Ho capito cosa provava don Bosco

Il giorno dopo la solenne festa di don Bosco, ho provato un’intensa emozione. Dopo i controlli piuttosto rigidi, ho varcato la soglia dell’Istituto Penitenziario Minorile “Ferrante Aporti” di Torino, quello che un tempo si chiamava “La Generala”.

Su una delle pareti c’è una grande targa che ricorda le visite di don Bosco ai giovani in carcere. Quante volte, con le tasche della sua veste rattoppata piene di frutta, cioccolatini,
tabacco aveva superato portoni pesanti come questi, al Senato, al Correzionale, alle Torri e poi anche qui alla Generala, per andare a trovare i suoi “amici”, i giovani carcerati. Parlava del valore e della dignità di ogni persona, ma spesso quando tornava, tutto era distrutto. Quelle che sembravano amicizie nascenti erano morte. I volti erano tornati duri, le voci sarcastiche sibilavano bestemmie. Don Bosco non sempre riusciva a vincere l’avvilimento. Un giorno scoppiò a piangere. Nel lugubre stanzone vi fu un attimo di esitazione. «Perché quel prete piange?» domandò qualcuno. «Perché ci vuole bene. Anche mia madre piangerebbe se mi vedesse qui dentro».

L’impatto di queste visite sulla sua anima fu così grande che promise al Signore che avrebbe fatto tutto il possibile per garantire che i ragazzi non venissero mandati lì. Nascono così l’oratorio e il sistema preventivo.

Molte cose sono cambiate. I figli di don Bosco non hanno abbandonato la via tracciata dal Padre. È tradizione che i cappellani siano salesiani. Tra i cappellani “storici” c’è l’amato don Domenico Ricca, andato in pensione lo scorso anno dopo oltre 40 anni di servizio. Un altro salesiano, don Silvano Oni ha preso il suo posto e i novizi salesiani, sotto la guida del maestro di noviziato, vanno ogni settimana a incontrare i giovani detenuti dell’Istituto Penitenziario, con un’iniziativa chiamata “il cortile dietro le sbarre”. Tutti i “detenuti” sono molto più giovani dei novizi di don Bosco. E la stragrande maggioranza non ha parenti.

Per questo noi salesiani amiamo tanto i giovani
Come don Bosco, ho lasciato parlare il cuore. C’erano anche gli educatori che accompagnano questi giovani quotidianamente. Ho salutato tutti, compresi i molti giovani stranieri. Ho sentito che la comunicazione era possibile. In precedenza tre novizi avevano recitato una breve scena della vita di don Bosco. Poi mi hanno dato la parola e hanno dato anche ai giovani la possibilità di farmi tre o quattro domande. E così è stato. Mi hanno chiesto chi era don Bosco per me, perché ero salesiano, che cosa si prova a vivere ciò che vivo e perché ero venuto a trovarli.

Ho raccontato loro di me, della mia origine e della mia nazionalità. «Sono spagnolo, sono nato in Galizia, figlio di un pescatore. Ho studiato teologia e filosofia, ma so molto di più sulla pesca perché me l’ha insegnata mio padre. Ho scelto di diventare salesiano 43 anni fa, volevo fare il medico, ma poi ho capito che don Bosco mi chiamava a curare le anime dei più giovani. Perché non esistono ragazzi buoni e cattivi, ma giovani che hanno avuto meno e, come diceva il nostro santo, in ogni giovane, anche nel più sfortunato, c’è un punto accessibile al bene, e il dovere primario dell’educatore è quello di cercare questo punto, la corda sensibile di questo cuore, e di far fiorire una vita. Per questo noi salesiani amiamo tanto i giovani. Tutti possiamo commettere errori, ma se credete in voi stessi, se avete fiducia nei vostri educatori, ne uscirete migliori. Il mio sogno è di incontrarvi tutti un giorno a Valdocco con i giovani che ho salutato ieri nella festa del nostro Santo».

Durante il pranzo, un giovane mi ha chiesto se poteva farmi una domanda in privato. Ci separammo un po’ dal grande gruppo per non essere interrotti. “A cosa serve la mia presenza qui?” mi chiese a bruciapelo. Gli ho detto: “Credo sinceramente per niente e per molto. Per niente, perché la prigione, l’internamento non può essere una meta o un luogo di arrivo, ma solo un luogo di passaggio. Ma, ho aggiunto, penso che ti farà molto bene perché ti aiuterà a decidere che non vuoi più tornare qui, che hai la possibilità di un futuro migliore, che dopo qualche mese qui c’è la possibilità di andare in una delle comunità di accoglienza che abbiamo noi salesiani, per esempio a Casale, non lontano di qui…”.

Appena l’ho detto, il giovane ha aggiunto, senza lasciarmi finire: «Lo voglio, ne ho bisogno, perché sono stato nel posto sbagliato e con le persone sbagliate».

Abbiamo parlato. Hanno parlato. E ho capito quanto sia vero che, come diceva don Bosco, nel cuore di ogni giovane ci sono sempre semi di bontà. Quel giovane, e molti altri che ho incontrato, sono totalmente “recuperabili” se gli viene data la giusta opportunità, dopo gli errori commessi.

Ho salutato di nuovo i giovani, uno per uno. Ci siamo salutati con grande cordialità. I loro sguardi erano puliti, i loro sorrisi erano sorrisi di giovani battuti dalla vita, giovani che avevano sbagliato, ma pieni di vita. Ho percepito negli educatori un grande senso di vocazione. Mi è piaciuto.

Alla fine del tempo stabilito – che era stato concordato – ho salutato e uno di loro si è avvicinato e mi ha detto: «Quando torni?» Mi sono commosso. Gli ho sorriso e gli ho detto: «La prossima volta che mi inviterai, sarò qui, e nel frattempo ti aspetterò, come don Bosco, a Valdocco».

Questo è ciò che ho sperimentato ieri.

Amici del Bollettino Salesiano, amici del carisma di don Bosco, come ieri, anche oggi è possibile raggiungere il cuore di ogni giovane. Anche nelle più grandi difficoltà, è possibile migliorare, è possibile cambiare per vivere onestamente. Don Bosco lo sapeva e ci ha lavorato per tutta la vita.




Connettersi alla mentalità dei Millennials e della “Generazione Z”

La comunicazione coinvolge diverse componenti che dobbiamo seriamente prendere in considerazione: prima di tutto, il mittente che codifica il messaggio scegliendo il mezzo attraverso il quale questo viene trasmesso dal mittente al ricevitore. Il ricevitore, a sua volta, analizza il messaggio nel suo contesto e lo interpreta secondo l’intenzione del mittente o in una maniera diversa. Infine, il feedback indica la qualità del messaggio ricevuto. Qualsiasi tentativo di comunicare Cristo oggigiorno, parte dalla comprensione della mentalità della generazione dei giovani di oggi. Il presente articolo tratterà proprio questo tema.

Una generazione è un gruppo che potrebbe essere identificato dall’anno di nascita e da eventi significativi che ne abbiano modellato la personalità, i valori, le aspettative, le qualità comportamentali e le capacità motivazionali. I sociologi chiamano la generazione dei nati tra il 1943 e il 1960 “Baby Boomer”. La GenerazioneX comprende i nati tra il 1961 e il 1979. I Millennials (chiamati anche Generazione Y) include i nati tra il 1980 e il 2000. Della Generazione Z fanno parte i nati dopo il 2000.

I mittenti sono i pastori-educatori salesiani e gli animatori giovanili. I ricevitori sono i giovani ed i giovani adulti di oggi che sono costituiti principalmente dai Millennials e dalla Generazione Z. Perciò, questa presentazione si focalizzerà sul cercare di capire la loro mentalità per scoprire i modi di comunicare a loro il nostro messaggio, Gesù Cristo. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà del “divario digitale”, che riflette l’enorme e crescente disuguaglianza sociale tra coloro che hanno facile accesso a Internet e coloro che non ce l’hanno, specialmente molti giovani. Quindi, i fattori socio-economici del divario digitale sono varianti importanti da considerare; tuttavia qui vengono evidenziate le caratteristiche che si ritrovano comunemente in tutti i contesti. Una risposta importante a questo articolo è il confronto tra ciò che viene descritto qui e il contesto specifico del lettore.

I MILLENNIALS
Oggi i Millennials hanno tra i 20 e i 41 anni circa. Hanno imparato ad usare la tecnologia e ne sono diventati dipendenti in un’età più precoce rispetto alle generazioni precedenti. I più giovani Millennials non potrebbero nemmeno immaginare la vita senza smartphone e internet. Appartengono a una generazione che è estremamente connessa attraverso i social media. Vivono in un’epoca in cui un post può raggiungere innumerevoli persone e attraversare barriere linguistiche, culturali e geografiche. Questo ha creato in loro il desiderio di poter accedere a tutte le informazioni che vogliono e che forniscano loro risposte e feedback istantanei.

I Millennials vogliono essere coinvolti avendo l’opportunità di condividere i loro pensieri poiché amano socializzare le idee e scegliere la migliore fra queste. Vogliono essere parte della conversazione ascoltando e parlando. Quando le loro opinioni vengono ascoltate, si sentono apprezzati e saranno pronti ad impegnarsi in qualcosa di cui si sentono parte. I Millennials vogliono che la loro fede sia olisticamente integrata nella loro vita, compreso l’ambito della tecnologia. Sono la generazione delle app. Le app sono diventate per loro uno strumento per comunicare, elaborare informazioni, acquistare beni o anche leggere le Scritture e pregare. Sono esperti di tecnologia e usano le app fino a due ore al giorno. Desiderano essere visibili. Sono ottimisti e vogliono condividere, preferendo comunicare attraverso messaggi di testo. Sono concentrati sull’“adesso” ma tendono ad essere idealisti.

LA GENERAZIONE Z
Oggi i ragazzi della Generazione Z sono quelli che hanno 21 anni o meno. Sono i primi ad avere internet a portata di mano. Sono nativi digitali perché sono stati esposti a internet, ai social network e ai cellulari fin dalla più tenera età. Usano internet per socializzare senza distinguere gli amici che incontrano online da quelli del mondo fisico. Per loro, il mondo virtuale è tanto reale quanto il mondo in presenza. Sono sempre connessi: per loro non esiste più l’offline. Sono attivi creatori e grandi consumatori di contenuti online. Preferiscono i siti internet per comunicare e interagire con le persone, specialmente usando le immagini; prediligono partecipare e rimanere connessi tramite la tecnologia a portata di mano. Sono creativi, realistici e concentrati sul futuro.

Hanno una profonda consapevolezza su questioni ed eventi importanti e hanno un grande desiderio di cercare la verità, ma vogliono scegliere e scoprire la verità da soli. Infatti, la ricerca della verità è al centro del loro comportamento tipico e dei loro modelli di consumo.
Quelli della Generazione Z usano i social network come Facebook, WhatsApp, Twitter, Instagram, Tiktok, Tumblr per ottenere informazioni sulle questioni sociali, sulla salute e l’alimentazione, sulla spiritualità ecc. Ma sono anche grandi utilizzatori di piattaforme sociali anonime come Snapchat, Secret, Whisper, dove qualsiasi immagine compromettente scompare quasi istantaneamente. Con una grande quantità di informazioni a loro disposizione, sono più pragmatici e meno idealisti dei Millennials. Il loro continuo ricorrere all’online potrebbe condurli al rischio di condividere eccessivamente le informazioni personali nel mondo virtuale e a diventare dipendenti da internet. Il loro carattere viene plasmato da ciò che pubblicano su se stessi online e da ciò che gli altri pubblicano e commentano sul loro conto. Tra di essi, una grande maggioranza in tutti i continenti si dichiara religiosa ma non si identifica necessariamente in una religione: credono senza appartenere, altri appartengono senza credere. Coloro che dichiarano di non appartenere a nessuna religione specifica provengono normalmente da famiglie senza fede religiosa o da cristiani tiepidi. Sono molto meno religiosi rispetto ai Millennials.

I SOCIAL MEDIA
È vero che i social media potrebbero in qualche modo ostacolare le relazioni interpersonali autentiche. Potrebbero anche essere usati come piattaforma per la distribuzione e l’accesso a materiali che potrebbero causare danni morali, sociali e spirituali. In verità, qualsiasi mezzo ha il potenziale per essere usato per il male. È vero che i social media sono stati usati, per esempio, per globalizzare populismi e per scatenare rivoluzioni come la primavera araba e le proteste dei gilet gialli in Francia.

Eppure, i social media hanno anche permesso alle persone di rimanere connesse a livello globale, hanno dato a ciascuno di noi la capacità di aggiornarsi a vicenda su ciò che sta accadendo nelle nostre vite, di condividere idee potenti e di invitare le persone a conoscere Gesù Cristo. I social media sono diventati il nostro cortile virtuale. Perciò, è importante che passiamo dalla demonizzazione del mezzo, all’educazione dei giovani al suo uso corretto e allo sviluppo delle sue potenzialità per evangelizzare.

COMUNICARE CRISTO
La testimonianza credibile è una condizione importante per comunicare Cristo. Nel mondo virtuale, la testimonianza implica visibilità (manifestiamo in maniera visibile la nostra identità cattolica), verità (ci assicuriamo di essere portatori della verità e non di notizie false) e credibilità (le immagini che presentiamo rafforzano il messaggio che vogliamo comunicare). La fede deve essere presentata ai Millennials e alla Generazione Z in modi nuovi e coinvolgenti. Questo, a sua volta, offrirà loro la possibilità di condividere la fede con i propri coetanei. Dovremmo resistere alla tentazione di bombardare i social media con messaggi e immagini religiose. Questo, in realtà, allontanerà un gran numero di giovani.
Il Primo annuncio non riguarda le dottrine cristiane da insegnare. L’aggettivo “primo” non va inteso in senso strettamente lineare o cronologico come il primo momento dell’annuncio, perché in realtà ne impoverisce la ricchezza.  È piuttosto “primo” nel senso in cui il termine arché era inteso dagli antichi filosofi greci come il principio o l’elemento fondamentale da cui tutto ha origine, o quello da cui tutte le cose sono formate. È il fondamento di una nuova evangelizzazione e di tutto il processo di evangelizzazione.
Il primo annuncio cerca di promuovere un’esperienza travolgente ed entusiasmante capace di suscitare il desiderio di cercare la verità e l’interesse per la persona di Gesù. Questa, eventualmente, porta ad una prima adesione a Lui, o alla rivitalizzazione della fede in Lui. Il primo annuncio è quella scintilla che porta alla conversione. Questa scelta per Cristo è il feedback del messaggio. Ad esso segue poi il processo di evangelizzazione attraverso il catecumenato e la catechesi sistematica. Senza il primo annuncio che porta ad un’opzione personale per Cristo, qualsiasi sforzo di evangelizzazione sarà sterile. Invece, la sfida per ogni pastore-educatore salesiano, per ogni animatore giovanile, per ogni discepolo missionario è quella di aiutare gli stessi Millennials e la Generazione Z a creare sui social media contenuti basati sulla fede che possano suscitare nei loro coetanei un interesse a conoscere la persona di Gesù Cristo. Non si tratta di creare contenuti per i social media. Questa è una tentazione a cui bisogna resistere con forza. Il nostro compito è quello di formare e accompagnare gli stessi Millennials e la Generazione Z in modo che possano creare per se stessi e per i loro coetanei dei contenuti basati sulla fede, condivisi sui social media, che possano risvegliare l’interesse a conoscere la persona di Gesù Cristo. Davvero, oggi i social media sono una piattaforma privilegiata per comunicare Cristo ai giovani. Sta a ciascuno di noi usarli con creatività missionaria!

GLI AMBIENTI VIRTUALI GIOVANILI DI OGGI
Nuove intuizioni da una prospettiva missionaria
Sondaggio effettuato da Juan Carlos Montenegro e don Alejandro Rodriguez sdb, Ispettoria San Francisco (SUO), Stati Uniti d’America.

Il comando di Gesù “Andate e fate discepoli” (Mt 28,19) continua a risuonare per noi oggi. Il nostro amore per Cristo ci sfida ad andare oltre i nostri confini e raggiungere ogni persona, in particolare i giovani della società attuale. Per fare questo abbiamo bisogno di osservare la realtà dal loro punto di vista, capire in che modo essi elaborano le informazioni e come queste informazioni influenzino il loro comportamento. Tuttavia, la nostra missione principale come educatori-evangelizzatori salesiani è di avvicinarli a Cristo e avvicinare Cristo a loro.

Le differenze generazionali potrebbero essere una sfida che non aiuta a metterci in cammino per essere “pienamente” presenti in questo nuovo cortile dove i giovani hanno costruito il proprio linguaggio, hanno sviluppato le proprie regole e hanno creato nuove espressioni e diversi tipi di relazioni significative. Questo nuovo cortile è un mondo virtuale dove i giovani di oggi vivono, interagiscono, sognano, si impegnano e soffrono. L’amore e il sigillo missionario di don Bosco ci spingono ad abbracciare questa nuova realtà con speranza, fede e carità pastorale.

Se non conosciamo la nuova realtà che i giovani stanno affrontando nel mondo virtuale, la nostra proposta e il nostro accompagnamento come educatori-evangelizzatori saranno insignificanti e irrilevanti. Il Quadro di Riferimento della Pastorale Giovanile Salesiana (2015) ci chiama ad essere presenti nel “nuovo cortile”. Ora più che mai, dobbiamo innovare e adattare il nostro stile salesiano di presenza tra i giovani.

Per capire che cosa sta succedendo in questo nuovo cortile virtuale, il Settore Missioni ha condotto un sondaggio online a livello congregazionale cercando di capire i nostri giovani, che cosa pensano, che cosa fanno, che cosa si aspettano riguardo ai contenuti, alle possibilità e all’uso dei social media. Il sondaggio online in 6 lingue ha coinvolto 1731 giovani delle nostre comunità educativo-pastorali salesiane che hanno tra i 13 e i 18 anni provenienti da 37 paesi e 6 diversi continenti. Questo è importante da tenere presente perché le risposte dei giovani che non provengono dall’ambiente salesiano possono essere diverse.

Punti rilevanti:
            • È noto che l’aumento dell’utilizzo di internet è associato nei giovani ad una diminuzione nella comunicazione con i membri della famiglia, ad un calo della partecipazione alla vita sociale e ad un aumento della depressione e della solitudine. Questi sono temi importanti da tenere a mente per quanto riguarda l’accompagnamento nella nostra pianificazione pastorale.
            • Il 91% dei nostri giovani usa i telefoni cellulari per accedere ai social media. Questi dispositivi sono associati a problemi comportamentali e anche a possibili problemi di salute. Il 75% degli intervistati è connesso a Internet per oltre 6 ore a settimana, ma può superare le 20 ore in alcuni casi. L’essere connessi ha molte implicazioni, come lo spostamento dello sviluppo delle abilità sociali, delle relazioni, della conoscenza ecc.

            • I giovani intervistati ritengono che le più grandi minacce derivanti dall’uso dei social media siano il bullismo online, la pedofilia, le fake news, i molestatori e gli hacker. Mentre il 26% dei nostri giovani afferma di essere stato vittima di bullismo.
            • Per mancanza di supervisione e/o formazione e accompagnamento i giovani sono esposti a contenuti per adulti; la presenza educativa più urgente degli adulti inizia con i ragazzi all’età di 11-13 anni perché è il momento in cui, secondo l’indagine, sono più vulnerabili ai contenuti di questo tipo sulle pagine web.
            • Per quanto riguarda la nostra presenza con contenuti religiosi, il 73% dei giovani che hanno partecipato a questo sondaggio hanno avuto qualche tipo di contatto con contenuti religiosi. Il 48% crede che internet aiuti a sviluppare la loro relazione con Dio.
            • I nostri giovani visitano siti web che sono legati a video e musica, giochi, tutorial ecc. L’88% degli intervistati preferisce i video come tipo di contenuto.
            • I giovani preferiscono WhatsApp (64%), Instragram (61%), Youtube (41%), TikTok o Facebook (37%) e Messenger (33%). Questa informazione ci aiuta a migliorare le nostre modalità di comunicazione con loro perché gli adulti potrebbero sforzarsi di più per essere presenti in piattaforme dove i giovani non ci sono. Forse i migliori canali di comunicazione potrebbero essere Facebook per i genitori e Instagram per i nostri giovani.

Questa indagine è un potente richiamo che sfida noi educatori ed evangelizzatori dei giovani ad essere presenti tra i nostri giovani in modo rilevante e significativo nei social media.




Il figlio più intelligente

Molto tempo fa c’era un uomo che aveva tre figli ai quali voleva molto bene. Non era nato ricco, ma con la sua saggezza e il duro lavoro era riuscito a risparmiare un bel po’ di soldi e a comprare un fertile podere.
Quando divenne vecchio, cominciò a pensare a come dividere tra i suoi figli ciò che possedeva. Un giorno, quando ormai era molto vecchio e malato, decise di fare una prova per capire quale dei suoi figli fosse il più intelligente.
Chiamò allora i tre figli al suo capezzale.
Diede a ciascuno cinque soldi e chiese loro di comprare qualcosa che riempisse la sua stanza, che era vuota e spoglia.
Ciascuno dei figli prese i soldi e uscì per esaudire il desiderio del padre.
Il figlio più grande pensò che fosse un lavoro facile. Andò al mercato e comprò un fascio di paglia, ossia la prima cosa che gli capitò sotto gli occhi. Il secondo figlio, invece, rifletté per qualche minuto. Dopo aver girato tutto il mercato e aver cercato in tutti i negozi, comprò delle bellissime piume.
Il figlio più piccolo considerò per un lungo tempo il problema. «Cosa c’è che costa solo cinque soldi e può riempire una stanza?» si chiedeva. Solo dopo molte ore passate a pensare e ripensare, trovò qualcosa che faceva al suo caso, e il suo volto si illuminò. Andò in un piccolo negozio nascosto in una stradina laterale e comprò, con i suoi cinque soldi, una candela e un fiammifero. Tornando a casa era felice e si domandava cosa avessero comprato i suoi fratelli.
Il giorno seguente, i tre figli si riunirono nella stanza del padre. Ognuno portò il suo regalo, l’oggetto che doveva riempire una stanza. Per primo il figlio grande sparse la sua paglia sul pavimento, ma purtroppo questa riempì solo un piccolo angolo. Il secondo figlio mostrò le sue piume: erano molto graziose, ma riempirono appena due angoli.
Il padre era molto deluso degli sforzi dei suoi due figli maggiori.
Allora il figlio più piccolo si mise al centro della stanza: tutti gli altri lo guardavano incuriositi chiedendosi: «Cosa può aver comprato?».
Il ragazzo accese la candela con il fiammifero e la luce di quel l’unica fiamma si diffuse per la stanza e la riempì.
Tutti sorrisero.
Il vecchio padre fu felice del regalo del figlio più piccolo. Gli diede tutta la sua terra e i suoi soldi, perché aveva capito che quel ragazzo era abbastanza intelligente da farne buon uso e si sarebbe preso saggiamente cura dei suoi fratelli.

Con un sorriso puoi illuminare il mondo, oggi. E non costa nulla.




Bullismo. Una cosa nuova? C’era anche nei tempi di don Bosco

Non è certamente un mistero per i più attenti conoscitori della “realtà viva” di Valdocco e non solo “ideale” o “virtuale”, che la vita quotidiana in una struttura decisamente ristretta per accogliere 24 ore su 24 e per molti mesi all’anno varie centinaia di bambini, ragazzi e giovani eterogenei per età, provenienza, dialetto, interessi, poneva problemi educativi e disciplinari non indifferenti a don Bosco e ai suoi giovani educatori. Riportiamo due episodi significativi al riguardo, per lo più sconosciuti.

La violenta colluttazione
Nell’autunno 1861 la vedova del pittore Agostino Cottolengo, fratello del famoso (san) Benedetto Cottolengo, dovendo collocare i suoi due figli, Giuseppe e Matteo Luigi, nella capitale del neonato Regno d’Italia per motivi di studio, chiese al cognato, can. Luigi Cottolengo di Chieri, di individuare un collegio adatto. Questi suggerì l’oratorio di don Bosco e così il 23 ottobre i due fratelli, accompagnati da un altro zio, Ignazio Cottolengo, frate domenicano, entrarono al Valdocco a 50 lire mensili di pensione. Prima di Natale il quattordicenne Matteo Luigi era però già ritornato a casa per motivi di salute, mentre il fratello maggiore Giuseppe, ritornato a Valdocco dopo le vacanze natalizie, un mese dopo fu allontanato per causa di forza maggiore. Che cosa era successo?
Era successo che il 10 febbraio 1862, Giuseppe, sedicenne, era venuto alle mani con un certo Giuseppe Chicco, di nove anni, nipote del can. Simone Chicco di Carmagnola, che probabilmente ne pagava la pensione.

Nella colluttazione, con tanto di bastone, il bambino ovviamente ebbe la peggio, restandone seriamente ferito. Don Bosco si premurò di farlo ricoverare presso la fidatissima famiglia Masera, onde evitare che la notizia dello spiacevole episodio si diffondesse in casa e fuori casa. Il bambino venne visitato da un medico, il quale redasse un referto piuttosto pesante, utile “per chi di ragione”.

L’allontanamento provvisorio del bullo
Per non correre rischi e per ovvi motivi disciplinari, don Bosco il 15 febbraio si vide costretto ad allontanare per qualche tempo il giovane Cottolengo, facendolo accompagnare non a Bra a casa della madre che ne avrebbe sofferto troppo, ma a Chieri, dallo zio canonico. Questi, due settimane dopo, chiese a don Bosco delle condizioni di salute del Chicco e delle spese mediche sostenute, onde risarcirle di tasca propria. Gli chiese altresì se era disposto a riaccettare a Valdocco il nipote. Don Bosco gli rispose che il fanciullo ferito era ormai quasi completamente guarito e che per le spese mediche non c’era in alcun modo da preoccuparsi perché “abbiamo da fare con onesta gente”. Quanto a riaccettargli il nipote, “s’immagini se mi ci posso rifiutare”, scriveva. Però a due condizioni: che il ragazzo riconoscesse il suo torto e che il can. Cottolengo scrivesse al can. Chicco, onde chiedergli scusa a nome del nipote e pregarlo di “dire una semplice parola” a don Bosco perché riaccogliesse a Valdocco il giovane. Don Bosco gli garantiva che il can. Chicco non solo avrebbe accolto le scuse – gli aveva già scritto al riguardo – ma aveva già fatto ricoverare il nipotino “in casa di un parente per impedire ogni pubblicità”. A metà marzo entrambi i fratelli Cottolengo venivano riaccolti a Valdocco “in modo gentile”. Matteo Luigi vi rimase però solo fino a Pasqua per i soliti disturbi di salute, mentre Giuseppe fino al termine degli studi.

Un’amicizia consolidata e un piccolo guadagno
Non ancora contento che la vicenda si fosse conclusa con comune soddisfazione, l’anno successivo il can. Cottolengo insistette nuovamente con don Bosco per pagare le spese del medico e delle medicine del bambino ferito. Il can. Chicco, interpellato da don Bosco, rispose che la spesa complessiva era stata di 100 lire, che però lui e la famiglia del bambino non chiedevano nulla; ma se il Cottolengo insisteva nel voler saldare il conto, devolvesse tale somma “a favore dell’Oratorio di S. Francesco di Sales”. Così dovette avvenire.
Dunque un episodio di bullismo si era risolto in modo brillante ed educativo: il colpevole si era ravveduto, la “vittima” era stata ben assistita, gli zii si erano uniti per il bene dei loro nipoti, le mamme non ne avevano sofferto, don Bosco e l’opera di Valdocco, dopo aver corso qualche rischio, avevano guadagnato in amicizie, simpatie… e, cosa sempre gradita in quel collegio di ragazzi poveri, un piccolo contributo economico. Far nascere il bene dal male non è da tutti, don Bosco ci è riuscito. C’è da imparare.

Un’interessantissima lettera che apre uno spiraglio sul mondo di Valdocco
Ma presentiamo un caso ancor più grave, che di nuovo può essere istruttivo per i genitori e gli educatori di oggi alle prese con ragazzi difficili e ribelli.
Ecco il fatto. Nel 1865 un certo Carlo Boglietti, schiaffeggiato per grave insubordinazione dall’assistente del laboratorio di legatoria, il chierico Giuseppe Mazzarello, denuncia il fatto alla pretura urbana di Borgo Dora, che avvia un’inchiesta, convocando l’accusato, l’accusatore e tre ragazzi quali testimoni. Don Bosco, nel desiderio di sciogliere la questione con minori disturbi delle autorità pensa bene di rivolgersi direttamente e preventivamente per lettera al pretore stesso. Come direttore di una casa educativa crede di poterlo e doverlo fare “a nome di tutti […] pronto a dare a chi che sia le più ampie soddisfazioni”.

Due importanti premesse giuridiche
Nella sua lettera anzitutto difende il suo diritto e la sua responsabilità di padre-educatore dei ragazzi a lui affidati: fa subito notare che l’articolo 650 del codice penale, chiamato in causa dall’atto di convocazione, “sembra interamente estraneo all’oggetto di cui si tratta, imperciocché interpretato nel senso preteso la pretura urbana si verrebbe ad introdurre nel Regime domestico delle famiglie, i genitori e chi ne fa le veci non potrebbero più correggere la propria figliolanza neppure impedire un’insolenza ed un’insubordinazione, [cose] che tornerebbero a grave danno della moralità pubblica e privata”.
In secondo luogo ribadisce che la facoltà “di usare tutti que’ mezzi che si fossero giudicati opportuni […] per tenere in freno certi giovanetti” gli era stata concessa dall’autorità governativa che gli inviava i ragazzi; solo nei casi disperati – invero “più volte” – aveva dovuto far intervenire “il braccio della pubblica sicurezza”.

L’episodio, i precedenti e le conseguenze educative
Quanto al giovane Carlo in questione, don Bosco scrive che, di fronte a continui gesti ed atteggiamenti di ribellione, “fu più volte paternamente, inutilmente avvisato; che egli si dimostrò non solo incorreggibile, ma insultò, minacciò ed imprecò il ch. Mazzarello in faccia a’ suoi compagni”, al punto che “quell’assistente d’indole mitissima, e mansuetissima ne rimase talmente spaventato, che d’allora in poi fu sempre ammalato senza aver mai più potuto ripigliare i suoi doveri e vive tuttora da ammalato”.
Il ragazzo era poi scappato dal collegio e tramite la sorella aveva informato i superiori della fuga solo “quando seppe che non si poteva più tenere nascosta la notizia alla questura”, cosa che non si era fatto prima “per conservargli la propria onoratezza”. Purtroppo i suoi compagni avevano continuato negli atteggiamenti di protesta violenta, tanto che – scrive ancora don Bosco – “fu mestieri cacciarne alcuni dallo stabilimento, altri con dolore consegnarli alle autorità della pubblica sicurezza che li condussero in prigione”.

Le richieste di don Bosco
A fronte di un giovane “discolo, che insulta e minaccia i suoi superiori” e che ha poi “l’audacia di citare avanti le autorità coloro che per il suo bene […] consacrano vita e sostanze” don Bosco in linea generale sostiene che “l’autorità pubblica dovrebbe sempre venire in aiuto dell’autorità privata e non altrimenti”. Nel caso specifico poi non si oppone al procedimento penale, ma a due precise condizioni: che il ragazzo presenti preventivamente un adulto che paghi “le spese che possono occorrere e che si faccia responsabile delle gravi conseguenze che forse ne potrebbero avvenire”.
Per scongiurare l’eventuale processo, che indubbiamente sarebbe stato strumentalizzato dalla stampa avversa, don Bosco calca la mano: chiede preventivamente che “siano riparati i danni che l’assistente ha sofferto nell’onore e nella persona almeno finché possa ripigliare le sue ordinarie occupazioni, “che le spese di questa causa siano a conto di lui” e che né il ragazzo né “il suo parente o consigliere” sig. Stefano Caneparo non vengano più a Valdocco “a rinnovare gli atti d’insubordinazione e gli scandali già altre volte cagionati”.

Conclusione
Come sia andata a finire la triste vicenda non è dato sapere; con ogni probabilità si venne ad una previa conciliazione fra le parti. Resta però il fatto che è bene sapere che i ragazzi di Valdocco non erano tutti dei Domenico Savio, dei Francesco Besucco e neppure dei Michele Magone. Non mancavano giovani “avanzi di galera” che davano filo da torcere a don Bosco e ai suoi giovanissimi educatori. L’educazione dei giovani è sempre stata arte impegnativa non aliena da rischi; ieri come oggi, c’è bisogno di stretta collaborazione fra genitori, insegnanti, educatori, tutori dell’ordine, tutti interessati al bene esclusivo dei giovani.




Scoperta della vocazione missionaria

L’esperienza di Rodgers Chabala, giovane missionario zambiano in Nigeria, a partire dalla riscoperta di don Bosco nella visita ai suoi luoghi.

Il giovane salesiano Rodgers Chabala è parte della nuova generazione di missionari, secondo il paradigma rinnovato che va oltre i confini geografici o i precetti culturali: dallo Zambia è stato inviato come missionario in Nigeria. Il corso missionari vissuto lo scorso settembre è stato per lui un momento forte, in particolare l’atmosfera respirata nei luoghi di don Bosco: una vera esperienza spirituale.

Don Bosco iniziò il suo lavoro con i propri ragazzi accorgendosi che nessuno si occupava dell’anima di questi giovani piemontesi, che finivano spesso in carcere per furti, contrabbando o altri crimini. Se questi giovani avessero avuto un amico fidato, qualcuno che li avesse istruiti e dato loro il buon esempio, non sarebbero finiti lì e così don Bosco fu inviato da Dio a loro. Possiamo dire che tutto iniziò con il sogno dei nove anni, che don Bosco comprese gradualmente nel tempo, grazie all’aiuto di tante persone che lo aiutarono a fare discernimento. Il suo desiderio pastorale di curarsi delle anime dei giovani raggiunse tutto il mondo grazie ai missionari salesiani, iniziando da quel gruppo di undici inviato in Patagonia, Argentina, nel 1875. Inizialmente don Bosco non aveva chiara l’intenzione di inviare missionari, ma Dio nel tempo purificò questo desiderio e permise la diffusione del carisma salesiano in ogni angolo della nostra Terra.

La vocazione missionaria salesiana è una “vocazione dentro la vocazione”, una chiamata alla vita missionaria all’interno della propria vocazione salesiana. Rodgers, sin dagli inizi, sentiva forte il desiderio missionario, ma non era facile far capire agli altri quali fossero le sue motivazioni. Al tempo dell’aspirantato, quando ancora non conosceva bene la vita salesiana, fu colpito molto dalla testimonianza di un missionario polacco e iniziò a riflettere e lottare con sé stesso per decifrare le intenzioni del proprio cuore. Quando il missionario chiese “chi vuole essere missionario?”, Rodgers non dubitò ed iniziò il percorso del discernimento, partendo dalla risposta del salesiano polacco, ovvero di iniziare amando il proprio Paese. Ovviamente, tante sfide iniziarono ad emergere e non mancarono i momenti di scoraggiamento. Come per don Bosco, per Rodgers sono stati fondamentali l’aiuto e la mediazione di tante persone per distinguere la voce di Dio da altre influenze e purificare le proprie intenzioni. Dio parla attraverso le persone, il discernimento non è un processo meramente individuale, ha sempre una dimensione comunitaria.

Lo scorso settembre, Rodgers ha partecipato al corso di formazione per nuovi missionari, che precede l’invio ufficiale da parte del Rettor Maggiore. Arrivato qualche giorno dopo gli altri, ha ritrovato, dopo diversi anni, alcuni suoi compagni di noviziato e il suo vecchio direttore dello studentato di filosofia. Unitosi al gruppo, da subito ha notato un clima particolare, facce sorridenti e gioia vera. Le riflessioni sull’interculturalità e gli altri approfondimenti curati dal Settore per le Missioni sono stati strumenti utili per prepararsi alla partenza missionaria. Durante il corso, i partecipanti hanno avuto l’opportunità di visitare i luoghi di don Bosco, prima al Colle Don Bosco e poi a Valdocco. Don Alfred Maravilla, Consigliere generale per le Missioni, ha chiesto ai neomissionari: “Queste visite ai luoghi santi di don Bosco che effetto hanno nella tua vita?”. Quando si legge la vita di don Bosco sui libri, possono sorgere dubbi e si può addirittura essere scettici, ma vedere con i propri occhi quei luoghi e respirare l’atmosfera di don Bosco ripercorrendo la sua storia è qualcosa che difficilmente si può raccontare. Oltre alla memoria storica di quello che è capitato a don Bosco, a Domenico Savio e a Mamma Margherita, questi luoghi hanno la capacità di rinvigorire il carisma salesiano e fanno riflettere sulla propria vocazione. La semplicità e lo spirito di famiglia di don Bosco mostrano come la povertà non è un ostacolo alla santità e alla realizzazione del Regno di Dio. Parlando di don Bosco spesso corriamo il rischio di omettere la parte mistica, concentrandoci solo sulle attività e sulle opere. Don Bosco era veramente un mistico nello spirito, che coltivava un’intima relazione con il Signore ed è questo il punto di partenza per la sua missione giovanile.

Arriviamo così al 25 Settembre 2022: don Ángel Fernández Artime, il don Bosco di oggi, presiede la messa con l’invio dei salesiani della 153esima spedizione missionaria SDB e delle suore della 145esima spedizione FMA, nella Basilica di Maria Ausiliatrice, a Valdocco. Rodgers ricorda di aver incontrato, qualche giorno prima, il suo nuovo superiore dell’ispettoria ANN (Nigeria-Niger), ed aver sentito il peso della responsabilità della scelta missionaria fatta. Durante la messa, dice Rodgers, “ho ricevuto la croce missionaria e il desiderio di essere missionario è stato ampiamente attualizzato”.
“Una volta per tutte, la vocazione missionaria è una vocazione bellissima, una volta compiuto attentamente il cammino di discernimento. Richiede un’apertura mentale per apprezzare lo stile di vita degli altri popoli. Preghiamo quindi per tutti i missionari del mondo e per coloro che stanno discernendo la vocazione missionaria, affinché Dio li guidi e li ispiri nella loro vita.”

A consegnato,
Marco Fulgaro




Animazione vocazionale nel cuore della pastorale giovanile

La difficoltà maggiore nel servizio di animazione vocazionale oggi non sta tanto nella chiarezza delle idee, quanto in tre aspetti: in primo luogo, la modalità della prassi pastorale; in secondo luogo, il coinvolgimento, la testimonianza e la preghiera di tutta la Comunità educativo-pastorale e, al suo interno, della comunità religiosa nella «cultura vocazionale».

Con il «cambiamento climatico» nelle nostre società, i valori si spostano, vengono trasmessi e talvolta camuffati. Questo cambiamento sembra inevitabile e irreversibile. Tuttavia, sentiamo la responsabilità di essere propositivi e di generare proposte educativo-pastorali ai giovani che favoriscano la risposta al progetto di Dio con libertà, autenticità e determinazione. Negli ultimi anni si è parlato e scritto molto di animazione vocazionale per rivitalizzare i nostri sforzi, riconoscere i nuovi movimenti dello Spirito, aprirci alla riflessione della Chiesa e sviluppare nuove comprensioni dell’accompagnamento e del discernimento vocazionale.

Oggi molti giovani si pongono le stesse domande e non sempre trovano lo spazio per esaminarle e approfondirle. Le domande provengono dal loro intimo, come movimenti interiori che spesso non sanno come interpretare o riconoscere. Ognuno di noi ha avuto più di una volta bisogno della presenza di una persona che ci desse gli strumenti necessari per passare da queste turbolenze interiori alla fiducia in un progetto di vita significativo.
Allo stesso modo, intendiamo per «cultura vocazionale» quell’ambiente, creato dai membri di una Comunità Educativo-Pastorale (non solo la comunità religiosa), che promuove la concezione della vita come vocazione. È un ambiente che permette a ogni individuo, sia egli credente o non credente, di entrare in un processo in cui viene messo in grado di scoprire la propria passione e i propri obiettivi nella vita. «Sentire la vocazione a qualcosa» significa sentirsi chiamati da una realtà preziosa, dalla quale posso leggere e dare un senso alla mia vita. Implica non tanto fare ciò che vogliamo, ma scoprire ciò che siamo chiamati a essere e a fare.

Si può dire che questa cultura vocazionale ha alcune componenti fondamentali: la gratitudine, l’apertura al trascendente, l’interrogazione sulla vita, la disponibilità, la fiducia in sé stessi e negli altri, la capacità di sognare e di desiderare, lo stupore per la bellezza, l’altruismo… Queste componenti sono certamente la base di qualsiasi approccio vocazionale.

Ma dovremmo anche parlare delle componenti specifiche di questa cultura vocazionale salesiana. Si tratta di quegli elementi che favoriscono, tra l’altro: la conoscenza e l’apprezzamento della chiamata personale di Dio (alla vita, alla sequela e a una missione concreta) e i percorsi di vita cristiana (secolare e di speciale consacrazione); la pratica del discernimento come atteggiamento di vita e mezzo per fare una scelta di vita; gli aspetti rilevanti del carisma salesiano stesso.

Ma quali sono le condizioni per una «cultura vocazionale»?
1. La preghiera insistente è alla base di tutta la pastorale vocazionale. Da un lato, per gli operatori pastorali e per tutta la comunità cristiana: se le vocazioni sono un dono, dobbiamo chiedere al Signore della messe (cfr. Mt 9,38) di continuare a suscitare cristiani con vocazioni alle diverse forme di vita cristiana. D’altra parte, un compito fondamentale di tutta la pastorale sarà quello di aiutare i giovani a pregare.

2. Sono le persone a promuovere le vocazioni, non le strutture. Non c’è nulla di più provocatorio della testimonianza appassionata della vocazione che Dio dona a ciascuno, solo così chi è chiamato scatena, a sua volta, la chiamata negli altri. Noi Salesiani dobbiamo sforzarci di rendere comprensibile il nostro modo di vivere con il Signore. Tutti noi Salesiani siamo cuore, memoria e garanti non solo del carisma salesiano, ma anche della propria vocazione.

3. Un altro punto nevralgico della «cultura delle vocazioni» è il rinnovamento e la rivitalizzazione della vita comunitaria. Laddove si vive e si celebra la propria vocazione, le relazioni fraterne, l’impegno nella missione e l’accoglienza di tutti e di ciascuno, possono sorgere vere e proprie domande di carattere vocazionale.

4. Con i tre punti precedenti, abbiamo voluto esprimere che un’azione pastorale in questo campo che non sia sostenuta dalla preghiera e dalla testimonianza di vita, è afflitta da incoerenza, come avverrebbe in qualsiasi altro ambito della pastorale. Inoltre, poiché la vocazione richiede resistenza e persistenza, impegno e stabilità, dobbiamo andare oltre la mentalità o la sensibilità vocazionale e possedere una prassi vocazionale, una pedagogia vocazionale con gesti che la rendano credibile e la sostengano nel tempo e nello spazio. Questa pedagogia ha a che fare con la centralità degli itinerari di fede nell’iniziazione cristiana, con le proposte di vita comunitaria accompagnata e con l’accompagnamento personale; un’animazione vocazionale all’interno della pastorale giovanile.

5. Se la fiducia in Dio che chiama funziona come un polmone che ossigena la pastorale vocazionale, l’altro polmone è la fiducia nel cuore generoso dei giovani. I cuori dei nostri giovani sono fatti per grandi cose, per la bellezza, per la bontà, per la libertà, per l’amore…, e questa aspirazione appare continuamente come un richiamo interiore nel profondo del loro cuore. Da questa prospettiva, siamo stati in grado di confrontarci con due approcci vocazionali: il primo approccio si concentra sui giovani più vicini al nostro carisma, cioè quelli che, per il loro legame con le comunità e le opere salesiane, sono aperti a un’esperienza di Dio, a relazioni comunitarie significative e al servizio con i giovani; il secondo approccio si concentra su coloro che possono essere attratti dall’approfondimento della vocazione salesiana come scelta di vita fondamentale.

6. Infine, per completare la mappa, non dimentichiamoci della promozione della vocazione di speciale consacrazione. In questa proposta, viene definito un aspetto concreto della promozione vocazionale che cerca di risvegliare e accompagnare le persone chiamate a una forma di vita concreta (il ministero ordinato, la propria congregazione o movimento), come modo concreto di seguire Gesù.

Anche la Chiesa di oggi ha bisogno della vocazione del salesiano consacrato. Forse dovremmo ricordare che il dinamismo del discernimento vocazionale è un compito spirituale illuminato dalla speranza di conoscere la volontà di Dio; è un compito umile, perché implica la consapevolezza di non sapere, ma esprime il coraggio di cercare, di guardare e di camminare in avanti, liberandosi da quella paura del futuro che è ancorata al passato e che nasce dalla presunzione di sapere già tutto.

La vocazione è un processo che dura tutta la vita, percepito come una successione di chiamate e risposte, un dialogo nella libertà tra Dio e ogni essere umano, che assume la forma di una missione da scoprire continuamente nelle varie fasi della vita e a contatto con nuove realtà. Una vocazione, quindi, è il modo particolare in cui una persona struttura la propria vita in risposta a una chiamata personale ad amare e servire; il modo di amare e servire che Dio vuole per ciascuno.
A partire dalla citazione di papa Francesco (Evangelii Gaudium, 107), possiamo indicare tre percorsi da seguire per una coerente animazione vocazionale: vivere un fervore apostolico contagioso, pregare con insistenza e osare la proposta. In sintesi: che cosa possiamo fare? Pregare, vivere e agire.

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Messaggio del Rettor Maggiore. Quel giovane mi disse: “la mia passione è Cristo”

Erano passati molti anni dall’ultima volta che avevo sentito quell’espressione da un giovane in un contesto così scanzonato, alla presenza di tutti i suoi compagni che si accalcavano intorno a noi.

Cari amici del Bollettino Salesiano, abbiamo “doppiato il capo” dell’anno, si dice in linguaggio marinaresco, e affrontiamo il nuovo anno. Ogni inizio possiede qualcosa di magico e il nuovo ha sempre un suo fascino particolare. Il 2023 mi sembrava un tempo lontano, eppure eccolo qui. L’anno nuovo è ogni volta una promessa che anche per noi arrivi qualche bella novità. Il nuovo anno sgorga dalla luce e dall’entusiasmo che ci sono stati donati nel Natale.

«C’è un tempo per nascere» dice Qoelet nella Bibbia. Non è mai troppo tardi per ricominciare. Dio comincia sempre da capo con noi, colmandoci della sua benedizione.

Una lezione ho imparato da questi ultimi anni: prepararci alle sorprese e all’inatteso. Come dice san Paolo in una lettera: «mai cuore umano ha potuto gustare ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano» (1 Cor 2, 9). Il contenuto della speranza cristiana è vivere abbandonato nelle braccia di Dio. Oggi molti modi di vivere, di esprimersi, di comunicare sono cambiati. Ma il cuore umano, soprattutto quello dei giovani, è sempre uguale, come un germoglio a primavera, ricco di vita pronta ad esplodere. I giovani “sono” speranza che cammina. Quello che vi confido ora mi sembra molto appropriato per questo saluto del Bollettino Salesiano del mese di gennaio, il “mese di don Bosco”.

Qualche settimana fa, ho visitato le presenze salesiane negli Stati Uniti d’America (USA) e un giorno, al mattino presto, sono arrivato nella scuola media e superiore “San Dominic Savio” di Los Angeles. Ho trascorso diverse ore con centinaia di studenti, seguite da una tavola rotonda con quarantacinque giovani del liceo. Abbiamo parlato dei loro progetti e sogni personali. Sono state alcune ore molto piacevoli e arricchenti.

Alla fine della mattinata, ho condiviso un panino con i giovani nel cortile. Ero seduto a un tavolo di legno nel cortile con il mio panino e una bottiglia d’acqua. In quel momento c’erano con me altri quattro salesiani; avevo salutato molti giovani, alcuni seduti ai tavoli, altri in piedi. Era un pranzo condito di allegria. Al mio tavolo c’erano due posti liberi e a un certo punto due giovani si sono avvicinati e si sono seduti con noi. Naturalmente ho incominciato a parlare con loro. Dopo un paio di minuti, uno dei giovani mi disse: «Voglio farti una domanda». «Ma certo, dimmi».

Il giovane disse: «Cosa devo fare per diventare Papa? Voglio essere Papa».

Sembrai sorpreso, ma sorrisi. Gli risposi che non mi era mai stata fatta una domanda del genere e che ero sorpreso dalla sua chiarezza e determinazione. Mi venne spontaneo spiegargli che tra tanti milioni di cattolici c’è molta concorrenza e non è così facile essere eletto Papa.

Rettor Maggiore nel Centro Giovanile della Famiglia Salesiana situato nel quartiere di Boyle Heights, East Los Angeles, Stati Uniti, nov. 2022

Gli proposi: «Senti, potresti cominciare a diventare salesiano».

Il giovane in modo sorridente disse: «Beh, io non dico di no» e aggiunse, serissimo: «perché quello che è certo è che la mia passione è Cristo». Devo dire che rimasi colpito e piacevolmente sorpreso. Credo che fossero passati molti anni dall’ultima volta che avevo sentito quell’espressione da un giovane in un contesto così spensierato, alla presenza di tutti i suoi compagni, che ora si accalcavano intorno a noi.

Il giovane aveva un bel sorriso genuino e gli dissi che la sua risposta mi era piaciuta molto, perché avevo capito che era assolutamente sincera. Aggiunsi che, se era d’accordo, avrei voluto raccontare il nostro dialogo in un altro momento e in un altro luogo, e così sto facendo.

Ma già in quel momento il mio pensiero era volato a don Bosco. Sicuramente don Bosco avrebbe apprezzato molto un dialogo con un giovane come questo. Non c’è dubbio che in molti dialoghi avuti con Savio, Besucco, Magone, Rua, Cagliero, Francesia e molti altri c’era molto di questo, il desiderio di quei giovani di fare qualcosa di bello con la loro vita.

E ho pensato a quanto sia importante oggi, a 163 anni dall’inizio della Congregazione Salesiana, continuare a credere profondamente che i giovani sono buoni, che hanno tanti semi di bontà nel cuore, che hanno sogni e progetti che spesso portano in sé tanta generosità e donazione.

Quanto è importante continuare a credere che è Dio ad agire nel cuore di ciascuno di noi, ciascuno dei suoi figli e figlie.

Mi sembra che oggi, nel nostro tempo, rischiamo di diventare così pratici ed efficienti nel guardare tutto ciò che ci accade e ciò che sperimentiamo che rischiamo di perdere la capacità di sorprenderci di noi stessi e degli altri e, cosa più preoccupante, di non lasciarci “sorprendere da Dio”.

La speranza è come un vulcano dentro di noi, come una sorgente segreta che zampilla nel cuore, come una primavera che scoppia nell’intimo dell’anima: essa ci coinvolge come un vortice divino nel quale veniamo inseriti, per grazia di Dio. Penso che come ieri con don Bosco, oggi ci siano migliaia e migliaia di giovani che vogliono vedere Gesù, che hanno bisogno di sperimentare l’amicizia con lui, che cercano qualcuno che li accompagni in questo bel viaggio. Vi invito ad unirvi a loro, cari amici del Bollettino, e vi auguro tanto tempo per stupirvi e tempo per fidarvi, tempo per guardare le stelle, tempo per crescere e maturare, tempo per sperare nuovamente e per amare. Vi auguro tempo per vivere ogni giorno, ogni ora come un dono. Vi auguro anche tempo per perdonare, tempo da donare agli altri e tanto tempo per pregare, sognare ed essere felici.




Pastorale giovanile e famiglia

Investire sull’educazione dei giovani per costruire le famiglie di oggi e di domani

L’educazione dei giovani è compito originale dei genitori, connesso alla trasmissione della vita, e primario rispetto al compito educativo di altri soggetti; quindi il ruolo della Comunità Educativo-Pastorale si propone come complementare, non sostitutivo, del ruolo educativo dei genitori dei giovani. Il contributo della vocazione familiare, genitoriale e di coppia è stato individuato in almeno tre temi centrali: l’amore, la vita e l’educazione.

La cura della famiglia suscita un grande interesse in tutto il mondo. Una particolare attenzione è dedicata alla questione attraverso articoli, pubblicazioni scientifiche e atti dei convegni. Nello stesso tempo, alla famiglia è chiesto di prendersi cura dei legami che costituiscono la fitta trama che sostiene la persona dei giovani nel processo di crescita e che incrementano la qualità della vita di una comunità. Perciò, bisogna promuovere adeguate strategie educativo-pastorali di sostegno alla famiglia, sul ruolo che ha nella costruzione dei rapporti interpersonali e intergenerazionali, nonché nella complessiva concezione dell’educazione e dell’accompagnamento delle nuove generazioni.

Nella sua complessità, ogni famiglia è come un libro che ha bisogno di essere letto, interpretato e compreso con molta cura, attenzione e rispetto. Nella nostra società contemporanea, la vita familiare presenta, di fatto, alcune condizioni che la espongono a fragilità.

Incontrare don Bosco è un viaggio sempre attuale. Seguire i suoi sogni; comprendere la sua passione educativa; conoscere il suo talento nel tirare fuori i giovani da “strade cattive” per farli diventare “buoni cristiani e onesti cittadini”, per educarli alla fede cristiana e alla coscienza sociale, per guidarli a una professione onesta, è un’esperienza di straordinaria intensità umana e familiare. L’esperienza di Don Bosco ha radici lontane. La sua vita, infatti è popolata da famiglie, da molteplicità di relazioni, da generazioni, da giovani senza famiglia, da storie di amore e di crisi familiari, fin dalla prima pagina della sua vita, quando deve affrontare molto giovane la perdita del padre.

La Comunità Educativo-Pastorale (CEP) è una delle forme, se non la forma, in cui si concretizza lo spirito di famiglia. In esso il Sistema Preventivo diventa operativo in un progetto comunitario. In quanto grande famiglia che si occupa dell’educazione e dell’evangelizzazione dei giovani su uno specifico territorio, la CEP è l’attualizzazione di quella intuizione che, all’origine del carisma salesiano, Don Bosco ripeteva spesso: “Ho sempre avuto bisogno di tutti”. A partire da questa convinzione, costituisce attorno a sé, fin dai primi tempi dell’Oratorio, una comunità-famiglia che non tiene conto delle diverse condizioni culturali, sociali ed economiche dei collaboratori e nella quale gli stessi giovani sono protagonisti.

L’educazione dei giovani è compito originale dei genitori, connesso alla trasmissione della vita, e primario rispetto al compito educativo di altri soggetti; quindi il ruolo della CEP si propone come complementare, non sostitutivo, del ruolo educativo dei genitori dei giovani.
La teologia pastorale, in questo processo di responsabilizzazione, afferma che la famiglia è oggetto, contesto e soggetto dell’azione pastorale. Questa riflessione ci ha portato ad interrogarci sull’originalità della famiglia all’interno della CEP, la quale può occupare un posto specifico. Il contributo della vocazione familiare, genitoriale e di coppia è stato individuato in almeno tre temi centrali: l’amore, la vita e l’educazione.

Per questo, sia a livello locale che ispettoriale, occorre che si inizino a progettare percorsi formativi per gli operatori/formatori, integrando le famiglie nel PEPS, dove la proposta educativa e pastorale sia strutturata intorno ad azioni che vedano la famiglia protagonista a favore dei giovani. Tali percorsi devono avere come nucleo centrale il confronto, la metodologia della pedagogia familiare e la Spiritualità Salesiana.
Per questo motivo diventa essenziale riprogettarsi insieme in senso vocazionale; contestualmente entrare nel quotidiano delle famiglie, parlare il loro linguaggio, stare accanto alle fragilità delle relazioni e riconoscere le fatiche presenti nel vissuto di tante di loro avendo cura dei giovani senza famiglia, delle giovani famiglie, delle situazioni familiari più fragili (dalla povertà, disuguaglianza e vulnerabilità) promuovendo la solidarietà tra famiglie. Diventa poi necessario accompagnare l’amore delle giovani coppie/famiglie avendone cura e progettando una buona e costante formazione all’amore per lo sviluppo di ogni vocazione.

Tutto ciò che è stato detto su Pastorale Giovanile Salesiana e Famiglia esige, per essere realizzato, l’avvio di processi di formazione per tutti i membri del CEP e quindi sia per i salesiani consacrati che per i laici che sostengono lo sviluppo del PEPS e della Famiglia Salesiana.