Corona dei sette dolori di Maria

La pubblicazione “Corona dei sette dolori di Maria” rappresenta una cara devozione che san Giovanni Bosco inculcava ai suoi giovani. Seguendo la struttura della “Via Crucis”, le sette scene dolorose sono proposte con brevi considerazioni e preghiere, per guidare a una più viva partecipazione alle sofferenze di Maria e del suo Figlio. Ricco di immagini affettive e di spiritualità contrita, il testo riflette il desiderio di unirsi all’Addolorata nella compassione redentrice. Le indulgenze concesse da vari Pontefici attestano l’alto valore pastorale del testo che è un piccolo tesoro di preghiera e riflessione, per alimentare l’amore verso la Madre dei dolori.

Proemio
II primario fine di questa Operetta è di facilitare la rimembranza e la meditazione degli acerbissimi Dolori del tenero Cuore di Maria, cosa a Lei molto gradita, come più volte ha rivelato ai suoi devoti, e mezzo per noi efficacissimo per ottenere il suo patrocinio.
Affinché poi si renda più facile lo esercizio di una tale Meditazione si praticherà primieramente con una corona in cui sono accennati i sette principali dolori di Maria, i quali si potranno quindi meditare in sette distinte brevi considerazioni nel modo che suole farsi la Via Crucis.
Ci accompagni il Signore colla sua celeste grazia e benedizione perché si ottenga il bramato intento, sicché l’anima di ciascuno resti vivamente penetrata dalla frequente memoria dei dolori di Maria con vantaggio spirituale dell’anima, e tutto a maggior gloria di Dio.

Corona dei sette dolori della Beata Vergine Maria con sette brevi considerazioni sopra i medesimi esposte in forma della Via Crucis

Preparazione
Carissimi fratelli e sorelle in Gesù Cristo, noi facciamo i nostri soliti esercizi meditando devotamente gli acerbissimi dolori che la B. V. Maria patì nella vita e morte del suo amato Figlio e nostro Divin Salvatore. Immaginiamoci di trovarci presenti a Gesù pendente in croce, e che l’afflitta sua madre dica a ciascuno di noi: Venite, e vedete se vi è dolore eguale al mio.
Persuasi che questa Madre pietosa ci voglia concedere speciale protezione nel meditare i suoi dolori, invochiamo il Divino aiuto colle seguenti preghiere:

Antif. Veni, Sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium, et tui amoris in eis ignem accende.

Emitte Spiritum tuum et creabuntur
Et renovabis faciem terrae.
Memento Congregationis tuae,
Quam possedisti ab initio.
Domine exaudi orationem meam.
Et clamor meus ad te veniat.

Oremus.
Mentes nostras, quaesumus, Domine, lumine tuae claritatis illustra, ut videre possimus quae agenda sunt, et quae recta sunt, agere valeamus. Per Christum Dominum Nostrum. Amen.

Primo dolore. Profezia di Simeone
Il primo dolore fu allora quando la Beata Vergine Madre di Dio avendo presentato l’unico suo Figlio al Tempio nelle braccia del santo vecchio Simeone, le fu dal medesimo detto: questo sarà una spada che trapasserà l’anima tua, la qual cosa denotava la passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Vergine addolorata, per quell’acutissima spada, con cui il santo vecchio Simeone vi predisse che sarebbe stata trafitta l’anima vostra nella passione e morte del vostro caro Gesù, vi supplico ad impetrarmi grazia di aver sempre presente la memoria del vostro cuore trafitto e delle acerbissime pene sofferte dal vostro Figlio per la mia salute. Così sia.

Secondo dolore. Fuga in Egitto
Il secondo dolore della Beata Vergine fu quando le convenne fuggire in Egitto per la persecuzione del crudele Erode, che empiamente cercava di uccidere il suo amato Figlio.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Maria, mare amarissimo di lagrime, per quel dolore che provaste fuggendo in Egitto per assicurare il vostro Figliuolo dalla barbara crudeltà di Erode, vi supplico che vogliate essere mia guida, affinché per mezzo vostro io resti libero dalle persecuzioni dei visibili e invisibili nemici dell’anima mia. Così sia.

Terzo dolore. Perdita di Gesù nel tempio
Il terzo dolore della Beata Vergine fu quando al tempo della Pasqua, dopo di essere stata col suo sposo Giuseppe e coll’amato figlio Gesù Salvatore in Gerusalemme, nel ritornarsene alla sua povera casa, lo smarrì e per tre giorni continui sospirò la perdita del suo unico Diletto.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Madre sconsolata, voi che nella perdita della presenza corporale del vostro Figlio, lo andaste per tre giorni continui ansiosamente cercando, deh! impetrate grazia a tutti i peccatori onde ancora essi lo vadano cercando con atti di contrizione e lo ritrovino. Così sia.

Quarto dolore. Incontro di Gesù che porta la Croce
Il quarto dolore della Beata Vergine fu quando s’incontrò col suo dolcissimo Figlio che portava una pesante croce sulle delicate spalle al Monte Calvario a fine di essere crocifisso per la nostra salute.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Vergine più d’ogni altra appassionata, per quello spasimo che provaste nel cuore incontrandovi nel vostro Figlio mentre portava il legno della Santissima Croce verso il Monte Calvario, fate, vi prego, che io ancora l’accompagni di continuo col pensiero, pianga le mie colpe, manifesta cagione dei suoi e vostri tormenti. Così sia.

Quinto dolore. Crocifissione di Gesù
Il quinto dolore della B. Vergine fu quando vide il suo Figlio alzato sopra il duro tronco della Croce, che da ogni parte del suo Sacratissimo Corpo versava sangue.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Rosa fra le spine, per quegli amari dolori che trafissero il vostro seno rimirando cogli occhi propri trafitto e sollevato in Croce il vostro Figlio, ottenetemi, vi prego, che con assidue meditazioni solo ricerchi Gesù crocifisso a cagione dei miei peccati. Così sia.

Sesto dolore. Deposizione di Gesù dalla croce
Il sesto Dolore della Beata Vergine fu allora quando il suo amato Figliuolo essendo ferito nel costato dopo la sua morte e deposto dalla Croce, così spietatamente ucciso, venne posto tra le sue Santissime braccia.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Vergine travagliata, voi che sconfitto di Croce il vostro Figlio, l’accoglieste morto nel grembo, e baciando quelle sacratissime Piaghe, vi spargeste sopra un mare di lagrime, deh! fate che anch’io con lagrime di vera compunzione lavi di continuo le ferite mortali che vi fecero i miei peccati. Così sia.

Settimo dolore. Sepoltura di Gesù.
Il settimo Dolore di Maria Vergine Signora ed Avvocata di noi suoi servi e miseri peccatori fu quando accompagnò il Santissimo Corpo del suo Figlio alla sepoltura.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Martire dei Martiri Maria, per quell’acerbo tormento che soffriste allorché sepolto il vostro Figlio vi convenne allontanarvi da quella tomba amata, ottenete grazia, vi prego, a tutti i peccatori, affinché conoscano di quanto grave danno sia all’anima l’essere lontana dal suo Dio. Così sia.

Si reciteranno tre Ave Maria in segno di profondo rispetto alle lagrime che sparse la Beata Vergine in tutti i suoi Dolori per impetrare per mezzo suo un simile pianto per i nostri peccati.
Ave Maria etc.

Finita la Corona si recita il pianto della Beata Vergine, ossia l’inno Stabat Mater etc.

Inno – Pianto della Beata Vergine Maria

Stabat Mater dolorosa
Iuxta crucem lacrymosa,
Dum pendebat Filius.

Cuius animam gementem
Contristatam et dolentem
Pertransivit gladius.

O quam tristis et afflicta
Fuit illa benedicta
Mater unigeniti!

Quae moerebat, et dolebat,
Pia Mater dum videbat.
Nati poenas inclyti.

Quis est homo, qui non fleret,
Matrem Christi si videret
In tanto supplicio?

Quis non posset contristari,
Christi Matrem contemplari
Dolentem cum filio?

Pro peccatis suae gentis
Vidit Iesum in tormentis
Et flagellis subditum.

Vidit suum dulcem natura
Moriendo desolatum,
Dum emisit spiritum.

Eia mater fons amoris,
Me sentire vim doloris
Fac, ut tecum lugeam.

Fac ut ardeat cor meum
In amando Christum Deum,
Ut sibi complaceam.

Sancta Mater istud agas,
Crucifixi fige plagas
Cordi meo valide.

Tui nati vulnerati
Tam dignati pro me pati
Poenas mecum divide.

Fac me tecum pie flere,
Crucifixo condolere,
Donec ego vixero.

Iuxta Crucem tecum stare,
Et me tibi sociare
In planctu desidero.

Virgo virginum praeclara,
Mihi iam non sia amara,
Fac me tecum plangere.

Fac ut portem Christi mortem,
Passionis fac consortem,
Et plagas recolere.

Fac me plagis vulnerari,
Fac me cruce inebriari,
Et cruore Filii.

Flammis ne urar succensus,
Per te, Virgo, sim defensus
In die Iudicii.

Christe, cum sit hine exire,
Da per matrem me venire
Ad palmam victoriae.

Quando corpus morietur,
Fac ut animae donetur
Paradisi gloria. Amen.

Stava Maria dolente
Senza respiro e voce
Mentre pendeva in croce
Del mondo il Redentor.

E nel fatale istante
Crudo materno affetto
Le trafiggeva il petto,
Le lacerava il cor.

Qual di quell’Alma bella
Fosse lo strazio indegno,
No, che l’umano ingegno
Immaginar non può.

Vedere un Figlio… un Dio…
Che palpita, che more!
Sì barbaro dolore
Qual madre mai provò?

Alla funerea scena
Chi tiene il pianto a freno,
Un cuor di tigre ha in seno,
O core in sen non ha.

Chi può mirar in tante
Pene una Madre, un Figlio
E non bagnar il ciglio,
E non sentir pietà?

Per cancellar i falli
D’un popol empio, ingrato
Vide Gesù piagato
Languire e spasimar.

Vide sull’atro Golgota
Il figlio tuo diletto
Chinar la fronte al petto,
E l’anima sua spirar.

O dolce Madre, o puro
Fonte di santo amore,
Parte del tuo dolore
Fa che mi scenda al cor.

Fa, che il pensier profano
Sdegnosamente io sprezzi,
Che a sospirar m’avvezzi
Sol di celeste ardor.

Le barbare ferite
Prezzo del mio delitto,
Del figlio tuo trafitto
Passino, o Madre, in me.

A me dovuti sono
Gli strazi, ch’Ei soffri;
Deh! fa, che possa anch’io
Piangere almen con te.

Teca si strugga in lagrime
Quest’anima gemente:
È se non fu innocente,
Terga il suo fallo almen.

Teco alla Croce accanto
Star, cara Madre, io voglio,
Compagno a quel cordoglio,
Che ti trafigge il sen.

Ah! tu, che delle Vergini
Regina in Ciel ti assidi,
Ah tu propizia arridi
Ai voti del mio cor.

Del buon Gesù spirante
Sul fero tronco esangue
La croce, il fiele, il sangue
Fa ch’io rammenti ognor.

Del Salvator rinnova
In me lo scempio atroce,
Il sangue, il fiel, la Croce
Tutto provar mi fa.

Ma nell’estremo giorno,
Quando ci verrà sdegnato,
Rendalo a me placato,
Maria, la tua pietà.

Gesù che nulla nieghi
A chi tua Madre implora,
Del mio morir nell’ora
Non mi negar mercè.

E quando sia disciolto
Dal suo corporeo velo,
Fa che il mio spirto in Cielo
Voli a regnar con te.

Il Sommo Pontefice Innocenzo XI concede l’indulgenza di 100 giorni ogni volta che si recita lo Stabat Mater. Benedetto XIII accordò l’indulgenza di sette anni a chi reciterà la Corona dei sette dolori di Maria. Moltissime altre indulgenze furono concesse da altri sommi Pontefici specialmente ai Confratelli e Consorelle della compagnia di Maria Addolorata.

I sette dolori di Maria meditati in forma della Via Crucis

S’invochi il divino aiuto dicendo:
Actiones nostras, quaesumus Domine, aspirando praeveni, et adiuvando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a te semper incipiat, et per te coepta finiatur. Per Christum Dominum Nostrum. Amen.

Atto di Contrizione
Afflittissima Vergine, ahi! quanto sconoscente nel tempo trascorso io sono stato verso il mio Dio, con quanta ingratitudine ho corrisposto agl’innumerabili suoi benefizi! Ora me ne pento, e nell’amarezza del mio cuore e nel pianto dell’anima mia, domando a Lui umilmente perdono per avere oltraggiato la sua infinita bontà, resolutissimo in avvenire colla celeste grazia di non mai più offenderlo. Deh? per tutti i dolori che sopportaste nella barbara passione del vostro amato Gesù vi prego coi più profondi sospiri ad ottenermi dal medesimo, pietà e misericordia dei miei peccati. Gradite questo santo esercizio che sono per fare e ricevetelo in unione di quelle pene e di quei dolori che Voi soffriste per il vostro figliuolo Gesù. Ah concedetemi! sì concedetemi che quelle stesse spade che trafissero il vostro spirito, trapassino anche il mio, e che viva e muoia nell’amicizia del mio Signore, per partecipare eternamente della gloria che egli mi ha acquistato con il suo prezioso Sangue. Così sia.

Primo dolore
In questo primo dolore immaginiamoci di trovarci nel tempio di Gerusalemme, dove la Beatissima Vergine ascoltò la profezia del vecchio Simeone.

Meditazione
Ah! Quali ambasce avrà provato il cuore di Maria nel sentire le dolorose parole, con cui le era predetta dal Santo vecchio Simeone l’acerba passione e l’atroce morte del suo dolcissimo Gesù: mentre in quello stesso punto si affacciarono alla di lei mente gli affronti, gli strapazzi e le carneficine che gli empi Giudei avrebbero fatto del Redentore del mondo. Ma sai quale fu la spada più penetrante che in questa circostanza la trafisse? Fu il considerare l’ingratitudine con cui il diletto suo Figlio sarebbe stato contraccambiato dagli uomini. Ora riflettendo che, per cagione dei tuoi peccati sei miseramente nel numero di questi tali, ah! gettati ai piè di questa Madre Addolorata e dille piangendo così (ognuno s’inginocchia): Deh! Pietosissima Vergine, che provaste un sì acerbo spasimo nel vostro spirito vedendo l’abuso quale io indegna creatura avrei fatto del sangue del vostro amabile Figlio, fate, sì fate per il vostro afflittissimo Cuore, che io in avvenire corrisponda alle Divine Misericordie, mi approfitti delle celesti grazie, non riceva invano tanti lumi e tante inspirazioni che voi vi degnerete ottenermi onde abbia la sorte di essere nel numero di coloro per i quali l’amara passione di Gesù saia di eterna salvezza. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Secondo dolore
In questo secondo dolore consideriamo il penosissimo viaggio che la Vergine fece verso l’Egitto per liberare Gesù dalla crudele persecuzione di Erode.

Meditazione
Considera l’acerbo dolore che avrà provato Maria quando di notte tempo dovette mettersi in cammino per ordine dell’Angelo a fine di preservare il suo Figliuolo dalla strage ordinata da quel fierissimo Principe. Ah! che ad ogni grido di animale, ad ogni soffio di vento, ad ogni moto di foglia che sentiva per quelle strade deserte si riempieva di spavento per timore di qualche inconveniente al bambino Gesù che seco portava. Ora si rivolgeva da una parte, ora dall’altra, or affrettava il passo, ora si nascondeva credendosi di essere sopraggiunta dai soldati, che strappando dalle sue braccia il suo amabilissimo Figlio ne avessero fatto sotto gli sguardi suoi barbaro trattamento e fissando l’occhio lagrimoso sopra il suo Gesù e stringendolo fortemente al petto, dandogli mille baci, mandava dal cuore i più affannosi sospiri. E qui rifletti quante volte hai tu rinnovato questo acerbo dolore a Maria sforzando il suo Figliuolo coi tuoi gravi peccati a fuggire dall’anima tua. Ora che conosci il gran male commesso rivolgiti pentito a questa pietosa Madre e dille così:
Ah Madre dolcissima! Una volta Erode costrinse voi con il vostro Gesù a prendere la fuga per l’inumana persecuzione da esso comandata; ma io oh! quante volte obbligai il mio Redentore e per conseguenza ancora voi a partire rapidamente dal mio cuore, introducendo nel medesimo il maledetto peccato, spietato nemico vostro e del mio Dio. Deh! tutto dolente e contrito ve ne domando umilmente perdono.
Sì, misericordia, o cara Madre, misericordia, e vi prometto in avvenire col Divino aiuto di mantenere sempre il mio Salvatore e Voi nel totale possesso dell’anima mia. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Terzo dolore
In questo terzo dolore consideriamo l’afflittissima Vergine che lagrimosa va in traccia del suo smarrito Gesù.

Meditazione
Quanto mai fu grande la pena di Maria, quando si avvide di avere perduto l’amabile suo Figlio! e come si accrebbe il suo dolore allorché avendolo diligentemente ricercato presso gli amici, parenti e vicini non poté avere alcuna notizia di Lui. Essa non badando agl’incomodi, alla stanchezza, ai pericoli andò raminga tre giorni continui per le contrade della Giudea, ripetendo quelle parole di desolazione: forse alcuno ha veduto colui che veramente ama l’anima mia? Ah! che la grande ansietà con cui lo andava ricercando, le faceva immaginare ad ogni momento di vederlo, o di ascoltarne la voce: ma poi conoscendosi delusa, oh come si raccapricciava e più sensibile provava il rammarico di una tale deplorabilissima perdita! Confusione grande per le, o peccatore, il quale avendo tante volte smarrito il tuo Gesù coi gravi mancamenti commessi, non ti desti alcuna premura di andarlo a ricercare, chiaro segno, che poco o niuno conto fai del prezioso tesoro della Divina amicizia. Piangi dunque la tua cecità, e volgendoti a quest’Addolorata Madre, dille sospirando così:
Afflittissima Vergine, deh fate che impari da voi il vero modo di andare in cerca di Gesù ch’io ho smarrito per secondare le mie passioni e le inique suggestioni del demonio, acciocché mi riesca di ritrovarlo, e quando ne sarò tornato in possesso, ripeterò continuamente quelle vostre parole: Ho ritrovato quello che veramente ama il mio cuore; lo riterrò sempre con me, né lo lascerò mai più partire. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Quarto dolore
Nel quarto dolore consideriamo l’incontro che fece l’addolorata Vergine col suo appassionato Figliuolo.

Meditazione
Venite pure, o cuori indurati e provate se potete reggere a questo lagrimevolissimo spettacolo. È una madre la più tenera, la più amorosa che incontra un suo Figlio il più dolce, il più amabile; e come l’incontra? Oh Dio! in mezzo alla più empia ciurmaglia che lo strascina crudelmente alla morte, carico di piaghe, grondante di sangue, lacero per le ferite, con una corona di spine in testa e con un tronco pesante sopra le spalle, affannato, ansante, languente che pare ad ogni passo voglia esalare l’estremo respiro.
Ah! considera, anima mia, l’arresto mortale che fa la Santissima Vergine al primo sguardo che fissa sopra il suo tormentato Gesù; vorrebbe dargli l’ultimo addio, ma e come, se il dolore la impedisce di proferir parola? Vorrebbe gettarglisi al collo, ma resta immobile ed impietrita per la forza dell’interna afflizione; vorrebbe sfogarsi con il pianto, ma si sente talmente serrato ed oppresso il cuore, che non gli riesce di versare una lagrima. Oh! e chi può frenare le lagrime vedendo una povera Madre immersa in sì grande affanno? Ma chi mai è la cagione di una tale acerbissima pena? Ah, sano io, sì sono io con i miei peccati che ho fatto si barbara ferita al tenero vostro cuore, o Vergine Addolorata. Pure chi lo crederebbe? Resto insensibile senza punto essere commosso. Ma se fui ingrato per il passato, per l’avvenire non lo sarò più.
Intanto prostrato ai vostri piedi, o Vergine Santissima, vi domando umilmente perdono di tanto rammarico che vi ho cagionato. Lo conosco e lo confesso che non merito pietà, essendo io il vero motivo per cui cadeste di dolore all’incontrare il vostro Gesù tutto coperto di piaghe; ma ricordatevi, sì ricordatevi che siete madre di misericordia. Ah dimostratevi dunque tale verso di me, ch’io vi prometto in avvenire di essere più fedele al mio Redentore, e così compensare tanti disgusti che ho dato al vostro afflittissimo spirito. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Quinto dolore
In questo quinto dolore immaginiamoci di trovarci sul Monte Calvario dove l’afflittissima Vergine vide spirare in Croce il suo amato Figliuolo.

Meditazione
Eccoci al Calvario ove già sono innalzati due altari di sacrificio, uno nel corpo di Gesù, l’altro nel cuore di Maria. Oh funesto spettacolo! Miriamo la Madre affogata in un mare di affanni vedendosi rapito da spietata morte il caro ed amabile parto delle sue viscere. Ahimè! Ogni martellata, ogni piaga, ogni lacerazione che sopra le sue carni riceve il Salvatore, profondamente rimbombano nel cuore della Vergine. Essa sta ai piedi della Croce talmente penetrata dalla pena e trafitta per il cordoglio che non sapresti decidere chi sia per essere il primo a spirare, se Gesù, o Maria. Fissa l’occhio sul volto del suo Figlio agonizzante, considera le pupille languenti, il volto pallido, le labbra livide, il respiro difficile e conosce finalmente che egli più non vive e che già ha consegnato lo spirito in seno dell’eterno suo Padre. Ah che l’anima di Lei fa allora ogni sforzo possibile per dividersi dal corpo ed unirsi a quella di Gesù. E chi può reggere a tale vista.
Oh addoloratissima Madre, voi invece di ritirarvi dal Calvario, a fine di non sentire sì al vivo le angosce, là ve ne state immobile per assorbire fino all’ultima stilla l’amaro calice delle vostre afflizioni. Che confusione dev’essere questa per me che cerco tutti i modi per scansare le croci e quei piccioli patimenti che per mio bene si degna mandarmi il Signore? Vergine addoloratissima, io mi umilio dinanzi a voi, deh! fate, che conosca una volta chiaramente il pregio ed il valore grande del patire, onde ci prenda tanto attaccamento, che non mi sazi mai di esclamare con S. Francesco Saverio: Plus Domine, Plus Domine, più patire, mio Dio. Ah sì, più patire, o mio Dio. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Sesto dolore
In questo sesto dolore immaginiamoci di vedere la sconsolarsi ma Vergine che riceve fra le braccia il defunto suo Figlio deposto dalla Croce.

Meditazione
Considera l’acerbissima pena che penetrò l’anima di Maria, allorché vide nel suo seno posto il corpo defunto dell’amato Gesù. Ah! che nel fissare lo sguardo sopra le ferite e sopra le piaghe di lui, nel mirarlo rosseggiante del proprio sangue, fu tale l’impeto dell’interno cordoglio, che fu il suo cuore mortalmente trafitto, e se non morì fu l’onnipotenza Divina che la conservò in vita. O povera Madre, si, povera madre, che conducete alla tomba il caro oggetto delle vostre più tenere compiacenze, e che da un mazzo di rose è divenuto un fascio di spine per i maltrattamenti e lacerazioni fattegli dagli empi manigoldi. E chi non vi compatirà? Chi non si sentirà struggere dal dolore vedendovi in uno stato di afflizione da muovere a pietà anche il più duro macigno? Osservo Giovanni inconsolabile, la Maddalena colle altre Marie che si ciucciano acerbamente, Nicodemo che non può più reggere per l’afflizione. Ed io? io solo non verso una lagrima in mezzo a tanto duolo! Ingrato e sconoscente che sono!
Deh! Madre pietosissima, eccomi ai vostri piedi, ricevetemi sotto la potente vostra protezione e fate che questo mio cuore resti trafitto da quella medesima spada che passò parte a parte il vostro afflittissimo spirito, onde si ammollisca una volta e pianga davvero i miei gravi peccati che hanno portato a Voi sì crudo martirio. E così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Settimo dolore
In questo settimo dolore consideriamo l’addoloratissima Vergine che vede chiudere nel sepolcro il suo defunto Figliuolo.

Meditazione
Considera che mortale sospiro mandò l’afflitto cuore di Maria quando vide posto nella tomba il suo amabile Gesù! Oh che pena, che cordoglio provò il suo spirito allorché fu alzata la pietra con cui si doveva chiudere quel sacratissimo monumento! Non era possibile distaccarla dall’orlo del sepolcro, mentre il dolore era tale, che la rendeva insensibile ed immobile, non cessando mai di rimirare quelle piaghe e quelle crudeli ferite. Quando poi venne la tomba serrata o allora sì che tale fu la forza dell’interno rammarico, che sarebbe senza dubbio caduta estinta se Iddio non l’avesse in vita conservata. Oh travagliatissima madre! Voi partirete adesso col corpo da questo luogo, ma qui sicuramente resterà il vostro cuore, essendo qui il vostro vero tesoro. Ah fato, che in compagnia di lui resti tutto il nostro affetto, tutto il nostro amore, lì come potrà essere che non ci struggiamo di benevolenza verso il Salvatore, che ha dato tutto il suo sangue per nostra salvezza? Come potrà essere che noi non amiamo Voi che tanto avete sofferto per nostra cagione.
Ora noi dolenti e pentiti di aver cagionato tanti dolori al vostro Figlio e a voi tanta amarezza ci prostriamo ai vostri piedi e per tutte quelle pene che ci faceste la grazia di meditare, concedeteci questo favore: che la memoria delle medesime resti sempre vivamente impressa nella nostra mente, che si consumino i nostri cuori per amore del nostro buon Dio, e di Voi nostra dolcissima Madre, e che l’ultimo sospiro della nostra vita sia unito a quelli che versaste dal fondo dell’anima vostra nella dolorosa passione di Gesù, a cui sia onore, gloria, e rendimento di grazie per tutti i secoli dei secoli. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Quindi si dice lo Stabat Mater, come sopra.

Antifona. Tuam ipsius animam (ait ad Mariam Simeon) pertransiet gladius.
Ora pro nobis Virgo Dolorosissima.
Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Oremus
Deus in cuius passionem secundum Simeonis prophetiam, dulcissimam animam Gloriosae Virginis et Matris Mariae doloris gladius pertransivit, concede propitius, ut qui dolorum eius memoriam recolimus, passionis tuae effectum felicem consequamur. Qui vivis etc.

Laus Deo et Virgo Dolorosissimae.

Con permissione della Revisione Ecclesiastica

La Festa dei Sette dolori di Maria Vergine Addolorata che si celebra dalla Pia Unione e Società, cade alla terza domenica di settembre nella Chiesa di S. Francesco d’Assisi.

Testo della 3a edizione, Torino, Tipografia di Giulio Speirani e figli, 1871




La radicalità evangelica del Beato Stefano Sándor

Stefano Sándor (Szolnok 1914 – Budapest 1953) è un martire coadiutore salesiano. Giovane allegro e devoto, dopo gli studi metallurgici entrò tra i Salesiani, diventando maestro tipografo e guida dei ragazzi. Animò oratori, fondò la Gioventù Operaia Cattolica e trasformò trincee e cantieri in “oratori festivi”. Quando il regime comunista confiscò le opere ecclesiali, continuò clandestinamente a educare e salvare giovani e macchinari; arrestato, fu impiccato l’8 giugno 1953. Radicato nell’Eucaristia e nella devozione a Maria, incarnò la radicalità evangelica di Don Bosco con dedizione educativa, coraggio e fede incrollabile. Beatificato da papa Francesco nel 2013, resta modello di santità laicale salesiana.

1. Cenni biografici
            Sándor Stefano nacque a Szolnok, in Ungheria, il 26 ottobre 1914 da Stefano e Maria Fekete, primo di tre fratelli. Il padre era impiegato presso le Ferrovie dello Stato, la madre invece era casalinga. Entrambi trasmisero ai propri figli una profonda religiosità. Stefano studiò nella sua città ottenendo il diploma di tecnico metallurgico. Fin da ragazzo veniva stimato dai compagni, era allegro, serio e gentile. Aiutava i fratellini a studiare e a pregare, dandone per primo l’esempio. Fece con fervore la cresima impegnandosi a imitare il suo santo protettore e san Pietro. Serviva ogni giorno la santa Messa dai padri francescani ricevendo l’Eucaristia.
            Leggendo il Bollettino Salesiano conobbe Don Bosco. Si sentì subito attratto dal carisma salesiano. Si confrontò col suo direttore spirituale, esprimendogli il desiderio di entrare nella Congregazione salesiana. Ne parlò anche ai suoi genitori. Essi gli negarono il consenso, e cercarono in ogni modo di dissuaderlo. Ma Stefano riuscì a convincerli, e nel 1936 fu accettato al Clarisseum, sede dei Salesiani a Budapest, dove in due anni fece l’aspirantato. Frequentò nella tipografia “Don Bosco” i corsi di tecnicostampatore. Iniziò il noviziato, ma dovette interromperlo per la chiamata alle armi.
            Nel 1939 ottenne il congedo definitivo e, dopo l’anno di noviziato, emise la sua prima professione l’8 settembre 1940 come salesiano coadiutore. Destinato al Clarisseum, si impegnò attivamente nell’insegnamento nei corsi professionali. Ebbe anche l’incarico dell’assistenza all’oratorio, che condusse con entusiasmo e competenza. Fu il promotore della Gioventù Operaia Cattolica. Il suo gruppo venne riconosciuto come il migliore del movimento. Sull’esempio di Don Bosco, si mostrò un educatore modello. Nel 1942 fu richiamato al fronte, e si guadagnò una medaglia d’argento al valore militare. La trincea era per lui un oratorio festivo che animava salesianamente, rincuorando i compagni di leva. Alla fine della Seconda guerra mondiale si impegnò nella ricostruzione materiale e morale della società, dedicandosi in particolare ai giovani più poveri, che radunava insegnando loro un mestiere. Il 24 luglio 1946 emise la sua professione perpetua. Nel 1948 conseguì il titolo di maestro-stampatore. Alla fine degli studi gli allievi di Stefano venivano assunti nelle migliori tipografie della capitale Budapest e dell’Ungheria.

            Quando lo Stato nel 1949, sotto Mátyás Rákosi, incamerò i beni ecclesiastici e iniziarono le persecuzioni nei confronti delle scuole cattoliche, che dovettero chiudere i battenti, Sándor cercò di salvare il salvabile, almeno qualche macchina tipografica e qualcosa dell’arredamento che tanti sacrifici era costato. Di colpo i religiosi si ritrovarono senza più nulla, tutto era diventato dello Stato. Lo stalinismo di Rákosi continuò ad accanirsi: i religiosi vennero dispersi. Senza più casa, lavoro, comunità, molti si ridussero allo stato di clandestini. Si adattarono a fare di tutto: spazzini, contadini, manovali, facchini, servitori… Anche Stefano dovette “sparire”, lasciando la sua tipografia che era diventata famosa. Invece di rifugiarsi all’estero rimase in patria per salvare la gioventù ungherese. Colto sul fatto (stava cercando di salvare delle macchine tipografiche), dovette fuggire in fretta e rimanere nascosto per alcuni mesi; poi, sotto altro nome, riuscì a farsi assumere in una fabbrica di detergenti della capitale, ma continuò impavido e clandestinamente il suo apostolato, pur sapendo che era attività rigorosamente proibita. Nel luglio del 1952 fu catturato sul posto di lavoro, e non fu più rivisto dai confratelli. Un documento ufficiale ne certifica il processo e la condanna a morte, eseguita per impiccagione l’8 giugno 1953.
            La fase diocesana della Causa di martirio iniziò a Budapest il 24 maggio 2006 e si concluse l’8 dicembre 2007. Il 27 marzo 2013 papa Francesco autorizzò la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto di martirio e a celebrare il rito di beatificazione, che si svolse sabato 19 ottobre 2013 a Budapest.

2. Testimonianza originale di santità salesiana
            I rapidi cenni sulla biografia di Sándor ci hanno introdotto nel cuore della sua vicenda spirituale. Contemplando la fisionomia che ha assunto in lui la vocazione salesiana, segnata dall’azione dello Spirito e ora proposta dalla Chiesa, scopriamo alcuni tratti di quella santità: il senso profondo di Dio e la disponibilità piena e serena alla sua volontà, l’attrazione per Don Bosco e la cordiale appartenenza alla comunità salesiana, la presenza animatrice ed incoraggiante tra i giovani, lo spirito di famiglia, la vita spirituale e di preghiera coltivata personalmente e condivise con la comunità, la totale consacrazione alla missione salesiana vissuta nella dedizione agli apprendisti e ai giovani lavoratori, ai ragazzi dell’oratorio, all’animazione di gruppi giovanili. Si tratta di un’attiva presenza nel mondo educativo e sociale, tutta animata dalla carità di Cristo che lo spinge interiormente!

            Non mancarono gesti che hanno dell’eroico e dell’insolito, fino a quello supremo di donare la propria vita per la salvezza della gioventù ungherese. «Un giovanotto voleva saltare sul tram che passava davanti alla casa salesiana. Sbagliando mossa, cadde sotto il veicolo. La carrozza si fermò troppo tardi; una ruota lo ferì profondamente alla coscia. Una grande folla si radunò a guardare la scena senza intervenire, mentre il povero malcapitato stava per dissanguarsi. In quel momento si aprì il cancello del collegio e Pista (nome famigliare di Stefano) corse fuori con una barella pieghevole sotto il braccio. Buttò per terra la sua giacca, si infilò sotto il tram e tirò fuori il giovanotto con prudenza, stringendo la sua cintura attorno alla coscia sanguinante, e mise il ragazzo sulla barella. A questo punto arrivò l’ambulanza. La folla festeggiò Pista con entusiasmo. Egli arrossì, ma non poté nascondere la gioia di avere salvato la vita a qualcuno».
            Uno dei suoi ragazzi ricorda: «Un giorno mi ammalai gravemente di tifo. All’ospedale di Újpest mentre al capezzale i miei genitori si preoccupavano per la mia vita, Stefano Sándor si offrì di darmi il sangue, se fosse stato necessario. Questo atto di generosità commosse molto mia madre e tutte le persone intorno a me».
            Anche se sono trascorsi oltre sessant’anni dal suo martirio e profonda è stata l’evoluzione della Vita Consacrata, dell’esperienza salesiana, della vocazione e della formazione del salesiano coadiutore, la via salesiana alla santità tracciata da Stefano Sándor è un segno e un messaggio che apre prospettive per l’oggi. Si compie in questo modo l’affermazione delle Costituzioni salesiane: «I confratelli che hanno vissuto o vivono in pienezza il progetto evangelico delle Costituzioni sono per noi stimolo e aiuto nel cammino di santificazione». La sua beatificazione indica concretamente quella «misura alta della vita cristiana ordinaria» indicata da Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte.

2.1. Sotto il vessillo di Don Bosco
            È sempre interessante cercare di individuare nel piano misterioso che il Signore tesse su ciascuno di noi il filo conduttore di tutta l’esistenza. Con una formula sintetica il segreto che ha ispirato e guidato tutti i passi della vita di Stefano Sándor, si può sintetizzare con queste parole: al seguito di Gesù, con Don Bosco e come Don Bosco, dovunque e sempre. Nella storia vocazionale di Stefano Don Bosco irrompe in modo originale e con i tratti tipici di una vocazione ben identificata, come scrisse il parroco francescano, presentando il giovane Stefano: «Qui a Szolnok, nella nostra parrocchia abbiamo un giovane molto bravo: Stefano Sándor di cui sono padre spirituale e che, finita la scuola tecnica, apprese il mestiere in una scuola metallurgica; fa la Comunione giornalmente e vorrebbe entrare in un ordine religioso. Da noi non avremmo nessuna difficoltà, ma lui vorrebbe entrare dai Salesiani come fratello laico».
            Il giudizio lusinghiero del parroco e direttore spirituale evidenzia: i tratti di lavoro e preghiera tipici della vita salesiana; un cammino spirituale perseverante e costante con una guida spirituale; l’apprendistato dell’arte tipografica che nel tempo si perfezionerà e si specializzerà.
            Era venuto a conoscere Don Bosco tramite il Bollettino Salesiano e le pubblicazioni salesiane di Rákospalota. Da questo contatto attraverso la stampa salesiana nacque forse la sua passione per la tipografia e per i libri. Nella lettera all’Ispettore dei Salesiani d’Ungheria, don János Antal, dove chiede di essere accettato tra i figli di Don Bosco, dichiarava: «Sento la vocazione di entrare nella Congregazione salesiana. Di lavoro ce n’è bisogno ovunque; senza lavoro non si può raggiungere la vita eterna. A me piace lavorare».
            Fin dall’inizio emerge la volontà forte e decisa di perseverare nella vocazione ricevuta, come poi di fatto avverrà. Quando il 28 maggio 1936 egli fece domanda di ammissione al noviziato salesiano, dichiarò di «aver conosciuto la Congregazione salesiana ed essere stato sempre più confermato nella sua vocazione religiosa, tanto da confidare di poter perseverare sotto il vessillo di Don Bosco». Con poche parole Sándor esprime una coscienza vocazionale di alto profilo: conoscenza esperienziale della vita e dello spirito della Congregazione; conferma di una scelta giusta e irreversibile; sicurezza per il futuro di essere fedele sul campo di battaglia che lo attende.
            Il verbale dell’ammissione al noviziato, in lingua italiana (2 giugno 1936), qualifica unanimemente l’esperienza dell’aspirantato: «Con ottimo risultato, diligente, di pietà buona e si offrì da sé all’oratorio festivo, fu pratico, di buon esempio, ricevette l’attestato di stampatore, ma non ha ancora la perfetta praticità». Sono già presenti quei tratti che, consolidati successivamente nel noviziato, ne definiranno la fisionomia di religioso salesiano laico: l’esemplarità della vita, la generosa disponibilità alla missione salesiana, la competenza nella professione di tipografo.
            L’8 settembre 1940 emette la sua professione religiosa come salesiano coadiutore. Di questo giorno di grazia riportiamo una lettera scritta da Pista, come veniva famigliarmente chiamato, ai suoi genitori: «Cari genitori, ho da riferire di un evento importante per me e che lascerà orme indelebili nel mio cuore. L’8 settembre per grazia del buon Dio e con la protezione della Santa Vergine mi sono impegnato con la professione ad amare e servire Dio. Nella festa della Vergine Madre ho fatto il mio sposalizio con Gesù e gli ho promesso col triplice voto di essere Suo, di non staccarmi mai più da Lui e di perseverare nella fedeltà a Lui fino alla morte. Prego pertanto tutti voi di non dimenticarmi nelle vostre preghiere e nelle Comunioni, facendo voti che io possa rimanere fedele alla mia promessa fatta a Dio. Potete immaginare che quello fu per me un giorno lieto, mai capitato nella mia vita. Penso che non avrei potuto dare alla Madonna un dono di compleanno più gradito del dono di me stesso. Immagino che il buon Gesù vi avrà guardato con occhi affettuosi, essendo stati voi a donarmi a Dio… Affettuosi saluti a tutti. PISTA».

2.2. Dedizione assoluta alla missione
            «La missione dà a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto…», dicono le Costituzioni salesiane.12 Stefano Sándor visse la missione salesiana nel campo che gli era stato affidato, incarnando la carità pastorale educativa come salesiano coadiutore, con lo stile di Don Bosco. La sua fede lo portò a vedere Gesù nei giovani apprendisti e lavoratori, nei ragazzi dell’oratorio, in quelli della strada.
            Nell’industria tipografica la direzione competente dell’amministrazione è considerata un compito essenziale. Stefano Sándor era incaricato della direzione, dell’addestramento pratico e specifico degli apprendisti e della fissazione dei prezzi dei prodotti tipografici. La tipografia “Don Bosco” godeva in tutto il Paese di grande prestigio. Facevano parte delle edizioni salesiane il Bollettino Salesiano, Gioventù Missionaria, riviste per la gioventù, il Calendario Don Bosco, libri di devozione e l’edizione in traduzione ungherese degli scritti ufficiali della Direzione Generale dei Salesiani. È in quell’ambiente che Stefano Sándor prese ad amare i libri cattolici che venivano da lui non solo approntati per la stampa, ma anche studiati.
            Nel servizio della gioventù egli era pure responsabile dell’educazione collegiale dei giovani. Anche questo era un compito importante, oltre al loro addestramento tecnico. Era indispensabile disciplinare i giovani, in fase di sviluppo vigoroso, con fermezza affettuosa. In ogni momento del periodo di apprendistato egli li affiancava come un fratello maggiore. Stefano Sándor si distinse per una forte personalità: possedeva un’eccellente istruzione specifica, accompagnata dalla disciplina, dalla competenza e dallo spirito comunitario.
            Non si accontentava di un solo determinato lavoro, ma si rendeva disponibile ad ogni necessità. Si assunse il compito di sagrestano della piccola chiesa del Clarisseum e si prese cura nella direzione del “Piccolo Clero”. Prova della sua capacità di resistenza fu anche l’impegno spontaneo di lavoro volontario nel fiorente oratorio, frequentato regolarmente dai giovani dei due sobborghi di Újpest e Rákospalota. Gli piaceva giocare con i ragazzi; nelle partite di calcio faceva l’arbitro con grande competenza.

2.3. Religioso educatore
            Stefano Sándor fu educatore alla fede di ogni persona, confratello e ragazzo, soprattutto nei momenti di prova e nell’ora del martirio. Davvero Sándor aveva fatto della missione per i giovani il proprio spazio educativo, dove viveva quotidianamente i criteri del Sistema Preventivo di Don Bosco – ragione, religione, amorevolezza – nella vicinanza e assistenza amorosa ai giovani lavoratori, nell’aiuto prestato a comprendere e accettare le situazioni di sofferenza, nella testimonianza viva della presenza del Signore e del suo amore indefettibile.
            A Rákospalota Stefano Sándor si dedicò con zelo all’addestramento dei giovani tipografi e all’educazione dei giovani dell’oratorio e dei “Paggi del Sacro Cuore”. Su questi fronti manifestò uno spiccato senso del dovere, vivendo con grande responsabilità la sua vocazione religiosa e caratterizzandosi per una maturità che suscitava ammirazione e stima. «Durante la sua attività tipografica, viveva coscienziosamente la sua vita religiosa, senza alcuna volontà di apparire. Praticava i voti di povertà, castità e obbedienza, senza alcuna forzatura. In questo campo, la sua sola presenza valeva una testimonianza, senza dire alcuna parola. Anche gli alunni riconoscevano la sua autorevolezza, grazie ai suoi modi fraterni. Metteva in pratica tutto ciò che diceva o chiedeva agli alunni, e a nessuno veniva in mente di contraddirlo in alcun modo».
            György Érseki conosceva i Salesiani fin dal 1945 e dopo la Seconda guerra mondiale andò ad abitare a Rákospalota, nel Clarisseum. La sua conoscenza con Stefano Sándor durò fino al 1947. Per questo periodo non solo ci offre uno spaccato della molteplice attività del giovane coadiutore, tipografo, catechista ed educatore della gioventù, ma anche una lettura profonda, dalla quale emerge la ricchezza spirituale e la capacità educativa di Stefano: «Stefano Sándor fu una persona molto dotata di natura. In qualità di pedagogo, posso sostenere e confermare la sua capacità di osservazione e la sua personalità poliedrica. Fu un bravo educatore e riusciva a gestire i giovani, uno per uno, in una maniera ottimale, scegliendo il tono adeguato con tutti. Vi è ancora un dettaglio appartenente alla sua personalità: considerava ogni suo lavoro un santo dovere, consacrando, senza sforzi e con grande naturalezza, tutta la sua energia alla realizzazione di questo scopo sacro. Grazie ad un intuito innato, riusciva a cogliere l’atmosfera e ad influenzarla positivamente. […] Aveva un carattere forte come educatore; si prendeva cura di tutti singolarmente. S’interessava dei nostri problemi personali, reagendo sempre nel modo più adatto a noi. In questo modo realizzava i tre principi di Don Bosco: la ragione, la religione e l’amorevolezza… I coadiutori salesiani non indossavano la veste all’infuori del contesto liturgico, ma l’aspetto di Stefano Sándor si distingueva dalla massa della gente. Per quanto riguarda la sua attività di educatore, non ricorreva mai alla punizione fisica, vietata secondo i principi di Don Bosco, diversamente da altri insegnanti salesiani più impulsivi, incapaci di padroneggiarsi e che a volte davano degli schiaffi. Gli alunni apprendisti affidati a lui formavano una piccola comunità all’interno del collegio, pur essendo diversi fra di loro dal punto di vista dell’età e della cultura. Essi mangiavano alla mensa insieme agli altri studenti, dove abitualmente durante i pasti si leggeva la Bibbia. Naturalmente vi era presente anche Stefano Sándor. Grazie alla sua presenza, il gruppo di apprendisti industriali riuscì sempre il più disciplinato… Stefano Sándor rimase sempre giovanile, dimostrando grande comprensione verso i giovani. Cogliendo i loro problemi, trasmetteva dei messaggi positivi e li sapeva consigliare sia sul piano personale, che su quello religioso. La sua personalità rivelava grande tenacia e resistenza nel lavoro; anche nelle situazioni più difficili, rimaneva fedele ai suoi ideali e a se stesso. Il collegio salesiano di Rákospalota ospitava una grande comunità, richiedendo un lavoro con i giovani a più livelli. Nel collegio, accanto alla tipografia, abitavano dei giovani salesiani in formazione, che erano in stretto rapporto con i coadiutori. Ricordo i seguenti nomi: József Krammer, Imre Strifler, Vilmos Klinger e László Merész. Questi giovani avevano compiti diversi da quelli di Stefano Sándor e ne differivano anche caratterialmente. Grazie però alla loro vita in comune, conoscevano i problemi, le virtù e i difetti gli uni degli altri. Stefano Sándor nel suo rapporto con questi chierici trovò sempre la misura adeguata. Stefano Sándor riuscì a trovare il tono fraterno per ammonirli, quando mostravano qualche loro manchevolezza, senza cadere nel paternalismo. Anzi, furono i giovani chierici a chiedere la sua opinione. A mio avviso, egli realizzò gli ideali di Don Bosco. Fin dal primo momento della nostra conoscenza, Stefano Sándor rappresentò lo spirito che caratterizzava i membri della Società Salesiana: senso del dovere, purezza, religiosità, praticità e fedeltà ai principi cristiani».

            Un ragazzo di quel tempo così ricorda lo spirito che animava Stefano Sándor: «Il mio primo ricordo di lui è legato alla sagrestia del Clarisseum, in cui egli, in qualità di sagrestano principale, esigeva l’ordine, imponendo la serietà dovuta alla situazione, rimanendo però sempre lui, con il suo comportamento, a darci il buon esempio. Era una delle sue caratteristiche quella di darci le direttive con un tono moderato, senza alzar la voce, chiedendoci piuttosto cortesemente di fare i nostri doveri. Questo suo comportamento spontaneo ed amichevole ci conquistò. Gli volevamo veramente bene. Ci incantò la naturalezza con la quale Stefano Sándor si occupava di noi. Ci insegnava, pregava e viveva con noi, testimoniando la spiritualità dei coadiutori salesiani di quel tempo. Noi, giovani, spesso non ci rendevamo conto di quanto fossero speciali queste persone, ma egli spiccava per la sua serietà, che manifestava in chiesa, nella tipografia e persino nel campo da gioco».

3. Riflesso di Dio con radicalità evangelica
            Ciò che dava spessore a tutto questo – la dedizione alla missione e la capacità professionale ed educativa – e che colpiva immediatamente coloro che lo incontravano era la figura interiore di Stefano Sándor, quella di discepolo del Signore, che viveva in ogni momento la sua consacrazione, nella costante unione con Dio e nella fraternità evangelica. Dalle testimonianze processuali emerge una figura completa, anche per quell’equilibrio salesiano per cui le diverse dimensioni si congiungono in una personalità armonica, unificata e serena, aperta al mistero di Dio vissuto nel quotidiano.
            Un tratto che colpisce di tale radicalità è il fatto che fin dal noviziato tutti i suoi compagni, anche quelli aspiranti al sacerdozio e molto più giovani di lui, lo stimassero e lo vedessero come modello da imitare. L’esemplarità della sua vita consacrata e la radicalità con cui visse e testimoniò i consigli evangelici lo distinsero sempre e ovunque per cui in molte occasioni, anche nel tempo della prigionia, diversi pensavano che fosse un sacerdote. Tale testimonianza dice molto della singolarità con cui Stefano Sándor visse sempre con chiara identità la sua vocazione di salesiano coadiutore, evidenziando proprio lo specifico della vita consacrata salesiana in quanto tale. Tra i compagni di noviziato Gyula Zsédely così parla di Stefano Sándor: «Entrammo insieme nel noviziato salesiano di Santo Stefano a Mezőnyárád. Il nostro maestro fu Béla Bali. Qui passai un anno e mezzo con Stefano Sándor e fui testimone oculare della sua vita, modello di giovane religioso. Benché Stefano Sándor avesse almeno nove-dieci anni più di me, conviveva con i suoi compagni di noviziato in modo esemplare; partecipava alle pratiche di pietà insieme a noi. Non sentivamo affatto la differenza d’età; ci stava a fianco con affetto fraterno. Ci edificava non solo attraverso il suo buon esempio, ma anche dandoci dei consigli pratici in merito all’educazione della gioventù. Si vedeva già allora come fosse predestinato a questa vocazione secondo i principi educativi di Don Bosco… Il suo talento di educatore balzò agli occhi anche di noi novizi, specialmente in occasione delle attività comunitarie. Con il suo fascino personale ci entusiasmava a tal punto, che davamo per scontato di poter affrontare con facilità anche i compiti più difficili. Il motore della sua profonda spiritualità salesiana furono la preghiera e l’Eucaristia, nonché la devozione alla Vergine Maria Ausiliatrice. Durante il noviziato, che durò un anno, vedevamo nella sua persona un buon amico. Divenne il nostro modello anche nell’obbedienza, poiché, essendo lui il più vecchio, fu messo alla prova con delle piccole umiliazioni, ma egli le sopportò con padronanza e senza dar segni di sofferenza o risentimento. In quel tempo, purtroppo, c’era qualcuno tra i nostri superiori che si divertiva ad umiliare i novizi, ma Stefano Sándor seppe resistere bene. La sua grandezza di spirito, radicata nella preghiera, era percepibile da tutti».
            Riguardo alla intensità con cui Stefano Sándor viveva la sua fede, con una continua unione con Dio, emerge una esemplarità di testimonianza evangelica, che possiamo ben definire un “riflesso di Dio”: «Mi pare che la sua attitudine interiore sia scaturita dalla devozione all’Eucaristia e alla Madonna, la quale aveva trasformato anche la vita di Don Bosco. Quando si occupava di noi, “Piccolo Clero”, non dava l’impressione di esercitare un mestiere; le sue azioni manifestavano la spiritualità di una persona capace di pregare con grande fervore. Per me e per i miei coetanei “il Signor Sándor” fu un ideale e neanche per sogno pensavamo che tutto ciò che abbiamo visto e udito fosse una messinscena superficiale. Ritengo che solo la sua intima vita di preghiera abbia potuto alimentare tale comportamento quando, ancora confratello giovanissimo, aveva compreso e preso sul serio il metodo di educazione di Don Bosco».
            La radicalità evangelica si espresse in diverse forme nel corso della vita religiosa di Stefano Sándor:
            – Nell’aspettare con pazienza il consenso dei genitori per entrare dai Salesiani.
            – In ogni passaggio della vita religiosa dovrà attendere: prima di essere ammesso al noviziato dovrà fare l’aspirantato; ammesso al noviziato dovrà interromperlo per fare il servizio militare; la domanda per la professione perpetua, prima accettata, verrà rinviata dopo un ulteriore periodo di voti temporanei.
            – Nelle dure esperienze del servizio militare e al fronte. Lo scontro con un ambiente che tendeva molte insidie alla sua dignità di uomo e di cristiano rafforzarono in questo giovane novizio la decisione di seguire il Signore, di essere fedele alla sua scelta di Dio, costi quel che costi. Davvero non c’è discernimento più duro ed esigente che quello di un noviziato provato e vagliato nella trincea della vita militare.
            – Negli anni della soppressione e poi del carcere, fino all’ora suprema del martirio.

            Tutto questo rivela quello sguardo di fede che accompagnerà sempre la storia di Stefano: la consapevolezza che Dio è presente e opera per il bene dei suoi figli.

Conclusione
            Stefano Sándor dalla nascita fino alla morte fu un uomo profondamente religioso, che in tutte le circostanze della vita rispose con dignità e coerenza alle esigenze della sua vocazione salesiana. Così visse nel periodo dell’aspirantato e della formazione iniziale, nel suo lavoro di tipografo, come animatore dell’oratorio e della liturgia, nel tempo della clandestinità e della carcerazione, fino ai momenti che precedettero la sua morte. Desideroso, fin dalla prima giovinezza, di consacrarsi al servizio di Dio e dei fratelli nel generoso compito dell’educazione dei giovani secondo lo spirito di Don Bosco, fu capace di coltivare uno spirito di fortezza e di fedeltà a Dio e ai fratelli che lo misero in grado, nel momento della prova, di resistere, prima alle situazioni di conflitto e poi alla prova suprema del dono della vita.
            Vorrei evidenziare la testimonianza di radicalità evangelica offerta da questo confratello. Dalla ricostruzione del profilo biografico di Stefano Sándor emerge un reale e profondo cammino di fede, iniziato fin dalla sua infanzia e giovinezza, irrobustito dalla professione religiosa salesiana e consolidato nell’esemplare vita di salesiano coadiutore. Si nota in particolare una genuina vocazione consacrata, animata secondo lo spirito di Don Bosco, da un intenso e fervoroso zelo per la salvezza delle anime, soprattutto giovanili. Anche i periodi più difficili, quali il servizio militare e l’esperienza della guerra, non scalfirono l’integro comportamento morale e religioso del giovane coadiutore. È su tale base che Stefano Sándor subirà il martirio senza ripensamenti o esitazioni.
            La beatificazione di Stefano Sándor impegna tutta la Congregazione nella promozione della vocazione del salesiano coadiutore, accogliendo la sua testimonianza esemplare e invocando in forma comunitaria la sua intercessione per questa intenzione. Come salesiano laico, riuscì a dare buon esempio persino ai preti, con la sua attività in mezzo ai giovani e con la sua esemplare vita religiosa. È un modello per i giovani consacrati, per il modo con il quale affrontò le prove e le persecuzioni senza accettare compromessi. Le cause a cui si dedicò, la santificazione del lavoro cristiano, l’amore per la casa di Dio e l’educazione della gioventù, sono tuttora missione fondamentale della Chiesa e della nostra Congregazione.
Come educatore esemplare dei giovani, in particolare degli apprendisti e dei giovani lavoratori, e come animatore dell’oratorio e dei gruppi giovanili, ci è di esempio e di stimolo nel nostro impegno di annunciare ai giovani il Vangelo della gioia attraverso la pedagogia della bontà.




Don Elia Comini: sacerdote martire a Monte Sole

Il 18 dicembre 2024 papa Francesco ha riconosciuto ufficialmente il martirio di don Elia Comini (1910-1944), Salesiano di Don Bosco, che sarà dunque beatificato. Il suo nome si aggiunge a quello di altri sacerdoti—come don Giovanni Fornasini, già Beato dal 2021—rimasti vittime delle efferate violenze naziste nell’area di Monte Sole, sui colli bolognesi, durante la Seconda Guerra Mondiale. La beatificazione di don Elia Comini non è solo un avvenimento di straordinario rilievo per la Chiesa bolognese e la Famiglia Salesiana, ma costituisce anche un invito universale a riscoprire il valore della testimonianza cristiana: una testimonianza in cui la carità, la giustizia e la compassione prevalgono su ogni forma di violenza e di odio.

Dall’Appennino ai cortili salesiani
            Don Elia Comini nasce il 7 maggio 1910 in località “Madonna del Bosco” di Calvenzano di Vergato, in provincia di Bologna. La sua casa natale è contigua a un piccolo santuario mariano, dedicato alla “Madonna del Bosco”, e questa forte impronta nel segno di Maria lo accompagnerà tutta la vita.
            È il secondogenito di Claudio ed Emma Limoni che si erano sposati, presso la chiesa parrocchiale di Salvaro, l’11 febbraio 1907. L’anno dopo era nato il primogenito Amleto. Due anni più tardi veniva al mondo Elia. Battezzato il giorno dopo la nascita – 8 maggio – presso la parrocchia Sant’Apollinare di Calvenzano, Elia riceve quel giorno anche i nomi di “Michele” e “Giuseppe”.
            Quando ha sette anni la famiglia si trasferisce in località “Casetta” di Pioppe di Salvaro nel comune di Grizzana. Nel 1916 Elia inizia la scuola: frequenta le prime tre classi elementari a Calvenzano. In quel periodo riceve anche la Prima Comunione. Ancora piccolo, si mostra molto coinvolto nel catechismo e nelle celebrazioni liturgiche. Riceve la Cresima il 29 luglio 1917. Tra il 1919 e il 1922 Elia apprende i primi elementi di pastorale alla «scuola di fuoco» di Mons. Fidenzio Mellini che da giovane aveva conosciuto don Bosco, il quale gli aveva profetizzato il sacerdozio. Nel 1923, don Mellini orienta quindi ai Salesiani di Finale Emilia sia Elia sia il fratello Amleto ed entrambi faranno tesoro del carisma pedagogico del santo dei giovani: Amleto come docente e “imprenditore” nell’ambito della scuola; Elia come Salesiano di Don Bosco.
            Novizio dal 1° ottobre 1925 a San Lazzaro di Savena, Elia Comini resta orfano di padre il 14 settembre 1926, a pochi giorni (3 ottobre 1926) dalla sua Prima Professione religiosa che rinnoverà fino alla Perpetua, l’8 maggio 1931 nell’anniversario del battesimo, presso l’Istituto “San Bernardino” di Chiari. A Chiari sarà inoltre “tirocinante” presso l’Istituto Salesiano “Rota”. Riceve il 23 dicembre 1933 gli ordini minori dell’ostiariato e del lettorato; dell’esorcistato e dell’accolitato il 22 febbraio 1934. È suddiacono il 22 settembre 1934. Ordinato diacono nella cattedrale di Brescia il 22 dicembre 1934, don Elia è consacrato sacerdote per l’imposizione delle mani del Vescovo di Brescia Mons. Giacinto Tredici il 16 marzo del 1935, a soli 24 anni: il giorno successivo celebra la Prima Messa presso l’Istituto salesiano “San Bernardino” di Chiari. Il 28 luglio 1935 festeggerà con una Messa a Salvaro.
            Iscritto alla facoltà di Lettere Classiche e Filosofia dell’allora Regia Università di Milano, si fa sempre assai benvolere dagli allievi, sia come docente, sia come padre e guida nello Spirito: il suo carattere, serio senza rigidità, gli vale stima e fiducia. Don Elia è anche un fine musico e umanista, che apprezza e sa far apprezzare le “cose belle”. Nei componimenti scritti molti studenti, oltre a svolgere la traccia, trovano naturale aprire a don Elia il proprio cuore, fornendogli così occasione per accompagnarli e indirizzarli. Di don Elia “Salesiano” si dirà che era come la chioccia con attorno i pulcini («Si leggeva sul loro volto tutta la felicità di ascoltarlo: sembravano una covata di pulcini attorno alla chioccia»): tutti vicini a lui! Questa immagine richiama quella di Mt 23,37 ed esprime la sua attitudine a radunare le persone per rallegrarle e custodirle.
            Don Elia si laurea il 17 novembre 1939 in Lettere Classiche con una tesi sul De resurrectione carnis di Tertulliano, relatore il professore Luigi Castiglioni (latinista di fama nonché co-autore di un celebre dizionario di Latino, il “Castiglioni-Mariotti”): soffermandosi sulle parole «resurget igitur caro», Elia commenta che si tratta del canto di vittoria dopo una battaglia lunga ed estenuante.

Un viaggio senza ritorno
            Quando il fratello Amleto si trasferisce in Svizzera, la mamma – signora Emma Limoni – resta sola in Appennino: perciò don Elia, in piena intesa con i Superiori, le dedicherà ogni anno le proprie vacanze. Quando tornava a casa aiutava la mamma ma – sacerdote – si rendeva anzitutto disponibile nella pastorale locale, affiancando Mons. Mellini.
            D’accordo con i Superiori e in particolare l’Ispettore, don Francesco Rastello, don Elia torna a Salvaro anche nell’estate 1944: quell’anno spera di poter far sfollare la mamma da una zona dove, a breve distanza, forze Alleate, Partigiani ed effettivi nazi-fascisti definivano una situazione di particolare rischio. Don Elia è consapevole del pericolo che corre lasciando la sua Treviglio per recarsi a Salvaro e un confratello, don Giuseppe Bertolli sdb, ricorda: «salutandolo gli dissi che un viaggio come il suo avrebbe anche potuto essere senza ritorno; gli chiesi anche, naturalmente scherzando, che cosa mi avrebbe lasciato se non fosse tornato; egli mi rispose col mio stesso tono, che mi avrebbe lasciato i suoi libri…; poi non l’ho più visto». Don Elia era già consapevole di dirigersi verso “l’occhio del ciclone” e non ricercò nella casa Salesiana (dove agevolmente sarebbe potuto restare) una forma di tutela: «L’ultimo ricordo che ho di lui risale all’estate del 1944, quando, in occasione della guerra, la Comunità cominciò a sciogliersi; sento ancora le mie parole che bonariamente si rivolgevano a lui, con aria quasi di scherzo, ricordandogli che egli, in quei periodi oscuri che stavamo per affrontare, avrebbe dovuto sentirsi come privilegiato, in quanto sul tetto dell’Istituto era stata tracciata una croce bianca e nessuno avrebbe avuto il coraggio di bombardarlo. Egli però, come un profeta, mi rispose di stare bene attento perché durante le vacanze avrei potuto leggere sui giornali che Don Elia Comini era morto eroicamente nell’adempimento del suo dovere». «L’impressione del pericolo al quale egli si esponeva era viva in tutti», ha commentato un confratello.
            Lungo il viaggio verso Salvaro don Comini sosta a Modena, dove rimedia una brutta ferita a una gamba: stando a una ricostruzione, per essersi interposto tra un veicolo e un passante, scongiurando così un più grave incidente; stando a un’altra, per aver aiutato un signore a spingere un carretto. Ad ogni modo, per aver soccorso il prossimo. Dietrich Bonhoeffer ha scritto: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante».
            L’episodio di Modena esprime, in tal senso, un atteggiamento di don Elia che a Salvaro, nei mesi successivi, sarebbe emerso ancora di più: interporsi, mediare, accorrere in prima persona, esporre la propria vita per i fratelli, sempre cosciente del rischio che ciò comporta e serenamente disposto a pagarne le conseguenze.

Un pastore sul fronte di guerra
            Claudicante, arriva a Salvaro al tramonto del 24 giugno 1944, appoggiandosi come può a un bastone: insolito strumento, per un giovane di 34 anni! Trova la canonica trasformata: Mons. Mellini vi ospita decine di persone, appartenenti a nuclei familiari di sfollati; inoltre, le 5 suore Ancelle del Sacro Cuore, responsabili dell’asilo, tra cui suor Alberta Taccini. Anziano, stanco e scosso dagli eventi bellici, in quell’estate Mons. Fidenzio Mellini fa fatica a decidere, è diventato più fragile e incerto. Don Elia, che lo conosce sin da bambino, comincia ad aiutarlo in tutto e prende un po’ in mano la situazione. La ferita alla gamba gli impedisce inoltre di far sfollare la mamma: don Elia rimane a Salvaro e, quando può di nuovo camminare bene, le mutate circostanze e i crescenti bisogni pastorali faranno sì che vi resti.
            Don Elia rianima la pastorale, segue il catechismo, si occupa degli orfani abbandonati a se stessi. Accoglie inoltre gli sfollati, incoraggia i timorosi, modera gli imprudenti. Quella di don Elia diventa una presenza aggregante, un segno buono in quei drammatici frangenti dove i rapporti umani sono dilaniati da sospetti e contrapposizioni. Mette al servizio di tanta gente le capacità organizzative e l’intelligenza pratica allenate in anni di vita salesiana. Scrive al fratello Amleto: «Certo sono momenti drammatici, e peggiori se ne presagiscono. Speriamo tutto nella grazia di Dio e nella protezione della Madonna, che dovete invocare voi per noi. Spero di potervi fare avere ancora nostre notizie».
            I tedeschi della Wehrmacht presidiano la zona e, sulle alture, c’è la brigata partigiana “Stella Rossa”. Don Elia Comini resta una figura estranea a rivendicazioni o partigianerie di sorta: è un sacerdote e fa valere istanze di prudenza e pacificazione. Ai partigiani diceva: «Ragazzi, guardate quel che fate, perché rovinate la popolazione…», esponendola a ritorsioni. Loro lo rispettano e, nel luglio e nel settembre 1944, chiederanno Messe nella parrocchiale di Salvaro. Don Elia accetta, facendo scendere i partigiani e celebrando senza nascondersi, evitando invece di salire lui in zona partigiana e preferendo – come sempre farà quell’estate – restare a Salvaro o in zone limitrofe, senza nascondersi né scivolare in atteggiamenti “ambigui” agli occhi dei nazi-fascisti.
            Il 27 luglio don Elia Comini scrive le ultime righe del suo Diario spirituale: «27 luglio: mi trovo proprio nel mezzo della guerra. Ho nostalgia dei miei confratelli e della mia casa di Treviglio; se potessi, tornerei domani».
            Dal 20 luglio, condivideva una fraternità sacerdotale con padre Martino Capelli, Dehoniano, nato il 20 settembre 1912 a Nembro nella bergamasca e già docente di Sacra Scrittura a Bologna, anch’egli ospite di Mons. Mellini e in aiuto alla pastorale.
            Elia e Martino sono due studiosi di lingue antiche che devono ora provvedere alle cose più pratiche e materiali. La canonica di Mons. Mellini diventa ciò che Mons. Luciano Gherardi ha poi chiamato «la comunità dell’arca», un posto che accoglie per salvare. Padre Martino era un religioso che si era infervorato quando aveva sentito parlare dei martiri messicani e avrebbe desiderato essere missionario in Cina. Elia, sin da giovane, è inseguito da una strana consapevolezza di “dover morire” e già a 17 anni aveva scritto: «Persiste sempre in me il pensiero che debba morire! – Chissà?! Facciamo come il servo fedele: sempre preparato all’appello, a “reddere rationem” della gestione».
            Il 24 luglio don Elia inizia il catechismo per i bambini in preparazione alle prime Comunioni, in calendario per il 30 luglio. Il 25, nasce una bambina nel battistero (tutti gli spazi, dalla sacrestia al pollaio, erano stracolmi) e si appende un fiocco rosa.
            Per l’intero mese di agosto 1944, soldati della Wehrmacht stazionano presso la canonica di Mons. Mellini e nello spazio antistante. Tra tedeschi, sfollati, consacrati… la tensione sarebbe potuta scoppiare ogni momento: don Elia media e previene anche in piccole cose, per esempio facendo da “ammortizzatore” tra il volume troppo alto della radio dei tedeschi e la pazienza ormai troppo corta di Mons. Mellini. Ci fu anche qualche po’ di Rosario tutti assieme. Don Angelo Carboni conferma: «Nell’intento sempre di confortare Monsignore, D. Elia si adoprò molto contro la resistenza d’una compagnia di Tedeschi che, impostatisi a Salvaro il 1° agosto, voleva occupare diversi ambienti della Canonica togliendo ogni libertà e comodità ai famigliari e sfollati ivi ospitati. Accomodati i Tedeschi nell’archivio di Monsignore, eccoli di nuovo a disturbare, occupando coi loro carri buona parte del piazzale della Chiesa; con modi ancor più gentili e persuasive parole, D. Elia ottenne anche quest’altra liberazione a conforto di Monsignore, che l’oppressione della lotta aveva costretto al riposo». In quelle settimane, il sacerdote salesiano è fermo nel tutelare il diritto di Mons. Mellini a muoversi con un certo agio in casa propria – nonché quello degli sfollati a non essere allontanati dalla canonica –: tuttavia riconosce alcune esigenze degli uomini della Wehrmacht e ciò ne attira la benevolenza verso Mons. Mellini che i soldati tedeschi impareranno a chiamare il pastore buono. Dai tedeschi, don Elia ottiene cibo per gli sfollati. Inoltre, canticchia per calmare i bambini e racconta episodi della vita di don Bosco. In un’estate segnata da uccisioni e ritorsioni, con don Elia alcuni civili riescono persino ad andare a sentire un poco di musica, evidentemente diffusa dall’apparecchio dei tedeschi, e a comunicare con i soldati attraverso brevi cenni. Don Rino Germani sdb, Vicepostulatore della Causa, afferma: «Tra le due forze in lotta si inserisce l’opera instancabile e mediatrice del Servo di Dio. Quando occorre si presenta al Comando tedesco e con educazione e preparazione riesce a conquistare la stima di qualche ufficiale. Così molte volte ottiene di evitare ritorsioni, saccheggi e lutti».
            Liberata la canonica dalla presenza fissa della Wehrmacht il 1° settembre 1944 – «Il 1° settembre i tedeschi lasciarono libera la zona di Salvaro, solo qualcuno rimase per pochi giorni ancora nella casa Fabbri» – la vita a Salvaro può trarre un respiro di sollievo. Don Elia Comini persevera intanto nelle iniziative di apostolato, coadiuvato dagli altri sacerdoti e dalle suore.
            Mentre tuttavia padre Martino accetta alcuni inviti a predicare altrove e sale in quota, dove i suoi capelli chiari gli fanno correre un grosso guaio con i partigiani che lo sospettano tedesco, don Elia resta sostanzialmente stanziale. L’8 settembre scrive al direttore salesiano della Casa di Treviglio: «Ti lascio immaginare il nostro stato d’animo in questi momenti. Abbiamo attraversato giornate nerissime e drammatiche. […] Il mio pensiero è sempre con te e coi cari confratelli di costì. Sento vivissima la nostalgia […]».
            Dall’11 predica gli Esercizi alle Suore sul tema dei Novissimi, dei voti religiosi e della vita del Signore Gesù.
            Tutta la popolazione – ha dichiarato una consacrata – amava Don Elia, anche perché egli non esitava a spendersi per tutti, in ogni momento; non chiedeva soltanto alle persone di pregare, ma offriva loro un valido esempio con la sua pietà e quel poco di apostolato che, data la circostanza, era possibile esercitare.
            L’esperienza degli Esercizi imprime un diverso dinamismo all’intera settimana, e coinvolge trasversalmente consacrati e laici. Alla sera, infatti, don Elia raduna 80-90 persone: si cercava di stemperare la tensione con un po’ di allegria, buoni esempi, carità. In quei mesi sia lui sia padre Martino, come altri sacerdoti: primo tra tutti don Giovanni Fornasini, erano in prima linea in tante opere di bene.

L’eccidio di Montesole
            La strage più efferata e più grande compiuta dalle SS naziste in Europa, nel corso della guerra del 1939-45, è stata quella consumata attorno a Monte Sole, nei territori di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno, anche se è comunemente nota come la “strage di Marzabotto”.
            Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 i caduti furono 770, ma nel complesso le vittime di tedeschi e fascisti, dalla primavera del 1944 alla liberazione, furono 955, distribuite in 115 diverse località all’interno di un vasto territorio che comprende i comuni di Marzabotto, Grizzana e Monzuno e alcune porzioni dei territori limitrofi. Di questi, 216 furono i bambini, 316 le donne, 142 gli anziani, 138 le vittime riconosciute partigiani, cinque i sacerdoti, la cui colpa agli occhi dei tedeschi consisteva nell’essere stati vicini, con la preghiera e l’aiuto materiale, a tutta la popolazione di Monte Sole nei tragici mesi di guerra e occupazione militare. Insieme a don Elia Comini, Salesiano, e a padre Martino Capelli, Dehoniano, in quei tragici giorni furono uccisi anche tre sacerdoti dell’Arcidiocesi di Bologna: don Ubaldo Marchioni, don Ferdinando Casagrande, don Giovanni Fornasini. Di tutti e cinque è in corso la Causa di Beatificazione e Canonizzazione. Don Giovanni, l’“Angelo di Marzabotto”, cadde, il 13 ottobre 1944. Aveva ventinove anni e il suo corpo rimase insepolto fino al 1945, quando venne ritrovato pesantemente martoriato; è stato beatificato il 26 settembre 2021. Don Ubaldo morì il 29 settembre, ucciso dal mitra sulla predella dell’altare della sua chiesa di Casaglia; aveva 26 anni, era stato ordinato prete due anni prima. I soldati tedeschi trovarono lui e la comunità intenti nella preghiera del rosario. Lui fu ucciso lì, ai piedi dell’altare. Gli altri – più di 70 – nel cimitero vicino. Don Ferdinando fu ucciso, il 9 ottobre, da un colpo di pistola alla nuca, con la sorella Giulia; aveva 26 anni.

Dalla Wehrmacht alle SS
            Il 25 settembre la Wehrmacht lascia la zona e cede il comando alle SS del 16 Battaglione della Sedicesima Divisione Corazzata “Reichsfürer” – SS”, una Divisione che include elementi SS “Totenkopf – Testa di morto” ed era preceduta da una scia di sangue, essendo stata presente a Sant’Anna di Stazzema (Lucca) il 12 agosto 1944; a San Terenzo Monti (Massa-Carrara, in Lunigiana) il 17 di quel mese; a Vinca e dintorni (Massa-Carrara, in Lunigiana alle pendici delle Alpi Apuane) dal 24 al 27 agosto.
            Il 25 settembre le SS stabiliscono l’’“Alto comando” a Sibano. Il 26 settembre si portano a Salvaro, dove è anche don Elia: zona fuori dall’area di immeditata influenza partigiana. La durezza dei comandanti nel perseguire il più totale disprezzo della vita umana, l’abitudine a mentire circa il destino dei civili e l’assetto paramilitare – che ricorreva volentieri a tecniche da “terra bruciata”, in dispregio a qualsivoglia codice di guerra o legittimità di ordini impartiti dall’alto – ne faceva uno squadrone della morte che nulla lasciava di intatto al proprio passaggio. Alcuni avevano ricevuto una formazione di stampo esplicitamente concentrazionista ed eliminazionista, deputata a: soppressione della vita, con finalità ideologica; odio verso chi professava la fede ebraico-cristiana; disprezzo per i piccoli, i poveri, gli anziani e i deboli; persecuzione di chi si opponesse alle aberrazioni del nazionalsocialismo. C’era un vero e proprio catechismo – anticristiano e anticattolico – dei quali le giovani SS erano impregnate.
            «Quando si pensa che la gioventù nazista era formata nel disprezzo della personalità umana degli ebrei e delle altre razze “non elette”, nel fanatico culto di una pretesa superiorità nazionale assoluta, nel mito della violenza creatrice e delle “armi nuove” apportatrici di giustizia nel mondo, si comprende dove fossero le radici delle aberrazioni, rese più facili dall’atmosfera di guerra e dal timore di una deludente sconfitta».
            Don Elia Comini – con padre Capelli – accorre per confortare, rassicurare, esortare. Decide si accolgano in canonica soprattutto i superstiti delle famiglie in cui i tedeschi avevano ucciso per ritorsione. Così facendo, sottrae i sopravvissuti al pericolo di trovare la morte poco dopo, ma soprattutto li strappa – almeno nella misura del possibile – a quella spirale di solitudine, disperazione e perdita di volontà di vivere che si sarebbe potuta tradurre addirittura in desiderio di morte. Riesce inoltre a parlare ai tedeschi e, in almeno un’occasione, a far desistere le SS dal loro proposito, facendole sfilare oltre e potendo quindi avvertire successivamente i rifugiati di fuoriuscire dal nascondiglio.
            Il Vicepostulatore don Rino Germani sdb scriveva: «Arriva don Elia. Li rassicura. Dice loro di venir fuori, perché i tedeschi sono andati via. Parla con i tedeschi e li fa andare oltre».
            Viene ucciso anche Paolo Calanchi, un uomo cui la coscienza nulla rimprovera e che commette l’errore di non scappare. Sarà ancora don Elia ad accorrere, prima che le fiamme ne aggrediscano il corpo, tentando almeno di onorarne le spoglie non essendo arrivato in tempo per salvargli la vita: «Il corpo di Paolino viene salvato dalle fiamme proprio da don Elia che, a rischio della vita, lo raccoglie e trasporta con un carretto alla Chiesa di Salvaro».
            La figlia di Paolo Calanchi ha testimoniato: «Mio padre era un uomo buono ed onesto [«in tempi di tessera annonaria e di carestia dava pane a chi non ne aveva»] e aveva rifiutato di scappare sentendosi tranquillo verso tutti. Fu ucciso dai tedeschi, fucilato, per rappresaglia; più tardi fu incendiata anche la casa, ma il corpo di mio padre era stato salvato dalle fiamme proprio da Don Comini, che, a rischio della propria vita, lo aveva raccolto e trasportato con un carretto alla Chiesa di Salvaro, dove, in una cassa da lui costruita con assi di ripiego, fu inumato nel cimitero. Così, grazie al coraggio di Don Comini e, molto probabilmente, anche di Padre Martino, terminata la guerra, io e mia madre potemmo ritrovare e far trasportare la bara del nostro caro nel cimitero di Vergato, insieme a quella di mio fratello Gianluigi, morto 40 giorni dopo nell’attraversare il fronte».
            Una volta don Elia aveva detto della Wehrmacht: «Dobbiamo amare anche questi Tedeschi che ci vengono a disturbare». «Amava tutti senza preferenza». Il ministero di don Elia fu molto prezioso per Salvaro e tanti sfollati, in quei giorni. Testimoni hanno dichiarato: «Don Elia è stato la nostra fortuna perché avevamo il Parroco troppo anziano e debole. Tutta la popolazione sapeva che Don Elia aveva questo interesse nei nostri riguardi; Don Elia ha aiutato tutti. Si può dire che tutti i giorni lo vedevamo. Diceva la Messa, ma poi era spesso sul sagrato della chiesa a guardare: i tedeschi erano giù, verso il Reno; i partigiani venivano dal monte, verso la Creda. Una volta, per esempio, (qualche giorno prima del 26) vennero i partigiani. Noi si usciva dalla chiesa di Salvaro e c’erano i partigiani lì, tutti armati; e Don Elia si raccomandava tanto che se ne andassero, per evitare dei guai. Lo ascoltarono e se ne andarono. Probabilmente, se non ci fosse stato lui, quello che è successo dopo, sarebbe avvenuto molto prima»; «Da quanto mi risulta Don Elia era l’anima della situazione, in quanto con la sua personalità sapeva tenere in pugno tante cose che in quei momenti drammatici erano di importanza vitale».
            Anche se era un sacerdote giovane, don Elia Comini era affidabile. Questa sua affidabilità, unita a una profonda rettitudine, lo accompagnava un po’ da sempre, addirittura da chierico come risulta da una testimonianza: «L’ho avuto quattro anni al Rota, dal 1931 al 1935, e, sebbene ancora chierico, mi ha dato un aiuto che ben difficilmente avrei trovato in altro confratello anche anziano».

Il triduo di passione
            La situazione comunque precipita dopo pochi giorni, il 29 settembre mattina quando le SS compiono una terribile strage in località “Creda”. Il segnale per l’inizio della strage sono un razzo bianco e uno rosso in aria: cominciano a sparare, le mitragliatrici colpiscono le vittime, asserragliate contro un portico e pressoché senza via di scampo. Vengono quindi lanciate bombe a mano, alcune incendiarie e la stalla – dove alcuni erano riusciti a trovare scampo – prende fuoco. Pochi uomini, cogliendo un istante di distrazione delle SS in quell’inferno, si precipitano giù verso il bosco. Attilio Comastri, ferito, si salva perché il corpo esanime della moglie Ines Gandolfi gli ha fatto scudo: vagherà per giorni, in stato di shock, finché riuscirà a passare il fronte e ad aver salva la vita; aveva perso, oltre alla moglie, la sorella Marcellina e la figlia Bianca, di due anni appena. Anche Carlo Cardi riesce a salvarsi, ma la sua famiglia è sterminata: Walter Cardi aveva solo 14 giorni, fu la più piccola vittima dell’eccidio di Monte Sole. Mario Lippi, uno degli scampati, attesta: «Non so io stesso come mi fossi miracolosamente salvato, dato che di 82 persone raccolte sotto al portico, ne rimasero uccise 70 [69, stando alla ricostruzione ufficiale]. Ricordo che oltre al fuoco delle mitragliatrici, i tedeschi scagliarono su di noi anche delle bombe a mano e credo che fossero alcune schegge di queste a ferirmi leggermente nel fianco destro, nella schiena e nel braccio destro. Io, insieme con altre sette persone, profittando che in [un] lato del portico vi era una porticina che portava nella strada, scappai verso il bosco. I tedeschi, vistici fuggire, ci spararono dietro, uccidendo uno di noi [di] nome Gandolfi Emilio. Preciso che tra le 82 persone raccolte sotto il sunnominato portico vi erano anche una ventina di bambini, di cui due in fasce, sulle braccia delle rispettive madri, e una ventina di donne».
            Alla Creda sono 21 i bimbi sotto gli 11 anni, alcuni molto piccoli; 24 le donne (di cui una adolescente); quasi 20 gli “anziani”. Tra le famiglie più colpite i Cardi (7 persone), i Gandolfi (9 persone), i Lolli (5 persone), i Macchelli (6 persone).
            Dalla canonica di Mons. Mellini, guardando in alto, a un certo punto si vede il fumo: ma è mattina presto, la Creda resta nascosta allo sguardo e il bosco attutisce i rumori. In parrocchia quel giorno – 29 settembre festa dei Santi Arcangeli – si celebrano tre Messe, di mattina presto, in immediata successione: quella di Mons. Mellini; quella di padre Capelli che si reca poi a portare una Estrema unzione in località “Casellina”; quella di don Comini. Ed è allora che il dramma bussa alla porta: «Ferdinando Castori, sfuggito anche lui alla strage, giunse alla chiesa di Salvaro imbrattato di sangue come un macellaio, e andò a nascondersi dentro la cuspide del Campanile». Verso le 8 giunge in canonica un uomo sconvolto: sembrava «un mostro per l’aspetto terrorizzante», dice suor Alberta Taccini. Chiede aiuto per i feriti. Una settantina di persone è morta o sta morendo tra terribili supplizi. Don Elia, in pochi istanti, ha la lucidità di nascondere 60/70 uomini in sagrestia, spingendo contro la porta un vecchio armadio che lasciava la soglia visibile da sotto, ma era nondimeno l’unica speranza di salvezza: «Fu allora che Don Elia, proprio lui, ebbe l’idea di nascondere gli uomini a fianco della sacrestia, mettendo poi un armadio davanti alla porta (lo aiutarono una o due persone che erano in casa di Monsignore). L’idea fu di Don Elia; ma tutti erano contrari al fatto che fosse Don Elia a compiere quel lavoro… L’ha voluto lui. Gli altri dicevano: “E se poi ci scoprono?”». Un’altra ricostruzione: «Don Elia riuscì a nascondere in un locale attiguo alla sacrestia una sessantina di uomini e contro l’uscio spinse un vecchio armadio. Intanto il crepitare delle mitraglie e gli urli disperati della gente giungevano dalle case vicine. Don Elia ebbe la forza di iniziare il S. Sacrificio della Messa, l’ultima della sua vita. Non aveva ancora terminato, che giunse atterrito e trafelato un giovane della località “Creda” a chiedere soccorso perché le SS avevano circondato una casa e arrestato sessantanove persone, uomini, donne, bambini».
            «Ancora in paramenti sacri, prostrato all’altare, immerso in preghiera, invoca per tutti l’aiuto del Sacro Cuore, l’intercessione di Maria Ausiliatrice, di san Giovanni Bosco e di san Michele Arcangelo. Poi, con un breve esame di coscienza, recitato tre volte l’atto di dolore, fa loro una preparazione alla morte. Raccomanda all’assistenza delle suore tutte quelle persone e alla Superiora di guidare forte la preghiera perché i fedeli possano trovare in essa il conforto del quale hanno bisogno».
            A proposito di don Elia e di padre Martino, rientrato poco dopo, «si constatano alcune dimensioni di una vita sacerdotale spesa consapevolmente per gli altri fino all’ultimo istante: la loro morte è stata un prolungare nel dono della vita la Messa celebrata fino all’ultimo giorno». La loro scelta aveva «radici lontane, nella decisione di fare del bene anche se si fosse all’ultima ora, disposti anche al martirio»: «molte persone vennero a cercare aiuto in parrocchia e, all’insaputa del parroco, Don Elia e Padre Martino cercarono di nascondere quante più persone possibili; poi assicuratisi che fossero in qualche modo assistite, corsero sul luogo dei massacri per poter portare aiuto anche ai più sfortunati; lo stesso Mons. Mellini non si rese conto di ciò e continuava a cercare i due preti per farsi aiutare a ricevere tutta quella gente» («Abbiamo la certezza che nessuno di essi era partigiano o era stato coi partigiani»).
            In quei momenti, don Elia attesta grande lucidità che si traduce sia in spirito organizzativo, sia nella consapevolezza di mettere a repentaglio la propria vita: «Alla luce di tutto ciò, e Don Elia lo sapeva bene, non possiamo quindi ricercare quella carità che induce al tentativo di aiutare gli altri, ma piuttosto quel tipo di carità (che poi è stata la stessa di Cristo) che induce a partecipare fino in fondo alla sofferenza altrui, non temendo neppure la morte come sua ultima manifestazione. Il fatto che la sua sia stata una scelta lucida e ben ragionata, viene anche dimostrato dallo spirito organizzativo che ha manifestato fino a pochi minuti prima della morte, nel tentare con prontezza ed intelligenza di nascondere quante più persone possibile nei locali nascosti della canonica; poi la notizia della Creda e, dopo la carità fraterna, la carità eroica».
            Una cosa è certa: se don Elia si fosse nascosto con tutti gli altri uomini o anche solo fosse rimasto accanto a Mons. Mellini, non avrebbe avuto nulla da temere. Invece, don Elia e padre Martino prendono la stola, gli oli santi e una teca con alcune Particole consacrate «partirono quindi per la montagna, armati della stola e dell’olio degli infermi»: «Quando Don Elia tornò dall’essere andato da Monsignore, prese la Pisside con le Ostie e l’Olio Santo e si voltò verso di noi: ancora quel volto! era talmente pallido, che sembrava uno già morto. E disse: “Pregate, Pregate per me, perché ho una missione da compiere”». «Pregate per me, non lasciatemi solo!». «Noi siamo sacerdoti e dobbiamo andare e dobbiamo fare il nostro dovere». «Andiamo a portare il Signore ai nostri fratelli».
            Su alla Creda c’è tanta gente che sta morendo tra supplizi: devono accorrere, benedire e – se possibile – provare a interporsi rispetto alle SS.
            La signora Massimina [Zappoli], poi teste anche all’indagine militare di Bologna, ricorda: «Nonostante le preghiere di tutti noi, essi celebrarono in fretta l’Eucaristia e, spinti solo dalla speranza di poter fare qualcosa per le vittime di tanta ferocia almeno con un conforto spirituale, presero il SS. Sacramento e corsero verso la Creda. Ricordo che mentre Don Elia, già lanciato nella sua corsa, mi passò accanto in cucina, io mi aggrappai a lui in un ultimo tentativo di dissuaderlo, dicendo che noi saremmo rimasti in balia di noi stessi; egli fece capire che, per quanto fosse grave la nostra situazione, c’era chi stava peggio di noi ed era da questi che loro dovevano andare».
            Egli è irremovibile e si rifiuta, come poi Mons. Mellini suggerì, di ritardare la salita alla Creda quando i tedeschi se ne fossero andati: «È stata [perciò] una passione, prima che cruenta, […] del cuore, la passione dello spirito. In quei tempi si era terrorizzati da tutto e da tutti: non si aveva più fiducia di nessuno: chiunque poteva essere un nemico determinante per la propria vita. Quando i due Sacerdoti si son resi conto che qualcuno aveva veramente bisogno di loro non hanno avuto tanto tentennamento a decidere cosa fare […] e soprattutto non sono ricorsi a quella che era la decisione immediata per tutti, cioè, trovare un nascondiglio, cercare di coprirsi e di essere fuori dalla mischia. I due Sacerdoti, invece, ci sono andati dentro, consapevolmente, sapendo che la loro vita era al 99% a rischio; e ci sono andati per essere veramente sacerdoti: cioè, per assistere e per confortare; per dare anche il servizio dei Sacramenti, quindi della preghiera, del conforto che la fede e la religione offrono».
            Una persona ha detto: «Don Elia, per noi, era già santo. Se fosse stato una persona normale […] non si sarebbe messo; si sarebbe nascosto anche lui, dietro l’armadio, come tutti gli altri».
            Con gli uomini nascosti, sono le donne a provare a trattenere i sacerdoti, in un estremo tentativo di salvar loro la vita. La scena è al contempo concitata ed assai eloquente: «Lidia Macchi […] e altre donne provarono a impedir loro di partire, tentarono di trattenerli per la tonaca, li rincorsero, li richiamarono a gran voce perché ritornassero indietro: spinti da una forza interiore che è ardore di carità e sollecitudine missionaria, essi stavano ormai decisamente camminando verso la Creda portando i conforti religiosi».
            Una di loro ricorda: «Li abbracciai, li tenevo fermi per le braccia, dicendo e supplicando: – Non andate! – Non andate!».
            E Lidia Marchi aggiunge: «Io tiravo Padre Martino per la veste e lo trattenevo […] ma tutti e due i sacerdoti ripetevano: – Dobbiamo andare; il Signore ci chiama».
            «Dobbiamo compiere il nostro dovere. E [don Elia e padre Martino,] come Gesù, andarono incontro a una sorte segnata».
            «La decisione di recarsi alla Creda fu scelta dai due sacerdoti per puro spirito pastorale; nonostante tutti cercassero di dissuaderli, essi vollero andare spinti dalla speranza di poter salvare qualcuno di coloro che erano in balia della rabbia dei soldati».
            Alla Creda, quasi senz’altro, non arrivarono mai. Catturati, stando a una testimone, presso un “pilastrello”, appena fuori dal campo visivo della parrocchia, don Elia e padre Martino furono visti più tardi carichi di munizioni, alla testa di rastrellati, o ancora soli, legati, con catene, vicino a un albero mentre non c’era alcuna battaglia in corso e le SS mangiavano. Don Elia intimò a una donna di scappare, di non fermarsi per evitare di essere uccisa: «Anna, per carità, scappa, scappa».
            «Erano carichi e curvi sotto il peso di tante cassettine pesanti che dalle spalle avvolgevano il corpo davanti e dietro. Con la schiena facevano una curva che li portava quasi con il naso a terra».
            «Seduti per terra […] molto sudati e stanchi, con le munizioni sulla schiena».
            «Arrestati vengono costretti a portare munizioni su e giù per il monte, testimoni di inaudite violenze».
            «[Le SS li fanno] più volte scendere e salire per il monte, sotto la loro scorta, e compiendo inoltre, sotto gli occhi delle due vittime, le più raccapriccianti violenze».
            Dove sono, ora, la stola, gli oli santi e soprattutto il Santissimo Sacramento? Non ce n’è più alcuna traccia. Lontani da occhi indiscreti, le SS ne hanno spogliato a forza i sacerdoti, liberandosi di quel Tesoro di cui nulla si sarebbe più trovato.
Verso la sera del 29 settembre 1944, furono tradotti con molti altri uomini (rastrellati e non per rappresaglia o non perché filo-partigiani, come le fonti dimostrano), presso la casa “dei Birocciai” a Pioppe di Salvaro. Più tardi essi, suddivisi, avranno sorti diversissime: pochi saranno liberati, dopo una serie di interrogatori. La maggior parte, valutati abili al lavoro, verranno deferiti ai campi di lavoro coatto e potranno – in seguito – tornare alle proprie famiglie. I valutati inabili, per mero criterio anagrafico (cf. campi di concentramento) o di salute (giovane, ma ferito o che si simula malato sperando di salvarsi) verranno uccisi la sera del 1° ottobre alla “Botte” della Canapiera di Pioppe di Salvaro, ormai un rudere perché bombardata dagli Alleati giorni prima.
            Don Elia e padre Martino – che furono interrogati – poterono muoversi fino all’ultimo nella casa e ricevere visite. Don Elia intercedette per tutti e un giovane, molto provato, si addormentò sulle sue ginocchia: in una di esse, don Elia ricevette il Breviario, a lui tanto caro e che volle tenere con sé sino agli ultimi istanti. Oggi, l’attenta ricerca storica attraverso le fonti documentali, supportata dalla più recente storiografia di parte laica, ha dimostrato come non fosse mai andato a buon fine un tentativo di liberare don Elia, messo in atto dal Cavalier Emilio Veggetti, e come don Elia e padre Martino non siano mai realmente stati considerati o perlomeno trattati come “spie”.

L’olocausto
            Infine, vennero inseriti, benché giovani (34 e 32 anni), nel gruppo degli inabili e con essi giustiziati. Vissero quegli ultimi istanti pregando, facendo pregare, essendosi assolti a vicenda e donato ogni possibile conforto di fede. Don Elia riuscì a trasformare la macabra processione dei condannati fino a una passerella antistante l’invaso della canapiera, dove verranno uccisi, in un atto corale di affidamento, tenendo finché poté il Breviario aperto in mano (poi, si legge, un tedesco colpì con violenza le sue mani e il Breviario cadde nell’invaso) e soprattutto intonando le Litanie. Quando fu aperto il fuoco, don Elia Comini salvò un uomo perché gli faceva scudo col proprio corpo e gridò «Pietà». Padre Martino invocò invece “Perdono”, ergendosi a fatica nell’invaso, tra i compagni morti o morenti, e tracciando il segno di Croce pochi istanti prima di morire egli stesso, a causa di una enorme ferita. Le SS vollero assicurarsi che nessuno sopravvivesse lanciando alcune bombe a mano. Nei giorni successivi, stante l’impossibilità a recuperare le salme immerse in acqua e fango a causa di abbondanti piogge (vi provarono le donne, ma nemmeno don Fornasini poté riuscirvi), un uomo aprì le griglie e l’impetuosa corrente del fiume Reno portò via tutto. Nulla venne mai più trovato di loro: consummatum est!
            Si era delineato il loro essere disposti «anche al martirio, anche se agli occhi degli uomini appare stolto rifiutare la propria salvezza per dare un misero sollievo a chi era già destinato alla morte». Mons. Benito Cocchi nel settembre 1977 a Salvaro disse: «Ebbene qui davanti al Signore diciamo che la nostra preferenza va a questi gesti, a queste persone, a coloro che pagano di persona: a chi in un momento in cui valevano solo le armi, la forza e la violenza, quando una casa, la vita di un bimbo, un’intera famiglia erano valutati niente, seppe compiere gesti che non hanno voce nei bilanci di guerra, ma che sono veri tesori di umanità, resistenza e alternativa alla violenza; a chi in questo modo poneva radici per una società e una convivenza più umana».
            In tal senso, «Il martirio dei sacerdoti costituisce il frutto della loro scelta consapevole di condividere la sorte del gregge fino all’estremo sacrificio, quando gli sforzi di mediazione tra popolazione e gli occupanti, a lungo perseguiti, vengono a perdere ogni possibilità di successo».
            Don Elia Comini era stato lucido sulla propria sorte, dicendo – già nelle prime fasi di detenzione –: «Per far del bene ci troviamo in tante pene»; «Era Don Elia che additando il cielo salutava con gli occhi imperlati». «Elia si è affacciato e mi ha detto: “Vada a Bologna, dal Cardinale, e gli dica dove ci troviamo”. Gli ho risposto: “Come faccio ad andare a Bologna?”. […] Intanto i soldati mi spingevano con la canna del fucile. D. Elia mi ha salutato dicendo: “Ci vedremo in paradiso!”. Ho gridato: “No, no, non dica questo”. Ha risposto, mesto e rassegnato: “Ci vedremo in Paradiso”».
            Con don Bosco…: «[Vi] aspetto tutti in Paradiso»!
            Era la sera del 1° ottobre, inizio del mese dedicato al Rosario e alle Missioni.
            Negli anni della sua prima giovinezza, Elia Comini aveva detto a Dio: «Signore, preparami ad essere il meno indegno per essere vittima accetta» (“Diario” 1929); «Signore, […] ricevimi pure come vittima espiatoria» (1929); «vorrei essere una vittima d’olocausto» (1931). «[A Gesù] ho domandato la morte piuttosto che venir meno alla vocazione sacerdotale e all’amore eroico per le anime» (1935).




Le “Stazioni Romane”. Una tradizione millenaria

Le “Stazioni romane” sono un’antica tradizione liturgica che, durante la Quaresima e la prima settimana del Tempo di Pasqua, associa ogni giornata a una chiesa specifica di Roma, dentro di un cammino di pellegrinaggio. Il termine “statio” (dal latino stare, fermarsi) rimanda all’idea di una sosta comunitaria per la preghiera e la celebrazione. Nei secoli passati, il Papa e i fedeli si muovevano in processione dalla chiesa detta “collecta” fino alla stazione del giorno, dove si celebrava l’Eucaristia. Questo rito, pur avendo radici nei primi secoli della cristianità, conserva una sua vitalità anche oggi, quando l’indicazione della chiesa stazionale figura ancora nei libri liturgici. È un vero pellegrinaggio tra le basiliche e i santuari della Città Eterna che si può fare in quest’anno giubilare non solo come un cammino di conversione, ma anche una testimonianza di fede.

Origine e diffusione
Le origini delle Stazioni romane risalgono almeno al III secolo, quando la comunità cristiana subiva ancora le persecuzioni. Le prime testimonianze fanno riferimento al Papa Fabiano (236-250) che si recava nei luoghi di culto sorti presso le catacombe o le sepolture dei martiri, distribuendo ai bisognosi ciò che i fedeli offrivano come elemosina e celebrando l’Eucaristia. Questa consuetudine si rafforzò nel IV secolo, con la libertà di culto sancita da Costantino: sorsero grandi basiliche, e i fedeli iniziarono a riunirsi in giornate precise per celebrare la Messa nei siti legati alla memoria dei santi. Col passare del tempo, l’itinerario assunse un carattere più organico, creando un vero e proprio calendario di stazioni che toccavano i diversi rioni di Roma. La dimensione comunitaria – con la presenza del vescovo, del clero e del popolo – divenne così un segno visibile di comunione e di testimonianza della fede.

Fu Papa Gregorio Magno (590-604) a dare struttura e regolarità all’uso delle Stazioni, soprattutto in Quaresima. Egli stabilì un calendario che, giorno dopo giorno, assegnava a una specifica chiesa la celebrazione principale. La sua riforma non nacque dal nulla, ma organizzò una prassi già esistente: Gregorio volle che la processione partisse da una chiesa minore (collecta) e si concludesse in un luogo più solenne (statio), dove il popolo, unito al Papa, celebrava i riti penitenziali e l’Eucaristia. Era un modo per prepararsi alla Pasqua: il cammino stesso che indicava il pellegrinaggio terreno verso l’eternità, le chiese che con la loro architettura sacra e le opere d’arte svolgevano una funzione pedagogica in un’epoca in cui non tutti potevano leggere o accedere a libri, le reliquie dei martiri conservate in quelle chiese testimoniavano la fede vissuta fino dare la vita e la loro intercessione portavano grazie a coloro che le richiedevano, la celebrazione del Sacrificio della Messa santificava i fedeli partecipanti.

Nel corso del Medioevo, la pratica delle Stazioni romane si diffuse sempre di più, divenendo non solo un evento ecclesiale, ma anche un fenomeno sociale di grande rilievo. I fedeli, infatti, che provenivano dalle diverse regioni d’Italia e d’Europa, si univano ai romani per prendere parte a questi raduni liturgici.

Struttura della celebrazione stazionale
L’elemento caratteristico di queste celebrazioni era la processione. Al mattino, i fedeli si riunivano nella chiesa della collecta, dove, dopo un breve momento di preghiera, si avviavano in corteo verso la chiesa stazionale, intonando litanie e canti penitenziali. Giunti a destinazione, il Papa o il presule incaricato presiedeva la Messa, con letture e orazioni proprie del giorno. L’uso delle litanie aveva un forte senso spirituale e pedagogico: mentre si camminava fisicamente tra le strade, si pregava per i bisogni della Chiesa e del mondo, invocando i santi di Roma e di tutta la cristianità. La celebrazione culminava nell’Eucaristia, conferendo a questa “sosta” un valore sacramentale e di comunione ecclesiale.

La Quaresima divenne il tempo privilegiato per le Stazioni, a partire dal Mercoledì delle Ceneri fino al Sabato Santo o, secondo alcune consuetudini, fino alla seconda domenica dopo Pasqua. Ogni giornata era contraddistinta da una chiesa designata, scelta spesso per la presenza di reliquie importanti o per la sua storia particolare. Esempi notevoli includono Santa Sabina all’Aventino, dove di solito inizia il rito del Mercoledì delle Ceneri, e Santa Croce in Gerusalemme, collegata al culto delle reliquie della Croce di Cristo, meta tradizionale del Venerdì Santo. Partecipare alle Stazioni quaresimali significa entrare in un pellegrinaggio quotidiano, che unisce i fedeli in un percorso di penitenza e conversione, sostenuto dalla devozione verso i martiri e i santi. Ogni chiesa racconta una pagina di storia, offrendo immagini, mosaici e architetture che comunicano il messaggio evangelico in forma visiva.

Uno dei tratti più significativi di questa tradizione è il legame con i martiri della Chiesa di Roma. Nel periodo delle persecuzioni, molti cristiani trovarono la morte a causa della loro fede; in epoca costantiniana e successiva, sui loro sepolcri furono erette basiliche o cappelle. Celebrare una statio in questi luoghi significava richiamare la testimonianza di chi aveva donato la vita per Cristo, rafforzando la convinzione che la Chiesa è edificata anche sul sangue dei martiri. Ogni visita liturgica diventava così un atto di comunione tra i fedeli di ieri e quelli di oggi, uniti dal sacramento dell’Eucaristia. Questo “pellegrinaggio nella memoria” collegava il cammino quaresimale a una storia di fede tramandata di generazione in generazione.

Dal declino alla riscoperta
Nel Medioevo e nei secoli successivi, la pratica delle Stazioni conobbe alterne vicende. A volte, a causa di epidemie, invasioni o situazioni politiche instabili, fu ridotta o sospesa. I libri liturgici, tuttavia, continuarono a indicare le chiese stazionali per ogni giorno, segno che la Chiesa ne custodiva almeno il ricordo simbolico. Con la riforma liturgica tridentina (XVI secolo), la centralità del Papa in tali celebrazioni si fece meno frequente, ma l’uso di citare la chiesa stazionale rimase nei testi ufficiali. Con il rinnovato interesse per la storia e l’archeologia cristiana, la tradizione stazionale fu riscoperta e riproposta come via di formazione spirituale.
In epoca moderna, soprattutto a partire da Leone XIII (1878-1903) e successivamente con i papi del XX secolo, si è assistito a un crescente interesse verso il recupero di questa tradizione. Vari ordini religiosi e associazioni laicali hanno iniziato a promuovere la riscoperta del “pellegrinaggio delle stazioni”, organizzando momenti comunitari di preghiera e di catechesi nelle chiese designate.

Oggi, in un’epoca caratterizzata dalla frenesia e dalla velocità, la statio propone di riscoprire la dimensione della “sosta”: fermarsi per pregare, contemplare, ascoltare, fare silenzio e incontrare il Signore. La Quaresima è per definizione un tempo di conversione, di preghiera più intensa e di carità verso il prossimo: compiere un itinerario tra le chiese di Roma, anche solo in alcuni giorni significativi, può aiutare il fedele a riscoprire il senso di una penitenza vissuta non come rinuncia fine a sé stessa, ma come apertura al mistero di Cristo.

Ancora oggi, nel Calendario Romano, troviamo indicata la chiesa stazionale per ogni giornata: questo richiama all’unità del popolo di Dio, radunato attorno al successore di Pietro, e alla memoria dei santi che hanno speso la propria vita per il Vangelo. Chiunque partecipi a queste liturgie – anche saltuariamente – scopre una città che non è soltanto un museo a cielo aperto, ma un luogo in cui la fede si è espressa in modo originale e duraturo.

Chi desidera riscoprire il senso profondo della Quaresima e della Pasqua, può dunque lasciarsi guidare dall’itinerario stazionale, unendo la propria voce a quella dei cristiani di ieri e di oggi nel grande coro che conduce alla luce pasquale.

Presentiamo di seguito l’itinerario delle Stazioni Romane, corredato dall’elenco delle chiese e dalla loro collocazione geografica. È importante notare che l’ordine dell’elenco rimane invariato ogni anno; varia solo la data di inizio della Quaresima e, di conseguenza, le date successive. Auguriamo un proficuo pellegrinaggio a quanti vorranno percorrere, anche solo in parte, questo cammino nell’anno giubilare.


     

Stazione
romana

Martiri
e santi custoditi o reliquie

1

03.05

X

S.
Sabina all’Aventino

Santa Sabina e Santa Serapia, martire († 126); Santi Alessandro,
Evenzio e Teodulo
,
martiri

2

03.06

G

S.
Giorgio al Velabro

San Giorgio,
martire († 303)

3

03.07

V

SS.
Giovanni e Paolo al Celio

Santi Giovanni
e Paolo
,
martiri († 362); San Paolo
della Croce
(† 1775), fondatore della Congregazione della Passione di
Gesù Cristo (i Passionisti)

4

03.08

S

S.
Agostino in Campo Marzio

Santa Monica († 387), madre di Sant’Agostino; reliquie di
Sant’Agostino († 430)

5

03.09

D

S.
Giovanni in Laterano

Teste
di San Pietro e San Paolo:
Queste reliquie sono custodite in busti d’argento posti sopra
l’altare papale, visibili attraverso una grata dorata; la Scala
Santa
(nella vicina cappella del Sancta Sanctorum); Mensa dell’Ultima
Cena – la tavola sulla quale si celebrò l’Ultima Cena,
secondo la tradizione (reliquia significativa che si trova
sull’altare del Santissimo Sacramento)

6

03.10

L

S.
Pietro in Vincoli al Colle Oppio

Catene
di San Pietro; reliquie attribuite ai Sette Fratelli Maccabei,
personaggi dell’Antico Testamento venerati come martiri

7

03.11

M

S.
Anastasia al Palatino

Sant’Anastasia
di Sirmio
(† 304); Reliquie del Sacro Manto di San Giuseppe; Parte
del Velo della Vergine Maria

8

03.12

X

S.
Maria Maggiore

Sacro
Legno della Culla (la mangiatoia di Gesù Bambino); Panniculum (un piccolo pezzo di stoffa, parte delle fasce con cui fu avvolto
Gesù appena nato); San Matteo,
apostolo († 70 o 74); San Girolamo († 420); San Pio
V
,
papa († 1572)

9

03.13

G

S.
Lorenzo in Panisperna

Luogo
del martirio di San Lorenzo († 258); San Lorenzo, martire; Santa Crispina,
martire († 304); Santa Brigida
di Svezia
(† 1373)

10

03.14

V

SS.
XII Apostoli al Foro Traiano

San Filippo apostolo († 80); San Giacomo
il Minore
apostolo († 62); Santi Crisanto
e Daria
,
martiri († 283 ca.)

11

03.15

S

S.
Pietro in Vaticano

San Pietro († 67); San Lino († 76); San Cleto († 92); Sant’Evaristo († 105); Sant’Alessandro
I
(† 115); San Sisto
I
(† 126-128); San Telesforo († 136); Sant’Igino († 140) ; San Pio
I
(† 155); Sant’Aniceto († 166); Sant’Eleuterio († 189); San Vittore
I
(† 199); san Giovanni
Crisostomo
(† 407, parti, nella Cappella del Coro); San Leone
I, Magno
(† 461); San Simplicio († 483); San Gelasio
I
(† 496); San Simmaco († 514); Sant’Ormisda († 523); San Giovanni
I
(† 526); San Felice
IV
(† 530); Sant’Agapito
I
(† 536); San Gregorio
I, Magno
(† 604); San Bonifacio
IV
(† 615); Sant’Eugenio
I
(† 657); San Vitaliano († 672); Sant’Agatone († 681); San Leone
II
(† 683); San Benedetto
II
(† 685); San Sergio
I
(† 701); San Gregorio
II
(† 731); San Gregorio
III
(† 741); San Zaccaria († 752); San Paolo
I
(† 767); San Leone
III
(† 816); San Pasquale
I
(† 824); San Leone
IV
(† 855); San Niccolò
I
(† 867); San Leone
IX
(† 1054); Beato Urbano
II
(† 1099); Beato Innocenzo
XI
(† 1689); San Pio
X
(† 1914); San Giovanni
XXIII
(† 1963); San Paolo
VI
(† 1978); Beato Giovanni
Paolo I
(† 1978); San Giovanni
Paolo II
(† 2005); pezzo di croce di san Andrea; lancia di san
Logino; pezzo della Croce di Cristo

12

03.16

D

S.
Maria in Domnica alla Navicella

San Lorenzo,
martire († 258); Santa Ciriaca,
martire

13

03.17

L

S.
Clemente in Laterano

San Clemente
I
,
papa e martire († 101); Sant’Ignazio
di Antiochia
,
vescovo e martire († 110 ca.); San Cirillo († 869), apostolo degli Slavi

14

03.18

M

S.
Balbina all’Aventino

Santa Balbina,
vergine e martire († 130); San Felicissimo e San Quirino
(suo padre) associati al martirio di s. Balbina

15

03.19

X

S.
Cecilia in Trastevere

Santa Cecilia († 230); San Valeriano,
marito di Cecilia, convertito al cristianesimo e martirizzato (†
229); San Tiburzio, fratello di Valeriano e compagno di martirio;
San Massimo, il soldato o il funzionario preposto all’esecuzione
di Valeriano e Tiburzio, che poi si convertì e fu
martirizzato a sua volta; Papa Urbano
I
(† 230 ca.), avrebbe battezzato Cecilia e il suo sposo
Valeriano

16

03.20

G

S.
Maria in Trastevere

San Giulio
I
,
papa († 352); San Calisto
I
,
papa martire († 222 ca.); Santi Fiorentino, Corona, Sabino
e Alessandro, martiri

17

03.21

V

S.
Vitale in Fovea

Santi Vitale († 304), Valeria († II sec.), Gervasio
e Protasio
(† II sec.)

18

03.22

S

SS.
Pietro e Marcellino al Laterano

Santi Marcellino
e Pietro
,
martiri († 304); Santa Marzia, martire associata ai ss.
Marcellino e Pietro

19

03.23

D

S.
Lorenzo fuori le mura

San Lorenzo († 258); Santo Stefano Protomartire (I secolo); Sant’Ippolito († III sec.); San Giustino,
martire († 167); San Sisto
III
papa († 440); San Zosimo papa († 418); Beato Pio
IX
,
papa († 1878)

20

03.24

L

S.
Marco al Campidoglio

San Marco,
l’evangelista e martire († I sec.); San Marco Papa († 336); Santi Abdon
e Sennen
,
martiri persiani († III sec.)

21

03.25

M

S.
Pudenziana al Viminale

Santa Pudenziana,
martire († II sec.); Santa Prassede,
sua sorella († II sec.)

22

03.26

X

S.
Sisto (SS. Nereo e Achilleo)

San Sisto
I
,
papa († 125); Santi Nereo
e Achilleo
(† 300); Santa Flavia
Domitilla
martire († I sec.)

23

03.27

G

SS.
Cosma e Damiano in Via sacra

Santi Cosma
e Damiano
,
medici e martiri († 303); Antimo e Leonzio, fratelli e
martiri

24

03.28

V

S.
Lorenzo in Lucina

La
graticola di San Lorenzo sulla quale il santo sarebbe stato arso
vivo; vaso che contiene carne bruciata di San Lorenzo

25

03.29

S

S.
Susanna alle Terme di Diocleziano

Santa Susanna vergine e martire († 294)

26

03.30

D

S.
Croce in Gerusalemme

Frammenti
della Vera Croce, parte del Titulus Crucis (la scritta
“I.N.R.I.”); chiodi della crocifissione e alcune spine
della Corona; un frammento della croce del Buon Ladrone, san Disma;
la falange di San Tommaso Apostolo († I sec.)

27

04.31

L

SS.
Quattro Coronati al Celio

Santi Castorio,
Sinfroniano, Claudio e Nicostrato
,
martiri († IV sec.)

28

04.01

M

S.
Lorenzo in Damaso

San Lorenzo martire († 258); San Damaso,
papa e martire († 384); Giovino e Faustino, martiri

29

04.02

X

S.
Paolo fuori le mura

San Paolo apostolo († 67); Catena di San Paolo; Bastone di San Paolo

30

04.03

G

SS.
Silvestro e Martino ai Monti

Santi
Artemio, Paolina e Sisinnio, martiri; beato Angelo
Paoli
(† 1720)

31

04.04

V

S.
Eusebio all’Esquilino

Sant’Eusebio,
presbitero e martire († 353); Santi Orosio e Paolino,
sacerdoti e martiri

32

04.05

S

S.
Nicola in Carcere

San Nicola
di Bari
(† 270); Santi Marcellino e Faustino, martiri (†
250)

33

04.06

D

S.
Pietro in Vaticano

 

34

04.07

L

S.
Crisogono in Trastevere

San Crisogono,
martire († 303); Sant’Anastasia martire († 250); San Rufo, martire († I sec.); Beata Anna
Maria Taigi
,
(† 1837)

35

04.08

M

S.
Maria in via Lata

San Agapito,
martire († 273); Santi Ippolito e Dario,
martiri († IV sec. ); frammento della Vera Croce

36

04.09

X

S.
Marcello al Corso

San Marcello
I
,
papa († 309); Santa Digna e Santa Emerita, martire

37

04.10

G

S.
Apollinare in Campo Marzio

Sant’Apollinare († II sec.); Santi Eustrazio, Bardario, Eugenio, Oreste ed
Eusenzio, martiri

38

04.11

V

S.
Stefano al Celio

San Stefano,
protomartire († 36); Santi Primo
e Feliciano
,
martiri († 303); frammenti della Vera Croce

39

04.12

S

S.
Giovanni a Porta Latina

Frammenti
ossei o piccoli reliquiari contenenti parti del corpo o oggetti
personali attribuiti a San Giovanni Evangelista († 98); Santi Gordiano
e Epimaco
,
martiri († IV sec.)

40

04.13

D

S.
Giovanni in Laterano

 

41

04.14

L

S.
Prassede all’Esquilino

Santa Prassede,
martire († II sec.); Santa Pudenziana, martire († II
sec.); Santa Vittoria,
martire († 253); Colonna della Flagellazione

42

04.15

M

S.
Prisca all’Aventino

Santa Prisca,
una delle prime martire cristiane († I sec.); Santi Aquila
e Priscilla
,
sposi cristiani; frammenti della Vera Croce

43

04.16

X

S.
Maria Maggiore

 

44

04.17

G

S.
Giovanni in Laterano

 

45

04.18

V

S.
Croce in Gerusalemme

 

46

04.19

S

S.
Giovanni in Laterano

 

47

04.20

D

S.
Maria Maggiore

 

48

04.21

L

S.
Pietro in Vaticano

 

49

04.22

M

S.
Paolo fuori le mura

 

50

04.23

X

S.
Lorenzo fuori le mura

San Lorenzo,
martire († 258); Santo Stefano protomartire († 36); San Sebastiano,
martire († 288); San Francesco
d’Assisi
(† 1226); San Zosimo papa, († 418), San Sisto
III
papa, († 440), Sant’Ilario papa, († 468), San Damaso
II
papa, († 1048); Beato Pio
IX
,
papa († 1878); frammenti della Vera Croce

51

04.24

G

SS.
XII Apostoli

San Filippo apostolo († 80); San Giacomo
il Minore
(† 62)

52

04.25

V

S.
Maria ad Martyres (Pantheon)

San Longino,
soldato romano che trafisse il costato di Gesù Cristo
durante la crocifissione († I sec.); Santa Bibiana,
martire († 362-363); Santa Lucia,
martire († 304); San Rasio e Sant’Anastasio, martiri;
Durante la consacrazione della chiesa nel 609 d.C. da parte di
Papa Bonifacio IV, furono trasferite qui dai cimiteri romani le
ossa di ben 28 carri di martiri.

53

04.26

S

S.
Giovanni in Laterano

 

54

04.27

D

S.
Pancrazio

San Pancrazio,
martire († 304); frammenti della Vera Croce





I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana

Il 4 giugno 2024 sono stati inaugurati e benedetti dall’allora Rettor Maggiore, il Cardinale Ángel Fernández Artime, i nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana situati presso la comunità “Zeffirino Namuncurà” in Via della Bufalotta a Roma. Nel piano di ristrutturazione della Sede Centrale, il Rettor Maggiore con il suo Consiglio decise di collocare gli ambienti relativi alla Postulazione Generale Salesiana in questa nuova presenza salesiana in Roma.

            Da don Bosco fino ai nostri giorni riconosciamo una tradizione di santità a cui merita dare attenzione, perché incarnazione del carisma che da lui ha avuto origine e che si è espresso in una pluralità di stati di vita e di forme. Si tratta di uomini e donne, giovani e adulti, consacrati e laici, vescovi e missionari che in contesti storici, culturali, sociali diversi nel tempo e nello spazio hanno fatto brillare di singolare luce il carisma salesiano, rappresentando un patrimonio che svolge un ruolo efficace nella vita e nella comunità dei credenti e per gli uomini di buona volontà. La Postulazione accompagna 64 Cause di Beatificazione e Canonizzazione riguardanti 179 tra Santi, Beati, Venerabili, Servi di Dio. Merita sottolineare che circa la metà dei gruppi della Famiglia Salesiana (15 su 32) hanno in corso almeno una Causa di Beatificazione e Canonizzazione.

Il progetto dei lavori è stato elaborato e seguito dall’architetto Toti Cameroni. Individuato lo spazio per la collocazione degli ambienti della Postulazione, comprendente originariamente un lungo e ampio corridoio e un grande salone, si è passati allo studio della distribuzione degli stessi, in base alle esigenze richieste. La soluzione definitiva è stata così progettata e realizzata:

La biblioteca con librerie a tutta altezza divise in quadrotti da cm. 40×40 che rivestono completamente le pareti. Lo scopo è raccogliere e custodire le diverse pubblicazioni relative alle figure di santità, nella consapevolezza che le vite e gli scritti dei santi hanno costituito, fin dall’antichità, una lettura frequente tra i fedeli, suscitando conversione e desiderio di vita più buona: essi riflettono lo splendore della bontà, della verità e della carità di Cristo. Inoltre, tale spazio si presta bene anche per ricerche personali, accoglienza di gruppi e riunioni.

            Da qui si passa all’ambiente dell’accoglienza che vuole essere uno spazio di spiritualità e di meditazione, come nelle visite ai monasteri del Monte Athos, dove l’ospite veniva introdotto prima di tutto nella cappella delle reliquie dei Santi: è lì che si trovava il cuore del monastero e da lì proveniva l’incitamento alla santità per i monaci. In questo spazio è stata realizzata una serie di piccole vetrinette che illuminano reliquiari o oggetti di valore inerenti alla santità salesiana. La parete di destra è rivestita da una boiserie in legno con inseriti pannelli sostituibili che rappresentano alcuni dei santi, beati, venerabili e servi di Dio della Famiglia Salesiana.

            Una porta immette nel locale più grande della postulazione: l’archivio. Un compattatore di 640 metri lineari permette di archiviare moltissimi documenti relativi ai diversi processi di Beatificazione e Canonizzazione. Una lunga cassettiera è posizionata sotto le finestre: sono collocate immaginette e paramenti liturgici.
            Un piccolo corridoio dall’accoglienza, dove sulle pareti si possono ammirare tele e dipinti, introduce prima in due luminosi uffici con arredi e poi nella custodia delle reliquie. Anche in questo spazio l’arredo riempie le pareti, armadiature e cassettiere accolgono le reliquie e i paramenti liturgici.

Un deposito e un piccolo locale adibito a zona break completano gli ambenti della postulazione.
            L’inaugurazione e la benedizione di questi locali ricorda che siamo depositari di una preziosa eredità che merita di essere conosciuta e valorizzata. Oltre all’aspetto liturgico-celebrativo, occorre valorizzare appieno le potenzialità di tipo spirituale, pastorale, ecclesiale, educativo, culturale, storico, sociale, missionario… delle Cause. La santità riconosciuta, o in via di riconoscimento, da un lato è già realizzazione della radicalità evangelica e della fedeltà al progetto apostolico di don Bosco, cui guardare come risorsa spirituale e pastorale; dall’altro è provocazione a vivere con fedeltà la propria vocazione per essere disponibili a testimoniare l’amore sino all’estremo. I nostri Santi, Beati, Venerabili e Servi di Dio sono l’autentica incarnazione del carisma salesiano e delle Costituzioni o Regolamenti dei nostri Istituti e Gruppi nel tempo e nelle situazioni più diverse, vincendo quella mondanità e superficialità spirituale che minano alla radice la nostra credibilità e fecondità.
            L’esperienza conferma sempre più che la promozione e la cura delle Cause di Beatificazione e Canonizzazione della nostra Famiglia, la celebrazione corale di eventi inerenti alla santità, sono dinamiche di grazia che suscitano gioia evangelica e senso di appartenenza carismatica, rinnovando propositi ed impegni di fedeltà alla chiamata ricevuta e generando fecondità apostolica e vocazionale. I santi sono veri mistici del primato di Dio nel dono generoso di sé, profeti di fraternità evangelica, servi dei fratelli con creatività.

            Al fine di promuovere le Cause di Beatificazione e Canonizzazione della Famiglia Salesiana e conoscere da vicino il patrimonio della santità fiorita da don Bosco la Postulazione è disponibile ad accogliere persone e gruppi che vogliono conoscere e visitare questi ambienti, offrendo anche la possibilità mini-ritiri con percorsi su tematiche specifiche e la presentazione di documenti, reliquie, oggetti significativi. Per informazioni scrivere a postulatore@sdb.org.

Galleria foto – nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana

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I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana





Il Buon Pastore dà la vita: don Elia Comini nell’80° del suo sacrificio

            Monte Sole è un’altura dell’Appennino bolognese che fino alla Seconda guerra mondiale aveva diverse piccole località abitate lungo i suoi dorsali: tra il 29 settembre e il 5 ottobre del ‘44, i suoi abitanti, nella maggior parte bambini, donne e anziani, furono vittime di un terribile eccidio da parte delle truppe SS (Schutzstaffel, «squadre di protezione»; organizzazione paramilitare del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori create nella Germania nazista). Morirono 780 persone, molte di loro rifugiatesi nelle chiese. Persero la vita 5 sacerdoti, tra cui don Giovanni Fornasini, proclamato beato e martire nel 2021 da Papa Francesco.
            Questa è una delle stragi più efferate compiute dalle SS naziste in Europa, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, consumata attorno a Monte Sole, nei territori di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno (Bologna) e comunemente nota come la “strage di Marzabotto”. Tra le vittime ci furono alcuni sacerdoti e religiosi, tra cui il Salesiano don Elia Comini, che durante la vita e fino alla fine si sforzò di essere un buon pastore e di spendersi senza riserve, generosamente, in un esodo da sé senza ritorno. Questa è la vera essenza della sua carità pastorale, che lo presenta come modello di pastore che veglia sul gregge, pronto a dare la vita per esso, in difesa dei deboli e degli innocenti.

“Ricevimi pure come una vittima espiatoria”
            Elia Comini nacque a Calvenzano di Vergato (Bologna) il 7 maggio 1910. I genitori Claudio, falegname, ed Emma Limoni, sarta, lo prepararono alla vita e lo educarono alla fede. Fu battezzato a Calvenzano. A Salvaro di Grizzana fece la Prima Comunione e ricevette la Cresima. Fin dalla più giovane età dimostrò molto interesse per il catechismo, per le funzioni di chiesa, per il canto in serena e allegra amicizia con i compagni. L’arciprete di Salvaro, monsignor Fidenzio Mellini, da giovane militare a Torino aveva frequentato l’oratorio di Valdocco e aveva conosciuto don Bosco, che gli aveva profetizzato il sacerdozio. Monsignor Mellini stimava molto Elia per la sua fede, la bontà e le singolari capacità intellettuali e lo spinse a diventare uno dei figli di don Bosco. Per questo lo indirizzò al piccolo seminario salesiano di Finale Emilia (Modena) dove Elia frequentò la scuola media e il ginnasio. Nel 1925 entrò nel noviziato salesiano di Castel De’ Britti (Bologna) e vi emise la professione religiosa il 3 ottobre 1926. Negli anni 1926-1928 frequentò come chierico studente di Filosofia il liceo salesiano di Valsalice (Torino), dove era allora custodita la tomba di don Bosco. Fu in questo luogo che Elia iniziò un impegnativo cammino spirituale, testimoniato da un diario che egli redigerà fino a poco più di due mesi dalla tragica morte. Sono pagine rivelatrici di una vita interiore tanto profonda quanto non percepita all’esterno. Alla vigilia della rinnovazione dei voti egli scriverà: “Sono contento più che mai di questo giorno, alla vigilia dell’olocausto che spero Ti sia gradito. Ricevimi pure come una vittima espiatoria, quantunque non lo meriti. Se credi, dammi qualche ricompensa: perdona i miei peccati della vita passata; aiutami a farmi santo”.
            Compì il tirocinio pratico come assistente educatore a Finale Emilia, a Sondrio e a Chiari. Si laureò in Lettere presso l’Università Statale di Milano. Il 16 marzo 1935 venne ordinato sacerdote a Brescia. Scrisse: “Ho domandato a Gesù: la morte, piuttosto che venir meno alla mia vocazione sacerdotale; e l’amore eroico per le anime”. Dal 1936 al 1941 insegna Lettere nell’aspirantato “San Bernardino” di Chiari (Brescia) dando prova eccellente del suo talento didattico e della sua attenzione ai giovani. Negli anni 1941-1944 l’ubbidienza religiosa lo trasferisce all’istituto salesiano di Treviglio (Bergamo). Incarnò particolarmente la carità pastorale di don Bosco e i tratti dell’amorevolezza salesiana, che trasmetteva ai giovani attraverso il carattere affabile, la bontà e il sorriso.

Triduo di passione
            La dolcezza abituale del suo comportamento e la dedizione eroica al ministero sacerdotale brillarono con chiara evidenza durante i brevi soggiorni annuali estivi presso la mamma, rimasta sola a Salvaro, e presso la sua parrocchia di adozione, dove poi il Signore chiederà a don Elia la donazione totale dell’esistenza. Aveva scritto, tempo prima, nel diario: “Persiste sempre in me il pensiero che debba morire. Chissà! Facciamo come il servo fedele sempre preparato all’appello, a rendere ragione della gestione”. Siamo nel periodo giugno-settembre 1944, quando la terribile situazione creatasi nella zona tra Monte Salvaro e Monte Sole, con l’avanzamento della linea del fronte Alleato, la brigata partigiana Stella Rossa assestata sulle alture e i nazisti a rischio imbottigliamento, portò la popolazione sull’orlo della distruzione totale.
            Il 23 luglio i nazisti, a causa dell’uccisione di un loro soldato, incominciano una serie di rappresaglie: uccisione di dieci uomini, case incendiate. Don Comini si prodiga nell’accogliere i parenti degli uccisi e nel nascondere le persone ricercate. Inoltre aiuta l’anziano parroco di San Michele di Salvaro, mons. Fidenzio Mellini: fa catechismo, guida esercizi spirituali, celebra, predica, esorta, suona, canta e fa cantare per mantenere serena una situazione che va verso il peggio. Poi, insieme al sopraggiunto padre Martino Capelli, Dehoniano, don Elia accorre continuamente a soccorrere, consolare, amministrare i sacramenti, seppellire i morti. In alcuni casi riesce anche a salvare gruppi di persone conducendole in canonica. Il suo eroismo si manifesta con crescente chiarezza alla fine del settembre 1944, quando la Wehrmacht (Le Forze Armate Tedesche) cede ampiamente spazio alle terribili SS.
            Il triduo di passione per don Elia Comini e per padre Martino Capelli inizia venerdì 29 settembre. I nazisti causano il panico nella zona del Monte Salvaro e la popolazione si riversa in parrocchia in cerca di protezione. Don Comini, rischiando la vita, nasconde una settantina di uomini in un locale attiguo alla sagrestia, coprendo la porta con un vecchio armadio.            L’espediente riesce. Infatti i nazisti, perlustrando i vari ambienti per ben tre volte, non se ne accorgono. Giunge intanto la notizia che le terribili SS avevano massacrato in località “Creda” svariate decine di persone, tra le quali c’erano feriti e moribondi bisognosi di conforto. Don Elia celebra la sua ultima Messa al mattino presto e poi insieme a padre Martino, presi l’olio santo e l’Eucarestia, si affrettano sperando di poter ancora soccorrere qualche ferito. Lo fa liberamente. Tutti infatti lo dissuadono: dal parroco alle donne lì presenti. “Non vada, padre. È pericoloso!”. Provano a trattenere don Elia e padre Martino a forza, ma essi prendono questa decisione con piena consapevolezza del pericolo di morte. Don Elia dice: “Pregate, pregate per me, perché ho una missione da compiere”; “Pregate per me, non lasciatemi solo!”.
            Nei pressi della Creda di Salvaro i due sacerdoti vengono catturati; usati “come giumenti”, sono costretti a trasportare munizioni e, a sera, vengono rinchiusi nella scuderia di Pioppe di Salvaro. Sabato 30 settembre, don Elia e padre Martino spendono tutte le proprie energie nel confortare i numerosi uomini rinchiusi insieme a loro. Il Commissario Prefettizio di Vergato Emilio Veggetti, che non conosceva padre Martino, ma conosceva molto bene don Elia, invano cerca di ottenere la liberazione dei prigionieri. I due sacerdoti continuano a pregare e a consolare. A sera si confessano reciprocamente.
            Il giorno seguente, domenica 1° ottobre 1944, sull’imbrunire, la mitraglia falcia inesorabilmente le 46 vittime di quello che sarebbe passato alla storia come l’“Eccidio di Pioppe di Salvaro”: erano gli uomini considerati inabili al lavoro; tra loro, i due sacerdoti, giovani e costretti due giorni prima al lavoro pesante. Testimoni che si trovavano a breve distanza, in linea d’aria, dal luogo dell’eccidio hanno potuto sentire la voce di don Comini che guidava le Litanie e udire poi il rumore degli spari. Don Comini prima di accasciarsi colpito a morte da l’assoluzione a tutti e grida: “Pietà, pietà!”, mentre padre Capelli alzandosi dal fondo della Botte traccia ampi segni di croce, finché non ricade supino con le braccia aperte, in croce. Non fu possibile recuperare nessuna salma. Dopo venti giorni furono aperte le griglie e l’acqua del Reno trascinò via i resti mortali, facendone perdere completamente le tracce. Nella Botte si morì fra benedizioni e invocazioni, fra preghiere, atti di pentimento e di perdono. Qui, come in altri luoghi si morì da cristiani, con fede, con il cuore rivolto a Dio nella speranza della vita eterna.

Storia dell’eccidio di Montesole
            Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 i caduti furono 770, ma nel complesso le vittime di nazisti e fascisti, dalla primavera del 1944 alla liberazione, furono 955, distribuite in 115 diverse località all’interno di un vasto territorio che comprende i comuni di Marzabotto, Grizzana e Monzuno (e alcune porzioni dei territori limitrofi). Di questi, 216 furono i bambini, 316 le donne, 142 gli anziani, 138 le vittime riconosciute partigiani, cinque i sacerdoti, la cui colpa agli occhi dei nazisti consisteva nell’essere stati vicini, con la preghiera e l’aiuto materiale, a tutta la popolazione di Monte Sole nei tragici mesi di guerra e occupazione militare. Insieme a don Elia Comini, salesiano, e a padre Martino Capelli, dehoniano, in quei tragici giorni furono uccisi anche tre sacerdoti dell’Arcidiocesi di Bologna: don Ubaldo Marchioni, don Ferdinando Casagrande, don Giovanni Fornasini. Di tutti e cinque è in corso la Causa di Beatificazione e Canonizzazione. Don Giovanni, l’“Angelo di Marzabotto”, cadde, il 13 ottobre 1944. Aveva ventinove anni e il suo corpo rimase insepolto fino al 1945, quando venne ritrovato pesantemente martoriato. È stato beatificato il 26 settembre 2021. Don Ubaldo morì il 29 settembre, ucciso dal mitra sulla predella dell’altare della sua chiesa di Casaglia; aveva 26 anni, era stato ordinato prete due anni prima. I soldati nazisti trovarono lui e la comunità intenti nella preghiera del rosario. Lui fu ucciso lì, ai piedi dell’altare. Gli altri – più di 70 – nel cimitero vicino. Don Ferdinando fu ucciso, il 9 ottobre, da un colpo di pistola alla nuca, con la sorella Giulia; aveva 26 anni.




Servo di Dio Akash Bashir

            Il 25 febbraio scorso, abbiamo celebrato la festa dei nostri protomartiri salesiani, Mons. Luigi Versiglia e il Sacerdote Calisto Caravario. Il martirio, fin dai tempi della prima comunità cristiana, è stato sempre un segno evidente della nostra fede, simile al sacrificio di Gesù sulla croce per la nostra salvezza. Attualmente, nella nostra Congregazione Salesiana, stiamo affrontando la causa di martirio di Akash Bashir, un giovane salesiano ex-allievo del Pakistan, che a soli 20 anni ha dato la sua vita per la salvezza della sua comunità parrocchiale. La fase di inchiesta diocesana per il processo di Beatificazione è conclusa il 15 marzo, anniversario del suo martirio.
            Il Pakistan è uno dei Paesi musulmani più estremisti al mondo. La Repubblica Islamica del Pakistan è emersa dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’indipendenza dall’India nel 1947. Tuttavia, i cristiani erano già presenti in questa regione grazie ai missionari domenicani e francescani. Attualmente, i cristiani in Pakistan costituiscono circa l’1,6% della popolazione totale (cattolici e anglicani), pari a circa 4 milioni di persone. Le minoranze religiose affrontano discriminazioni quotidiane, emarginazione, mancanza di pari opportunità nel lavoro e nell’educazione, e persistono discriminazioni e talvolta persecuzioni religiose, rendendo la libertà religiosa una questione critica.
            Nonostante le sfide, le comunità cristiane in Pakistan dimostrano resilienza e speranza. Chiese e organizzazioni cristiane svolgono un ruolo fondamentale nel fornire sostegno e promuovere l’unità interreligiosa, e i Salesiani hanno contribuito in modo significativo con la loro presenza.
            La vita di Akash Bashir inizia in un paesino vicino all’Afghanistan, in una famiglia composta da cinque figli, essendo lui il terzo. Akash, nato durante l’estate il 22 giugno nel 1994, ha affrontato un clima estremo, sopravvivendo con fatica. Nonostante le difficoltà legate al clima avverso, alla povertà familiare e all’alimentazione scarsa, queste sfide hanno contribuito a forgiare il suo carattere.
            Il sogno di Akash di servire nell’esercito è stato ostacolato dalla precarietà scolastica e finanziaria. La famiglia Bashir decide di emigrare verso est, nel Punjab, alla città di Lahore, vicina alla frontiera con l’India, specificamente nel quartiere cristiano di Youhanabad, dove i Salesiani gestiscono un collegio, una scuola elementare e una scuola tecnica. Nel settembre 2010, Akash Bashir entra all’Istituto Salesiano Don Bosco Technical and Youth Center.
            In un contesto politico-religioso difficile, Akash si offre volontario come guardia di sicurezza nella Parrocchia di Youhanabad nel dicembre 2014. Il suo ruolo come guardia di sicurezza alla Parrocchia di San Giovanni consisteva nel sorvegliare l’ingresso nel cortile e controllare i fedeli al cancello d’ingresso, dato che le chiese sono protette da un muro con un’unica porta d’accesso. Il 15 marzo 2015, durante la celebrazione della Messa, Akash si trova a prestare servizio.
            Quel giorno era la IV domenica di Quaresima (la domenica «Laetare») celebrata con la partecipazione di 1200-1500 fedeli alla Messa, presieduta da padre Francis Gulzar, il Parroco. Alle 11.09, un primo attacco terroristico colpisce la comunità anglicana a meno di 500 metri dalla chiesa cattolica. Un minuto dopo, alle 11.10, una seconda detonazione avviene proprio all’ingresso del cortile della Parrocchia Cristiana, dove Akash Bashir, come guardia di sicurezza volontaria, presta servizio.
            Sua Eminenza, Cardinale Ángel Fernández, il Rettor Maggiore dei Salesiani, nella introduzione alla sua biografia descrive il martirio di Akash con queste parole:
«Il 15 marzo 2015, mentre si stava celebrando la Santa Messa nella parrocchia di San Giovanni, il gruppo di guardie di sicurezza composto da giovani volontari, di cui Akash Bashir faceva parte, sorvegliava fedelmente l’ingresso. Quel giorno accadde qualcosa di insolito. Akash notò che una persona con dell’esplosivo sotto i vestiti stava cercando di entrare in chiesa. La trattenne, le parlò e le impedì di continuare, ma rendendosi conto che non poteva fermarla la abbracciò strettamente dicendo: «Morirò, ma non ti farò entrare in chiesa». Così il giovane e il kamikaze morirono insieme. Il nostro giovane offrì la sua vita salvando quella di centinaia di persone, ragazzi, ragazze, mamme, adolescenti e uomini adulti che stanno pregando in quel momento dentro la chiesa. Akash aveva 20 anni».
            Dopo l’esplosione, quattro persone agonizzanti giacciono a terra: l’uomo con l’esplosivo, un mercante di legumi, una bambina di sei anni e il nostro Akash Bashir. Il suo sacrificio ha impedito che il numero delle vittime fosse molto più elevato. Il Vangelo proclamato quel giorno ricordava le parole di Gesù a Nicodemo: «Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,20-21). Akash ha sigillato queste parole con il suo sangue di giovane cristiano.
            Il 18 marzo, l’Arcivescovo di Lahore presiede una celebrazione ecumenica delle esequie di Akash e dei cristiani anglicani, con la partecipazione di 7.000-10.000 fedeli. Successivamente, il corpo viene trasferito al cimitero di Youhanabad, dove è sepolto in una tomba costruita dal padre di Akash.
            La vita di Akash Bashir è una testimonianza potente che richiama le prime comunità cristiane circondate da filosofie, culture avverse e persecuzioni. Le comunità degli Atti degli Apostoli erano pure minoritarie, ma con una fede forte e coraggio illimitato, simili ai cristiani in Pakistan.
            L’esempio luminoso di Akash Bashir, ex-allievo Salesiano, continua a ispirare il mondo. Lui ha vissuto le parole di Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13).
            Il 15 marzo 2022, è iniziata ufficialmente l’inchiesta diocesana, segnando un passo significativo verso la possibile beatificazione del primo cittadino pakistano. La conclusione dell’inchiesta diocesana il 15 marzo 2024 segna un traguardo fondamentale per il percorso di beatificazione e canonizzazione.
            Finisco ricordando ancora le parole di sua Eminenza, Car. Ángel Fernández su Akash Bashir:

«Essere santo oggi è possibile! Ed è senza dubbio il segno carismatico più evidente del sistema educativo salesiano. In modo particolare, Akash è la bandiera, il segno, la voce di tanti cristiani che vengono attaccati, perseguitati, umiliati e martirizzati nei paesi non cattolici. Akash è la voce di tanti giovani coraggiosi che riescono a dare la loro vita per la fede nonostante le difficoltà della vita, la povertà, l’estremismo religioso, l’indifferenza, la disuguaglianza sociale, la discriminazione. La vita e il martirio di questo giovane pakistano, di soli 20 anni, ci fa riconoscere la potenza dello Spirito Santo di Dio, vivo, presente nei luoghi meno attesi, negli umili, nei perseguitati, nei giovani, nei piccoli di Dio. La sua Causa di Beatificazione è per noi segno di speranza ed esempio di santità giovanile fino al martirio».

don Gabriel de Jesús CRUZ TREJO, sdb
vicepostulatore della causa di Akash Bashir




I protomartiri salesiani: Luigi Versiglia e Callisto Caravario

Luigi e Callisto: stessa vocazione missionaria per la salvezza delle anime, ma con una storia diversa.
Il 25 febbraio di questo anno si celebra il 94° anniversario del martirio di Mons. Luigi Versiglia e don Callisto Caravario, missionari in terra cinese.
Luigi Versiglia e Callisto Caravario: due figure diverse per molti aspetti ma accomunate da un grande zelo apostolico e dal loro ultimo atto di puro amore in difesa della religione cattolica e della purezza di tre ragazze cinesi.

Luigi: l’aspirante veterinario che divenne salesiano missionario

Luigi Versiglia, nato il 5 giugno 1873 a Oliva Gessi (PV), da bambino, benché assiduo chierichetto nella chiesa parrocchiale del suo paese, non intende minimamente farsi prete. Anzi, si infastidisce quando i suoi compaesani, vedendolo tanto devoto in chiesa, profetizzano un suo futuro da prete. La cosa non è affatto nei suoi progetti di vita, neppure quando a 12 anni viene mandato a studiare al collegio di Torino Valdocco. Lui ama i cavalli e sogna di diventare veterinario. Studiare a Torino rafforza in lui la speranza di poter poi iscriversi alla prestigiosa facoltà di Veterinaria dell’Università torinese.

Versiglia con Don Braga e gli allievi dell’Istituto S. Giuseppe di Ho Sai

A Valdocco, però, conosce don Bosco, ormai anziano e malato, e rimane quasi ammaliato dal suo carisma. In questi anni a Valdocco, nell’animo di Versiglia inizia a delinearsi qualcosa.
La carità e la devozione irradiate dall’ambiente salesiano, insieme al fascino di don Bosco, lavorano pian piano nell’animo di Luigi, finché accade un fatto che risulta decisivo, e da quel giorno egli non avrà più dubbi. L’11 marzo 1888 nella Basilica di Maria Ausiliatrice assistendo alla cerimonia di addio ad un gruppo di missionari in partenza per l’Argentina, rimane impressionato dal contegno tanto modesto e raccolto di uno dei sei giovani in partenza. Di lì la sua vocazione. Da quel giorno nasce in lui il forte desiderio di diventare prete, prete salesiano missionario. (La storia della sua vocazione missionaria è ben descritta nella lettera che lui stesso scrive al suo Direttore don Barberis nel 1890.)
Luigi frequenta, dunque, il noviziato a Foglizzo (1888-1890), dove tiene una condotta irreprensibile in tutto: caritatevole con i compagni, molto pio e nello stesso tempo intraprendente e pieno di vita.  Vince poi una borsa di studio per il corso di filosofia all’Università Gregoriana di Roma e a vent’anni riceve il baccellierato in filosofia.
È ordinato sacerdote a soli ventidue anni con una dispensa concessagli dalla Santa Sede in virtù della sua maturità psichica e morale, superiore all’età.
Subito viene mandato ad insegnare filosofia ai novizi a Foglizzo, dove, con il suo carattere schietto e sempre allegro, è stimato e ammirato da tutti per la sua competenza, affabilità e imparzialità. Esige l’osservanza delle regole, precedendo tutti con l’esempio.
Dopo Foglizzo, gli viene affidata la direzione del nuovo noviziato a Genzano di Roma dove trasmette anche ai suoi chierici l’ideale missionario.

Callisto: un giovane puro desideroso di essere missionario

Il chierico Caravario a Shanghai con don Garelli e 20 battezzandi

Tutt’altra storia ha, invece, la vocazione di Callisto Caravario, che nasce l’8 giugno 1903, esattamente trenta anni dopo Luigi Versiglia a Courgnè (TO), e all’età di cinque anni si trasferisce a Torino con la famiglia. Di indole buona, attaccatissimo alla mamma, per la quale ha gesti e attenzioni singolari, fin da piccolo manifesta una spiccata vocazione al Sacerdozio. I suoi primi divertimenti sono imitare i gesti del Sacerdote che celebra la messa. Impara presto a servire la Messa, lo fa con devozione, frequenta con passione e impegno l’oratorio San Giuseppe di Torino, che diventa la sua seconda casa.

Alla scuola elementare del Collegio San Giovanni Evangelista per due anni ha come maestro il chierico Carlo Braga, oggi Servo di Dio.
Alla mamma ripete costantemente che da grande si farà prete.
Nel 1914 inizia il ginnasio all’Oratorio di Valdocco, dove è particolarmente attratto dai missionari che vanno lì in visita ai Superiori e con i quali spesso si intrattiene nelle ricreazioni alimentando il suo desiderio per le Missioni.
Nel 1918 inizia il noviziato a Foglizzo e l’anno dopo emette i voti religiosi. Frequenta l’Oratorio San Luigi di Via Ormea dove avvia al Sacerdozio più di un giovane.
Nel 1922 incontra Mons. Versiglia, arrivato dalla Cina a Torino per partecipare al Capitolo Generale, e gli esprime il suo forte desiderio di seguirlo in Missione. I Superiori, tuttavia, non gli consentono di realizzare subito il suo sogno, perché questo l’obbligherebbe a troncare gli studi, ma Callisto assicura Versiglia: “Monsignore, vedrà che sarò di parola: la seguirò in Cina. Vedrà che la seguirò certamente”.
L’anno dopo, tramite un gruppo di missionari in partenza per la Cina, fa recapitare una lettera a don Braga, missionario a Shiu-chow, chiedendogli di “preparare un posticino per lui”.

Luigi e Callisto: esperienze missionarie diverse ma accomunate dalla completa dedizione al prossimo e dalla conquista dell’affetto e dell’attaccamento dei giovani
Don Versiglia conserva vivo negli anni il suo ideale di missionario e l’occasione di partire in Missione gli si presenta nel 1906, quando il Rettor Maggiore dei Salesiani, a seguito di trattative intercorse con il vescovo di Macao, lo nomina capo di una spedizione per l’appunto a Macao, colonia portoghese sulla costa meridionale della Cina, per la direzione e la gestione di un orfanotrofio.
La spedizione è composta da altri due sacerdoti e da tre coadiutori: un sarto, un calzolaio e un tipografo. I Missionari arrivano a Macao il 13 febbraio 1906.
Don Versiglia adotta il metodo educativo di don Bosco cercando di creare un ambiente familiare fondato sull’amorevolezza. Per gli orfani il loro “Luì San-fù” (Padre Luigi) ha una dedizione totale e amorevole e lui è da loro pienamente ricambiato. Appena arriva gli corrono incontro e lo accolgono festosamente. Per questo a Macao don Versiglia diventa noto come il “padre degli orfani”.
Nell’orfanotrofio diretto da Versiglia il gioco e la musica sono strumenti educativi fondamentali. É il motivo che lo spinge ad aprire un oratorio festivo e a costituire una banda musicale, con ottoni e tamburi, che cattura da subito la curiosità e la simpatia di tutti i cinesi, agli occhi dei quali i piccoli musicisti sembrano «una comitiva fantastica, piovuta da un altro mondo».
Nel corso degli anni don Versiglia trasforma l’orfanotrofio in una scuola professionale di Arti e Mestieri per alunni orfani che è così stimata da essere presa a modello per le altre scuole di Macao. I ragazzi che ivi si diplomano trovano subito impiego negli uffici amministrativi della città o riescono ad aprire negozi di artigianato in proprio. Questa scuola dà un valido contributo di promozione sociale e culturale e la sua importanza viene riconosciuta da tutti.
Il Vescovo di Macao nel 1911 affida a Versiglia l’evangelizzazione del distretto dell’Heung Shan, regione compresa nel vasto delta del Fiume delle Perle.
In questo territorio il compito di evangelizzazione è particolarmente difficile. “C’è tutto da fare, preparare catechisti, maestri, scuole…” scrive don Versiglia. Compito difficile soprattutto a motivo della mancanza di personale, maschile e femminile, e della grande diffidenza del popolo cinese verso i missionari, considerati come stranieri inviati dai paesi colonialisti e quindi nemici.
Pochi mesi dopo, la millenaria monarchia cinese viene rovesciata e a partire dall’ottobre 1911 si instaura la Repubblica, ma continuano gli scontri tra i reparti imperiali e le truppe rivoluzionarie. La pirateria rifiorisce e scoppiano epidemie. Si diffonde addirittura la peste bubbonica e don Versiglia non lesina sacrifici per soccorrere chiunque abbia bisogno, visita i lazzaretti dando conforto ai malati e amministrando battesimi. Una volta al mese va anche a visitare i lebbrosi relegati in un’isola vicina.
Nella ferma volontà di Versiglia di aiutare tutti, anche i più miserabili, allontanati e dimenticati, di assisterli sia materialmente nei bisogni quotidiani della vita, sia spiritualmente salvando le loro anime non possiamo che cogliere in lui uno sconfinato amore per il prossimo.

Nel 1918 prende vita la prima Missione salesiana completamente autonoma in Cina, la Missione dello Shiu-Chow, che comprende una regione montuosa molto vasta, dove ci si può spostare solo in barca, a piedi o a cavallo, e gli abitanti sono dispersi in villaggi molto distanti gli uni dagli altri.

Nel 1921 viene consacrato Vescovo.
I vari confratelli daranno tutti testimonianza della grande carità di Versiglia che lo porta a fare quasi il servo dei suoi missionari, e nelle malattie li assiste giorno e notte. Carità anche nelle piccole cose. Don Garelli, ad esempio, racconterà che giunto dall’Italia alla residenza di Shiu-chow, piccola, povera e sprovvista di arredi, Versiglia gli dice: “Vedi, qui c’è un solo letto ad una sola piazza. Io sono ormai rotto alla vita missionaria, ma tu no! Sei ancora abituato agli agi della vita civile. Dunque, su quel letto ci dormi tu, e qui sul pavimento ci dormo io”.
Anche da Vescovo, egli continua a sacrificarsi per i confratelli e per i cinesi e si presta a qualunque servizio: tipografo, sacrestano, giardiniere, imbianchino, persino barbiere.
Compie visite pastorali faticosissime e lunghissime, alcune durano anche due mesi, sono in condizioni molto disagevoli, Gli capita di dormire sugli assiti delle barche pubbliche in mezzo alla gente che ti calpesta, in alberghi fatiscenti, in mezzo a diluvi…
Costruisce scuole, residenze, chiese, dispensari, orfanotrofio, brefotrofio, ricovero per anziani, tutto ciò grazie a sue doti particolari: 1) ha abilità di architetto; infatti, disegna e progetta lui stesso tutte le costruzioni e poi ne dirige i lavori, 2) ha grandi abilità oratorie che gli consentono di raccogliere i fondi necessari. Nei suoi due unici viaggi in Italia nel 1916 e 1922 e in quello al Congresso Eucaristico di Chicago, dove si reca per motivi specifici, tiene diversi seminari in cui incanta la gente aprendo i cuori di molti benefattori.
Quelli a Shiu-chow sono anni ancora più difficili. Il governo repubblicano, per scacciare potenti generali che ancora controllano vaste zone del nord, chiede aiuto alla Russia che manda i suoi armamenti ma inizia anche a fare propaganda bolscevica contro l’imperialismo occidentale, e i missionari vengono visti come nemici che devono esser allontanati, le loro residenze spesso vengono occupate dai militari, ecc. Negli anni il clima si fa sempre più scottante, diventa sempre più pericoloso viaggiare, la pirateria imperversa, alcuni missionari vengono rapiti dai pirati.
Mons. Versiglia si prodiga in tutti i modi per difendere le residenze e le persone in pericolo e dice: “Se per il Vicariato è necessaria una vittima, prego il Signore di prendere me”.

Callisto: giovane missionario appassionato di Cristo fino al dono totale di sé
Diversa e più breve è l’esperienza missionaria di Callisto ma ugualmente condotta con la massima dedizione di sé.
Egli riesce a realizzare il suo sogno missionario a ventuno anni (1924), quando ottiene il permesso di seguire don Garelli a Shanghai, dove viene affidata ai Salesiani la direzione di un grande istituto professionale.
Alla consegna della croce missionaria nella Basilica di Maria Ausiliatrice, il chierico Caravario formula questa preghiera: “Signore, la mia croce io non desidero che sia né leggera né pesante, ma come vuoi tu. Dammela Tu come vuoi. Solo ti chiedo che io la possa portare volentieri”. Parole che tanto ci dicono sulla sua disposizione ad accettare la volontà di Dio anche nelle sofferenze e nelle criticità.
Caravario arriva dunque a Shanghai nel novembre 1924, e qui, oltre allo studio del cinese, gli viene affidata un’ingente mole di lavoro: l’assistenza completa, ventiquattro ore su ventiquattro, di cento orfanelli, la scuola di catechismo, la preparazione al battesimo e alla cresima, l’animazione delle ricreazioni. Perseguendo il suo ideale di diventare sacerdote, inizia anche a studiare teologia con grande serietà.
Nel 1927 deve lasciare Shanghai per lo scatenarsi della rivoluzione e viene destinato alla lontana isola di Timor, colonia portoghese nell’arcipelago indonesiano, ecclesiasticamente dipendente dal Vescovo di Macao, per aprire una scuola di arti e mestieri. A Timor resterà due anni, che sfrutterà per arricchire la sua cultura religiosa e la sua relazione con Dio in vista del Sacerdozio. Anche a Timor, come a Shanghai, il suo apostolato ha il frutto di diverse vocazioni, e si guadagna la fiducia e l’affetto dei giovani “che piangono tutti alla sua partenza” quando nel 1929 la casa salesiana a Dili viene chiusa.
Viene, dunque, destinato alla Missione di Shiu-chow dove ritrova il suo maestro delle elementari, don Carlo Braga, e Mons. Versiglia che il 18 maggio 1929 lo ordina Sacerdote. Quel giorno, alla mamma scrive: “Mamma, ti scrivo col cuore pieno di gioia. Stamani sono stato ordinato, sono sacerdote in eterno. Ormai il tuo Callisto non è più tuo: egli dev’essere completamente del Signore. Sarà lungo o breve il tempo del mio sacerdozio? Non lo so. L’importante è che presentandomi al Signore io possa dire di aver fatto fruttare la grazia che mi ha dato”.
Caravario è estremamente magro e debole a causa della malaria contratta a Timor e Versiglia gli affida la Missione di Lin-chow, pensando che il buon clima di quella zona possa giovare alla sua salute fisica.
Come Versiglia, anche Caravario affronta le fatiche dei viaggi apostolici con spirito di sacrificio e adattamento. “In questa terra ci sono molte anime da salvare e gli operai sono pochi; perciò, noi dobbiamo, con l’aiuto del Signore, salvarle anche a costo di qualsiasi sacrificio.”
Grazie alle sue qualità di purezza, pietà, dolcezza e sacrificio, dai confratelli viene considerato il perfetto modello di Sacerdote missionario.

Luigi e Caravario: insieme nell’ultimo sacrificio
Il 24 febbraio 1930 Mons. Versiglia parte per la visita pastorale alla residenza di Lin-chow insieme a Don Callisto Caravario, a due maestri e a tre giovani ragazze che hanno studiato al collegio di Shiu-chow. Il 25 febbraio durante la risalita del fiume di Lin-chow la loro barca è fermata da una decina di pirati bolscevichi che chiedono cinquecento dollari come lasciapassare (che ovviamente i missionari non hanno con sé) e tentano di rapire le ragazze, ma Versiglia e Caravario si oppongono fermamente per proteggere la purezza delle giovani. Mons. Versiglia è risoluto a compiere il suo dovere fino a dare la vita: “Se per salvare coloro che sono state affidate alle mie cure, è necessario morire per difenderle, io sono pronto”. I pirati si scagliano su di loro, insultando la religione cattolica, e li bastonano in modo brutale. Poi li conducono in una boscaglia, li fucilano e si accaniscono sui loro corpi.
Le ragazze, liberate qualche giorno dopo dall’esercito regolare, testimonieranno la serenità con cui i due missionari vanno incontro alla morte.
Luigi e Callisto hanno immolato sé stessi per difendere la fede e la purezza delle tre giovani.
Chi li ha conosciuti testimonia che la forza di volontà e l’attaccamento a Dio hanno permeato tutta la loro vita in modo eroico, e che il loro zelo per la salvezza delle anime è stato peculiare.
La santità di queste anime belle è stata la conquista d’ogni giorno e il Martirio ne è stato il coronamento.

dott.ssa Giovanna Bruni




Beato Tito Zeman, martire per le vocazioni

Un uomo destinato all’eliminazione
            Titus Zeman nasce a Vajnory, vicino a Bratislava (in Slovacchia), il 4 gennaio 1915, primo di dieci figli in una famiglia semplice. All’età di 10 anni guarisce improvvisamente per intercessione della Madonna e le promette di “essere suo figlio per sempre” e diventare sacerdote salesiano. Comincia a realizzare questo sogno nel 1927, dopo aver superato per due anni l’opposizione della famiglia. Alla famiglia aveva chiesto di vendere un campo per potergli pagare gli studi, e aveva aggiunto: “Se fossi morto, avreste ben trovato i soldi per il mio funerale. Prego di usare quei soldi per pagarmi gli studi”.
            La stessa determinazione ritorna costante in Zeman: quando il regime comunista si instaura in Cecoslovacchia e perseguita la Chiesa, don Titus difende il simbolo del crocifisso (1946), pagando con il licenziamento dalla scuola in cui insegnava. Sfuggito provvidenzialmente alla drammatica “Notte dei barbari” e alla deportazione dei religiosi (13-14 aprile 1950), decide di varcare con i giovani salesiani la Cortina di ferro verso Torino dove lo accoglie il Rettore Maggiore don Pietro Ricaldone. Dopo due passaggi riusciti (estate e autunno 1950), nell’aprile 1951 la spedizione fallisce. Don Zeman affronta una settimana iniziale di torture e altri dieci mesi di detenzione preventiva, con ulteriori pesanti torture, sino al Processo del 20-22 febbraio 1952. Subirà quindi 12 anni di detenzione (1952-1964) e quasi 5 anni in libertà condizionata, sempre spiato e perseguitato (1964-1969).
            Nel febbraio del 1952 il Procuratore generale chiede per lui, per spionaggio, alto tradimento e attraversamento illegale dei confini, la pena di morte, commutata in 25 anni di carcere duro senza condizionale. Don Zeman è però bollato come “uomo destinato all’eliminazione” e sperimenta la vita dei campi di lavoro forzato. È costretto alla triturazione manuale e senza protezione dell’uranio radioattivo; trascorre lunghi periodi in cella di isolamento, con una razione di cibo sei volte inferiore a quella degli altri. Si ammala gravemente di malattie cardiache, polmonari e neurologiche. Il 10 marzo 1964, scontata metà della pena, esce dal carcere in libertà condizionata per 7 anni; è fisicamente irriconoscibile e vive un periodo di intensa sofferenza anche spirituale per il divieto a esercitare pubblicamente il ministero sacerdotale. Muore, dopo aver ricevuto l’amnistia, 1’8 gennaio 1969.

Salvatore delle vocazioni fino al martirio
            Don Titus visse la sua vocazione e la speciale missione a cui si sentì chiamato di operare per la salvezza delle vocazioni con grande spirito di fede, abbracciando l’ora del “calvario” e del “sacrificio” e attestando la capacità, anche per la grazia ricevuta da Dio, di affrontare l’offerta della vita, la passione del carcere e della tortura e infine la morte con coscienza cristiana, consacrata e sacerdotale. Lo attesta il rosario di 58 grani, uno per ogni periodo di tortura, da lui costruito in pane e filo, e soprattutto il riferimento all’Ecce homo, come a Colui che gli ha fatto compagnia nelle sue sofferenze, e senza il Quale egli non sarebbe riuscito ad affrontarle. Egli custodisce e difende la fede dei giovani in tempo di persecuzione, per contrapporsi alla rieducazione e riqualificazione ideologica comunista, attuando una intensa e rischiosa azione di custodia e di salvaguardia delle vocazioni. Il suo cammino di fede è un continuo “brillare” di virtù, frutto di un intenso vissuto interiore, che si traduce in una missione coraggiosa, in un paese dove il Comunismo intendeva cancellare ogni traccia di vita cristiana. L’intera vita di don Titus si compendia nell’incoraggiare gli altri a quella “fedeltà nella vocazione” con cui egli aveva seguito decisamente la sua. Il suo è un amore totale per la Chiesa e per la propria vocazione religiosa e missione apostolica. Le sue ardite imprese scaturiscono da questo amore unificato e unificante.

Testimone di speranza
            La testimonianza eroica del Beato Titus Zeman è una delle pagine di fede più belle che le comunità cristiane dell’Europa Orientale e la Congregazione salesiana hanno scritto nei duri anni di persecuzione religiosa da parte dei regimi comunisti nel secolo scorso. In lui risplende in maniera particolare l’impegno per le giovani vocazioni consacrate e sacerdotali, decisive per il futuro della fede in quei territori.
            Con la sua vita, don Titus dimostra di essere un uomo dell’unità, che abbatte le barriere, media nei conflitti, guarda sempre al bene integrale della persona; inoltre ritiene sempre possibile un’alternativa, una soluzione migliore, un non-arrendersi a circostanze sfavorevoli. Negli stessi anni in cui alcuni apostatavano o tradivano, e altri si lasciavano andare allo scoraggiamento, lui rafforza la speranza dei giovani chiamati al sacerdozio. La sua obbedienza è creativa, non formalistica. Egli agisce non solo per il bene del prossimo, ma nel miglior modo possibile. Così, non si limita ad organizzare le fughe dei chierici all’estero, ma li accompagna pagando di persona, permettendo loro di raggiungere Torino, nella convinzione che “a casa di Don Bosco” avrebbero vissuto un’esperienza destinata a segnare tutta la loro vita. Alla radice c’è la consapevolezza che salvare una vocazione è salvare molte vite: anzitutto quella del chiamato, poi quelle che una vocazione obbedita raggiunge, in questo caso per il tramite della vita religiosa e sacerdotale.

            È significativo che il martirio di don Titus Zeman sia stato riconosciuto nella scia del bicentenario della nascita di S. Giovanni Bosco. La sua testimonianza è l’incarnazione della chiamata vocazionale di Gesù e della predilezione pastorale per i ragazzi e i giovani, soprattutto per i giovani confratelli salesiani, predilezione che si manifesterà, come in Don Bosco, in una vera ‘passione’, cercando il loro bene, ponendo in questo tutte le sue energie, tutte le forze, tutta la vita in spirito di sacrificio e di offerta: “Anche se perdessi la vita, non la considererei sprecata, sapendo che almeno uno di quelli che avevo aiutato è diventato sacerdote al posto mio”.




Alexandre Planas Saurì, il sordo martire (2/2)

(continuazione dal’articolo precedente)

Il salesiano
            È accanto ai malati, i bambini. L’Oratorio, che i salesiani avevano fondato all’inizio della casa, terminò con la sua partenza nel lontano 1903. Ma la parrocchia di Sant Vicenç raccolse la fiaccola attraverso un giovane, Joan Juncadella, catechista nato, e il Sordo, suo grande assistente. Tra loro nacque, come detto prima, una fortissima amicizia e una collaborazione permanente, a cui pose fine solo la tragedia del 1936. Alexandre si occupava della pulizia e dell’ordine del luogo, ma ben presto si dimostrò un vero animatore di giochi e delle escursioni che venivano organizzate. E, se necessario, non esitava a mettere a disposizione i soldi che risparmiava.
E aveva dentro di sé il cuore salesiano. La sordità non gli permise di professare come salesiano, cosa che sicuramente desiderava. Tuttavia, risulta che avesse fatto voti privati che emise con l’autorizzazione dell’allora ispettore, don Filippo Rinaldi, secondo la testimonianza di uno dei direttori della casa, padre Crescenzi.
            La sua identificazione con la causa salesiana la dimostrò in mille modi, ma in forma particolarmente significativa prendendosi personalmente cura della casa per quasi 30 anni e difendendola nella difficile situazione dell’estate e dell’autunno del 1936.
            “Sembrava il padre di ognuno di noi”. Quando nel 1935, tre ragazzi annegarono nel fiume “il dolore di quell’uomo era come quello di aver perso tre figli contemporaneamente”. Sappiamo che i salesiani non lo considerarono un dipendente, ma uno della famiglia, o un cooperatore. Oggi forse potremmo dire un laico consacrato nello stile dei Volontari con Don Bosco. “Un salesiano di grande statura spirituale”.

Abbracciato alla Croce, vero testimone di fede e di riconciliazione
            Nell’autunno del 1931 i salesiani tornarono a Sant Vicenç dels Horts. Le rivolte incontrollate che produssero la caduta della monarchia spagnola colpirono la casa di El Campello (Alicante) dove in quel tempo si trovava l’Aspirantato. Fu quindi presa la decisione di spostarlo a Sant Vicenç. La casa, anche se relativamente fatiscente, era pronta e poté ampliarsi con l’acquisto di una torre adiacente. Qui si svolse la vita degli aspiranti, la cui testimonianza sul Sordo ha permesso di disegnare il ritratto dell’uomo, dell’artista, del credente e del salesiano a cui abbiamo fatto riferimento.

Cristo inchiodato alla croce, nel cortile della casa, di Alexandre

La deposizione nelle mani di Maria, nel cortile della casa, di Alexandre

Il santo sepolcro, nel cortile della casa, di Alexandre

            Non è ora il caso di riferirsi alla situazione critica degli anni 1931-1936 in Spagna. Nonostante tutto questo, la vita dell’Aspirantato di Sant Vicenç trascorse abbastanza normalmente. Il motore della vita quotidiana era la coscienza vocazionale dei giovani che sempre li spingeva a guardare avanti nella speranza di legarsi in una data non lontana a don Bosco per sempre.
            Finché arrivò la rivoluzione del 18 luglio 1936. Lo stesso giorno salesiani e giovani fecero la loro escursione-pellegrinaggio al Tibidabo. Quando tornarono, nel pomeriggio, le cose stavano cambiando. In pochi giorni la casa parrocchiale del villaggio venne incendiata, il seminario salesiano fu sequestrato, un clima di intolleranza religiosa si era diffuso ovunque, il parroco e il vicario della parrocchia furono arrestati e uccisi, le forze dell’ordine non poterono o non seppero far fronte ai disordini. A Sant Vicenç prese il potere il “Comitato antifascista”, di matrice chiaramente anticristiana.
            Sebbene in un primo momento la vita degli educatori fosse rispettata, grazie all’attenzione verso i ragazzi che la casa ospitava, tuttavia dovettero assistere alla distruzione e al rogo di tutti gli oggetti religiosi, in particolare dei tre monumenti eretti dal Sordo. “Quanto soffrì” vedendosi nella necessità di collaborare alla distruzione di quella che era espressione della sua profonda spiritualità e di assistere all’espulsione dei sacerdoti.
            In quei giorni il Sordo prese chiaramente coscienza del nuovo ruolo che la rivoluzione lo costringeva ad assumere: senza cessare di essere il principale anello di congiunzione della comunità con il mondo esterno (si era sempre mosso liberamente come fattorino e in ogni tipo di necessità), doveva custodire come prima la proprietà e, soprattutto, proteggere i seminaristi. “In realtà era lui a rappresentare i salesiani e a farci da padre”. In pochi giorni, infatti, rimasero solo i coadiutori e un gruppo sempre più ristretto di ragazzi aspiranti.
            L’espulsione definitiva di entrambi avvenne il 12 novembre. A Sant Vicenç è rimasto solo il signor Alexandre. dei suoi ultimi giorni di vita abbiamo solo tre dati certi: due dei coadiutori espulsi tornò al villaggio il 16 per convincerlo a cercare un posto più sicuro fuori dal villaggio, cosa che Alexandre rifiutò. Non poteva lasciare la casa che aveva custodito per tanti anni e non rispettare lo spirito salesiano anche in mezzo a quelle difficili circostanze. Uno di loro, Eliseo García, non volendolo lasciare solo, rimase con lui. Entrambi furono arrestati nella notte tra il 18 e il 19. Pochi giorni dopo, vedendo che Eliseo non era tornato a Sarriá, un altro salesiano coadiutore e un seminarista si recarono a Sant Vicenç per avere loro notizie. “Non sanno cosa è successo?”, disse una signora amica che conoscevano e che gestiva un bar. “Ci ha raccontato in poche parole della scomparsa del Sordo e di Eliseo”.
            Come trascorse questa ultima settimana? Conoscendo a fondo il percorso di vita del Sordo, sempre fedele ai suoi principi e al suo modo di fare, non è difficile immaginarlo: aiutando gli uni e gli altri, senza nascondere la sua fede e la sua carità, con la consapevolezza di fare il bene, contemplando il mistero della passione e morte di Cristo reale e presente nella vita dei perseguitati, degli scomparsi e degli assassinati… Forse nella speranza che potesse essere il custode non solo delle proprietà dei salesiani ma il custode di tante persone del popolo che soffrivano. Del crocifisso, come abbiamo ricordato, non volle spogliarsi nemmeno nei mesi di persecuzione religiosa che culminarono nel suo martirio. Con questa fede, con questa speranza, con questo immenso amore ascolterebbe dal Signore della gloria: “Molto bene, servo buono e fedele. Sei rimasto fedele in piccole cose; Ti affiderò molto di più. Entra nella gioia del tuo Signore”. (Mt 25,21)

Il Vangelo del Sordo
            Arrivati a questo punto, ogni spirito, per quanto insensibile, non può che tacere e cercare di raccogliere, al meglio delle sue capacità, la preziosa eredità spirituale che Alexandre ha lasciato alla Famiglia Salesiana, la sua famiglia adottiva. Possiamo dire qualcosa sul “suo vangelo”, cioè sulla Buona Novella che Egli ha fatto sua e continua a proporci con la sua vita e la sua morte?
            Alexandre è come quel “sordo che sa a malapena parlare” di Mc 7,32. La supplica dei suoi genitori a Gesù per la guarigione sarebbe stata continua. Come lui, anche Gesù lo portò in un luogo solitario, lontano dalla sua gente e gli disse: “Effata!” Il miracolo non era nella guarigione dell’orecchio fisico, ma nell’orecchio spirituale. Mi sembra che l’accettazione della sua situazione con spirito di fede sia stata una delle esperienze fondanti della sua vita da credente che lo ha portato a proclamare, come il sordo del Vangelo, ai quattro venti: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti” (Mc 7,37).
            E da qui possiamo contemplare nella vita del Sordo “il tesoro nascosto del Regno” (Mt 13,44); “il lievito che fa fermentare tutta la pasta” (Mt 13,33); Gesù in persona “che accoglie i malati” e “benedice i bambini”; Gesù che prega il Padre per ore e ore e ci insegna il Padre nostro (dare gloria al Padre, desiderare il Regno, compiere la sua volontà, fidarsi del pane quotidiano, perdonare, liberare dal male…) (Mt 7,9-13); “l’amministratore della casa che tira fuori dalla sua borsa cose nuove e cose vecchie come meglio crede” (Mt 13,52); “il buon samaritano che ha pietà dell’uomo percosso, gli si avvicina, gli fascia le ferite e si fa carico della sua guarigione” (Lc 10,33-35); “il Buon Pastore, custode dell’ovile che entra dalla porta, ama le pecore fino a dare la vita per loro” (Gv 10,7-11)… In una parola, un’icona vivente delle Beatitudini, di tutte, nella vita di ogni giorno (Mt 5,3-12).
            Ma, e ancora di più, possiamo avvicinarci ad Alexandre e contemplare con lui il Mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù. Un mistero che si avvererà nella sua vita dalla nascita alla morte. Un mistero che lo rafforza nella sua fede, che alimenta la sua speranza e che lo riempie di amore, con cui dare gloria a Dio, fatto tutto per tutti con i bambini e i giovani della casa salesiana, e con i paesani del villaggio di Sant Vicenç specialmente i più poveri, compresi quelli che gli hanno tolto la vita: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Fammi, Signore, testimone di fede e di riconciliazione. Possano anche loro, un giorno, sentire dalle tue labbra: “Oggi sarai con me in Paradiso” (Lc 23,43).
            Beato Alexandre Planas Saurí, laico, martire salesiano, testimone di fede e di riconciliazione, seme fecondo della civiltà dell’Amore per il mondo di oggi, intercedi per noi.

don Joan Lluís Playà, sdb