La radicalità evangelica del Beato Stefano Sándor

Stefano Sándor (Szolnok 1914 – Budapest 1953) è un martire coadiutore salesiano. Giovane allegro e devoto, dopo gli studi metallurgici entrò tra i Salesiani, diventando maestro tipografo e guida dei ragazzi. Animò oratori, fondò la Gioventù Operaia Cattolica e trasformò trincee e cantieri in “oratori festivi”. Quando il regime comunista confiscò le opere ecclesiali, continuò clandestinamente a educare e salvare giovani e macchinari; arrestato, fu impiccato l’8 giugno 1953. Radicato nell’Eucaristia e nella devozione a Maria, incarnò la radicalità evangelica di Don Bosco con dedizione educativa, coraggio e fede incrollabile. Beatificato da papa Francesco nel 2013, resta modello di santità laicale salesiana.

1. Cenni biografici
            Sándor Stefano nacque a Szolnok, in Ungheria, il 26 ottobre 1914 da Stefano e Maria Fekete, primo di tre fratelli. Il padre era impiegato presso le Ferrovie dello Stato, la madre invece era casalinga. Entrambi trasmisero ai propri figli una profonda religiosità. Stefano studiò nella sua città ottenendo il diploma di tecnico metallurgico. Fin da ragazzo veniva stimato dai compagni, era allegro, serio e gentile. Aiutava i fratellini a studiare e a pregare, dandone per primo l’esempio. Fece con fervore la cresima impegnandosi a imitare il suo santo protettore e san Pietro. Serviva ogni giorno la santa Messa dai padri francescani ricevendo l’Eucaristia.
            Leggendo il Bollettino Salesiano conobbe Don Bosco. Si sentì subito attratto dal carisma salesiano. Si confrontò col suo direttore spirituale, esprimendogli il desiderio di entrare nella Congregazione salesiana. Ne parlò anche ai suoi genitori. Essi gli negarono il consenso, e cercarono in ogni modo di dissuaderlo. Ma Stefano riuscì a convincerli, e nel 1936 fu accettato al Clarisseum, sede dei Salesiani a Budapest, dove in due anni fece l’aspirantato. Frequentò nella tipografia “Don Bosco” i corsi di tecnicostampatore. Iniziò il noviziato, ma dovette interromperlo per la chiamata alle armi.
            Nel 1939 ottenne il congedo definitivo e, dopo l’anno di noviziato, emise la sua prima professione l’8 settembre 1940 come salesiano coadiutore. Destinato al Clarisseum, si impegnò attivamente nell’insegnamento nei corsi professionali. Ebbe anche l’incarico dell’assistenza all’oratorio, che condusse con entusiasmo e competenza. Fu il promotore della Gioventù Operaia Cattolica. Il suo gruppo venne riconosciuto come il migliore del movimento. Sull’esempio di Don Bosco, si mostrò un educatore modello. Nel 1942 fu richiamato al fronte, e si guadagnò una medaglia d’argento al valore militare. La trincea era per lui un oratorio festivo che animava salesianamente, rincuorando i compagni di leva. Alla fine della Seconda guerra mondiale si impegnò nella ricostruzione materiale e morale della società, dedicandosi in particolare ai giovani più poveri, che radunava insegnando loro un mestiere. Il 24 luglio 1946 emise la sua professione perpetua. Nel 1948 conseguì il titolo di maestro-stampatore. Alla fine degli studi gli allievi di Stefano venivano assunti nelle migliori tipografie della capitale Budapest e dell’Ungheria.

            Quando lo Stato nel 1949, sotto Mátyás Rákosi, incamerò i beni ecclesiastici e iniziarono le persecuzioni nei confronti delle scuole cattoliche, che dovettero chiudere i battenti, Sándor cercò di salvare il salvabile, almeno qualche macchina tipografica e qualcosa dell’arredamento che tanti sacrifici era costato. Di colpo i religiosi si ritrovarono senza più nulla, tutto era diventato dello Stato. Lo stalinismo di Rákosi continuò ad accanirsi: i religiosi vennero dispersi. Senza più casa, lavoro, comunità, molti si ridussero allo stato di clandestini. Si adattarono a fare di tutto: spazzini, contadini, manovali, facchini, servitori… Anche Stefano dovette “sparire”, lasciando la sua tipografia che era diventata famosa. Invece di rifugiarsi all’estero rimase in patria per salvare la gioventù ungherese. Colto sul fatto (stava cercando di salvare delle macchine tipografiche), dovette fuggire in fretta e rimanere nascosto per alcuni mesi; poi, sotto altro nome, riuscì a farsi assumere in una fabbrica di detergenti della capitale, ma continuò impavido e clandestinamente il suo apostolato, pur sapendo che era attività rigorosamente proibita. Nel luglio del 1952 fu catturato sul posto di lavoro, e non fu più rivisto dai confratelli. Un documento ufficiale ne certifica il processo e la condanna a morte, eseguita per impiccagione l’8 giugno 1953.
            La fase diocesana della Causa di martirio iniziò a Budapest il 24 maggio 2006 e si concluse l’8 dicembre 2007. Il 27 marzo 2013 papa Francesco autorizzò la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto di martirio e a celebrare il rito di beatificazione, che si svolse sabato 19 ottobre 2013 a Budapest.

2. Testimonianza originale di santità salesiana
            I rapidi cenni sulla biografia di Sándor ci hanno introdotto nel cuore della sua vicenda spirituale. Contemplando la fisionomia che ha assunto in lui la vocazione salesiana, segnata dall’azione dello Spirito e ora proposta dalla Chiesa, scopriamo alcuni tratti di quella santità: il senso profondo di Dio e la disponibilità piena e serena alla sua volontà, l’attrazione per Don Bosco e la cordiale appartenenza alla comunità salesiana, la presenza animatrice ed incoraggiante tra i giovani, lo spirito di famiglia, la vita spirituale e di preghiera coltivata personalmente e condivise con la comunità, la totale consacrazione alla missione salesiana vissuta nella dedizione agli apprendisti e ai giovani lavoratori, ai ragazzi dell’oratorio, all’animazione di gruppi giovanili. Si tratta di un’attiva presenza nel mondo educativo e sociale, tutta animata dalla carità di Cristo che lo spinge interiormente!

            Non mancarono gesti che hanno dell’eroico e dell’insolito, fino a quello supremo di donare la propria vita per la salvezza della gioventù ungherese. «Un giovanotto voleva saltare sul tram che passava davanti alla casa salesiana. Sbagliando mossa, cadde sotto il veicolo. La carrozza si fermò troppo tardi; una ruota lo ferì profondamente alla coscia. Una grande folla si radunò a guardare la scena senza intervenire, mentre il povero malcapitato stava per dissanguarsi. In quel momento si aprì il cancello del collegio e Pista (nome famigliare di Stefano) corse fuori con una barella pieghevole sotto il braccio. Buttò per terra la sua giacca, si infilò sotto il tram e tirò fuori il giovanotto con prudenza, stringendo la sua cintura attorno alla coscia sanguinante, e mise il ragazzo sulla barella. A questo punto arrivò l’ambulanza. La folla festeggiò Pista con entusiasmo. Egli arrossì, ma non poté nascondere la gioia di avere salvato la vita a qualcuno».
            Uno dei suoi ragazzi ricorda: «Un giorno mi ammalai gravemente di tifo. All’ospedale di Újpest mentre al capezzale i miei genitori si preoccupavano per la mia vita, Stefano Sándor si offrì di darmi il sangue, se fosse stato necessario. Questo atto di generosità commosse molto mia madre e tutte le persone intorno a me».
            Anche se sono trascorsi oltre sessant’anni dal suo martirio e profonda è stata l’evoluzione della Vita Consacrata, dell’esperienza salesiana, della vocazione e della formazione del salesiano coadiutore, la via salesiana alla santità tracciata da Stefano Sándor è un segno e un messaggio che apre prospettive per l’oggi. Si compie in questo modo l’affermazione delle Costituzioni salesiane: «I confratelli che hanno vissuto o vivono in pienezza il progetto evangelico delle Costituzioni sono per noi stimolo e aiuto nel cammino di santificazione». La sua beatificazione indica concretamente quella «misura alta della vita cristiana ordinaria» indicata da Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte.

2.1. Sotto il vessillo di Don Bosco
            È sempre interessante cercare di individuare nel piano misterioso che il Signore tesse su ciascuno di noi il filo conduttore di tutta l’esistenza. Con una formula sintetica il segreto che ha ispirato e guidato tutti i passi della vita di Stefano Sándor, si può sintetizzare con queste parole: al seguito di Gesù, con Don Bosco e come Don Bosco, dovunque e sempre. Nella storia vocazionale di Stefano Don Bosco irrompe in modo originale e con i tratti tipici di una vocazione ben identificata, come scrisse il parroco francescano, presentando il giovane Stefano: «Qui a Szolnok, nella nostra parrocchia abbiamo un giovane molto bravo: Stefano Sándor di cui sono padre spirituale e che, finita la scuola tecnica, apprese il mestiere in una scuola metallurgica; fa la Comunione giornalmente e vorrebbe entrare in un ordine religioso. Da noi non avremmo nessuna difficoltà, ma lui vorrebbe entrare dai Salesiani come fratello laico».
            Il giudizio lusinghiero del parroco e direttore spirituale evidenzia: i tratti di lavoro e preghiera tipici della vita salesiana; un cammino spirituale perseverante e costante con una guida spirituale; l’apprendistato dell’arte tipografica che nel tempo si perfezionerà e si specializzerà.
            Era venuto a conoscere Don Bosco tramite il Bollettino Salesiano e le pubblicazioni salesiane di Rákospalota. Da questo contatto attraverso la stampa salesiana nacque forse la sua passione per la tipografia e per i libri. Nella lettera all’Ispettore dei Salesiani d’Ungheria, don János Antal, dove chiede di essere accettato tra i figli di Don Bosco, dichiarava: «Sento la vocazione di entrare nella Congregazione salesiana. Di lavoro ce n’è bisogno ovunque; senza lavoro non si può raggiungere la vita eterna. A me piace lavorare».
            Fin dall’inizio emerge la volontà forte e decisa di perseverare nella vocazione ricevuta, come poi di fatto avverrà. Quando il 28 maggio 1936 egli fece domanda di ammissione al noviziato salesiano, dichiarò di «aver conosciuto la Congregazione salesiana ed essere stato sempre più confermato nella sua vocazione religiosa, tanto da confidare di poter perseverare sotto il vessillo di Don Bosco». Con poche parole Sándor esprime una coscienza vocazionale di alto profilo: conoscenza esperienziale della vita e dello spirito della Congregazione; conferma di una scelta giusta e irreversibile; sicurezza per il futuro di essere fedele sul campo di battaglia che lo attende.
            Il verbale dell’ammissione al noviziato, in lingua italiana (2 giugno 1936), qualifica unanimemente l’esperienza dell’aspirantato: «Con ottimo risultato, diligente, di pietà buona e si offrì da sé all’oratorio festivo, fu pratico, di buon esempio, ricevette l’attestato di stampatore, ma non ha ancora la perfetta praticità». Sono già presenti quei tratti che, consolidati successivamente nel noviziato, ne definiranno la fisionomia di religioso salesiano laico: l’esemplarità della vita, la generosa disponibilità alla missione salesiana, la competenza nella professione di tipografo.
            L’8 settembre 1940 emette la sua professione religiosa come salesiano coadiutore. Di questo giorno di grazia riportiamo una lettera scritta da Pista, come veniva famigliarmente chiamato, ai suoi genitori: «Cari genitori, ho da riferire di un evento importante per me e che lascerà orme indelebili nel mio cuore. L’8 settembre per grazia del buon Dio e con la protezione della Santa Vergine mi sono impegnato con la professione ad amare e servire Dio. Nella festa della Vergine Madre ho fatto il mio sposalizio con Gesù e gli ho promesso col triplice voto di essere Suo, di non staccarmi mai più da Lui e di perseverare nella fedeltà a Lui fino alla morte. Prego pertanto tutti voi di non dimenticarmi nelle vostre preghiere e nelle Comunioni, facendo voti che io possa rimanere fedele alla mia promessa fatta a Dio. Potete immaginare che quello fu per me un giorno lieto, mai capitato nella mia vita. Penso che non avrei potuto dare alla Madonna un dono di compleanno più gradito del dono di me stesso. Immagino che il buon Gesù vi avrà guardato con occhi affettuosi, essendo stati voi a donarmi a Dio… Affettuosi saluti a tutti. PISTA».

2.2. Dedizione assoluta alla missione
            «La missione dà a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto…», dicono le Costituzioni salesiane.12 Stefano Sándor visse la missione salesiana nel campo che gli era stato affidato, incarnando la carità pastorale educativa come salesiano coadiutore, con lo stile di Don Bosco. La sua fede lo portò a vedere Gesù nei giovani apprendisti e lavoratori, nei ragazzi dell’oratorio, in quelli della strada.
            Nell’industria tipografica la direzione competente dell’amministrazione è considerata un compito essenziale. Stefano Sándor era incaricato della direzione, dell’addestramento pratico e specifico degli apprendisti e della fissazione dei prezzi dei prodotti tipografici. La tipografia “Don Bosco” godeva in tutto il Paese di grande prestigio. Facevano parte delle edizioni salesiane il Bollettino Salesiano, Gioventù Missionaria, riviste per la gioventù, il Calendario Don Bosco, libri di devozione e l’edizione in traduzione ungherese degli scritti ufficiali della Direzione Generale dei Salesiani. È in quell’ambiente che Stefano Sándor prese ad amare i libri cattolici che venivano da lui non solo approntati per la stampa, ma anche studiati.
            Nel servizio della gioventù egli era pure responsabile dell’educazione collegiale dei giovani. Anche questo era un compito importante, oltre al loro addestramento tecnico. Era indispensabile disciplinare i giovani, in fase di sviluppo vigoroso, con fermezza affettuosa. In ogni momento del periodo di apprendistato egli li affiancava come un fratello maggiore. Stefano Sándor si distinse per una forte personalità: possedeva un’eccellente istruzione specifica, accompagnata dalla disciplina, dalla competenza e dallo spirito comunitario.
            Non si accontentava di un solo determinato lavoro, ma si rendeva disponibile ad ogni necessità. Si assunse il compito di sagrestano della piccola chiesa del Clarisseum e si prese cura nella direzione del “Piccolo Clero”. Prova della sua capacità di resistenza fu anche l’impegno spontaneo di lavoro volontario nel fiorente oratorio, frequentato regolarmente dai giovani dei due sobborghi di Újpest e Rákospalota. Gli piaceva giocare con i ragazzi; nelle partite di calcio faceva l’arbitro con grande competenza.

2.3. Religioso educatore
            Stefano Sándor fu educatore alla fede di ogni persona, confratello e ragazzo, soprattutto nei momenti di prova e nell’ora del martirio. Davvero Sándor aveva fatto della missione per i giovani il proprio spazio educativo, dove viveva quotidianamente i criteri del Sistema Preventivo di Don Bosco – ragione, religione, amorevolezza – nella vicinanza e assistenza amorosa ai giovani lavoratori, nell’aiuto prestato a comprendere e accettare le situazioni di sofferenza, nella testimonianza viva della presenza del Signore e del suo amore indefettibile.
            A Rákospalota Stefano Sándor si dedicò con zelo all’addestramento dei giovani tipografi e all’educazione dei giovani dell’oratorio e dei “Paggi del Sacro Cuore”. Su questi fronti manifestò uno spiccato senso del dovere, vivendo con grande responsabilità la sua vocazione religiosa e caratterizzandosi per una maturità che suscitava ammirazione e stima. «Durante la sua attività tipografica, viveva coscienziosamente la sua vita religiosa, senza alcuna volontà di apparire. Praticava i voti di povertà, castità e obbedienza, senza alcuna forzatura. In questo campo, la sua sola presenza valeva una testimonianza, senza dire alcuna parola. Anche gli alunni riconoscevano la sua autorevolezza, grazie ai suoi modi fraterni. Metteva in pratica tutto ciò che diceva o chiedeva agli alunni, e a nessuno veniva in mente di contraddirlo in alcun modo».
            György Érseki conosceva i Salesiani fin dal 1945 e dopo la Seconda guerra mondiale andò ad abitare a Rákospalota, nel Clarisseum. La sua conoscenza con Stefano Sándor durò fino al 1947. Per questo periodo non solo ci offre uno spaccato della molteplice attività del giovane coadiutore, tipografo, catechista ed educatore della gioventù, ma anche una lettura profonda, dalla quale emerge la ricchezza spirituale e la capacità educativa di Stefano: «Stefano Sándor fu una persona molto dotata di natura. In qualità di pedagogo, posso sostenere e confermare la sua capacità di osservazione e la sua personalità poliedrica. Fu un bravo educatore e riusciva a gestire i giovani, uno per uno, in una maniera ottimale, scegliendo il tono adeguato con tutti. Vi è ancora un dettaglio appartenente alla sua personalità: considerava ogni suo lavoro un santo dovere, consacrando, senza sforzi e con grande naturalezza, tutta la sua energia alla realizzazione di questo scopo sacro. Grazie ad un intuito innato, riusciva a cogliere l’atmosfera e ad influenzarla positivamente. […] Aveva un carattere forte come educatore; si prendeva cura di tutti singolarmente. S’interessava dei nostri problemi personali, reagendo sempre nel modo più adatto a noi. In questo modo realizzava i tre principi di Don Bosco: la ragione, la religione e l’amorevolezza… I coadiutori salesiani non indossavano la veste all’infuori del contesto liturgico, ma l’aspetto di Stefano Sándor si distingueva dalla massa della gente. Per quanto riguarda la sua attività di educatore, non ricorreva mai alla punizione fisica, vietata secondo i principi di Don Bosco, diversamente da altri insegnanti salesiani più impulsivi, incapaci di padroneggiarsi e che a volte davano degli schiaffi. Gli alunni apprendisti affidati a lui formavano una piccola comunità all’interno del collegio, pur essendo diversi fra di loro dal punto di vista dell’età e della cultura. Essi mangiavano alla mensa insieme agli altri studenti, dove abitualmente durante i pasti si leggeva la Bibbia. Naturalmente vi era presente anche Stefano Sándor. Grazie alla sua presenza, il gruppo di apprendisti industriali riuscì sempre il più disciplinato… Stefano Sándor rimase sempre giovanile, dimostrando grande comprensione verso i giovani. Cogliendo i loro problemi, trasmetteva dei messaggi positivi e li sapeva consigliare sia sul piano personale, che su quello religioso. La sua personalità rivelava grande tenacia e resistenza nel lavoro; anche nelle situazioni più difficili, rimaneva fedele ai suoi ideali e a se stesso. Il collegio salesiano di Rákospalota ospitava una grande comunità, richiedendo un lavoro con i giovani a più livelli. Nel collegio, accanto alla tipografia, abitavano dei giovani salesiani in formazione, che erano in stretto rapporto con i coadiutori. Ricordo i seguenti nomi: József Krammer, Imre Strifler, Vilmos Klinger e László Merész. Questi giovani avevano compiti diversi da quelli di Stefano Sándor e ne differivano anche caratterialmente. Grazie però alla loro vita in comune, conoscevano i problemi, le virtù e i difetti gli uni degli altri. Stefano Sándor nel suo rapporto con questi chierici trovò sempre la misura adeguata. Stefano Sándor riuscì a trovare il tono fraterno per ammonirli, quando mostravano qualche loro manchevolezza, senza cadere nel paternalismo. Anzi, furono i giovani chierici a chiedere la sua opinione. A mio avviso, egli realizzò gli ideali di Don Bosco. Fin dal primo momento della nostra conoscenza, Stefano Sándor rappresentò lo spirito che caratterizzava i membri della Società Salesiana: senso del dovere, purezza, religiosità, praticità e fedeltà ai principi cristiani».

            Un ragazzo di quel tempo così ricorda lo spirito che animava Stefano Sándor: «Il mio primo ricordo di lui è legato alla sagrestia del Clarisseum, in cui egli, in qualità di sagrestano principale, esigeva l’ordine, imponendo la serietà dovuta alla situazione, rimanendo però sempre lui, con il suo comportamento, a darci il buon esempio. Era una delle sue caratteristiche quella di darci le direttive con un tono moderato, senza alzar la voce, chiedendoci piuttosto cortesemente di fare i nostri doveri. Questo suo comportamento spontaneo ed amichevole ci conquistò. Gli volevamo veramente bene. Ci incantò la naturalezza con la quale Stefano Sándor si occupava di noi. Ci insegnava, pregava e viveva con noi, testimoniando la spiritualità dei coadiutori salesiani di quel tempo. Noi, giovani, spesso non ci rendevamo conto di quanto fossero speciali queste persone, ma egli spiccava per la sua serietà, che manifestava in chiesa, nella tipografia e persino nel campo da gioco».

3. Riflesso di Dio con radicalità evangelica
            Ciò che dava spessore a tutto questo – la dedizione alla missione e la capacità professionale ed educativa – e che colpiva immediatamente coloro che lo incontravano era la figura interiore di Stefano Sándor, quella di discepolo del Signore, che viveva in ogni momento la sua consacrazione, nella costante unione con Dio e nella fraternità evangelica. Dalle testimonianze processuali emerge una figura completa, anche per quell’equilibrio salesiano per cui le diverse dimensioni si congiungono in una personalità armonica, unificata e serena, aperta al mistero di Dio vissuto nel quotidiano.
            Un tratto che colpisce di tale radicalità è il fatto che fin dal noviziato tutti i suoi compagni, anche quelli aspiranti al sacerdozio e molto più giovani di lui, lo stimassero e lo vedessero come modello da imitare. L’esemplarità della sua vita consacrata e la radicalità con cui visse e testimoniò i consigli evangelici lo distinsero sempre e ovunque per cui in molte occasioni, anche nel tempo della prigionia, diversi pensavano che fosse un sacerdote. Tale testimonianza dice molto della singolarità con cui Stefano Sándor visse sempre con chiara identità la sua vocazione di salesiano coadiutore, evidenziando proprio lo specifico della vita consacrata salesiana in quanto tale. Tra i compagni di noviziato Gyula Zsédely così parla di Stefano Sándor: «Entrammo insieme nel noviziato salesiano di Santo Stefano a Mezőnyárád. Il nostro maestro fu Béla Bali. Qui passai un anno e mezzo con Stefano Sándor e fui testimone oculare della sua vita, modello di giovane religioso. Benché Stefano Sándor avesse almeno nove-dieci anni più di me, conviveva con i suoi compagni di noviziato in modo esemplare; partecipava alle pratiche di pietà insieme a noi. Non sentivamo affatto la differenza d’età; ci stava a fianco con affetto fraterno. Ci edificava non solo attraverso il suo buon esempio, ma anche dandoci dei consigli pratici in merito all’educazione della gioventù. Si vedeva già allora come fosse predestinato a questa vocazione secondo i principi educativi di Don Bosco… Il suo talento di educatore balzò agli occhi anche di noi novizi, specialmente in occasione delle attività comunitarie. Con il suo fascino personale ci entusiasmava a tal punto, che davamo per scontato di poter affrontare con facilità anche i compiti più difficili. Il motore della sua profonda spiritualità salesiana furono la preghiera e l’Eucaristia, nonché la devozione alla Vergine Maria Ausiliatrice. Durante il noviziato, che durò un anno, vedevamo nella sua persona un buon amico. Divenne il nostro modello anche nell’obbedienza, poiché, essendo lui il più vecchio, fu messo alla prova con delle piccole umiliazioni, ma egli le sopportò con padronanza e senza dar segni di sofferenza o risentimento. In quel tempo, purtroppo, c’era qualcuno tra i nostri superiori che si divertiva ad umiliare i novizi, ma Stefano Sándor seppe resistere bene. La sua grandezza di spirito, radicata nella preghiera, era percepibile da tutti».
            Riguardo alla intensità con cui Stefano Sándor viveva la sua fede, con una continua unione con Dio, emerge una esemplarità di testimonianza evangelica, che possiamo ben definire un “riflesso di Dio”: «Mi pare che la sua attitudine interiore sia scaturita dalla devozione all’Eucaristia e alla Madonna, la quale aveva trasformato anche la vita di Don Bosco. Quando si occupava di noi, “Piccolo Clero”, non dava l’impressione di esercitare un mestiere; le sue azioni manifestavano la spiritualità di una persona capace di pregare con grande fervore. Per me e per i miei coetanei “il Signor Sándor” fu un ideale e neanche per sogno pensavamo che tutto ciò che abbiamo visto e udito fosse una messinscena superficiale. Ritengo che solo la sua intima vita di preghiera abbia potuto alimentare tale comportamento quando, ancora confratello giovanissimo, aveva compreso e preso sul serio il metodo di educazione di Don Bosco».
            La radicalità evangelica si espresse in diverse forme nel corso della vita religiosa di Stefano Sándor:
            – Nell’aspettare con pazienza il consenso dei genitori per entrare dai Salesiani.
            – In ogni passaggio della vita religiosa dovrà attendere: prima di essere ammesso al noviziato dovrà fare l’aspirantato; ammesso al noviziato dovrà interromperlo per fare il servizio militare; la domanda per la professione perpetua, prima accettata, verrà rinviata dopo un ulteriore periodo di voti temporanei.
            – Nelle dure esperienze del servizio militare e al fronte. Lo scontro con un ambiente che tendeva molte insidie alla sua dignità di uomo e di cristiano rafforzarono in questo giovane novizio la decisione di seguire il Signore, di essere fedele alla sua scelta di Dio, costi quel che costi. Davvero non c’è discernimento più duro ed esigente che quello di un noviziato provato e vagliato nella trincea della vita militare.
            – Negli anni della soppressione e poi del carcere, fino all’ora suprema del martirio.

            Tutto questo rivela quello sguardo di fede che accompagnerà sempre la storia di Stefano: la consapevolezza che Dio è presente e opera per il bene dei suoi figli.

Conclusione
            Stefano Sándor dalla nascita fino alla morte fu un uomo profondamente religioso, che in tutte le circostanze della vita rispose con dignità e coerenza alle esigenze della sua vocazione salesiana. Così visse nel periodo dell’aspirantato e della formazione iniziale, nel suo lavoro di tipografo, come animatore dell’oratorio e della liturgia, nel tempo della clandestinità e della carcerazione, fino ai momenti che precedettero la sua morte. Desideroso, fin dalla prima giovinezza, di consacrarsi al servizio di Dio e dei fratelli nel generoso compito dell’educazione dei giovani secondo lo spirito di Don Bosco, fu capace di coltivare uno spirito di fortezza e di fedeltà a Dio e ai fratelli che lo misero in grado, nel momento della prova, di resistere, prima alle situazioni di conflitto e poi alla prova suprema del dono della vita.
            Vorrei evidenziare la testimonianza di radicalità evangelica offerta da questo confratello. Dalla ricostruzione del profilo biografico di Stefano Sándor emerge un reale e profondo cammino di fede, iniziato fin dalla sua infanzia e giovinezza, irrobustito dalla professione religiosa salesiana e consolidato nell’esemplare vita di salesiano coadiutore. Si nota in particolare una genuina vocazione consacrata, animata secondo lo spirito di Don Bosco, da un intenso e fervoroso zelo per la salvezza delle anime, soprattutto giovanili. Anche i periodi più difficili, quali il servizio militare e l’esperienza della guerra, non scalfirono l’integro comportamento morale e religioso del giovane coadiutore. È su tale base che Stefano Sándor subirà il martirio senza ripensamenti o esitazioni.
            La beatificazione di Stefano Sándor impegna tutta la Congregazione nella promozione della vocazione del salesiano coadiutore, accogliendo la sua testimonianza esemplare e invocando in forma comunitaria la sua intercessione per questa intenzione. Come salesiano laico, riuscì a dare buon esempio persino ai preti, con la sua attività in mezzo ai giovani e con la sua esemplare vita religiosa. È un modello per i giovani consacrati, per il modo con il quale affrontò le prove e le persecuzioni senza accettare compromessi. Le cause a cui si dedicò, la santificazione del lavoro cristiano, l’amore per la casa di Dio e l’educazione della gioventù, sono tuttora missione fondamentale della Chiesa e della nostra Congregazione.
Come educatore esemplare dei giovani, in particolare degli apprendisti e dei giovani lavoratori, e come animatore dell’oratorio e dei gruppi giovanili, ci è di esempio e di stimolo nel nostro impegno di annunciare ai giovani il Vangelo della gioia attraverso la pedagogia della bontà.




Con Nino Baglieri pellegrino di Speranza, nel cammino del Giubileo

Il percorso del Giubileo 2025, dedicato alla Speranza, trova un testimone luminoso nella vicenda del Servo di Dio Nino Baglieri. Dalla drammatica caduta che lo rese tetraplegico a diciassette anni fino alla rinascita interiore del 1978, Baglieri è passato dall’ombra della disperazione alla luce di una fede operosa, trasformando il suo letto di dolore in cattedra di gioia. La sua storia intreccia i cinque segni giubilari – pellegrinaggio, porta, professione di fede, carità e riconciliazione – mostrando che la speranza cristiana non è evasione, ma forza che apre il futuro e sostiene ogni cammino.

1. Sperare come attesa
            La speranza, secondo il vocabolario online Treccani, è un sentimento di “aspettazione fiduciosa nella realizzazione, presente o futura, di quanto si desidera”. L’etimologia del sostantivo “speranza” deriva dal latino spes, a sua volta derivato dalla radice sanscrita spa– che significa tendere verso una meta. Nella lingua spagnola “sperare” e “aspettare” vengono tradotti con il verbo esperar, che racchiude in un unico lemma entrambi i significati: quasi si potesse aspettare solo ciò che si spera. Questo stato d’animo ci permette di affrontare la vita e le sue sfide con coraggio e una luce nel cuore sempre ardente. La speranza viene espressa – in positivo o in negativo – anche in alcuni proverbi della saggezza popolare: “La speranza è l’ultima a morire”, “Finché c’è vita c’è speranza”, “Chi di speranza vive, disperato muore”.
            Quasi raccogliendo questo “sentire condiviso” sulla speranza, ma consapevole di dover aiutare a riscoprire la speranza nella sua dimensione più piena e vera, Papa Francesco ha voluto dedicare il Giubileo Ordinario del 2025 alla Speranza (Spes non confundit [La speranza non delude] ne è la bolla di indizione) e già nel 2014 diceva: “La risurrezione di Gesù non è il finale lieto di una bella favola, non è l’happy end di un film; ma è l’intervento di Dio Padre e là dove si infrange la speranza umana. Nel momento nel quale tutto sembra perduto, nel momento del dolore, nel quale tante persone sentono come il bisogno di scendere dalla croce, è il momento più vicino alla risurrezione. La notte diventa più oscura proprio prima che incominci il mattino, prima che incominci la luce. Nel momento più oscuro interviene Dio e risuscita” (cf. Udienza del 16 aprile 2014).
            In questo contesto cade a pennello la vicenda del Servo di Dio Nino Baglieri (Modica, 1° maggio 1951 – 2 marzo 2007) che giovane muratore diciassettenne, cadendo da un’impalcatura alta diciassette metri per il cedimento improvviso di un tavolone, si schiantò al suolo rimanendo tetraplegico: da quella caduta, il 6 maggio 1968, potrà muovere solo testa e collo, dovendo dipendere a vita dagli altri in tutto, anche nelle cose più semplici e umili. Nino non può nemmeno stringere la mano a un amico, o fare una carezza alla mamma… e vede svanire la possibilità di realizzare i suoi sogni. Quale speranza di vita ha ora questo giovane? Con quali sentimenti può fare i conti? Quale futuro lo attende? La prima risposta di Nino è la disperazione, il buio più totale davanti a una richiesta di senso che non trova risposta: dapprima un lungo peregrinare in ospedali di regioni italiane diverse, poi il compatirlo di amici e conoscenti portano Nino a ribellarsi e a rinchiudersi in dieci lunghi anni di solitudine e rabbia, mentre il tunnel della vita si fa sempre più profondo.
            Nella mitologia greca, Zeus affida a Pandora un vaso che contiene tutti i mali del mondo: scoperchiato, gli uomini perdono l’immortalità e iniziano una vita di sofferenza. Per salvarli, Pandora riapre allora il vaso e libera elpis, la speranza, rimasta sul fondo: era l’unico antidoto agli affanni della vita. Guardando invece al Datore di ogni bene, sappiamo che «la speranza non delude» (Rm 5,5). Papa Francesco nella Spes non confundit scrive: “Nel segno di questa speranza l’apostolo Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma […] Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza” (ivi, 1).

2. Da Testimone della “disperazione” ad “ambasciatore” di speranza
            Ritorniamo allora alla vicenda del nostro Servo di Dio, Nino Baglieri.
            Devono passare dieci lunghi anni prima che Nino esca dal tunnel della disperazione, le fitte tenebre si diradino ed entri la Luce. Era il pomeriggio del 24 marzo, Venerdì Santo del 1978, quando padre Aldo Modica con un gruppetto di giovani si recò a casa di Nino sollecitato dalla sua mamma Peppina e da alcune persone che frequentavano il cammino del Rinnovamento nello Spirito, allora agli albori nella vicina parrocchia salesiana. Scrive Nino: “mentre invocavano lo Spirito Santo sentii una sensazione stranissima, un grande calore invadeva il mio corpo, un forte formicolio in tutte le [mie] membra, come se una forza nuova entrasse in me e qualcosa di vecchio uscisse. In quel momento dissi il mio “sì” al Signore, accettai la mia croce e rinacqui a vita nuova, diventai un uomo nuovo. Dieci anni di disperazione cancellati in pochi istanti, perché una gioia sconosciuta entrò nel mio cuore. Io desideravo la guarigione del mio corpo e invece il Signore mi graziava con una gioia ancora più grande: la guarigione spirituale”.
            Inizia per Nino un nuovo cammino: da “testimone della disperazione” diventa “pellegrino di speranza”. Non più isolato all’interno della sua stanzetta ma “ambasciatore” di questa speranza, racconta il suo vissuto attraverso una trasmissione messa in onda da una radio locale e – grazia ancora più grande – il buon Dio gli dona la gioia di poter scrivere con la bocca. Nino confida: “Nel mese di marzo del 1979 il Signore mi fece un grande Miracolo imparai a scrivere, con la bocca, incominciai così, ero con i miei amici che si stavano facendo i compiti dissi di darmi una matita e un quaderno, incominciai a fare dei segni e a disegnare qualcosa, ma poi scoprii che potevo scrivere e così incominciai a scrivere”. Inizia allora a redigere le sue memorie e ad avere contatti tramite lettera con persone di ogni categoria e in varie parti del mondo, per migliaia di lettere a tutt’oggi custodite. La ritrovata speranza lo rende creativo, ora Nino riscopre il gusto delle relazioni e vuole rendersi – come può – indipendente: con l’ausilio di un’asticella che usa con la bocca, e di un elastico applicato al telefono, compone i numeri telefonici per mettersi in comunicazione con tante persone ammalate, per rivolgere loro una parola di conforto. Scopre un nuovo modo di affrontare la propria condizione di sofferenza, che lo fa uscire dall’isolamento e lo avvia a diventare testimone del Vangelo della gioia e della speranza: “Adesso c’è tanta gioia nel mio cuore, in me non esiste più dolore, nel mio cuore c’è il Tuo amore. Grazie Gesù mio Signore, dal mio letto di dolore ti voglio lodare e con tutto il mio cuore ti voglio ringraziare perché mi hai chiamato per conoscere la vita per conoscere la vera vita”.
            Nino ha cambiato prospettiva, ha effettuato una virata di 360° – il Signore gli ha regalato la conversione – ha posto la sua fiducia in quel Dio misericordioso che, attraverso la “disgrazia”, l’ha chiamato a lavorare nella sua vigna, per essere segno e strumento di salvezza e speranza. Così, tante persone che andavano a trovarlo per consolarlo uscivano consolati, con le lacrime agli occhi: non trovavano su quel lettuccio un uomo triste e mesto, ma un volto sorridente che sprigionava – nonostante tante sofferenze, tra cui le piaghe e i problemi respiratori – gioia di vivere: il sorriso era una costante sul suo volto e Nino si sentiva “utile da un letto di croce”. Nino Baglieri è l’opposto di tante persone di oggi, perennemente alla ricerca del senso della vita, che puntano al successo facile e alla felicità di cose effimere e senza valore, vivono on-line, consumano la vita in un click, vogliono tutto e subito ma hanno gli occhi tristi, spenti. Nino in apparenza non aveva niente, eppure aveva la pace e la gioia nel cuore: non ha vissuto isolato, ma sostenuto dall’amore di Dio espresso dall’abbraccio e dalla presenza di tutta la sua famiglia e di sempre più persone che lo conoscono ed entrano in rapporto con lui.

3. Ravvivare la speranza
            Costruire la speranza è: ogni volta che non mi accontento della mia vita e mi impegno per cambiarla. Ogni volta che non mi lascio indurire dalle esperienze negative e impedisco che esse mi rendano diffidente. Ogni volta che cado e provo a rialzarmi, che non permetto che le paure abbiano l’ultima parola. Ogni volta che, in un mondo segnato dai conflitti, scelgo la fiducia e di rilanciare sempre, con tutti. Ogni volta che non sfuggo al sogno di Dio che mi dice: “voglio che tu sia felice”, “voglio che tu abbia una vita piena… piena anche di santità”. Il culmine della virtù della speranza è infatti uno sguardo al Cielo per abitare bene la terra o, come direbbe Don Bosco, un camminare con i piedi per terra e il cuore in Cielo.
            In questo solco di speranza trova compimento il giubileo che, con i suoi segni, ci chiede di metterci in cammino, di varcare alcune frontiere.
            Primo segno, il pellegrinaggio: quando ci si muove da un luogo all’altro si è aperti al nuovo, al cambiamento. Tutta la vita di Gesù è stata “un mettersi in viaggio”, un cammino di evangelizzazione che si compie nel dono della vita e poi oltre, con la Risurrezione e l’Ascensione.
            Secondo segno, la porta: in Gv 10,9 Gesù afferma «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo». Passare la porta è lasciarsi accogliere, essere comunità. Nel vangelo si parla anche della “porta stretta”: il Giubileo diventa cammino di conversione.
            Terzo segno, la professione di fede: esprimere l’appartenenza a Cristo e alla Chiesa e il dichiararlo pubblicamente.
            Quarto segno la carità: la carità è la password per il cielo, in 1Pt 4,8 l’apostolo Pietro ammonisce «conservate tra voi una grande carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati».
            Quinto segno, dunque, la riconciliazione e l’indulgenza giubilare: si tratta di un “tempo favorevole” (cf. 2Cor 6,2) per sperimentare la grande misericordia di Dio e percorrere cammini di riavvicinamento e perdono verso i fratelli; per vivere la preghiera del Padre Nostro dove si chiede “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. È diventare creature nuove.
            Anche nella vita di Nino ci sono episodi che lo collegano – sul “filo” della speranza – a queste dimensioni giubilari. Per esempio il pentimento per alcune bravate della sua infanzia, come quando, in tre (lui racconta), “rubavamo le offerte delle Messe in sacrestia, ci servivano per giocare al bigliardino. Quando incontri cattivi compagni ti portano nelle male vie. Poi uno ha preso il mazzo di chiavi dell’Oratorio e l’ha nascosto nella mia borsa dei libri che era nello studio; hanno trovato le chiavi, hanno chiamato i genitori, ci hanno dato due schiaffoni e ci hanno cacciato alla scuola. Vergogna!”. Ma soprattutto nella vita di Nino c’è la carità, l’aiutare il fratello povero, nella prova fisica e morale, il farsi vivo con chi ha fatiche anche psicologiche e il raggiungere per iscritto i fratelli in carcere per testimoniare loro la bontà e l’amore di Dio. A Nino, che prima della caduta era stato muratore, “[mi] piaceva costruire con le mie mani qualcosa che restasse nel tempo: anche ora – scrive – mi sento di essere un muratore che lavora nel Regno di Dio, per lasciare qualcosa che resti nel tempo, per vedere le Opere Meravigliose di Dio che compie nella nostra Vita». Confida: «il mio corpo sembra morto, ma nel mio petto continua a battere il mio cuore. Le gambe non si muovono, eppure, per le vie del mondo io cammino”.

4. Pellegrino verso il cielo
            Nino, consacrato cooperatore salesiano della grande Famiglia Salesiana, conclude il suo “pellegrinaggio” terreno venerdì 2 marzo 2007 alle ore 8.00 del mattino, a soli 55 anni, di cui 39 trascorsi da tetraplegico tra letto e carrozzina, dopo aver chiesto scusa alla famiglia per le fatiche che ha dovuto affrontare per la sua condizione. Lascia la scena di questo mondo in tuta e scarpette, come ha espressamente chiesto, per correre nei verdi prati fioriti e saltellare come una cerva lungo i corsi d’acqua. Leggiamo nel suo Testamento spirituale: “non finirò mai di ringraziarti, o Signore, per avermi chiamato a Te attraverso la Croce il 6 maggio 1968. Una croce pesante per le mie giovani forze…”. Il 2 marzo la vita – continuo dono che parte dai genitori e viene piano piano alimentato con stupore e bellezza – inserisce per Nino Baglieri il suo tassello più importante: quello dell’abbraccio con il suo Signore e Dio, accompagnato dalla Madonna.
            Alla notizia della sua dipartita da più parti si leva un coro unanime: «è morto un santo», un uomo che ha fatto del suo letto di croce il vessillo della vita piena, dono per tutti. Quindi un grande testimone di speranza.
            Trascorsi 5 anni dalla morte così, come previsto dalle Normae Servandae in Inquisitionibus ab Episcopis faciendis in Causis Sanctorum del 1983, il vescovo della Diocesi di Noto, su richiesta del Postulatore Generale della Congregazione Salesiana, sentita la Conferenza Episcopale Siciliana e ottenuto il Nihil obstat della Santa Sede, apre l’Inchiesta Diocesana della Causa di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio Nino Baglieri.
            Il processo diocesano, durato 12 anni, si è svolto lungo due direttrici portanti: il lavoro della Commissione Storia che ha ricercato, raccolto, studiato e presentato tante fonti, soprattutto Scritti “del” e “sul” Servo di Dio; il Tribunale Ecclesiastico, titolare dell’Inchiesta, che ha altresì ascoltato sotto giuramento i testimoni.
            Questo percorso si è concluso lo scorso 5 maggio 2024 alla presenza di mons. Salvatore Rumeo, attuale vescovo della diocesi di Noto. Pochi giorni dopo gli Atti processuali sono stati consegnati al Dicastero delle Cause dei Santi che ha proceduto alla loro apertura in data 21 giugno 2024. All’inizio del 2025, il medesimo Dicastero ne ha decretato la “Validità Giuridica”, con cui la Fase romana della Causa può entrare nel vivo.
            Ora l’apporto alla Causa prosegue anche continuando a far conoscere la figura di Nino che al termine del suo cammino terreno ha raccomandato: “non lasciatemi senza far nulla. Io continuerò dal cielo la mia missione. Vi scriverò dal Paradiso”.
            Il cammino della speranza in sua compagnia diventa così desiderio del Cielo, quando “ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio (cfr 1Cor 13,12) e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero dell’universo, che parteciperà insieme a noi della pienezza senza fine […]. Nell’attesa, ci uniamo per farci carico di questa casa che ci è stata affidata, sapendo che ciò che di buono vi è in essa verrà assunto nella festa del cielo. Insieme a tutte le creature, camminiamo su questa terra cercando Dio […] Camminiamo cantando!” (cf. Laudato Sì, 243-244).

Roberto Chiaramonte




Don Elia Comini: sacerdote martire a Monte Sole

Il 18 dicembre 2024 papa Francesco ha riconosciuto ufficialmente il martirio di don Elia Comini (1910-1944), Salesiano di Don Bosco, che sarà dunque beatificato. Il suo nome si aggiunge a quello di altri sacerdoti—come don Giovanni Fornasini, già Beato dal 2021—rimasti vittime delle efferate violenze naziste nell’area di Monte Sole, sui colli bolognesi, durante la Seconda Guerra Mondiale. La beatificazione di don Elia Comini non è solo un avvenimento di straordinario rilievo per la Chiesa bolognese e la Famiglia Salesiana, ma costituisce anche un invito universale a riscoprire il valore della testimonianza cristiana: una testimonianza in cui la carità, la giustizia e la compassione prevalgono su ogni forma di violenza e di odio.

Dall’Appennino ai cortili salesiani
            Don Elia Comini nasce il 7 maggio 1910 in località “Madonna del Bosco” di Calvenzano di Vergato, in provincia di Bologna. La sua casa natale è contigua a un piccolo santuario mariano, dedicato alla “Madonna del Bosco”, e questa forte impronta nel segno di Maria lo accompagnerà tutta la vita.
            È il secondogenito di Claudio ed Emma Limoni che si erano sposati, presso la chiesa parrocchiale di Salvaro, l’11 febbraio 1907. L’anno dopo era nato il primogenito Amleto. Due anni più tardi veniva al mondo Elia. Battezzato il giorno dopo la nascita – 8 maggio – presso la parrocchia Sant’Apollinare di Calvenzano, Elia riceve quel giorno anche i nomi di “Michele” e “Giuseppe”.
            Quando ha sette anni la famiglia si trasferisce in località “Casetta” di Pioppe di Salvaro nel comune di Grizzana. Nel 1916 Elia inizia la scuola: frequenta le prime tre classi elementari a Calvenzano. In quel periodo riceve anche la Prima Comunione. Ancora piccolo, si mostra molto coinvolto nel catechismo e nelle celebrazioni liturgiche. Riceve la Cresima il 29 luglio 1917. Tra il 1919 e il 1922 Elia apprende i primi elementi di pastorale alla «scuola di fuoco» di Mons. Fidenzio Mellini che da giovane aveva conosciuto don Bosco, il quale gli aveva profetizzato il sacerdozio. Nel 1923, don Mellini orienta quindi ai Salesiani di Finale Emilia sia Elia sia il fratello Amleto ed entrambi faranno tesoro del carisma pedagogico del santo dei giovani: Amleto come docente e “imprenditore” nell’ambito della scuola; Elia come Salesiano di Don Bosco.
            Novizio dal 1° ottobre 1925 a San Lazzaro di Savena, Elia Comini resta orfano di padre il 14 settembre 1926, a pochi giorni (3 ottobre 1926) dalla sua Prima Professione religiosa che rinnoverà fino alla Perpetua, l’8 maggio 1931 nell’anniversario del battesimo, presso l’Istituto “San Bernardino” di Chiari. A Chiari sarà inoltre “tirocinante” presso l’Istituto Salesiano “Rota”. Riceve il 23 dicembre 1933 gli ordini minori dell’ostiariato e del lettorato; dell’esorcistato e dell’accolitato il 22 febbraio 1934. È suddiacono il 22 settembre 1934. Ordinato diacono nella cattedrale di Brescia il 22 dicembre 1934, don Elia è consacrato sacerdote per l’imposizione delle mani del Vescovo di Brescia Mons. Giacinto Tredici il 16 marzo del 1935, a soli 24 anni: il giorno successivo celebra la Prima Messa presso l’Istituto salesiano “San Bernardino” di Chiari. Il 28 luglio 1935 festeggerà con una Messa a Salvaro.
            Iscritto alla facoltà di Lettere Classiche e Filosofia dell’allora Regia Università di Milano, si fa sempre assai benvolere dagli allievi, sia come docente, sia come padre e guida nello Spirito: il suo carattere, serio senza rigidità, gli vale stima e fiducia. Don Elia è anche un fine musico e umanista, che apprezza e sa far apprezzare le “cose belle”. Nei componimenti scritti molti studenti, oltre a svolgere la traccia, trovano naturale aprire a don Elia il proprio cuore, fornendogli così occasione per accompagnarli e indirizzarli. Di don Elia “Salesiano” si dirà che era come la chioccia con attorno i pulcini («Si leggeva sul loro volto tutta la felicità di ascoltarlo: sembravano una covata di pulcini attorno alla chioccia»): tutti vicini a lui! Questa immagine richiama quella di Mt 23,37 ed esprime la sua attitudine a radunare le persone per rallegrarle e custodirle.
            Don Elia si laurea il 17 novembre 1939 in Lettere Classiche con una tesi sul De resurrectione carnis di Tertulliano, relatore il professore Luigi Castiglioni (latinista di fama nonché co-autore di un celebre dizionario di Latino, il “Castiglioni-Mariotti”): soffermandosi sulle parole «resurget igitur caro», Elia commenta che si tratta del canto di vittoria dopo una battaglia lunga ed estenuante.

Un viaggio senza ritorno
            Quando il fratello Amleto si trasferisce in Svizzera, la mamma – signora Emma Limoni – resta sola in Appennino: perciò don Elia, in piena intesa con i Superiori, le dedicherà ogni anno le proprie vacanze. Quando tornava a casa aiutava la mamma ma – sacerdote – si rendeva anzitutto disponibile nella pastorale locale, affiancando Mons. Mellini.
            D’accordo con i Superiori e in particolare l’Ispettore, don Francesco Rastello, don Elia torna a Salvaro anche nell’estate 1944: quell’anno spera di poter far sfollare la mamma da una zona dove, a breve distanza, forze Alleate, Partigiani ed effettivi nazi-fascisti definivano una situazione di particolare rischio. Don Elia è consapevole del pericolo che corre lasciando la sua Treviglio per recarsi a Salvaro e un confratello, don Giuseppe Bertolli sdb, ricorda: «salutandolo gli dissi che un viaggio come il suo avrebbe anche potuto essere senza ritorno; gli chiesi anche, naturalmente scherzando, che cosa mi avrebbe lasciato se non fosse tornato; egli mi rispose col mio stesso tono, che mi avrebbe lasciato i suoi libri…; poi non l’ho più visto». Don Elia era già consapevole di dirigersi verso “l’occhio del ciclone” e non ricercò nella casa Salesiana (dove agevolmente sarebbe potuto restare) una forma di tutela: «L’ultimo ricordo che ho di lui risale all’estate del 1944, quando, in occasione della guerra, la Comunità cominciò a sciogliersi; sento ancora le mie parole che bonariamente si rivolgevano a lui, con aria quasi di scherzo, ricordandogli che egli, in quei periodi oscuri che stavamo per affrontare, avrebbe dovuto sentirsi come privilegiato, in quanto sul tetto dell’Istituto era stata tracciata una croce bianca e nessuno avrebbe avuto il coraggio di bombardarlo. Egli però, come un profeta, mi rispose di stare bene attento perché durante le vacanze avrei potuto leggere sui giornali che Don Elia Comini era morto eroicamente nell’adempimento del suo dovere». «L’impressione del pericolo al quale egli si esponeva era viva in tutti», ha commentato un confratello.
            Lungo il viaggio verso Salvaro don Comini sosta a Modena, dove rimedia una brutta ferita a una gamba: stando a una ricostruzione, per essersi interposto tra un veicolo e un passante, scongiurando così un più grave incidente; stando a un’altra, per aver aiutato un signore a spingere un carretto. Ad ogni modo, per aver soccorso il prossimo. Dietrich Bonhoeffer ha scritto: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante».
            L’episodio di Modena esprime, in tal senso, un atteggiamento di don Elia che a Salvaro, nei mesi successivi, sarebbe emerso ancora di più: interporsi, mediare, accorrere in prima persona, esporre la propria vita per i fratelli, sempre cosciente del rischio che ciò comporta e serenamente disposto a pagarne le conseguenze.

Un pastore sul fronte di guerra
            Claudicante, arriva a Salvaro al tramonto del 24 giugno 1944, appoggiandosi come può a un bastone: insolito strumento, per un giovane di 34 anni! Trova la canonica trasformata: Mons. Mellini vi ospita decine di persone, appartenenti a nuclei familiari di sfollati; inoltre, le 5 suore Ancelle del Sacro Cuore, responsabili dell’asilo, tra cui suor Alberta Taccini. Anziano, stanco e scosso dagli eventi bellici, in quell’estate Mons. Fidenzio Mellini fa fatica a decidere, è diventato più fragile e incerto. Don Elia, che lo conosce sin da bambino, comincia ad aiutarlo in tutto e prende un po’ in mano la situazione. La ferita alla gamba gli impedisce inoltre di far sfollare la mamma: don Elia rimane a Salvaro e, quando può di nuovo camminare bene, le mutate circostanze e i crescenti bisogni pastorali faranno sì che vi resti.
            Don Elia rianima la pastorale, segue il catechismo, si occupa degli orfani abbandonati a se stessi. Accoglie inoltre gli sfollati, incoraggia i timorosi, modera gli imprudenti. Quella di don Elia diventa una presenza aggregante, un segno buono in quei drammatici frangenti dove i rapporti umani sono dilaniati da sospetti e contrapposizioni. Mette al servizio di tanta gente le capacità organizzative e l’intelligenza pratica allenate in anni di vita salesiana. Scrive al fratello Amleto: «Certo sono momenti drammatici, e peggiori se ne presagiscono. Speriamo tutto nella grazia di Dio e nella protezione della Madonna, che dovete invocare voi per noi. Spero di potervi fare avere ancora nostre notizie».
            I tedeschi della Wehrmacht presidiano la zona e, sulle alture, c’è la brigata partigiana “Stella Rossa”. Don Elia Comini resta una figura estranea a rivendicazioni o partigianerie di sorta: è un sacerdote e fa valere istanze di prudenza e pacificazione. Ai partigiani diceva: «Ragazzi, guardate quel che fate, perché rovinate la popolazione…», esponendola a ritorsioni. Loro lo rispettano e, nel luglio e nel settembre 1944, chiederanno Messe nella parrocchiale di Salvaro. Don Elia accetta, facendo scendere i partigiani e celebrando senza nascondersi, evitando invece di salire lui in zona partigiana e preferendo – come sempre farà quell’estate – restare a Salvaro o in zone limitrofe, senza nascondersi né scivolare in atteggiamenti “ambigui” agli occhi dei nazi-fascisti.
            Il 27 luglio don Elia Comini scrive le ultime righe del suo Diario spirituale: «27 luglio: mi trovo proprio nel mezzo della guerra. Ho nostalgia dei miei confratelli e della mia casa di Treviglio; se potessi, tornerei domani».
            Dal 20 luglio, condivideva una fraternità sacerdotale con padre Martino Capelli, Dehoniano, nato il 20 settembre 1912 a Nembro nella bergamasca e già docente di Sacra Scrittura a Bologna, anch’egli ospite di Mons. Mellini e in aiuto alla pastorale.
            Elia e Martino sono due studiosi di lingue antiche che devono ora provvedere alle cose più pratiche e materiali. La canonica di Mons. Mellini diventa ciò che Mons. Luciano Gherardi ha poi chiamato «la comunità dell’arca», un posto che accoglie per salvare. Padre Martino era un religioso che si era infervorato quando aveva sentito parlare dei martiri messicani e avrebbe desiderato essere missionario in Cina. Elia, sin da giovane, è inseguito da una strana consapevolezza di “dover morire” e già a 17 anni aveva scritto: «Persiste sempre in me il pensiero che debba morire! – Chissà?! Facciamo come il servo fedele: sempre preparato all’appello, a “reddere rationem” della gestione».
            Il 24 luglio don Elia inizia il catechismo per i bambini in preparazione alle prime Comunioni, in calendario per il 30 luglio. Il 25, nasce una bambina nel battistero (tutti gli spazi, dalla sacrestia al pollaio, erano stracolmi) e si appende un fiocco rosa.
            Per l’intero mese di agosto 1944, soldati della Wehrmacht stazionano presso la canonica di Mons. Mellini e nello spazio antistante. Tra tedeschi, sfollati, consacrati… la tensione sarebbe potuta scoppiare ogni momento: don Elia media e previene anche in piccole cose, per esempio facendo da “ammortizzatore” tra il volume troppo alto della radio dei tedeschi e la pazienza ormai troppo corta di Mons. Mellini. Ci fu anche qualche po’ di Rosario tutti assieme. Don Angelo Carboni conferma: «Nell’intento sempre di confortare Monsignore, D. Elia si adoprò molto contro la resistenza d’una compagnia di Tedeschi che, impostatisi a Salvaro il 1° agosto, voleva occupare diversi ambienti della Canonica togliendo ogni libertà e comodità ai famigliari e sfollati ivi ospitati. Accomodati i Tedeschi nell’archivio di Monsignore, eccoli di nuovo a disturbare, occupando coi loro carri buona parte del piazzale della Chiesa; con modi ancor più gentili e persuasive parole, D. Elia ottenne anche quest’altra liberazione a conforto di Monsignore, che l’oppressione della lotta aveva costretto al riposo». In quelle settimane, il sacerdote salesiano è fermo nel tutelare il diritto di Mons. Mellini a muoversi con un certo agio in casa propria – nonché quello degli sfollati a non essere allontanati dalla canonica –: tuttavia riconosce alcune esigenze degli uomini della Wehrmacht e ciò ne attira la benevolenza verso Mons. Mellini che i soldati tedeschi impareranno a chiamare il pastore buono. Dai tedeschi, don Elia ottiene cibo per gli sfollati. Inoltre, canticchia per calmare i bambini e racconta episodi della vita di don Bosco. In un’estate segnata da uccisioni e ritorsioni, con don Elia alcuni civili riescono persino ad andare a sentire un poco di musica, evidentemente diffusa dall’apparecchio dei tedeschi, e a comunicare con i soldati attraverso brevi cenni. Don Rino Germani sdb, Vicepostulatore della Causa, afferma: «Tra le due forze in lotta si inserisce l’opera instancabile e mediatrice del Servo di Dio. Quando occorre si presenta al Comando tedesco e con educazione e preparazione riesce a conquistare la stima di qualche ufficiale. Così molte volte ottiene di evitare ritorsioni, saccheggi e lutti».
            Liberata la canonica dalla presenza fissa della Wehrmacht il 1° settembre 1944 – «Il 1° settembre i tedeschi lasciarono libera la zona di Salvaro, solo qualcuno rimase per pochi giorni ancora nella casa Fabbri» – la vita a Salvaro può trarre un respiro di sollievo. Don Elia Comini persevera intanto nelle iniziative di apostolato, coadiuvato dagli altri sacerdoti e dalle suore.
            Mentre tuttavia padre Martino accetta alcuni inviti a predicare altrove e sale in quota, dove i suoi capelli chiari gli fanno correre un grosso guaio con i partigiani che lo sospettano tedesco, don Elia resta sostanzialmente stanziale. L’8 settembre scrive al direttore salesiano della Casa di Treviglio: «Ti lascio immaginare il nostro stato d’animo in questi momenti. Abbiamo attraversato giornate nerissime e drammatiche. […] Il mio pensiero è sempre con te e coi cari confratelli di costì. Sento vivissima la nostalgia […]».
            Dall’11 predica gli Esercizi alle Suore sul tema dei Novissimi, dei voti religiosi e della vita del Signore Gesù.
            Tutta la popolazione – ha dichiarato una consacrata – amava Don Elia, anche perché egli non esitava a spendersi per tutti, in ogni momento; non chiedeva soltanto alle persone di pregare, ma offriva loro un valido esempio con la sua pietà e quel poco di apostolato che, data la circostanza, era possibile esercitare.
            L’esperienza degli Esercizi imprime un diverso dinamismo all’intera settimana, e coinvolge trasversalmente consacrati e laici. Alla sera, infatti, don Elia raduna 80-90 persone: si cercava di stemperare la tensione con un po’ di allegria, buoni esempi, carità. In quei mesi sia lui sia padre Martino, come altri sacerdoti: primo tra tutti don Giovanni Fornasini, erano in prima linea in tante opere di bene.

L’eccidio di Montesole
            La strage più efferata e più grande compiuta dalle SS naziste in Europa, nel corso della guerra del 1939-45, è stata quella consumata attorno a Monte Sole, nei territori di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno, anche se è comunemente nota come la “strage di Marzabotto”.
            Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 i caduti furono 770, ma nel complesso le vittime di tedeschi e fascisti, dalla primavera del 1944 alla liberazione, furono 955, distribuite in 115 diverse località all’interno di un vasto territorio che comprende i comuni di Marzabotto, Grizzana e Monzuno e alcune porzioni dei territori limitrofi. Di questi, 216 furono i bambini, 316 le donne, 142 gli anziani, 138 le vittime riconosciute partigiani, cinque i sacerdoti, la cui colpa agli occhi dei tedeschi consisteva nell’essere stati vicini, con la preghiera e l’aiuto materiale, a tutta la popolazione di Monte Sole nei tragici mesi di guerra e occupazione militare. Insieme a don Elia Comini, Salesiano, e a padre Martino Capelli, Dehoniano, in quei tragici giorni furono uccisi anche tre sacerdoti dell’Arcidiocesi di Bologna: don Ubaldo Marchioni, don Ferdinando Casagrande, don Giovanni Fornasini. Di tutti e cinque è in corso la Causa di Beatificazione e Canonizzazione. Don Giovanni, l’“Angelo di Marzabotto”, cadde, il 13 ottobre 1944. Aveva ventinove anni e il suo corpo rimase insepolto fino al 1945, quando venne ritrovato pesantemente martoriato; è stato beatificato il 26 settembre 2021. Don Ubaldo morì il 29 settembre, ucciso dal mitra sulla predella dell’altare della sua chiesa di Casaglia; aveva 26 anni, era stato ordinato prete due anni prima. I soldati tedeschi trovarono lui e la comunità intenti nella preghiera del rosario. Lui fu ucciso lì, ai piedi dell’altare. Gli altri – più di 70 – nel cimitero vicino. Don Ferdinando fu ucciso, il 9 ottobre, da un colpo di pistola alla nuca, con la sorella Giulia; aveva 26 anni.

Dalla Wehrmacht alle SS
            Il 25 settembre la Wehrmacht lascia la zona e cede il comando alle SS del 16 Battaglione della Sedicesima Divisione Corazzata “Reichsfürer” – SS”, una Divisione che include elementi SS “Totenkopf – Testa di morto” ed era preceduta da una scia di sangue, essendo stata presente a Sant’Anna di Stazzema (Lucca) il 12 agosto 1944; a San Terenzo Monti (Massa-Carrara, in Lunigiana) il 17 di quel mese; a Vinca e dintorni (Massa-Carrara, in Lunigiana alle pendici delle Alpi Apuane) dal 24 al 27 agosto.
            Il 25 settembre le SS stabiliscono l’’“Alto comando” a Sibano. Il 26 settembre si portano a Salvaro, dove è anche don Elia: zona fuori dall’area di immeditata influenza partigiana. La durezza dei comandanti nel perseguire il più totale disprezzo della vita umana, l’abitudine a mentire circa il destino dei civili e l’assetto paramilitare – che ricorreva volentieri a tecniche da “terra bruciata”, in dispregio a qualsivoglia codice di guerra o legittimità di ordini impartiti dall’alto – ne faceva uno squadrone della morte che nulla lasciava di intatto al proprio passaggio. Alcuni avevano ricevuto una formazione di stampo esplicitamente concentrazionista ed eliminazionista, deputata a: soppressione della vita, con finalità ideologica; odio verso chi professava la fede ebraico-cristiana; disprezzo per i piccoli, i poveri, gli anziani e i deboli; persecuzione di chi si opponesse alle aberrazioni del nazionalsocialismo. C’era un vero e proprio catechismo – anticristiano e anticattolico – dei quali le giovani SS erano impregnate.
            «Quando si pensa che la gioventù nazista era formata nel disprezzo della personalità umana degli ebrei e delle altre razze “non elette”, nel fanatico culto di una pretesa superiorità nazionale assoluta, nel mito della violenza creatrice e delle “armi nuove” apportatrici di giustizia nel mondo, si comprende dove fossero le radici delle aberrazioni, rese più facili dall’atmosfera di guerra e dal timore di una deludente sconfitta».
            Don Elia Comini – con padre Capelli – accorre per confortare, rassicurare, esortare. Decide si accolgano in canonica soprattutto i superstiti delle famiglie in cui i tedeschi avevano ucciso per ritorsione. Così facendo, sottrae i sopravvissuti al pericolo di trovare la morte poco dopo, ma soprattutto li strappa – almeno nella misura del possibile – a quella spirale di solitudine, disperazione e perdita di volontà di vivere che si sarebbe potuta tradurre addirittura in desiderio di morte. Riesce inoltre a parlare ai tedeschi e, in almeno un’occasione, a far desistere le SS dal loro proposito, facendole sfilare oltre e potendo quindi avvertire successivamente i rifugiati di fuoriuscire dal nascondiglio.
            Il Vicepostulatore don Rino Germani sdb scriveva: «Arriva don Elia. Li rassicura. Dice loro di venir fuori, perché i tedeschi sono andati via. Parla con i tedeschi e li fa andare oltre».
            Viene ucciso anche Paolo Calanchi, un uomo cui la coscienza nulla rimprovera e che commette l’errore di non scappare. Sarà ancora don Elia ad accorrere, prima che le fiamme ne aggrediscano il corpo, tentando almeno di onorarne le spoglie non essendo arrivato in tempo per salvargli la vita: «Il corpo di Paolino viene salvato dalle fiamme proprio da don Elia che, a rischio della vita, lo raccoglie e trasporta con un carretto alla Chiesa di Salvaro».
            La figlia di Paolo Calanchi ha testimoniato: «Mio padre era un uomo buono ed onesto [«in tempi di tessera annonaria e di carestia dava pane a chi non ne aveva»] e aveva rifiutato di scappare sentendosi tranquillo verso tutti. Fu ucciso dai tedeschi, fucilato, per rappresaglia; più tardi fu incendiata anche la casa, ma il corpo di mio padre era stato salvato dalle fiamme proprio da Don Comini, che, a rischio della propria vita, lo aveva raccolto e trasportato con un carretto alla Chiesa di Salvaro, dove, in una cassa da lui costruita con assi di ripiego, fu inumato nel cimitero. Così, grazie al coraggio di Don Comini e, molto probabilmente, anche di Padre Martino, terminata la guerra, io e mia madre potemmo ritrovare e far trasportare la bara del nostro caro nel cimitero di Vergato, insieme a quella di mio fratello Gianluigi, morto 40 giorni dopo nell’attraversare il fronte».
            Una volta don Elia aveva detto della Wehrmacht: «Dobbiamo amare anche questi Tedeschi che ci vengono a disturbare». «Amava tutti senza preferenza». Il ministero di don Elia fu molto prezioso per Salvaro e tanti sfollati, in quei giorni. Testimoni hanno dichiarato: «Don Elia è stato la nostra fortuna perché avevamo il Parroco troppo anziano e debole. Tutta la popolazione sapeva che Don Elia aveva questo interesse nei nostri riguardi; Don Elia ha aiutato tutti. Si può dire che tutti i giorni lo vedevamo. Diceva la Messa, ma poi era spesso sul sagrato della chiesa a guardare: i tedeschi erano giù, verso il Reno; i partigiani venivano dal monte, verso la Creda. Una volta, per esempio, (qualche giorno prima del 26) vennero i partigiani. Noi si usciva dalla chiesa di Salvaro e c’erano i partigiani lì, tutti armati; e Don Elia si raccomandava tanto che se ne andassero, per evitare dei guai. Lo ascoltarono e se ne andarono. Probabilmente, se non ci fosse stato lui, quello che è successo dopo, sarebbe avvenuto molto prima»; «Da quanto mi risulta Don Elia era l’anima della situazione, in quanto con la sua personalità sapeva tenere in pugno tante cose che in quei momenti drammatici erano di importanza vitale».
            Anche se era un sacerdote giovane, don Elia Comini era affidabile. Questa sua affidabilità, unita a una profonda rettitudine, lo accompagnava un po’ da sempre, addirittura da chierico come risulta da una testimonianza: «L’ho avuto quattro anni al Rota, dal 1931 al 1935, e, sebbene ancora chierico, mi ha dato un aiuto che ben difficilmente avrei trovato in altro confratello anche anziano».

Il triduo di passione
            La situazione comunque precipita dopo pochi giorni, il 29 settembre mattina quando le SS compiono una terribile strage in località “Creda”. Il segnale per l’inizio della strage sono un razzo bianco e uno rosso in aria: cominciano a sparare, le mitragliatrici colpiscono le vittime, asserragliate contro un portico e pressoché senza via di scampo. Vengono quindi lanciate bombe a mano, alcune incendiarie e la stalla – dove alcuni erano riusciti a trovare scampo – prende fuoco. Pochi uomini, cogliendo un istante di distrazione delle SS in quell’inferno, si precipitano giù verso il bosco. Attilio Comastri, ferito, si salva perché il corpo esanime della moglie Ines Gandolfi gli ha fatto scudo: vagherà per giorni, in stato di shock, finché riuscirà a passare il fronte e ad aver salva la vita; aveva perso, oltre alla moglie, la sorella Marcellina e la figlia Bianca, di due anni appena. Anche Carlo Cardi riesce a salvarsi, ma la sua famiglia è sterminata: Walter Cardi aveva solo 14 giorni, fu la più piccola vittima dell’eccidio di Monte Sole. Mario Lippi, uno degli scampati, attesta: «Non so io stesso come mi fossi miracolosamente salvato, dato che di 82 persone raccolte sotto al portico, ne rimasero uccise 70 [69, stando alla ricostruzione ufficiale]. Ricordo che oltre al fuoco delle mitragliatrici, i tedeschi scagliarono su di noi anche delle bombe a mano e credo che fossero alcune schegge di queste a ferirmi leggermente nel fianco destro, nella schiena e nel braccio destro. Io, insieme con altre sette persone, profittando che in [un] lato del portico vi era una porticina che portava nella strada, scappai verso il bosco. I tedeschi, vistici fuggire, ci spararono dietro, uccidendo uno di noi [di] nome Gandolfi Emilio. Preciso che tra le 82 persone raccolte sotto il sunnominato portico vi erano anche una ventina di bambini, di cui due in fasce, sulle braccia delle rispettive madri, e una ventina di donne».
            Alla Creda sono 21 i bimbi sotto gli 11 anni, alcuni molto piccoli; 24 le donne (di cui una adolescente); quasi 20 gli “anziani”. Tra le famiglie più colpite i Cardi (7 persone), i Gandolfi (9 persone), i Lolli (5 persone), i Macchelli (6 persone).
            Dalla canonica di Mons. Mellini, guardando in alto, a un certo punto si vede il fumo: ma è mattina presto, la Creda resta nascosta allo sguardo e il bosco attutisce i rumori. In parrocchia quel giorno – 29 settembre festa dei Santi Arcangeli – si celebrano tre Messe, di mattina presto, in immediata successione: quella di Mons. Mellini; quella di padre Capelli che si reca poi a portare una Estrema unzione in località “Casellina”; quella di don Comini. Ed è allora che il dramma bussa alla porta: «Ferdinando Castori, sfuggito anche lui alla strage, giunse alla chiesa di Salvaro imbrattato di sangue come un macellaio, e andò a nascondersi dentro la cuspide del Campanile». Verso le 8 giunge in canonica un uomo sconvolto: sembrava «un mostro per l’aspetto terrorizzante», dice suor Alberta Taccini. Chiede aiuto per i feriti. Una settantina di persone è morta o sta morendo tra terribili supplizi. Don Elia, in pochi istanti, ha la lucidità di nascondere 60/70 uomini in sagrestia, spingendo contro la porta un vecchio armadio che lasciava la soglia visibile da sotto, ma era nondimeno l’unica speranza di salvezza: «Fu allora che Don Elia, proprio lui, ebbe l’idea di nascondere gli uomini a fianco della sacrestia, mettendo poi un armadio davanti alla porta (lo aiutarono una o due persone che erano in casa di Monsignore). L’idea fu di Don Elia; ma tutti erano contrari al fatto che fosse Don Elia a compiere quel lavoro… L’ha voluto lui. Gli altri dicevano: “E se poi ci scoprono?”». Un’altra ricostruzione: «Don Elia riuscì a nascondere in un locale attiguo alla sacrestia una sessantina di uomini e contro l’uscio spinse un vecchio armadio. Intanto il crepitare delle mitraglie e gli urli disperati della gente giungevano dalle case vicine. Don Elia ebbe la forza di iniziare il S. Sacrificio della Messa, l’ultima della sua vita. Non aveva ancora terminato, che giunse atterrito e trafelato un giovane della località “Creda” a chiedere soccorso perché le SS avevano circondato una casa e arrestato sessantanove persone, uomini, donne, bambini».
            «Ancora in paramenti sacri, prostrato all’altare, immerso in preghiera, invoca per tutti l’aiuto del Sacro Cuore, l’intercessione di Maria Ausiliatrice, di san Giovanni Bosco e di san Michele Arcangelo. Poi, con un breve esame di coscienza, recitato tre volte l’atto di dolore, fa loro una preparazione alla morte. Raccomanda all’assistenza delle suore tutte quelle persone e alla Superiora di guidare forte la preghiera perché i fedeli possano trovare in essa il conforto del quale hanno bisogno».
            A proposito di don Elia e di padre Martino, rientrato poco dopo, «si constatano alcune dimensioni di una vita sacerdotale spesa consapevolmente per gli altri fino all’ultimo istante: la loro morte è stata un prolungare nel dono della vita la Messa celebrata fino all’ultimo giorno». La loro scelta aveva «radici lontane, nella decisione di fare del bene anche se si fosse all’ultima ora, disposti anche al martirio»: «molte persone vennero a cercare aiuto in parrocchia e, all’insaputa del parroco, Don Elia e Padre Martino cercarono di nascondere quante più persone possibili; poi assicuratisi che fossero in qualche modo assistite, corsero sul luogo dei massacri per poter portare aiuto anche ai più sfortunati; lo stesso Mons. Mellini non si rese conto di ciò e continuava a cercare i due preti per farsi aiutare a ricevere tutta quella gente» («Abbiamo la certezza che nessuno di essi era partigiano o era stato coi partigiani»).
            In quei momenti, don Elia attesta grande lucidità che si traduce sia in spirito organizzativo, sia nella consapevolezza di mettere a repentaglio la propria vita: «Alla luce di tutto ciò, e Don Elia lo sapeva bene, non possiamo quindi ricercare quella carità che induce al tentativo di aiutare gli altri, ma piuttosto quel tipo di carità (che poi è stata la stessa di Cristo) che induce a partecipare fino in fondo alla sofferenza altrui, non temendo neppure la morte come sua ultima manifestazione. Il fatto che la sua sia stata una scelta lucida e ben ragionata, viene anche dimostrato dallo spirito organizzativo che ha manifestato fino a pochi minuti prima della morte, nel tentare con prontezza ed intelligenza di nascondere quante più persone possibile nei locali nascosti della canonica; poi la notizia della Creda e, dopo la carità fraterna, la carità eroica».
            Una cosa è certa: se don Elia si fosse nascosto con tutti gli altri uomini o anche solo fosse rimasto accanto a Mons. Mellini, non avrebbe avuto nulla da temere. Invece, don Elia e padre Martino prendono la stola, gli oli santi e una teca con alcune Particole consacrate «partirono quindi per la montagna, armati della stola e dell’olio degli infermi»: «Quando Don Elia tornò dall’essere andato da Monsignore, prese la Pisside con le Ostie e l’Olio Santo e si voltò verso di noi: ancora quel volto! era talmente pallido, che sembrava uno già morto. E disse: “Pregate, Pregate per me, perché ho una missione da compiere”». «Pregate per me, non lasciatemi solo!». «Noi siamo sacerdoti e dobbiamo andare e dobbiamo fare il nostro dovere». «Andiamo a portare il Signore ai nostri fratelli».
            Su alla Creda c’è tanta gente che sta morendo tra supplizi: devono accorrere, benedire e – se possibile – provare a interporsi rispetto alle SS.
            La signora Massimina [Zappoli], poi teste anche all’indagine militare di Bologna, ricorda: «Nonostante le preghiere di tutti noi, essi celebrarono in fretta l’Eucaristia e, spinti solo dalla speranza di poter fare qualcosa per le vittime di tanta ferocia almeno con un conforto spirituale, presero il SS. Sacramento e corsero verso la Creda. Ricordo che mentre Don Elia, già lanciato nella sua corsa, mi passò accanto in cucina, io mi aggrappai a lui in un ultimo tentativo di dissuaderlo, dicendo che noi saremmo rimasti in balia di noi stessi; egli fece capire che, per quanto fosse grave la nostra situazione, c’era chi stava peggio di noi ed era da questi che loro dovevano andare».
            Egli è irremovibile e si rifiuta, come poi Mons. Mellini suggerì, di ritardare la salita alla Creda quando i tedeschi se ne fossero andati: «È stata [perciò] una passione, prima che cruenta, […] del cuore, la passione dello spirito. In quei tempi si era terrorizzati da tutto e da tutti: non si aveva più fiducia di nessuno: chiunque poteva essere un nemico determinante per la propria vita. Quando i due Sacerdoti si son resi conto che qualcuno aveva veramente bisogno di loro non hanno avuto tanto tentennamento a decidere cosa fare […] e soprattutto non sono ricorsi a quella che era la decisione immediata per tutti, cioè, trovare un nascondiglio, cercare di coprirsi e di essere fuori dalla mischia. I due Sacerdoti, invece, ci sono andati dentro, consapevolmente, sapendo che la loro vita era al 99% a rischio; e ci sono andati per essere veramente sacerdoti: cioè, per assistere e per confortare; per dare anche il servizio dei Sacramenti, quindi della preghiera, del conforto che la fede e la religione offrono».
            Una persona ha detto: «Don Elia, per noi, era già santo. Se fosse stato una persona normale […] non si sarebbe messo; si sarebbe nascosto anche lui, dietro l’armadio, come tutti gli altri».
            Con gli uomini nascosti, sono le donne a provare a trattenere i sacerdoti, in un estremo tentativo di salvar loro la vita. La scena è al contempo concitata ed assai eloquente: «Lidia Macchi […] e altre donne provarono a impedir loro di partire, tentarono di trattenerli per la tonaca, li rincorsero, li richiamarono a gran voce perché ritornassero indietro: spinti da una forza interiore che è ardore di carità e sollecitudine missionaria, essi stavano ormai decisamente camminando verso la Creda portando i conforti religiosi».
            Una di loro ricorda: «Li abbracciai, li tenevo fermi per le braccia, dicendo e supplicando: – Non andate! – Non andate!».
            E Lidia Marchi aggiunge: «Io tiravo Padre Martino per la veste e lo trattenevo […] ma tutti e due i sacerdoti ripetevano: – Dobbiamo andare; il Signore ci chiama».
            «Dobbiamo compiere il nostro dovere. E [don Elia e padre Martino,] come Gesù, andarono incontro a una sorte segnata».
            «La decisione di recarsi alla Creda fu scelta dai due sacerdoti per puro spirito pastorale; nonostante tutti cercassero di dissuaderli, essi vollero andare spinti dalla speranza di poter salvare qualcuno di coloro che erano in balia della rabbia dei soldati».
            Alla Creda, quasi senz’altro, non arrivarono mai. Catturati, stando a una testimone, presso un “pilastrello”, appena fuori dal campo visivo della parrocchia, don Elia e padre Martino furono visti più tardi carichi di munizioni, alla testa di rastrellati, o ancora soli, legati, con catene, vicino a un albero mentre non c’era alcuna battaglia in corso e le SS mangiavano. Don Elia intimò a una donna di scappare, di non fermarsi per evitare di essere uccisa: «Anna, per carità, scappa, scappa».
            «Erano carichi e curvi sotto il peso di tante cassettine pesanti che dalle spalle avvolgevano il corpo davanti e dietro. Con la schiena facevano una curva che li portava quasi con il naso a terra».
            «Seduti per terra […] molto sudati e stanchi, con le munizioni sulla schiena».
            «Arrestati vengono costretti a portare munizioni su e giù per il monte, testimoni di inaudite violenze».
            «[Le SS li fanno] più volte scendere e salire per il monte, sotto la loro scorta, e compiendo inoltre, sotto gli occhi delle due vittime, le più raccapriccianti violenze».
            Dove sono, ora, la stola, gli oli santi e soprattutto il Santissimo Sacramento? Non ce n’è più alcuna traccia. Lontani da occhi indiscreti, le SS ne hanno spogliato a forza i sacerdoti, liberandosi di quel Tesoro di cui nulla si sarebbe più trovato.
Verso la sera del 29 settembre 1944, furono tradotti con molti altri uomini (rastrellati e non per rappresaglia o non perché filo-partigiani, come le fonti dimostrano), presso la casa “dei Birocciai” a Pioppe di Salvaro. Più tardi essi, suddivisi, avranno sorti diversissime: pochi saranno liberati, dopo una serie di interrogatori. La maggior parte, valutati abili al lavoro, verranno deferiti ai campi di lavoro coatto e potranno – in seguito – tornare alle proprie famiglie. I valutati inabili, per mero criterio anagrafico (cf. campi di concentramento) o di salute (giovane, ma ferito o che si simula malato sperando di salvarsi) verranno uccisi la sera del 1° ottobre alla “Botte” della Canapiera di Pioppe di Salvaro, ormai un rudere perché bombardata dagli Alleati giorni prima.
            Don Elia e padre Martino – che furono interrogati – poterono muoversi fino all’ultimo nella casa e ricevere visite. Don Elia intercedette per tutti e un giovane, molto provato, si addormentò sulle sue ginocchia: in una di esse, don Elia ricevette il Breviario, a lui tanto caro e che volle tenere con sé sino agli ultimi istanti. Oggi, l’attenta ricerca storica attraverso le fonti documentali, supportata dalla più recente storiografia di parte laica, ha dimostrato come non fosse mai andato a buon fine un tentativo di liberare don Elia, messo in atto dal Cavalier Emilio Veggetti, e come don Elia e padre Martino non siano mai realmente stati considerati o perlomeno trattati come “spie”.

L’olocausto
            Infine, vennero inseriti, benché giovani (34 e 32 anni), nel gruppo degli inabili e con essi giustiziati. Vissero quegli ultimi istanti pregando, facendo pregare, essendosi assolti a vicenda e donato ogni possibile conforto di fede. Don Elia riuscì a trasformare la macabra processione dei condannati fino a una passerella antistante l’invaso della canapiera, dove verranno uccisi, in un atto corale di affidamento, tenendo finché poté il Breviario aperto in mano (poi, si legge, un tedesco colpì con violenza le sue mani e il Breviario cadde nell’invaso) e soprattutto intonando le Litanie. Quando fu aperto il fuoco, don Elia Comini salvò un uomo perché gli faceva scudo col proprio corpo e gridò «Pietà». Padre Martino invocò invece “Perdono”, ergendosi a fatica nell’invaso, tra i compagni morti o morenti, e tracciando il segno di Croce pochi istanti prima di morire egli stesso, a causa di una enorme ferita. Le SS vollero assicurarsi che nessuno sopravvivesse lanciando alcune bombe a mano. Nei giorni successivi, stante l’impossibilità a recuperare le salme immerse in acqua e fango a causa di abbondanti piogge (vi provarono le donne, ma nemmeno don Fornasini poté riuscirvi), un uomo aprì le griglie e l’impetuosa corrente del fiume Reno portò via tutto. Nulla venne mai più trovato di loro: consummatum est!
            Si era delineato il loro essere disposti «anche al martirio, anche se agli occhi degli uomini appare stolto rifiutare la propria salvezza per dare un misero sollievo a chi era già destinato alla morte». Mons. Benito Cocchi nel settembre 1977 a Salvaro disse: «Ebbene qui davanti al Signore diciamo che la nostra preferenza va a questi gesti, a queste persone, a coloro che pagano di persona: a chi in un momento in cui valevano solo le armi, la forza e la violenza, quando una casa, la vita di un bimbo, un’intera famiglia erano valutati niente, seppe compiere gesti che non hanno voce nei bilanci di guerra, ma che sono veri tesori di umanità, resistenza e alternativa alla violenza; a chi in questo modo poneva radici per una società e una convivenza più umana».
            In tal senso, «Il martirio dei sacerdoti costituisce il frutto della loro scelta consapevole di condividere la sorte del gregge fino all’estremo sacrificio, quando gli sforzi di mediazione tra popolazione e gli occupanti, a lungo perseguiti, vengono a perdere ogni possibilità di successo».
            Don Elia Comini era stato lucido sulla propria sorte, dicendo – già nelle prime fasi di detenzione –: «Per far del bene ci troviamo in tante pene»; «Era Don Elia che additando il cielo salutava con gli occhi imperlati». «Elia si è affacciato e mi ha detto: “Vada a Bologna, dal Cardinale, e gli dica dove ci troviamo”. Gli ho risposto: “Come faccio ad andare a Bologna?”. […] Intanto i soldati mi spingevano con la canna del fucile. D. Elia mi ha salutato dicendo: “Ci vedremo in paradiso!”. Ho gridato: “No, no, non dica questo”. Ha risposto, mesto e rassegnato: “Ci vedremo in Paradiso”».
            Con don Bosco…: «[Vi] aspetto tutti in Paradiso»!
            Era la sera del 1° ottobre, inizio del mese dedicato al Rosario e alle Missioni.
            Negli anni della sua prima giovinezza, Elia Comini aveva detto a Dio: «Signore, preparami ad essere il meno indegno per essere vittima accetta» (“Diario” 1929); «Signore, […] ricevimi pure come vittima espiatoria» (1929); «vorrei essere una vittima d’olocausto» (1931). «[A Gesù] ho domandato la morte piuttosto che venir meno alla vocazione sacerdotale e all’amore eroico per le anime» (1935).




La vita secondo lo Spirito in Mamma Margherita (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

4. Esodo verso il sacerdozio del figlio
            Dal sogno dei nove anni, quando è la sola ad intuire la vocazione del figlio, «chissà che non abbia a diventare prete», è la più convinta e tenace sostenitrice della vocazione del figlio, affrontando per questo umiliazioni e sacrifici: «Sua madre allora, che voleva secondarlo a costo di qualunque sacrifizio, non esitò a prendere la risoluzione di fargli frequentare le scuole pubbliche di Chieri nell’anno seguente. Quindi si diede premura di trovar persone veramente cristiane presso le quali potesse collocarlo in pensione». Margherita segue con discrezione il cammino vocazionale e formativo di Giovanni, tra gravi strettezze economiche.
            Lo lascia sempre libero nelle sue scelte e non condiziona per nulla il suo cammino verso il sacerdozio, ma quando il parroco cerca di convincere Margherita perché Giovanni non intraprenda una scelta di vita religiosa, così da garantirle una sicurezza economica e un aiuto, subito raggiunge il figlio e pronuncia delle parole che resteranno scolpite tutta la vita nel cuore di Don Bosco: «Io voglio solamente che tu esamini attentamente il passo che vuoi fare, e che poi seguiti la tua vocazione senza guardar ad alcuno. Il parroco voleva che io ti dissuadessi da questa decisione, in vista del bisogno che potrei avere in avvenire del tuo aiuto. Ma io dico: in queste cose non c’entro, perché Dio è prima di tutto. Non prenderti fastidio per me. Io da te non voglio niente; niente aspetto da te. Ritieni bene: sono nata in povertà, sono vissuta in povertà, voglio morire in povertà. Anzi te lo protesto. Se tu ti risolvessi allo stato di prete secolare e per sventura diventassi ricco, io non verrò a farti neppure una sola visita, anzi non porrò mai più piede in casa tua. Ricordalo bene!».
            Ma in questo cammino vocazionale non manca di essere forte nei confronti del figlio, ricordandogli, in occasione della partenza per il seminario di Chieri, le esigenze legate alla vita sacerdotale: «Giovanni mio, tu hai vestito l’abito sacerdotale; io ne provo tutta la consolazione che una madre può provare per la fortuna di suo figlio. Ma ricordati che non è l’abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Se mai tu venissi a dubitare di tua vocazione, ah per carità! non disonorare quest’abito! Deponilo tosto. Amo meglio avere un povero contadino, che un figlio prete trascurato nei suoi doveri». Don Bosco non dimenticherà mai queste parole di sua madre, espressione sia della coscienza della dignità sacerdotale, che frutto di una vita profondamente retta e santa.
            Il giorno della Prima Messa di Don Bosco ancora una volta Margherita si rende presente con parole ispirate dallo Spirito, sia esprimendo il valore autentico del ministero sacerdotale, che la consegna totale del figlio alla sua missione senza alcuna pretesa o richiesta: «Sei prete; dici la Messa; da qui avanti sei adunque più vicino a Gesù Cristo. Ricordati però che incominciare a dir Messa vuol dire cominciar a patire. Non te ne accorgerai subito, ma a poco a poco vedrai che tua madre ti ha detto la verità. Sono sicura che tutti i giorni pregherai per me, sia ancora io viva, o sia già morta; ciò mi basta. Tu da qui innanzi pensa solamente alla salute delle anime e non prenderti nessun pensiero di me». Lei rinuncia completamente al figlio per offrirlo al servizio della Chiesa. Ma perdendolo lo ritrova, condividendo la sua missione educativa e pastorale tra i giovani.

5. Esodo dai Becchi a Valdocco
            Don Bosco aveva apprezzato e riconosciuto i grandi valori che aveva attinti nella sua famiglia: la sapienza contadina, la sana furbizia, il senso del lavoro, l’essenzialità delle cose, l’industriosità nel darsi da fare, l’ottimismo a tutta prova, la resistenza nei momenti di sfortuna, la capacità di ripresa dopo le batoste, l’allegria sempre e comunque, lo spirito di solidarietà, la fede viva, la verità e l’intensità degli affetti, il gusto per l’accoglienza e l’ospitalità; tutti beni che aveva trovato a casa sua e che lo avevano costruito in quel modo. È talmente segnato da questa esperienza che, quando pensa a un’istituzione educativa per i suoi ragazzi non vuole altro nome che quello di “casa” e definisce lo spirito che avrebbe dovuto improntarla con l’espressione “spirito di famiglia”. E per dare l’impronta giusta chiede a Mamma Margherita, ormai anziana e stanca, di lasciare la tranquillità della sua casetta in collina, per scendere in città e prendersi cura di quei ragazzi raccolti dalla strada, quelli che le daranno non poche preoccupazioni e dispiaceri. Ma lei va ad aiutare Don Bosco e a fare da mamma a chi non ha più famiglia e affetti. Se Giovanni Bosco impara alla scuola di Mamma Margherita l’arte di amare in modo concreto, generoso, disinteressato e verso tutti, la mamma condividerà fino in fondo e fino alla fine la scelta del figlio di dedicare la vita per la salvezza dei giovani. Questa comunione di spirito e di azione tra figlio e madre segna l’inizio dell’opera salesiana, coinvolgendo tante persone in questa divina avventura. Dopo aver raggiunto una situazione di tranquillità, accetta, non più giovane, di abbandonare la quieta vita e la sicurezza dei Becchi, per recarsi a Torino in una zona periferica e in una casa spoglia di tutto. È una vera ripartenza nella sua vita!

            Don Bosco dunque, dopo aver pensato e ripensato come uscire dalle difficoltà, andò a parlarne col proprio Parroco di Castelnuovo, esponendogli la sua necessità e i suoi timori.
                – Hai tua madre! Rispose il Parroco senza esitare un istante: falla venire con te a Torino.
Don Bosco, che aveva preveduto questa risposta, volle fare alcune riflessioni, ma Don Cinzano gli replicò:
                – Piglia con te tua madre. Non troverai nessuna persona più adatta di lei all’opera. Sta tranquillo; avrai un angelo al fianco! Don Bosco ritornò a casa convinto dalle ragioni postegli sott’occhio dal Prevosto. Tuttavia lo trattenevano ancora due motivi. Il primo era la vita di privazioni e di mutate abitudini, alle quali la madre avrebbe naturalmente dovuto andare soggetta in quella nuova posizione. La seconda proveniva dalla ripugnanza che egli provava nel proporre alla madre un ufficio che l’avrebbe resa in certo qual modo dipendente da lui. Per Don Bosco sua mamma era tutto, e col fratello Giuseppe, era abituato a tenere per legge indiscutibile ogni suo desiderio. Tuttavia dopo aver pensato e pregato, vedendo che non rimaneva altra scelta, concluse:
                – Mia madre è una santa e quindi posso farle la proposta!
Un giorno dunque la prese in disparte e così le parlò:
                – Io ho deciso, o madre, di far ritorno a Torino fra i miei cari giovanetti. D’ora innanzi non stando più al Rifugio avrei bisogno di una persona di servizio; ma il luogo dove mi toccherà abitare in Valdocco, per causa di certe persone che vi dimorano vicino, è molto rischioso, e non mi lascia tranquillo. Ho dunque bisogno di avere al mio fianco una salvaguardia per levar via ai malevoli ogni motivo di sospetto e di chiacchiere. Voi sola mi potreste togliere da ogni timore; non verreste volentieri a stare con me? A questa uscita non attesa la pia donna rimase alquanto pensosa, e poi rispose:
                – Mio caro figlio, tu puoi immaginare quanto costi al mio cuore l’abbandonare questa casa, tuo fratello e gli altri cari; ma se ti pare che tal cosa possa piacere al Signore io sono pronta a seguirti. Don Bosco l’assicurò, e ringraziatala, concluse:
                – Disponiamo dunque le cose, e dopo la festa dei Santi partiremo. Margherita si recava ad abitare col figlio, non già per condurre una vita più comoda e dilettevole, ma per dividere con lui stenti e pene a sollievo di più centinaia di ragazzi poveri ed abbandonati; vi si recava, non già attirata da cupidigia di guadagno, ma dall’amor di Dio e delle anime, perché sapeva che la parte di sacro ministero, presa ad esercitare da Don Bosco, lungi dal porgergli risorsa o lucro di sorta, lo obbligava a spendere i propri beni, e inoltre a cercare elemosina. Ella non si arrestò; anzi, ammirando il coraggio e lo zelo del figlio, si sentì maggiormente stimolata a farsene compagna ed imitatrice, sino alla morte.

            Margherita vive all’oratorio portando quel calore materno e la saggezza di una donna profondamente cristiana, la dedizione eroica al figlio in tempi difficili per la sua salute e la sua incolumità fisica, esercitando in tal modo un’autentica maternità spirituale e materiale verso il figlio sacerdote. Infatti si stabilisce a Valdocco non solo per cooperare all’opera iniziata dal figlio, ma anche per fugare ogni occasione di maldicenza che potesse sorgere dalla vicinanza di locali equivoci.
            Lascia la tranquilla sicurezza della casa di Giuseppe per avventurarsi con il figlio in una missione non facile e rischiosa. Vive il suo tempo in una dedizione senza riserve per i giovanetti «di cui erasi costituita madre». Ama i ragazzi dell’oratorio come suoi figli e si adopera per il loro benessere, la loro educazione e la vita spirituale, dando all’oratorio quel clima famigliare che fin dalle origini sarà una caratteristica delle case salesiane. «Se esiste la santità delle estasi e delle visioni, esiste anche quella delle pentole da pulire e delle calze da rammendare. Mamma Margherita fu una santa così».
            Nei rapporti con i ragazzi ebbe un comportamento esemplare, distinguendosi per la sua finezza di carità e la sua umiltà nel servire, riservandosi le occupazioni più umili. Il suo intuito di madre e di donna spirituale risulta nel riconoscere in Domenico Savio un’opera straordinaria della grazia.
            Anche all’oratorio tuttavia non mancano situazioni di prova e quando ci fu un momento di tentennamento per la durezza dell’esperienza, dovuta a una vita molto esigente, lo sguardo al Crocifisso additato dal figlio basta a infonderle energie nuove: «Da quell’istante più non isfuggì dal suo labbro una parola di lamento. Parve anzi d’allora in poi insensibile a quelle miserie».
            Bene riassume don Rua la testimonianza di Mamma Margherita all’oratorio, con la quale visse quattro anni: «Donna veramente cristiana, pia, di cuore generoso e coraggiosa, prudente, che tutta si consacrò alla buona educazione dei suoi figli e della sua famiglia adottiva».

6. Esodo verso la casa del Padre
            Era nata povera. Visse povera. Morì povera con indosso l’unico abito che usava; in tasca 12 lire destinate a comprarne uno nuovo, che mai acquistò.
            Anche nell’ora della morte è rivolta al figlio amato e lo lascia con parole degne della donna saggia: «Abbi grande confidenza con quelli che lavorano con te nella vigna del Signore… Sta’ attento che molti invece della gloria di Dio cercano l’utilità propria… Non cercare né eleganza né splendore nelle opere. Cerca la gloria di Dio, abbi per base la povertà di fatto. Molti amano la povertà negli altri, ma non in sé stessi. L’insegnamento più efficace è fare noi per i primi quello che comandiamo agli altri».
            Margherita, che aveva consacrato Giovanni alla Vergine Santissima, a Lei lo aveva affidato agli inizi degli studi, raccomandandogli la devozione e la propagazione dell’amore a Maria, ora lo rassicura: «La Madonna non mancherà di guidare le cose tue».
            Tutta la sua vita fu un dono totale di sé. Sul letto di morte può dire: «Ho fatto tutta la mia parte». Muore a 68 anni nell’oratorio di Valdocco il 25 novembre 1856. Al cimitero l’accompagnano i ragazzi dell’oratorio piangendola come “Mamma”.
            Don Bosco addolorato dice a Pietro Enria: «Abbiamo perduto la madre, ma sono certo che essa ci aiuterà dal Paradiso. Era una santa!». E lo stesso Enria aggiunge: «Don Bosco non esagerò a chiamarla santa, perché essa si sacrificò per noi e fu per tutti una vera madre».

Concludendo
            Mamma Margherita fu una donna ricca di vita interiore e dalla fede granitica, sensibile e docile alla voce dello Spirito, pronta a cogliere e realizzare la volontà di Dio, attenta ai problemi del prossimo, disponibile nel provvedere ai bisogni dei più poveri e soprattutto dei giovani abbandonati. Don Bosco ricorderà sempre gli insegnamenti e ciò che aveva appreso alla scuola della mamma e tale tradizione segnerà il suo sistema educativo e la sua spiritualità. Don Bosco aveva sperimentato che la formazione della sua personalità era vitalmente radicata nello straordinario clima di dedizione e di bontà della sua famiglia; per questo ha voluto riprodurne le qualità più significative nella sua opera. Margherita intrecciò la sua vita con quella del figlio e con gli inizi dell’opera salesiana: fu la prima “cooperatrice” di Don Bosco; con bontà fattiva divenne l’elemento materno del Sistema Preventivo. Alla scuola di Don Bosco e di Mamma Margherita ciò significa curare la formazione delle coscienze, educare alla fortezza della vita virtuosa nella lotta, senza sconti e compromessi, contro il peccato, con l’aiuto dei sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione, crescendo nella docilità personale, famigliare e comunitaria alle ispirazioni e mozioni dello Spirito Santo per rafforzare le ragioni del bene e testimoniare la bellezza della fede.
            Per tutta la Famiglia Salesiana questa testimonianza è un ulteriore invito ad assumere un’attenzione privilegiata alla famiglia nella pastorale giovanile, formando e coinvolgendo i genitori nell’azione educativa e evangelizzatrice dei figli, valorizzandone l’apporto negli itinerari di educazione affettiva e favorendo nuove forme di evangelizzazione e di catechesi delle famiglie e attraverso le famiglie. Mamma Margherita oggi è un modello straordinario per le famiglie. La sua è una santità di famiglia: di donna, di moglie, di madre, di vedova, di educatrice. La sua vita racchiude un messaggio di grande attualità, soprattutto nella riscoperta della santità del matrimonio.
            Ma occorre sottolineare un altro aspetto: uno dei motivi fondamentali per cui Don Bosco vuole sua madre accanto a sé a Torino è per trovare in lei una custodia al proprio sacerdozio. «Piglia con te tua madre», gli aveva suggerito il vecchio parroco. Don Bosco prende Mamma Margherita nella sua vita di prete e di educatore. Da bambino, orfano, era stata la mamma a prenderlo per mano, da giovane prete è lui che la prende per mano per condividere una missione speciale. Non si capisce la santità sacerdotale di Don Bosco senza la santità di Mamma Margherita, modello non solo di santità famigliare, ma anche di maternità spirituale verso i sacerdoti.




La vita secondo lo Spirito in Mamma Margherita (1/2)

            Don Lemoyne nella prefazione alla vita di Mamma Margherita ci lascia un ritratto davvero singolare: «Non descriveremo fatti straordinari ed eroici, ma ritrarremo una vita semplice, costante nella pratica del bene, vigilante nell’educazione dei figli, rassegnata e previdente nelle angustie della vita, risoluta in tutto ciò che il dovere le imponeva. Non ricca, ma con un cuore da regina; non istruita in scienze profane, ma educata nel santo timore di Dio; priva ben presto di chi doveva essere il suo sostegno, ma sicura con l’energia della sua volontà appoggiata all’aiuto celeste, seppe condurre a termine felicemente la missione che Dio le aveva affidata».
            Con queste parole ci vengono offerti i tasselli di un mosaico e un canovaccio su cui possiamo costruire l’avventura dello Spirito che il Signore ha fatto vivere a questa donna che, docile allo Spirito, si è rimboccata le mani affrontando la vita con fede operosa e carità materna. Percorreremo le tappe di questa avventura con la categoria biblica dell’“esodo”, espressione di autentico cammino nell’obbedienza della fede. Anche Mamma Margherita ha vissuto le sue “uscite”, anche lei ha camminato verso “una terra promessa”, attraversando il deserto e superando prove. Questo cammino lo cogliamo in modo riflesso nella luce del suo rapporto con il figlio e secondo due dinamiche tipiche della vita nello Spirito: una meno visibile, costituita dal dinamismo interiore del cambiamento di sé, condizione previa e indispensabile per aiutare gli altri; l’altra più immediata e documentabile: la capacità di rimboccarsi le maniche per amare il prossimo in carne e ossa, venendo in soccorso di chi avesse bisogno.

1. Esodo da Capriglio alla cascina Biglione
            Margherita fu educata nella fede, visse e morì nella fede. «Dio era in cima a tutti i suoi pensieri». Sentiva di vivere alla presenza di Dio ed esprimeva questa persuasione con l’affermazione a lei abituale: «Dio ti vede». Tutto le parlava della paternità di Dio e grande era in lei la fiducia nella Provvidenza, dimostrando gratitudine a Dio per i doni ricevuti e riconoscenza a tutti coloro che erano strumenti della Provvidenza. Margherita trascorre la sua vita in continua e incessante ricerca della volontà di Dio, unico criterio operativo delle sue scelte e delle sue azioni.
            A 23 anni sposa Francesco Bosco, rimasto vedovo a 27 anni, con il figlio Antonio e con la madre semiparalizzata. Margherita non diventa solo moglie, ma mamma adottiva e aiuto per la suocera. Questo passo è per i due sposi il più importante perché sanno bene che l’aver ricevuto santamente il sacramento del matrimonio è per loro fonte di molte benedizioni: per la serenità e la pace in famiglia, per i futuri figli, per il lavoro e per superare i momenti difficili della vita. Margherita vive con fedeltà e fecondità il suo sposalizio con Francesco Bosco. I loro anelli saranno segno di una fecondità che si allargherà alla famiglia fondata dal figlio Giovanni. Tutto ciò susciterà in Don Bosco e nei suoi ragazzi un grande senso di riconoscenza e di amore verso questa coppia di santi coniugi e genitori.

2. Esodo dalla cascina Biglione ai Becchi
            Solo dopo cinque anni di matrimonio, nel 1817, il marito Francesco muore. Don Bosco ricorderà che, uscendo dalla stanza la mamma in lacrime «mi prese per mano», e lo portò fuori. Ecco l’icona spirituale ed educativa di questa madre. Prende per mano il figlio e lo conduce fuori. Già da questo momento c’è quel «prendere per mano», che accomunerà madre e figlio sia nel cammino vocazionale che nella missione educativa.
            Margherita si trova in una situazione molto difficile dal punto di vista affettivo ed economico, compresa una pretestuosa vertenza mossale dalla famiglia Biglione. Ci sono debiti da pagare, il duro lavoro nei campi e una terribile carestia da affrontare, ma lei vive tutte queste prove con grande fede e incondizionata fiducia nella Provvidenza.
            La vedovanza le apre una nuova vocazione di educatrice attenta e premurosa verso i propri figli. Ella si dedica con tenacia e coraggio alla sua famiglia, rifiutando una vantaggiosa proposta matrimoniale. «Dio mi ha dato un marito e me lo ha tolto; morendo egli mi affidò tre figli, ed io sarei madre crudele, se li abbandonassi nel momento in cui hanno più bisogno di me… Il tutore… è un amico, io sono la madre dei miei figli; non li abbandonerò mai, quando anche mi si volesse dare tutto l’oro del mondo».
            Educa saggiamente i figli, anticipando l’ispirazione pedagogica del Sistema Preventivo. È una donna che ha fatto la scelta di Dio e sa trasmettere ai suoi figli, nella vita di tutti i giorni, il senso della sua presenza. Lo fa in modo semplice, spontaneo, incisivo, cogliendo tutte le piccole occasioni per educarli a vivere nella luce della fede. Lo fa anticipando quel metodo «della parola all’orecchio» che Don Bosco userà poi con i ragazzi per richiamarli alla vita di grazia, alla presenza di Dio. Lo fa aiutando a riconoscere nelle creature l’opera del Creatore, che è Padre provvidente e buono. Lo fa raccontando i fatti del Vangelo e la vita dei santi.
Educazione cristiana. Prepara i figli a ricevere i sacramenti, trasmettendo loro un vivissimo senso della grandezza dei misteri di Dio. Giovannino Bosco riceve la prima Comunione il giorno di Pasqua del 1826: «O caro figlio, fu questo per te un gran giorno. Sono persuasa che Dio ha veramente preso possesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare quanto puoi per conservarti buono fino alla fine della tua vita». Queste parole di Mamma Margherita fanno di lei una vera madre spirituale dei suoi figli, in particolare di Giovannino, che si dimostrerà subito sensibile a questi insegnamenti, che hanno il sapore di una vera iniziazione, espressione della capacità di introdurre al mistero della grazia in una donna illetterata, ma ricca della sapienza dei piccoli.
            La fede in Dio si riflette nell’esigenza di rettitudine morale che pratica con sé stessa e inculca nei figli. «Contro il peccato aveva dichiarato una guerra perpetua. Non solo abborriva essa ciò che era male, ma si studiava di tenere lontano l’offesa del Signore anche da coloro che non le appartenevano. Quindi era sempre all’erta contro lo scandalo, prudente, ma risoluta e a costo di qualunque sacrificio».
            Il cuore che anima la vita di Mamma Margherita è un immenso amore e devozione verso la santissima Eucaristia. Ne sperimenta il valore salvifico e redentore nella partecipazione al santo sacrificio e nell’accettare le prove della vita. A questa fede e a questo amore educa i suoi figli fin dalla più tenera età, trasmettendo quella convinzione spirituale ed educativa che troverà in Don Bosco un prete innamorato dell’Eucaristia e che farà dell’Eucaristia una colonna del suo sistema educativo.
            La fede trova espressione nella vita di preghiera e in particolare la preghiera in comune in famiglia. Mamma Margherita trova la forza della buona educazione in un’intensa e curata vita cristiana. Precede con l’esempio e orienta con la parola. Alla sua scuola Giovannino apprende così in forma vitale la forza preventiva della grazia di Dio. «L’istruzione religiosa, che imparte una madre con la parola, con l’esempio, col confrontare la condotta del figlio, coi precetti particolari del catechismo, fa sì che la pratica della Religione diventi normale e il peccato si rifiuti per istinto, come per istinto si ama il bene. L’esser buono diventa un’abitudine, e la virtù non costa grande sforzo. Un fanciullo così educato deve fare una violenza a sé stesso per divenir malvagio. Margherita conosceva la forza di simile educazione cristiana e come la legge di Dio, insegnata col catechismo tutte le sere e ricordata di frequente anche lungo il giorno, fosse il mezzo sicuro per rendere i figli obbedienti ai precetti materni. Essa quindi ripeteva le domande e le risposte tante volte, quanto era necessario perché i figli le imparassero a memoria».

Testimone di carità. Nella sua povertà, pratica con gioia l’ospitalità, senza fare distinzioni, né esclusioni; aiuta i poveri, visita i malati e i figli apprendono da lei ad amare smisuratamente gli ultimi. «Era di carattere sensibilissimo, ma questa sensibilità era talmente trasnaturata in carità, che a buon diritto poteva esser chiamata la mamma di coloro che si trovavano in necessità». Questa carità si manifesta in una spiccata capacità di comprendere le situazioni, di trattare con le persone, di fare scelte giuste al momento giusto, di evitare eccessi e di mantenere in tutto un grande equilibrio: «Una donna di molto senno» (Don Giacinto Ballesio). La ragionevolezza dei suoi insegnamenti, la coerenza personale e la fermezza senza ira, toccano l’animo dei ragazzi. I proverbi e i detti fioriscono con facilità sulle sue labbra e in essi condensa precetti di vita: «Una cattiva lavandaia non trova mai una buona pietra»; «Chi a vent’anni non sa, a trenta non fa e sciocco morrà»; «La coscienza è come il solletico, chi lo sente e chi non lo sente».
            In particolare va sottolineato come Giovannino Bosco sarà un grande educatore dei ragazzi, «perché aveva avuto una mamma che aveva educato la sua affettività. Una mamma buona, carina, forte. Con tanto amore educò il suo cuore. Non si può capire Don Bosco senza Mamma Margherita. Non lo si può capire». Mamma Margherita ha contribuito con la sua mediazione materna all’opera dello Spirito nella plasmazione e formazione del cuore del figlio. Don Bosco imparò ad amare, come egli stesso dichiara, in seno alla Chiesa, grazie a Mamma Margherita e con l’intervento soprannaturale di Maria, che gli fu data da Gesù come “Madre e Maestra”.

3. Esodo dai Becchi alla cascina Moglia
            Un momento di grande prova per Margherita sono le difficili relazioni tra i figli. «I tre figlioletti di Margherita, Antonio, Giuseppe e Giovanni, erano diversi per indole e per inclinazioni. Antonio era rozzo di modi, di poca o nessuna delicatezza di sentimenti, esageratore manesco, vero ritratto del Me ne infischio io! Viveva di prepotenze. Spesse volte si lasciava andare a battere i fratellini e Mamma Margherita doveva correre per levarglieli di mano. Essa però non usò mai della forza per difenderli e fedele alla sua massima, non torse mai ad Antonio neppure un capello. Si può immaginare qual padronanza avesse Margherita sovra di sé per comprimere la voce del sangue e dell’amore che portava sviscerato a Giuseppe e a Giovanni. Antonio era stato messo a scuola e avea imparato a leggere e a scrivere, ma vantavasi di non aver mai studiato e di non essere andato a scuola. Non avea attitudine agli studi, si occupava dei lavori nella campagna».
            D’altra parte Antonio era in situazione di particolare disagio: maggiore di età, era ferito nella sua duplice condizione di orfano di padre e di madre. Egli nonostante le sue intemperanze è in genere remissivo, grazie all’atteggiamento di Mamma Margherita che riesce a dominarlo con bontà ragionante. Col tempo purtroppo la sua insofferenza nei confronti soprattutto di Giovannino, che non si lasciava facilmente sottomettere, andrà crescendo e anche le sue reazioni nei confronti di Mamma Margherita saranno più dure e a volte pesanti. In particolare Antonio non accetta che Giovannino si dedichi agli studi e le tensioni arriveranno a un punto culminante: «Voglio finirla con questa grammatica. Io sono venuto grande e grosso, non ho mai veduto questi libri». Antonio è figlio del suo tempo e della sua condizione contadina e non riesce né a comprendere, né ad accettare che il fratello possa dedicarsi allo studio. Tutti sono turbati, ma chi soffre più di tutti è Mamma Margherita, che era coinvolta in prima persona e aveva giorno dopo giorno la guerra in casa: «Mia madre era afflittissima, io piangeva, il cappellano addolorato».
            Di fronte alla gelosia e all’ostilità di Antonio, Margherita cerca la soluzione ai conflitti famigliari, inviando per circa due anni Giovannino alla cascina Moglia e successivamente provvede in modo irremovibile, di fronte alle resistenze di Antonio, alla divisione dei beni, al fine di permettere a Giovanni di studiare. Certamente è solo il dodicenne Giovannino che se ne va da casa, ma anche la Madre vive questo profondo distacco. Non dimentichiamo che Don Bosco nelle Memorie dell’oratorio non parla di questo periodo. Tale silenzio fa pensare ad un vissuto difficile da elaborare, essendo in quel tempo un ragazzino di dodici anni, costretto ad andarsene da casa per l’impossibilità di convivenza con il fratello. Giovanni soffre in silenzio, attende l’ora della Provvidenza e con lui Mamma Margherita, che non vuole chiudere il cammino del figlio, ma aprirlo attraverso vie speciali, affidandolo ad una buona famiglia. La soluzione presa dalla mamma e accettata dal figlio era una scelta temporanea in vista di una soluzione definitiva. Era fiducia e abbandono in Dio. Madre e figlio vivono una stagione di attesa.

(continua)




Il Buon Pastore dà la vita: don Elia Comini nell’80° del suo sacrificio

            Monte Sole è un’altura dell’Appennino bolognese che fino alla Seconda guerra mondiale aveva diverse piccole località abitate lungo i suoi dorsali: tra il 29 settembre e il 5 ottobre del ‘44, i suoi abitanti, nella maggior parte bambini, donne e anziani, furono vittime di un terribile eccidio da parte delle truppe SS (Schutzstaffel, «squadre di protezione»; organizzazione paramilitare del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori create nella Germania nazista). Morirono 780 persone, molte di loro rifugiatesi nelle chiese. Persero la vita 5 sacerdoti, tra cui don Giovanni Fornasini, proclamato beato e martire nel 2021 da Papa Francesco.
            Questa è una delle stragi più efferate compiute dalle SS naziste in Europa, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, consumata attorno a Monte Sole, nei territori di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno (Bologna) e comunemente nota come la “strage di Marzabotto”. Tra le vittime ci furono alcuni sacerdoti e religiosi, tra cui il Salesiano don Elia Comini, che durante la vita e fino alla fine si sforzò di essere un buon pastore e di spendersi senza riserve, generosamente, in un esodo da sé senza ritorno. Questa è la vera essenza della sua carità pastorale, che lo presenta come modello di pastore che veglia sul gregge, pronto a dare la vita per esso, in difesa dei deboli e degli innocenti.

“Ricevimi pure come una vittima espiatoria”
            Elia Comini nacque a Calvenzano di Vergato (Bologna) il 7 maggio 1910. I genitori Claudio, falegname, ed Emma Limoni, sarta, lo prepararono alla vita e lo educarono alla fede. Fu battezzato a Calvenzano. A Salvaro di Grizzana fece la Prima Comunione e ricevette la Cresima. Fin dalla più giovane età dimostrò molto interesse per il catechismo, per le funzioni di chiesa, per il canto in serena e allegra amicizia con i compagni. L’arciprete di Salvaro, monsignor Fidenzio Mellini, da giovane militare a Torino aveva frequentato l’oratorio di Valdocco e aveva conosciuto don Bosco, che gli aveva profetizzato il sacerdozio. Monsignor Mellini stimava molto Elia per la sua fede, la bontà e le singolari capacità intellettuali e lo spinse a diventare uno dei figli di don Bosco. Per questo lo indirizzò al piccolo seminario salesiano di Finale Emilia (Modena) dove Elia frequentò la scuola media e il ginnasio. Nel 1925 entrò nel noviziato salesiano di Castel De’ Britti (Bologna) e vi emise la professione religiosa il 3 ottobre 1926. Negli anni 1926-1928 frequentò come chierico studente di Filosofia il liceo salesiano di Valsalice (Torino), dove era allora custodita la tomba di don Bosco. Fu in questo luogo che Elia iniziò un impegnativo cammino spirituale, testimoniato da un diario che egli redigerà fino a poco più di due mesi dalla tragica morte. Sono pagine rivelatrici di una vita interiore tanto profonda quanto non percepita all’esterno. Alla vigilia della rinnovazione dei voti egli scriverà: “Sono contento più che mai di questo giorno, alla vigilia dell’olocausto che spero Ti sia gradito. Ricevimi pure come una vittima espiatoria, quantunque non lo meriti. Se credi, dammi qualche ricompensa: perdona i miei peccati della vita passata; aiutami a farmi santo”.
            Compì il tirocinio pratico come assistente educatore a Finale Emilia, a Sondrio e a Chiari. Si laureò in Lettere presso l’Università Statale di Milano. Il 16 marzo 1935 venne ordinato sacerdote a Brescia. Scrisse: “Ho domandato a Gesù: la morte, piuttosto che venir meno alla mia vocazione sacerdotale; e l’amore eroico per le anime”. Dal 1936 al 1941 insegna Lettere nell’aspirantato “San Bernardino” di Chiari (Brescia) dando prova eccellente del suo talento didattico e della sua attenzione ai giovani. Negli anni 1941-1944 l’ubbidienza religiosa lo trasferisce all’istituto salesiano di Treviglio (Bergamo). Incarnò particolarmente la carità pastorale di don Bosco e i tratti dell’amorevolezza salesiana, che trasmetteva ai giovani attraverso il carattere affabile, la bontà e il sorriso.

Triduo di passione
            La dolcezza abituale del suo comportamento e la dedizione eroica al ministero sacerdotale brillarono con chiara evidenza durante i brevi soggiorni annuali estivi presso la mamma, rimasta sola a Salvaro, e presso la sua parrocchia di adozione, dove poi il Signore chiederà a don Elia la donazione totale dell’esistenza. Aveva scritto, tempo prima, nel diario: “Persiste sempre in me il pensiero che debba morire. Chissà! Facciamo come il servo fedele sempre preparato all’appello, a rendere ragione della gestione”. Siamo nel periodo giugno-settembre 1944, quando la terribile situazione creatasi nella zona tra Monte Salvaro e Monte Sole, con l’avanzamento della linea del fronte Alleato, la brigata partigiana Stella Rossa assestata sulle alture e i nazisti a rischio imbottigliamento, portò la popolazione sull’orlo della distruzione totale.
            Il 23 luglio i nazisti, a causa dell’uccisione di un loro soldato, incominciano una serie di rappresaglie: uccisione di dieci uomini, case incendiate. Don Comini si prodiga nell’accogliere i parenti degli uccisi e nel nascondere le persone ricercate. Inoltre aiuta l’anziano parroco di San Michele di Salvaro, mons. Fidenzio Mellini: fa catechismo, guida esercizi spirituali, celebra, predica, esorta, suona, canta e fa cantare per mantenere serena una situazione che va verso il peggio. Poi, insieme al sopraggiunto padre Martino Capelli, Dehoniano, don Elia accorre continuamente a soccorrere, consolare, amministrare i sacramenti, seppellire i morti. In alcuni casi riesce anche a salvare gruppi di persone conducendole in canonica. Il suo eroismo si manifesta con crescente chiarezza alla fine del settembre 1944, quando la Wehrmacht (Le Forze Armate Tedesche) cede ampiamente spazio alle terribili SS.
            Il triduo di passione per don Elia Comini e per padre Martino Capelli inizia venerdì 29 settembre. I nazisti causano il panico nella zona del Monte Salvaro e la popolazione si riversa in parrocchia in cerca di protezione. Don Comini, rischiando la vita, nasconde una settantina di uomini in un locale attiguo alla sagrestia, coprendo la porta con un vecchio armadio.            L’espediente riesce. Infatti i nazisti, perlustrando i vari ambienti per ben tre volte, non se ne accorgono. Giunge intanto la notizia che le terribili SS avevano massacrato in località “Creda” svariate decine di persone, tra le quali c’erano feriti e moribondi bisognosi di conforto. Don Elia celebra la sua ultima Messa al mattino presto e poi insieme a padre Martino, presi l’olio santo e l’Eucarestia, si affrettano sperando di poter ancora soccorrere qualche ferito. Lo fa liberamente. Tutti infatti lo dissuadono: dal parroco alle donne lì presenti. “Non vada, padre. È pericoloso!”. Provano a trattenere don Elia e padre Martino a forza, ma essi prendono questa decisione con piena consapevolezza del pericolo di morte. Don Elia dice: “Pregate, pregate per me, perché ho una missione da compiere”; “Pregate per me, non lasciatemi solo!”.
            Nei pressi della Creda di Salvaro i due sacerdoti vengono catturati; usati “come giumenti”, sono costretti a trasportare munizioni e, a sera, vengono rinchiusi nella scuderia di Pioppe di Salvaro. Sabato 30 settembre, don Elia e padre Martino spendono tutte le proprie energie nel confortare i numerosi uomini rinchiusi insieme a loro. Il Commissario Prefettizio di Vergato Emilio Veggetti, che non conosceva padre Martino, ma conosceva molto bene don Elia, invano cerca di ottenere la liberazione dei prigionieri. I due sacerdoti continuano a pregare e a consolare. A sera si confessano reciprocamente.
            Il giorno seguente, domenica 1° ottobre 1944, sull’imbrunire, la mitraglia falcia inesorabilmente le 46 vittime di quello che sarebbe passato alla storia come l’“Eccidio di Pioppe di Salvaro”: erano gli uomini considerati inabili al lavoro; tra loro, i due sacerdoti, giovani e costretti due giorni prima al lavoro pesante. Testimoni che si trovavano a breve distanza, in linea d’aria, dal luogo dell’eccidio hanno potuto sentire la voce di don Comini che guidava le Litanie e udire poi il rumore degli spari. Don Comini prima di accasciarsi colpito a morte da l’assoluzione a tutti e grida: “Pietà, pietà!”, mentre padre Capelli alzandosi dal fondo della Botte traccia ampi segni di croce, finché non ricade supino con le braccia aperte, in croce. Non fu possibile recuperare nessuna salma. Dopo venti giorni furono aperte le griglie e l’acqua del Reno trascinò via i resti mortali, facendone perdere completamente le tracce. Nella Botte si morì fra benedizioni e invocazioni, fra preghiere, atti di pentimento e di perdono. Qui, come in altri luoghi si morì da cristiani, con fede, con il cuore rivolto a Dio nella speranza della vita eterna.

Storia dell’eccidio di Montesole
            Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 i caduti furono 770, ma nel complesso le vittime di nazisti e fascisti, dalla primavera del 1944 alla liberazione, furono 955, distribuite in 115 diverse località all’interno di un vasto territorio che comprende i comuni di Marzabotto, Grizzana e Monzuno (e alcune porzioni dei territori limitrofi). Di questi, 216 furono i bambini, 316 le donne, 142 gli anziani, 138 le vittime riconosciute partigiani, cinque i sacerdoti, la cui colpa agli occhi dei nazisti consisteva nell’essere stati vicini, con la preghiera e l’aiuto materiale, a tutta la popolazione di Monte Sole nei tragici mesi di guerra e occupazione militare. Insieme a don Elia Comini, salesiano, e a padre Martino Capelli, dehoniano, in quei tragici giorni furono uccisi anche tre sacerdoti dell’Arcidiocesi di Bologna: don Ubaldo Marchioni, don Ferdinando Casagrande, don Giovanni Fornasini. Di tutti e cinque è in corso la Causa di Beatificazione e Canonizzazione. Don Giovanni, l’“Angelo di Marzabotto”, cadde, il 13 ottobre 1944. Aveva ventinove anni e il suo corpo rimase insepolto fino al 1945, quando venne ritrovato pesantemente martoriato. È stato beatificato il 26 settembre 2021. Don Ubaldo morì il 29 settembre, ucciso dal mitra sulla predella dell’altare della sua chiesa di Casaglia; aveva 26 anni, era stato ordinato prete due anni prima. I soldati nazisti trovarono lui e la comunità intenti nella preghiera del rosario. Lui fu ucciso lì, ai piedi dell’altare. Gli altri – più di 70 – nel cimitero vicino. Don Ferdinando fu ucciso, il 9 ottobre, da un colpo di pistola alla nuca, con la sorella Giulia; aveva 26 anni.




Servo di Dio Akash Bashir

            Il 25 febbraio scorso, abbiamo celebrato la festa dei nostri protomartiri salesiani, Mons. Luigi Versiglia e il Sacerdote Calisto Caravario. Il martirio, fin dai tempi della prima comunità cristiana, è stato sempre un segno evidente della nostra fede, simile al sacrificio di Gesù sulla croce per la nostra salvezza. Attualmente, nella nostra Congregazione Salesiana, stiamo affrontando la causa di martirio di Akash Bashir, un giovane salesiano ex-allievo del Pakistan, che a soli 20 anni ha dato la sua vita per la salvezza della sua comunità parrocchiale. La fase di inchiesta diocesana per il processo di Beatificazione è conclusa il 15 marzo, anniversario del suo martirio.
            Il Pakistan è uno dei Paesi musulmani più estremisti al mondo. La Repubblica Islamica del Pakistan è emersa dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’indipendenza dall’India nel 1947. Tuttavia, i cristiani erano già presenti in questa regione grazie ai missionari domenicani e francescani. Attualmente, i cristiani in Pakistan costituiscono circa l’1,6% della popolazione totale (cattolici e anglicani), pari a circa 4 milioni di persone. Le minoranze religiose affrontano discriminazioni quotidiane, emarginazione, mancanza di pari opportunità nel lavoro e nell’educazione, e persistono discriminazioni e talvolta persecuzioni religiose, rendendo la libertà religiosa una questione critica.
            Nonostante le sfide, le comunità cristiane in Pakistan dimostrano resilienza e speranza. Chiese e organizzazioni cristiane svolgono un ruolo fondamentale nel fornire sostegno e promuovere l’unità interreligiosa, e i Salesiani hanno contribuito in modo significativo con la loro presenza.
            La vita di Akash Bashir inizia in un paesino vicino all’Afghanistan, in una famiglia composta da cinque figli, essendo lui il terzo. Akash, nato durante l’estate il 22 giugno nel 1994, ha affrontato un clima estremo, sopravvivendo con fatica. Nonostante le difficoltà legate al clima avverso, alla povertà familiare e all’alimentazione scarsa, queste sfide hanno contribuito a forgiare il suo carattere.
            Il sogno di Akash di servire nell’esercito è stato ostacolato dalla precarietà scolastica e finanziaria. La famiglia Bashir decide di emigrare verso est, nel Punjab, alla città di Lahore, vicina alla frontiera con l’India, specificamente nel quartiere cristiano di Youhanabad, dove i Salesiani gestiscono un collegio, una scuola elementare e una scuola tecnica. Nel settembre 2010, Akash Bashir entra all’Istituto Salesiano Don Bosco Technical and Youth Center.
            In un contesto politico-religioso difficile, Akash si offre volontario come guardia di sicurezza nella Parrocchia di Youhanabad nel dicembre 2014. Il suo ruolo come guardia di sicurezza alla Parrocchia di San Giovanni consisteva nel sorvegliare l’ingresso nel cortile e controllare i fedeli al cancello d’ingresso, dato che le chiese sono protette da un muro con un’unica porta d’accesso. Il 15 marzo 2015, durante la celebrazione della Messa, Akash si trova a prestare servizio.
            Quel giorno era la IV domenica di Quaresima (la domenica «Laetare») celebrata con la partecipazione di 1200-1500 fedeli alla Messa, presieduta da padre Francis Gulzar, il Parroco. Alle 11.09, un primo attacco terroristico colpisce la comunità anglicana a meno di 500 metri dalla chiesa cattolica. Un minuto dopo, alle 11.10, una seconda detonazione avviene proprio all’ingresso del cortile della Parrocchia Cristiana, dove Akash Bashir, come guardia di sicurezza volontaria, presta servizio.
            Sua Eminenza, Cardinale Ángel Fernández, il Rettor Maggiore dei Salesiani, nella introduzione alla sua biografia descrive il martirio di Akash con queste parole:
«Il 15 marzo 2015, mentre si stava celebrando la Santa Messa nella parrocchia di San Giovanni, il gruppo di guardie di sicurezza composto da giovani volontari, di cui Akash Bashir faceva parte, sorvegliava fedelmente l’ingresso. Quel giorno accadde qualcosa di insolito. Akash notò che una persona con dell’esplosivo sotto i vestiti stava cercando di entrare in chiesa. La trattenne, le parlò e le impedì di continuare, ma rendendosi conto che non poteva fermarla la abbracciò strettamente dicendo: «Morirò, ma non ti farò entrare in chiesa». Così il giovane e il kamikaze morirono insieme. Il nostro giovane offrì la sua vita salvando quella di centinaia di persone, ragazzi, ragazze, mamme, adolescenti e uomini adulti che stanno pregando in quel momento dentro la chiesa. Akash aveva 20 anni».
            Dopo l’esplosione, quattro persone agonizzanti giacciono a terra: l’uomo con l’esplosivo, un mercante di legumi, una bambina di sei anni e il nostro Akash Bashir. Il suo sacrificio ha impedito che il numero delle vittime fosse molto più elevato. Il Vangelo proclamato quel giorno ricordava le parole di Gesù a Nicodemo: «Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,20-21). Akash ha sigillato queste parole con il suo sangue di giovane cristiano.
            Il 18 marzo, l’Arcivescovo di Lahore presiede una celebrazione ecumenica delle esequie di Akash e dei cristiani anglicani, con la partecipazione di 7.000-10.000 fedeli. Successivamente, il corpo viene trasferito al cimitero di Youhanabad, dove è sepolto in una tomba costruita dal padre di Akash.
            La vita di Akash Bashir è una testimonianza potente che richiama le prime comunità cristiane circondate da filosofie, culture avverse e persecuzioni. Le comunità degli Atti degli Apostoli erano pure minoritarie, ma con una fede forte e coraggio illimitato, simili ai cristiani in Pakistan.
            L’esempio luminoso di Akash Bashir, ex-allievo Salesiano, continua a ispirare il mondo. Lui ha vissuto le parole di Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13).
            Il 15 marzo 2022, è iniziata ufficialmente l’inchiesta diocesana, segnando un passo significativo verso la possibile beatificazione del primo cittadino pakistano. La conclusione dell’inchiesta diocesana il 15 marzo 2024 segna un traguardo fondamentale per il percorso di beatificazione e canonizzazione.
            Finisco ricordando ancora le parole di sua Eminenza, Car. Ángel Fernández su Akash Bashir:

«Essere santo oggi è possibile! Ed è senza dubbio il segno carismatico più evidente del sistema educativo salesiano. In modo particolare, Akash è la bandiera, il segno, la voce di tanti cristiani che vengono attaccati, perseguitati, umiliati e martirizzati nei paesi non cattolici. Akash è la voce di tanti giovani coraggiosi che riescono a dare la loro vita per la fede nonostante le difficoltà della vita, la povertà, l’estremismo religioso, l’indifferenza, la disuguaglianza sociale, la discriminazione. La vita e il martirio di questo giovane pakistano, di soli 20 anni, ci fa riconoscere la potenza dello Spirito Santo di Dio, vivo, presente nei luoghi meno attesi, negli umili, nei perseguitati, nei giovani, nei piccoli di Dio. La sua Causa di Beatificazione è per noi segno di speranza ed esempio di santità giovanile fino al martirio».

don Gabriel de Jesús CRUZ TREJO, sdb
vicepostulatore della causa di Akash Bashir




I protomartiri salesiani: Luigi Versiglia e Callisto Caravario

Luigi e Callisto: stessa vocazione missionaria per la salvezza delle anime, ma con una storia diversa.
Il 25 febbraio di questo anno si celebra il 94° anniversario del martirio di Mons. Luigi Versiglia e don Callisto Caravario, missionari in terra cinese.
Luigi Versiglia e Callisto Caravario: due figure diverse per molti aspetti ma accomunate da un grande zelo apostolico e dal loro ultimo atto di puro amore in difesa della religione cattolica e della purezza di tre ragazze cinesi.

Luigi: l’aspirante veterinario che divenne salesiano missionario

Luigi Versiglia, nato il 5 giugno 1873 a Oliva Gessi (PV), da bambino, benché assiduo chierichetto nella chiesa parrocchiale del suo paese, non intende minimamente farsi prete. Anzi, si infastidisce quando i suoi compaesani, vedendolo tanto devoto in chiesa, profetizzano un suo futuro da prete. La cosa non è affatto nei suoi progetti di vita, neppure quando a 12 anni viene mandato a studiare al collegio di Torino Valdocco. Lui ama i cavalli e sogna di diventare veterinario. Studiare a Torino rafforza in lui la speranza di poter poi iscriversi alla prestigiosa facoltà di Veterinaria dell’Università torinese.

Versiglia con Don Braga e gli allievi dell’Istituto S. Giuseppe di Ho Sai

A Valdocco, però, conosce don Bosco, ormai anziano e malato, e rimane quasi ammaliato dal suo carisma. In questi anni a Valdocco, nell’animo di Versiglia inizia a delinearsi qualcosa.
La carità e la devozione irradiate dall’ambiente salesiano, insieme al fascino di don Bosco, lavorano pian piano nell’animo di Luigi, finché accade un fatto che risulta decisivo, e da quel giorno egli non avrà più dubbi. L’11 marzo 1888 nella Basilica di Maria Ausiliatrice assistendo alla cerimonia di addio ad un gruppo di missionari in partenza per l’Argentina, rimane impressionato dal contegno tanto modesto e raccolto di uno dei sei giovani in partenza. Di lì la sua vocazione. Da quel giorno nasce in lui il forte desiderio di diventare prete, prete salesiano missionario. (La storia della sua vocazione missionaria è ben descritta nella lettera che lui stesso scrive al suo Direttore don Barberis nel 1890.)
Luigi frequenta, dunque, il noviziato a Foglizzo (1888-1890), dove tiene una condotta irreprensibile in tutto: caritatevole con i compagni, molto pio e nello stesso tempo intraprendente e pieno di vita.  Vince poi una borsa di studio per il corso di filosofia all’Università Gregoriana di Roma e a vent’anni riceve il baccellierato in filosofia.
È ordinato sacerdote a soli ventidue anni con una dispensa concessagli dalla Santa Sede in virtù della sua maturità psichica e morale, superiore all’età.
Subito viene mandato ad insegnare filosofia ai novizi a Foglizzo, dove, con il suo carattere schietto e sempre allegro, è stimato e ammirato da tutti per la sua competenza, affabilità e imparzialità. Esige l’osservanza delle regole, precedendo tutti con l’esempio.
Dopo Foglizzo, gli viene affidata la direzione del nuovo noviziato a Genzano di Roma dove trasmette anche ai suoi chierici l’ideale missionario.

Callisto: un giovane puro desideroso di essere missionario

Il chierico Caravario a Shanghai con don Garelli e 20 battezzandi

Tutt’altra storia ha, invece, la vocazione di Callisto Caravario, che nasce l’8 giugno 1903, esattamente trenta anni dopo Luigi Versiglia a Courgnè (TO), e all’età di cinque anni si trasferisce a Torino con la famiglia. Di indole buona, attaccatissimo alla mamma, per la quale ha gesti e attenzioni singolari, fin da piccolo manifesta una spiccata vocazione al Sacerdozio. I suoi primi divertimenti sono imitare i gesti del Sacerdote che celebra la messa. Impara presto a servire la Messa, lo fa con devozione, frequenta con passione e impegno l’oratorio San Giuseppe di Torino, che diventa la sua seconda casa.

Alla scuola elementare del Collegio San Giovanni Evangelista per due anni ha come maestro il chierico Carlo Braga, oggi Servo di Dio.
Alla mamma ripete costantemente che da grande si farà prete.
Nel 1914 inizia il ginnasio all’Oratorio di Valdocco, dove è particolarmente attratto dai missionari che vanno lì in visita ai Superiori e con i quali spesso si intrattiene nelle ricreazioni alimentando il suo desiderio per le Missioni.
Nel 1918 inizia il noviziato a Foglizzo e l’anno dopo emette i voti religiosi. Frequenta l’Oratorio San Luigi di Via Ormea dove avvia al Sacerdozio più di un giovane.
Nel 1922 incontra Mons. Versiglia, arrivato dalla Cina a Torino per partecipare al Capitolo Generale, e gli esprime il suo forte desiderio di seguirlo in Missione. I Superiori, tuttavia, non gli consentono di realizzare subito il suo sogno, perché questo l’obbligherebbe a troncare gli studi, ma Callisto assicura Versiglia: “Monsignore, vedrà che sarò di parola: la seguirò in Cina. Vedrà che la seguirò certamente”.
L’anno dopo, tramite un gruppo di missionari in partenza per la Cina, fa recapitare una lettera a don Braga, missionario a Shiu-chow, chiedendogli di “preparare un posticino per lui”.

Luigi e Callisto: esperienze missionarie diverse ma accomunate dalla completa dedizione al prossimo e dalla conquista dell’affetto e dell’attaccamento dei giovani
Don Versiglia conserva vivo negli anni il suo ideale di missionario e l’occasione di partire in Missione gli si presenta nel 1906, quando il Rettor Maggiore dei Salesiani, a seguito di trattative intercorse con il vescovo di Macao, lo nomina capo di una spedizione per l’appunto a Macao, colonia portoghese sulla costa meridionale della Cina, per la direzione e la gestione di un orfanotrofio.
La spedizione è composta da altri due sacerdoti e da tre coadiutori: un sarto, un calzolaio e un tipografo. I Missionari arrivano a Macao il 13 febbraio 1906.
Don Versiglia adotta il metodo educativo di don Bosco cercando di creare un ambiente familiare fondato sull’amorevolezza. Per gli orfani il loro “Luì San-fù” (Padre Luigi) ha una dedizione totale e amorevole e lui è da loro pienamente ricambiato. Appena arriva gli corrono incontro e lo accolgono festosamente. Per questo a Macao don Versiglia diventa noto come il “padre degli orfani”.
Nell’orfanotrofio diretto da Versiglia il gioco e la musica sono strumenti educativi fondamentali. É il motivo che lo spinge ad aprire un oratorio festivo e a costituire una banda musicale, con ottoni e tamburi, che cattura da subito la curiosità e la simpatia di tutti i cinesi, agli occhi dei quali i piccoli musicisti sembrano «una comitiva fantastica, piovuta da un altro mondo».
Nel corso degli anni don Versiglia trasforma l’orfanotrofio in una scuola professionale di Arti e Mestieri per alunni orfani che è così stimata da essere presa a modello per le altre scuole di Macao. I ragazzi che ivi si diplomano trovano subito impiego negli uffici amministrativi della città o riescono ad aprire negozi di artigianato in proprio. Questa scuola dà un valido contributo di promozione sociale e culturale e la sua importanza viene riconosciuta da tutti.
Il Vescovo di Macao nel 1911 affida a Versiglia l’evangelizzazione del distretto dell’Heung Shan, regione compresa nel vasto delta del Fiume delle Perle.
In questo territorio il compito di evangelizzazione è particolarmente difficile. “C’è tutto da fare, preparare catechisti, maestri, scuole…” scrive don Versiglia. Compito difficile soprattutto a motivo della mancanza di personale, maschile e femminile, e della grande diffidenza del popolo cinese verso i missionari, considerati come stranieri inviati dai paesi colonialisti e quindi nemici.
Pochi mesi dopo, la millenaria monarchia cinese viene rovesciata e a partire dall’ottobre 1911 si instaura la Repubblica, ma continuano gli scontri tra i reparti imperiali e le truppe rivoluzionarie. La pirateria rifiorisce e scoppiano epidemie. Si diffonde addirittura la peste bubbonica e don Versiglia non lesina sacrifici per soccorrere chiunque abbia bisogno, visita i lazzaretti dando conforto ai malati e amministrando battesimi. Una volta al mese va anche a visitare i lebbrosi relegati in un’isola vicina.
Nella ferma volontà di Versiglia di aiutare tutti, anche i più miserabili, allontanati e dimenticati, di assisterli sia materialmente nei bisogni quotidiani della vita, sia spiritualmente salvando le loro anime non possiamo che cogliere in lui uno sconfinato amore per il prossimo.

Nel 1918 prende vita la prima Missione salesiana completamente autonoma in Cina, la Missione dello Shiu-Chow, che comprende una regione montuosa molto vasta, dove ci si può spostare solo in barca, a piedi o a cavallo, e gli abitanti sono dispersi in villaggi molto distanti gli uni dagli altri.

Nel 1921 viene consacrato Vescovo.
I vari confratelli daranno tutti testimonianza della grande carità di Versiglia che lo porta a fare quasi il servo dei suoi missionari, e nelle malattie li assiste giorno e notte. Carità anche nelle piccole cose. Don Garelli, ad esempio, racconterà che giunto dall’Italia alla residenza di Shiu-chow, piccola, povera e sprovvista di arredi, Versiglia gli dice: “Vedi, qui c’è un solo letto ad una sola piazza. Io sono ormai rotto alla vita missionaria, ma tu no! Sei ancora abituato agli agi della vita civile. Dunque, su quel letto ci dormi tu, e qui sul pavimento ci dormo io”.
Anche da Vescovo, egli continua a sacrificarsi per i confratelli e per i cinesi e si presta a qualunque servizio: tipografo, sacrestano, giardiniere, imbianchino, persino barbiere.
Compie visite pastorali faticosissime e lunghissime, alcune durano anche due mesi, sono in condizioni molto disagevoli, Gli capita di dormire sugli assiti delle barche pubbliche in mezzo alla gente che ti calpesta, in alberghi fatiscenti, in mezzo a diluvi…
Costruisce scuole, residenze, chiese, dispensari, orfanotrofio, brefotrofio, ricovero per anziani, tutto ciò grazie a sue doti particolari: 1) ha abilità di architetto; infatti, disegna e progetta lui stesso tutte le costruzioni e poi ne dirige i lavori, 2) ha grandi abilità oratorie che gli consentono di raccogliere i fondi necessari. Nei suoi due unici viaggi in Italia nel 1916 e 1922 e in quello al Congresso Eucaristico di Chicago, dove si reca per motivi specifici, tiene diversi seminari in cui incanta la gente aprendo i cuori di molti benefattori.
Quelli a Shiu-chow sono anni ancora più difficili. Il governo repubblicano, per scacciare potenti generali che ancora controllano vaste zone del nord, chiede aiuto alla Russia che manda i suoi armamenti ma inizia anche a fare propaganda bolscevica contro l’imperialismo occidentale, e i missionari vengono visti come nemici che devono esser allontanati, le loro residenze spesso vengono occupate dai militari, ecc. Negli anni il clima si fa sempre più scottante, diventa sempre più pericoloso viaggiare, la pirateria imperversa, alcuni missionari vengono rapiti dai pirati.
Mons. Versiglia si prodiga in tutti i modi per difendere le residenze e le persone in pericolo e dice: “Se per il Vicariato è necessaria una vittima, prego il Signore di prendere me”.

Callisto: giovane missionario appassionato di Cristo fino al dono totale di sé
Diversa e più breve è l’esperienza missionaria di Callisto ma ugualmente condotta con la massima dedizione di sé.
Egli riesce a realizzare il suo sogno missionario a ventuno anni (1924), quando ottiene il permesso di seguire don Garelli a Shanghai, dove viene affidata ai Salesiani la direzione di un grande istituto professionale.
Alla consegna della croce missionaria nella Basilica di Maria Ausiliatrice, il chierico Caravario formula questa preghiera: “Signore, la mia croce io non desidero che sia né leggera né pesante, ma come vuoi tu. Dammela Tu come vuoi. Solo ti chiedo che io la possa portare volentieri”. Parole che tanto ci dicono sulla sua disposizione ad accettare la volontà di Dio anche nelle sofferenze e nelle criticità.
Caravario arriva dunque a Shanghai nel novembre 1924, e qui, oltre allo studio del cinese, gli viene affidata un’ingente mole di lavoro: l’assistenza completa, ventiquattro ore su ventiquattro, di cento orfanelli, la scuola di catechismo, la preparazione al battesimo e alla cresima, l’animazione delle ricreazioni. Perseguendo il suo ideale di diventare sacerdote, inizia anche a studiare teologia con grande serietà.
Nel 1927 deve lasciare Shanghai per lo scatenarsi della rivoluzione e viene destinato alla lontana isola di Timor, colonia portoghese nell’arcipelago indonesiano, ecclesiasticamente dipendente dal Vescovo di Macao, per aprire una scuola di arti e mestieri. A Timor resterà due anni, che sfrutterà per arricchire la sua cultura religiosa e la sua relazione con Dio in vista del Sacerdozio. Anche a Timor, come a Shanghai, il suo apostolato ha il frutto di diverse vocazioni, e si guadagna la fiducia e l’affetto dei giovani “che piangono tutti alla sua partenza” quando nel 1929 la casa salesiana a Dili viene chiusa.
Viene, dunque, destinato alla Missione di Shiu-chow dove ritrova il suo maestro delle elementari, don Carlo Braga, e Mons. Versiglia che il 18 maggio 1929 lo ordina Sacerdote. Quel giorno, alla mamma scrive: “Mamma, ti scrivo col cuore pieno di gioia. Stamani sono stato ordinato, sono sacerdote in eterno. Ormai il tuo Callisto non è più tuo: egli dev’essere completamente del Signore. Sarà lungo o breve il tempo del mio sacerdozio? Non lo so. L’importante è che presentandomi al Signore io possa dire di aver fatto fruttare la grazia che mi ha dato”.
Caravario è estremamente magro e debole a causa della malaria contratta a Timor e Versiglia gli affida la Missione di Lin-chow, pensando che il buon clima di quella zona possa giovare alla sua salute fisica.
Come Versiglia, anche Caravario affronta le fatiche dei viaggi apostolici con spirito di sacrificio e adattamento. “In questa terra ci sono molte anime da salvare e gli operai sono pochi; perciò, noi dobbiamo, con l’aiuto del Signore, salvarle anche a costo di qualsiasi sacrificio.”
Grazie alle sue qualità di purezza, pietà, dolcezza e sacrificio, dai confratelli viene considerato il perfetto modello di Sacerdote missionario.

Luigi e Caravario: insieme nell’ultimo sacrificio
Il 24 febbraio 1930 Mons. Versiglia parte per la visita pastorale alla residenza di Lin-chow insieme a Don Callisto Caravario, a due maestri e a tre giovani ragazze che hanno studiato al collegio di Shiu-chow. Il 25 febbraio durante la risalita del fiume di Lin-chow la loro barca è fermata da una decina di pirati bolscevichi che chiedono cinquecento dollari come lasciapassare (che ovviamente i missionari non hanno con sé) e tentano di rapire le ragazze, ma Versiglia e Caravario si oppongono fermamente per proteggere la purezza delle giovani. Mons. Versiglia è risoluto a compiere il suo dovere fino a dare la vita: “Se per salvare coloro che sono state affidate alle mie cure, è necessario morire per difenderle, io sono pronto”. I pirati si scagliano su di loro, insultando la religione cattolica, e li bastonano in modo brutale. Poi li conducono in una boscaglia, li fucilano e si accaniscono sui loro corpi.
Le ragazze, liberate qualche giorno dopo dall’esercito regolare, testimonieranno la serenità con cui i due missionari vanno incontro alla morte.
Luigi e Callisto hanno immolato sé stessi per difendere la fede e la purezza delle tre giovani.
Chi li ha conosciuti testimonia che la forza di volontà e l’attaccamento a Dio hanno permeato tutta la loro vita in modo eroico, e che il loro zelo per la salvezza delle anime è stato peculiare.
La santità di queste anime belle è stata la conquista d’ogni giorno e il Martirio ne è stato il coronamento.

dott.ssa Giovanna Bruni




Laura Vicuña: una figlia che “genera” la propria madre

Storie di famiglie ferite
            Siamo abituati ad immaginare la famiglia come una realtà armoniosa, contraddistinta dalla compresenza di più generazioni e dal ruolo-guida di genitori che danno la norma e di figli i quali – nell’apprenderla – vengono da loro guidati nell’esperienza della realtà. Tuttavia spesso le famiglie si trovano attraversate da drammi e incomprensioni, o segnate da ferite che ne aggrediscono la configurazione ottimale e ne restituiscono un’immagine distorta, falsata e falsante.
            Anche la storia della santità salesiana è attraversata da storie di famiglie ferite: famiglie dove vien meno almeno una delle figure genitoriali, oppure la presenza della mamma e del papà diventa, per ragioni diverse (fisiche, psichiche, morali e spirituali), penalizzante per i loro figli, oggi incamminati verso gli onori degli altari. Lo stesso Don Bosco, che aveva sperimentato la morte prematura del padre e l’allontanamento dalla famiglia per la prudente volontà di Mamma Margherita, vuole – non è un caso – l’opera salesiana particolarmente dedicata alla «gioventù povera e abbandonata» e non esita a raggiungere i giovani che si sono formati nel suo oratorio con una intensa pastorale vocazionale (dimostrando che nessuna ferita del passato è ostacolo a una vita umana e cristiana piena). È pertanto naturale che la stessa santità salesiana, che attinge alle esistenze di molti giovani di Don Bosco poi consacrati per suo tramite alla causa del Vangelo, porti in sé – quale logica conseguenza – traccia di famiglie ferite.
            Di questi ragazzi e ragazze cresciuti a contatto con le opere salesiane presentiamo la beata Laura Vicuña, nata nel Cile del 1891, orfana di padre e la cui mamma inizia in Argentina una convivenza con il ricco possidente Manuel Mora; Laura, dunque, ferita dalla situazione di irregolarità morale della mamma, è pronta ad offrire la vita per lei.

Una vita breve ma intensa
            Nata a Santiago del Cile il 5 aprile 1891, e battezzata il 24 maggio successivo, Laura è la figlia maggiore di José D. Vicuña, un nobile decaduto che aveva sposato Mercedes Pino, figlia di modesti agricoltori. Tre anni dopo arriva una sorellina, Julia Amanda, ma ben presto il papà muore, dopo avere subíto una sconfitta politica che ne ha minato la salute e compromesso, con il sostentamento economico della famiglia, anche l’onore. Priva di qualsiasi «protezione e prospettiva di futuro», la mamma approda in Argentina, dove ricorre alla tutela del proprietario terriero Manuel Mora: un uomo «di carattere superbo e altero», che «non dissimula odio e disprezzo per chiunque avversasse i suoi disegni». Un uomo, insomma, che solo in apparenza garantisce protezione, ma è in realtà abituato a prendere, se necessario con la forza, quello che vuole, strumentalizzando le persone. Intanto paga gli studi presso il collegio delle Figlie di Maria Ausiliatrice a Laura e alla sorella e la loro madre – che subisce l’influsso psicologico di Mora – convive con lui senza trovare la forza di rompere il legame. Quando però Mora inizia a mostrare segni di disonesto interesse verso la stessa Laura, e soprattutto quando quest’ultima intraprende il percorso di preparazione alla Prima Comunione, lei d’un tratto comprende tutta la gravità della situazione. A differenza della mamma – che giustifica un male (la convivenza) in vista di un bene (l’educazione delle figlie in collegio) – Laura capisce che si tratta di una argomentazione moralmente illegittima, che mette in grave pericolo l’anima della madre. In questo periodo, poi, Laura vorrebbe diventare ella stessa suora di Maria Ausiliatrice: ma la sua domanda è respinta, perché figlia di una «pubblica concubina». Ed è a questo punto che proprio in Laura – accolta in collegio quando in lei dominavano ancora «impulsività, facilità di risentimento, irritabilità, impazienza e propensione ad apparire» – si manifesta un cambiamento che solo la Grazia, unita all’impegno della persona, può operare: chiede a Dio la conversione della madre, offrendo se stessa per lei. In quel momento, Laura non può muoversi né “in avanti” (entrando tra le Figlie di Maria Ausiliatrice) né “indietro” (tornando dalla madre e dal Mora). Con un gesto allora carico della creatività tipica dei santi, Laura intraprende l’unica strada che le è ancora accessibile: quella dell’altezza e della profondità. Nei propositi della Prima Comunione aveva annotato:

Propongo di fare quanto so e posso per […] riparare le offese che voi, Signore, ricevete ogni giorno dagli uomini, specie dalle persone della mia famiglia; mio Dio, datemi una vita di amore, di mortificazione e di sacrificio.

            Ora finalizza il proposito in “Atto di offerta”, che include il sacrificio della vita stessa. Il confessore, riconoscendo che l’ispirazione è da Dio ma ignorandone le conseguenze, acconsente, e conferma che Laura è «consapevole dell’offerta che ha appena compiuto». Lei vive gli ultimi due anni con silenzio, allegria e sorriso e una indole ricca di calore umano. Eppure, lo sguardo che posa sul mondo – come conferma un ritratto fotografico, molto diverso dalla stilizzazione agiografica nota – dice anche tutta la sofferta consapevolezza e il dolore che la abitano. In una situazione dove le manca sia la “libertà da” (condizionamenti, ostacoli, fatiche), sia la “libertà di” fare tante cose, questa preadolescente testimonia la “libertà per”: quella del dono totale di sé.
Laura non disprezza, ma ama la vita: la propria e quella della mamma. Per questo si offre. Il 13 aprile 1902, Domenica del Buon Pastore, si chiede: «Se Lui dà la vita… cosa lo impedisce a me per la mamma?». Morente, aggiunge: «Mamma, io muoio, io stessa l’ho chiesto a Gesù… sono quasi due anni che gli offersi la vita per te…, per ottenere la grazia del tuo ritorno!».
            Sono parole prive di rimpianto e di rimprovero, ma cariche di una grande forza, una grande speranza e una grande fede. Laura ha imparato ad accogliere la mamma per quello che è. Offre anzi se stessa per donarle ciò che lei sola non riesce a conseguire. Quando Laura muore, la mamma si converte. Laurita de los Andes, la figlia, ha così contribuito a generare la madre nella vita di fede e di grazia.




Beato Tito Zeman, martire per le vocazioni

Un uomo destinato all’eliminazione
            Titus Zeman nasce a Vajnory, vicino a Bratislava (in Slovacchia), il 4 gennaio 1915, primo di dieci figli in una famiglia semplice. All’età di 10 anni guarisce improvvisamente per intercessione della Madonna e le promette di “essere suo figlio per sempre” e diventare sacerdote salesiano. Comincia a realizzare questo sogno nel 1927, dopo aver superato per due anni l’opposizione della famiglia. Alla famiglia aveva chiesto di vendere un campo per potergli pagare gli studi, e aveva aggiunto: “Se fossi morto, avreste ben trovato i soldi per il mio funerale. Prego di usare quei soldi per pagarmi gli studi”.
            La stessa determinazione ritorna costante in Zeman: quando il regime comunista si instaura in Cecoslovacchia e perseguita la Chiesa, don Titus difende il simbolo del crocifisso (1946), pagando con il licenziamento dalla scuola in cui insegnava. Sfuggito provvidenzialmente alla drammatica “Notte dei barbari” e alla deportazione dei religiosi (13-14 aprile 1950), decide di varcare con i giovani salesiani la Cortina di ferro verso Torino dove lo accoglie il Rettore Maggiore don Pietro Ricaldone. Dopo due passaggi riusciti (estate e autunno 1950), nell’aprile 1951 la spedizione fallisce. Don Zeman affronta una settimana iniziale di torture e altri dieci mesi di detenzione preventiva, con ulteriori pesanti torture, sino al Processo del 20-22 febbraio 1952. Subirà quindi 12 anni di detenzione (1952-1964) e quasi 5 anni in libertà condizionata, sempre spiato e perseguitato (1964-1969).
            Nel febbraio del 1952 il Procuratore generale chiede per lui, per spionaggio, alto tradimento e attraversamento illegale dei confini, la pena di morte, commutata in 25 anni di carcere duro senza condizionale. Don Zeman è però bollato come “uomo destinato all’eliminazione” e sperimenta la vita dei campi di lavoro forzato. È costretto alla triturazione manuale e senza protezione dell’uranio radioattivo; trascorre lunghi periodi in cella di isolamento, con una razione di cibo sei volte inferiore a quella degli altri. Si ammala gravemente di malattie cardiache, polmonari e neurologiche. Il 10 marzo 1964, scontata metà della pena, esce dal carcere in libertà condizionata per 7 anni; è fisicamente irriconoscibile e vive un periodo di intensa sofferenza anche spirituale per il divieto a esercitare pubblicamente il ministero sacerdotale. Muore, dopo aver ricevuto l’amnistia, 1’8 gennaio 1969.

Salvatore delle vocazioni fino al martirio
            Don Titus visse la sua vocazione e la speciale missione a cui si sentì chiamato di operare per la salvezza delle vocazioni con grande spirito di fede, abbracciando l’ora del “calvario” e del “sacrificio” e attestando la capacità, anche per la grazia ricevuta da Dio, di affrontare l’offerta della vita, la passione del carcere e della tortura e infine la morte con coscienza cristiana, consacrata e sacerdotale. Lo attesta il rosario di 58 grani, uno per ogni periodo di tortura, da lui costruito in pane e filo, e soprattutto il riferimento all’Ecce homo, come a Colui che gli ha fatto compagnia nelle sue sofferenze, e senza il Quale egli non sarebbe riuscito ad affrontarle. Egli custodisce e difende la fede dei giovani in tempo di persecuzione, per contrapporsi alla rieducazione e riqualificazione ideologica comunista, attuando una intensa e rischiosa azione di custodia e di salvaguardia delle vocazioni. Il suo cammino di fede è un continuo “brillare” di virtù, frutto di un intenso vissuto interiore, che si traduce in una missione coraggiosa, in un paese dove il Comunismo intendeva cancellare ogni traccia di vita cristiana. L’intera vita di don Titus si compendia nell’incoraggiare gli altri a quella “fedeltà nella vocazione” con cui egli aveva seguito decisamente la sua. Il suo è un amore totale per la Chiesa e per la propria vocazione religiosa e missione apostolica. Le sue ardite imprese scaturiscono da questo amore unificato e unificante.

Testimone di speranza
            La testimonianza eroica del Beato Titus Zeman è una delle pagine di fede più belle che le comunità cristiane dell’Europa Orientale e la Congregazione salesiana hanno scritto nei duri anni di persecuzione religiosa da parte dei regimi comunisti nel secolo scorso. In lui risplende in maniera particolare l’impegno per le giovani vocazioni consacrate e sacerdotali, decisive per il futuro della fede in quei territori.
            Con la sua vita, don Titus dimostra di essere un uomo dell’unità, che abbatte le barriere, media nei conflitti, guarda sempre al bene integrale della persona; inoltre ritiene sempre possibile un’alternativa, una soluzione migliore, un non-arrendersi a circostanze sfavorevoli. Negli stessi anni in cui alcuni apostatavano o tradivano, e altri si lasciavano andare allo scoraggiamento, lui rafforza la speranza dei giovani chiamati al sacerdozio. La sua obbedienza è creativa, non formalistica. Egli agisce non solo per il bene del prossimo, ma nel miglior modo possibile. Così, non si limita ad organizzare le fughe dei chierici all’estero, ma li accompagna pagando di persona, permettendo loro di raggiungere Torino, nella convinzione che “a casa di Don Bosco” avrebbero vissuto un’esperienza destinata a segnare tutta la loro vita. Alla radice c’è la consapevolezza che salvare una vocazione è salvare molte vite: anzitutto quella del chiamato, poi quelle che una vocazione obbedita raggiunge, in questo caso per il tramite della vita religiosa e sacerdotale.

            È significativo che il martirio di don Titus Zeman sia stato riconosciuto nella scia del bicentenario della nascita di S. Giovanni Bosco. La sua testimonianza è l’incarnazione della chiamata vocazionale di Gesù e della predilezione pastorale per i ragazzi e i giovani, soprattutto per i giovani confratelli salesiani, predilezione che si manifesterà, come in Don Bosco, in una vera ‘passione’, cercando il loro bene, ponendo in questo tutte le sue energie, tutte le forze, tutta la vita in spirito di sacrificio e di offerta: “Anche se perdessi la vita, non la considererei sprecata, sapendo che almeno uno di quelli che avevo aiutato è diventato sacerdote al posto mio”.