da Lui. Un giorno Cagliero testimonierà di don Bosco che il suo modo di amare era «tenerissimo, grande, forte, ma tutto spirituale, puro, veramente casto», tanto che «dava un’idea perfetta dell’amore che il Salvatore portava ai fanciulli» (Cagliero 1146r). Questo indica che il Nome dell’uomo venerando, il cui volto era tanto luminoso da accecare la vista del sognatore, è realmente entrato come un sigillo nella vita di don Bosco. Egli ne ha avuta la experientia cordis attraverso il cammino della fede e della sequela. È questa l’unica forma in cui la domanda del sogno poteva trovare risposta.
4. La mediazione materna Nell’incertezza circa Colui che lo invia, l’unico punto fermo cui Giovanni può appigliarsi nel sogno è il rimando a una madre, anzi a due: quella dell’uomo venerando e la propria. Le risposte alle sue domande, infatti, suonano così: «Io sono il figlio di colei che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno» e poi «il mio nome dimandalo a Mia Madre». Che lo spazio del chiarimento possibile sia mariano e materno è indubbiamente un elemento su cui merita riflettere. Maria è il luogo in cui l’umanità realizza la più alta corrispondenza alla luce che viene da Dio e lo spazio creaturale in cui Dio ha consegnato al mondo la sua Parola fatta carne. È altresì indicativo che al risveglio dal sogno, colei che ne intuisce al meglio il senso e la portata sia la mamma di Giovanni, Margherita. Su livelli diversi, ma secondo una reale analogia, la Madre del Signore e la madre di Giovanni rappresentano il volto femminile della Chiesa, che si mostra capace di intuizione spirituale e costituisce il grembo in cui le grandi missioni vengono gestate e partorite. Non c’è dunque da stupirsi che le due madri siano accostate tra loro e proprio nel punto in cui si tratta di andare al fondo della questione che il sogno presenta, ossia la conoscenza di Colui che affida a Giovanni la missione di una vita. Come già per il cortile vicino a casa, così anche per la madre, nell’intuizione onirica gli spazi dell’esperienza più familiare e quotidiana si dischiudono e mostrano nelle loro pieghe un’insondabile profondità. I gesti comuni della preghiera, il saluto angelico che era usuale tre volte al giorno in ogni famiglia, improvvisamente appaiono per ciò che sono: dialogo con il Mistero. Giovanni scopre così che alla scuola di sua madre ha già instaurato un legame con la Donna maestosa, che può spiegargli tutto. Vi è già dunque una sorta di canale femminile che consente di superare l’apparente distanza che c’è tra «un povero ed ignorante fanciullo» e l’uomo «nobilmente vestito». Tale mediazione femminile, mariana e materna, accompagnerà Giovanni per tutta la vita e farà maturare in lui una particolare disposizione a venerare la Vergine con il titolo di Aiuto dei cristiani, divenendone l’apostolo per i suoi ragazzi e per la Chiesa intera. Il primo aiuto che la Madonna gli offre è quello di cui un bambino ha naturalmente bisogno: quello di una maestra. Ciò che essa devi insegnargli è una disciplina che rende veramente sapienti, senza cui «ogni sapienza diviene stoltezza». Si tratta della disciplina della fede, che consiste nel dare credito a Dio e nell’obbedire anche di fronte all’impossibile e all’oscuro. Maria la trasmette come l’espressione più alta della libertà e come la sorgente più ricca della fecondità spirituale e educativa. Portare in sé l’impossibile di Dio e camminare nell’oscurità della fede è, infatti, l’arte in cui la Vergine eccelle al di sopra di ogni creatura. Essa ne ha fatto un arduo tirocinio nella sua peregrinatio fidei, segnata non di rado dal buio e dall’incomprensione. Basti pensare all’episodio del ritrovamento di Gesù dodicenne nel Tempio (Lc 2,41- 50). Alla domanda della madre: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», Gesù risponde in modo sorprendente: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». E l’evangelista annota: «Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro». Meno ancora probabilmente Maria capì quando la sua maternità, annunciata solennemente dall’alto, le fu per così dire espropriata perché divenisse comune eredità della comunità dei discepoli: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50). Ai piedi della croce poi, quando si fece buio su tutta la terra, l’Eccomi pronunciato nel momento della chiamata prese i contorni della rinuncia estrema, la separazione dal Figlio al cui posto doveva ricevere dei figli peccatori per i quali lasciarsi trapassare il cuore dalla spada. Quando dunque la donna maestosa del sogno inizia a svolgere il suo compito di maestra e, ponendo una mano sul capo di Giovanni, gli dice «A suo tempo tutto comprenderai», essa trae queste parole dalle viscere spirituali della fede che ai piedi della croce l’ha resa madre di ogni discepolo. Sotto la sua disciplina Giovanni dovrà restare per tutta la vita: da giovane, da seminarista, da sacerdote. In modo particolare dovrà rimanervi quando la sua missione prenderà contorni che al momento del sogno non poteva immaginare; quando, cioè, egli dovrà divenire nel cuore della Chiesa fondatore di famiglie religiose destinate alla gioventù di ogni continente. Allora Giovanni, divenuto ormai don Bosco, capirà anche il senso più profondo del gesto con cui l’uomo venerando gli ha dato sua madre come “maestra”. Quando un giovane entra in una famiglia religiosa, trova ad accoglierlo un maestro di noviziato, cui viene affidato perché lo introduca nello spirito dell’Ordine e lo aiuti ad assimilarlo. Quando si tratta di un Fondatore, che deve ricevere dallo Spirito Santo la luce originaria del carisma, il Signore dispone che sia la sua stessa madre, Vergine della Pentecoste e modello immacolato della Chiesa, a fargli da Maestra. Lei sola, la “piena di grazia”, comprende infatti dal di dentro tutti i carismi, come una persona che conosca tutte le lingue e le parli come fossero la propria. In effetti la donna del sogno sa indicargli in modo preciso e appropriato le ricchezze del carisma oratoriano. Essa non aggiunge nulla alle parole del Figlio, ma le illustra con la scena degli animali selvaggi divenuti agnelli mansueti e con l’indicazione delle qualità che Giovanni dovrà maturare per svolgere la sua missione: «umile, forte, robusto». In questi tre aggettivi, che designano il vigore dello spirito (l’umiltà), del carattere (la forza) e del corpo (la robustezza), c’è una grande concretezza. Sono i consigli che darebbe a un giovane novizio chi ha una lunga esperienza di oratorio e sa ciò che richiede il “campo” in cui si deve “lavorare”. La tradizione spirituale salesiana ha custodito con cura le parole di questo sogno che si riferiscono a Maria. Le Costituzioni salesiane vi alludono in modo evidente quando affermano: «La Vergine Maria ha indicato a Don Bosco il suo campo di azione tra i giovani»,[iii] o ricordano che «guidato da Maria che gli fu Maestra, don Bosco visse nell’incontro con i giovani del primo oratorio un’esperienza spirituale ed educativa che chiamò Sistema Preventivo».[iv] Don Bosco riconobbe a Maria un ruolo determinante nel suo sistema educativo, vedendo nella sua maternità l’ispirazione più alta di ciò che significa “prevenire”. Il fatto che Maria sia intervenuta fin dal primo momento della sua vocazione carismatica, che essa abbia avuto un ruolo così centrale in questo sogno, farà per sempre comprendere a don Bosco che essa appartiene alle radici del carisma e che ove non le sia riconosciuto questo ruolo ispiratore, il carisma non è inteso nella sua genuinità. Data per Maestra a Giovanni in questo sogno, essa dovrà esserlo anche per tutti coloro che ne condividono la vocazione e la missione. Come i successori di don Bosco non si sono mai stancati di affermare, la «vocazione salesiana è inspiegabile, tanto nella sua nascita come nel suo sviluppo e sempre, senza il concorso materno e ininterrotto di Maria».[v]
5. La forza della mansuetudine «Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici»: queste parole sono senza dubbio l’espressione più nota del sogno dei nove anni, quella che in qualche modo ne sintetizza il messaggio e ne trasmette l’ispirazione. Sono anche le prime parole che l’uomo venerando dice a Giovanni, interrompendo il suo sforzo violento di mettere fine al disordine e alle bestemmie dei suoi compagni. Non si tratta solo di una formula che trasmette una sentenza sapienziale sempre valida, ma di un’espressione che precisa le modalità esecutive di un ordine («mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole») con cui, come si è detto, viene riorientato il movimento intenzionale della coscienza del sognatore. La foga delle percosse deve divenire lo slancio della carità, l’energia scomposta di un intervento repressivo deve lasciar spazio alla mansuetudine. Il termine “mansuetudine” viene ad avere qui un peso rilevante, che colpisce ancora di più se si pensa che l’aggettivo corrispondente sarà usato alla fine del sogno per descrivere gli agnelli che fan festa intorno al Signore e a Maria. L’accostamento suggerisce un’osservazione che non pare priva di pertinenza: perché possano divenire “mansueti” agnelli coloro che erano animali feroci, bisogna che divenga mansueto anzitutto il loro educatore. Entrambi, seppur a partire da punti diversi, devono compiere una metamorfosi per entrare nell’orbita cristologica della mitezza e della carità. Per un gruppo di ragazzi scalmanati e rissosi è facile capire che cosa esiga questo cambiamento. Per un educatore forse è meno evidente. Egli, infatti, si pone già sul versante del bene, dei valori positivi, dell’ordine e della disciplina: quale cambiamento gli può essere chiesto? Si pone qui un tema che nella vita di don Bosco avrà uno sviluppo decisivo, anzitutto sul piano dello stile dell’azione e, in certa misura, anche su quello di una riflessione teorica. Si tratta dell’orientamento che conduce don Bosco a escludere categoricamente un sistema educativo basato sulla repressione e sui castighi, per scegliere con convinzione un metodo che è tutto basato sulla carità e che don Bosco chiamerà “sistema preventivo”. Di là delle diverse implicanze pedagogiche che derivano da questa scelta, per le quali rimandiamo alla ricca bibliografia specifica, interessa qui evidenziare la dimensione teologico-spirituale che è sottesa a questo indirizzo, di cui le parole del sogno costituiscono in qualche modo l’intuizione e l’innesco. Ponendosi dalla parte del bene e della “legge”, l’educatore può essere tentato di impostare la sua azione con i ragazzi secondo una logica che mira a far regnare l’ordine e la disciplina essenzialmente attraverso regole e norme. Eppure anche la legge porta dentro di sé un’ambiguità che la rende insufficiente a guidare la libertà, non solo per i limiti che ogni regola umana porta dentro di sé, ma per un limite che ultimamente è di ordine teologale. Tutta la riflessione paolina è una grande meditazione su questo tema, poiché Paolo aveva percepito nella sua esperienza personale che la legge non gli aveva impedito di essere «un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1Tim 1,13). La stessa Legge data da Dio, insegna la Scrittura, non basta a salvare l’uomo, se non vi è un altro Principio personale che la integri e la interiorizzi nel cuore dell’uomo. Paul Beauchamp riassume felicemente questa dinamica quando afferma: «La Legge è preceduta da un Sei amato e seguita da un Amerai. Sei amato: fondazione della legge, e Amerai: il suo superamento».[vi] Senza questa fondazione e questo superamento, la legge porta in sé i segni di una violenza che rivela la sua insufficienza a generare quel bene che essa, pure, ingiunge di compiere. Per tornare alla scena del sogno, i pugni e le percosse che Giovanni dà in nome di un sacrosanto comandamento di Dio, che proibisce la bestemmia, rivelano l’insufficienza e l’ambiguità di ogni slancio moralizzatore che non sia interiormente riformato dall’alto. Occorre dunque anche per Giovanni, e per coloro che apprenderanno da lui la spiritualità preventiva, la conversione a una logica educativa inedita, che va oltre il regime della legge. Tale logica è resa possibile solo dallo Spirito del Risorto, effuso nei nostri cuori. Solo lo Spirito, infatti, consente di passare da una giustizia formale ed esteriore (sia essa quella classica della “disciplina” e della “buona condotta” o quella moderna delle “procedure” e degli “obiettivi raggiunti”) a una vera santità interiore, che compie il bene perché ne è interiormente attratta e guadagnata. Don Bosco mostrerà di avere questa consapevolezza quando nel suo scritto sul Sistema preventivo dichiarerà francamente che esso è tutto basato sulle parole di san Paolo: «Charitas benigna est, patiens est; omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet». Naturalmente “guadagnare” i giovani in questo modo è un compito assai esigente. Implica di non cedere alla freddezza di un’educazione fondata solo sulle regole, né al buonismo di una proposta che rinuncia a denunciare la “bruttezza del peccato” e a presentare la “preziosità della virtù”. Conquistare al bene mostrando semplicemente la forza della verità e dell’amore, testimoniata attraverso la dedizione “fino all’ultimo respiro”, è la figura di un metodo educativo che è al contempo una vera e propria spiritualità. Non c’è da stupirsi che Giovanni nel sogno faccia resistenza a entrare in questo movimento e chieda di comprendere bene chi è Colui che lo imprime. Quando però avrà capito, facendo diventare quel messaggio dapprima un’istituzione oratoriana e poi anche una famiglia religiosa, penserà che raccontare il sogno in cui ha appreso quella lezione sarà il modo più bello per condividere con i suoi figli il significato più autentico della sua esperienza. È Dio che ha guidato ogni cosa, è Lui stesso che ha impresso il movimento iniziale di quello che sarebbe divenuto il carisma salesiano.
don Andrea Bozzolo, sdb, Rettore Magnifico dell’Università Pontificia Salesiana
[i] A. LACOCQUE, La révélation des révélations: Exode 3,14, in P. RICOEUR – A. LACOCQUE, Penser la Bible, Seuil, Paris 1998, 305.
[ii] A. BERTULETTI, Dio, il mistero dell’unico, Queriniana, Brescia 2014, 354.
[v] E. VIGANÒ, Maria rinnova la Famiglia Salesiana di don Bosco, ACG 289 (1978) 1-35, 28.
[vi] P. BEAUCHAMP, La legge di Dio, Piemme, Casale Monferrato 2000, 116.
Il sogno che fa sognare. Lettura teologica del sogno dei 9 anni di don Bosco. Prof. don Andrea Bozzolo. Conferenza tenuta nel 15.01.2024 nella Basilica Maria Ausiliatrice, Torino
Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (2/13)
Capo II. Maria dimostrata aiuto dei Cristiani dall’Arcangelo Gabriele nell’atto di annunziarla Madre di Dio. Le cose finora esposte vennero raccolte dall’antico Testamento e dalla Chiesa applicate alla Santa Vergine Maria; ora passiamo al senso letterale secondo è scritto nel s. Vangelo. L’Evangelista s. Luca al capo I del suo Vangelo racconta che l’Arcangelo Gabriele essendo stato mandato da Dio ad annunziare a Maria SS. la dignità di Madre di Gesù, le disse: Ave, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus. Dio ti salvi, o piena di grazia, il Signore è teco, tu sei benedetta fra le donne. L’Arcangelo Gabriele salutando Maria la chiama piena di grazia. Adunque Maria ne possiede la pienezza. Sant’Agostino esponendo le parole dell’Arcangelo così saluta Maria: Dio ti salvi, o Maria, piena di grazia, il Signore è teco; Teco nel cuore, teco nel seno, teco nelle viscere, teco nell’aiuto. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, tecum in corde, tecum in ventre, tecum in utero, tecum in auxilio. (August. in Serm. de nat. B. M.). L’angelico dottore s. Tommaso riguardo alle parole Gratia plena dice che dovette avere Maria veramente la pienezza delle grazie e ragiona così: Quanto più uno è vicino a Dio, tanto più partecipa alla grazia di Dio. Di l’atto quegli Angeli in cielo che sono più prossimi al divin trono sono più favoriti e più ricchi degli altri. Ora Maria più di tutti vicina a Gesù per avergli dato la natura umana, più di tutte doveva pur essere arricchita di grazia. (D. Thomas 3, p., qu. 27, act. 5). Disse benissimo l’Angelo Gabriele, proclamando Maria, piena di grazia, osserva s. Girolamo, perché quella grazia che agli altri santi si comunica solo per parte, fu profusa in Maria in tutta la sua pienezza. Dominus tecum. L’Arcangelo per confermare questa pienezza di grazia in Maria spiega ed amplifica le prime parole gratia plena aggiungendo Dominus tecum, il Signore è con te. Qui cade ogni dubbio di esagerazione sulle parole precedenti. Non è più solamente la grazia di Dio che viene in tutta la sua abbondanza in Maria, ma è Iddio medesimo che viene a riempirla di sé stesso e stabilire la sua dimora nel casto seno di Lei facendone il suo tempio, santificando così l’Altissimo il suo tabernacolo: Sanctificavit tabernaculum suum Altissimus. Così pure secondo il senso della Chiesa commentano s. Tommaso d’Aquino e s. Lorenzo Giustiniani e san Bernardo. E poiché Maria nella sua profonda umiltà tutta si conturbò e domandò la spiegazione di un sì straordinario annunzio, l’Arcangelo Gabriele confermò quanto aveva detto sviluppandone il senso. Ne timeas, Maria, disse Gabriele, invenisti enim gratiam apud Deum: Ecce concipies in utero et paries filium et vocabis nomen eius Iesum. Non temere, o Maria, imperciocché hai trovato grazia presso Dio: Ecco che tu concepirai e partorirai un figlio a cui porrai nome Gesù. E volendo spiegare come il mistero si sarebbe effettuato, soggiunse: Spiritus Sanctus superveniet in te et virtus Altissimi obumbrabit tibi, ideoque et quod nascetur ex te Sanctum vocabitur Filius Dei. Lo Spirito Santo scenderà sopra di te e la virtù dell’Altissimo ti adombrerà, e per questo ancora quello che nascerà di te Santo sarà chiamato Figliuolo di Dio. Ascoltiamo ora s. Antonino Arcivescovo di Firenze a spiegare queste parole del Vangelo. “Da queste parole (invenisti gratiam) si fa manifesta l’eccellenza di Maria. L’Angelo nel dire che Maria trovò, la grazia non vuol dire che l’abbia trovata solo allora, mentre che Maria aveva già la grazia prima dell’Annunziazione dell’Angelo; la ebbe fin dalla nascita; dunque non la perdette mai, la trovò piuttosto a conto di tutto il genere umano che l’aveva perduta col peccato originale. Adamo col suo peccato perdette la grazia per sé e per tutti e colla penitenza che ne fece dopo ricuperò solo la grazia per sé. Maria poi la trovò per tutti, perché per Maria tutti ebbero virtualmente la grazia, in quanto che per Maria avemmo Gesù che ci portò la grazia.” (D. Antoninus part. tit. 15, § 2). Egli è dunque indubitabile quel che insegnano i santi Padri, cioè che Maria trovando questa grazia restituì agli uomini tanto di bene quanto di male ci aveva recato Eva col perdere la grazia. Quindi Ugone Cardinale prendendo la parola a nome degli uomini si presenta umilmente a Maria e le dice: “Non devi nascondere questa grazia, che hai trovata, perché non è tua, ma devi metterla in comune affinché quelli che la smarrirono possano riacquistarla come è giusto. Corrano dunque alla Vergine quelli che peccando perdettero la grazia, e trovandola presso Maria dicano con umiltà e con sicurezza: Rendici, o Madre, la roba nostra, che hai trovato. E non potrà negare di averla trovata, poiché ne fa testimonianza l’Angelo dicendo: Invenisti, l’hai trovata, non comprata, perché non sarebbe grazia, ma gratuitamente la ricevette, quindi invenisti, l’hai trovata.” La stessa verità si raccoglie dalle parole che s. Elisabetta disse a Maria. Quando la Beatissima Vergine andò a visitar s. Elisabetta, questa, appena la vide, fu riempita di Spirito Santo, e talmente piena che si mise a profetizzare inspirata: Benedicta tu inter mulieres, et benedictus fructus ventris tui. Non dobbiamo noi confessare che Maria aveva ricevuta la missione di santificare? E sì che fu proprio Maria che operò questa santificazione di Elisabetta, giacché s. Luca dice precisamente: Et factum est ut audivit salutationem Mariae Elisabeth exultavit infans in utero eius et repleta est Spiritu Sancto Elisabeth. E avvenne che appena Elisabetta udì il saluto di Maria, il bambino saltellò nel suo seno, ed Elisabetta fu ripiena di Spirito Santo. Precisamente allorché Maria giunta in casa di Lei la salutò ed Elisabetta udì il saluto. Origene dice che s. Giovanni non poteva sentir l’influenza della grazia prima che fosse a lui presente Colei che portava con sé l’autor della grazia. Ed Ugone Cardinale osservando che fu ripiena di Spirito Santo Elisabetta e santificato Giovanni all’udire il saluto di Maria, conchiude: “Salutiamo la perciò sovente, affinché nel suo saluto ci troviamo anche noi ripieni di grazia, giacché, di essa specialmente sia scritto: È diffusa la grazia sulle tue labbra, onde la grazia scorre dalle labbra di Maria. Repleta est Spiritu Sancto Elisabeth ad vocem salutationis Mariae: ideo salutanda est frequenter ut in eius salutatione gratia repleamur; de ipsa enim specialiter dietim est: Diffusa est gratia in labiis tuis (Ps. 14) Unde gratia ex labiis eius fluit.”. Santa Elisabetta secondando l’inspirazione dello Spirito Santo, di cui era stata ricolma, ricambiò a Maria il saluto dicendole: Benedicta tu inter mulieres: Benedetta fra le donne. Con queste parole lo Spirito Santo per bocca di Elisabetta esaltò Maria al di sopra di ogni altra fortunata donna, volendo con questo insegnare che Maria era stata benedetta e favorita da Dio eleggendola a recar agli uomini quella benedizione, che perduta in Eva erasi sospirata per quaranta secoli, quella benedizione che togliendo la maledizione doveva confonder la morte e darci la vita sempiterna. Alle congratulazioni della sua parente rispose pure Maria con divina inspirazione: Magnificat anima mea Dominum, quia respexit humilitatem ancillae suae, ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes. L’anima mia esalta la grandezza del Signore…. Perché ha rivolto lo sguardo alla bassezza della sua ancella, poiché ecco che da questo momento beata mi chiameranno tutte le generazioni. (Luc. 1, v. 46 et seqq.). Perché l’avrebbero chiamata beata tutte le generazioni? Questa parola non abbraccia solo tutti gli uomini che vivevano a quel tempo, ma quelli ancora che sarebbero venuti dopo sino alla fine del mondo. Ora affinché la gloria di Maria potesse estendersi a tutte le generazioni e avessero a chiamarla beata, bisognava che qualche benefizio straordinario e perenne venisse da Maria a tutte queste generazioni; cosicché essendo perpetuo in esse il motivo di loro gratitudine fosse ragionevole la perpetuità della lode. Ora questo benefizio continuo e mirabile non può esser altro che l’aiuto che Maria presta agli uomini. Aiuto che doveva abbracciare tutti i tempi, estendersi a tutti i luoghi, ad ogni genere di persone. S. Alberto Magno dice che Maria si chiama beata per eccellenza, come dicendo l’Apostolo intendiamo nominare s. Paolo. Antonio Gistandis, scrittore domenicano, fa la questione come si possa dire Maria benedetta da tutte le generazioni mentre dai Giudei e dai Maomettani non fu mai benedetta? E risponde, che questo fu detto in senso figurativo volendo indicare che di ogni generazione alcuni l’avrebbero benedetta. Perché, come dice Lirano, in tutte le generazioni si trovarono dei convertiti alla fede di Cristo che benedissero alla Vergine; e nello stesso Alcorano, che è il libro scritto da Maometto, si trovano parecchie lodi a Maria (Ant. Gistandis Fer. 6, 4 Temp. adv.). Per questo appunto Maria è proclamata beata presso tutte le generazioni: Beatam me dicent omnes generationes. Ecco con quanta unzione ed abbondanza di sentimenti commenta questo passo il Cardinale Ugone: “Mi chiameranno beata tutte le generazioni cioè dei Giudei, dei gentili; oppure degli uomini e delle donne, dei ricchi e dei poveri, degli angeli e degli uomini, giacché tutti per essa ricevettero il benefizio della salute. Furono gli uomini riconciliati, gli angeli riparati, imperciocché Cristo Figliuolo di Dio operò la salute in mezzo alla terra cioè nel seno di Maria la quale in certo modo può chiamarsi il centro della terra. Poiché ad essa rivolgono lo sguardo quei che godono in cielo, e quei che abitano nell’inferno, cioè nel limbo, e quei che militano nel mondo. I primi per essere risarciti, i secondi per essere espiati, i terzi per essere riconciliati. Dunque beata diranno Maria tutte le generazioni.” E qui esclama nel trasporto della venerazione: “O Vergine beata, perché a tutte le generazioni desti la vita, la grazia e la gloria: la vita ai morti, la grazia ai peccatori, la gloria agli infelici.” Ed applicando a Maria le parole con cui fu lodata Giuditta le dice: Tu gloria Ierusalem, tu laetitia Israel, tu honorificentia populi nostri quia fecisti viriliter. Prima accorre a lodarla la voce degli angeli, la rovina dei quali per essa è riparata: in secondo luogo la voce degli uomini, dei quali la tristezza per essa è rallegrata; poscia la voce delle donne, di cui l’infamia per opera di lei viene cancellata; finalmente la voce dei morti esistenti nel limbo, i quali per Maria sono redenti dalla schiavitù ed introdotti gloriosi nella patria.
Don Bosco amava gli animali? Sono presenti nella sua vita? E che relazione aveva con loro? Alcune domande alle quali si prova di rispondere.
Uccelli, cani, cavalli, ecc. Nella stalla della «Casetta» dove Mamma Margherita si era trasferita con i figli e la suocera dopo l’inaspettata morte del marito Francesco, c’erano una vaccherella, un vitello ed un asinello. Nell’angolo della casa, un pollaio. Giovanni, appena ne fu in grado, portava la vaccherella al pascolo, ma si interessava con più gusto delle nidiate di uccelli. Lo ricorda egli stesso nelle sue «Memorie»: «io era peritissimo ad uccellare colla trappola, colla gabbia, col vischio, coi lacci, praticissimo delle nidiate» (MO 30). Sono noti i vari incidenti di questo suo «mestiere». Ricordiamo quella volta quando il braccio gli restò impigliato nella fessura di un tronco d’albero, dove aveva scoperto un nido di cinciallegre; o quell’altra in cui poté osservare un cuculo far strage di una nidiata di usignoli. Altra volta vide la sua gazza morire di golosità per aver ingoiato troppe ciliege, noccioli inclusi. Un giorno per raggiungere una nidiata scovata su una vecchia quercia, scivolò e cadde pesantemente a terra. E un triste giorno, tornando da scuola, trovò ucciso dal gatto il suo merlo prediletto, allevato in gabbia ed addestrato a zufolare melodie. Quanto a gallinacei, risale a quegli anni il fatto della gallina misteriosa rimasta sotto il vaglio in casa dei nonni a Capriglio e da Giovanni liberata tra risate di sollievo. Pure di quegli anni è l’incidente del tacchino rubato da un mariuolo e fatto restituire con coraggio e un pizzico di fanciullesca imprudenza. Degli anni di Chieri è il trucco del pollo in gelatina portato in tavola e uscito dalla pentola vivo e starnazzante. Una vera amicizia strinse Giovanni con un cane al Sussambrino, il bracco da caccia del fratello Giuseppe. Lo addestrò ad abboccare al volo i tozzi di pane e a non mangiarli sino ad ordine ricevuto. Gli insegnò a salire e scendere per la scala a pioli del fienile e a fare salti e giochi da circo. Il bracco lo seguiva ovunque e quando Giovanni lo portò in regalo a parenti di Moncucco, la povera bestia, presa dalla nostalgia, ritornò a casa da sola in cerca dell’amico perduto. Da studente a Castelnuovo, Giovanni imparò pure ad andare a cavallo. Nell’estate del 1832, il prevosto don Dassano, che gli dava ripetizioni scolastiche, gli affidò la cura della stalla. Giovanni doveva condurre il cavallo a fare la passeggiata e, una volta fuori del paese, saltandogli in groppa, lo spingeva al galoppo. Novello sacerdote, invitato a predicare a Lauriano, a 30 km circa da Castelnuovo, partì a cavallo. Ma la cavalcata finì male. Sulla collina di Berzano la bestia, spaventata da un grosso stormo di uccelli, s’impennò ed il cavaliere finì a terra. Di cavalcate don Bosco ne fece poi parecchie altre nelle sue peregrinazioni per il Piemonte e nelle gite coi ragazzi. Basterebbe ricordare la trionfale salita a Superga nella primavera del 1846 su di un cavallo bardato di tutto punto, mandatogli apposta a Sassi da don G. Anselmetti. Molto meno trionfante fu la traversata appenninica a dorso d’asino nel viaggio a Salicetto Langhe nel novembre 1857. Il sentiero era stretto e scosceso, la neve alta. L’animale incespicava e cadeva ad ogni piè sospinto e don Bosco fu costretto a scendere e spingerlo avanti. La discesa fu ancor più avventurosa e solo il Signore sa come poté giungere al paese in tempo per la sacra missione. Quello non fu l’ultimo viaggio di don Bosco in groppa ad un asinello. Nel luglio del 1862 fece 6 chilometri di strada da Lanzo a Sant’Ignazio allo stesso modo. E così, probabilmente, altre volte. Ma una delle più gloriose cavalcate di don Bosco fu quella dell’ottobre 1864 da Gavi a Mornese. Arrivò in paese a tarda sera al suono festoso delle campane. La gente uscì di casa con i lumi accesi e s’inginocchiò al suo passaggio chiedendo la benedizione. Era l’osanna del popolo al santo dei giovani.
Gli animali nei sogni di don Bosco Se passiamo a considerare i sogni di don Bosco, vi troviamo una grande varietà di animali domestici e selvatici, pacifici e feroci, a rappresentare i giovani e le loro virtù e difetti, il demonio e le sue lusinghe, il mondo e le sue passioni. Nel sogno dei 9 anni, scomparsi i ragazzi, apparve a Giovannino una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi ed altri animali, trasformati poi tutti in mansueti agnelli. In quello dei 16 anni la maestosa Signora gli affidò un gregge; in quello dei 22 anni egli vide nuovamente i giovani trasformati in agnelli; e in quello, infine, del 1844, gli agnelli si mutarono in pastori! Nel 1861 don Bosco fece il sogno della passeggiata in Paradiso. In quella gita i giovani con lui si trovarono di fronte a dei laghi da attraversare. Uno di questi era pieno di bestie feroci pronte a divorare chiunque tentasse il passaggio. La vigilia dell’Assunta del 1862 egli sognò di trovarsi ai Becchi con tutti i suoi giovani, quando comparve sul prato un serpentaccio lungo 7-8 metri, che faceva inorridire. Ma una guida gli insegnò a prenderlo al laccio con una corda mutata poi in Rosario. Il 6 gennaio 1863 don Bosco raccontò ai ragazzi il famoso sogno dell’elefante comparso nel cortile di Valdocco. Era di grandezza smisurata e si divertiva amabilmente con i ragazzi. Li seguì in chiesa, ma si inginocchiò in senso contrario con il muso rivolto verso l’entrata. Poi uscì di nuovo in cortile ed improvvisamente, cambiato umore, con paurosi barriti si avventò contro i giovani per farne strazio. Allora la statuetta della Madonna collocata ancor oggi sotto il portico, si animò, si Ingrandì, e aperse il suo manto a protezione e salvezza di chi si rifugiava presso di lei. Nel 1864 don Bosco fece il sogno dei corvi svolazzanti sopra il cortile di Valdocco per beccare i ragazzi. Nel 1865 fu la volta di una pernice e di una quaglia, simboli rispettivamente di virtù e di vizio. Poi venne il sogno dell’aquila maestosa scesa a ghermire un ragazzo dell’Oratorio; e poi, ancora, quello del gattone dagli occhi di fuoco. Nel 1867 parve a don Bosco di veder entrare in camera sua un gran rospo schifoso, il demonio. Nel 1872 raccontò il sogno dell’usignolo. Nel 1876 quello delle galline, quello del toro furibondo, e quello pure del carro tirato da un maiale e da un rospo di enorme grandezza. Nel 1878 vide in sogno un gatto rincorso da due cagnacci. E così via. Lasciando agli esperti discutere di questi sogni, noi sappiamo però che essi ebbero una grande funzione pedagogica nelle case di don Bosco e che soprattutto in alcuni di essi è difficile non vedere un intervento speciale di Dio.
Il cane grigio Ma se vogliamo arrivare alla soglia del mistero, dobbiamo ricordare il «Grigio», quel cane misterioso che tante volte comparve a proteggere don Bosco nei momenti di pericolo per la sua vita. Nelle sue «Memorie» don Bosco stesso scrive di lui: «Il cane grigio fu tema di molti discorsi e di varie supposizioni. Non pochi di voi l’avranno veduto ed anche accarezzato. Ora lasciando da parte le strane storielle che di questo cane si raccontano, io vi verrò esponendo quanto è pura verità» (MO 251). E passa a raccontare dei rischi incorsi nel tornare a Valdocco a tarda sera negli anni ’50 e come questo grosso cane spesso gli appariva improvvisamente al fianco e lo accompagnava sino a casa. Racconta, ad esempio, di quella sera del novembre 1854, quando lungo la via che dalla Consolata porta al Cottolengo (oggi via Consolata e via Ariosto perpendicolari a Corso Regina), si accorse di due malintenzionati che lo seguivano e che gli saltarono addosso per soffocarlo, quando comparve il cane, li assalì rabbiosamente e li costrinse ad una precipitosa fuga. Come ultima occasione, narra del Grigio comparsogli una notte sulla strada da Morialdo a Moncucco, mentre, solo, si avviava alla Cascina Moglia a trovare i suoi vecchi amici. Ma le sue «Memorie», scritte negli anni 1873-75 non potevano far cenno di quella che pare davvero l’ultima apparizione del Grigio, avvenuta la notte del 13 febbraio 1883. Mentre don Bosco da Ventimiglia, non avendo trovato alcuna carrozza, si dirigeva a piedi sotto una pioggia battente verso la nuova casa salesiana di Vallecrosia, proprio quando con la sua debole vista non sapeva più dove mettere i piedi, gli si fece incontro il suo vecchio amico, il fedelissimo Grigio, che non rivedeva più da vari anni. Il cane gli si avvicinò festosamente e poi, precedendolo, si mosse tra il fango e le fitte tenebre a fargli da guida. Giunto a Vallecrosia, e salutato don Bosco con la zampa, disparve (MB XVI, 35-36). Don Bosco, trovandosi a Marsiglia a pranzo in casa Olive, raccontò il fatto. La signora allora gli chiese come fosse possibile una tale comparsa, perché il cane avrebbe dovuto ormai avere troppi anni di età. E don Bosco, sorridendo, le rispose: «Sarà stato un figlio o un nipote di quello là!» (MB XVI, 36-37). Eluse quindi una domanda imbarazzante, non potendosi trattare di un fenomeno naturale, ma non disse trattarsi di una sua immaginazione. Era troppo sincero per farlo. Stando alle testimonianze di Giuseppe Buzzetti, Carlo Tomatis e Giuseppe Brosio, che vissero con don Bosco sin dai primi tempi, il Grigio assomigliava ad un cane da gregge o a un mastino da guardia. Nessuno, neppure don Bosco, seppe mai donde venisse o chi ne fosse il padrone. Carlo Tomatis disse qualcosa di più: «Era un cane di un aspetto veramente formidabile e certe volte Mamma Margherita nel vederlo, esclamava: “Oh, che brutta bestiaccia!”. Aveva un aspetto quasi di lupo, muso allungato, orecchie ritte, pelo grigio, altezza un metro» (MB IV, 712). Non per nulla incuteva spavento in quelli che non lo conoscevano. Eppure il Card. Cagliero testifica: «io vidi la cara bestia una sera d’inverno» (MB IV, 716). Cara bestia!!! per gli amici!… Una volta, invece di accompagnare don Bosco a casa, gli impedì di uscire. Era sera tarda e Mamma Margherita cercava di dissuadere il figlio dall’andar fuori, ma egli era deciso e pensò di farsi accompagnare da alcuni giovani più grandi. Sul cancello di casa trovarono il cane sdraiato. «Oh, il Grigio — disse don Bosco —, alzati e vieni anche tu!». Ma il cane, invece di obbedire emise un latrato pauroso e non si mosse. Per due volte don Bosco cercò di passar oltre e per due volte il Grigio gli impedì di passare. Allora intervenne Mamma Margherita: «Se ‘t veule nen scoteme me, scota almeno ‘l can, seurt nen!» (Se non vuoi ascoltare me, ascolta almeno il cane, non uscire). E il cane l’ebbe vinta. Si seppe poi che degli assassini prezzolati lo attendevano fuori per togliergli la vita (MB IV, 714). Così il Grigio salvò spesso la vita a don Bosco. Ma non accettava mai cibo né ricompensa d’altro genere. Compariva all’Improvviso e spariva nel nulla a missione compiuta. Ma allora che razza di cane era mai il Grigio? Un giorno del 1872 don Bosco era ospite dei Baroni Ricci nella loro casa di campagna alla Madonna dell’Olmo presso Cuneo. La Baronessa Azeglia Fassati, sposa del Barone Carlo, portò il discorso sul Grigio e don Bosco: «Lasciamo stare ‘l Gris, è già da qualche tempo che non lo vedo più». Erano due anni perché nel 1870 aveva detto: «Questo cane è veramente cosa notabile nella mia vita! Dire che sia un angelo, farebbe ridere; ma neppure si può dire che sia un cane ordinario, perché l’ho visto ancora l’altro giorno» (MB X, 386). Sarà stata quella l’occasione di Moncucco? Ma in altra occasione ebbe ancora a dire: «Di quando in quando mi veniva il pensiero di cercare l’origine di quel cane… io non so altro che quell’animale fu per me una vera provvidenza» (MB IV, 718). Come il cane di San Rocco! Certi fenomeni passano tra le maglie della ricerca scientifica. Per chi crede nessuna spiegazione è necessaria, per chi non crede nessuna spiegazione è possibile.
Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (1/13)
Nel 1868 san Giovanni Bosco stampava un opuscolo intitolato “Meraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice”. Era un suo contributo a far conoscere la Vergine Maria non solo con il titolo più importante, quello di “Madre di Dio”, ma anche come “Aiuto dei cristiani”. Era Lei che le aveva chiesto: “La Madonna vuole che la onoriamo sotto il titolo di Maria Ausiliatrice”. Iniziamo oggi a presentare questa sua opera.
Meraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice Raccolte dal Sacerdote Giovanni Bosco Torino, 1868, Tip. dell’Oratorio di s. Franc. di Sales.
Aedificavit sibi domum. (Prov. IX,1). Maria si edificò Ella stessa una casa.
Al lettore Il titolo di Auxilium Christianorum attribuito all’augusta Madre del Salvatore non è cosa nuova nella Chiesa di Gesù Cristo. Negli stessi libri santi dell’antico testamento Maria è chiamata Regina che sta alla destra del suo Divin Figliuolo vestita in oro e circondata di varietà. Adstitit Regina a dextris tuis in vestitu deaurato, circumdata varietate: salmo 44. Questo manto indorato e circondato di varietà sono altrettante gemme e diamanti, ovvero titoli con cui si suole appellare Maria. Quando pertanto chiamiamo la Santa Vergine aiuto dei cristiani, non è altro che nominare un titolo speciale, che a Maria conviene come diamante sopra i suoi abiti indorati. In questo senso Maria fu salutata aiuto dei cristiani fino dai primi tempi del Cristianesimo. Una ragione per altro tutta speciale per cui la Chiesa vuole negli ultimi tempi segnalare il titolo di Auxilium Christianorum è quello che adduce Monsignor Parisis colle parole seguenti: “Quasi sempre quando il genere umano si è trovato in crisi straordinarie, fu fatto degno, per uscirne, di riconoscere e benedire una nuova perfezione in questa ammirabile creatura, Maria SS. che quaggiù è il più magnifico riflesso delle perfezioni del Creatore.” (Nicolas, pagina 121). Il bisogno oggi universalmente sentito di invocare Maria non è particolare, ma generale; non sono più tiepidi da infervorare, peccatori da convertire, innocenti da conservare. Queste cose sono sempre utili in ogni luogo, presso qualsiasi persona. Ma è la stessa Chiesa Cattolica che è assalita. È assalita nelle sue funzioni, nelle sacre sue istituzioni, nel suo Capo, nella sua dottrina, nella sua disciplina; è assalita come Chiesa Cattolica, come centro della verità, come maestra di tutti i fedeli. Ed è appunto per meritarsi una speciale protezione del Cielo che si ricorre a Maria, come Madre comune, come speciale ausiliatrice dei Re, e dei popoli cattolici, come cattolici di tutto il mondo! Così il vero Dio era invocato Dio di Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe e tale appellazione era diretta ad invocare la divina misericordia a favore di tutto Israele e Dio godeva di essere in questa guisa pregato, e portava pronto soccorso al suo popolo nelle afflizioni. Nel corso di questo libretto vedremo come Maria è veramente stata costituita da Dio aiuto dei Cristiani; e come in ogni tempo tale siasi dimostrata nelle pubbliche calamità specialmente a favore di quei popoli, di quei Sovrani, di quegli eserciti che pativano o combattevano per la Fede. La Chiesa pertanto dopo aver più secoli onorata Maria col titolo di Auxilium Christianorum, in fine istituì una speciale solennità in cui tutti i cattolici si uniscono con una sola voce a ripetere le belle parole con cui è salutata questa augusta Madre del Salvatore: Terribilis ut castrorum acies ordinata, tu cunctas haereses sola interemisti in universo mundo. La Santa Vergine ci aiuti tutti a vivere attaccati alla dottrina ed alla fede, di cui è capo il Romano Pontefice vicario di Gesù Cristo, e ci ottenga la grazia di perseverare nel santo divino servizio in terra per poterla poi un giorno raggiungere nel regno della gloria in cielo.
Capo I. Maria riconosciuta con simboli aiuto del genere umano Fra i mezzi che adopera Iddio per preparare gli uomini a ricevere qualche grande benefizio è principalissimo quello di annunziarlo molto tempo prima. Per questo motivo la venuta del Messia fu annunziata quattro mila anni innanzi e preceduta da tanti simboli e da tante profezie. Orbene Maria, l’augusta Madre del Salvatore, vero aiuto dei cristiani, era un benefizio troppo grande perché non venisse pronunziata parimenti con figure che rappresentassero agli uomini i diversi favori che ella avrebbe fatti al mondo. Eva, Sara, Rebecca, Maria sorella di Mosè, Debora, Susanna, Ester, Giuditta rappresentano sotto speciali aspetti le glorie di Maria come insigne benefattrice del popolo eletto, o come raro modello di tutte le virtù. L’albero della vita, l’arca di Noè, la scala di Giacobbe, il roveto ardente, l’arca dell’alleanza, la torre di Davide, la fortezza di Gerusalemme, l’orto ben custodito e la fontana sigillata di Salomone, la rosa di Gerico, la stella di Giacobbe, l’aurora mattutina, l’acquedotto di acque limpide, sono alcuni dei molti simboli che la Chiesa Cattolica applica a Maria e con cui si suole spiegare qualche suo celeste privilegio o qualche sua eroica virtù. Noi sceglieremo solamente alcuni di questi simboli colla applicazione che ai medesimi sogliono dare la Chiesa o i più accreditati scrittori delle glorie di Maria. Leggiamo pertanto nel libro dell’Ecclesiastico che lo Spirito Santo mette queste parole in bocca di Maria: “Sicut aquaeductus exivi de Paradiso;” come un acquedotto uscii dal Paradiso. (Eccl. 24, 41). L’acquedotto è un canale che serve a ricevere le acque della fonte e condurle secondo la distribuzione dei rigagnoli ed il bisogno dei fiori ad irrigare il terreno. Ed affinché l’acquedotto serva al suo scopo, dice s. Bernardo, bisogna che sia lungo per ricevere le acque da una parte ed arrivare a trasmetterle ai fiori; e Maria è un acquedotto lunghissimo ed abbondantissimo perché sopra ogni altra creatura poté salire fino al trono dell’Altissimo ed attingere al fonte delle grazie celesti e diffonderle copiose in mezzo agli uomini. Ecco il motivo per cui, continua s. Bernardo, mancarono agli uomini i torrenti delle grazie per tanto tempo. Gli è perché mancava un acquedotto che fosse atto a comunicare con Dio vera fonte delle grazie e spargerle sulla terra. Ma Maria fu appunto questo canale integerrimo per l’inviolata fiducia, mondissimo per la verginità, occulto per l’amor di solitudine, mirabile per vera umiltà, diffusivo per pietà, abbondante di acque per pienezza di grazia, difeso per la custodia dei sensi, non di piombo, ma piuttosto d’oro per regia nobiltà e carità eccelsa. Per questo acquedotto, dice Ugone cardinale, si trasmettono le acque delle grazie alla Chiesa; quindi è che il demonio nemico d’ogni nostro bene cerca d’impedire il corso di queste acque salutari col far guerra alla divozione di Maria; nel modo stesso che Oloferne, non potendo espugnare altrimenti la città di Betulia, ordinò di tagliare e divertire il corso del fiume che introduceva le acque nella città. La beatissima Vergine Maria è anche figurata sotto al tipo di una grande regina dicendo il re Davide nei suoi salmi: Adstitit regina a dextris tuis in vestitu deaurato, circumdata varietate (Sal. 44). E perché è regina Maria? Perché stare a destra di Gesù in veste dorata, circondata di varietà? Ella è regina per la grande potenza che ha nel cielo come Madre di Dio; ella sta seduta a destra di Gesù per placarne lo sdegno, per aiutarci nelle nostre miserie, per essere nostra ausiliatrice, nostra sovrana avvocata. Un buon avvocato deve avere diligenza, potere presso il giudice, autorità presso la corte regale e scienza nel trattare le cause. E Davide in quel testo racchiude appunto queste quattro doti in Maria nel grado più eminente. Sta a destra del giudice, adstitit a dextris quasi per invigilare che la divina giustizia non la vinca sulla misericordia, questo è somma diligenza. Adstitit regina, ora ognuno sa che la regina ha indubitatamente gran potere sull’animo del giudice, intercedendo prima che la sentenza sia emanata, ed ottenendone la grazia se è già pronunziata la condanna. In vestitu deaurato, la veste d’oro rende immagine della sapienza di Maria, perché l’oro rappresenta la sapienza. Circumdata varietate, circondata di varietà, munita cioè della molteplicità dei meriti e delle glorie dei santi. Imperciocché in Maria si trova il colore aureo degli Apostoli, il rosso dei martiri, il celeste dei confessori ed il bianco dei vergini. Tutti questi santi circondano Maria e la proclamano loro regina perché possedette in altissimo grado le diverse virtù che ebbero questi santi in particolare. Che se consideriamo Maria già assisa in cielo sopra un trono di gloria, noi la troviamo sollevata alla più alta dignità cui possa elevarsi creatura. Imperciocché non si trova Maria nella classe delle vergini, nell’ordine dei confessori, nelle schiere dei martiri, nel sacro collegio degli Apostoli, nel coro dei Patriarchi e dei Profeti come un semplice membro quasi uno di essi. Ella supera in eccellenza tutte le gerarchie celesti e siede sovra un trono di preziosissimo lavoro a destra del Re del cielo Gesù Cristo suo Figliuolo da vera Regina e signora di tutto il Paradiso. Daniele Agricola nell’opera detta: De corona duodecim stellarum, spiegando questo testo di Davide, dice che Maria sta a destra dei cristiani per aiutarli, perché la parola latina adstare vuol dire stare vicino ad uno per assisterlo. Continua inoltre il medesimo autore a svolgere il testo ed osserva che la parola latina adstare in questo luogo significa pure stare a difesa, e Maria sta a nostra destra per difenderci dai continui assalti che ci muovono i demoni. S. Girolamo dove nel testo latino si trova la parola varietate, spiega che mentre le altre principesse e regine vanno vestite di sfarzosi abbigliamenti, Maria è cinta e coperta di scudi con cui difende i suoi figliuoli. Questo senso sembra concordare con quell’altro della scrittura: Mille clypei pendent ex ea, omnis armatura fortium. Il profeta Davide narrando l’uscita del popolo Ebreo dall’Egitto dice che avevano una nuvola che guidava i loro passi di giorno, ed una colonna di fuoco che rischiarava loro il cammino di notte. S. Bernardo applicando a Maria le proprietà di quella nuvola e di quella colonna, dice che come le nubi ci difendono dall’eccessivo ardore del sole, così Maria ci protegge dal fuoco delle giuste vendette celesti e dalle fiamme della concupiscenza. Ora come la colonna di fuoco spargeva la luce sopra i passi del popolo d’Israele, così Maria illumina il mondo coi raggi della sua misericordia e la molteplicità dei suoi benefizi. Che saremmo noi miseri accecati, che faremmo nel buio di questo secolo se non avessimo questa benefica luce, questa luminosa colonna? (D. Ber. Serm. de Nativ. B. M.). Ma e per tutte le altre miserie non ci dà forse aiuto la dolcissima Regina del cielo? Il beato Giacomo di Varazze applicando a lei le parole dell’Ecclesiastico: In Ierusalem potestas mea, dice che Maria ci porge il suo aiuto in vita, in morte e dopo morte. Tale è la potenza di Maria che può estenderla a questi tre tempi. Se noi abbiamo un amico (argomenta questo scrittore) che ci giovi in vita è certamente un bene per noi; ma se è tale da giovarci anche in punto di morte, è un bene maggiore; che se poi la sua potenza giunge ad aiutarci ancora dopo morte, allora è un bene massimo. Or dunque Maria ci largisce appunto questo triplice benefizio. Di fatto la santa Chiesa nelle lodi che fa cantare dai fedeli in onore di Maria comprendendo questi tre aiuti esclama: Maria mater gratiae, dulcis parens clementiae; Tu nos ab hoste protege, et mortis hora suscipe. Primo ci aiuta in vita; giacché in questa vita altri sono giusti ed altri peccatori; ora Maria aiuta i giusti perché conserva in essi la grazia di Dio, perciò si chiama Mater gratiae madre della grazia; aiuta i peccatori, perché impetra loro la divina misericordia, quindi è detta dulcis parens clementiae. In secondo luogo ci aiuta in morte, perché ci difende in quel punto dalle insidie del demonio; imperciocché questo nemico è tanto audace, che non viene solo al letto dei moribondi peccatori, ma a quello dei santi eziandio adoperando ogni malizia per farli cadere. Ma quando muore qualche suo devoto la Beata Vergine accorre con materna sollecitudine, lo protegge e lo difende, perciò prega la Chiesa: Tu nos ab hoste protege, proteggici dal nemico. In terzo luogo non ci abbandona neppure dopo morte. Talora avviene che alla morte di alcuni santi vengono gli Angeli e conducono le loro anime al cielo, ma quando muoiono i veri devoti di Maria viene essa in persona ed accoglie le anime loro e le introduce nel bel paradiso. Quindi soggiunge Et mortis hora suscipe. Si legge nel libro III dei Re che Betsabea madre di Salomone fu pregata da suo figlio Adonia d’intercedere presso al Re per una grazia. Betsabea commossa da quella preghiera si presentò al Re. Salomone appena la vide comparire scese dal trono, andò a riceverla, anzi la fece ascendere al seggio regale e sedere alla sua destra, dicendole: Pete, mater mea, neque enim fas est ut avertam faciem tuam. Or chi oserà pensare che Gesù sul trono di gloria, alle preghiere che gli presenta Maria abbia da essere verso di lei meno generoso che non fu Salomone verso la madre sua? Anzi osserva qui il dotto Mendoza che la grazia ed autorità di Maria è tanta, che non solo pei fratelli di Gesù intercede, ma anche per suoi nemici e tutto ciò che domanda certamente ottiene. Racconta Mosè nel libro dei Numeri che allorquando Maria sua sorella morì vennero meno le acque. Onde il citato padre Mendoza fa osservare che se le acque abbondarono per quarant’anni nel deserto ciò fu pei meriti di quella santa donna; ed applicando questo l’atto a Maria SS. dice, che se non verranno mai più meno nella Chiesa le grazie agli uomini, ciò è dovuto a Maria che prima in terra poi in cielo interpose i suoi meriti dinanzi all’Altissimo.