donbosco.info: un motore di ricerca salesiano

Presentiamo la nuova piattaforma donbosco.info che è un motore di ricerca salesiano pensato per rendere più agevole la consultazione dei documenti legati al carisma di Don Bosco. Nato per supportare il Bollettino Salesiano Online, supera i limiti dei tradizionali sistemi di archiviazione, spesso incapaci di intercettare tutte le occorrenze delle parole. Questa soluzione integra un hardware dedicato e un software sviluppato appositamente, offrendo anche una funzione di lettura. L’interfaccia web, volutamente semplice, permette di navigare tra migliaia di documenti in diverse lingue, con la possibilità di filtrare i risultati per cartella, titolo, autore o anno. Grazie alla scansione OCR dei documenti PDF, il sistema individua il testo anche quando non perfetto, e adotta strategie per ignorare punteggiatura e caratteri speciali. I contenuti, ricchi di materiale storico e formativo, mirano a diffondere il messaggio salesiano in modo capillare. Con l’upload libero per documenti, si incoraggia l’arricchimento continuo della piattaforma, migliorando la ricerca.​

Nell’ambito dei lavori per la redazione del Bollettino Salesiano OnLine, si è resa necessaria la creazione di vari strumenti di supporto, fra cui un motore di ricerca dedicato.

Questo motore di ricerca è stato concepito tenendo conto dei limiti attualmente presenti nelle varie risorse salesiane disponibili in rete. Molti siti offrono sistemi di archiviazione con funzionalità di ricerca, ma spesso non riescono a individuare tutte le occorrenze delle parole, a causa di limiti tecnici o restrizioni introdotte per evitare il sovraccarico dei server.

Per superare tali difficoltà, anziché costruire un semplice archivio di documenti con una funzione di ricerca, abbiamo realizzato un vero e proprio motore di ricerca, dotato anche di una funzione di lettura. Si tratta di una soluzione completa, basata su hardware dedicato e su un software sviluppato appositamente.

In fase di progettazione, abbiamo valutato due opzioni: un software da installare localmente oppure un’applicazione server-side accessibile via web. Poiché la missione del Bollettino Salesiano Online è diffondere il carisma salesiano al maggior numero di persone, si è deciso di optare per la soluzione web, così da consentire a chiunque di cercare e consultare documenti salesiani.

Il motore di ricerca è disponibile all’indirizzo www.donbosco.info. L’interfaccia web è volutamente essenziale e “spartana”, per garantire maggiore velocità di caricamento. Nella “home page” sono elencati i file e le cartelle presenti, con lo scopo di agevolarne la consultazione. I documenti non sono soltanto in italiano, ma disponibili anche in altre lingue, selezionabili tramite l’apposita icona in alto a sinistra.

La maggior parte dei file caricati è in formato PDF ricavato da scansioni con OCR (riconoscimento ottico dei caratteri). Poiché l’OCR non è sempre perfetto, a volte non tutte le parole cercate vengono rilevate. Per ovviare a ciò, sono state implementate diverse strategie: ignorare la punteggiatura e i caratteri accentati o speciali, e consentire la ricerca anche in presenza di caratteri mancanti o errati. Ulteriori dettagli sono consultabili nella sezione FAQ, accessibile dal piè di pagina.

Data la presenza di migliaia di documenti, la ricerca può restituire un numero molto elevato di risultati. Per questo è possibile restringere l’ambito della ricerca per cartelle, per titolo, autore o anno: i criteri sono cumulativi e aiutano a trovare più rapidamente ciò che serve. I risultati vengono elencati in base a un punteggio di pertinenza, che attualmente tiene conto principalmente della densità delle parole chiave all’interno del testo e della loro vicinanza.

Idealmente, sarebbe preferibile disporre dei documenti in formato vettoriale invece che scannerizzati, poiché la ricerca risulterebbe sempre accurata e i file sarebbero più leggeri, con conseguenti vantaggi in termini di velocità.

Se possedete documenti in formato vettoriale o di qualità migliore rispetto a quelli già presenti nel motore di ricerca, potete caricarli tramite il servizio di upload disponibile su www.donbosco.space. Potete anche aggiungere altri documenti non presenti nel motore di ricerca. Per ottenere le credenziali di accesso (nome utente e password), inviate una richiesta via e-mail a bsol@sdb.org.




Don Bosco International

Don Bosco International (DBI) è un’organizzazione non governativa con sede a Bruxelles, rappresenta i Salesiani di Don Bosco presso le istituzioni dell’Unione Europea, con focus su difesa dei diritti dei minori, sviluppo dei giovani e istruzione. Fondata nel 2014, DBI collabora con vari partner europei per favorire politiche sociali e educative inclusive, prestando attenzione ai soggetti vulnerabili. L’organizzazione promuove la partecipazione giovanile nella definizione delle politiche, valorizzando l’importanza dell’educazione informale. Attraverso attività di networking e advocacy, DBI mira a creare sinergie con le istituzioni europee, le organizzazioni della società civile e le reti salesiane a livello globale. I valori guida sono la solidarietà, la formazione integrale dei giovani e il dialogo interculturale. DBI organizza seminari, conferenze e progetti europei volti a garantire una maggiore presenza dei giovani nei processi decisionali, favorendo un contesto inclusivo che li sostenga nel percorso di crescita, autonomia e sviluppo spirituale, attraverso scambi culturali e formativi. La segretaria esecutiva, Sara Sechi, ci spiega l’attività di questa istituzione.

L’advocacy come atto di responsabilità per e con i nostri giovani
            Il Don Bosco International (DBI) è l’organizzazione che cura la rappresentanza istituzionale dei Salesiani di Don Bosco presso le istituzioni europee e le organizzazioni della società civile che ruotano intorno ad esse. La missione del DBI è incentrata sull’advocacy, traducibile in “incidenza politica”, quindi tutte quelle azioni mirate ad influenzare un processo decisionale-legislativo, nel nostro caso quello europeo. L’ufficio del DBI è basato a Bruxelles e viene ospitato dalla comunità salesiana di Woluwe-Saint-Lambert (Ispettoria FRB). Il lavoro nella capitale europea è dinamico e stimolante, ma la vicinanza della comunità ci permette di mantenere vivo il carisma salesiano nella nostra missione, evitando di restare intrappolati nella così detta “bolla europea”, quel mondo di relazioni e dinamiche ‘privilegiate’ spesso distanti dalle nostre realtà.
            L’azione del DBI segue due direzioni: da un lato, avvicinare la missione educativa-pastorale Salesiana alle istituzioni attraverso la condivisione di buone pratiche, istanze dei giovani, progetti e relativi risultati, creando degli spazi di dialogo e partecipazione per coloro che tradizionalmente non li avrebbero; dall’altro, portare la dimensione europea all’interno della Congregazione tramite il monitoraggio e l’informazione sui processi in atto e le nuove iniziative, la facilitazione di nuovi contatti con rappresentati istituzionali, ONG ed organizzazioni confessionali che possano dar vita a nuove collaborazioni.
            Una domanda che nasce spesso spontanea è come il DBI riesca a creare concretamente un’incidenza politica. Nelle azioni di advocacy è fondamentale il lavoro in rete con altre organizzazioni o entità che condividano principi, valori ed obiettivi. A tal proposito, il DBI garantisce una presenza attiva in alleanze, formali e informali, di ONG o attori confessionali che lavorano insieme su tematiche care alla missione di Don Bosco: la lotta alla povertà e l’inclusione sociale, la difesa dei diritti dei giovani, soprattutto quelli in situazione di vulnerabilità, e lo sviluppo umano integrale. Tutte le volte che una delegazione salesiana visita Bruxelles, facilitiamo per loro gli incontri con i Membri del Parlamento Europeo, i funzionari della Commissione, i corpi diplomatici, inclusa la Nunziatura Apostolica presso l’Unione Europea, ed altri attori di interesse. Spesso riusciamo ad incontrare i gruppi di giovani e studenti delle scuole salesiane che visitano la città, organizzando per loro un momento di dialogo con altre organizzazioni giovanili.
            Il DBI è un servizio che la Congregazione offre per dare visibilità alle proprie opere e portare nei fori istituzionali la voce di chi, altrimenti, non verrebbe ascoltato. La Congregazione Salesiana ha un potenziale di advocacy non totalmente espresso. La presenza in 137 Paesi a tutela dei giovani a rischio di povertà ed esclusione sociale rappresenta una rete educativa e sociale sulla quale poche organizzazioni possono contare; tuttavia, si fatica ancora a presentare strategicamente i buoni risultati ai tavoli decisionali, dove si delineano politiche e investimenti, soprattutto a livello internazionale. Per tale ragione, garantire un costante dialogo con le istituzioni, rappresenta allo stesso tempo un’opportunità ed un atto di responsabilità. Un’opportunità perché nel lungo periodo la visibilità facilita contatti, nuovi partenariati, finanziamenti per i progetti e la sostenibilità delle opere. Una responsabilità perché, non potendo restare in silenzio davanti alla difficoltà affrontate dai nostri ragazzi e ragazze nel mondo di oggi, l’incidenza politica è la testimonianza attiva di quell’impegno civico che spesso cerchiamo di generare nei giovani.
            Garantendo diritti e dignità per i ragazzi, Don Bosco è stato il primo attore di incidenza politica della Congregazione, per esempio attraverso la firma del primo contratto di apprendistato italiano. L’Advocacy rappresenta un elemento intrinseco della missione salesiana. Ai Salesiani non mancano l’esperienza, né le storie di successo, né le alternative concrete e innovative per affrontare le sfide attuali, ma spesso una coesione che permetta un lavoro in rete coordinato ed una comunicazione chiara e condivisa. Dando voce alle testimonianze autentiche dei giovani possiamo trasformare le sfide in opportunità, creando un impatto duraturo nella società che dia speranza per il futuro.

Sara Sechi
Don Bosco International – DBI, Bruxelles

Sara Sechi, Segretaria Esecutiva del DBI è presente a Bruxelles da due anni e mezzo. È figlia della generazione Erasmus+, che insieme ad altri programmi europei gli hanno garantito esperienze di vita e formazione altrimenti negate. È molto grata a Don Bosco e la Congregazione Salesiana, dove ha trovato meritocrazia, crescita ed una seconda famiglia. E noi gli auguriamo un buon e proficuo lavoro per la causa dei giovani.




I ragazzi del cimitero

Il dramma dei giovani abbandonati continua a far rumore nel mondo contemporaneo. Le statistiche parlano di circa 150 milioni di ragazzi costretti a vivere per strada, una realtà che si manifesta in maniera drammatica anche a Monrovia, capitale della Liberia. In occasione della festa di San Giovanni Bosco, a Vienna, si è svolta una campagna di sensibilizzazione promossa da Jugend Eine Welt, un’iniziativa che ha messo in luce non solo la situazione locale ma anche le difficoltà incontrate in paesi lontani, come la Liberia, dove il salesiano Lothar Wagner dedica la sua vita a dare una speranza a questi giovani.

Lothar Wagner: un salesiano che dedica la sua vita ai ragazzi di strada in Liberia
Lothar Wagner, salesiano coadiutore tedesco, ha dedicato oltre vent’anni della sua vita al sostegno dei ragazzi in Africa Occidentale. Dopo aver maturato esperienze significative in Ghana e Sierra Leone, negli ultimi quattro anni si è concentrato con passione sulla Liberia, un paese segnato da conflitti prolungati, crisi sanitarie e devastazioni come l’epidemia di Ebola. Lothar si è fatto portavoce di una realtà spesso ignorata, dove le cicatrici sociali ed economiche compromettono le opportunità di crescita per i giovani.

La Liberia, con una popolazione di 5,4 milioni di abitanti, è un paese in cui la povertà estrema si accompagna a istituzioni fragili e a una corruzione diffusa. Le conseguenze di decenni di conflitti armati e crisi sanitarie hanno lasciato il sistema educativo tra i peggiori al mondo, mentre il tessuto sociale si è logorato sotto il peso di difficoltà economiche e mancanza di servizi essenziali. Molte famiglie non riescono a garantire ai propri figli i bisogni primari, spingendo così un gran numero di giovani a cercare rifugio per strada.

In particolare, a Monrovia, alcuni ragazzi trovano rifugio nei luoghi più inaspettati: i cimiteri della città. Conosciuti come “ragazzi del cimitero”, questi giovani, privi di un’abitazione sicura, si rifugiano tra le tombe, luogo che diventa simbolo di un abbandono totale. Dormire all’aperto, nei parchi, nelle discariche, persino nelle fogne o all’interno di tombe, è diventato il tragico rifugio quotidiano per chi non ha altra scelta.

“È davvero molto commovente quando si cammina per il cimitero e si vedono ragazzi che escono dalle tombe. Si sdraiano con i morti perché non hanno più un posto nella società. Una situazione del genere è scandalosa.”

Un approccio multiplo: dal cimitero alle celle di detenzione
Non solo i ragazzi dei cimiteri sono al centro dell’attenzione di Lothar. Il salesiano si dedica anche a un’altra realtà drammatica: quella dei detenuti minorenni nelle prigioni liberiane. La prigione di Monrovia, costruita per 325 detenuti, ospita oggi oltre 1.500 prigionieri, tra cui molti giovani incarcerati senza una formale accusa. Le celle, estremamente sovraffollate, sono un chiaro esempio di come la dignità umana venga spesso sacrificata.

“Manca cibo, acqua pulita, standard igienici, assistenza medica e psicologica. La fame costante e la drammatica situazione spaziale a causa del sovraffollamento indeboliscono enormemente la salute dei ragazzi. In una piccola cella, progettata per due detenuti, sono rinchiusi otto-dieci giovani. Si dorme a turno, perché questa dimensione della cella offre spazio solo in piedi ai suoi numerosi abitanti”.

Per far fronte a questa situazione, organizza visite quotidiane nella prigione, portando acqua potabile, pasti caldi e un supporto psicosociale che diventa un’ancora di salvezza. La sua presenza costante è fondamentale per cercare di ristabilire un dialogo con le autorità e le famiglie, sensibilizzando anche sull’importanza di tutelare i diritti dei minori, spesso dimenticati e abbandonati a un destino infausto. “Non li lasciamo soli nella loro solitudine, ma cerchiamo di donare loro una speranza,” sottolinea Lothar con la fermezza di chi conosce il dolore quotidiano di queste giovani vite.

Una giornata di sensibilizzazione a Vienna
Il sostegno a queste iniziative passa anche dall’attenzione internazionale. Il 31 gennaio, a Vienna, Jugend Eine Welt ha organizzato una giornata dedicata a evidenziare la precaria situazione dei ragazzi di strada, non solo in Liberia, ma in tutto il mondo. Durante l’evento, Lothar Wagner ha condiviso le sue esperienze con studenti e partecipanti, coinvolgendoli in attività pratiche – come l’uso di un nastro segnaletico per simulare le condizioni di una cella sovraffollata – per far comprendere in prima persona le difficoltà e l’angoscia dei giovani che vivono quotidianamente in spazi minimi e in condizioni degradanti.

Oltre alle emergenze quotidiane, il lavoro di Lothar e dei suoi collaboratori si concentra anche su interventi a lungo termine. I missionari salesiani, infatti, sono impegnati in programmi di riabilitazione che spaziano dal supporto educativo alla formazione professionale per i giovani detenuti, fino all’assistenza legale e spirituale. Questi interventi mirano a reintegrare i ragazzi nella società una volta rilasciati, aiutandoli a costruire un futuro dignitoso e pieno di possibilità. L’obiettivo è chiaro: offrire non solo un aiuto immediato, ma creare un percorso che consenta ai giovani di sviluppare le proprie potenzialità e contribuire attivamente alla rinascita del paese.

Le iniziative si estendono anche alla costruzione di centri di formazione professionale, scuole e strutture di accoglienza, con la speranza di ampliare il numero di giovani beneficiari e garantire un sostegno costante, giorno e notte. La testimonianza di successo di molti ex “ragazzi del cimitero” – alcuni dei quali sono diventati insegnanti, medici, avvocati e imprenditori – è la conferma tangibile che, con il giusto sostegno, la trasformazione è possibile.

Nonostante l’impegno e la dedizione, il percorso è costellato di ostacoli: la burocrazia, la corruzione, la diffidenza dei ragazzi e la mancanza di risorse rappresentano sfide quotidiane. Molti giovani, segnati da abusi e sfruttamento, faticano a fidarsi degli adulti, rendendo ancor più arduo il compito di instaurare un rapporto di fiducia e di offerta di un supporto reale e duraturo. Tuttavia, ogni piccolo successo – ogni giovane che ritrova la speranza e inizia a costruire un futuro – conferma l’importanza di questo lavoro umanitario.

Il percorso intrapreso da Lothar e dai suoi collaboratori testimonia che, nonostante le difficoltà, è possibile fare la differenza nella vita dei ragazzi abbandonati. La visione di una Liberia in cui ogni giovane possa realizzare il proprio potenziale si traduce in azioni concrete, dalla sensibilizzazione internazionale alla riabilitazione dei detenuti, passando per programmi educativi e progetti di accoglienza. Il lavoro, improntato su amore, solidarietà e una presenza costante, rappresenta un faro di speranza in un contesto in cui la disperazione sembra prevalere.

In un mondo segnato dall’abbandono e dalla povertà, le storie di rinascita dei ragazzi di strada e dei giovani detenuti sono un invito a credere che, con il giusto sostegno, ogni vita possa risorgere. Lothar Wagner continua a lottare per garantire a questi giovani non solo un riparo, ma anche la possibilità di riscrivere il proprio destino, dimostrando che la solidarietà può davvero cambiare il mondo.




Gran santo, gran manager

            Non è facile scegliere fra le centinaia di lettere inedite di don Bosco che abbiamo recuperato in questi ultimi decenni quelle che più meritano di essere presentate e commentate. Questa volta ne prendiamo una molto semplice, ma che in poche righe sintetizza tutto un progetto di opera educativa salesiana e ci offre tante altre interessanti notizie. Si tratta di quella scritta il 7 maggio 1877 ad un personaggio trentino, un certo Daniele Garbari, che a nome di due fratelli gli aveva più volte richiesto come poteva fondare un istituto educativo nella sua terra, come quelli che don Bosco stava fondando in tutta Italia, Francia e Argentina.

Pregiatissimo sig. Garbari,

La mia assenza da Torino fu cagione del ritardo a riscontrare alle sue lettere, che ho regolarmente ricevuto. Godo assai che questa nostra istituzione sia ben accolta in questi suoi paesi. Più sarà conosciuta e più sarà ben voluta dagli stessi governi; perciocché si voglia o non si voglia, ma i fatti ci assicurano che i giovanetti pericolanti bisogna aiutarli per farne buoni cittadini o mantenerli nel disonore entro le carceri.
Riguardo poi ad impiantare un istituto simile a questo nella città o nei paesi di Trento non occorre gran cosa per cominciare:
1° Un locale capace di ricoverare un certo numero di fanciulli, ma che abbiano nell’interno i rispettivi opifici o laboratori.
2° Qualche cosa che possa somministrare un po’ di pane al direttore ed alle altre persone che lo coadiuvano nell’assistenza e direzione.
I ragazzi sono sostenuti:
1° da quel poco di pensione mensile che taluni di essi possono pagare, oppure pagano i parenti o altre persone che li raccomandano.
2° Dal po’ di guadagno che dà il lavoro.
3° Dai sussidi dei municipi, dal governo, congregazioni di carità, e dalle oblazioni dei privati. In questa guisa si reggono tutte le nostre case di artigianelli, e coll’aiuto di Dio siamo andati avanti bene. Bisogna però ritenere per base che noi siamo sempre stati e saremo sempre per l’avvenire estranei ad ogni cosa che si riferisca alla politica.
Nostro scopo dominante è di raccogliere fanciulli pericolanti per farne dei buoni cristiani ed onesti cittadini. Questa sia la prima cosa da far bene comprendere alle autorità civili e governative.
Come prete poi io debbo essere in pieno accordo coll’autorità ecclesiastica; perciò quando si trattasse di concretare la cosa, io scriverei direttamente all’Arcivescovo di Trento, il quale per certo non opporrà difficoltà.
Eccole il mio pensiero preliminare. Continuando la pratica ed occorrendo altro lo scriverò. La prego di ringraziare da parte mia tutte quelle persone che mostransi a me benevole.
Ho voluto scrivere io stesso colla mia brutta calligrafia, altra volta cederò la penna al mio segretario, affinché più facilmente si possa leggere lo scritto.

Mi creda colla massima stima e gratitudine con cui ho l’onore di professarmi Di V. S. Stimabil.mo

Umile servitore Sac. Gio. Bosco Torino, 7 maggio 1877

Immagine positiva dell’opera salesiana
            Anzitutto la lettera ci informa come don Bosco, dopo l’approvazione pontificia della congregazione salesiana (1874), l’apertura della prima casa salesiana in Francia (1875) e la prima spedizione missionaria in America Latina (1875), era sempre occupatissimo nel visitare e sostenere le sue opere già esistenti e nell’accettare o meno le moltissime che gli venivano proposte in quegli anni da ogni parte. All’epoca della lettera aveva il pensiero di aprire le prime case delle Figlie di Maria Ausiliatrice oltre quella di Mornese – ben sei nel biennio 1876-1877 – e soprattutto gli interessava stabilirsi a Roma, dove da oltre 10 anni tentava inutilmente di avere una sede. Niente da fare. Un altro piemontese doc come don Bosco, un “prete del movimento” come lui, non era gradito in riva al Tevere, nella Roma Capitale già zeppa di invisi piemontesi, da certe autorità pontificie e da certo clero romano. Per tre anni dovette “accontentarsi” della “periferia” romana, vale a dire dei Castelli Romani e di Magliano Sabino.

            Paradossalmente capitava il contrario presso le amministrazioni cittadine e le stesse autorità di governo del Regno d’Italia, dove don Bosco contava, se non amici – avevano idee troppo distanti – almeno grandi estimatori. E per un motivo molto semplice, cui ogni governo era interessato: gestire il neonato paese Italia con cittadini onesti, operosi, rispettosi della legge, anziché popolare le carceri di “criminali” vagabondi, incapaci di mantenere sé e la propria famiglia con un proprio dignitoso lavoro. A distanza di tre decenni, nel 1900, il celebre antropologo e criminologo ebreo Cesare Lombroso avrebbe dato pienamente ragione a don Bosco quando scriveva: “Gli istituti salesiani rappresentano uno sforzo colossale e genialmente organizzati per prevenire il delitto, l’unico anzi che si sia fatto in Italia”. Come ben dice la lettera in questione, l’immagine delle opere salesiane in cui, senza schierarsi con i vari partiti politici, si educavano i ragazzi a diventare “buoni cristiani e onesti cittadini” era positiva, e ciò anche nell’impero austro-ungarico, cui all’epoca appartenevano il Trentino e la Venezia Giulia.

Tipologia di una casa salesiana
            Nel prosieguo della lettera don Bosco passava a presentare la struttura di una casa di educazione: ambienti dove poter ospitare i ragazzi (e sottintendeva almeno 5 cose: cortile per giocare, aule per studiare, refettorio per mangiare, camerata per dormire, chiesa per pregare) e “opifici o laboratori” dove insegnare un mestiere con cui i giovani potevano vivere ed avere un futuro una volta lasciato l’istituto. Quanto alle risorse economiche indicava tre cespiti: le minime pensioni mensili che i genitori-parenti dei ragazzi potevano pagare, il piccolo guadagno dei laboratori artigianali, i sussidi della beneficienza pubblica (governo, municipi) e soprattutto privata. Era esattamente l’esperienza di Valdocco. Ma don Bosco qui taceva una cosa importante: la totale consacrazione alla missione educativa del direttore e dei suoi stretti collaboratori, preti e laici, i quali al prezzo di un tozzo di pane e di un letto spendevano le 24 ore del giorno in lavoro, preghiera, insegnamento e assistenza. Così almeno si faceva nelle case salesiane dell’epoca, apprezzatissime tanto dalle autorità civili, quanto da quelle religiose, i vescovi anzitutto, senza il cui assenso evidentemente non si poteva fondare una casa “che educava evangelizzando e evangelizzava educando” come quella salesiana.

Risultato
            Non sappiamo se ci fu un seguito di questa lettera. Di certo il progetto di fondazione salesiana del sig. Garbari non andò in porto. E così decine di altre proposte di fondazioni. Ma è storicamente accertato che tanti altri istitutori, sacerdoti e laici, in tutta Italia si ispirarono all’esperienza di don Bosco fondando opere similari, ispirate al suo modello educativo e al suo sistema preventivo.
            Il Garbari dovette ritenersi comunque soddisfatto: don Bosco gli aveva suggerito una strategia che a Torino e altrove funzionava… e poi aveva nelle proprie mani un suo autografo, che per quanto di difficile “decifrazione”, era sempre quello di un santo. Tant’è che lo ha conservato gelosamente e oggi è custodito nell’Archivio Salesiano Centrale di Roma.




Come trovare le risorse per costruire una chiesa

Un segreto da individuare
Si sa, la fama di don Bosco e delle sue capacità realizzatrici si diffondeva in Italia. Visto infatti che riusciva in tante imprese, molti gli chiedevano consigli su come riuscire a fare altrettanto.
Come trovare i fondi per costruire una chiesa? Glielo chiese espressamente la signora Marianna Moschetti di Castagneto di Pisa (oggi Castagneto Carducci-Livorno) nel 1877. La risposta di don Bosco l’11 aprile, nella sua brevità e semplicità, è ammirevole.

Punto di partenza: conoscere la situazione
Anzitutto con la saggezza pratica che gli veniva dall’educazione familiare e dall’esperienza di fondatore-costruttore-realizzatore di tanti progetti, don Bosco mette le mani avanti e intelligentemente scrive che “sarebbe necessario potersi parlare per esaminare quali progetti si possono fare e quali probabilità vi abbia di poterli effettuare”. Senza un sano realismo i migliori progetti rimangono un sogno. Il santo però non vuole scoraggiare subito la sua corrispondente, per cui aggiunge immediatamente “quello che mi pare bene nel Signore”.

In nomine Domini
Incomincia bene, si direbbe, con questo “nel Signore”. Difatti il primo, e dunque il più importante consiglio che dà alla signora, è quello di “Pregare ed invitare altri a pregare e fare delle Comunioni a Dio, come mezzo efficacissimo per meritarci le sue grazie”. La chiesa è la casa del Signore, che non mancherà di benedire un progetto di chiesa se sarà avanzato da chi confida in Lui, da chi Lo prega, da chi vive la vita cristiana e si serve dei mezzi indispensabili. Una vita di grazia merita certamente le grazie del Signore (don Bosco ne è convinto), anche se tutto è grazia: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori”.

La collaborazione di tutti
La chiesa è la casa di tutti; certo il parroco ne è il primo responsabile, ma non l’unico. Dunque i laici devono sentirsi corresponsabili e fra loro i più sensibili, i più disponibili, magari i più capaci (quelli che oggi potrebbero far parte del Consiglio pastorale e del Consiglio economico di ogni parrocchia). Ecco allora il secondo consiglio di don Bosco: “Invitare il Parroco a mettersi alla testa di due comitati numerosi, per quanto è possibile. Uno di uomini, l’altro di donne. Ciascun membro di questo comitato si firmi per un’oblazione divisa in tre rate, una per anno”.
Notiamo: due comitati, uno maschile e uno femminile. Certo, l’epoca vedeva normalmente separate le associazioni maschili e femminili di una parrocchia; ma perché anche non vedervi una giusta e leale “concorrenza” nel fare il bene, nel gestire un progetto con le proprie forze, ciascun gruppo “a suo modo”, con le sue strategie? Don Bosco sapeva quanto lui stesso era economicamente debitore al mondo femminile, alle marchese, alle contesse, alle nobildonne in genere: solitamente più religiose dei mariti, più generose nelle opere di carità, più disponibili “a soccorrere le necessità della Chiesa”. Puntare su di loro era saggezza.

Allargare la cerchia
Ecco infatti don Bosco aggiungere subito: “Nel tempo stesso ognuno cerchi oblatori in danaro, in lavoro, o in materiali. Per esempio invitare chi faccia fare un altare, il pulpito, i candelieri, una campana, i telai delle finestre, la porta maggiore, le minori, i vetri ecc. Ma una cosa sola caduno”. Bellissimo. Ognuno si doveva impegnare in qualche cosa che poteva giustamente ritenere un suo personale dono alla chiesa in costruzione.
Don Bosco non aveva fatto studi di psicologia, ma sapeva – come sanno tutti i parroci e non solo loro – che solleticando il legittimo orgoglio delle persone si può ottenere molto anche in fatto di generosità, di solidarietà, di altruismo. Del resto in tutta la sua vita aveva avuto bisogno di altri: per studiare da fanciullo, per andare alle scuole di Chieri da giovane, per entrare in seminario da chierico, per iniziare la sua opera da prete, per svilupparla da fondatore.

Un segreto
Don Bosco fa poi il misterioso con la sua corrispondente: “Se potessi parlare col Parroco potrei in confidenza suggerire altro mezzo; ma mi rincresce affidarlo alla carta”. Di che si trattava? Difficile dirlo. Si potrebbe pensare alla promessa d’indulgenze speciali per tali benefattori, ma sarebbe occorso rivolgersi a Roma e don Bosco sapeva quanto questo fatto poteva suscitare difficoltà con il vescovo e con altri parroci impegnati pure loro sugli stessi fronti edilizi. Forse più probabile era un invito, riservatissimo, di cercare l’appoggio di autorità politiche perché ne sostenessero la causa. Il suggerimento sarebbe però stato meglio farlo oralmente, per non compromettersi né di fronte alle autorità civili, né a quelle religiose, in tempi di durissima opposizione fra loro, con la Sinistra storica al potere, più anticlericale della precedente Destra.
Che poteva dire di più? Una cosa importante per entrambi: la preghiera. E difatti così si commiata dalla sua corrispondente: “Io pregherò che ogni cosa vada bene. L’unico mio appoggio è sempre stato il ricorso a Gesù Sacramentato, ed a Maria Ausiliatrice. Dio la benedica e preghi per me che le sarò sempre in G.C.”.




Il lavoro dei salesiani nel Maghreb

I Salesiani sono presenti in 136 paesi del mondo, tra cui diversi paesi del Nord Africa, dove dallo scorso anno è stata creata una nuova circoscrizione che abbraccia Tunisia, Marocco ed Algeria.

Quando abbiamo contattato il missionario don Domenico Paternò, prete salesiano, per chiedere di condividerci qualche pennellata della presenza salesiana in Nord Africa, ha voluto iniziare con una riflessione sul Mar Mediterraneo.

Il Mediterraneo non è solo un mare geograficamente molto conosciuto ma è una vera e propria culla di civiltà che attorno ad esso sono cresciute nei millenni dando alla umanità intera contributi di culture, conoscenze, esperienze umane, sociali, politiche che ancora oggi sono oggetto di studio e approfondimento.
Tutti i paesi che sono bagnati da quello che i romani chiamavano “Mare Nostrum” hanno una storia ricchissima e sono tutti portatori in vario modo di ricchezze culturali e naturali importanti.
Inoltre, il Mediterraneo, confine naturale tra Europa e Africa, ha una rilevanza geopolitica e strategica non indifferente.

Se dall’Europa attraversiamo il Mediterraneo, giungiamo nel Maghreb, regione nordafricana che sta conoscendo sempre più il carisma di don Bosco. Lo scorso anno, infatti, è stata ufficialmente creata la Circoscrizione speciale del Africa Nord (“CNA”), il 28 Agosto, festa di sant’Agostino, a cui è stata dedicata la circoscrizione, che comprende Marocco, Algeria e Tunisia. Si tratta di una nuova frontiera missionaria piena di sfide e di opportunità.

Il Maghreb ha chiare radici romane, classiche, era denominato “Afriquia”, dando così il nome a tutto il continente che da qui ha inizio. I figli di don Bosco che, per inciso, sono presenti in quasi tutti i paesi che si affacciano nel Mediterraneo onde per cui hanno costituito la Regione Mediterranea della Congregazione, hanno di recente deciso di sviluppare la loro presenza e il loro servizio tra i giovani di questi paesi. Il Maghreb non è “la parte sbagliata” del Mediterraneo, come dicono soggetti male informati, ma è invece una zona geografica, umana e culturale che non si finisce mai di scoprire ed apprezzare!
I salesiani sono interessati all’educazione dei tantissimi giovani che affollano questi paesi: la popolazione sotto i 25 anni arriva ad essere quasi il 50% della popolazione totale. Si tratta, quindi, di paesi ricchi di speranza e di futuro. Lo scopo dei salesiani e dei loro collaboratori è di sostenere e di sviluppare il sogno di questi giovani.

Un “sogno che fa sognare” ci indica la Strenna del nostro Rettor Maggiore di quest’anno, ricordando il bicentenario del sogno dei nove anni di don Bosco, e se questo è vero nella vita salesiana di ogni luogo, in Maghreb è ancora più vero e significativo. La presenza attuale dei figli di don Bosco vuole concretizzare e attuare il sogno del Fondatore e far sì che i “lupi” possano diventare agnelli non solo pacifici ma costruttori di pace e di sviluppo. Ed ecco che, anche se con religioni diverse, cristiani gli uni e musulmani gli altri, tutti discendenti di Abramo, ci ritroviamo a camminare insieme per il bene dei giovani e delle famiglie che stanno attorno a noi e con noi. La scuola, l’oratorio, la formazione al lavoro, il cortile, la formazione umana e religiosa, la condivisone di gioie e dolori, la conoscenza reciproca e la dignità che ognuno riconosce agli altri, lo spirito di famiglia e collaborazione, tutto questo ci aiuta a camminare insieme e fare concretamente del bene a tutti.
Qual è l’obiettivo dei Salesiani che lavorano in questi paesi?
A questa domanda, la risposta è molto semplice: nel Maghreb i figli di don Bosco ogni giorno si impegnano per il bene comune, ovvero divenire, come voleva don Bosco “onesti cittadini” e “buoni credenti”, ognuno nella sua fede, senza rinunciare alla testimonianza di vita cristiana, nel rispetto della cultura e della religione altrui.

Pur con alcuni elementi comuni, ogni paese ha le sue peculiarità che lo contraddistinguono.

In Marocco i salesiani sono presenti dal 1950 a Kenitra, una grande città sulla costa atlantica tra Rabat e Tangeri.
Il lavoro non manca, in campo educativo, ricreativo, di fede di accoglienza. I salesiani animano scuole di vario livello e tipo: una scuola primaria, una scuola secondaria e un centro di formazione professionale. Si risponde così al bisogno di istruzione e di ricerca di occupazione dei tanti giovani marocchini per dare loro maggiori opportunità nella vita.
Inoltre, vengono organizzate tante attività sportive e associative in linea con il Sistema Preventivo di don Bosco.
La Parrocchia di Cristo Re sostiene la fede della minoranza cristiana ed è frequentata soprattutto da giovani studenti africani che studiano in Marocco e da europei che sono in città. Altre opere specifiche sono due case per giovani migranti, una casa per l’infanzia e la formazione al lavoro delle ragazze. Tutte queste iniziative coinvolgono oltre 1500 persone tra ragazzi, personale, famiglie ed altri destinatari, che sono, tranne la parrocchia, tutti musulmani e tutti uniti nello stile di don Bosco di famiglia inclusiva e di aiuto reciproco. La presenza salesiana in Marocco ha un punto di riferimento nell’arcivescovo di Rabat, il cardinale salesiano Cristóbal López Romero, già missionario in Paraguay, prima di approdare in Marocco dal 2003 al 2011 e tornare dopo nove anni come pastore dell’arcidiocesi. Fino allo scorso anno, il Marocco era affidato all’Ispettoria di Francia (FRB). Oltre che con la gente, l’esperienza interculturale si vive anche nella comunità salesiana, composta da quattro sacerdoti, da Francia, Spagna, Polonia e Rep. Democratica del Congo.

Altro paese maghrebino con due presenze salesiane è la Tunisia, dove, a Manouba e Tunisi, i salesiani gestiscono due scuole primarie, una scuola secondaria, un nascente centro di formazione professionale, due oratori, attività di collaborazione con la chiesa locale, una parrocchia ad Hammamet per residenti italiani ed europei ed altre iniziative particolari. È una presenza in crescita a cui recentemente sono stati affidati nuovi missionari, anche qui provenienti da diversi paesi: Italia, Siria, Libano, Spagna, Rep. Democratica Del Congo, Ciad.
È un’esperienza di famiglia e, in particolare, di Famiglia Salesiana, con due comunità di Figlie di Maria Ausiliatrice, gli “Amici di don Bosco”, gruppo di laici musulmani vicini al carisma di don Bosco, e tanti laici impegnati a vario titolo. La speranza è di far nascere anche un gruppo di Salesiani Cooperatori. Complessivamente almeno 3000 persone sono coinvolte nell’azione educativa. Fino allo scorso anno, l’ispettoria della Sicilia curava la presenza salesiana in Tunisia e proprio don Domenico Paternò, originario di Messina, arrivato a Manouba più di dieci anni fa, è stato nominato superiore.

Arriviamo così all’ultimo paese, una delle nuovissime frontiere missionarie per la Congregazione Salesiana, ancora in definizione per i dettagli sui luoghi e sul personale: l’Algeria, dove a breve arriveranno i primi salesiani.
In realtà, bisogna dire che l’Algeria è stato il primo paese in Africa in cui sono approdati i salesiani addirittura nel diciannovesimo secolo, nel lontano 1891, ad Orano, dove c’era un oratorio. Successivamente ci sono state altre due aperture nella capitale Algeri, ma dopo diversi anni la situazione politica instabile ed ostile non ha permesso di continuare il lavoro e ha costretto alla chiusura definitiva delle opere nel 1976. I salesiani rispondono così all’invito dell’arcivescovo di Algeri dopo un dialogo e uno studio di alcuni anni.

A questo quadro della presenza salesiana nel Maghreb, c’è da considerare che molteplici sono le attività con le comunità religiose e con la società civile nelle quali i Salesiani sono coinvolti. Per completezza e serietà di informazione non possiamo dimenticare le difficoltà che ci sono e che certamente danno anche motivi di difficoltà, non sempre superabili. Basti pensare la lingua che non è facile, il contesto socio-economico piuttosto fragile spesso per motivi di politica internazionale, le famiglie in difficoltà, la disoccupazione giovanile, grande piaga di tutta la regione, l’assenza di politiche giovanili efficaci e capaci di dare futuro. Ma nonostante le innegabili sfide, grande è la possibilità e la speranza di un positivo sviluppo non solo economico ma anche umano e sociale. Talvolta si manifestano segni di intolleranza e radicalismo irragionevole ma sono fenomeni molto ridotti. Sono società giovani e per questo aperte all’avvenire “più futuro che passato”, come diceva don Egidio Viganò.

Nei mesi passati, la Circoscrizione Speciale del Nord Africa ha vissuto le sessioni del primo Capitolo Ispettoriale sul tema del Capitolo Generale 29: “Appassionati per Gesù Cristo, dedicati ai giovani. Per un vissuto fedele e profetico della nostra vocazione salesiana”. Don Domenico Paternò ha sottolineato come sia una grazia vivere questo momento dopo pochi mesi di esistenza della Circoscrizione. I capitolari hanno elaborato il Direttorio Ispettoriale e il Progetto Educativo Pastorale Salesiano Ispettoriale, primi passi fondamentali per lo sviluppo futuro della presenza salesiana.

Nell’ultima spedizione missionaria salesiana, due salesiani sono stati assegnati alla circoscrizione Nord Africa: i coadiutori Joseph Ngo Duc Thuan (dal Vietnam) e Kerwin Valeroso (dalle Filippine), attualmente in Francia, a Parigi, per lo studio della lingua francese.
La Congregazione Salesiana, guidata dallo Spirito Santo, accoglie con coraggio e determinazione la sfida di queste nuove frontiere ed è pronta a scommetterci per donare un rinnovato entusiasmo missionario e raggiungere sempre più giovani poveri ed abbandonati in ogni parte del mondo.

Marco Fulgaro




Zatti buon samaritano, per malati, medici e infermieri (video)

«Zatti-hospital»
Zatti e l’ospedale erano un binomio inscindibile. Padre Entraigas ricorda che quando c’era una chiamata telefonica il coadiutore rispondeva quasi a scatto: «Zatti-Hospital». Senza darsene conto egli esprimeva la realtà inscindibile tra la sua persona e l’ospedale. Divenuto responsabile dell’ospedale nel 1913 dopo la morte di padre Garrone e l’abbandono della Congregazione da parte di Giacinto Massini, egli poco a poco ne assunse ogni compito, ma fu prima di tutto e inconfondibilmente l’«infermiere» del San José. Non procedette alla buona nella preparazione, ma cercò di perfezionare anche con lo studio personale quanto aveva appreso empiricamente. Continuò a studiare per tutta la vita e soprattutto acquisì un’esperienza di grande livello grazie ai 48 anni di pratica al San José. Il dottor Sussini, che fu tra coloro che lo praticarono più a lungo, dopo aver affermato che Zatti curava i malati «con santa vocación» aggiunge: «Per quanto ne so, il Sig. Zatti, da quando lo conobbi, essendo uomo maturo, già formato, non aveva trascurato la sua cultura generale, né le sue conoscenze di infermieristica e di farmacista preparatore».
Padre De Roia così parla dell’aggiornamento professionale di Zatti: «A proposito di formazione culturale e professionale ricordo di aver visto libri e pubblicazioni di medicina e di avergli chiesto una volta quando li leggesse, mi rispose che lo faceva di notte o durante l’ora della siesta dei malati, una volta che aveva finito i suoi compiti in ospedale. Mi ha anche detto che il dottor Sussini a volte gli prestava qualche libro e ho visto che consultava spesso il “Vademecum e ricettari”».
Il dottor Pietro Echay afferma che per Zatti «el Hospital era un Santuario». Padre FelicianoLópez così descrive la posizione di Zatti all’ospedale, dopo lunga consuetudine con lui: «Zatti era un uomo di governo, sapeva esprimere con chiarezza quello che voleva, ma accompagnava l’azione di governo con dolcezza, rispetto e gioia. Mai perdeva la calma, anzi, bonariamente minimizzava le cose, ma il suo esempio di operosità era travolgente e più che un direttore, senza titolo, era diventato una specie di lavoratore universale; a parte questo, avanzò rapidamente in competenza professionale, fino a raggiungere anche il rispetto dei medici e ancor più dei subordinati: per questo non ho mai sentito dire che in quel piccolo mondo di 60 o 70 ricoverati, nei primi tempi parecchie suore, donne che prestavano il loro servizio ed alcune infermiere, non regnasse sempre la pace, e anche se, come è logico, a volte c’erano delle liti, queste non degeneravano grazie alla prudenza di Zatti che sapeva rimediare alle deviazioni».
L’Ospedale San José era un particolare santuario della sofferenza umana dove Artemide in ogni fratello e sorella in difficoltà abbracciava e curava la carne sofferente di Cristo, dando senso e speranza al soffrire umano. Zatti – e con lui tanti uomini e donne di buona volontà – ha incarnato la parabola del Buon Samaritano: si è fatto prossimo, ha teso la mano, ha sollevato, ha curato. Per lui ogni infermo era come un figlio da amare. Uomini e donne, grandi e piccoli, ricchi e poveri, intelligenti e ignoranti tutti erano trattati in modo rispettoso e amabile, senza infastidirsi o respingere quelli insolenti e poco simpatici. Era solito dire: «A volte ti può capitare uno con una faccia simpatica, altre volte uno antipatico, però davanti a Dio siamo tutti uguali».
Se c’era povertà di mezzi, e se poveri erano molti di coloro che erano ricoverati, tuttavia Zatti all’ospedale, dati i tempi, i luoghi e le situazioni di tutti gli ospedali anche nazionali di allora, seguiva le corrette norme di sanità e igiene. Si procedeva allora con criteri più larghi, ma non risulta affatto che il salesiano coadiutore, come infermiere, verso i malati abbia mancato di giustizia e di carità. Aveva buona cultura per il suo compito e buona esperienza, sapeva quello che doveva fare e i limiti delle sue competenze, non c’è ricordo di qualche errore, di qualche trascuratezza o di qualche accusa contro di lui. Il dottor Sussini ha affermato: «Negli interventi con i malati sempre rispettava le norme legali, senza eccedere nei suoi poteri […]. Tengo a precisare che in tutti i suoi interventi consultava qualche medico tra quelli che stavano sempre al suo fianco per sostenerlo. Per quanto ne so, non ha effettuato nessun intervento difficile […]. È certo che usava le prescrizioni igieniche stabilite, anche se talvolta, data la sua grande fede, le riteneva eccessive. Lo scenario socioeconomico in cui il Sig. Zatti svolse principalmente la sua attività era di scarsa economia e istruzione e in genere di bassa istruzione. Nella sua azione all’interno dell’ospedale metteva in pratica le consolidate conoscenze di igiene e tecnica che già conosceva e altre che apprendeva chiedendo ai professionisti. Fuori dall’ospedale, la sua azione era più difficile poiché modificare l’ambiente esistente era molto difficile e al di là dei suoi sforzi».
Luigi Palma allarga la sua considerazione: «Era voce corrente a Viedma la discrezione e la prudenza del comporta-mento del Sig. Zatti; d’altra parte, qualsiasi abuso in questa materia sarebbe rapidamente risaputo in un piccolo agglomerato come Viedma e non si è mai sentito nulla. Il Sig. Zatti non ha mai ecceduto dalla sua competenza. Non credo che abbia eseguito operazioni difficili. Se ci fosse stato qualche abuso, i medici l’avrebbero segnalato, ma questi non hanno fatto altro che elogiare l’opera di Zatti […]. Il Sig. Zatti utilizzava le dovute precauzioni igieniche. Lo so perché mi ha curato in più occasioni: iniezioni o piccole cure con tutta la diligenza del caso».
A un uomo che ha speso tutta la vita con enorme sacrificio per i malati, che era ricercato da loro come una benedizione, che ha conquistato la stima di tutti i dottori che hanno collaborato con lui e contro cui mai poté essere elevata una voce di accusa, risulterebbe ingiusto rinfacciare qualche libertà che la sua esperienza e prudenza gli potevano permettere in qualche particolare circostanza: l’esercizio sublime della carità, anche in questo caso, valeva più dell’osservanza di una prescrizione formale.

Con il cuore di don Bosco
In Zatti si realizzato ciò che Don Bosco aveva raccomandato ai primi missionari salesiani in partenza per l’Argentina: «Prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri, e guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini». Zatti come Buon Samaritano ha accolto nella locanda del suo cuore e nell’Ospedale San José di Viedma i poveri, gli infermi, gli scartati dalla società. In ciascuno di essi ha visitato Cristo, ha curato Cristo, ha alimentato Cristo, ha vestito Cristo, ha ospitato Cristo, ha onorato Cristo. Come testimoniò un medico dell’ospedale: «L’unico miracolo che ho visto nella mia vita è il Sig. Zatti, per la straordinarietà del suo carattere, la capacità di servizio al prossimo e la straordinaria pazienza con gli infermi».
Zatti seppe riconoscere in ogni fratello, in ogni sorella, in ogni persona soprattutto povera e bisognosa che incontrava un dono: riuscirà a vedere in ciascuno di loro il volto luminoso di Gesù. Quante volte esclamerà accogliendo un povero o un infermo: «Gesù viene! – Cristo arriva!». Questo tener fisso lo sguardo su Gesù, soprattutto nell’ora della prova e della notte dello spirito, sarà la forza che gli permetterà di non cadere prigioniero dei propri pensieri e delle proprie paure.
Nell’esercizio di tale carità, Zatti faceva trasparire l’abbraccio di Dio per ogni uomo, in particolare per gli ultimi e i sofferenti, coinvolgendo cuore, anima e tutto il suo essere, perché viveva con i poveri e per i poveri. Non era semplice prestazione di servizi, ma manifestazione tangibile dell’amore di Dio, riconoscendo e servendo nel povero e nell’ammalato il volto del Cristo sofferente con la delicatezza e la tenerezza di una madre. Vivendo con i poveri praticava la carità con spirito di povertà. Non era un funzionario o un burocrate, un prestatore di servizi, ma un autentico operatore di carità: e nel vedere, riconoscere e servire Cristo nei poveri e negli esclusi, educava anche gli altri. Quando chiedeva qualcosa, lo chiedeva per Gesù: «Mi dia un vestito per un Gesù vecchietto»; «Mi dia dei vestiti per un Gesù di 12 anni!».
Impossibile non ricordare le sue avventure in bicicletta, i suoi giri instancabili, con il suo classico spolverino bianco con le estremità annodate e allacciato in vita, salutato con tenero affetto da quanti incontrava sul suo cammino. Nel lento procedere con la bicicletta aveva tempo per tutto: il saluto affettuoso, la parola cordiale, il consiglio misurato, qualche indicazione terapeutica, un aiuto spontaneo e disinteressato: le sue ampie tasche erano sempre piene di medicinali, che distribuiva a piene mani ai bisognosi. Raggiungeva personalmente coloro che lo chiamavano, prodigando non solo le sue conoscenze mediche, che possedeva ben solide, ma anche la fiducia, l’ottimismo, la fede che irradiava il suo sorriso costante, ampio e dolce e la bontà del suo sguardo; l’infermo gravemente ammalato che riceveva la visita del Sig. Zatti ne sentiva il sollievo imponderabile che gli dispensava colui che stava al suo fianco; l’infermo che moriva con la presenza di Zatti lo faceva senza angosce né contorsioni. La carità dispensata tanto generosamente per le strade fangose di Viedma ha ben meritato che Artemide Zatti fosse ricordato in città con una via, un ospedale e un monumento a suo nome.
Esercitava un apostolato spicciolo che dava la misura della sua carità, ma che comportava per lui tempo, lavoro, difficoltà e fastidi molteplici. Siccome era a tutti nota la sua bontà e la sua buona volontà nel servire gli altri, tutti si rivolgevano a lui per le cose più disparate. I direttori salesiani delle case dell’ispettoria scrivevano per consigli medici, gli mandavano confratelli da assistere, affidavano al suo ospedale persone di servizio diventate inabili. Le Figlie di Maria Ausiliatrice non erano da meno dei salesiani nel chiedere favori. Gli emigranti italiani chiedevano aiuti, facevano scrivere in Italia, sollecitavano pratiche. Coloro che erano stati ben curati all’ospedale, quasi fosse espressione di gratitudine, gli inviavano parenti e amici da assistere per la stima che avevano delle sue cure. Le autorità civili avevano spesso persone inabili da sistemare e ricorrevano a Zatti. I carcerati e altre persone, vedendolo in buoni rapporti con le autorità, si raccomandavano perché chiedesse clemenza per loro o facesse procedere la soluzione dei loro problemi.
Un fatto che esprime bene la forza autorevole di Zatti nell’incidere nella vita delle persone con la sua testimonianza evangelica e la parola persuasiva è la conversione di Lautaro Montalva. Costui, detto il Cileno dal paese d’origine, era un rivoluzionario, sfruttato dai soliti agitatori politici. Diffondeva riviste contro la religione. Abbandonato infine da tutti, cadde in miseria e fu ridotto in fin di vita, con una numerosa famiglia. Solo Zatti ebbe il coraggio di entrare nella sua stamberga di legno, resistere alla sua prima reazione di ribellione e conquistarlo con la sua carità. Il rivoluzionario si ammansì e chiese di essere battezzato: furono battezzati anche i suoi figli. Zatti lo ricoverò all’ospedale. Poco prima di morire aveva chiesto al parroco: «Datemi i sacramenti che deve ricevere un cristiano!». La conversione del Montalva fu una conquista della carità e del coraggio cristiano di Zatti.
Zatti fa della missione a servizio dei malati il proprio spazio educativo dove incarnare quotidianamente il Sistema preventivo di Don Bosco – ragione, religione, amorevolezza – nella vicinanza e assistenza ai bisognosi, nell’aiuto a comprendere e accettare le situazioni dolorose della vita, nella testimonianza viva della presenza del Signore.

Zatti infermiere
Il profilo professionale di Artemide Zatti, iniziato con una promessa, era radicato nella fiducia nella Provvidenza e si sviluppò una volta guarito dalla malattia. La frase “Credetti, Promisi, Guarii”, motto della sua canonizzazione, mostra la totale dedizione che Zatti aveva per i suoi fratelli malati, i più poveri e bisognosi.
Questo impegno lo portò avanti quotidianamente fino alla sua morte nell’ospedale di San José, fondato dai primi salesiani arrivati in Patagonia, e lo ribadiva durante in ogni visita domiciliare, urgente o meno, che faceva ai malati che avevano bisogno di lui.
In bicicletta, nel suo ufficio di amministratore, in sala operatoria, nel cortile durante la ricreazione con i suoi poveri “parenti”, nei reparti dell’ospedale che visitava ogni giorno, era sempre un infermiere; un santo infermiere dedito a curare e alleviare, portando la migliore medicina: la presenza allegra e ottimista dell’empatia.

Una persona e una squadra che fanno del bene
Era la fede che spingeva Artemide Zatti ad un’attività instancabile, ma ragionevole. La sua consacrazione religiosa lo aveva introdotto direttamente e completamente nella cura dei poveri, dei malati e di coloro che hanno bisogno della salute e della consolazione misericordiosa di Dio.
Il sig. Zatti lavorava nel mondo della sanità a fianco di medici, infermieri, personale sanitario, Figlie di Maria Ausiliatrice e di tante persone che collaborarono con lui al sostegno dell’ospedale San José, il primo della Patagonia argentina, nella Viedma della prima metà del XX secolo.
La tubercolosi che contrasse all’età di vent’anni non fu un ostacolo a perseverare nella sua scelta professionale. Egli trovò nella figura del salesiano coadiutore lo stile dell’impegno a lavorare direttamente con i poveri. La sua consacrazione religiosa, vissuta nella sua professione di infermiere, è stata la combinazione della sua vita dedicata a Dio e ai fratelli. Naturalmente questo si è manifestato in una personalità peculiare, unica e irripetibile. Artemide Zatti era una persona buona, che lavorava direttamente con i poveri, facendo del bene.

Il contatto diretto con i poveri era finalizzato alla salute, cioè a lenire il dolore, a sopportare la sofferenza, ad accompagnare gli ultimi momenti della loro vita, ad offrire un sorriso di fronte all’irreversibile, a dare una mano con speranza. Per questo motivo, Zatti divenne una “presenza-medicina”: curava direttamente con la sua gradevole presenza.
Il suo principale biografo, il salesiano Raul Entraigas, ha fatto una scoperta originale. Individuò nella frase di un compaesano la sintesi della vita di Artemide Zatti: sembra essere “il parente di tutti i poveri”. Zatti vede Gesù stesso negli orfani, nei malati e negli indigeni. E li trattava con tanta vicinanza, apprezzamento e amore, che sembrava che fossero tutti suoi familiari.

Formarsi per aiutare
Vedendo i bisogni del villaggio, Zatti perfezionò la sua professione. Gradualmente divenne responsabile dell’ospedale, studiò e convalidò le sue conoscenze con lo Stato quando gli venne richiesto. I medici che lavoravano con Artemide, come i dottori Molinari e Sussini, testimoniano che Zatti possedeva una grande conoscenza medica, frutto non solo della sua esperienza, ma anche dei suoi studi.
Don De Roia aggiunge: “Per quanto riguarda la sua formazione culturale e professionale, ricordo di aver visto libri e pubblicazioni di medicina e, chiedendogli una volta quando li leggeva, mi disse che lo faceva la sera o durante il riposo pomeridiano dei pazienti, una volta finite tutte le mansioni all’Ospedale”.
Esiste a tal proposito un documento, “Credenziali Professionali”, rilasciato dalla Segreteria della Salute Pubblica della Nazione Argentina con tanto di matricola professionale di infermiere numero 07253. Furono gli studi che aveva realizzato all’Università Nazionale di La Plata nel 1948, all’età di 67 anni. A ciò si aggiunge una precedente certificazione, nel 1917, come “Idoneo” in Farmacia.
Il suo stile di vita lo portò ad un impegno in cui incontrava direttamente i poveri, i malati, i più bisognosi. Per questo la professione infermieristica aveva un valore aggiunto: la sua presenza era una testimonianza della bontà di Dio. Questo semplice modo di guardare la realtà possa aiutare a capire meglio la vita di Zatti, prestando particolare attenzione al termine “direttamente”.
In questa prospettiva troviamo ciò che di più genuino c’è in Zatti, che evidenzia ciò che si definisce “vita religiosa” o “consacrazione”. Per questo Artemide è un salesiano santo. È un infermiere santo. Questa è l’eredità che ha lasciato a tutti. E questa è la sfida che lancia a tutti e che invita a raccogliere.

1908
Guarita la salute, Zatti entrò nella Congregazione Salesiana come coadiutore. Inizia ad occuparsi della farmacia dell’ospedale San José, l’unico a Viedma.
1911
Dopo la morte di don Evasio Garrone, direttore dell’ospedale, Zatti resta a capo della farmacia e dell’ospedale, il primo in Patagonia. Ci ha lavorato per quarant’anni.
1917
Ha conseguito il titolo di “Idóneo in Farmacia” presso l’Università di La Plata.
1941
L’edificio dell’ospedale viene demolito. Pazienti e professionisti si trasferiscono con Zatti alla scuola agraria “San Isidro”.
1948
Zatti ottiene l’iscrizione all’Infermieristica presso l’Università di La Plata.

Zatti con i medici: era un padre!
Tra i principali collaboratori di Zatti all’Ospedale San José vi furono i medici. I rapporti erano delicati, perché un medico era il direttore dell’ospedale dal punto di vista legale e aveva la responsabilità professionale sui malati. Zatti aveva la responsabilità organizzativa e infermieristica e potevano sorgere contrasti. Dopo i primi anni, a Viedma, capitale del Rio Negro, e a Patagones vennero parecchi medici e Zatti doveva servirsi delle loro specializzazioni all’ospedale senza destare rivalità. Agì in modo tale da conquistare la stima di tutti per la sua bontà e competenza. Nella documentazione troviamo i nomi dei direttori dottor Riccardo Spurr e dottor Francesco Pietrafraccia; poi di Antonio Gumersindo Sussini, di Ferdinando Molinari, di Pietro Echay, di Pasquale Attilio Guidi e Giovanni Cadorna Guidi, che deporranno circa la santità di Zatti; e infine di Harosteguy, di Quaranta e Cessi. Altri certo ce ne furono, più di passaggio, perché, dopo un periodo di tirocinio, i medici aspiravano a sedi più centrali e sviluppate. È unanime il riconoscimento che Zatti, come infermiere, era sottomesso alle indicazioni e norme dei dottori: presso tutti aveva un gran prestigio per la sua bontà e non destava rimostranze per l’assistenza da lui prestata ai malati degenti nella propria casa. Il dottor Sussini che lo seguì fino alla morte ha dichiarato: «Tutti i medici, nessuno escluso, gli manifestavano affetto e rispetto per le sue virtù personali, per la sua bontà, la sua misericordia e la sua fede pura, sincera e disinteressata»[i].
Il dottor Pasquale Attilio Guidi ha precisato: «Sempre corretto, seguiva le disposizioni dei medici. Ricordo che il dottor Harosteguy, che era abbastanza “contestatore”, nervoso, quando ero presente durante un’operazione, a volte incolpava il Sig. Zatti dei suoi problemi; ma alla fine delle operazioni lo accarezzava e gli chiedeva scusa. Così capivamo che non c’era tanta lamentela contro Zatti. Zatti era una persona stimata da tutti»[ii]. La figlia del dottor Harosteguy e il dottor Echay confermano il carattere forte di Harosteguy e gli ingiustificati scatti contro Zatti che lo conquistava con la sua sopportazione. Anzi proprio il dottor Harosteguy, quando si ammalerà, solo a Zatti permetterà di vistarlo, gradendo e apprezzando la sua presenza e vicinanza.
Il dottor Molinari testimoniò: «Il Sig. Zatti rispettava il corpo medico e ne seguiva rigorosamente le istruzioni. Ma dato il gran numero di pazienti che richiedevano esclusivamente il suo intervento, dovette agire molte volte spontaneamente, ma sempre sulla base delle sue grandi conoscenze, della sua esperienza e secondo le proprie conoscenze mediche. Mai osò un intervento chirurgico difficile. Sempre chiamava il dottore. Noi medici abbiamo avuto affetto, rispetto e ammirazione per il Sig. Zatti. Era generale questo sentimento […] Direi che i pazienti “adoravano” il Sig. Zatti e avevano cieca fiducia in lui»[iii].
Il dottor Echay fa questa singolare constatazione: «Con tutto il personale dell’ospedale Zatti era un padre; anche con noi medici più giovani era un buon consigliere»[iv]. A proposito delle visite che Zatti faceva in città, dice il dottor Guidi: «I medici non hanno mai visto negativamente quest’opera di Zatti, ma come collaborazione. […]. I pazienti da lui assistiti gli eleverebbero un monumento»[v].
Anche gli estranei videro sempre stretti rapporti di collaborazione e di stima tra Zatti e i dottori, come testimonia padre López: «Il comportamento del Sig. Zatti verso i dottori era da loro giudicato con spirito di cordiale accoglienza. Tutti i medici con cui ho parlato ne erano, senza eccezione, suoi ammiratori»[vi]. E ancora lo stesso padre López: «C’è sempre stata fama di amabilità di Zatti nei confronti dei dottori, la sua tolleranza e umanità di fronte alle scortesie tipiche di molti medici; in particolare il dottor Harosteguy era un uomo violento e la virtù di Zatti nei suoi confronti si può dedurre perché divenne un ammiratore di Zatti, con sfumature di venerazione»[vii]. Oscar Garcia usa un’espressione efficace: «I medici collaboravano con l’ospedale in buona parte perché lì c’era il Sig. Zatti con una carità che trascinava i cuori»[viii]. La sua vita scuoteva l’indifferenza religiosa di qualcuno di essi: «Quando vedo Zatti vacilla la mia incredulità»[ix]. In non pochi casi c’erano conversioni e inizi di vita cristiana.

Zatti e le infermiere: per noi era tutto!
Il gruppo più numeroso per il servizio dell’ospedale era costituito dalle collaboratrici femminili. Il San José aveva in certi momenti fino a 70 letti: è naturale che fossero necessarie infermiere professionalmente preparate, aiutanti di cucina, lavandaie e stiratrici, incaricate della pulizia e altro personale. Per le occupazioni più umili e ordinarie non era difficile trovare personale, perché la popolazione aveva molti elementi poveri e una sistemazione di lavoro all’ospedale sembrava apparire particolarmente ambita e sicura. Più difficile doveva essere trovare le infermiere per le quali, forse in tutta la nazione e certamente in Patagonia, non esistevano scuole di preparazione. Zatti dovette provvedere da sé: scegliere, formare, organizzare, assistere le infermiere, procurare i mezzi di lavoro, pensare a una ricompensa, a tal punto che egli risulta essere iniziatore nella formazione del personale femminile dell’ospedale.
La Provvidenza faceva giungere all’ospedale diverse giovani buone, ma povere, che dopo essere state assistite e guarite cercavano una sistemazione nella vita. Zatti si rendeva conto della loro bontà e disponibilità; mostrava col suo esempio e con la sua parola come fosse bello servire il Signore nei fratelli malati; e poi avanzava la proposta discreta di fermarsi con lui e condividere la missione all’ospedale. Le ragazze più buone sentivano la grandezza e la gioia di questo ideale e restavano al San José. Zatti si prendeva la responsabilità di prepararle professionalmente e – da buon religioso –ne curava la formazione spirituale. Esse vennero così a costituire in gruppo una specie di congregazione senza voti, di anime elette che sceglievano di servire i poveri. Zatti dava loro tutto il necessario per la vita, anche se ordinariamente non le pagava, e pensava a una buona sistemazione qualora volessero lasciare il servizio all’ospedale. Non dobbiamo pensare che la situazione in quei tempi richiedesse tutte le garanzie che oggi esigono le strutture ospedaliere. Per quelle ragazze la soluzione offerta da Zatti dal punto di vista materiale era invidiabile non meno che dal punto di vista spirituale. Di fatto esse erano contente e quando fu chiuso l’Ospedale San José, o prima, per nessuna fu difficile trovare una buona sistemazione. Coralmente manifestarono sempre espressioni di riconoscenza.
Padre Entraigas ricorda 13 nomi del personale femminile che in tempi diversi ha lavorato all’ospedale. Tra i documenti sono raccolte le relazioni delle infermiere: Noelia Morero, Teodolinda Acosta, Felisa Botte, Andrea Rafaela Morales, Maria Danielis. Noelia Morero racconta la sua storia, che fu identica a quella di parecchie altre infermiere. Giunse al San José malata: «Qui sono stata malata e poi ho iniziato a collaborare fino alla fine del 1944, quando mi sono trasferita all’Ospedale Nazionale Regionale di Viedma, aperto nel 1945 […]. Zatti era molto amato e rispettato da tutto il personale e dai pazienti; era “il panno delle lacrime” di tutti. Non ricordo lamentele di alcun genere contro di lui. Quando Zatti entrava nelle stanze, sembrava che entrasse “Dio stesso!”. Non saprei come dirlo. Per noi era tutto. Non ho conosciuto particolari difficoltà; da malata non mi è mai mancato nulla: né cibo, né medicine, né vestiti. Il Sig. Zatti si preoccupava soprattutto della formazione morale del personale. Ricordo che ci ha fatto imparare con lezioni pratiche, accompagnandolo nei momenti in cui visitava gli infermi e dopo una o due volte ce lo faceva fare soprattutto con i casi più gravi»[x].

Film visto prima della conferenza



Video de la conferenza: Zatti buon samaritano, per malati, medici e infermieri
Conferenza tenuta da don Pierluigi CAMERONI, Postulatore Generale della Società Salesiana di san Giovanni Bosco a Valdocco, nel 15.11.2023.




[i] Testimonianza del dottor Antonio Gumersindo Sussini. Positio – Summarium, p. 139, § 561.

[ii] Testimonianza di Attilio Guidi, farmacista. Conobbe Zatti dal 1926 al 1951. Positio – Summarium, p. 99, § 386.

[iii] Testimonianza del dottor Ferdinando Molinari. Conobbe Zatti dal 1942 al 1951. Divenne medico dell’Ospedale San José e nell’ultima malattia lo curò. Tenne il discorso ufficiale in occasione dell’inaugurazione del monumento a Zatti. Positio – Summarium, p. 147, § 600.

[iv] Testimonianza del dottor Pietro Echay. Positio – Informatio, p. 108.

[v] Testimonianza di Attilio Guidi. Positio – Summarium, p. 100, § 391.

[vi] Testimonianza di padre Feliciano López. Positio – Summarium, p. 171, § 694.

[vii] Ivi, p. 166, § 676.

[viii] Testimonianza di Oscar García, impiegato di polizia. Conobbe Zatti nel 1925, ma trattò con lui soprattutto dopo il 1935, sia come dirigente degli ex-allievi, sia come membro del Circolo Operaio. Positio – Summarium, p. 111, § 440.

[ix] Testimonianza di padre Feliciano López. Positio – Summarium, p. 181, § 737.

[x] Testimonianza di Noelia Morero, infermiera. Positio – Informatio, p. 112.




Anime e cavalli di forza

Don Bosco scriveva di notte al lume di candela, dopo una giornata trascorsa tra preghiere, colloqui, riunioni, studio, parlate, visite di cortesia. Sempre pratico, tenace, con una prodigiosa visione del futuro.

“Da mihi animas, cetera tolle” è il motto che ha ispirato tutta la vita e l’azione di don Bosco a partire dall’oratorio voltante di Torino (1844) fino alle ultime iniziative sul letto di morte (gennaio 1888) per l’andata dei salesiani in Inghilterra e in Ecuador. Ma per lui le anime non erano disgiunte dai corpi, tant’è che fin dagli anni cinquanta si era proposto di consacrare la vita perché i giovani fossero “felici in terra come poi in cielo”. Felicità che, in terra, per i suoi giovani “poveri ed abbandonati” consisteva nell’avere un tetto, una famiglia, la scuola, un cortile, amicizie e attività piacevoli (gioco, musica teatro, gite…) e soprattutto una professione che garantisse loro un sereno futuro.
Si spiegano così i laboratori di “arti e mestieri” di Valdocco – le future scuole professionali – che don Bosco ha creato dal nulla: un’autentica startup, per dirla in termini attuali. Si era proposto lui stesso inizialmente come primo istruttore di sartoria, legatoria, calzoleria… ma il progresso non si fermava e don Bosco voleva essere all’avanguardia.

La disponibilità di forza motrice
A partire dal 1868, per iniziativa del sindaco di Torino, Giovanni Filippo Galvagno, una parte delle acque del torrente Ceronda, che nasceva a 1350 m di quota, vennero captate dal Canale Ceronda per essere distribuite a varie industrie che sorgevano nell’area nord del capoluogo piemontese, quella di Valdocco per intendersi. Suddiviso poi il canale in due rami all’altezza del quartiere di Lucento, quello di destra, ultimato nel 1873, dopo aver superato con un ponte-canale la Dora Riparia, proseguiva correndo parallelo all’attuale corso Regina Margherita e via San Donato per andare poi a scaricarsi nel Po. Don Bosco, sempre vigile a quanto avveniva in città, immediatamente chiese al Municipio “la concessione di almeno 20 cavalli di forza d’acqua” del canale che sarebbe passato appunto a lato di Valdocco. Accolta la domanda, fece costruire a sue spese le due bocche di presa e di restituzione dell’acqua, dispose le macchine nei laboratori in modo da poter ricevere facilmente la forza motrice e fece studiare da un ingegnere i motori necessari allo scopo. Quando tutto era pronto, il 4 luglio 1874 chiese alle autorità di procedere, a proprie spese, all’allacciamento. Per vari mesi non ebbe risposta, per cui il 7 novembre rinnovò la richiesta. La risposta questa volta pervenne abbastanza celermente. Sembrava positiva, ma chiedeva prima alcune precisazioni. Don Bosco rispose nei seguenti termini:

“Illustrissimo Sig. Sindaco,
Mi affretto di trasmettere a V. S. Ill.ma gli schiarimenti che compiacquesi dimandare colla sua lettera del 19 andante mese, ed ho l’onore di notificarle che l’industria cui verrà applicata la forza motrice dell’acqua della Ceronda sono:
1° La tipografia per cui sono impiegati operai non meno di numero 100.
2° Fabbrica di paste con operai non meno di 26.
3° Fondaria di caratteri tipografici, estortili, calcografia con operai oltre 30.
4° Labo[rato]rio in ferro mercé un martinetto con operai non meno di 30.
5° Falegnami, ebanisti, tornitori con una sega idraulica: operai non meno di 40.
Totale degli operai oltre a 220”.

Il numero comprendeva istruttori e giovani allievi. Stante la situazione, essi, oltre ad essere soggetti a inutili fatiche fisiche, non avrebbero potuto reggere la concorrenza. Infatti don Bosco aggiungeva: “Questi lavori ora si compiono mercé il dispendio di una macchina a vapore per la tipografia, ma per gli altri laboratorii si fanno a forza di braccia, in guisa che non si potrebbe sostenere la concorrenza di chi usa l’acqua motrice”.
E per evitare possibili ritardi e timori da parte delle pubbliche autorità offriva immediatamente una cauzione: “Non si dissente di depositare una cartella del debito pubblico per cauzione, appena si possa conoscere di quale ventura essa debba essere”.

Pensava sempre in grande… ma si accontentava del possibile
Si doveva pensare al futuro, a nuovi laboratori, a nuove macchine e dunque la richiesta di energia elettrica sarebbe necessariamente aumentata. Don Bosco allora alzò la richiesta e ne addusse le ragioni esistenziali e congiunturali:
“Ma mentre accetto la forza teorica di dieci cavalli, mi trovo nella necessità di osservare che tale forza è affatto insufficiente al mio bisogno, giacché il progetto di esecuzione, che si sta effettuando, basava sopra la forza di 30 [?] come ebbi l’onore di esporre nella lettera del novembre u. s. Per questo la prego di prendere in considerazione i lavori di costruzione già in corso, la natura di questo istituto, che vive di sola beneficienza, il numero degli operai che si occupano, l’essere noi stati dei primi ad iscriversi, e quindi volerci concedere, se non la forza di 30 cavalli promessa, almeno quella maggiore quantità di forza che fosse ancora disponibile…”.
“A buon intenditor poche parole” si direbbe.

Un imprenditore di successo
Non ci è pervenuta la quantità di acque concesse all’Oratorio in quella occasione. Resta il fatto che don Bosco dimostra ancora una volta quelle doti di capace imprenditore che tutti all’epoca gli hanno riconosciuto e che gli riconoscono tuttora: una storia di integrità morale, un giusto mix tra umiltà e fiducia in sé stesso, determinazione e coraggio, capacità comunicative e fiuto del futuro. Ovviamente quale carburante di tutte le sue ambizioni e aspirazioni stava una sola passione: quella per le anime. Aveva sì molti collaboratori, ma, in qualche modo, tutto cadeva sulle sue spalle. Ne sono la prova tangibile le migliaia di lettere, di cui abbiamo qui pubblicato una inedita, corretta e ricorretta più volte: lettere che solitamente scriveva di sera o di notte al lume di candela, dopo una giornata trascorsa tra preghiere, colloqui, riunioni, studio, parlate, visite di cortesia. Se di giorno architettava il suo progetto, di notte era poi capace di sognarne gli sviluppi. E questi sarebbero poi venuti nei decenni seguenti, con le centinaia di scuole professionali salesiane sparse nel mondo, con decine di migliaia di ragazzi (e poi di ragazze) che in esse avrebbero trovato un trampolino per un futuro carico di speranza.




La Lira italiana dal 1861 al 2001 e al 2022. La moneta nei tempi di don Bosco

La Lira italiana, con le sue suddivisioni in 100 centesimi, è stata la valuta ufficiale dell’Italia dal 1861 al 2002 quando è stata sostituita definitivamente dalla moneta europea, l’Euro. È stata la moneta nei tempi di don Bosco e degli inizi della storia della Congregazione salesiana.

La Lira italiana (abbreviata come £ o Lit.) fu coniata per la prima volta dalla Repubblica di Venezia nel 1472. Nel 1806, fu adottata dal Regno napoleonico d’Italia, noto anche come Regno Italico, fondato nel 1805 da Napoleone Bonaparte, quando si fece incoronare quale sovrano della parte settentrionale e centro-orientale dell’attuale Italia. Dieci anni più tardi, nel 1814, in seguito allo scioglimento dello stato napoleonico, la moneta del Regno venne mantenuta solo nel Ducato di Parma e nel Regno di Sardegna. Dopo altri due anni, nel 1816, il re Vittorio Emanuele I di Savoia introdusse la Lira sabauda, che rimase in circolazione fino alla nascita del Regno d’Italia nel 1861, quando divento la Lira italiana. Questa moneta rimase in circolazione fino al 2002, quando venne sostituita definitivamente dall’Euro.

Quando si segue la storia di don Bosco e della Congregazione salesiana, ci si imbatte sempre nella difficoltà di quantificare correttamente gli sforzi finanziari che vennero affrontati per sostenere ed educare migliaia, anzi decine di migliaia di ragazzi, poiché la moneta italiana ha subito grandi variazioni lungo gli anni. La difficoltà è aumentata ancor più con l’adozione della moneta europea, quando nel 2002 il cambio venne fissato a 1936,27 lire italiane per un Euro. E non sono mancate ulteriori variazioni significative a causa dell’inflazione.
Proponiamo in calce una tabella di calcolo della rivalutazione della Lira dal 1861 al 2002 con la possibilità di un aggiornamento al 2022.


 

Lire –> Euro

=
lire dell’anno euro del 2001

=
lire dell’anno euro del 2022 (+ 38.7%)

Euro –> Lire

=
euro del 2001 lire dell’anno

=
euro del 2022 (+ 38.7%) lire dell’anno



I calcoli sono stati fatti in base ai coefficienti di rivalutazione forniti dall’Istituto centrale di statistica (ISTAT) e sono stati determinati in funzione dell’andamento degli indici del costo della vita, che dal 1968 hanno assunto la denominazione di indici dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati. Per il periodo successivo all’anno 2002 si è aggiunto l’indice di inflazione che nel 2022 arriva a 38,70% rispetto al momento di lancio della moneta unica (Euro), in base ai dati forniti dallo stesso ISTAT (1 Euro del 2002 = 1,39 Euro del 2022).