Hai pensato alla tua vocazione? San Francesco di Sales potrebbe aiutarti (1/10)

«Non è per la grandezza delle nostre azioni che noi piaceremo a Dio, ma per l’amore con cui le compiamo», san Francesco di Sales.
Un percorso a dieci puntate nel quale san Francesco di Sales potrebbe accompagnare anche oggi i giovani che si fanno domande sul senso della loro vita.

1. Se iniziassimo dall’ABC della vita cristiana

Cari giovani,
so di scrivere a chi si porta già nel cuore un piccolo desiderio di bene, una ricerca di luce. Avete già camminato nell’amicizia col Signore, ma mi permetto di riassumervi qui l’ABC della vita da credente, ovvero una vita interiore e spirituale ricca e profonda. Con queste basi potrete essere attrezzati per fare scelte fruttuose nella vostra esistenza. Questo lavoro non mi è nuovo: quando ero Vescovo ho visitato tutte le parrocchie della mia Diocesi e molte erano situate sui monti. Per raggiungerle non c’erano strade e dovevo camminare a lungo, anche d’inverno, ma ero felice di incontrare quelle persone semplici, per incoraggiarle a vivere come piace a Dio.
Per camminare con frutto è decisivo il lavoro della guida spirituale che si accorge di cosa sta capitando nel vostro cuore, vi incoraggia, vi segue, vi fa proposte chiare, graduali e stimolanti. Scrivevo nella Filotea: “Vuoi metterti in cammino nei sentieri dello Spirito con sicurezza? Trova qualcuno capace, che ti sia di guida e ti accompagni; è la raccomandazione delle raccomandazioni”. Quattro secoli fa, come oggi: questo è il punto cruciale, decisivo.
La meta da raggiungere è la santità, che consiste in una vita cristiana consapevole, ovvero una profonda amicizia con Dio, una vita spirituale fervente, segnata dall’amore a Dio e al prossimo. Si tratta di una via semplice, sapendo che le grandi occasioni per servire Dio si presentano raramente, mentre le piccole le abbiamo sempre. Questo ci stimola ad una carità pronta, attiva, diligente.
Se, pensando ad una meta così, siete tentati dallo scoraggiamento, vi ripeto quanto scrissi secoli fa: “Non bisogna pretendere che tutti comincino con la perfezione: poco importa il modo di cominciare. Basta essere risoluti a continuare e terminare bene”.
Per partire con il piede giusto vi invito alla purificazione del cuore attraverso la confessione. Il peccato è una mancanza di amore, un furto alla vostra umanità, un trovarsi al buio e al freddo: nella confessione si consegna a Gesù tutto quello che può appesantire e rendere buio il viaggio. È ri-avere la gioia del cuore.
Procedendo, gli attrezzi per camminare sono antichi e preziosi quanto la Chiesa, e hanno sostenuto generazioni di cristiani di ogni età, da 20 secoli! Anche voi li avete certamente sperimentati.
La preghiera, ovvero dialogare con un Padre innamorato di voi e della vostra vita. Non dimenticate che a pregare si impara pregando: quindi abbiate fedeltà e perseveranza.
La Parola di Dio, ovvero la “lettera di Dio” indirizzata proprio a voi come singoli. È come una sorta di bussola che orienta il camminare, soprattutto quando c’è nebbia, buio e rischiate di perdere l’orientamento! Non dimenticate che leggendola avete tra le mani il Tesoro.
Il sacramento dell’Eucaristia è il termometro della vostra vita credente: se il vostro cuore non ha maturato un vivo desiderio di accogliere il Pane della Vita, l’incontro con Lui avrà risultati modesti. Scrivevo ai miei contemporanei: “Se il mondo vi chiede perché vi comunicate così spesso, rispondete che è per imparare ad amare Dio, per purificarvi dalle vostre imperfezioni, per liberarvi dalle vostre miserie, per trovare forza nelle vostre debolezze e consolazioni nelle vostre afflizioni. Due tipi di persone devono comunicarsi sovente: i perfetti, perché essendo ben disposti farebbero un torto a non accostarsi alla fonte e sorgente della perfezione; e gli imperfetti per poter tendere alla perfezione. I forti per non indebolirsi e i deboli per rafforzarsi. I malati per guarire e i sani per non ammalarsi.” Partecipate alla S. Messa con grande frequenza: il più possibile!
Insisto poi sulle virtù, perché se l’incontro con Dio è vero e profondo cambia anche i rapporti con le persone, il lavoro, le cose. Esse consentono di avere un carattere umanamente ricco, capace di amicizie vere e profonde, di essere gioiosamente impegnati nel fare bene il proprio dovere (lavoro-studio), pazienti e cordiali nel tratto, buoni.
Tutto questo non avviene nel vostro cuore solitario, per migliorarlo e compiacersi. La vita con altri è uno stimolo a camminare meglio (quanti sono migliori di noi!), ad aiutare di più (quanti hanno bisogno di noi!), a farsi aiutare (quanto abbiamo da imparare!), a ricordarci che non siamo autosufficienti (non ci siamo auto-creati e auto-educati!). Senza una dimensione comunitaria, ci perdiamo presto.
Spero che abbiate già gustato i frutti di una guida stabile, di confessioni autentiche, della preghiera fedele e soda, della ricchezza della Parola, dell’Eucaristia vissuta con fecondità, delle virtù praticate nella gioia del quotidiano, di amicizie arricchenti, dell’imprescindibilità del servizio. In questo humus si fiorisce: solo in questo ecosistema si percepisce il vero volto del Dio cristiano, alla cui mano è bello e dà gioia affidare la propria vita.

Ufficio Animazione Vocazionale

(continua)




Lo sguardo di don Bosco

Ma chi lo crederebbe? Con quella vista, don Bosco… vedeva tante cose!
Un vecchio sacerdote, già alunno a Valdocco, lasciò scritto nel 1889: «Quel che in don Bosco più spiccava era lo sguardo, dolce ma penetrantissimo fino alle latebre del cuore, cui appena si poteva resistere fissandolo. Onde si può dire che l’occhio suo attirava, atterriva, atterrava all’uopo e che nel mio giro del mondo non conobbi persona, che più di lui s’imponesse con lo sguardo. In genere i ritratti e i quadri non riportano questa singolarità, e me ne fanno di lui un dabben uomo».
Un altro ex-allievo degli anni ’70, Pons Pietro, rivela nei suoi ricordi: «Don Bosco aveva due occhi che foravano e penetravano nella mente… Egli passeggiava adagio parlando e guardando tutti con quei due occhi che giravano da ogni parte, elettrizzando di gioia i cuori».
Il salesiano don Pietro Fracchia, allievo di don Bosco, ricordava un suo incontro con il Santo seduto allo scrittoio. Il giovane osò chiedergli perché scriveva così con la testa bassa e si voltava verso destra accompagnando la penna. Don Bosco, sorridendo, gli rispose: «La ragione è questa, vedi! Da quest’occhio don Bosco non ci vede più, e da quest’altro poco, poco, poco!» — «Ci vede poco? Ma allora come va che l’altro giorno in cortile, mentre io ero lontano da lei, mi lanciò uno sguardo vivissimo, luminoso, penetrante come un raggio di sole?» — «Ma va là… ! Voialtri pensate e vedete subito chissà che cosa…!».
Eppure era così. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Don Bosco con il suo occhio scrutatore, tutto penetrava e indovinava nei giovani: il carattere, l’ingegno, il cuore. Qualcuno di essi cercava appositamente di sfuggire la sua presenza perché non riusciva a sopportarne lo sguardo. Don Domenico Belmonte assicurava di aver personalmente costatato il fatto: «Tante volte don Bosco guardava un giovane in modo così particolare, che i suoi occhi dicevano ciò che il labbro in quel momento non esprimeva, e gli facevano comprendere ciò che desiderava da lui».
Spesso egli seguiva con lo sguardo un giovane in cortile, mentre conversava con altri. Ad un tratto lo sguardo del ragazzo s’incontrava con quello di don Bosco e l’interessato capiva. Gli si avvicinava per chiedergli che cosa volesse da lui e don Bosco glielo diceva all’orecchio. Magari era un invito alla confessione.
Un alunno una notte non poteva prender sonno. Sospirava, mordeva le lenzuola, piangeva. Il compagno che dormiva vicino a lui, svegliato da quell’agitazione, gli chiese: «Che cos’hai?… Ma che cos’hai?» — «Che cos’ho? Ieri sera don Bosco mi ha guardato!» — «Oh, bella! E mica una novità. Non c’è per questo da disturbare tutta la camerata!» — Al mattino lo contò a don Bosco e don Bosco gli rispose: «Domanda un po’ a lui che cosa ne dice la sua coscienza!». Il resto lo si può immaginare.

Ancora testimonianze in Italia, Spagna e Francia

Don Bosco a 71 anni – Sampierdarena, 16 marzo 1886

Don Michele Molineris, nella sua Vita episodica di don Bosco pubblicata postuma al Colle nel 1974, riporta un’altra serie di testimonianze sullo sguardo di don Bosco. Ne riferiamo solo tre, anche per ricordare questo studioso del Santo che, oltre al resto, ebbe una conoscenza unica dei luoghi e delle persone della fanciullezza di Giovanni Bosco. Ma veniamo alle testimonianze da lui raccolte.
Mons. Felice Guerra ricordando personalmente la vivacità dello sguardo di don Bosco, dichiarò che esso penetrava come spada a doppio taglio fino a scandagliare i cuori e commuovere le coscienze. Eppure «da un occhio non ci vedeva e anche l’altro gli serviva poco!».
Don Giovanni Ferrés, parroco a Gerona in Spagna, che vide don Bosco nel 1886, lasciò scritto che «aveva gli occhi vivissimi, sguardo penetrante… Guardandolo mi sentivo forzato a ripiegarmi sopra di me e ad esaminare come stessi di anima».
Il Sig. Accio Lupo, usciere del Ministero Francesco Crispi, che aveva introdotto don Bosco nell’ufficio dello statista, lo ricordava come «un prete emaciato… dagli occhi penetranti!».

E ricordiamo infine impressioni raccolte dai suoi viaggi in Francia. Il Cardinal Giovanni Cagliero riferiva il fatto seguente notato personalmente nell’accompagnare don Bosco. Dopo una conferenza tenuta a Nizza, don Bosco usciva dal presbitero della chiesa per avviarsi alla porta, tutto circondato dalla folla che non lo lasciava camminare. Un individuo dall’aspetto torvo stava immobile a guardarlo come se macchinasse un brutto tiro. Don Cagliero, che lo teneva d’occhio, inquieto per ciò che potesse succedere, vide l’uomo avvicinarsi. Don Bosco gli rivolse la parola: «Che cosa desiderate? — «Io? Nulla!» — «Eppure sembra che abbiate qualche cosa da dirmi!» — «Io ho nulla da dirle» — «Volete confessarvi?» — «Confessarmi, io? Ma neppur per sogno!» — «Dunque che cosa fate qui?» — «Sto qui perché… non posso andar via!» — «Ho capito… Signori, mi lascino un momento solo», disse don Bosco a quelli che lo circondavano. I vicini si tirarono in disparte, don Bosco sussurrò qualche parola all’orecchio di quell’uomo che, cadendo in ginocchio, si confessò là in mezzo alla chiesa.
Più curioso fu il fatto di Tolone, accaduto durante il viaggio di don Bosco in Francia nel 1881.
Dopo una conferenza nella chiesa parrocchiale di Santa Maria, don Bosco, con un piatto d’argento in mano, fece il giro della chiesa a questuare. Un operaio, nell’atto in cui don Bosco gli presentava il piatto, voltò la faccia dall’altra parte alzando sgarbatamente le spalle. Don Bosco, passando oltre, gli diede uno sguardo amorevole e gli disse: «Dio vi benedica! — L’operaio allora si mise la mano in tasca e depose un soldo nel piatto. Don Bosco, fissandolo in faccia, gli disse: — Dio vi ricompensi —. L’altro, rifatto il gesto, offrì due soldi. E don Bosco: — Oh, mio caro, Dio vi rimeriti sempre di più! — Quell’uomo, ciò udito, cavò fuori il portamonete e donò un franco. Don Bosco gli diede uno sguardo pieno di commozione e si avviò. Ma quel tale, quasi attratto da una forza magica, lo seguì per la chiesa, gli andò appresso nella sacrestia, uscì dietro di lui in città e non cessò di stargli alle spalle finché non lo vide scomparire». Potenza di uno sguardo di don Bosco!
Disse Gesù: «Gli occhi sono come la lampada per il corpo; se i tuoi occhi sono buoni tu sarai totalmente nella luce».
Gli occhi di don Bosco erano totalmente nella Luce!




San Francesco di Sales. La dolcezza (7/8)

(continuazione dall’articolo precedente)

LA DOLCEZZA, IN SAN FRANCESCO DI SALES (7/8)

Alcuni episodi della vita di Francesco che ci introducono nella contemplazione della “dolcezza salesiana”.

Francesco, per migliorare la situazione del clero nelle parrocchie, aveva stabilito che fossero messe a concorso: almeno tre candidati per una parrocchia. Sarebbe stato scelto il migliore.
Ora, era successo che un cavaliere di Malta, furibondo perché uno dei suoi servitori era stato escluso da un concorso (questo candidato sapeva più corteggiare le donne che commentare il Vangelo!), era entrato bruscamente nello studio del vescovo e lo aveva insultato con ingiurie e minacce e Francesco era rimasto in piedi, con il cappello in mano. Il fratello del vescovo gli domandò poi se mai la collera lo avesse preso qualche volta e il sant’uomo non gli nascose che “allora e spesso la collera ribolliva nel suo cervello come l’acqua che bolle in una pentola sul fuoco; ma che per grazia di Dio, quand’anche avesse dovuto morire per aver resistito con violenza a questa passione, non avrebbe mai detto una parola in suo favore”.

Si stava costruendo il primo monastero in città (la Sainte Source) e i lavori non andavano avanti perché i domenicani protestavano con gli operai in quanto, secondo loro, non esisteva la distanza richiesta tra i due edifici. Ci sono delle vivaci proteste e il vescovo con bontà e pazienza accorre per calmare gli animi. Questa calma e dolcezza non piacquero a Giovanna di Chantal, che sbottò dicendo:
“La vostra dolcezza non farà che aumentare l’insolenza di queste persone malevole”. “Non sarà, non sarà – rispose Francesco – e poi, Madre, volete che nel giro di un quarto d’ora io distrugga quell’edificio della pace interiore alla cui costruzione sto lavorando da oltre diciotto anni?”.

Una premessa è d’obbligo per comprendere bene cosa sia la dolcezza salesiana. Ce ne parla un esperto: il salesiano don Pietro Braido:
“Non è sentimentalismo, che richiama forme espressive sdolcinate; non è buonismo, tipico di chi chiude volentieri gli occhi sulla realtà per non avere problemi e seccature; non è la miopia di chi vede tutto bello e buono e per il quale tutto va sempre bene; non è l’atteggiamento inerte di chi non ha proposte da fare… La dolcezza salesiana (don Bosco userà il termine amorevolezza) è un’altra cosa: nasce indubbiamente da una profonda e solida carità ed esige un attento controllo delle proprie risorse emotive ed affettive; si esprime in un carattere di umore sereno costante, segno di una persona dall’umanità ricca; richiede capacità di empatia e di dialogo e crea un’atmosfera serena, priva di tensioni e di conflittualità. Dunque la dolcezza di Francesco non va confusa con la debolezza, anzi è forza che richiede controllo, bontà d’animo, chiarezza di intenti e forte presenza di Dio”.

Ma Francesco non è nato così! Dotato di spiccata sensibilità, era facile agli sbalzi di umore e agli scatti d’ira.
Scrive il Lajeunie:
“Francesco di Sales era un vero savoiardo, abitualmente calmo e dolce, ma capace di terribili collere; un vulcano sotto la neve. Per natura era molto pronto a montare in collera, ma che si impegnava tutti i giorni a correggersi.
Con questo temperamento vivo e sanguigno, la sua dolcezza abituale fu sovente messa alla prova. Era molto ferito da parole insolenti e spiacevoli, da gesti volgari. Nel 1619 a Parigi confessava che aveva ancora degli scatti di collera nel suo cuore e doveva tenerne a freno le briglie con due mani!
“Ho fatto un patto con la mia lingua di non dire una parola quando fossi stato in collera. Per grazia di Dio ho potuto avere la forza di frenare la passione della collera, cui naturalmente ero incline”. È per la grazia di Dio che aveva acquistato la capacità di dominare le sue passioni colleriche a cui la sua indole era portata. La sua dolcezza era dunque una forza, il frutto di una vittoria”.

Non è difficile scoprire dietro le prossime citazioni l’esperienza personale del santo, fatta di pazienza, di autocontrollo, di lotta interiore …
Ad una signora dice:
“Siate molto dolce e affabile in mezzo alle occupazioni che avete, perché tutti si attendono da voi questo buon esempio. È facile guidare la barca quando non è ostacolata dai venti; ma in mezzo ai fastidi, ai problemi, è difficile conservarsi sereni, come è difficile seguire la rotta in mezzo alle burrasche”.
Alla signora di Valbonne, che Francesco definisce “una perla”, scrive:
“Dobbiamo restare sempre saldi nella pratica delle nostre due care virtù: la dolcezza nei riguardi del prossimo e l’amabilissima umiltà nei riguardi di Dio”. Ritroviamo unite le due virtù care al Cuore di Gesù: dolcezza e umiltà.

Occorre esercitare la dolcezza anche verso sé stessi.
“Ogni volta che troverete il vostro cuore fuori della dolcezza, contentatevi di prenderlo molto delicatamente con la punta delle dita per rimetterlo al suo posto e non prendetelo a pugni chiusi o troppo bruscamente. Bisogna essere disposti a servire questo cuore nelle sue malattie e anche ad usargli qualche gentilezza; e dobbiamo legare le nostre passioni e le nostre inclinazioni con catene d’oro, cioè, con le catene dell’amore.”
“Chi sa conservare la dolcezza fra i dolori e le infermità e la pace fra il disordine delle sue molteplici occupazioni è quasi perfetto. Questa costanza d’umore, questa dolcezza e soavità di cuore è più rara che la perfetta castità, ma ne è tanto più desiderabile. Da questa, come dall’olio della lampada, dipende la fiamma del buon esempio, perché non vi è altra cosa che edifichi tanto come la bontà caritatevole.”

Ai genitori, educatori, insegnanti, superiori in genere Francesco ricorda di usare dolcezza soprattutto quando si tratta di muovere qualche osservazione o rimprovero a qualcuno. Qui emerge lo spirito salesiano:
“Anche rimproverandoli, com’è necessario, bisogna usare con essi molto amore e dolcezza. In questo modo, i rimproveri ottengono facilmente qualche buon risultato.
La correzione dettata dalla passione, anche quando ha basi ragionevoli, ha molto meno efficacia di quella che viene unicamente dalla ragione”.
“Vi garantisco che ogni volta che sono ricorso a repliche pungenti, ho dovuto pentirmene. Gli uomini fanno molto di più per amore e carità che per severità e rigore”.

La dolcezza va a braccetto con un’altra virtù: la pazienza. Ecco allora qualche lettera che la consiglia:
“Finché restiamo quaggiù, dobbiamo rassegnarci a portare noi stessi fino a che Dio ci porti in cielo. Bisogna dunque aver pazienza e non pensare mai che possiamo correggere in un giorno le cattive abitudini che abbiamo contratte per la poca cura che abbiamo avuto della nostra salute spirituale […]. Bisogna, riconosciamolo, aver pazienza con tutti, ma in primo luogo con sé stessi”.
Alla signora de Limonjon scrive:
“Non è possibile arrivare in un giorno là dove aspirate: bisogna guadagnare oggi questo punto, domani quell’altro; e così, un passo dopo l’altro, arriveremo a essere padroni di noi stessi; e non sarà una conquista da poco”.

Per Francesco la pazienza è la prima virtù da mettere in cantiere nella costruzione di un solido edificio spirituale.
“L’effetto della pazienza è quello di possedere bene la propria anima e la pazienza è tanto più perfetta quanto più è libera dall’inquietudine e dalla fretta”.
“Abbiate pazienza riguardo alla vostra croce interiore: il Salvatore la permette affinché, un giorno, possiate conoscere meglio quello che siete da voi stessa. Non vedete che l’agitazione del giorno viene calmata dal riposo della notte? Questo vuol dire che la nostra anima non ha bisogno di altro che di abbandonarsi completamente a Dio e di essere disposta a servirlo tanto fra le rose come tra le spine”.

Ecco due lettere concrete: alla signora de la Fléchère scrive:
“Che volete dunque che vi dica circa il ritorno delle vostre miserie, se non che occorre riprendere le armi e il coraggio e combattere più decisamente che mai? Per sistemare i vostri affari dovrete usare molta pazienza e rassegnazione. Dio benedirà il vostro lavoro”.

E alla signora di Travernay aggiunge:
“Dovete saper prendere con pazienza e dolcezza e per amore di Colui che le permette, le noie che vi toccano nel corso della giornata. Perciò elevate spesso il vostro cuore a Dio, implorate il suo aiuto e considerate come principale fondamento della vostra consolazione la fortuna che avete di essere sua!”.

Infine questo testo che io chiamo l’inno alla carità secondo san Francesco di Sales.
“Colui che è dolce non offende nessuno, sopporta volentieri coloro che gli fanno del male, soffre con pazienza i colpi che riceve e non rende male per male. Chi è dolce non si turba mai, ma conforma tutte le sue parole all’umiltà, vincendo il male col bene. Fate sempre le correzioni col cuore e con parole dolci.
In questo modo le correzioni produrranno migliori effetti. Non ricorrete mai alle rappresaglie verso coloro che vi hanno dato dei dispiaceri. Non risentitevi e non adiratevi mai per nessun motivo, perché questa è sempre un’imperfezione”.

(continua)






San Francesco di Sales. L’Eucaristia (6/8)

(continuazione dall’articolo precedente)

L’EUCARISTIA, IN SAN FRANCESCO DI SALES (6/8)

Francesco riceve la prima Comunione e la Cresima all’età di nove anni circa. Da allora si comunicherà ogni settimana o almeno una volta al mese.
Dio prende possesso del suo cuore e Francesco rimarrà fedele a questa amicizia che diventerà progressivamente l’amore della sua vita.

La fedeltà a una vita cristiana continua e si rafforza nei dieci anni di Parigi. “Si comunica, se non può più spesso, almeno una volta al mese.” E questo per dieci anni!

Sul periodo di Padova sappiamo che andava a messa tutti i giorni e che si comunicava una volta alla settimana. L’Eucaristia unita alla preghiera diventa l’alimento della sua vita cristiana e della sua vocazione. È in questa profonda unità con il Signore che percepisce la Sua volontà: qui matura il desiderio di essere “tutto di Dio”.

Francesco viene ordinato sacerdote il 18 dicembre 1593 e l’Eucaristia sarà il cuore delle sue giornate e la forza del suo spendersi per gli altri.
Ecco alcune testimonianze, tratte dai Processi di beatificazione:
“Era facile notare come si tenesse in profondo raccoglimento e attenzione davanti a Dio: gli occhi modestamente abbassati, il suo volto era tutto raccolto con una dolcezza e una serenità così grande che coloro che lo osservavano attentamente ne erano colpiti e commossi”.

“Quando celebrava la S. Messa era completamente diverso da com’era di solito: volto sereno, senza distrazioni e, al momento della comunione, quelli che lo vedevano erano profondamente colpiti dalla sua devozione.”

San Vincenzo de Paoli aggiunge:
“Richiamando alla mente le parole del servo di Dio, provo una tale ammirazione che sono portato a vedere in lui l’uomo che più di tutti ha riprodotto il Figlio di Dio vivente sulla terra”.

Sappiamo già della sua partenza nel 1594 come missionario per il Chiablese.
I primi mesi li trascorre al riparo della fortezza degli Allinges. Visitando quello che resta di questa fortezza, si rimane impressionati dalla cappella, rimasta intatta: piccola, buia, gelida, rigorosamente in pietra. Qui Francesco ogni mattino, verso le quattro, celebra l’Eucaristia e sosta in preghiera, prima di scendere a Thonon con il cuore colmo di carità e di misericordia, attinte al divino sacramento.
Francesco trattava la gente con rispetto, anzi con compassione e “se gli altri miravano a farsi temere, egli desiderava farsi amare ed entrare negli animi per la porta del compiacimento” (J.P. Camus).

È l’Eucaristia che sostiene le fatiche iniziali: non risponde agli insulti, alle provocazioni, al linciaggio; si relaziona con tutti con cordialità.
La sua prima predica da suddiacono era stata sul tema dell’Eucaristia e gli sarà certamente servita soprattutto ora, perché “questo augusto sacramento” sarà il suo cavallo di battaglia: nei sermoni tenuti nella chiesa di sant’Ippolito, sovente affronterà questo tema ed esporrà con chiarezza e passione il punto di vista cattolico.

Questa testimonianza, indirizzata all’amico A. Favre, dice la qualità e l’ardore della sua predicazione su un tema così importante:
“Ieri poco mancò che le persone più in vista della città venissero pubblicamente ad ascoltare la mia predica, avendo sentito dire che avrei parlato dell’augusto sacramento dell’Eucaristia. Avevano tanta voglia di sentirmi esporre il pensiero cattolico circa questo mistero che quelli che non avevano osato venire pubblicamente, mi ascoltarono da un posto segreto nel quale non potevano essere visti.”

Il Corpo del Signore trasfonde a poco a poco nel suo cuore di pastore dolcezza, mitezza, bontà per cui anche la sua voce di predicatore ne risente: tono tranquillo e benevolo, mai aggressivo o polemico!
“Sono convinto che chi predica con amore, predica a sufficienza contro gli eretici, anche se non dice una sola parola né discute con loro”.

Eloquente più di un trattato questa esperienza avvenuta il 25 maggio 1595.
Alle tre del mattino, mentre meditava profondamente sul santissimo e augustissimo sacramento dell’Eucaristia, si sentì rapito da una così grande abbondanza di Spirito Santo che il suo cuore si lasciò andare in un effluvio di delizie, in tal modo da essere costretto alla fine a gettarsi per terra ed esclamare: “Signore, ritirati da me perché non posso più sostenere la sovrabbondanza della tua dolcezza”.

Nel 1596, dopo più di due anni di catechesi, decide di celebrare le tre Messe di Natale. Furono celebrate tra l’entusiasmo e la commozione generale. Francesco era felice! Questa messa di mezzanotte del Natale 1596 fu uno dei vertici della sua vita. In questa Messa c’era la Chiesa, la Chiesa cattolica ristabilita nel suo fondamento vivente.

Il Concilio di Trento aveva caldeggiato la pratica delle sante Quarantore, che consistevano nell’adorazione del Santissimo Sacramento per tre giorni consecutivi da parte di tutta la comunità cristiana.
A inizio settembre 1597 si svolsero ad Annemasse, alle porte di Ginevra, con la presenza del vescovo, di Francesco e di altri collaboratori, con un frutto molto più grande di quello che si sperava. Furono giorni intensi di preghiera, processioni, prediche, messe. Oltre quaranta parrocchie vi parteciparono con un numero incredibile di persone.

Visto il successo, l’anno seguente si svolsero a Thonon. Fu una festa di vari giorni che superò ogni attesa. Tutto finì a notte inoltrata, con l’ultimo sermone tenuto da Francesco. Predicò sull’Eucaristia.

Molti studiosi della vita e delle opere del santo sostengono che solo il suo grande amore per l’Eucaristia può spiegare il “miracolo” del Chiablese, cioè come questo giovane prete in soli quattro anni abbia potuto ricondurre tutta la vasta regione alla Chiesa.
E questo amore durò tutta la vita, fino alla fine. Nell’ultimo incontro che ebbe a Lione con le sue Figlie, le Visitandine, ormai in fin di vita, parlò loro della confessione e della comunione.

Che cos’era l’Eucarestia per il nostro santo? Era anzitutto:

Il cuore della sua giornata, che lo faceva vivere in un’intima comunione con Dio.
“Non ti ho ancora parlato del sole degli esercizi spirituali: il santissimo e sommo Sacrificio e Sacramento della Messa, centro della religione cristiana, cuore della devozione, anima della pietà”.

È la consegna fiduciosa della sua vita a Dio al quale chiede forza per continuare la sua missione con umiltà e carità.
“Se il mondo vi chiede perché vi comunicate così spesso, rispondete che è per imparare ad amare Dio, per purificarvi dalle vostre imperfezioni, per liberarvi dalle vostre miserie, per trovare forza nelle vostre debolezze e consolazioni nelle vostre afflizioni. Due tipi di persone devono comunicarsi sovente: i perfetti, perché essendo ben disposti farebbero un torto a non accostarsi alla fonte e sorgente della perfezione; e gli imperfetti per poter tendere alla perfezione. I forti per non indebolirsi e deboli per rafforzarsi. I malati per guarire e i sani per non ammalarsi”.

L’Eucaristia crea in Francesco una profonda unità con tante persone.
“Questo sacramento non solo ci unisce a Gesù Cristo, ma anche al nostro prossimo, con quelli che partecipano allo stesso cibo e ci rende una cosa sola con loro. E uno dei principali frutti è la mutua carità e la dolcezza di cuore gli uni verso gli altri dal momento che apparteniamo allo stesso Signore e in Lui siamo uniti cuore a cuore gli uni gli altri”.

È una progressiva trasformazione in Gesù.
“Coloro che fanno una buona digestione corporale risentono un rafforzamento per tutto il corpo, per la distribuzione generale che si fa del cibo. Così, Figlia mia, quelli che fanno una buona digestione spirituale risentono che Gesù Cristo, che è il loro cibo, si diffonde e comunica a tutte le parti della loro anima e del loro corpo. Essi hanno Gesù Cristo nel cervello, nel cuore, nel petto, negli occhi, nelle mani, nelle orecchie, nei piedi. Ma che fa questo Salvatore dappertutto? Raddrizza tutto, tutto purifica, tutto mortifica, vivifica ogni cosa. Ama nel cuore, capisce nel cervello, anima nel petto, vede negli occhi, parla nella lingua, e così via: fa tutto in tutti e allora viviamo, non noi, ma è Gesù Cristo che vive in noi.
Trasforma anche i giorni e le notti, per cui “Le notti sono giorni quando Dio è nel nostro cuore e i giorni diventano notti quando Lui non c’è”.

(continua)






Don Bosco in Uruguay. Il sogno missionario è diventato una realtà

La missione salesiana in Uruguay condivisa da un vietnamita, padre Domenico Tran Duc Thanh: l’amore cristiano attraverso la vita vissuta con la gente del posto.

I Salesiani furono fondati ufficialmente come Congregazione nel 1859, ma il sogno era in cantiere da molto tempo. Già all’inizio del suo lavoro, don Bosco capì che l’opera doveva essere condivisa, come aveva intuito in molti dei suoi sogni. Così coinvolse persone di ogni estrazione sociale a collaborare in vari modi alla missione giovanile che Dio gli aveva affidato. Nel 1875, con l’inizio delle missioni, si apre una tappa importante nella storia della Congregazione. La prima destinazione sarebbe stata l’Argentina.

Il 13 dicembre del 1875, la prima spedizione missionaria salesiana, guidata da don Giovanni Cagliero, diretta a Buenos Aires, passò per Montevideo. Così l’Uruguay è diventato il terzo Paese fuori dall’Italia raggiunto dai Salesiani di Don Bosco. I salesiani si insediarono nel quartiere di Villa Colón, tra enormi difficoltà, iniziando il loro lavoro presso il Colegio Pío, che venne inaugurato il 2 febbraio 1877. Nello stesso anno, le Figlie di Maria Ausiliatrice arrivarono in Uruguay e si stabilirono anche loro in questo quartiere: in questo modo, Villa Colón divenne la culla da cui il carisma si diffuse non solo in Uruguay, ma anche in Brasile, Paraguay e altre terre del continente latino-americano.

Con il tempo, quella presenza salesiana è diventata un’Ispettoria e oggi ha una varietà di opere salesiane in diverse parti del paese: scuole, servizi sociali, parrocchie, basiliche, santuari, cappelle rurali e urbane, centri sanitari, residenze studentesche e universitarie, Movimento Giovanile Salesiano e altro. È una pluralità che mostra la risposta alle necessità del territorio e la flessibilità dei Salesiani di adeguarsi alla situazione locale. Visitando la gente del quartiere, cercando di capire ciò che la gente sta vivendo attraverso il dialogo e il vissuto quotidiano, si porta avanti l’adattamento alle nuove situazioni per poter rispondere meglio alla missione affidata. Questo uscire, andare incontro ai giovani, soprattutto ai più bisognosi, fa felici i Salesiani, permettendo loro giorno per giorno di continuare a scoprire la bellezza della vocazione salesiana.
Il lavoro in queste opere è stato condiviso con i fedeli laici e, avendo curato la loro formazione, oggi troviamo un bel numero di loro che lavorano in queste attività, condividendo la vita con i Salesiani e rafforzando la loro missione. L’apertura verso gli altri ha permesso di accogliere in queste terre anche Salesiani che non sono originari del luogo. È il caso di don Dominic che svolge lì la sua missione salesiana.

La risposta alla vocazione missionaria è quella che ha lasciato un forte segno nella sua vita. Ci racconta che si è trovato quasi all’improvviso in un paese sconosciuto, con una lingua e cultura diverse, avendo dovuto separarsi da tutte le persone conosciute, rimaste lontane. Bisognava ricominciare da zero, con una apertura diversa, con una nuova sensibilità. Se prima pensava che essere missionario significasse portare Gesù in un altro luogo, una volta giunto in Uruguay ha scoperto che Gesù era già lì, ad aspettarlo in altre persone. “Qui in Uruguay, attraverso gli altri, ho potuto incontrare un Gesù totalmente diverso: più vicino, più umano, più semplice”.
Quello che non si è perso, è stata la presenza materna di Maria che lo accompagna nella quotidianità della vita missionaria e che gli dà una forza profonda, che spinge ad amare Cristo negli altri. “Quando ero bambino, mia nonna mi portava ogni giorno in una chiesa a recitare il rosario. Da quei giorni ai suoi piedi fino ad oggi, mi sento ancora protetto sotto il manto di Maria”. Il culto mariano dà i suoi frutti; l’amore si paga con amore.

Ci confessa che: “In Uruguay sono un giovane che non ha nulla; ho solo la fede, la fede di sapere che Cristo e Maria sono sempre presenti nella mia vita; la speranza di una Chiesa sempre più vicina, piena di santità e di gioia”. Ma è forse questa povertà che lo aiuta a preparare il cuore a seguire Cristo, educare il cuore a stare con i fratelli e le sorelle che si incontrano lungo la strada. Questo lo porta a vedere la Chiesa come un luogo d’incontro gioioso, una festa che manifesta la fede dell’altro, un incontro che implica unità e santità.
E questo lo porta anche ad accorgersi che il suo posto è proprio lì dov’è, nella sua comunità con i suoi fratelli, con la gente del quartiere, con gli animatori, con i bambini, con i laici, con gli educatori.
Si manifesta così la bellezza della vocazione missionaria: lasciando agire la Provvidenza, tramite l’umiltà e la docilità verso lo Spirito Santo, si trasforma l’ordinario in straordinario.

Marco Fulgaro

Galeria foto Don Bosco in Uruguay. Il sogno missionario è diventato una realtà

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Don Bosco in Uruguay. Il sogno missionario è diventato una realtà
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Vera Grita, mistica dell’Eucarestia

            Nel centenario della nascita della Serva di Dio Vera Grita, Laica, Salesiana cooperatrice (Roma 28 gennaio 1923 – Pietra Ligure 22 dicembre 1969) viene presentato un profilo biografico e spirituale della sua testimonianza.

Roma, Modica, Savona
            Vera Grita nasce a Roma il 28 gennaio 1923, secondogenita di Amleto, fotografo di professione da generazioni, e di Maria Anna Zacco della Pirrera, di nobili origini. La famiglia, molto unita e affiatata, era composta anche dalla sorella maggiore Giuseppa (detta Pina) e dalle minori Liliana e Santa Rosa (detta Rosa). Il 14 dicembre dello stesso anno Vera ricevette il Battesimo nella parrocchia di San Gioacchino in Prati, sempre a Roma.

            Vera manifesta fin da bambina un carattere buono e mite che non verrà scalfito dagli eventi negativi che si abbattono su di lei: undicenne deve lasciare la famiglia e distaccarsi dagli affetti più cari insieme alla sorella minore Liliana, per raggiungere a Modica, in Sicilia, le zie paterne che si sono rese disponibili ad aiutare i genitori di Vera colpiti da dissesto finanziario per la crisi economica del 1929-1930. In questo periodo Vera manifesta la sua tenerezza verso la sorella più piccola standole vicino quando la sera quest’ultima piange per la nostalgia della mamma. Vera è attratta da un grande quadro del Sacro Cuore di Gesù, appeso nella sala dove con le zie ogni giorno recita le preghiere del mattino e il Rosario. Rimane spesso in silenzio davanti a quel dipinto e ripete di frequente che da grande vuole diventare suora. Il giorno della sua Prima Comunione (24 maggio 1934) non vuole togliersi l’abito bianco perché teme di non dimostrare abbastanza a Gesù la gioia di averlo nel cuore. A scuola ottiene buoni risultati ed è socievole con le compagne di classe.
            A diciassette anni, nel 1940, rientra in famiglia. La famiglia si è trasferita a Savona e Vera, l’anno successivo, ottiene il diploma presso l’Istituto Magistrale. Vera ha vent’anni quando deve affrontare un nuovo e doloroso distacco per la morte prematura del padre Amleto (1943) e rinuncia a proseguire gli studi universitari cui aspirava, per aiutare economicamente la famiglia.

Nel giorno della Prima Comunione

Il dramma della guerra
            Ma è la Seconda guerra mondiale con il bombardamento su Savona del 1944 che arrecherà a Vera un danno irreparabile: esso determinerà il corso successivo della sua vita. Vera viene travolta e calpestata dalla folla che, in fuga, cerca riparo in una galleria-rifugio.

Vera intorno ai 14-15 anni

La medicina chiama sindrome da schiacciamento le conseguenze fisiche che si verificano in seguito a bombardamenti, terremoti, crolli strutturali, a causa dei quali un arto o tutto il corpo sono schiacciati. Quello cui si assiste poi è un danno a livello muscolare che si ripercuote su tutto l’organismo, compromettendo soprattutto i reni. Per lo schiacciamento, Vera riporterà lesioni lombari e dorsali che creeranno danni irreparabili alla sua salute con febbri, mal di testa, pleuriti. Inizia con questo avvenimento drammatico la “Via Crucis” di Vera che durerà 25 anni, durante i quali alternerà al lavoro lunghi ricoveri ospedalieri. A 32 anni le viene diagnosticato il morbo di Addison che la consumerà debilitando il suo organismo: Vera arriverà a pesare soli 40 chili. A 36 anni Vera subisce un intervento di isterectomia totale (1959) che le causerà una menopausa precoce con conseguente acuirsi della astenia di cui già soffriva a causa del morbo di Addison.
            Nonostante le sue precarie condizioni fisiche, Vera sostiene e vince un concorso come insegnante nelle scuole elementari. Si dedicherà all’insegnamento durante gli ultimi dieci anni della sua vita terrena prestando servizio in sedi scolastiche dell’entroterra ligure difficili da raggiungere (Rialto, Erli, Alpicella, Deserto di Varazze), destando stima e affetto tra le colleghe, nei genitori e negli scolari.

Salesiana cooperatrice
            A Savona, nella parrocchia salesiana di Maria Ausiliatrice, partecipa alla Messa ed è assidua al sacramento della Penitenza. Dal 1963 è suo confessore il salesiano don Giovanni Bocchi. Salesiana Cooperatrice dal 1967, realizza la sua chiamata nel dono totale di sé al Signore, che in modo straordinario si dona a lei, nell’intimo del suo cuore, con la “Voce”, con la “Parola”, per comunicarle l’Opera dei Tabernacoli Viventi. Sottopone tutti gli scritti al direttore spirituale, il salesiano don Gabriello Zucconi, e custodisce nel silenzio del proprio cuore il segreto di quella chiamata, guidata dal divino Maestro e dalla Vergine Maria che l’accompagneranno lungo la via della vita nascosta, della spoliazione e dell’annientamento di sé.

            Sotto l’impulso della grazia divina e accogliendo la mediazione delle guide spirituali, Vera Grita risponde al dono di Dio testimoniando nella sua vita, segnata dalla fatica della malattia, l’incontro con il Risorto e dedicandosi con eroica generosità all’insegnamento e all’educazione degli allievi, sovvenendo alle necessità della famiglia e testimoniando una vita di evangelica povertà. Centrata e salda nel Dio che ama e sostiene, con grande fermezza interiore è resa capace di sopportare le prove e le sofferenze della vita. Sulla base di tale solidità interiore da testimonianza di un’esistenza cristiana fatta di pazienza e costanza nel bene.
            Muore il 22 dicembre 1969 a Pietra Ligure all’ospedale di Santa Corona in una cameretta dove aveva trascorso gli ultimi sei mesi di vita in un crescendo di sofferenze accettate e vissute in unione a Gesù Crocifisso. “L’anima di Vera – scriverà don Giuseppe Borra, Salesiano, suo primo biografo – con i messaggi e le lettere entra nella schiera di quelle anime carismatiche chiamate ad arricchire la Chiesa con fiamme di amore a Dio e a Gesù Eucaristico per la dilatazione del Regno”. È uno di quei chicchi di grano che il Cielo ha lasciato cadere sulla Terra per portare frutto, a suo tempo, nel silenzio e nel nascondimento.

In pellegrinaggio a Lourdes

Vera di Gesù
            La vita di Vera Grita si è svolta nel breve arco di tempo di 46 anni segnati da eventi storici drammatici quali la grande crisi economica del 1929-1930 e la Seconda guerra mondiale e si conclude poi alle soglie di un altro evento storico significativo: la contestazione del 1968, che avrà ripercussioni profonde a livello culturale, sociale, politico, religioso ed ecclesiale.

Con alcuni famigliari

La vita di Vera inizia, si sviluppa e si conclude in mezzo a questi eventi storici dei quali ella subisce le conseguenze drammatiche sul piano familiare, affettivo e fisico. Al tempo stesso, la sua storia evidenzia come ella abbia attraversato questi eventi affrontandoli con la forza della fede in Gesù Cristo, testimoniando così una fedeltà eroica all’Amore crocifisso e risorto. Fedeltà che, al termine della sua vita terrena, il Signore ripagherà donandole il nome nuovo: Vera di Gesù. “Ti ho donato il mio Nome santo, e d’ora in poi ti chiamerai e sarai ‘Vera di Gesù’” (Messaggio del 3 dicembre 1968).
            Provata dalle diverse malattie che, nel tempo, delineano una situazione di generalizzata e irrecuperabile usura fisica, Vera vive nel mondo senza essere del mondo, mantenendo stabilità ed equilibrio interiori dovuti alla sua unione con Gesù Eucaristia ricevuto quotidianamente, e alla consapevolezza della sua Permanenza eucaristica nella sua anima. È pertanto la Santa Messa il centro della vita quotidiana e spirituale di Vera, dove, come piccola “goccia d’acqua”, ella si unisce al vino per essere inseparabilmente unita all’Amore infinito che continuamente si dona, salva e sostiene il mondo.
            Pochi mesi prima di morire Vera scrive al padre spirituale, don Gabriello Zucconi: “Le malattie che mi porto dentro da più di venti anni sono degenerate, divorata dalla febbre e dai dolori in tutte le ossa, io sono viva nella Santa Messa”. Ancora: “Rimane la fiamma della Santa Messa, la scintilla divina che mi anima, mi dà vita, poi il lavoro, i ragazzi, la famiglia, l’impossibilità di trovare in essa un posticino tranquillo ove isolarmi per pregare, ovvero la stanchezza fisica dopo la scuola”.

L’Opera dei Tabernacoli Viventi
            Nei lungi anni di sofferenza, consapevole della sua fragilità e limitatezza umana, Vera impara ad affidarsi a Dio e ad abbandonarsi totalmente alla sua volontà. Mantiene tale docilità anche quando il Signore le comunica l’Opera dei Tabernacoli Viventi, negli ultimi 2 anni e 4 mesi di vita terrena. L’amore per la volontà di Dio conduce Vera al dono totale di sé stessa: dapprima con i voti privati e il voto di “piccola vittima” per i sacerdoti (2 febbraio 1965); successivamente con l’offerta della vita (5 novembre 1968) per la nascita e lo sviluppo dell’Opera dei Tabernacoli Viventi, sempre in piena obbedienza a chi la dirige spiritualmente.
            Il 19 settembre 1967 iniziò l’esperienza mistica che la invitava a vivere a fondo la gioia e la dignità di figlia di Dio, nella comunione con la Trinità e nell’intimità eucaristica con Gesù ricevuto nella S. Comunione e presente nel Tabernacolo. “Il vino e l’acqua siamo noi: Io e te, tu e Io. Siamo una cosa sola: Io scavo in te, scavo, scavo per costruirmi un tempio: lasciami lavorare, non pormi ostacoli […] la volontà del Padre mio è questa: che Io rimanga in te, e tu in Me. Insieme porteremo gran frutto”. Sono 186 i messaggi che costituiscono l’Opera dei Tabernacoli Viventi che Vera, lottando con il timore di essere vittima di un inganno, scrisse in obbedienza a don Zucconi.
            Il “Portami con te” esprime in modo semplice l’invito di Gesù fatto a Vera. Dove, portami con te? Dove vivi: Vera viene educata e preparata da Gesù a vivere in unione con Lui. Gesù vuole entrare nella vita di Vera, nella sua famiglia, nella scuola dove insegna. Un invito rivolto a tutti i cristiani. Gesù vuole uscire dalla Chiesa di pietra e vuole vivere nel nostro cuore con l’Eucaristia, con la grazia della permanenza eucaristica nell’anima. Vuole venire con noi dove andiamo, per vivere la nostra vita familiare, e vuole raggiungere vivendo in noi le persone che vivono lontane da lui.

Nella scia del carisma salesiano
            Nell’Opera dei Tabernacoli Viventi sono espliciti i riferimenti a Don Bosco e al suo “da mihi animas cetera tolle”, a vivere l’unione con Dio e la fiducia in Maria Ausiliatrice, per donare Dio attraverso un apostolato instancabile che cooperi alla salvezza dell’umanità. L’Opera, per volontà del Signore, viene affidata in prima istanza ai figli di Don Bosco per la sua realizzazione e diffusione nelle parrocchie, negli istituti religiosi e nella Chiesa: “Ho scelto i Salesiani poiché essi vivono con i giovani, ma la loro vita di apostolato dovrà essere più intensa, più attiva, più sentita”.

            La causa di Beatificazione della Serva di Dio Vera Grita è stata avviata il 22 dicembre 2019, 50° anniversario della sua morte, a Savona con la presentazione del Supplice libello al vescovo diocesano mons. Calogero Marino da parte del Postulatore don Pierluigi Cameroni. Attore della Causa è la Congregazione salesiana. L’Inchiesta diocesana è stata celebrata dal 10 aprile al 15 maggio 2022 presso la Curia di Savona. Il Dicastero delle Cause dei Santi ha dato la validità giuridica a tale Inchiesta il 16 dicembre 2022.
            Come ha scritto il Rettor Maggiore nella Strenna di quest’anno: “Vera Grita attesta anzitutto un orientamento eucaristico totalizzante, che si fa esplicito soprattutto negli ultimi anni della sua esistenza. Non ha pensato in termini di programmi, di iniziative apostoliche, di progetti: ha accolto il “progetto” fondamentale che è Gesù stesso, fino a farne vita della propria vita. Il mondo odierno attesta un grande bisogno di Eucaristia. Il suo cammino nella faticosa operosità dei giorni offre anche una nuova prospettiva laica alla santità, divenendo esempio di conversione, accettazione e santificazione per i “poveri”, i “fragili”, i “malati” che in lei possono riconoscersi e ritrovare speranza. Come Salesiana Cooperatrice, Vera Grita vive e lavora, insegna e incontra la gente con una spiccata sensibilità salesiana: dall’amorevolezza della sua presenza discreta ma efficace alla sua capacità di farsi amare da bambini e famiglie; dalla pedagogia della bontà che attua con il suo costante sorriso alla generosa prontezza con cui, incurante dei disagi, si volge di preferenza agli ultimi, ai piccoli, ai lontani, ai dimenticati; dalla generosa passione per Dio e la Sua Gloria alla via della croce, lasciandosi togliere tutto nella sua condizione di malata”.

Nel giardino di Santa Corona nel 1966

Per conoscere di più:
Vera Grita, una mistica dell’Eucaristia.
Epistolario di Vera Grita e dei sacerdoti salesiani don Bocchi, don Borra e don Zucconi.
Autore: Centro studi Opera Tabernacoli Viventi. A cura di: Scrimieri Pedriali Maria Rita.
Vedi QUI.

Portami con te!
L’Opera dei Tabernacoli Viventi nei manoscritti originali di Vera Grita.
Autore: Centro studi Opera Tabernacoli Viventi.
Vedi QUI.