L’oratorio festivo di Valdocco

Nel 1935, a seguito della canonizzazione di don Bosco nel 1934, i salesiani si premurarono di raccogliere testimonianze su di lui. Un certo Pietro Pons, che fanciullo aveva frequentato l’oratorio festivo di Valdocco per una decina di anni (dal 1871 al 1882), e che pure aveva frequentato due anni di scuole elementari (con le aule sotto la basilica di Maria Ausiliatrice) l’8 novembre rilasciò una bella testimonianza di quegli anni. Ne stralciamo alcuni passi, quasi tutti inediti.

La figura di don Bosco
Era il centro di attrazione di tutto l’Oratorio. Così lo ricorda il nostro antico oratoriano Pietro Pons sul finire degli anni settanta: “Non aveva più vigore, ma era sempre pacato e sorridente. Aveva due occhi, che foravano, e penetravano nella mente. Compariva tra di noi: era una gioia per tutti. D. Rua, D. Lazzero gli stavano ai fianchi come se avessero in mezzo a loro il Signore. D. Barberis e tutti i ragazzi gli correvano incontro, lo circondavano, chi camminando sui fianchi, chi dietro per aver la faccia rivolta a lui. Era una fortuna, un ambito privilegio il poter stargli vicino, il parlare con lui. Egli passeggiava adagio parlando, e guardando tutti con quei due occhi che giravano da ogni parte, elettrizzavano di gioia i cuori”.
Fra gli episodi rimasti impressi nella mente a 60 anni di distanza ne ricorda due in particolare: “Un giorno… compare soletto dalla porta d’ingresso presso il santuario. Allora uno stuolo di ragazzi piglia la corsa per investirlo come una folata di vento. Ma egli tiene in mano l’ombrello, che ha il manico ed il fusto grosso come quello dei contadini. Lo alza e servendosene come una spada si destreggia a respingere quell’affettuoso assalto ora a destra ora a sinistra per aprirsi il passo. Tocca uno colla punta, un altro di fianco, ma intanto s’accostano gli altri dall’altra parte. Così il gioco, lo scherzo continua portando la gioia nei cuori, desiderosi di vedere il buon Padre ritornare dal suo viaggio. Sembrava un parroco di paese, ma di quelli alla buona”.

I giochi e il teatrino
Un oratorio salesiano senza gioco è impensabile. Ricorda l’anziano exallievo: “il cortile era occupato da un fabbricato, dalla chiesa di Maria A. e al termine di un muretto… appoggiava all’angolo a sinistra una specie di capanna, presso cui c’era sempre qualcuno a controllare chi entrava… Appena entrato a destra c’era l’altalena con un posto solo, le parallele poi e la sbarra fissa per i più grandicelli, che si divertivano a fare le loro giravolte e capriole, ed anche il trapezio, ed il passo volante unico, che si trovavano però presso le sacrestie oltre la cappella di S. Giuseppe”. Ed ancora: “Questo cortile era di una bella lunghezza e si prestava assai bene a fare le corse di velocità partendo dal lato della chiesa e tornando ivi al ritorno. Si giocava pure a bara rotta, alle corse dei sacchi, alle pignatte. Questi ultimi giochi erano annunziati fin dalla domenica precedente. Così pure la cuccagna; ma l’albero si piantava con la parte sottile in basso perché fosse più difficile l’ascendere. C’erano delle lotterie, ed il biglietto si pagava un soldo o due. Dentro alla casetta c’era una piccola biblioteca contenuta in un armadietto”.

Al gioco si univa il famoso “teatrino” su cui si svolgevano autentici drammi come “il figlio del Crociato”, si cantavano le romanze di don Cagliero e si presentavano “musical” come il Ciabattino personificato dal mitico Carlo Gastini [brillantissimo animatore degli exallievi]. La recita, presenti gratuitamente i genitori, si teneva nel salone sotto la navata centrale della chiesa di Maria A., ma il vecchio ex oratorio ricorda anche che “una volta si recitò presso la casa Moretta [attuale chiesa parrocchiale presso la piazza]. Ivi abitava della povera gente nella più squallida miseria. Nelle cantine che si vedono sotto il poggiolo c’era una povera madre, che sul mezzogiorno portava sulle spalle il suo Carlo, che per un morbo aveva il corpo rigido, a pigliare il sole”.

Le funzioni religiose e le riunioni formative
All’oratorio festivo non mancavano le funzioni religiose della domenica mattina: santa Messa con santa comunione, preghiere del buon cristiano; seguiva al pomeriggio la ricreazione, il catechismo, la predica di don Giulio Barberis. Ormai anziano “D. Bosco non veniva mai a dir messa o a far la predica, ma solo per visitare e trattenersi coi ragazzi durante la ricreazione… I catechisti e assistenti avevano con sé in chiesa durante le funzioni i loro allievi a cui insegnavano il catechismo. La dottrina piccola era regalata a tutti. Si esigeva la lezione a memoria ogni festa e poi anche la spiegazione”. Le feste solenni si concludevano con una processione e una merenda per tutti: “uscendo di chiesa dopo la messa c’era la colazione. Un giovane a destra fuori della porta dava la pagnotta, un altro a sinistra con una forchetta vi metteva sopra due fette di salame”. Si accontentavano di poco quei ragazzi, ma erano contentissimi. Quando poi i ragazzi interni si univano agli oratoriani per il canto dei vespri si potevano udire le loro voci in via Milano e in via Corte d’appello!
All’oratorio festivo si tenevano anche riunioni di gruppi formativi. Nella casetta presso la chiesetta di S. Francesco vi era “una stanza piccola e bassa che poteva contenere circa una ventina di persone…Nella stanza c’era un tavolinetto per il conferenziere, c’erano le panche per le adunanze e conferenze dei più grandi in genere, e della Compagnia di S. Luigi, quasi tutte le domeniche”.

Chi erano gli oratoriani?
Dei suoi circa 200 compagni – ma il loro numero diminuiva in inverno per il ritorno in famiglia degli stagionali – il nostro arzillo vecchietto ricordava che molti erano biellesi “quasi tutti ‘ bic’, portavano cioè la secchia di legno piena di calce e il cesto di vimini pieno di mattoni ai muratori delle costruzioni”. Altri erano “apprendisti muratori, meccanici, lattonieri”. Poveri garzoni: lavoravano da mattina a sera tutti i giorni e solo la domenica si potevano permettere un po’ di svago “da don Bosco” (come veniva definito il suo oratorio): “Si giocava all’Asino vola, sotto la direzione dell’allora sig. Milanesio [futuro sacerdote grande missionario in Patagonia.]. Il sig. Ponzano, poi sacerdote, era maestro di ginnastica. Egli ci faceva fare esercizi a corpo libero, coi bastoni, agli attrezzi”.
I ricordi di Pietro Pons sono molto più ampi, tanto ricchi di suggestioni lontane, quanto pervasi da un’ombra di nostalgia; attendono di essere conosciuti per intero. Speriamo di farlo presto.




Visita alla Basilica del Sacro Cuore di Gesù a Roma (anche in 3D)

La Basilica del Sacro Cuore di Gesù di Roma è una chiesa di rilievo per la città, situata nel rione Castro Pretorio, in via Marsala, dall’altra parte della strada della Stazione Termini. Essa è sede parrocchiale e anche titolo cardinalizio, avendo accanto la Sede Centrale della Congregazione Salesiana. Celebra la sua festa patronale proprio nella solennità del Sacro Cuore. La sua posizione nei pressi di Termini ne fa un punto visibile e riconoscibile per chi arriva in città, con la statua dorata sul campanile che si staglia nell’orizzonte come simbolo di benedizione per residenti e viaggiatori.

Origini e storia
L’idea di edificare una chiesa dedicata al Sacro Cuore di Gesù risale a papa Pio IX, che nel 1870 pose la prima pietra di un edificio, inizialmente voluto in onore di san Giuseppe: tuttavia, già nel 1871 il pontefice decise di dedicare la nuova chiesa al Sacro Cuore di Gesù. Fu la seconda grande chiesa dedicata al Sacro Cuore di Gesù dopo quella di Lisbona, Portogallo, iniziata nel 1779 e consacrata nel 1789 e prima della famosa Sacré-Cœur di Montmartre, Parigi, Francia, iniziata nel 1875 e consacrata nel 1919.
Il cantiere fu avviato in condizioni difficili: con l’annessione di Roma al Regno d’Italia (1870), i lavori si interrompono per mancanza di fondi. Fu solo grazie all’intervento di san Giovanni Bosco, su invito del pontefice, che la costruzione poté riprendere definitivamente nel 1880, grazie alla sua sacrificata fatica di raccogliere offerte in Europa e far convergere risorse per il completamento dell’edificio. L’architetto incaricato fu Francesco Vespignani, già “Architetto dei Sacri Palazzi” sotto Leone XIII, che portò a termine il progetto. La consacrazione avvenne il 14 maggio 1887, suggellando la fine della prima fase costruttiva.

La chiesa, fin dalla sua edificazione, ha assunto una funzione parrocchiale: la parrocchia del Sacro Cuore di Gesù a Castro Pretorio fu istituita il 2 febbraio 1879 con decreto vicariale “Postremis hisce temporibus”. Successivamente, papa Benedetto XV la elevò alla dignità di basilica minore l’11 febbraio 1921, con la lettera apostolica “Pia societas”. In epoca più recente, il 5 febbraio 1965 papa Paolo VI istituì il titolo cardinalizio del Sacro Cuore di Gesù a Castro Pretorio. Tra i cardinali titolari ricordiamo Maximilien de Fürstenberg (1967–1988), Giovanni Saldarini (1991–2011) e Giuseppe Versaldi (dal 2012 fino ad oggi). Il titolo cardinalizio rafforza il legame della basilica con la Curia papale, contribuendo a mantenere viva l’attenzione sull’importanza del culto al Sacro Cuore e sulla spiritualità salesiana.

Architettura
La facciata si presenta in stile neorinascimentale, con linee sobrie e proporzioni equilibrate, tipiche della ripresa rinascimentale nell’architettura ecclesiastica tardo-ottocentesca. Il campanile, concepito nel progetto originale di Vespignani, rimase incompleto fino al 1931, quando fu posta in cima l’imponente statua dorata del Sacro Cuore benedicente, donata dagli ex allievi salesiani in Argentina: visibile da larga distanza, essa costituisce un segno identificativo della basilica e un simbolo di accoglienza per chi arriva a Roma attraverso la stazione ferroviaria vicina.

L’interno si articola secondo una pianta a croce latina con tre navate, separate da otto colonne e due pilastri di granito grigio che reggono archi a tutto sesto, e comprendente transetto e cupola centrale. La navata centrale e le navate laterali sono coperte da soffitto a cassettoni, con lacunari decorati nel registro centrale. Le proporzioni interne sono armoniose: la larghezza della navata centrale di circa 14 metri e la lunghezza di 70 metri creano un effetto di ampiezza solenne, mentre le colonne in granito, dalle venature marcate, conferiscono un carattere di solida maestosità.
La cupola centrale, visibile dall’interno con i suoi affreschi e lacunari, richiama la luce naturale attraverso finestre alla base e conferisce verticalità allo spazio liturgico. Nelle cappelle laterali si conservano dipinti del pittore romano Andrea Cherubini, che ha realizzato scene devozionali in sintonia con la dedicazione al Sacro Cuore.
Oltre ai dipinti di Andrea Cherubini, la basilica conserva varie opere d’arte sacra: statue lignee o in marmo che raffigurano la Vergine, i Santi patroni della Congregazione Salesiana e figure carismatiche come san Giovanni Bosco.

Gli ambienti di san Giovanni Bosco a Roma
Un elemento di grande valore storico e devozionale è costituito dalle “Camerette di Don Bosco” sul retro della basilica, ambiente dove san Giovanni Bosco soggiornò le nove delle venti volte che fu presente a Roma. Originariamente due stanze separate – studio e camera da letto con altare portatile –, furono poi unite per ospitare pellegrini e gruppi in preghiera, costituendo luogo di memoria viva della presenza del fondatore dei Salesiani. Qui sono conservati oggetti personali e reliquie che richiamano miracoli attribuiti al santo in quel periodo. Questo spazio è stato rinnovato recentemente e continua ad attirare pellegrini, stimolando riflessioni sulla spiritualità e la dedizione di Bosco verso i giovani.
La basilica e gli edifici annessi sono di proprietà della Congregazione Salesiana, che ne ha fatto uno dei centri nevralgici per la propria presenza romana: fin dal soggiorno di don Bosco, l’edificio accanto alla chiesa ospitava la casa dei Salesiani e successivamente divenne sede di scuole, oratori, e servizi per i giovani. Oggi la struttura accoglie, oltre alle attività liturgiche, un significativo lavoro rivolto a migranti e giovani in difficoltà. Dal 2017, il complesso è anche la Sede Centrale del governo della Congregazione Salesiana.

Devozione al Sacro Cuore e celebrazioni liturgiche
La dedicazione al Sacro Cuore di Gesù si traduce in pratiche devozionali specifiche: la festa liturgica del Sacro Cuore, celebrata il venerdì successivo alla ottava di Corpus Domini, viene vissuta con solennità nella basilica, con novene, celebrazioni eucaristiche, adorazione eucaristica e processione. La pietà popolare attorno al Sacro Cuore – diffusa soprattutto dal XIX secolo con l’approvazione della devozione da parte di Pio IX e Leone XIII – trova in questo luogo un punto di riferimento a Roma, attirando fedeli per preghiere di riparazione, affidamento e ringraziamento.

Per il Giubileo del 2025, alla Basilica del Sacro Cuore di Gesù gli è stato conferito il privilegio dell’indulgenza plenare, come a tutte le altre chiese dell’Iter Europaeum.
Ricordiamo che per celebrare il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra l’Unione Europea e la Santa Sede (1970-2020), è stato realizzato un progetto della Delegazione dell’Unione Europea presso la Santa Sede e le 28 Ambasciate dei singoli Stati membri accreditate presso la Santa Sede. Questo progetto consisteva in un percorso liturgico e culturale in cui ogni Paese indicasse una chiesa o basilica di Roma a cui è particolarmente legato per motivi storici, artistici o di tradizione di accoglienza dei pellegrini provenienti da quel Paese. L’obiettivo primario era duplice: da un lato, favorire la conoscenza reciproca tra cittadini europei e stimolare una riflessione sulle radici cristiane comuni; dall’altro, offrire a pellegrini e visitatori uno strumento di scoperta di spazi religiosi meno noti o con significati particolari, facendo emergere le connessioni della Chiesa con l’intera Europa. Allargando la prospettiva, l’iniziativa è stata poi riproposta nell’ambito dei cammini giubilari legati al Giubileo di Roma 2025, con il nome latino “Iter Europaeum”, inserendo il percorso tra i cammini ufficiali della Città Santa.
L’Iter Europaeum prevede fermate presso le 28 chiese e basiliche di Roma, ciascuna “adottata” da uno Stato membro dell’Unione Europea. La Basilica del Sacro Cuore di Gesù è stata “adottata” da Lussemburgo. Le chiese dell’Iter Europaeum si possono vedere QUI.

Visita alla Basilica
La Basilica si può visitare fisicamente, ma anche virtualmente.

Per una visita virtuale in 3D fatte click QUI.

Per una visita virtuale guidata potete seguire i seguenti collegamenti:

1. Introduzione
2. La storia
3. Facciata
4. Campanile
5. Navata centrale
6. Parete interna della facciata
7. Pavimento
8. Colonne
9. Pareti della navata centrale
10. Soffitto 1
11. Soffitto 2
12. Transetto
13. Vetrate del transetto
14. Altare maggiore
15. Presbiterio
16. Cupola
17. Coro Don Bosco
18. Navate laterali
19. Confessionali
20. Altari della navata laterale destra
21. Affreschi delle navate laterali
22. Cupolini della navata sinistra
23. Battistero
24. Altari della navata laterale sinistra
25. Affreschi cupolini della navata sinistra
26. Sacrestia
27. “Camerette” di Don Bosco (versione precedente)
28. Museo di Don Bosco (versione precedente)

La Basilica del Sacro Cuore di Gesù al Castro Pretorio è un esempio di architettura neorinascimentale legata a vicende storiche segnate da crisi e rinascite. La combinazione di elementi artistici, architettonici e storici – dalle colonne di granito alle decorazioni pittoriche, dalla celebre statua sul campanile alle Camerette di don Bosco – rende questo luogo una meta di pellegrinaggio spirituale e culturale. La sua collocazione nei pressi della Stazione Termini lo rende un segno di accoglienza per chi giunge a Roma, mentre le attività pastorali rivolte ai giovani continuano a incarnare lo spirito di san Giovanni Bosco: un cuore aperto al servizio, alla formazione e alla spiritualità incarnata. Da visitare.




Il titolo di Basilica al tempio del Sacro Cuore di Roma

Nel centenario della morte di don Paolo Albera si è messo in luce come il secondo successore di don Bosco abbia realizzato quello che si potrebbe definire un sogno di don Bosco. Difatti trentaquattro anni dopo la consacrazione del tempio del S. Cuore di Roma, avvenuta presente l’ormai esausto don Bosco (maggio 1887), papa Benedetto XVI – il papa della famosa ed inascoltata definizione della prima guerra mondiale come “inutile strage” – conferì alla chiesa il titolo di Basilica Minore (11 febbraio 1921). Per la sua costruzione don Bosco aveva “dato l’anima” (e anche il corpo!) negli ultimi sette anni di vita. Aveva per altro fatto lo stesso un ventennio precedente (1865-1868) con la costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice a Torino-Valdocco, prima chiesa salesiana elevata alla dignità di basilica minore il 28 giugno 1911, presente il neo rettor Maggiore don Paolo Albera.

Il ritrovamento della supplica
Ma come si è arrivati a questo risultato? Chi ne è stato all’origine? Ora lo sappiamo con certezza grazie al recente ritrovamento della minuta dattiloscritta della richiesta di tale titolo da parte del Rettor Maggiore don Paolo Albera. È inserita in un fascicoletto commemorativo del 25° del Sacro Cuore curato nel 1905 dall’allora direttore don Francesco Tomasetti (1868-1953). Il dattiloscritto, datato 17 gennaio 1921, ha minime correzioni del Rettor Maggiore ma, ciò che è importante, porta la sua firma autografa.
Dopo aver descritto l’operato di don Bosco e l’attività incessante della parrocchia, desunte probabilmente dal vecchio fascicolo, don Albera si rivolge al Papa in questi termini:

Mentre la divozione al Sacro Cuore di Gesù va ognor più crescendo ed estendendosi in tutto il mondo, e sempre nuovi Templi vanno dedicandosi al Divin Cuore, anche per nobile iniziativa dei Salesiani, come a S. Paolo nel Brasile, a La Plata nell’Argentina, a Londra, a Barcellona e altrove, pare che il primario Tempio-Santuario dedicato al S. Cuore di Gesù in Roma, ove così importante divozione ha un’affermazione tanto degna dell’Eterna Città, meriti una speciale distinzione. Il sottoscritto pertanto, udito il parere del Consiglio Superiore della Pia Società Salesiana, supplica umilmente la Santità Vostra a volersi degnare di accordare al Tempio Santuario del Sacro Cuore di Gesù al Castro Pretorio in Roma il Titolo e i Privilegi di Basilica Minore, ripromettendosi da tale onorifica elevazione accrescimento di devozione, di pietà e di ogni attività cattolicamente benefica”.

La supplica, in bella copia, a firma di don Albera, venne inviata con ogni probabilità dal procuratore don Francesco Tomasetti alla Sacra Congregazione dei Brevi, che la accolse con favore. Stese in tempi rapidi la minuta del Breve Apostolico da conservare negli Archivi vaticani, la fece trascrivere dagli esperti calligrafi su ricca pergamena e la passò alla Segreteria di Stato per la firma del titolare del momento, cardinal Pietro Gasparri.
Oggi i fedeli possono ammirare ben incorniciato nella sacrestia della Basilica tale originale della concessione del titolo richiesto (v. foto).
Non si può che essere riconoscenti alla dott.ssa Patrizia Buccino, cultrice di archeologia e storia, e allo storico salesiano don Giorgio Rossi, che ne hanno divulgato la notizia. A loro il compito di portare a termine l’indagine avviata ricercando negli Archivi Vaticani l’intero carteggio, da far conoscere anche al mondo scientifico attraverso la nota rivista di storia salesiana “Ricerche Storiche Salesiane”.

Sacro Cuore: una basilica nazionale a raggio internazionale
Ventisei anni prima, il 16 luglio 1885, su richiesta di don Bosco e con il consenso esplicito di papa Leone XIII, monsignor Gaetano Alimonda, arcivescovo di Torino, aveva calorosamente sollecitato gli Italiani a partecipare alla riuscita della “nobile e santa proposta [del nuovo tempio] chiamandola voto nazionale degli Italiani”.
Ebbene, don Albera nella sua richiesta al pontefice, dopo aver ricordato il pressante appello del cardinal Alimonda, ricordava che a tutte le nazioni del mondo era stato chiesto di contribuire economicamente alla costruzione, decorazione del tempio e opere annesse (compreso l’immancabile oratorio salesiano con tanto di ospizio!) cosicché il Tempio-Santuario, oltreché voto nazionale, era divenuto “manifestazione mondiale o internazionale della devozione al S. Cuore”.
Al proposito, in uno scritto storico-ascetico edito in occasione del 1° Centenario della Consacrazione della Basilica (1987) lo studioso Armando Pedrini lo definiva: “Tempio dunque internazionale per la cattolicità e universalità del suo messaggio a tutte le genti”, anche in considerazione della “posizione di primissimo piano” della Basilica attigua alla riconosciuta internazionalità della stazione ferroviaria.
Roma-Termini non è dunque solo una grande stazione ferroviaria con problemi di ordine pubblico e un territorio difficile da gestire, di cui sovente si parla sui giornali e come per altro le stazioni ferroviarie di moltissime capitali europee. Ma è anche la sede della Basilica del Sacro Cuore di Gesù. E se alla sera e alla notte la zona non trasmette sicurezza ai turisti, di giorno la Basilica distribuisce pace e serenità ai fedeli che vi entrano, vi sostano in preghiera, vi ricevono i sacramenti.
Se lo ricorderanno i pellegrini che passeranno dallo scalo ferroviario di Termini nell’ormai non lontano anno santo (2025)? Basta che attraversino una strada… e il Sacro Cuore di Gesù li aspetta.

PS. In Roma esiste una seconda basilica parrocchiale salesiana, più grande e artisticamente più ricca di quella del Sacro Cuore: è quella di San Giovanni Bosco al Tuscolano, diventata tale nel 1965, a pochi anni della sua inaugurazione (1959). Dove si trova? “Ovviamente” nel Quartiere Don Bosco (a due passi dai celebri studi di Cinecittà). Se la statua sul campanile della basilica del Sacro Cuore domina la piazza della stazione Termini, la cupola della basilica di don Bosco, di poco inferiore a quella di San Pietro, la guarda però frontalmente, sia pure da due punti estremi della capitale. E siccome non c’è il due senza il tre, a Roma vi una terza splendida basilica parrocchiale salesiana: quella di Santa Maria Ausiliatrice, al quartiere Appio-Tuscolano, accanto al grande Istituto Pio XI.

Lettera apostolica intitolata Pia Societas, datata 11 febbraio 2021, con la quale, Sua Santità Benedetto XV ha elevato la chiesa del Sacro Cuore di Gesù al rango di Basilica.

Ecclesia parochialis SS.mi Cordis Iesu ad Castrum Praetorium in urbe titulo et privilegiis Basilicae Minoris decoratur.
Benedictus pp. XV

            Ad perpetuam rei memoriam.
            Pia Societas sancti Francisci Salesii, a venerabili Servo Dei Ioanne Bosco iam Augustae Taurinorum condita atque hodie per dissitas quoque orbis regiones diffusa, omnibus plane cognitum est quanta sibi merita comparaverit non modo incumbendo actuose sollerterque in puerorum, orbitate laborantium, religiosam honestamque institutionem, verum etiam in rei catholicae profectum tum apud christianum populum, tum apud infideles in longinquis et asperrimis Missionibus. Eiusdem Societatis sodalibus est quoque in hac Alma Urbe Nostra ecclesia paroecialis Sacratissimo Cordi Iesu dicata, in qua, etsi non abhinc multos annos condita, eximii praesertim Praedecessoris Nostri Leonis PP. XIII iussu atque auspiciis, christifideles urbani, eorumdem Sodalium opera, adeo ad Dei cultum et virtutum laudem exercentur, ut ea vel cum antiquioribus paroeciis in honoris ac meritorum contentionem veniat. Ipsemet Salesianorum Sodalium fundator, venerabilis Ioannes Bosco, in nova Urbis regione, aere saluberrimo populoque confertissima, quae ad Gastrum Praetorium exstat, exaedificationem inchoavit istius templi, et, quasi illud erigeret ex gentis italicae voto et pietatis testimonio erga Sacratissimum Cor Iesu, stipem praecipue ex Italiae christifidelibus studiose conlegit; verumtamen pii homines ex ceteris nationibus non defuerunt, qui, in exstruendum perficiendumque templum istud, erga Ssmum Cor Iesu amore incensi, largam pecuniae vim contulerint. Anno autem MDCCCLXXXVII sacra ipsa aedes, secundum speciosam formam a Virginio Vespignani architecto delineatam, tandem perfecta ac sollemniter consecrata dedicataque est. Eamdem vero postea, magna cum sollertia, Sodales Salesianos non modo variis altaribus, imaginibus affabre depictis et statuis, omnique sacro cultui necessaria supellectili exornasse, verum etiam continentibus aedificiis iuventuti, ut tempora nostra postulant, rite instituendae ditasse, iure ac merito Praedecessores Nostri sunt” laetati, et Nos haud minore animi voluptate probamus. Quapropter cum dilectus filius Paulus Albera, hodiernus Piae Societatis sancti Francisci Salesii rector maior, nomine proprio ac religiosorum virorum quibus praeest, quo memorati templi Ssmi Cordi Iesu dicati maxime augeatur decus, eiusdem urbanae paroeciae fidelium fides et pietas foveatur, Nos supplex rogaverit, ut eidem templo dignitatem, titulum et privilegia Basilicae Minoris pro Nostra benignitate impertiri dignemur; Nos, ut magis magisque stimulos fidelibus ipsius paroeciae atque Urbis totius Nostrae ad Sacratissimum Cor Iesu impensius colendum atque adamandum addamus, nec non benevolentiam, qua Sodales Salesianos ob merita sua prosequimur, publice significemus, votis hisce piis annuendum ultro libenterque censemus. Quam ob rem, conlatis consiliis cum VV. FF. NN. S. R. E. Cardinalibus Congregationi Ss. Rituum praepositis, Motu proprio ac de certa scientia et matura deliberatione Nostris, deque apostolicae potestatis plenitudine, praesentium Litterarum tenore perpetuumque in modum, enunciatum templum Sacratissimo Cordi Iesu dicatum, in hac alma Urbe Nostra atque ad Castrum Praetorium situm, dignitate ac titulo Basilicae Minoris honestamus, cum omnibus et singulis honoribus, praerogativis, privilegiis, indultis quae aliis Minoribus Almae huius Urbis Basilicis de iure competunt. Decernentes praesentes Litteras firmas, validas atque efficaces semper exstare ac permanere, suosque integros effectus sortiri iugiter et obtinere, illisque ad quos pertinent nunc et in posterum plenissime suffragari; sicque rite iudicandum esse ac definiendum, irritumque ex nunc et inane fieri, si quidquam secus super his, a quovis, auctoritate qualibet, scienter sive ignoranter attentari contigerit. Non obstantibus contrariis quibuslibet.

            Datum Romae apud sanctum Petrum sub annulo Piscatoris, die XI februarii MCMXXI, Pontificatus Nostri anno septimo.
P. CARD. GASPARRI, a Secretis Status.

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La chiesa parrocchiale del Santissimo Cuore di Gesù a Castro Pretorio in città è insignita del titolo e dei privilegi di Basilica Minore.
Benedetto PP. XV

A perpetua memoria.
La Pia Società di San Francesco di Sales, già fondata a Torino dal venerabile Servo di Dio Giovanni Bosco e oggi diffusa anche in regioni lontane del mondo, ha acquisito meriti notevoli non solo dedicandosi attivamente e diligentemente all’educazione religiosa e onesta dei fanciulli orfani, ma anche al progresso della causa cattolica sia tra il popolo cristiano, sia tra gli infedeli nelle Missioni lontane e difficilissime. I membri della stessa Società hanno anche in questa Nostra Alma Urbe una chiesa parrocchiale dedicata al Sacratissimo Cuore di Gesù, nella quale, sebbene fondata non molti anni fa, per ordine e sotto gli auspici soprattutto del Nostro esimio Predecessore Leone PP. XIII, i fedeli urbani, con l’opera degli stessi Salesiani, sono così esercitati al culto di Dio e alla lode delle virtù, che essa gareggia in onore e meriti anche con le parrocchie più antiche. Lo stesso fondatore dei Salesiani, il venerabile Giovanni Bosco, in una nuova regione dell’Urbe, con aria saluberrima e popolosissima, che si trova a Castro Pretorio, iniziò la costruzione di quel tempio, e, quasi volesse erigerlo per voto della nazione italiana e testimonianza di pietà verso il Sacratissimo Cuore di Gesù, raccolse con zelo elemosine soprattutto dai fedeli d’Italia; tuttavia non mancarono uomini pii di altre nazioni che, spinti dall’amore verso il Sacratissimo Cuore di Gesù, contribuirono con ingenti somme di denaro alla costruzione e al completamento di quel tempio. Nell’anno 1887, la stessa sacra costruzione, secondo la splendida forma disegnata dall’architetto Virginio Vespignani, fu finalmente completata e solennemente consacrata e dedicata. I Salesiani, con grande diligenza, non solo l’hanno poi adornata con vari altari, immagini finemente dipinte e statue, e con tutti gli arredi necessari al sacro culto, ma l’hanno anche arricchita con edifici contigui per l’istruzione della gioventù, come richiedono i nostri tempi, e a buon diritto i Nostri Predecessori si sono rallegrati, e Noi non con minore piacere approviamo. Perciò, poiché il diletto figlio Paolo Albera, attuale rettore maggiore della Pia Società di San Francesco di Sales, a nome proprio e dei religiosi che presiede, affinché sia massimamente accresciuto il decoro del menzionato tempio dedicato al Santissimo Cuore di Gesù, e sia favorita la fede e la pietà dei fedeli di quella parrocchia urbana, Ci ha supplicato di degnarci di impartire a quel tempio la dignità, il titolo e i privilegi di Basilica Minore per Nostra benignità; Noi, per aggiungere sempre più stimoli ai fedeli di quella parrocchia e di tutta la Nostra Urbe a coltivare e amare più intensamente il Sacratissimo Cuore di Gesù, e per manifestare pubblicamente la benevolenza con cui seguiamo i Salesiani per i loro meriti, riteniamo di dover accogliere volentieri e spontaneamente questi pii voti. Per tale motivo, consultati i Venerabili Fratelli Nostri Cardinali di Santa Romana Chiesa preposti alla Congregazione dei Sacri Riti, di Nostro Motu proprio e con certa scienza e matura deliberazione Nostra, e dalla pienezza della potestà apostolica, con il tenore delle presenti Lettere e in perpetuo, onoriamo il suddetto tempio dedicato al Sacratissimo Cuore di Gesù, situato in questa Nostra Alma Urbe e a Castro Pretorio, con la dignità e il titolo di Basilica Minore, con tutti e singoli gli onori, le prerogative, i privilegi, gli indulti che spettano di diritto alle altre Basiliche Minori di questa Alma Urbe. Decretando che le presenti Lettere siano e rimangano sempre ferme, valide ed efficaci, e che ottengano e conservino sempre i loro pieni effetti, e che siano pienamente a favore di coloro a cui si riferiscono ora e in futuro; e che così si debba giustamente giudicare e definire, e che sia nullo e invalido fin d’ora, se qualcosa di diverso su queste cose, da chiunque, con qualsiasi autorità, scientemente o ignorantemente, dovesse essere tentato. Nonostante qualsiasi cosa contraria.

Dato a Roma presso San Pietro sotto l’anello del Pescatore, l’11 febbraio 1921, settimo anno del Nostro Pontificato.
P. CARD. GASPARRI, Segretario di Stato.




Don Pietro Ricaldone rinasce a Mirabello Monferrato

Don Pietro Ricaldone (Mirabello Monferrato, 27 aprile 1870 – Roma, 25 novembre 1951) fu il quarto successore di don Bosco alla guida dei Salesiani, uomo di vasta cultura, profonda spiritualità e grande amore per i giovani. Nato e cresciuto tra le colline monferrine, portò sempre con sé lo spirito di quella terra, traducendolo in un impegno pastorale e formativo che lo avrebbe reso figura di rilievo internazionale. Oggi, gli abitanti di Mirabello Monferrato vogliono farlo tornare nelle loro terre.

Il Comitato Don Pietro Ricaldone: rinascita di un’eredità (2019)
Nel 2019, un gruppo di ex allievi e ex allieve, storici e appassionati di tradizioni locali ha dato vita al Comitato Don Pietro Ricaldone a Mirabello Monferrato. L’obiettivo – semplice e ambizioso allo stesso tempo – è stato fin dall’inizio quello di riportare la figura di don Pietro nel cuore del paese e dei giovani, perché la sua storia e la sua eredità spirituale non vadano perdute.

Per preparare il 150° anniversario della nascita (1870–2020), il Comitato ha scandagliato l’Archivio Storico Comunale di Mirabello e l’Archivio Storico Salesiano, rinvenendo lettere, appunti e antichi volumi. Da questo lavoro è nata una biografia illustrata, pensata per lettori di ogni età, in cui la personalità di Ricaldone emerge in forma chiara e avvincente. Fondamentale, in questa fase, è stata la collaborazione con don Egidio Deiana, studioso di storia salesiana.

Nel 2020 era prevista una serie di eventi – mostre fotografiche, concerti, spettacoli teatrali e circensi – tutti incentrati sul ricordo di don Pietro. Sebbene la pandemia abbia costretto a riprogrammare gran parte dei festeggiamenti, nel luglio dello stesso anno si è svolto un evento commemorativo con una mostra fotografica sulle tappe della vita di Ricaldone, una animazione per bambini con laboratori creativi e una celebrazione solenne, alla presenza di alcuni Superiori Salesiani.
Quell’incontro ha segnato l’inizio di una nuova stagione di attenzione al territorio mirabellese.

Oltre il 150°: il concerto per il 70° anniversario della morte
L’entusiasmo per il recupero della figura di don Pietro Ricaldone ha portato il Comitato a prolungare la propria attività anche dopo il 150° anniversario.
In vista del 70° anniversario della morte (25 novembre 1951), il Comitato ha organizzato un concerto dal titolo “Affrettare l’alba radiosa del giorno sospirato”, frase tratta dalla circolare di don Pietro sul Canto Gregoriano del 1942.
In piena Seconda Guerra Mondiale, don Pietro – allora Rettore Maggiore – scrisse una celebre circolare sul Canto Gregoriano in cui sottolineava l’importanza della musica come via privilegiata per ricondurre i cuori degli uomini alla carità, alla mitezza e soprattutto a Dio: “A taluno potrà causare meraviglia che, in tanto fragore di armi, io v’inviti ad occuparvi di musica. Eppure penso, anche prescindendo da allusioni mitologiche, che questo tema risponda pienamente alle esigenze dell’ora che volge. Tutto ciò che possa esercitare efficacia educativa e ricondurre gli uomini a sensi di carità e mitezza e soprattutto a Dio, dev’essere da noi praticato, diligentemente e senza indugio, per affrettare l’alba radiosa del giorno sospirato”.

Passeggiate e radici salesiane: la “Passeggiata di don Bosco”
Pur essendo nato come omaggio a don Ricaldone, il Comitato ha finito per diffondere nuovamente anche la figura di don Bosco e di tutta la tradizione salesiana, di cui don Pietro è stato erede e protagonista.
A partire dal 2021, ogni seconda domenica di ottobre, il Comitato promuove la “Passeggiata di Don Bosco”, riproponendo il pellegrinaggio che don Bosco compì con i ragazzi da Mirabello a Lu Monferrato nel 12–17 ottobre 1861. In quei cinque giorni si progettarono i dettagli del primo collegio salesiano fuori Torino, affidato al Beato Michele Rua con don Albera tra gli insegnanti. Anche se l’iniziativa non riguarda direttamente don Pietro, ne sottolinea le radici e il legame con la tradizione salesiana locale che egli stesso ha portato avanti.

Ospitalità e scambi culturali
Il Comitato ha favorito l’accoglienza di gruppi di giovani, scuole professionali e chierici salesiani da tutto il mondo. Alcune famiglie offrono ospitalità gratuita, rinnovando la fraternità tipica di don Bosco e di don Pietro. Nel 2023 ha toccato Mirabello un numeroso gruppo della Crocetta, mentre ogni estate arrivano gruppi internazionali accompagnati da don Egidio Deiana. Ogni visita è un dialogo tra memoria storica e gioia dei giovani.

Il 30 marzo 2025, quasi cento capitolari salesiani hanno fatto tappa a Mirabello, sui luoghi in cui don Bosco aprì il suo primo collegio fuori Torino e dove don Pietro visse i suoi anni formativi. Il Comitato, insieme alla Parrocchia e alla Pro Loco, ha organizzato l’accoglienza e realizzato un video divulgativo sulla storia salesiana locale, apprezzato da tutti i partecipanti.

Le iniziative continuano e oggi il Comitato, guidato dal suo presidente, collabora alla creazione del Cammino Monferrino di Don Bosco, un itinerario spirituale di circa 200 km attraverso le vie autunnali percorse dal Santo. L’obiettivo è ottenere il riconoscimento ufficiale a livello regionale, ma anche offrire ai pellegrini un’esperienza formativa e di evangelizzazione. Le passeggiate giovanili di don Bosco, infatti, erano esperienze di formazione ed evangelizzazione: lo stesso spirito che don Pietro Ricaldone avrebbe poi difeso e promosso durante tutto il suo rettorato.

La missione del Comitato: tenere viva la memoria di don Pietro
Dietro a ogni iniziativa c’è la volontà di far emergere l’opera educativa, pastorale e culturale di don Pietro Ricaldone. I fondatori del Comitato custodiscono ricordi personali di infanzia e desiderano trasmettere alle nuove generazioni i valori di fede, cultura e solidarietà che animarono il sacerdote mirabellese. In un’epoca in cui tanti punti di riferimento vacillano, riscoprire il cammino di don Pietro significa offrire un modello di vita capace di illuminare il presente: “Là dove passano i Santi, Dio cammina con loro e niente è più come prima” (San Giovanni Paolo II).
Il Comitato Don Pietro Ricaldone si fa portavoce di questa eredità, confidando che la memoria di un grande figlio di Mirabello continui a illuminare la via per le generazioni che verranno, tracciando un sentiero saldo fatto di fede, cultura e solidarietà.




San Domenico Savio. I luoghi della fanciullezza

San Domenico Savio, il “piccolo grande santo”, visse la sua breve ma intensa fanciullezza tra le colline del Piemonte, in luoghi oggi carichi di memoria e spiritualità. In occasione della sua beatificazione nel 1950, la figura di questo giovane discepolo di Don Bosco fu celebrata come simbolo di purezza, fede e dedizione evangelica. Ripercorriamo i luoghi principali della sua infanzia — Riva presso Chieri, Morialdo e Mondonio — attraverso testimonianze storiche e racconti vividi, rivelando l’ambiente familiare, scolastico e spirituale che ha forgiato il suo cammino verso la santità.

            L’Anno Santo 1950 fu anche quello della Beatificazione di Domenico Savio, avvenuta il 5 marzo. Il quindicenne discepolo di don Bosco era il primo santo laico «confessore» a salire sugli altari in così giovane età.
            Quel giorno la Basilica di San Pietro era gremita di giovani che testimoniavano, con la loro presenza a Roma, una giovinezza cristiana tutta aperta ai più sublimi ideali del Vangelo. Era trasformata, a detta della Radio Vaticana, in un immenso e rumoroso Oratorio Salesiano. Quando dalla raggiera del Bernini cadde il velario che copriva la figura del nuovo Beato, da tutta la basilica si levò un applauso frenetico e l’eco raggiunse la piazza, dove veniva scoperto l’arazzo riproducente il Beato dalla Loggia delle Benedizioni.
Il sistema educativo di don Bosco riceveva quel giorno il suo più alto riconoscimento. Abbiamo voluto rivisitare i luoghi della fanciullezza di Domenico, dopo esserci rilette le dettagliate informazioni di don Michele Molineris in quella Nuova Vita di Domenico Savio, in cui egli descrive con la sua nota serietà di documentazione ciò che le biografie di San Domenico Savio non dicono.

A Riva presso Chieri
            Eccoci anzitutto a San Giovanni di Riva presso Chieri, la borgata dove il 2 aprile 1842 nacque il nostro «piccolo grande Santo» da Carlo Savio e Brigida Gaiato, secondo di dieci figli, ereditando dal primo, sopravvissuto solo 15 giorni alla nascita, nome e primogenitura.
            Il padre, si sa, proveniva da Ranello, frazione di Castelnuovo d’Asti, e da giovane era andato ad abitare con lo zio Carlo, fabbro a Mondonio, in una casa sull’attuale via Giunipero, al n. 1, ancora oggi chiamata «ca dèlfré» o casa del fabbro. Là, da «Barba Carlòto» aveva appreso il mestiere. Qualche tempo dopo le sue nozze, contratte il 2 marzo 1840, si era reso indipendente, trasferendosi a San Giovanni di Riva in casa Gastaldi. Affittò un alloggio con locali al pian terreno adatti a cucina, ripostiglio ed officina e camere da letto al primo piano dove si giungeva da una scala esterna oggi scomparsa.
            Gli eredi dei Gastaldi vendettero poi ai Salesiani la casetta ed il cascinale attiguo nel 1978. Ed oggi un moderno Centro di accoglienza giovanile, gestito da exallievi e cooperatori salesiani, dà memoria e nuova vita alla casetta natia di Domenico.

A Morialdo
            Nel novembre del 1843, e cioè quando Domenico non aveva ancora compiuto due anni di età, i Savio, per ragioni di lavoro, si trasferirono a Morialdo, la frazione di Castelnuovo legata al nome di San Giovanni Bosco, nato alla Cascina Biglione, borgata dei Becchi.
            A Morialdo i Savio affittarono alcune camerette presso il portico d’entrata del cascinale di proprietà di Viale Giovanna andata sposa a Stefano Persoglio. Tutto il podere venne più tardi venduto dal figlio, Persoglio Alberto, a Pianta Giuseppe e famiglia.
            Anche questo cascinale è ora, in gran parte, proprietà dei Salesiani che, dopo averlo ristrutturato, lo hanno destinato ad incontri per ragazzi e adolescenti e alle visite dei pellegrini. Distante meno di 2 km dal Colle Don Bosco, sito in un ambiente di natura paesana, tra festoni di viti, fertili campi e prati ondulati, con un’aria di letizia in primavera e di nostalgia in autunno quando le foglie ingiallite vengono indorate dai raggi del sole, con un panorama incantevole nelle giornate più belle, quando la catena delle Alpi si distende all’orizzonte dalla vetta del Rosa a ridosso di Albugnano, al Gran Paradiso, al Rocciamelone, giù fino al Monviso, è davvero un posto da visitare e da utilizzare per giornate di intensa vita spirituale, una scuola di santità stile don Bosco.
I Savio rimasero a Morialdo fino al febbraio del 1853, e cioè ben 9 anni e 3 mesi. Domenico, vissuto solo 14 anni eli mesi, passò lì quasi due terzi della sua breve esistenza. Può quindi essere considerato non solo allievo e figlio spirituale di don Bosco, ma anche suo conterraneo.

A Mondonio
            Perché i Savio abbiano lasciato Morialdo, ce lo suggerisce don Molineris. Lo zio fabbro era morto e il papà di Domenico, oltre ai ferri del mestiere, ne poteva ereditare a Mondonio anche la clientela. Probabilmente quella fu la ragione del trasloco, avvenuto però non nella casa di via Giunipero, ma nella parte più bassa del paese, dove presero in affitto dai fratelli Bertello la prima casa a sinistra della strada principale del paese. La casetta consisteva, e consiste ancor oggi, di un pian terreno a due stanze, adattate a cucina e camera da lavoro, e di un piano superiore, sopra la cucina, con due camere da letto e lo spazio sufficiente per un’officina con porta sulla rampa della strada.
            Sappiamo che i coniugi Savio ebbero dieci figli, di cui tre morirono in tenerissima età ed altri tre, tra cui il nostro, non raggiunsero i 15 anni. La madre moriva nel 1871 a 51 anni. Il padre, rimasto solo in casa col figlio Giovanni, dopo avere accasato le tre figlie superstiti, chiese nel 1879 ospitalità a don Bosco e morì poi a Valdocco il 16 dicembre 1891.
A Valdocco, Domenico era entrato il 29 ottobre 1854, rimanendovi, tranne brevi periodi di vacanza, fino al 1° marzo 1857. Moriva otto giorni dopo a Mondonio, nella stanzetta accanto alla cucina, il 9 marzo di quell’anno. La sua permanenza a Mondonio quindi fu in tutto di 20 mesi circa, a Valdocco di 2 anni e 4 mesi.

Ricordi di Morialdo
            Da questa breve scorsa sulle tre case del Savio appare evidente che quella di Morialdo dev’essere la più ricca di memorie. San Giovanni di Riva ricorda la nascita di Domenico, e Mondonio un anno di scuola e la sua santa morte, ma Morialdo ricorda la sua vita in famiglia, in chiesa e a scuola. «Minòt», come egli era lì chiamato, quante cose avrà sentito, visto e imparato da papà e mamma, quanta fede ed amore dimostrato nella chiesetta di San Pietro, quanta intelligenza e bontà alla scuola di don Giovanni Zucca, e quanta allegria e vivacità nei trastulli con i compagni di borgata.
            Fu a Morialdo che Domenico Savio si preparò alla Prima Comunione, fatta poi nella Chiesa parrocchiale di Castelnuovo l‘8 aprile 1849. Fu lì che a soli 7 anni scrisse i «Ricordi» e cioè i propositi della sua Prima Comunione:
            1. Mi confesserò molto sovente e farò la comunione tutte le volte che il confessore me ne darà licenza;
            2. Voglio santificare i giorni festivi;
            3. I miei amici saranno Gesù e Maria;
            4. La morte ma non peccati.
            Ricordi che furono la guida delle sue azioni sino alla fine della vita.
Il contegno, il modo di pensare e di agire di un ragazzo riflettono l’ambiente in cui vive, e soprattutto la famiglia in cui ha passato la sua fanciullezza. Se si vuol quindi capire qualcosa di Domenico, sarà sempre bene riflettere sulla sua vita in quella cascina di Morialdo.

La famiglia
            La sua non era una famiglia di contadini. Il padre era fabbro ferraio e la madre sarta. I suoi genitori non erano di costituzione robusta. I segni della fatica si potevano scorgere sul volto del padre mentre la finezza del tratto distingueva il volto materno. Il papà di Domenico era uomo di iniziativa e di coraggio. La mamma veniva dal non lontano Cerreto d’Asti dove teneva bottega di sarta «e con la sua perizia toglieva a quegli abitanti la noia di scendere a valle a provvedersi di panni». E fece ancora la sarta anche a Morialdo. Lo avrà saputo don Bosco? Curioso, comunque, il suo dialogo col piccolo Domenico che lo era andato a cercare ai Becchi:
— Ebbene, che gliene pare?
— Eh, mi pare che ci sia buona stoffa (in piem.: Eh, m’a smia ch’a-j sia bon-a stòfa!).
— A che può servire questa stoffa?
— A fare un bell’abito da regalare al Signore.
— Dunque, io sono la stoffa: ella ne sia il sarto; mi prenda con lei (in piem.: ch’èmpija ansema a chiel) e farà un bell’abito per il Signore» (OE XI, 185).
            Dialogo impagabile tra due conterranei che si compresero a prima vista. E il loro linguaggio veniva proprio a taglio per il figlio della sarta.
            Quando la mamma morì, il 14 luglio 1871, alle figlie piangenti, il parroco di Mondonio, don Giovanni Pastrone, per consolarle diceva: «Non piangete, perché vostra madre era una santa donna; ed ora è già in Paradiso».
Suo figlio Domenico, che l’aveva preceduta in cielo di parecchi anni, aveva pure detto a lei ed al papà, prima di spirare: «Non piangete, io vedo già il Signore e la Madonna colle braccia aperte che mi aspettano». Queste sue ultime parole, testimoniate da Anastasia Molino, vicina di casa, presente al momento della sua morte, erano il suggello di una vita gioiosa, il segno manifesto di quella santità che la Chiesa riconosceva solennemente il 5 marzo 1950, dandole poi definitiva conferma il 12 giugno 1954 con la sua canonizzazione.

Foto nel frontespizio. La casa ove morì Domenico nel 1857. È una costruzione di tipo rurale risalente probabilmente alla fine del 1600. Ricostruita su di un’altra casa ancor più antica, è uno dei monumenti più cari ai Mondoniesi.




La nuova Sede Centrale dei Salesiani. Roma, Sacro Cuore

Oggi la vocazione originaria della casa del Sacro Cuore vede un nuovo inizio. Tradizione e innovazione continuano a caratterizzare il passato, il presente e il futuro di quest’opera così significativa.

            Quante volte don Bosco ha desiderato venire a Roma per aprire una casa salesiana. Fin dal primo viaggio del 1858 il suo obiettivo era di essere presente nella Città Eterna con una presenza educativa. Per venti volte è venuto a Roma e solo nell’ultimo viaggio del 1887 è riuscito a realizzare il suo sogno aprendo la casa del Sacro Cuore al Castro Pretorio.
            L’Opera salesiana è collocata nel quartiere Esquilino, nato nel 1875, dopo la breccia di Porta Pia e l’esigenza da parte dei Savoia di costruire nella nuova capitale i ministeri del Regno d’Italia. Il quartiere, chiamato anche Umbertino, è di architettura piemontese, tutte le vie portano il nome di battaglie o eventi legati allo stato sabaudo. Non poteva mancare in questo luogo, che richiama Torino, un Tempio, che fosse anche parrocchia, costruito da un piemontese, don Giovanni Bosco. Il nome della Chiesa non lo sceglie don Bosco, ma è una volontà di Leone XIII per rilanciare una devozione, quanto mai attuale, al Cuore di Gesù.
            Oggi la casa del Sacro Cuore è completamente rinnovata per rispondere alle esigenze della Sede Centrale dei Salesiani. Dal momento della sua fondazione fino ad oggi la casa ha subito diverse trasformazioni. L’Opera nasce come Parrocchia e Tempio Internazionale per la diffusione della devozione al Sacro Cuore, fin dall’inizio l’obiettivo dichiarato da don Bosco era costruire a fianco un Ospizio per ospitare fino a 500 ragazzi poveri. Don Rua porta a termine l’Opera e apre dei laboratori per artigiani (scuola arti e mestieri). Negli anni successivi vengono aperte la scuola media e il liceo classico. Per alcuni anni è stata anche la sede dell’università (Pontificio Ateneo Salesiano) e una casa di formazione per salesiani che studiavano nelle università romane e si impegnavano nella scuola e nell’oratorio (tra questi studenti si annovera anche don Quadrio). È stata inoltre sede ispettoriale dell’Ispettoria Romana prima e della Circoscrizione dell’Italia Centrale a partire dal 2008. Dal 2017, a causa dello spostamento da via della Pisana, è diventata la Sede Centrale dei Salesiani. Dal 2022 è iniziata la ristrutturazione per adeguare gli ambienti alla funzione di casa del Rettor Maggiore. In questa casa sono vissuti o passati: don Bosco, don Rua, il cardinale Cagliero (il suo appartamento era collocato al primo piano di via Marsala), Zeffirino Namuncurà, monsignor Versiglia, Artemide Zatti, tutti i Rettori Maggiori successori di don Bosco, san Giovanni Paolo II, santa Teresa di Calcutta, papa Francesco. Tra i direttori della casa ha svolto il suo servizio monsignor Giuseppe Cognata (durante il suo rettorato, nel 1930, è stata collocata la statua del Sacro Cuore sul campanile).
            Grazie al Sacro Cuore il carisma salesiano si è diffuso in vari quartieri di Roma; infatti, tutte le altre presenze salesiane di Roma sono state una gemmazione di questa casa: il Testaccio, il Pio XI, il Borgo Ragazzi don Bosco, il Don Bosco Cinecittà, il Gerini, l’Università Pontificia Salesiana.

Crocevia di accoglienza
            I tratti determinanti la Casa del Sacro Cuore sono, fin dagli inizi, due:
            1) la cattolicità in quanto aprire una casa a Roma ha sempre significato per i fondatori degli ordini religiosi una vicinanza al Papa e un ampliamento degli orizzonti a livello universale. Nella prima conferenza ai cooperatori salesiani presso il monastero di Tor De’ Specchi di Roma nel 1874 don Bosco afferma che i salesiani si sarebbero sparsi in tutto il mondo e aiutare le loro opere significava vivere il più autentico spirito cattolico;
            2) l’attenzione ai giovani poveri: la collocazione vicino alla stazione, crocevia di arrivi e partenze, luogo dove si sono sempre raccolti i più poveri, è iscritto nella storia del Sacro Cuore.
            Agli inizi l’Ospizio ospitava i ragazzi poveri per insegnare loro un mestiere, successivamente l’oratorio ha raccolto i ragazzi del quartiere; dopo la guerra gli sciuscià (ragazzi che lucidavano le scarpe alle persone che uscivano dalla stazione) sono stati raccolti e curati prima in questa casa e poi si sono trasferiti al Borgo Ragazzi don Bosco; a metà degli anni ’80 con la prima immigrazione in Italia sono stati ospitati dei giovani immigrati in collaborazione con la nascente Caritas; negli anni ’90 un Centro Diurno raccoglieva ragazzi in alternativa al carcere e insegnava loro i rudimenti della lettura e scrittura e un mestiere; dal 2009 un progetto di integrazione tra giovani rifugiati e giovani italiani ha visto fiorire tante iniziative di accoglienza e di evangelizzazione. La Casa del Sacro Cuore per circa 30 anni è stata anche sede del Centro Nazionale Opere Salesiane d’Italia.

Il nuovo inizio
            Oggi la vocazione originaria della casa del Sacro Cuore vede un nuovo inizio. Tradizione e innovazione continuano a caratterizzare il passato, il presente e il futuro di quest’opera così significativa.
            Innanzitutto, la presenza del Rettor Maggiore con il suo consiglio e dei confratelli che si occupano della dimensione mondiale indica il continuum della cattolicità. Una vocazione all’accoglienza di tanti salesiani che vengono da tutto il mondo e trovano al Sacro Cuore un luogo per sentirsi a casa, sperimentare la fraternità, incontrarsi con il successore di don Bosco. Nello stesso tempo è il luogo dal quale il Rettor Maggiore anima e governa la Congregazione tracciando le linee per essere fedeli a don Bosco nell’oggi.
            In secondo luogo, la presenza di un luogo salesiano significativo dove don Bosco ha scritto la lettera da Roma e ha compreso il sogno dei nove anni. All’interno della casa ci sarà il Museo Casa don Bosco di Roma che in tre piani racconterà la presenza del Santo nella città eterna. La centralità dell’educazione come “cosa di cuore” nel suo Sistema Preventivo, la relazione con i Papi che hanno amato don Bosco e che lui per primo ha amato e servito, il Sacro Cuore come luogo di espansione del carisma in tutto il mondo, il faticoso percorso di approvazione delle Costituzioni, la comprensione del sogno dei nove anni e il suo ultimo respiro educativo nello scrivere la lettera da Roma sono gli elementi tematici che, in forma multimediale immersiva, saranno raccontati a coloro che visiteranno lo spazio museale.
            In terzo luogo, la devozione al Sacro Cuore rappresenta il centro del carisma. Don Bosco ancor prima di ricevere l’invito a costruire la Chiesa del Sacro Cuore, aveva orientato i giovani verso questa devozione. Nel Giovane Provveduto ci sono preghiere e pratiche di pietà rivolte al Cuore di Cristo. Ma con l’accettazione della proposta di Leone XIII egli diventa un vero e proprio apostolo del Sacro Cuore. Non risparmia le sue forze per cercare denaro per la Chiesa. La cura nei minimi particolari infonde nelle scelte architettoniche e artistiche della Basilica il suo pensiero e la sua devozione al Sacro Cuore. Per sostenere la costruzione della Chiesa e della casa egli fonda la Pia Opera del Sacro Cuore di Gesù, l’ultima delle cinque fondazioni realizzate da don Bosco lungo il corso della sua vita insieme ai Salesiani, le Figlie di Maria Ausiliatrice, i Cooperatori Salesiani, l’Associazione dei Devoti di Maria Ausiliatrice. Essa venne eretta per la celebrazione in perpetuo di sei messe quotidiane nella Chiesa del Sacro Cuore in Roma. Vi partecipano tutti gli iscritti, vivi e defunti, attraverso la preghiera svolta e le opere buone compiute dai Salesiani e dai giovani in tutte le loro case.
            La visione di Chiesa che deriva dalla fondazione della Pia Opera è quella di un “corpo vivo” composto da vivi e defunti in comunione tra loro attraverso il Sacrificio di Gesù, rinnovato quotidianamente nella celebrazione eucaristica a servizio dei giovani più poveri. Il desiderio del Cuore di Gesù è che tutti siano una sola cosa (ut unum sint) come Lui e il Padre. La Pia Opera collega, attraverso la preghiera e le offerte, i benefattori vivi e defunti, i Salesiani di tutto il mondo e i giovani che vivono al Sacro Cuore. Solo attraverso la comunione, che ha la sua sorgente nell’Eucaristia, i benefattori, i Salesiani e i giovani possono contribuire a costruire la Chiesa, a farla risplendere nel suo volto missionario. La Pia Opera ha inoltre il compito di promuovere, diffondere, approfondire la devozione al Sacro Cuore in tutto il mondo e rinnovarla secondo i tempi e il sentire della Chiesa.

La stazione centrale per evangelizzare
            Infine, l’attenzione ai giovani poveri si manifesta nella volontà missionaria di raggiungere i giovani di tutta Roma attraverso il Centro Giovanile aperto su via Marsala, proprio all’uscita della stazione Termini dove ogni giorno passano circa 300.000 persone. Un luogo che sia casa per i tanti giovani italiani e stranieri che visitano o vivono a Roma e hanno sete, a volte non consapevole, di Dio. Da sempre, inoltre, intorno alla stazione Termini si accalcano diversi poveri segnati dalla fatica della vita. Un’altra porta aperta su via Marsala, oltre quella del Centro Giovanile e della Basilica, esprime il desiderio di rispondere ai bisogni di queste persone con il Cuore di Cristo, in esse infatti risplende la gloria del suo volto.
            La profezia di don Bosco sulla Casa del Sacro Cuore del 5 aprile 1880 accompagna e guida la realizzazione di quanto è stato raccontato:

Don Bosco mirava lontano. Il nostro monsignor Giovanni Marenco ricordava una sua misteriosa parola, che il tempo non doveva coprire di oblio. Nel giorno stesso in cui accettò quell’onerosissima offerta, il Beato gli domandò:
– Sai perché abbiamo accettato la casa di Roma?
– Io no, rispose quegli.
– Ebbene, sta attento. L’abbiamo accettata perché quando il Papa sarà quello che ora non è e come deve essere. Metteremo nella nostra casa la stazione centrale per evangelizzare l’agro romano. Sarà opera non meno importante che quella di evangelizzare la Patagonia. Allora i Salesiani saranno conosciuti e risplenderà la loro gloria. (MB XIV, 591-592).

don Francesco Marcoccio




Don Rinaldi ai Becchi

Il beato don Filippo Rinaldi, terzo successore di don Bosco, è ricordato come una figura straordinaria, capace di unire in sé le qualità di Superiore e Padre, insigne maestro di spiritualità, pedagogia e vita sociale, oltre che guida spirituale impareggiabile. La sua profonda ammirazione per don Bosco, che ebbe il privilegio di conoscere personalmente, lo rese una viva testimonianza del carisma del fondatore. Consapevole dell’importanza spirituale dei luoghi legati all’infanzia di don Bosco, don Rinaldi dedicò particolare attenzione a visitarli, riconoscendone il valore simbolico e formativo. In questo articolo, ripercorriamo alcune delle sue visite al Colle Don Bosco, alla scoperta del legame speciale che lo univa a questi luoghi santi.

Per il santuarietto di Maria Ausiliatrice
            Con l’inaugurazione del Santuarietto di Maria Ausiliatrice, voluto davanti alla Casetta di don Bosco da don Paolo Albera, e precisamente dal due agosto 1918, quando Mons. Morganti, Arcivescovo di Ravenna, assistito dai nostri Superiori Maggiori, benedisse solennemente la chiesa e le campane, ebbe inizio la presenza stabile dei Salesiani ai Becchi. In quel giorno c’era pure don Filippo Rinaldi, Prefetto Generale, e, con lui, don Francesco Cottrino, primo direttore della nuova casa.
            D’allora in poi le visite di don Rinaldi ai Becchi si rinnovarono ogni anno a ritmo serrato, vera espressione del suo grande affetto al buon padre don Bosco e del suo vivissimo interessamento per l’acquisto e l’appropriata sistemazione dei luoghi memorabili della fanciullezza del Santo.
            Dalle scarne notizie di cronaca della casa salesiana dei Becchi si possono facilmente dedurre la cura e l’amore con cui don Rinaldi promosse e seguì personalmente i lavori necessari a rendere onore a don Bosco ed appropriato servizio ai pellegrini.
            Nel 1918, dunque, don Rinaldi, dopo la sua venuta ai Becchi per la benedizione della chiesa, vi ritornò il 6 ottobre assieme al Card. Cagliero per la Festa del Santo Rosario, e ne approfittò per avviare le trattative dell’acquisto della Casa Cavallo retrostante a quella di don Bosco.

Cura dei lavori per la casetta
            Nel 1919 furono due le visite di don Rinaldi ai Becchi: quella del 2 giugno e quella del 28 settembre, tutte e due in vista dei restauri da effettuare nella zona storica del Colle.
            Tre invece furono le visite nel 1920: quella del 16-17 giugno, per trattare l’acquisto della casa Graglia e del prato dei fratelli Bechis; quella dell’11 settembre per visitare i lavori e la proprietà dei Graglia; e, infine, quella del 13 dello stesso mese, per presenziare alla stesura dello strumento notarile di acquisto della medesima casa Graglia.
            Due furono le visite del 1921: il 16 marzo, con l’Arch. Valotti, per il progetto di una strada che conducesse al Santuario e di un Pilone e di un Capannone per pellegrini sulla piazzetta; il 12-13 settembre, con l’Arch. Valotti ed il Cav. Melle, per lo stesso scopo.
            Nel 1922 don Rinaldi fu di nuovo ai Becchi due volte: il 4 maggio con il Card. Cagliero, don Ricaldone, don Conelli e tutti i Membri del Capitolo Generale (inclusi i Vescovi Salesiani), per pregare presso la Casetta dopo la sua elezione a Rettor Maggiore; ed il 28 settembre con i suoi più diretti collaboratori.
            Vi giunse poi il 10 giugno 1923 per celebrare la Festa di Maria Ausiliatrice. Presiedette ai Vespri nel santuario, fece la predica ed impartì la benedizione eucaristica. Nell’Accademia che seguì, presentò la Croce «Pro Ecclesia et Pontifice» al sig. Giovanni Febbraro, nostro benefattore. Vi ritornò poi in ottobre con il Card. G. Cagliero per la festa del Santo Rosario, celebrando la Santa Messa alle ore 7 e portando il SS. nella processione eucaristica cui seguì la Benedizione impartita dal Cardinale.
            Il 7 settembre 1924 don Rinaldi guidò ai Becchi il Pellegrinaggio dei Padri di Famiglia e de-gli Exallievi delle Case di Torino. Celebrò la Santa Messa, fece la predica e poi, dopo colazione, partecipò al Concerto organizzato per l’occasione. Ritornò ancora il 22 ottobre dello stesso anno assieme a don Ricaldone, ed ai sigg. Valotti e Barberis, per risolvere la spinosa questione della strada al santuario che implicava difficoltà da parte dei proprietari dei terreni adiacenti.
            Ben tre volte don Rinaldi fu ai Becchi nel 1925: il 21 maggio per lo scoprimento della lapide a don Bosco, e poi il 23 luglio ed il 19 settembre, accompagnato questa volta nuovamente dal Card. Cagliero.
            Il 13 maggio 1926 don Rinaldi guidò un pellegrinaggio di circa 200 soci dell’Unione Insegnanti don Bosco, celebrando la Santa Messa e presiedendo alla loro adunanza. Il 24 luglio dello stesso anno ritornò, assieme a tutto il Capitolo Superiore, alla guida del pellegrinaggio dei Direttori delle Case d’Europa; e, di nuovo, il 28 agosto con il Capitolo Superiore ed i Direttori delle case d’Italia.

Ristrutturazione del centro storico
            Tre altre visite di don Rinaldi ai Becchi risalgono al 1927: quella del 30 maggio con don Giraudi ed il sig. Valotti per definire i lavori edilizi (costruzione del portico ecc.); quella del 30 agosto con don Tirone e con i Direttori degli Oratori festivi; e quella del 10 ottobre con don Tirone ed i giovani missionari di Ivrea. In quest’ultima occasione don Rinaldi esortò il Direttore di allora, don Fracchia, a collocare piante dietro la casa Graglia e nel prato del Sogno,
            Quattro volte don Rinaldi fu ai Becchi nel 1928: — Il 12 aprile con don Ricaldone per l’esame dei lavori eseguiti e di quelli in corso. — Il 9-10 giugno con don Candela e don V. Bettazzi per la Festa di Maria Ausiliatrice e per l’inaugurazione del Pilone del Sogno. In quest’occasione cantò la Santa Messa e, dopo i Vespri e la Benedizione eucaristica pomeridiana, benedisse il Pilone del Sogno ed il nuovo Portico, dirigendo a tutti dalla veranda la sua parola. Alla sera assistette alla luminaria. — Il 30 settembre giunse con don Ricaldone e don Giraudi per visitare la località «Gaj». — L’8 ottobre ritornò alla testa del pellegrinaggio annuale dei giovani missionari della casa di Ivrea. Fu in quell’anno che don Rinaldi manifestò il desiderio dell’acquisto della villa Damevino per adibirla ad alloggio per pellegrini o, meglio ancora, destinarla ai Figli di Maria aspiranti missionari.
            Ben sei furono le visite ai Becchi nel 1929: — La prima, del 10 marzo, con don Ricaldone, fu per visitare la villa Damevino e la casa Graglia (la prima delle quali venne poi acquistata quello stesso anno). Essendo ormai imminente la beatificazione di don Bosco, don Rinaldi volle pure che si allestisse un altarino al Beato nella cucina della Casetta (il che fu poi eseguito più tardi, nel 1931). — La seconda, del 2 maggio, fu pure una visita di studio, con don Giraudi, il sig. Valotti ed il pittore prof. Guglielmino. — La terza, del 26 maggio, fu per partecipare alla festa di Maria Ausiliatrice. — La quarta, del 16 giugno, la fece con il Capitolo Superiore e con tutti i Membri del Capitolo Generale per la Festa di don Bosco. — La quinta, del 27 luglio, fu una breve visita con don Tirone e Mons. Massa. — La sesta, infine, fu con Mons. Mederlet ed i giovani missionari della Casa di Ivrea, per i quali don Rinaldi non nascondeva le sue predilezioni.
            Nel 1930 don Rinaldi venne ancora due volte ai Becchi: il 26 giugno per una breve visita di ricognizione delle varie località; ed il 6 agosto, con don Ricaldone, il sig. Valotti ed il cav. Sartorio, per la ricerca dell’acqua (trovata poi da don Ricaldone in due punti, a 14 e a 11 metri di distanza dalla fonte chiamata Bacolla).
            L’anno 1931, che fu l’anno della sua morte, avvenuta il 5 dicembre, don Rinaldi giunse ai Becchi almeno tre volte: Il 19 luglio, di pomeriggio. In quell’occasione raccomandò di fare la commemorazione di don Bosco il 16 di ogni mese o la domenica seguente. Il 16 settembre, quando approvò e lodò il campo di ricreazione preparato per i giovani della Comunità. Il 25 settembre, e fu l’ultima, quando, con don Giraudi ed il sig. Valotti, esaminò il progetto degli alberi da piantare nella zona (sarà eseguito più tardi, nel 1990, quando cominciò la realizzazione del progetto di alberazione di 3000 piante sui vari versanti del Colle dei Becchi, proprio nell’anno della sua beatificazione).
            Non calcolando eventuali visite precedenti, sono quindi 41 le visite fatte da don Rinaldi ai Becchi tra il 1918 e il 1931.




Dov’è nato don Bosco?

            Nel primo anniversario della morte di don Bosco i suoi Antichi Alunni vollero continuare a celebrare la Festa della Riconoscenza, come avevano fatto ogni anno al 24 giugno, organizzandola per il nuovo Rettor Maggiore, don Rua.
            Il 23 giugno del 1889, dopo aver posto una lapide-ricordo nella Cripta di Valsalice dove don Bosco era sepolto, il giorno 24 festeggiarono don Rua a Valdocco.
            Il prof. Alessandro Fabre, exallievo degli anni 1858-66, presa la parola, disse fra l’altro:
            «Non le sarà discaro di sapere, ottimo sig. don Rua, che abbiamo deciso di aggiungere come appendice l’inaugurazione pel 15 agosto prossimo venturo di un’altra lapide, di cui è già data la commissione e qui riprodotto il disegno, e che porremo sulla casa ove nacque e molti anni abitò il nostro caro don Bosco, perché rimanga segnalato ai contemporanei ed ai posteri il luogo dove prima palpitò per Dio e per gli uomini il cuore di quel Grande che del suo nome, delle sue virtù, delle sue istituzioni ammirabili doveva riempire più tardi l’Europa e il mondo».
            Come si vede, l’intenzione degli Antichi Alunni era di porre una lapide sulla Casetta dei Becchi, da tutti creduta la casa natia di don Bosco, perché egli l’aveva sempre indicata come la sua casa. Ma poi, trovando la Casetta in rovina, furono indotti a ritoccare la bozza dell’iscrizione e a collocare la lapide sulla vicina casa di Giuseppe con la seguente dicitura dettata dal Prof. Fabre stesso:
            L’11 agosto, pochi giorni prima del compleanno di don Bosco, gli Antichi Alunni si recarono ai Becchi per scoprire la lapide. Tenne il discorso d’occasione il Teol. Felice Reviglio, Curato di S. Agostino, uno dei primissimi allievi di don Bosco. Parlando della Casetta egli disse: «La casa stessa qui presso ove nacque, che è quasi del tutto rovinata…» è «un vero monumento dell’evangelica povertà di don Bosco».
            Della «completa rovina» della Casetta aveva già fatto cenno il Bollettino Salesiano nel marzo del 1887 (BS 1887, marzo, p. 31), e di tale situazione parlavano, evidentemente, don Reviglio e l’iscrizione sulla lapide («una casa ora demolita»). L’iscrizione copriva pietosamente il fatto increscioso che la Casetta, non ancora di proprietà salesiana, pareva ormai inesorabilmente perduta.
            Ma don Rua non si diede per vinto e nel 1901 si offerse di restaurarla a spese dei salesiani nella speranza di poterla poi ottenere dagli eredi di Antonio e Giuseppe Bosco, come avvenne nel 1919 e 1926 rispettivamente.
            A lavori ultimati una lapide fu posta sulla «Casetta» con l’iscrizione seguente: IN QUEST’UMILE CASETTA ORA PIAMENTE restaurata nacque don giovanni bosco il dì 16 agosto 1815
            Poi anche l’iscrizione sulla casa di Giuseppe venne così corretta: «Nato qui presso in una casa ora ristorata… ecc.», con relativa sostituzione della lapide.
            Quando poi, nel 1915 si celebrò il centenario della nascita di don Bosco, il Bollettino pubblicò la foto della Casetta, precisando: «E quella ove il 16 agosto 1815 nacque il Venerabile Giovanni Bosco. Essa fu salvata dalla rovina alla quale l’edacità del tempo l’aveva condannata, con una provvida riparazione generale, l’anno 1901».
            Negli anni ’70 le ricerche d’archivio compiute dal Comm. Secondo Caselle, convinsero i Salesiani che don Bosco era, sì, vissuto dal 1817 al 1831 alla Casetta acquistata da suo padre, casa sua quindi, come egli aveva sempre detto, ma era nato alla cascina Biglione, di cui il padre era massaro abitandovi con la famiglia, fino alla sua morte avvenuta l’11 maggio 1817, sul sommo del Colle ove ora sorge il Tempio a San Giovanni Bosco.
            La lapide sulla casa di Giuseppe era stata cambiata, mentre quella sulla Casetta venne sostituita dall’attuale iscrizione marmorea: questa è la mia casa Don Bosco
            Rimane così sfatata l’opinione recentemente espressa, secondo la quale gli Antichi Alunni, nel 1889, con le parole: «Nato qui presso in una casa ora demolita» non intendevano parlare della Casetta dei Becchi.

I toponimi dei Becchi
            Abitavano i Bosco alla Cascina Biglione quando nacque Giovanni?
            Qualcuno ha affermato che è permesso dubitarne, perché, quasi certamente abitavano, invece, in un’altra casa di proprietà Biglione al «Meinito». Prova ne sarebbe il Testamento di Francesco Bosco, stilato dal notaio C. G. Montalenti l’8 maggio del 1817, dove si legge: «…in casa del signor Biglione abitata dall’infrascritto testatore nella regione del Monastero borgata di Meinito…» (S. CASELLE, Cascinali e Contadini del Monferrato: i Bosco di Chieri nel secolo XVIII, Roma, LAS, 1975, p. 94).
            Che dire di questa opinione?
            Oggi «Meinito» (o «Mainito») è solo più il sito di una cascina posta a sud del Colle Don Bosco, al di là della strada provinciale che da Castelnuovo va in direzione di Capriglio, ma un tempo indicava un territorio più esteso, contiguo a quello chiamato Sbaraneo (o Sbaruau). E Sbaraneo non era altro che il vallone ad est del Colle.
«Monastero», poi, non corrispondeva solo all’attuale zona boschiva a ridosso del Mainito, ma copriva un’area molto vasta, dal Mainito alla Barosca, tanto è vero che la stessa «Casetta» dei Becchi venne registrata nel 1817 in «regione di Cavallo, Monastero» (S. CASELLE, o. c., p. 96).
            Quando non c’erano ancora mappe con lotti numerati, cascine e poderi venivano individuati a base di toponimi o nomi di luogo, derivati da cognomi di antiche famiglie o da caratteristiche geografiche e storiche.
            Essi servivano da punti di riferimento, ma non corrispondevano all’attuale significato di «regione» o «borgata» se non molto approssimativamente, e venivano usati con molta libertà di scelta da parte dei notai.
            La più antica Carta del Castelnovese, conservata nell’archivio comunale e gentilmente postaci a disposizione, risale al 1742 e viene chiamata «Carta napoleonica» probabilmente per il maggior uso fattone durante l’occupazione francese. Un estratto di questa mappa, curato nel 1978 con elaborazione fotografica del testo originale dai Sigg. Polato e Occhiena, che confrontarono i documenti d’archivio con i lotti numerati sulla Carta napoleonica, dà l’indicazione di tutti i terreni di proprietà dei Biglione sin dal 1773 e lavorati dai Bosco dal 1793 al 1817. Da questo «Estratto» risulta che i Biglione non possedevano alcun terreno o casa al Mainito. E d’altra parte non è sinora reperibile altro documento che provi il contrario.
            E allora che significato possono avere quelle parole «in casa del Signor Biglione… in regione Monastero borgata di Meinito»?
            Anzitutto è bene sapere che solo nove giorni dopo, lo stesso notaio che redasse il testamento di Francesco Bosco, scriveva nell’inventario della sua eredità: «…in casa del Signor Giacinto Biglione abitata degli infranominati pupilli [i figli di Francesco] regione di Meinito…» (S. CASELLE, o. c., p. 96), promuovendo così in pochi giorni Mainito da «borgata» a «regione». E poi è curioso constatare che anche la Cascina Biglione propriamente detta, in documenti diversi risulta a Sbaconatto, a Sbaraneo o Monastero, al Castellero, e chi più ne ha più ne metta.
            E allora come la mettiamo? Tenuto conto di tutto, non è difficile accorgersi che si tratta sempre della stessa zona, il Monastero, che al suo centro aveva come punti di riferimento Sbaconatto e Castellerò, ad est lo Sbaraneo, a sud il Mainito. Il notaio Montalenti scelse «Meinito» come altri scelsero «Sbaraneo» o «Sbaconatto» o «Castellero». Ma il sito e la casa erano sempre gli stessi!
            Sappiamo, inoltre, che i Sigg. Damevino, proprietari della Cascina Biglione dal 1845 al 1929, possedevano anche altre cascine, alla Scajota e alla Barosca; ma, come assicurano gli anziani del luogo, non possedettero mai case al Mainito. Eppure avevano acquistato le proprietà che i Biglione avevano venduto al Sig. Giuseppe Chiardi nel 1818.
            Non resta che concludere che il documento stilato dal notaio Montalenti l’8 maggio 1817, se pur non contiene errori, si riferisce alla Cascina Biglione propriamente detta, ove il 16 agosto 1815 nacque don Bosco, l’11 maggio 1817 morì suo padre e, ai giorni nostri, fu costruito il grandioso Tempio a san Giovanni Bosco.
            L’esistenza, infine, di una fantomatica casa dei Biglione abitata dai Bosco al Mainito e poi demolita non si sa quando né da chi né perché prima del 1889, come da qualcuno si è ipotizzato, non ha (almeno sinora) alcuna vera prova in suo favore. Gli stessi Antichi Alunni quando posero sulla lapide dei Becchi le parole «Nato qui presso…» (si veda il nostro articolo di gennaio) non potevano certo riferirsi al Mainito che dista oltre un chilometro dalla Casa di Giuseppe!

Cascine, massari e mezzadri
            Francesco Bosco, massaro della Cascina Biglione, desiderando mettersi in proprio, acquistò terreni e la casetta dei Becchi, ma la morte lo colse all’improvviso l’11 maggio 1817 prima di aver potuto pagare tutti i relativi debiti contratti. Nel novembre la vedova, Margherita Occhiena, si trasferì con i figli e la suocera nella «Casetta» fatta ristrutturare allo scopo. Prima di allora quella Casetta, già contrattata dal marito sin dal 1815 ma non ancora pagata, consisteva solo di «una crotta e stalla accanto, coperta a coppi, in cattivo stato» (S. CASELLE, Cascinali e contadini […], p. 96-97), e quindi inabitabile da una famiglia di cinque persone, con animali ed attrezzi da lavoro. Nel febbraio del 1817 era stato stilato l’atto notarile di vendita, ma il debito rimaneva ancora aperto. Margherita dovette risolvere la situazione come tutrice di Antonio, Giuseppe e Giovanni Bosco, ormai piccoli proprietari ai Becchi.
            Non era la prima volta che i Bosco passavano dalla condizione di massari a quella di piccoli proprietari e viceversa. Ce ne ha data ampia documentazione il compianto Comm. Secondo Caselle.
            Il trisavolo di don Bosco, Giovanni Pietro, già massaro alla Cascina Croce di Pane, tra Chieri e Andezeno, proprietà dei Padri Barnabiti, nel 1724 andò massaro alla Cascina di San Silvestro presso Chieri, appartenente alla Prevostura di San Giorgio. E che egli abitasse proprio nella Cascina di San Silvestro con i familiari risulta dai «Registri del Sale» del 1724. Suo nipote, Filippo Antonio, orfano di padre e preso in casa dal figlio maggiore di Giovanni Pietro, Giovanni Francesco Bosco, fu adottato da un pro-zio, da cui ereditò casa, giardino e 2 ettari di terreno a Castelnuovo. Ma, per la critica situazione economica in cui venne a trovarsi, dovette vendere la casa e gran parte delle sue terre e trasferirsi con la famiglia nella frazione Morialdo, come massaro della Cascina Biglione, ove morì nel 1802.
            Paolo, suo figlio di primo letto, divenne così il capo-famiglia e il massaro, come risulta dal censimento del 1804. Ma qualche anno dopo lasciò la cascina al fratellastro Francesco e andò a stabilirsi a Castelnuovo dopo essersi presa la sua parte di eredità e aver operato delle compra-vendite. Fu allora che Francesco Bosco, figlio di Filippo Antonio e di Margherita Zucca, divenne massaro della Cascina Biglione.
            Che cosa s’intendeva in quei luoghi per «cascina», per «massaro» e per «mezzadro»?
            La parola «cascina» (in piemontese: cassin-a) indica in sé una casa colonica o l’insieme di un’azienda agricola; ma nei luoghi di cui parliamo, l’accento era posto sulla casa, cioè sul caseggiato agricolo adibito in parte ad abitazione e in parte a rustico per l’allevamento del bestiame, ecc. Il «massaro» (in piemontese: massé) in sé è il conduttore della cascina e dei poderi, mentre il «mezzadro» (in piemontese: masoé) è solo il coltivatore di terre di un padrone con cui divide i raccolti. Ma in pratica in quei luoghi il massaro era anche mezzadro e viceversa, tanto che la parola massé non era gran ché usata, mentre masoé indicava generalmente anche il massaro.
            I Sigg. Damevino, proprietari della Cascina «Bion» o Biglione al Castellero dal 1845 al 1929, possedevano anche altre cascine, alla Scajota e alla Barosca e, come ci assicurò il sig. Angelo Agagliate, avevano 5 massari o mezzadri, uno alla Cascina Biglione, due alla Scajota e due alla Barosca. Naturalmente i vari massari abitavano nella cascina loro propria.
            Ora, se un contadino era massaro, ad es., della Cascina Scajota, proprietà dei Damevino, non lo si diceva «abitante in casa Damevino», ma semplicemente «alla Scajota». Se Francesco Bosco avesse abitato nella supposta casa dei Biglione al Mainito, non lo si sarebbe, quindi, detto, abitante «in casa del signor Biglione» anche se questa casa fosse ai Biglione appartenuta. Se il notaio scrisse: «In casa del signor Biglione abitata dall’infrascritto testatore» era segno che Francesco abitava con la famiglia alla Cascina Biglione propriamente detta.
            E questa è un’ulteriore conferma ai precedenti articoli che smentiscono l’ipotesi dalla nascita di don Bosco al Mainito «in una casa ora demolita».
            Concludendo, non si può dare esclusiva importanza al significato letterale di certe espressioni, ma occorre vagliarne il vero senso nell’uso locale del tempo. In studi di questo genere il lavoro del ricercatore locale è complementare a quello dello storico accademico, e particolarmente importante, perché il primo, favorito dalla conoscenza dettagliata del territorio, può fornire al secondo, il materiale occorrente per le sue conclusioni generali, ed evitargli erronee interpretazioni.




Mostra per i 200 anni del sogno di don Bosco

Dialogo tra passato, presente e futuro: mostra temporanea per i 200 anni del sogno di don Bosco. Museo Casa Don Bosco

Parlare della biografia di don Bosco senza menzionare il mondo dei sogni significa sopprimere un aspetto importante della sua identità. La vita del santo fu segnata dal soprannaturale, dalle visioni e dai sogni che Dio gli inviò fin dall’infanzia, quando tra i nove e i dieci anni Giovannino Bosco ebbe il suo primo sogno, che lo segnò profondamente e lo accompagnò per tutta la vita.

Il sogno fu considerato profetico perché illuminava il suo progetto di vita, sia nella scelta dello stato ecclesiastico sia nella sua totale dedizione alla gioventù povera e abbandonata. Anzi, in un certo senso segnò il suo percorso, visto che iniziò nei prati dei Becchi, sua città natale, si concretizzò a Torino quando si stabilì nel quartiere Valdocco e fu ricordato nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù, al Castro Pretorio di Roma, un anno prima della sua morte. Allo stesso tempo, dal 1875, con le missioni salesiane, abbracciò diversi continenti del mondo, arrivando fino ai giorni nostri, dove la presenza salesiana lavora per mantenere vivo il sogno del fondatore.

A distanza di due secoli, consapevoli che il sogno di don Bosco è ancora attuale, il museo della casa madre di Valdocco-Torino, Museo Casa Don Bosco, ha inaugurato il 22 maggio una mostra temporanea che rimarrà aperta fino al 22 settembre 2024.

L’esposizione, frutto di una precedente ricerca, si articola in diverse sezioni che esplorano la narrazione, la storia, l’iconografia del sogno nelle arti e la risonanza del sogno oggi, a duecento anni di distanza.

La selezione di oggetti storico-artistici su diversi supporti aiuta a scoprire diversi momenti della storia salesiana che ricordano questo evento cruciale nella vita del santo. Insieme alle fotografie storiche, sono esposti oggetti del periodo compreso tra la beatificazione (1929) e la canonizzazione (1934), quando iniziò la rappresentazione del Sogno nelle arti: illustrazioni in libri, cartoline, monete commemorative, dipinti ad olio e su carta, ecc.

La mostra presenta un’importante selezione di stampe originali. Gli artisti Corrado Mezzana (1890-1952), Guido Grilli (1905-1967), Cosimo [Nino] Musio (1933-2017) e Alarico Gattia (1927-2022) sono alcuni degli autori. I fumetti di Grilli, Musio e Gattia sono stati commissionati dalla Libreria della Dottrina Cristiana (1941), fondata dal quarto successore di don Bosco, don Pietro Ricaldone (1870-1951). Queste opere, che sono state distribuite in varie pubblicazioni, supporti, formati e lingue in tutto il mondo, sono conservate dall’attuale casa editrice Elledici.

Completano l’esposizione le diciassette fotografie vincitrici del concorso fotografico internazionale svoltosi dal gennaio 2024 e promosso dalla casa museo con l’obiettivo di mettere in luce il talento artistico e creativo dell’intero mondo salesiano. Le foto sono descritte dagli stessi autori in lingua originale e provengono da Italia, Messico, Panama, Slovacchia, Spagna e Venezuela.

Queste immagini dialogano tra passato, presente e futuro e ci fanno riflettere su come, a distanza di due secoli, il Sogno di don Bosco sia diventato realtà nelle presenze salesiane di tutto il mondo.

Inoltre, il settore di Pastorale Giovanile della Congregazione Salesiana promuove la celebrazione del Sinodo dei giovani salesiani in tutto il mondo e, in occasione del bicentenario del sogno, ha raccolto nella pubblicazione “Diamanti nascosti” più di 200 sogni di giovani di tutto il mondo, alcuni dei quali sono esposti nella mostra.

Foto: Guido Grilli (1905-1967), Sogno di Giovannino, 16.6 x 23 cm., 1952, filmina D15, quadro n. 4. Archivio Storico Editrice Elledici.

dott.ssa Ana MARTÍN GARCÍA
Storica dell’arte, conservatore dei beni culturali e dottore di ricerca europeo (Doctor Europaus) in arti visive per l’Università di Bologna. Ex-allieva dei Salesiani di Estrecho (Madrid, Spagna). Dal 2023 lavora presso la direzione del Museo Casa Don Bosco di Valdocco-Torino come Coordinatrice Generale.




Don Bosco e “la Consolata”

            Il più antico pilone nella zona dei Becchi pare risalire al 1700. Fu eretto al fondo della piana verso il «Mainito», ove confluivano le famiglie che abitavano nell’antica «Scaiota», divenuta poi cascina agricola salesiana, oggi ristrutturata e trasformata in Casa dei giovani che ospita gruppi giovanili pellegrini al Tempio e alla Casetta di Don Bosco.
            È il pilone della Consolata, con una statua della Vergine Consolatrice degli afflitti, sempre onorata con fiori campestri portati dai devoti. Giovannino Bosco sarà passato tante volte davanti a quel pilone, togliendosi il cappello e mormorando un’Ave come la mamma gli aveva insegnato.
            Nel 1958 i Salesiani restaurarono il vecchio pilone e, con una solenne funzione religiosa, lo inaugurarono ad un rinnovato culto della comunità e della popolazione, come risulta dalla Cronaca di quell’anno conservata nell’archivio dell’Istituto «Bernardi Semeria».
            Quella statua della Consolata potrebbe quindi essere la prima immagine di Maria Santissima che Don Bosco venerò nella fanciullezza presso casa sua.

Alla «Consolata» di Torino
            Già da studente e da seminarista a Chieri Don Bosco dev’essere andato a Torino a venerare la Vergine Consolatrice (MB I, 267-68). Ma risulta con certezza che, novello sacerdote, egli celebrò la sua seconda Santa Messa proprio nel Santuario della Consolata «per ringraziare – come egli scrisse – la Gran Vergine Maria degli innumerevoli favori che mi aveva ottenuto dal suo Divin Figliuolo Gesù» (MO 115).
            Ai tempi dell’Oratorio vagante senza fissa dimora, Don Bosco andava con i suoi ragazzi in qualche chiesa di Torino per la messa domenicale, e per lo più si recavano alla Consolata (MB II, 248; 346).
            Nel mese di maggio degli anni 1846-47, per ringraziare la Vergine Consolatrice di aver finalmente fatto trovar loro sede stabile, vi portò i suoi giovani a fare la Santa Comunione mentre i buoni Padri Oblati di Maria Vergine, che officiavano il Santuario, si prestarono ad ascoltarne le confessioni (MB II, 430).
            Quando, nell’estate del 1846, Don Bosco si ammalò gravemente, i suoi ragazzi non solo mostrarono in lacrime il loro dolore, ma temendo che i mezzi umani non sarebbero bastati alla sua guarigione, si alternarono dal mattino alla sera nel Santuario della Consolata a pregare Maria SS. di conservare loro l’amico e padre infermo.
            Ci fu chi fece anche dei voti infantili e chi digiunò a pane ed acqua perché la Madonna li esaudisse. Furono esauditi e Don Bosco promise a Dio che fin l’ultimo suo respiro sarebbe stato per loro.
            Le visite di Don Bosco e dei suoi ragazzi alla Consolata continuarono. Invitato una volta a cantare con i suoi giovani una Messa nel Santuario, arrivò all’ora convenuta con la «Schola cantorum» improvvisata portandosi lo spartito di una «messa» da lui stessa composta per l’occasione.
            Organista nel santuario era il celebre maestro Bodoira che Don Bosco invitò all’organo. Questi non degnò neanche di uno sguardo lo spartito di Don Bosco, ma quando poi si accinse a suonarne la musica, non ci capì proprio nulla e, abbandonato indispettito il posto di organista, se ne andò.
            Don Bosco allora si sedette all’organo ed accompagnò la Messa seguendo la sua composizione tempestata di segni che solo lui poteva capire. I giovani che prima si erano smarriti alle note del celebre organista, proseguirono sino alla fine senza una stecca e le loro voci argentine attirarono l’ammirazione e la simpatia di tutti i fedeli presenti alla funzione (MB II, 148).
            Dal 1848 sino al 1854 Don Bosco accompagnava in processione i suoi ragazzi per le vie di Torino sino alla Consolata. I suoi birichini cantavano lungo il percorso lodi alla Vergine per poi partecipare alla Santa Messa da lui celebrata.
            Alla morte di Mamma Margherita, avvenuta il 25 novembre 1856, Don Bosco il mattino stesso andò a celebrare la Santa Messa di suffragio nella cappella sotterranea del Santuario della Consolata, fermandosi poi a pregare lungamente dinanzi all’immagine di Maria Consolatrice, supplicandola di far Essa da madre a lui ed ai suoi figli. E Maria SS. esaudì le sue preghiere (MB V, 566).
            Don Bosco al Santuario della Consolata non solo ebbe più volte occasione di celebrare la Santa Messa, ma un giorno volle anche servirla. Entrato nel santuario per farvi una visita, sentì il segnale dell’inizio della Messa e si accorse che mancava il ministrante. Si alzò, andò in sacrestia, prese il messale e servì con devozione la Messa (MB VII, 86).
            E la frequenza di Don Bosco al Santuario non cessò mai più soprattutto in occasione della Novena e della festa della Consolata.

Statuetta della Consolata nella Cappella Pinardi
            Il 2 settembre 1847 Don Bosco acquistò al prezzo di 27 lire una statuetta di Maria Consolatrice collocandola nella Cappella Pinardi.
            Nel 1856, nei lavori di demolizione della Cappella, Don Francesco Giacomelli, compagno di seminario e grande amico di Don Bosco, volendo ritenere per sé ciò che egli chiamava il più insigne monumento della fondazione dell’Oratorio, trasportò la statuetta ad Avigliana nella sua casa paterna.
            Nel 1882 sua sorella fece costruire presso casa un pilone con nicchia e vi collocò la preziosa reliquia.
            Quando i Salesiani vennero a sapere, dopo l’estinzione della famiglia Giacomelli, del pilone di Avigliana, riuscirono a riavere l’antica statuetta, che il 12 aprile 1929 ritornava all’Oratorio di Torino dopo 73 anni dal giorno in cui Don Giacomelli l’aveva tolta dalla prima cappella (E. GIRAUDI, L’Oratorio di Don Bosco, Torino, SEI, 1935, p. 89-90).
            Oggi la storica piccola statua rimane l’unico ricordo del passato nella nuova Cappella Pinardi, formandone il tesoro più caro e prezioso.
            Don Bosco, che diffuse il culto a Maria Ausiliatrice in tutto il mondo, non dimenticò mai la prima sua devozione alla Vergine, venerata sin da fanciullo presso il pilone dei Becchi sotto l’effigie della «Consolata». Giunto a Torino, giovane sacerdote diocesano, nel periodo eroico del suo «Oratorio», attinse dalla Vergine Consolatrice nel suo Santuario luce e consiglio, coraggio e conforto per la missione che il Signore gli aveva affidato.
            Anche per questo è considerato a pieno titolo uno dei Santi Torinesi.