Hai pensato alla tua vocazione? San Francesco di Sales potrebbe aiutarti (2/10)

(continuazione dall’articolo precedente)

2. Che fare domani

Cari giovani,
voi vi chiedete certamente: che cosa faremo più tardi, che cosa aspettarsi dalla vita? A che cosa siamo chiamati? Sono delle domande che ciascuno si fa, in modo cosciente o anche non cosciente. Forse conoscete la parola vocazione. Che strana parola: vocazione! Se preferite, possiamo parlare di felicità, di senso della vita, di voglia di vivere…
Vocazione vuol dire chiamata. Chi chiama? Questa è una bella domanda. Forse qualcuno che mi vuol bene. Ognuno di noi ha la sua vocazione. La mia è stata un po’ particolare. Nella mia Savoia, quand’ero piccolo, a undici anni, mi sentivo chiamato a darmi a Dio a servizio del suo popolo, ma i miei genitori, in particolare mio padre, avevano altri progetti per me, che ero il primogenito della famiglia. Col passare degli anni e durante gli studi che mio padre mi fece fare a Parigi, il mio desiderio è cresciuto sempre di più: grammatica, lettere, filosofia, ma anche equitazione, scherma, danza…
A 17 anni ho avuto una crisi. Riuscivo bene negli studi, ma il mio cuore non era soddisfatto. Cercavo qualcosa… Durante il carnevale a Parigi un mio compagno mi vide triste: “Che cosa non va, sei malato? Andiamo a vedere il carnevale”, “ma io non voglio vedere il carnevale”, gli risposi, “voglio vedere Dio!”. In quell’anno un famoso professore di Bibbia spiegava il Cantico dei Cantici. Andai a sentirlo. È stato per me come un colpo di fulmine. La Bibbia era una storia di amore. Avevo trovato Colui che cercavo! E con l’aiuto del mio accompagnatore spirituale, feci un piccolo regolamento per ricevere Gesù nell’Eucaristia il più spesso possibile.
A 20 anni mi colpì una nuova grave crisi. Mi ero convinto che sarei andato all’inferno, che sarei stato eternamente dannato. Ciò che mi addolorava di più, oltre a naturalmente la privazione della visione di Gesù, era di essere privato della visione di Maria. Questo pensiero mi torturava: quasi non mangiavo più, non dormivo più, ero diventato tutto giallo! La mia preghiera era questa: “Signore, io lo so, andrò all’inferno, ma fammi almeno questa grazia che quando sarò all’inferno, io possa continuare ad amarti!” Dopo sei settimane di angoscia mi recai in chiesa davanti all’altare della Madonna e la pregai con una preghiera che comincia così: “Ricordati, o vergine Maria, che non si è mai udito che alcuno, ricorrendo al tuo patrocinio, implorando il tuo aiuto e la tua protezione, sia stato da te abbandonato”. Dopodiché il mio male cadde a terra “come le scaglie della lebbra”. Ero guarito!
Dopo Parigi mio padre mi mandò a Padova per studiare diritto. Intanto continuai a soffrire del mio dilemma vocazionale: sentivo che la chiamata veniva da Dio, e allo stesso tempo dovevo obbedienza a mio padre, secondo le usanze molto sentite nel mio tempo. Ero perplesso. Ho cercato consiglio presso i miei accompagnatori, in particolare presso il Padre Antonio Possevino. Con il suo aiuto e il suo discernimento, scelsi alcune regole ed esercizi per la vita spirituale e anche per la vita in società con i compagni e ogni tipo di persone. Alla fine dei miei studi feci un pellegrinaggio a Loreto. Sono rimasto come in estasi – dicono i miei accompagnatori – per una mezz’ora nella Santa Casa di Maria di Nazaret. Ho affidato di nuovo la mia vocazione e il mio futuro alla Mamma di Gesù. Non mi sono mai pentito di essermi fidato totalmente di Lei.
Tornato in patria all’età di 24 anni, mi incontrai con una bella ragazza, chiamata Francesca. Ella mi piaceva, però mi piaceva di più il mio progetto di vita. Che fare? Non ti racconto qui tutti i dettagli della mia battaglia. Sappi soltanto che alla fine ho osato chiedere a mio padre che mi desse il permesso di seguire il mio sogno. Finalmente ha accettato la mia scelta, ma piangeva.
A partire da quel momento la mia vita cambiò completamente. Prima la famiglia e i miei compagni mi vedevano tutto concentrato su me stesso, preoccupato, un po’ chiuso. Allora da un momento all’altro, tutto si mise in moto. Ero diventato un altro uomo. Fui ordinato sacerdote a 26 anni e mi lanciai subito nella mia missione. Non avevo più dubbi: Dio mi voleva su questa strada. Ero felice.
La mia vocazione, penserete voi, era una vocazione speciale, anche se vi dico che sono stato fatto anche vescovo di Ginevra-Annecy a 35 anni. Nel mio ministero pastorale e di accompagnatore, mi sono sempre convinto e ho insegnato che ogni uomo ha vocazione. Anzi, non si dovrebbe dire: ognuno ha una vocazione, ma si dovrebbe dire: ognuno è una vocazione, cioè una persona che ha ricevuto un compito “provvidenziale” in questo mondo, nell’attesa del mondo futuro a noi promesso.

Ufficio Animazione Vocazionale

(continua)




La GMG come esperienza sinodale di rinnovamento della Chiesa

Interrompere la vita di una città è sempre un atto straordinario. Riempire le strade di giovani provenienti da ogni angolo del mondo è un ricordo commovente. Una Giornata Mondiale della Gioventù è questo e molto di più.

L’organizzazione di una GMG richiede tantissime di ore di lavoro, mettendo a disposizione dei giovani, risorse di ogni tipo. Se porterà frutti spirituali in proporzione allo sforzo, ne sarà valsa la pena, il tutto per una ragione educativa, comunicativa ed evangelizzatrice: l’obiettivo di un evento come questo è quello di far conoscere Gesù Cristo a moltissimi giovani, e di riuscire a far capire loro che seguire Lui è un modo sicuro per trovare la felicità.

È ai giovani che dobbiamo guardare in questi giorni con particolare predilezione e scoprire il segreto di un fenomeno sorprendente: nel mondo dei giovani è in atto una “rivoluzione silenziosa”, il cui palcoscenico più grande sono le Giornate Mondiali della Gioventù. Giovani che sollevano domande tra i cristiani e non hanno paura di mostrarsi come tali, giovani che non vogliono essere intimiditi e tanto meno ingannati, giovani che portano l’entusiasmo e la passione per realizzare il cambiamento.

Questi incontri continuano a sorprendere sia all’interno sia all’esterno della Chiesa. E sono un’istantanea di una gioventù molto diversa da quella proposta da alcuni, assetata di valori, alla ricerca del significato più profondo della vita, con un desiderio di un mondo diverso da quello che abbiamo trovato al nostro arrivo.

Oggi, una percentuale significativa dei partecipanti alla GMG proviene da contesti familiari, sociali e culturali molto diversi. Molti di questi giovani pellegrini non hanno punti di riferimento cristiani nei loro contesti. In questo senso, la vita di molti di loro assomiglia al surf: non possono pretendere di cambiare l’onda, ma si adattano ad essa per dirigere la tavola dove vogliono che vada. Questi volti radiosi della Chiesa si svegliano ogni giorno con il desiderio di essere migliori seguaci di Gesù in mezzo ai loro familiari, amici e conoscenti.

I giovani hanno la forza di dare il meglio di sé, ma devono sapere che questo impegno è fattibile, hanno bisogno della complicità degli adulti, devono credere che questa lotta non sia sterile né destinata al fallimento. Per questo motivo, le giornate sono un modo per far sperimentare ai giovani la sinodalità, lo stile particolare che caratterizza la vita e la missione della Chiesa. L’appartenenza alla loro comunità ecclesiale locale implica l’appartenenza a una comunità molto più grande e universale. Una comunità in cui abbiamo bisogno che tutti, giovani e adulti, si “prendano carico del mondo”.

Per questo, è necessario coltivare alcune attitudini per questa nuova spiritualità sinodale. La GMG ci permette di:
– condividere le piccole storie degli altri, sperimentando il coraggio di parlare liberamente e di portare in tavola conversazioni profonde che vengono da dentro;
– imparare a crescere insieme agli altri e di apprezzare come ci stiamo aggiungendo a vicenda, anche se a “velocità” diverse (stili, età, visioni, culture, doni, carismi e ministeri nella Chiesa);
– prendersi cura degli “spazi verdi comunitari” per la nostra relazione con Dio, per occuparci della nostra connessione con la fonte della vita, con Colui che si prende cura di noi, per radicare la nostra fiducia e le nostre speranze in Lui, per scaricare le nostre preoccupazioni su di Lui, per essere in grado di “prendere in carico” la missione che Lui lascia nelle nostre mani;
– accettare e accogliere la nostra fragilità, che ci collega alla fragilità del nostro mondo e della madre Terra;
– essere una voce che si unisce a molte altre per denunciare gli eccessi che si stanno commettendo attualmente nei confronti del Pianeta e per intraprendere azioni comuni che contribuiscano alla nascita di una cittadinanza più responsabile ed ecologica;
– riorientare insieme i processi pastorali da una prospettiva più aperta e inclusiva, che ci renda pronti ad “andare incontro” a tutti i giovani dove si trovano, e rendere visibile e reale il desiderio di essere una “Chiesa in movimento” che si avvicini a credenti e non credenti, e che diventi una compagna di viaggio per coloro che lo desiderano o ne hanno bisogno.

In breve, una Chiesa sinodale che favorisca un cambiamento di cuore e di mente che ci permetta di affrontare la nostra missione in MODO GESÙ. Un invito a sentire dentro di noi il tocco e lo sguardo di Gesù che ci rende sempre nuovi.

Sito ufficiale del GMG 2023: https://www.lisboa2023.org
Sito saleisani al GMG 2023: https://wyddonbosco23.pt




Casa salesiana Tibidabo

Situata nella vetta più alta delle montagne di Collserola che offre una bella vista su Barcellona, la Casa salesiana Tibidabo ha una storia particolare, legata alla visita di don Bosco in Spagna, compiuta nel 1886.

Il nome della collina, “Tibidabo”, discende dal latino “Tibidabo”, che significa “ti darò”, e deriva da alcuni versetti della Sacra Scrittura: “… et dixit illi haec tibi omnia dabo si cadens adoraveris me”, “… e gli disse: Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai” (Matteo 4,9). Questa frase viene pronunciata dal demonio a Gesù da una grande altezza, mostrandogli i regni della terra, cercando di tentarlo con le ricchezze di questo mondo.
Il vecchio nome della collina barcellonese era Puig de l’Àliga (Collina dell’Aquila). Il nuovo nome di “Tibidabo”, come altri nomi biblici (Valle di Hebron, il Monte Carmelo ecc.), è stato dato da alcuni religiosi che vivevano nella zona. La scelta di questo nuovo nome è stata fatta per la vista maestosa che offre sulla città di Barcellona, da un’altezza che dà la sensazione di dominare tutto.

Durante il suo viaggio in Spagna, don Bosco si recò nel pomeriggio del 5 maggio 1886, alla basilica di Nostra Signora della Misericordia, patrona della città di Barcellona, per ringraziarla dei favori ricevuti durante la sua visita alla città e per l’opera salesiana iniziata a Sarrià. Lì, alcuni signori delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli lo avvicinarono, gli diedero la proprietà di un terreno in cima al Tibidabo e lo pregarono di costruirvi un santuario del Sacro Cuore di Gesù. Gli chiesero questo favore “per mantenere salda e indistruttibile la religione che Lei ci ha predicato con tanto zelo ed esempio e che è l’eredità dei nostri padri”.

La reazione di don Bosco fu spontanea: “Sono confuso da questa nuova e inaspettata prova della sua religiosità e pietà. La ringrazio per questo; ma sappia che, in questo momento, lei è uno strumento della Provvidenza divina. Mentre lasciavo Torino per venire in Spagna, pensavo tra me e me: ora che la chiesa del Sacro Cuore a Roma è quasi terminata, dobbiamo studiare come promuovere sempre di più la devozione al Sacro Cuore di Gesù. E una voce interiore mi rassicurò che avrei trovato i mezzi per realizzare il mio desiderio. Questa voce mi ripeteva: Tibidabo, tibidabo (ti darò, ti darò). Sì, signori, voi siete gli strumenti della Divina Provvidenza. Con il vostro aiuto, presto sorgerà su questa montagna un santuario dedicato al Sacro Cuore di Gesù; lì tutti avranno la comodità di accostarsi ai santi Sacramenti, e la vostra carità e la fede di cui mi avete dato tante e così belle prove saranno sempre ricordate” (MB XVIII,114).

Il 3 di luglio dello stesso anno, 1886, l’ormai venerabile Dorotea de Chopitea, promotrice del lavoro salesiano a Barcellona e facilitatrice della visita di don Bosco alla città, finanziò la costruzione di una piccola cappella dedicata al Sacro Cuore sulla stessa collina.
Il progetto di costruzione del tempio subì un ritardo significativo, soprattutto a causa della comparsa di un nuovo progetto per la costruzione di un osservatorio astronomico sulla cima del Tibidabo, che alla fine fu costruito su una collina vicina (Osservatorio Fabra).
Nel 1902, fu posata la prima pietra della chiesa e nel 1911 fu inaugurata la cripta dell’attuale santuario del Tibidabo, alla presenza dell’allora Rettor Maggiore, don Paolo Albera. Alcuni giorni dopo l’inaugurazione, quest’ultimo fu nominato “Tempio Espiatorio e Nazionale del Sacro Cuore di Gesù” conforme a una decisione presa nell’ambito del XXII Congresso Eucaristico Internazionale, che si tenne a Madrid alla fine del mese di giugno del 1911. L’opera fu completata nel 1961 con l’erezione della statua del Sacro Cuore di Gesù, settantacinque anni dopo la visita di Giovanni Bosco a Barcellona. Nel 29 ottobre 1961, la chiesa ricevette il titolo di basilica minore, concesso da papa Giovanni XXIII.

Oggi, il tempio continua ad attirare un gran numero di pellegrini e visitatori da tutto il mondo. Accoglie cordialmente tutti coloro che vengono alla Basilica del Sacro Cuore di Gesù, per qualsiasi motivo, dando loro l’opportunità di ricevere il messaggio del Vangelo e di accostarsi ai sacramenti, in particolare all’Eucaristia e alla Riconciliazione. È allo stesso tempo una parrocchia affidata ai Salesiani, anche se ha pochi parrocchiani stabili.
Per coloro che sono venuti con l’intenzione di trascorrere un po’ di tempo in preghiera mette a disposizione anche i materiali offerti dalla Rete Mondiale di Preghiera del Papa, di cui il Tempio è membro.
Si continua l’adorazione del Santissimo Sacramento durante il giorno, e si incoraggia la pratica dell’adorazione notturna.
E a coloro che voglio fare un ritiro, mette a disposizione alloggio e vitto all’interno della struttura salesiana.
Un’opera dedicata al Sacro Cuore di Gesù voluta dalla Provvidenza tramite san Giovanni Bosco, che continua la sua missione attraverso la storia.

don Joan Codina i Giol, sdb
direttore Tibibabo

Galleria foto – Casa salesiana al Tibidabo

1 / 6

2 / 6

3 / 6

4 / 6

5 / 6

6 / 6


Benedizione della Cappella del Sacro Cuore, Tibidabo, 03.07.1886
Sentiero alla Cappella del Sacro Cuore, Tibidabo, 1902
Tempio Espiatorio del Sacro Cuore. Cripta nel 1911
Statua del Sacro Cuore al Tibidabo
Cupola dell'altare della cripta al Tibidabo
Dettaglio nella cupola dell'altare della cripta al Tibidabo. Don Bosco riceve la proprietà





Hai pensato alla tua vocazione? San Francesco di Sales potrebbe aiutarti (1/10)

«Non è per la grandezza delle nostre azioni che noi piaceremo a Dio, ma per l’amore con cui le compiamo», san Francesco di Sales.
Un percorso a dieci puntate nel quale san Francesco di Sales potrebbe accompagnare anche oggi i giovani che si fanno domande sul senso della loro vita.

1. Se iniziassimo dall’ABC della vita cristiana

Cari giovani,
so di scrivere a chi si porta già nel cuore un piccolo desiderio di bene, una ricerca di luce. Avete già camminato nell’amicizia col Signore, ma mi permetto di riassumervi qui l’ABC della vita da credente, ovvero una vita interiore e spirituale ricca e profonda. Con queste basi potrete essere attrezzati per fare scelte fruttuose nella vostra esistenza. Questo lavoro non mi è nuovo: quando ero Vescovo ho visitato tutte le parrocchie della mia Diocesi e molte erano situate sui monti. Per raggiungerle non c’erano strade e dovevo camminare a lungo, anche d’inverno, ma ero felice di incontrare quelle persone semplici, per incoraggiarle a vivere come piace a Dio.
Per camminare con frutto è decisivo il lavoro della guida spirituale che si accorge di cosa sta capitando nel vostro cuore, vi incoraggia, vi segue, vi fa proposte chiare, graduali e stimolanti. Scrivevo nella Filotea: “Vuoi metterti in cammino nei sentieri dello Spirito con sicurezza? Trova qualcuno capace, che ti sia di guida e ti accompagni; è la raccomandazione delle raccomandazioni”. Quattro secoli fa, come oggi: questo è il punto cruciale, decisivo.
La meta da raggiungere è la santità, che consiste in una vita cristiana consapevole, ovvero una profonda amicizia con Dio, una vita spirituale fervente, segnata dall’amore a Dio e al prossimo. Si tratta di una via semplice, sapendo che le grandi occasioni per servire Dio si presentano raramente, mentre le piccole le abbiamo sempre. Questo ci stimola ad una carità pronta, attiva, diligente.
Se, pensando ad una meta così, siete tentati dallo scoraggiamento, vi ripeto quanto scrissi secoli fa: “Non bisogna pretendere che tutti comincino con la perfezione: poco importa il modo di cominciare. Basta essere risoluti a continuare e terminare bene”.
Per partire con il piede giusto vi invito alla purificazione del cuore attraverso la confessione. Il peccato è una mancanza di amore, un furto alla vostra umanità, un trovarsi al buio e al freddo: nella confessione si consegna a Gesù tutto quello che può appesantire e rendere buio il viaggio. È ri-avere la gioia del cuore.
Procedendo, gli attrezzi per camminare sono antichi e preziosi quanto la Chiesa, e hanno sostenuto generazioni di cristiani di ogni età, da 20 secoli! Anche voi li avete certamente sperimentati.
La preghiera, ovvero dialogare con un Padre innamorato di voi e della vostra vita. Non dimenticate che a pregare si impara pregando: quindi abbiate fedeltà e perseveranza.
La Parola di Dio, ovvero la “lettera di Dio” indirizzata proprio a voi come singoli. È come una sorta di bussola che orienta il camminare, soprattutto quando c’è nebbia, buio e rischiate di perdere l’orientamento! Non dimenticate che leggendola avete tra le mani il Tesoro.
Il sacramento dell’Eucaristia è il termometro della vostra vita credente: se il vostro cuore non ha maturato un vivo desiderio di accogliere il Pane della Vita, l’incontro con Lui avrà risultati modesti. Scrivevo ai miei contemporanei: “Se il mondo vi chiede perché vi comunicate così spesso, rispondete che è per imparare ad amare Dio, per purificarvi dalle vostre imperfezioni, per liberarvi dalle vostre miserie, per trovare forza nelle vostre debolezze e consolazioni nelle vostre afflizioni. Due tipi di persone devono comunicarsi sovente: i perfetti, perché essendo ben disposti farebbero un torto a non accostarsi alla fonte e sorgente della perfezione; e gli imperfetti per poter tendere alla perfezione. I forti per non indebolirsi e i deboli per rafforzarsi. I malati per guarire e i sani per non ammalarsi.” Partecipate alla S. Messa con grande frequenza: il più possibile!
Insisto poi sulle virtù, perché se l’incontro con Dio è vero e profondo cambia anche i rapporti con le persone, il lavoro, le cose. Esse consentono di avere un carattere umanamente ricco, capace di amicizie vere e profonde, di essere gioiosamente impegnati nel fare bene il proprio dovere (lavoro-studio), pazienti e cordiali nel tratto, buoni.
Tutto questo non avviene nel vostro cuore solitario, per migliorarlo e compiacersi. La vita con altri è uno stimolo a camminare meglio (quanti sono migliori di noi!), ad aiutare di più (quanti hanno bisogno di noi!), a farsi aiutare (quanto abbiamo da imparare!), a ricordarci che non siamo autosufficienti (non ci siamo auto-creati e auto-educati!). Senza una dimensione comunitaria, ci perdiamo presto.
Spero che abbiate già gustato i frutti di una guida stabile, di confessioni autentiche, della preghiera fedele e soda, della ricchezza della Parola, dell’Eucaristia vissuta con fecondità, delle virtù praticate nella gioia del quotidiano, di amicizie arricchenti, dell’imprescindibilità del servizio. In questo humus si fiorisce: solo in questo ecosistema si percepisce il vero volto del Dio cristiano, alla cui mano è bello e dà gioia affidare la propria vita.

Ufficio Animazione Vocazionale

(continua)




Basilica del Sacro Cuore a Roma

Al tramonto della vita, ubbidendo a un desiderio di papa Leone XIII, don Bosco assume la difficile costruzione del tempio del Sacro Cuore di Gesù al Castro Pretorio di Roma. Per portare a termine l’impresa gigantesca non ha risparmiato faticosi viaggi, umiliazioni, sacrifici, che hanno abbreviato la sua preziosa vita di apostolo della gioventù.

La devozione al Sacro Cuore di Gesù risale agli inizi della Chiesa. Nei primi secoli i Santi Padri invitavano a guardare il Costato trafitto di Cristo, simbolo di amore, anche se non rimandava in modo esplicito al Cuore del Redentore.
I primi riferimenti trovati sono quelli che provengono dai mistici Matilde di Magdeburgo (1207-1282), santa Matilde di Hackeborn (1241-1299), santa Gertrude di Helfta (ca. 1256-1302) e beato Enrico Suso (1295-1366).
Uno sviluppo importante arriva con le opere di san Giovanni Eudes (1601-1680), poi con le rivelazioni private della visitandina santa Margherita Maria Alacoque, diffuse da san Claude de la Colombière (1641-1682) e dai suoi confratelli gesuiti.
Alla fine dell’800 si diffondono le chiese consacrate al Sacro Cuore di Gesù, principalmente come templi espiatori.
Con la consacrazione del genere umano al Sacro Cuore di Gesù, tramite l’enciclica di Leone XIII, Annum Sacrum (1899) il culto si estende notevolmente e si rafforza con altre due encicliche che verranno più tardi: Miserentissimus Redemptor (1928) di Pio XI e soprattutto Haurietis Aquas (1956) di Pio XII.

Ai tempi di don Bosco, dopo la costruzione della stazione ferroviaria Termini da parte di papa Pio IX nel 1863, cominciano a popolarsi le vicinanze, e le chiese circostanti non riuscivano a servire i fedeli in modo adeguato. Nasce così il desiderio di edificare un tempio nella zona, ed si è inizialmente pensato di dedicarlo a san Giuseppe, nominato come patrono della Chiesa Universale l’8 dicembre 1870. Dopo una serie di avvenimenti, nel 1871 il papa cambia il patronaggio della voluta chiesa, dedicandola al Sacro Cuore di Gesù, e rimane in stato di progetto fino al 1879. Intanto il culto verso il Sacro Cuore continua a diffondersi, e nel 1875, a Parigi, sulla collina più alta della città, Montmartre (Monte dei Martiri), si pone la prima pietra alla chiesa omonima, Sacré Cœur, che verrà completata nel 1914 e consacrata nel 1919.

Dopo la morte di papa Pio IX, il nuovo papa Leone XIII (come arcivescovo di Perugia aveva consacrato la sua diocesi al Sacro Cuore) decide di riprendere il progetto, e il 16 agosto 1879 si pone la prima pietra. I lavori si interrompono poco dopo per la mancanza di sostegno finanziario. Uno dei cardinali, Gaetano Alimonda (futuro arcivescovo di Torino) consiglia al papa di affidare l’impresa a don Bosco e, anche se il pontefice inizialmente è titubante sapendo gli impegni delle missioni salesiane dentro e fuori l’Italia, fa la proposta al Santo nell’aprile del 1880. Don Bosco non ci pensa due volte e risponde: “Il desiderio del Papa è per me un comando: accetto l’impegno che Vostra Santità ha la benevolenza di affidarmi”. All’avvertimento del Papa che non potrà sostenerlo economicamente, il Santo chiede solo l’apostolica benedizione e i favori spirituali necessari per il compito affidato.

Posa della prima pietra della chiesa Sacro Cuore di Gesù a Roma

Di ritorno a Torino, vuole avere l’approvazione del Capitolo per questa impresa; dei sette voti, solo uno è positivo: il suo… Il Santo non si scoraggiò e argomentò: “Mi avete dato tutti un no rotondo e sta bene, perché avete agito secondo la prudenza necessaria in casi seri e di grande importanza come questo. Ma se invece di un no mi date un sì, io vi assicuro che il Sacro Cuore di Gesù manderà i mezzi per fabbricare la sua chiesa, pagherà i nostri debiti e ci darà una bella mancia” (MB XIV,580). Dopo questo intervento si è ripetuta la votazione e i risultati furono tutti positivi e la mancia principale fu l’Ospizio del Sacro Cuore che fu costruito accanto alla chiesa per i ragazzi poveri e abbandonati. Questo secondo progetto dell’Ospizio è stato inserito in una Convenzione fatta l’11 dicembre 1880, che garantiva l’uso perpetuo della chiesa alla Congregazione Salesiana.
L’accettazione gli causerà gravi preoccupazioni e gli costerà la salute, ma don Bosco che insegnava ai suoi figli il lavoro e la temperanza e diceva che sarebbe stato un giorno di trionfo quello in cui si fosse detto che un salesiano era morto sulla breccia affranto dalla fatica, li precedeva con l’esempio.

L’edificazione del Tempio del Sacro Cuore al Castro Pretorio in Roma venne realizzata non solo per l’obbedienza al Papa ma anche per la devozione.
Riprendiamo uno dei suoi interventi su questa devozione, fatto in una buonanotte rivolta agli allievi e confratelli a un solo mese di distanza dall’incarico, il 3 di giugno del 1880, vigilia della festa del Sacro Cuore.
Domani, miei cari figliuoli, la Chiesa celebra la festa del Sacro Cuore di Gesù. Bisogna che anche noi con grande impegno procuriamo di onorarlo. È vero che la solennità esterna la trasporteremo a domenica; ma domani incominciamo a far festa nel nostro cuore, a pregare in modo speciale, a far comunioni fervorose. Domenica poi ci sarà musica e le altre cerimonie del culto esterno, che rendono tanto belle e maestose le feste cristiane.
Qualcheduno di voi vorrà sapere che cosa sia questa festa e perché si onori specialmente il Sacro Cuore di Gesù. Vi dirò che questa festa non è altro che onorare con una speciale rimembranza l’amore che Gesù portò agli uomini. Oh l’amore grandissimo, infinito che Gesù ci portò nella sua incarnazione e nascita, nella sua vita e predicazione, e particolarmente nella sua passione e morte! Siccome poi sede dell’amore è il cuore, così si venera il Sacro Cuore, come oggetto che serviva di fornace a questo smisurato amore. Questo culto al Sacratissimo Cuor di Gesù, cioè all’amore che Gesù ci dimostrò, fu di tutti i tempi e sempre; ma non sempre vi fu una festa appositamente stabilita per venerarlo. Come sia comparso Gesù alla Beata Margherita una festa le abbia manifestato i grandi beni che verranno agli uomini onorando di culto speciale il suo amabilissimo cuore, e come se ne sia perciò stabilita la festa, lo sentirete nella predica di domenica a sera.
Ora facciamoci coraggio ed ognuno faccia del suo meglio per corrispondere a tanto amore che Gesù ci ha portato.
(MB XI,249)

Sette anni più tardi, nel 1887, la chiesa fu completata per il culto. Il 14 maggio di quell’anno don Bosco assistette con commozione alla consacrazione del tempio, presieduta solennemente dal cardinale vicario Lucido Maria Parocchi. Due giorni più tardi, il 16 maggio, celebrò l’unica Santa Messa in questa chiesa, all’altare dell’Ausiliatrice, interrotta ben più di quindici volte dalle lacrime. Erano lacrime di riconoscenza per la luce divina ricevuta: aveva capito le parole del suo sogno di nove anni: “A suo tempo tutto comprenderai!”. Un compito portato a termine tra tante incomprensioni, difficoltà e fatiche, ma che corona una vita spesa per Dio e per i giovani, premiato dalla stessa Divinità.

Recentemente è stato realizzato un video sulla Basilica del Sacro Cuore. Ve lo proponiamo a seguire.






San Francesco di Sales. La dolcezza (7/8)

(continuazione dall’articolo precedente)

LA DOLCEZZA, IN SAN FRANCESCO DI SALES (7/8)

Alcuni episodi della vita di Francesco che ci introducono nella contemplazione della “dolcezza salesiana”.

Francesco, per migliorare la situazione del clero nelle parrocchie, aveva stabilito che fossero messe a concorso: almeno tre candidati per una parrocchia. Sarebbe stato scelto il migliore.
Ora, era successo che un cavaliere di Malta, furibondo perché uno dei suoi servitori era stato escluso da un concorso (questo candidato sapeva più corteggiare le donne che commentare il Vangelo!), era entrato bruscamente nello studio del vescovo e lo aveva insultato con ingiurie e minacce e Francesco era rimasto in piedi, con il cappello in mano. Il fratello del vescovo gli domandò poi se mai la collera lo avesse preso qualche volta e il sant’uomo non gli nascose che “allora e spesso la collera ribolliva nel suo cervello come l’acqua che bolle in una pentola sul fuoco; ma che per grazia di Dio, quand’anche avesse dovuto morire per aver resistito con violenza a questa passione, non avrebbe mai detto una parola in suo favore”.

Si stava costruendo il primo monastero in città (la Sainte Source) e i lavori non andavano avanti perché i domenicani protestavano con gli operai in quanto, secondo loro, non esisteva la distanza richiesta tra i due edifici. Ci sono delle vivaci proteste e il vescovo con bontà e pazienza accorre per calmare gli animi. Questa calma e dolcezza non piacquero a Giovanna di Chantal, che sbottò dicendo:
“La vostra dolcezza non farà che aumentare l’insolenza di queste persone malevole”. “Non sarà, non sarà – rispose Francesco – e poi, Madre, volete che nel giro di un quarto d’ora io distrugga quell’edificio della pace interiore alla cui costruzione sto lavorando da oltre diciotto anni?”.

Una premessa è d’obbligo per comprendere bene cosa sia la dolcezza salesiana. Ce ne parla un esperto: il salesiano don Pietro Braido:
“Non è sentimentalismo, che richiama forme espressive sdolcinate; non è buonismo, tipico di chi chiude volentieri gli occhi sulla realtà per non avere problemi e seccature; non è la miopia di chi vede tutto bello e buono e per il quale tutto va sempre bene; non è l’atteggiamento inerte di chi non ha proposte da fare… La dolcezza salesiana (don Bosco userà il termine amorevolezza) è un’altra cosa: nasce indubbiamente da una profonda e solida carità ed esige un attento controllo delle proprie risorse emotive ed affettive; si esprime in un carattere di umore sereno costante, segno di una persona dall’umanità ricca; richiede capacità di empatia e di dialogo e crea un’atmosfera serena, priva di tensioni e di conflittualità. Dunque la dolcezza di Francesco non va confusa con la debolezza, anzi è forza che richiede controllo, bontà d’animo, chiarezza di intenti e forte presenza di Dio”.

Ma Francesco non è nato così! Dotato di spiccata sensibilità, era facile agli sbalzi di umore e agli scatti d’ira.
Scrive il Lajeunie:
“Francesco di Sales era un vero savoiardo, abitualmente calmo e dolce, ma capace di terribili collere; un vulcano sotto la neve. Per natura era molto pronto a montare in collera, ma che si impegnava tutti i giorni a correggersi.
Con questo temperamento vivo e sanguigno, la sua dolcezza abituale fu sovente messa alla prova. Era molto ferito da parole insolenti e spiacevoli, da gesti volgari. Nel 1619 a Parigi confessava che aveva ancora degli scatti di collera nel suo cuore e doveva tenerne a freno le briglie con due mani!
“Ho fatto un patto con la mia lingua di non dire una parola quando fossi stato in collera. Per grazia di Dio ho potuto avere la forza di frenare la passione della collera, cui naturalmente ero incline”. È per la grazia di Dio che aveva acquistato la capacità di dominare le sue passioni colleriche a cui la sua indole era portata. La sua dolcezza era dunque una forza, il frutto di una vittoria”.

Non è difficile scoprire dietro le prossime citazioni l’esperienza personale del santo, fatta di pazienza, di autocontrollo, di lotta interiore …
Ad una signora dice:
“Siate molto dolce e affabile in mezzo alle occupazioni che avete, perché tutti si attendono da voi questo buon esempio. È facile guidare la barca quando non è ostacolata dai venti; ma in mezzo ai fastidi, ai problemi, è difficile conservarsi sereni, come è difficile seguire la rotta in mezzo alle burrasche”.
Alla signora di Valbonne, che Francesco definisce “una perla”, scrive:
“Dobbiamo restare sempre saldi nella pratica delle nostre due care virtù: la dolcezza nei riguardi del prossimo e l’amabilissima umiltà nei riguardi di Dio”. Ritroviamo unite le due virtù care al Cuore di Gesù: dolcezza e umiltà.

Occorre esercitare la dolcezza anche verso sé stessi.
“Ogni volta che troverete il vostro cuore fuori della dolcezza, contentatevi di prenderlo molto delicatamente con la punta delle dita per rimetterlo al suo posto e non prendetelo a pugni chiusi o troppo bruscamente. Bisogna essere disposti a servire questo cuore nelle sue malattie e anche ad usargli qualche gentilezza; e dobbiamo legare le nostre passioni e le nostre inclinazioni con catene d’oro, cioè, con le catene dell’amore.”
“Chi sa conservare la dolcezza fra i dolori e le infermità e la pace fra il disordine delle sue molteplici occupazioni è quasi perfetto. Questa costanza d’umore, questa dolcezza e soavità di cuore è più rara che la perfetta castità, ma ne è tanto più desiderabile. Da questa, come dall’olio della lampada, dipende la fiamma del buon esempio, perché non vi è altra cosa che edifichi tanto come la bontà caritatevole.”

Ai genitori, educatori, insegnanti, superiori in genere Francesco ricorda di usare dolcezza soprattutto quando si tratta di muovere qualche osservazione o rimprovero a qualcuno. Qui emerge lo spirito salesiano:
“Anche rimproverandoli, com’è necessario, bisogna usare con essi molto amore e dolcezza. In questo modo, i rimproveri ottengono facilmente qualche buon risultato.
La correzione dettata dalla passione, anche quando ha basi ragionevoli, ha molto meno efficacia di quella che viene unicamente dalla ragione”.
“Vi garantisco che ogni volta che sono ricorso a repliche pungenti, ho dovuto pentirmene. Gli uomini fanno molto di più per amore e carità che per severità e rigore”.

La dolcezza va a braccetto con un’altra virtù: la pazienza. Ecco allora qualche lettera che la consiglia:
“Finché restiamo quaggiù, dobbiamo rassegnarci a portare noi stessi fino a che Dio ci porti in cielo. Bisogna dunque aver pazienza e non pensare mai che possiamo correggere in un giorno le cattive abitudini che abbiamo contratte per la poca cura che abbiamo avuto della nostra salute spirituale […]. Bisogna, riconosciamolo, aver pazienza con tutti, ma in primo luogo con sé stessi”.
Alla signora de Limonjon scrive:
“Non è possibile arrivare in un giorno là dove aspirate: bisogna guadagnare oggi questo punto, domani quell’altro; e così, un passo dopo l’altro, arriveremo a essere padroni di noi stessi; e non sarà una conquista da poco”.

Per Francesco la pazienza è la prima virtù da mettere in cantiere nella costruzione di un solido edificio spirituale.
“L’effetto della pazienza è quello di possedere bene la propria anima e la pazienza è tanto più perfetta quanto più è libera dall’inquietudine e dalla fretta”.
“Abbiate pazienza riguardo alla vostra croce interiore: il Salvatore la permette affinché, un giorno, possiate conoscere meglio quello che siete da voi stessa. Non vedete che l’agitazione del giorno viene calmata dal riposo della notte? Questo vuol dire che la nostra anima non ha bisogno di altro che di abbandonarsi completamente a Dio e di essere disposta a servirlo tanto fra le rose come tra le spine”.

Ecco due lettere concrete: alla signora de la Fléchère scrive:
“Che volete dunque che vi dica circa il ritorno delle vostre miserie, se non che occorre riprendere le armi e il coraggio e combattere più decisamente che mai? Per sistemare i vostri affari dovrete usare molta pazienza e rassegnazione. Dio benedirà il vostro lavoro”.

E alla signora di Travernay aggiunge:
“Dovete saper prendere con pazienza e dolcezza e per amore di Colui che le permette, le noie che vi toccano nel corso della giornata. Perciò elevate spesso il vostro cuore a Dio, implorate il suo aiuto e considerate come principale fondamento della vostra consolazione la fortuna che avete di essere sua!”.

Infine questo testo che io chiamo l’inno alla carità secondo san Francesco di Sales.
“Colui che è dolce non offende nessuno, sopporta volentieri coloro che gli fanno del male, soffre con pazienza i colpi che riceve e non rende male per male. Chi è dolce non si turba mai, ma conforma tutte le sue parole all’umiltà, vincendo il male col bene. Fate sempre le correzioni col cuore e con parole dolci.
In questo modo le correzioni produrranno migliori effetti. Non ricorrete mai alle rappresaglie verso coloro che vi hanno dato dei dispiaceri. Non risentitevi e non adiratevi mai per nessun motivo, perché questa è sempre un’imperfezione”.

(continua)






Il cuore d’oro dell’educazione

Perché la devozione al Sacro Cuore di Gesù fa parte del DNA della Congregazione Salesiana.

Una gran bella chiesa che è costata “sangue e lacrime” a Don Bosco, che, già consumato dalla fatica, spese le sue ultime energie e anni nella costruzione di questo tempio richiesto dal Papa.
È un luogo caro a tutti i Salesiani anche per tanti altri motivi.

La statua dorata del campanile, per esempio, è un segno di riconoscenza: è stata donata dagli ex allievi argentini per ringraziare i Salesiani perché erano venuti nella loro Terra.
Anche perché in una lettera del 1883, don Bosco ha scritto la frase memorabile: «Ricordatevi che l’educazione è cosa di cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne dà in mano le chiavi». La lettera terminava così: «Pregate per me, e credetemi sempre nel SS. Cuore di Gesù».
Perché la devozione al Sacro Cuore di Gesù fa parte del DNA salesiano.
La festa del Sacro Cuore di Gesù vuole incoraggiarci ad avere un cuore vulnerabile. Soltanto un cuore che può essere ferito è in grado di amare. Così, in questa festa, contempliamo il cuore aperto di Gesù per aprire anche i nostri cuori all’amore. Il cuore è il simbolo ancestrale dell’amore e molti artisti hanno dipinto la ferita al cuore di Gesù con l’oro. Dal cuore aperto si irraggia verso di noi il fulgore dorato dell’amore, e la doratura ci mostra inoltre che le nostre fatiche e le nostre ferite possono tramutarsi in qualcosa di prezioso.
Ogni tempio e ogni devozione al Sacro Cuore di Gesù parla dell’Amore di quel cuore divino, il cuore del Figlio di Dio, per ciascuno dei suoi figli e figlie di questa umanità. E parla di dolore, parla di un amore di Dio che non sempre viene ricambiato. Oggi aggiungo un altro aspetto.

La statua del Gesù benedicente che svetta sul campanile della Basilica del Sacro Cuore di Roma

Penso che parli anche del dolore di questo Gesù Signore di fronte alla sofferenza di molte persone, allo scarto di altre, all’immigrazione di altre persone senza un orizzonte, alla solitudine, alla violenza che molte persone subiscono.
Penso che si possa dire che parla di tutto questo, e allo stesso tempo benedice, senza dubbio, tutto ciò che viene fatto a favore degli ultimi, cioè la stessa cosa che faceva Gesù quando percorreva le strade della Giudea e della Galilea.
Per questo è un bel segno che la Casa del Sacro Cuore sia ora la sede centrale della Congregazione.

Tanti cuori d’argento
Una di queste realtà gioiose che indubbiamente allietano il “Cuore di Dio stesso” è quella che ho potuto constatare di persona, ovvero ciò che si sta facendo presso la Fondazione salesiana Don Bosco nelle isole di Tenerife e Gran Canaria. La scorsa settimana sono stato lì e, tra le tante cose che ho vissuto, ho potuto vedere i 140 educatori che lavorano nei vari progetti della Fondazione (accoglienza, alloggio, formazione al lavoro e successivo inserimento lavorativo). E poi ho incontrato un altro centinaio di adolescenti e giovani che usufruiscono di questo servizio di Don Bosco per gli ultimi. Al termine del nostro prezioso incontro, mi hanno fatto un regalo.
Mi sono commosso perché nel lontano 1849 due ragazzini, Carlo Gastini e Felice Reviglio, avevano avuto la stessa idea e, in gran segreto, risparmiando sul cibo e conservando gelosamente le loro piccole mance, erano riusciti a comperare un regalo per l’onomastico di don Bosco. La notte di San Giovanni erano andati a bussare alla porta della camera di don Bosco. Pensate la sua meraviglia e commozione nel vedersi presentare due piccoli cuori d’argento, accompagnati da poche impacciatissime parole.
Il cuore dei ragazzi è sempre lo stesso e anche oggi, nelle Canarie, in una piccola scatola di cartone a forma di cuore, hanno messo più di cento cuori con i nomi di Nain, Rocio, Armiche, Mustapha, Xousef, Ainoha, Desiree, Abdjalil, Beatrice e Ibrahim, Yone e Mohamed e cento altri, esprimendo semplicemente qualcosa che veniva dal cuore; cose sincere di grande valore come queste:
–  Grazie per aver reso possibile tutto questo.
–  Grazie per la seconda possibilità che mi hai dato nella vita.
–  Continuo a lottare. Con te è più facile.
–  Grazie perché mi hai ridato la gioia.
–  Grazie per avermi aiutato a credere che posso fare tutto ciò che mi prefiggo.
–  Grazie per il cibo e la casa.
–  Grazie dal profondo del mio cuore.
–  Grazie per avermi aiutato.
–  Grazie per questa opportunità di crescita.
–  Grazie per aver creduto in noi giovani nonostante la nostra situazione…
E centinaia di espressioni simili, rivolte a don Bosco e agli educatori che in nome di don Bosco sono con loro ogni giorno.
Ho ascoltato quello che hanno condiviso con me, ho sentito alcune delle loro storie (molte delle quali piene di dolore); ho visto i loro sguardi e i loro sorrisi; e mi sono sentito molto orgoglioso di essere un salesiano e di appartenere a una famiglia di fratelli, educatori, educatrici e giovani così splendidi.
Ho pensato, ancora una volta, che don Bosco è più attuale e necessario che mai; e ho pensato alla finezza educativa con cui accompagniamo tanti giovani con grande rispetto e sensibilità per i loro sogni.
Abbiamo recitato insieme una preghiera rivolta al Dio che ci ama tutti, al Dio che benedice i suoi figli e le sue figlie. Una preghiera che ha fatto sentire a proprio agio cristiani, musulmani e indù. In quel momento senza alcun dubbio lo Spirito di Dio ci abbracciava tutti.
Ero felice perché, come don Bosco a Valdocco accoglieva i suoi primi ragazzi, oggi, in tanti Valdocco nel mondo, sta accadendo la stessa cosa.
Quando parliamo dell’amore di Dio, per molti è un concetto troppo astratto. Nel Sacro Cuore di Gesù l’amore di Dio per noi è diventato concreto, visibile e percettibile. Per noi Dio ha preso un cuore umano, nel cuore di Gesù ci ha aperto il suo cuore. Così, attraverso Gesù, possiamo portare i nostri destinatari al cuore di Dio.




San Francesco di Sales. L’Eucaristia (6/8)

(continuazione dall’articolo precedente)

L’EUCARISTIA, IN SAN FRANCESCO DI SALES (6/8)

Francesco riceve la prima Comunione e la Cresima all’età di nove anni circa. Da allora si comunicherà ogni settimana o almeno una volta al mese.
Dio prende possesso del suo cuore e Francesco rimarrà fedele a questa amicizia che diventerà progressivamente l’amore della sua vita.

La fedeltà a una vita cristiana continua e si rafforza nei dieci anni di Parigi. “Si comunica, se non può più spesso, almeno una volta al mese.” E questo per dieci anni!

Sul periodo di Padova sappiamo che andava a messa tutti i giorni e che si comunicava una volta alla settimana. L’Eucaristia unita alla preghiera diventa l’alimento della sua vita cristiana e della sua vocazione. È in questa profonda unità con il Signore che percepisce la Sua volontà: qui matura il desiderio di essere “tutto di Dio”.

Francesco viene ordinato sacerdote il 18 dicembre 1593 e l’Eucaristia sarà il cuore delle sue giornate e la forza del suo spendersi per gli altri.
Ecco alcune testimonianze, tratte dai Processi di beatificazione:
“Era facile notare come si tenesse in profondo raccoglimento e attenzione davanti a Dio: gli occhi modestamente abbassati, il suo volto era tutto raccolto con una dolcezza e una serenità così grande che coloro che lo osservavano attentamente ne erano colpiti e commossi”.

“Quando celebrava la S. Messa era completamente diverso da com’era di solito: volto sereno, senza distrazioni e, al momento della comunione, quelli che lo vedevano erano profondamente colpiti dalla sua devozione.”

San Vincenzo de Paoli aggiunge:
“Richiamando alla mente le parole del servo di Dio, provo una tale ammirazione che sono portato a vedere in lui l’uomo che più di tutti ha riprodotto il Figlio di Dio vivente sulla terra”.

Sappiamo già della sua partenza nel 1594 come missionario per il Chiablese.
I primi mesi li trascorre al riparo della fortezza degli Allinges. Visitando quello che resta di questa fortezza, si rimane impressionati dalla cappella, rimasta intatta: piccola, buia, gelida, rigorosamente in pietra. Qui Francesco ogni mattino, verso le quattro, celebra l’Eucaristia e sosta in preghiera, prima di scendere a Thonon con il cuore colmo di carità e di misericordia, attinte al divino sacramento.
Francesco trattava la gente con rispetto, anzi con compassione e “se gli altri miravano a farsi temere, egli desiderava farsi amare ed entrare negli animi per la porta del compiacimento” (J.P. Camus).

È l’Eucaristia che sostiene le fatiche iniziali: non risponde agli insulti, alle provocazioni, al linciaggio; si relaziona con tutti con cordialità.
La sua prima predica da suddiacono era stata sul tema dell’Eucaristia e gli sarà certamente servita soprattutto ora, perché “questo augusto sacramento” sarà il suo cavallo di battaglia: nei sermoni tenuti nella chiesa di sant’Ippolito, sovente affronterà questo tema ed esporrà con chiarezza e passione il punto di vista cattolico.

Questa testimonianza, indirizzata all’amico A. Favre, dice la qualità e l’ardore della sua predicazione su un tema così importante:
“Ieri poco mancò che le persone più in vista della città venissero pubblicamente ad ascoltare la mia predica, avendo sentito dire che avrei parlato dell’augusto sacramento dell’Eucaristia. Avevano tanta voglia di sentirmi esporre il pensiero cattolico circa questo mistero che quelli che non avevano osato venire pubblicamente, mi ascoltarono da un posto segreto nel quale non potevano essere visti.”

Il Corpo del Signore trasfonde a poco a poco nel suo cuore di pastore dolcezza, mitezza, bontà per cui anche la sua voce di predicatore ne risente: tono tranquillo e benevolo, mai aggressivo o polemico!
“Sono convinto che chi predica con amore, predica a sufficienza contro gli eretici, anche se non dice una sola parola né discute con loro”.

Eloquente più di un trattato questa esperienza avvenuta il 25 maggio 1595.
Alle tre del mattino, mentre meditava profondamente sul santissimo e augustissimo sacramento dell’Eucaristia, si sentì rapito da una così grande abbondanza di Spirito Santo che il suo cuore si lasciò andare in un effluvio di delizie, in tal modo da essere costretto alla fine a gettarsi per terra ed esclamare: “Signore, ritirati da me perché non posso più sostenere la sovrabbondanza della tua dolcezza”.

Nel 1596, dopo più di due anni di catechesi, decide di celebrare le tre Messe di Natale. Furono celebrate tra l’entusiasmo e la commozione generale. Francesco era felice! Questa messa di mezzanotte del Natale 1596 fu uno dei vertici della sua vita. In questa Messa c’era la Chiesa, la Chiesa cattolica ristabilita nel suo fondamento vivente.

Il Concilio di Trento aveva caldeggiato la pratica delle sante Quarantore, che consistevano nell’adorazione del Santissimo Sacramento per tre giorni consecutivi da parte di tutta la comunità cristiana.
A inizio settembre 1597 si svolsero ad Annemasse, alle porte di Ginevra, con la presenza del vescovo, di Francesco e di altri collaboratori, con un frutto molto più grande di quello che si sperava. Furono giorni intensi di preghiera, processioni, prediche, messe. Oltre quaranta parrocchie vi parteciparono con un numero incredibile di persone.

Visto il successo, l’anno seguente si svolsero a Thonon. Fu una festa di vari giorni che superò ogni attesa. Tutto finì a notte inoltrata, con l’ultimo sermone tenuto da Francesco. Predicò sull’Eucaristia.

Molti studiosi della vita e delle opere del santo sostengono che solo il suo grande amore per l’Eucaristia può spiegare il “miracolo” del Chiablese, cioè come questo giovane prete in soli quattro anni abbia potuto ricondurre tutta la vasta regione alla Chiesa.
E questo amore durò tutta la vita, fino alla fine. Nell’ultimo incontro che ebbe a Lione con le sue Figlie, le Visitandine, ormai in fin di vita, parlò loro della confessione e della comunione.

Che cos’era l’Eucarestia per il nostro santo? Era anzitutto:

Il cuore della sua giornata, che lo faceva vivere in un’intima comunione con Dio.
“Non ti ho ancora parlato del sole degli esercizi spirituali: il santissimo e sommo Sacrificio e Sacramento della Messa, centro della religione cristiana, cuore della devozione, anima della pietà”.

È la consegna fiduciosa della sua vita a Dio al quale chiede forza per continuare la sua missione con umiltà e carità.
“Se il mondo vi chiede perché vi comunicate così spesso, rispondete che è per imparare ad amare Dio, per purificarvi dalle vostre imperfezioni, per liberarvi dalle vostre miserie, per trovare forza nelle vostre debolezze e consolazioni nelle vostre afflizioni. Due tipi di persone devono comunicarsi sovente: i perfetti, perché essendo ben disposti farebbero un torto a non accostarsi alla fonte e sorgente della perfezione; e gli imperfetti per poter tendere alla perfezione. I forti per non indebolirsi e deboli per rafforzarsi. I malati per guarire e i sani per non ammalarsi”.

L’Eucaristia crea in Francesco una profonda unità con tante persone.
“Questo sacramento non solo ci unisce a Gesù Cristo, ma anche al nostro prossimo, con quelli che partecipano allo stesso cibo e ci rende una cosa sola con loro. E uno dei principali frutti è la mutua carità e la dolcezza di cuore gli uni verso gli altri dal momento che apparteniamo allo stesso Signore e in Lui siamo uniti cuore a cuore gli uni gli altri”.

È una progressiva trasformazione in Gesù.
“Coloro che fanno una buona digestione corporale risentono un rafforzamento per tutto il corpo, per la distribuzione generale che si fa del cibo. Così, Figlia mia, quelli che fanno una buona digestione spirituale risentono che Gesù Cristo, che è il loro cibo, si diffonde e comunica a tutte le parti della loro anima e del loro corpo. Essi hanno Gesù Cristo nel cervello, nel cuore, nel petto, negli occhi, nelle mani, nelle orecchie, nei piedi. Ma che fa questo Salvatore dappertutto? Raddrizza tutto, tutto purifica, tutto mortifica, vivifica ogni cosa. Ama nel cuore, capisce nel cervello, anima nel petto, vede negli occhi, parla nella lingua, e così via: fa tutto in tutti e allora viviamo, non noi, ma è Gesù Cristo che vive in noi.
Trasforma anche i giorni e le notti, per cui “Le notti sono giorni quando Dio è nel nostro cuore e i giorni diventano notti quando Lui non c’è”.

(continua)






Vera Grita, mistica dell’Eucarestia

            Nel centenario della nascita della Serva di Dio Vera Grita, Laica, Salesiana cooperatrice (Roma 28 gennaio 1923 – Pietra Ligure 22 dicembre 1969) viene presentato un profilo biografico e spirituale della sua testimonianza.

Roma, Modica, Savona
            Vera Grita nasce a Roma il 28 gennaio 1923, secondogenita di Amleto, fotografo di professione da generazioni, e di Maria Anna Zacco della Pirrera, di nobili origini. La famiglia, molto unita e affiatata, era composta anche dalla sorella maggiore Giuseppa (detta Pina) e dalle minori Liliana e Santa Rosa (detta Rosa). Il 14 dicembre dello stesso anno Vera ricevette il Battesimo nella parrocchia di San Gioacchino in Prati, sempre a Roma.

            Vera manifesta fin da bambina un carattere buono e mite che non verrà scalfito dagli eventi negativi che si abbattono su di lei: undicenne deve lasciare la famiglia e distaccarsi dagli affetti più cari insieme alla sorella minore Liliana, per raggiungere a Modica, in Sicilia, le zie paterne che si sono rese disponibili ad aiutare i genitori di Vera colpiti da dissesto finanziario per la crisi economica del 1929-1930. In questo periodo Vera manifesta la sua tenerezza verso la sorella più piccola standole vicino quando la sera quest’ultima piange per la nostalgia della mamma. Vera è attratta da un grande quadro del Sacro Cuore di Gesù, appeso nella sala dove con le zie ogni giorno recita le preghiere del mattino e il Rosario. Rimane spesso in silenzio davanti a quel dipinto e ripete di frequente che da grande vuole diventare suora. Il giorno della sua Prima Comunione (24 maggio 1934) non vuole togliersi l’abito bianco perché teme di non dimostrare abbastanza a Gesù la gioia di averlo nel cuore. A scuola ottiene buoni risultati ed è socievole con le compagne di classe.
            A diciassette anni, nel 1940, rientra in famiglia. La famiglia si è trasferita a Savona e Vera, l’anno successivo, ottiene il diploma presso l’Istituto Magistrale. Vera ha vent’anni quando deve affrontare un nuovo e doloroso distacco per la morte prematura del padre Amleto (1943) e rinuncia a proseguire gli studi universitari cui aspirava, per aiutare economicamente la famiglia.

Nel giorno della Prima Comunione

Il dramma della guerra
            Ma è la Seconda guerra mondiale con il bombardamento su Savona del 1944 che arrecherà a Vera un danno irreparabile: esso determinerà il corso successivo della sua vita. Vera viene travolta e calpestata dalla folla che, in fuga, cerca riparo in una galleria-rifugio.

Vera intorno ai 14-15 anni

La medicina chiama sindrome da schiacciamento le conseguenze fisiche che si verificano in seguito a bombardamenti, terremoti, crolli strutturali, a causa dei quali un arto o tutto il corpo sono schiacciati. Quello cui si assiste poi è un danno a livello muscolare che si ripercuote su tutto l’organismo, compromettendo soprattutto i reni. Per lo schiacciamento, Vera riporterà lesioni lombari e dorsali che creeranno danni irreparabili alla sua salute con febbri, mal di testa, pleuriti. Inizia con questo avvenimento drammatico la “Via Crucis” di Vera che durerà 25 anni, durante i quali alternerà al lavoro lunghi ricoveri ospedalieri. A 32 anni le viene diagnosticato il morbo di Addison che la consumerà debilitando il suo organismo: Vera arriverà a pesare soli 40 chili. A 36 anni Vera subisce un intervento di isterectomia totale (1959) che le causerà una menopausa precoce con conseguente acuirsi della astenia di cui già soffriva a causa del morbo di Addison.
            Nonostante le sue precarie condizioni fisiche, Vera sostiene e vince un concorso come insegnante nelle scuole elementari. Si dedicherà all’insegnamento durante gli ultimi dieci anni della sua vita terrena prestando servizio in sedi scolastiche dell’entroterra ligure difficili da raggiungere (Rialto, Erli, Alpicella, Deserto di Varazze), destando stima e affetto tra le colleghe, nei genitori e negli scolari.

Salesiana cooperatrice
            A Savona, nella parrocchia salesiana di Maria Ausiliatrice, partecipa alla Messa ed è assidua al sacramento della Penitenza. Dal 1963 è suo confessore il salesiano don Giovanni Bocchi. Salesiana Cooperatrice dal 1967, realizza la sua chiamata nel dono totale di sé al Signore, che in modo straordinario si dona a lei, nell’intimo del suo cuore, con la “Voce”, con la “Parola”, per comunicarle l’Opera dei Tabernacoli Viventi. Sottopone tutti gli scritti al direttore spirituale, il salesiano don Gabriello Zucconi, e custodisce nel silenzio del proprio cuore il segreto di quella chiamata, guidata dal divino Maestro e dalla Vergine Maria che l’accompagneranno lungo la via della vita nascosta, della spoliazione e dell’annientamento di sé.

            Sotto l’impulso della grazia divina e accogliendo la mediazione delle guide spirituali, Vera Grita risponde al dono di Dio testimoniando nella sua vita, segnata dalla fatica della malattia, l’incontro con il Risorto e dedicandosi con eroica generosità all’insegnamento e all’educazione degli allievi, sovvenendo alle necessità della famiglia e testimoniando una vita di evangelica povertà. Centrata e salda nel Dio che ama e sostiene, con grande fermezza interiore è resa capace di sopportare le prove e le sofferenze della vita. Sulla base di tale solidità interiore da testimonianza di un’esistenza cristiana fatta di pazienza e costanza nel bene.
            Muore il 22 dicembre 1969 a Pietra Ligure all’ospedale di Santa Corona in una cameretta dove aveva trascorso gli ultimi sei mesi di vita in un crescendo di sofferenze accettate e vissute in unione a Gesù Crocifisso. “L’anima di Vera – scriverà don Giuseppe Borra, Salesiano, suo primo biografo – con i messaggi e le lettere entra nella schiera di quelle anime carismatiche chiamate ad arricchire la Chiesa con fiamme di amore a Dio e a Gesù Eucaristico per la dilatazione del Regno”. È uno di quei chicchi di grano che il Cielo ha lasciato cadere sulla Terra per portare frutto, a suo tempo, nel silenzio e nel nascondimento.

In pellegrinaggio a Lourdes

Vera di Gesù
            La vita di Vera Grita si è svolta nel breve arco di tempo di 46 anni segnati da eventi storici drammatici quali la grande crisi economica del 1929-1930 e la Seconda guerra mondiale e si conclude poi alle soglie di un altro evento storico significativo: la contestazione del 1968, che avrà ripercussioni profonde a livello culturale, sociale, politico, religioso ed ecclesiale.

Con alcuni famigliari

La vita di Vera inizia, si sviluppa e si conclude in mezzo a questi eventi storici dei quali ella subisce le conseguenze drammatiche sul piano familiare, affettivo e fisico. Al tempo stesso, la sua storia evidenzia come ella abbia attraversato questi eventi affrontandoli con la forza della fede in Gesù Cristo, testimoniando così una fedeltà eroica all’Amore crocifisso e risorto. Fedeltà che, al termine della sua vita terrena, il Signore ripagherà donandole il nome nuovo: Vera di Gesù. “Ti ho donato il mio Nome santo, e d’ora in poi ti chiamerai e sarai ‘Vera di Gesù’” (Messaggio del 3 dicembre 1968).
            Provata dalle diverse malattie che, nel tempo, delineano una situazione di generalizzata e irrecuperabile usura fisica, Vera vive nel mondo senza essere del mondo, mantenendo stabilità ed equilibrio interiori dovuti alla sua unione con Gesù Eucaristia ricevuto quotidianamente, e alla consapevolezza della sua Permanenza eucaristica nella sua anima. È pertanto la Santa Messa il centro della vita quotidiana e spirituale di Vera, dove, come piccola “goccia d’acqua”, ella si unisce al vino per essere inseparabilmente unita all’Amore infinito che continuamente si dona, salva e sostiene il mondo.
            Pochi mesi prima di morire Vera scrive al padre spirituale, don Gabriello Zucconi: “Le malattie che mi porto dentro da più di venti anni sono degenerate, divorata dalla febbre e dai dolori in tutte le ossa, io sono viva nella Santa Messa”. Ancora: “Rimane la fiamma della Santa Messa, la scintilla divina che mi anima, mi dà vita, poi il lavoro, i ragazzi, la famiglia, l’impossibilità di trovare in essa un posticino tranquillo ove isolarmi per pregare, ovvero la stanchezza fisica dopo la scuola”.

L’Opera dei Tabernacoli Viventi
            Nei lungi anni di sofferenza, consapevole della sua fragilità e limitatezza umana, Vera impara ad affidarsi a Dio e ad abbandonarsi totalmente alla sua volontà. Mantiene tale docilità anche quando il Signore le comunica l’Opera dei Tabernacoli Viventi, negli ultimi 2 anni e 4 mesi di vita terrena. L’amore per la volontà di Dio conduce Vera al dono totale di sé stessa: dapprima con i voti privati e il voto di “piccola vittima” per i sacerdoti (2 febbraio 1965); successivamente con l’offerta della vita (5 novembre 1968) per la nascita e lo sviluppo dell’Opera dei Tabernacoli Viventi, sempre in piena obbedienza a chi la dirige spiritualmente.
            Il 19 settembre 1967 iniziò l’esperienza mistica che la invitava a vivere a fondo la gioia e la dignità di figlia di Dio, nella comunione con la Trinità e nell’intimità eucaristica con Gesù ricevuto nella S. Comunione e presente nel Tabernacolo. “Il vino e l’acqua siamo noi: Io e te, tu e Io. Siamo una cosa sola: Io scavo in te, scavo, scavo per costruirmi un tempio: lasciami lavorare, non pormi ostacoli […] la volontà del Padre mio è questa: che Io rimanga in te, e tu in Me. Insieme porteremo gran frutto”. Sono 186 i messaggi che costituiscono l’Opera dei Tabernacoli Viventi che Vera, lottando con il timore di essere vittima di un inganno, scrisse in obbedienza a don Zucconi.
            Il “Portami con te” esprime in modo semplice l’invito di Gesù fatto a Vera. Dove, portami con te? Dove vivi: Vera viene educata e preparata da Gesù a vivere in unione con Lui. Gesù vuole entrare nella vita di Vera, nella sua famiglia, nella scuola dove insegna. Un invito rivolto a tutti i cristiani. Gesù vuole uscire dalla Chiesa di pietra e vuole vivere nel nostro cuore con l’Eucaristia, con la grazia della permanenza eucaristica nell’anima. Vuole venire con noi dove andiamo, per vivere la nostra vita familiare, e vuole raggiungere vivendo in noi le persone che vivono lontane da lui.

Nella scia del carisma salesiano
            Nell’Opera dei Tabernacoli Viventi sono espliciti i riferimenti a Don Bosco e al suo “da mihi animas cetera tolle”, a vivere l’unione con Dio e la fiducia in Maria Ausiliatrice, per donare Dio attraverso un apostolato instancabile che cooperi alla salvezza dell’umanità. L’Opera, per volontà del Signore, viene affidata in prima istanza ai figli di Don Bosco per la sua realizzazione e diffusione nelle parrocchie, negli istituti religiosi e nella Chiesa: “Ho scelto i Salesiani poiché essi vivono con i giovani, ma la loro vita di apostolato dovrà essere più intensa, più attiva, più sentita”.

            La causa di Beatificazione della Serva di Dio Vera Grita è stata avviata il 22 dicembre 2019, 50° anniversario della sua morte, a Savona con la presentazione del Supplice libello al vescovo diocesano mons. Calogero Marino da parte del Postulatore don Pierluigi Cameroni. Attore della Causa è la Congregazione salesiana. L’Inchiesta diocesana è stata celebrata dal 10 aprile al 15 maggio 2022 presso la Curia di Savona. Il Dicastero delle Cause dei Santi ha dato la validità giuridica a tale Inchiesta il 16 dicembre 2022.
            Come ha scritto il Rettor Maggiore nella Strenna di quest’anno: “Vera Grita attesta anzitutto un orientamento eucaristico totalizzante, che si fa esplicito soprattutto negli ultimi anni della sua esistenza. Non ha pensato in termini di programmi, di iniziative apostoliche, di progetti: ha accolto il “progetto” fondamentale che è Gesù stesso, fino a farne vita della propria vita. Il mondo odierno attesta un grande bisogno di Eucaristia. Il suo cammino nella faticosa operosità dei giorni offre anche una nuova prospettiva laica alla santità, divenendo esempio di conversione, accettazione e santificazione per i “poveri”, i “fragili”, i “malati” che in lei possono riconoscersi e ritrovare speranza. Come Salesiana Cooperatrice, Vera Grita vive e lavora, insegna e incontra la gente con una spiccata sensibilità salesiana: dall’amorevolezza della sua presenza discreta ma efficace alla sua capacità di farsi amare da bambini e famiglie; dalla pedagogia della bontà che attua con il suo costante sorriso alla generosa prontezza con cui, incurante dei disagi, si volge di preferenza agli ultimi, ai piccoli, ai lontani, ai dimenticati; dalla generosa passione per Dio e la Sua Gloria alla via della croce, lasciandosi togliere tutto nella sua condizione di malata”.

Nel giardino di Santa Corona nel 1966

Per conoscere di più:
Vera Grita, una mistica dell’Eucaristia.
Epistolario di Vera Grita e dei sacerdoti salesiani don Bocchi, don Borra e don Zucconi.
Autore: Centro studi Opera Tabernacoli Viventi. A cura di: Scrimieri Pedriali Maria Rita.
Vedi QUI.

Portami con te!
L’Opera dei Tabernacoli Viventi nei manoscritti originali di Vera Grita.
Autore: Centro studi Opera Tabernacoli Viventi.
Vedi QUI.




Don Bosco e la Bibbia

In un capitolo della Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione promulgata dal Concilio Vaticano II, che riguarda «la Sacra Scrittura nella vita della Chiesa», si invitano vivamente tutti i fedeli cristiani alla lettura frequente del Libro Sacro.

È un fatto che ai tempi di Don Bosco in Piemonte, nella catechesi parrocchiale e scolastica, la lettura personale del testo biblico non era ancora sufficientemente praticata. Più che ricorrere direttamente a esso si usava fare una catechesi sulla dottrina cattolica con esempi ricavati da Compendi di Storia Sacra.

E così si faceva anche a Valdocco.

Tutto questo non vuol dire che Don Bosco non leggesse e meditasse personalmente la Bibbia. Già nel Seminario di Chieri egli poteva trovare a sua disposizione la Bibbia del Martini, oltre a noti commentari come quelli del Calmet. Ma è un fatto che quando egli era in Seminario venivano prevalentemente sviluppati trattati di carattere dottrinale più che studi biblici propriamente detti, anche se i trattati dogmatici includevano evidentemente citazioni bibliche. Il chierico Bosco non si accontentò di ciò e si fece autodidatta in materia.

Nell’estate del 1836 Don Cafasso, che ne era stato richiesto, gli propose di tenere scuola di greco ai convittori del Collegio del Carmine di Torino, sfollati a Montaldo per la minaccia del colera. Ciò lo spinse ad occuparsi seriamente della lingua greca per rendersi idoneo a insegnarla.

Con l’aiuto di un padre gesuita profondo conoscitore del greco, il chierico Bosco fece grandi progressi. In solo quattro mesi il colto gesuita gli fece tradurre quasi tutto il Nuovo Testamento, e poi, per quattro anni ancora ogni settimana controllava qualche composizione o versione greca che il chierico Bosco gli spediva ed egli puntualmente rivedeva con le opportune osservazioni. «In questa maniera, – dice Don Bosco stesso -, potei giungere a tradurre il greco quasi come si farebbe del latino».

Il suo primo biografo assicura che il 10 febbraio del 1886, ormai vecchio e malato, Don Bosco alla presenza dei suoi discepoli andava recitando per intero alcuni capitoli delle Lettere di San Paolo in greco e in latino.

Dalle stesse Memorie Biografiche veniamo a sapere che il chierico Giovanni Bosco, d’estate, al Sussambrino, dove abitava con il fratello Giuseppe, soleva salire in cima alla vigna di proprietà Turco e lì si dedicava a quegli studi ai quali non aveva potuto attendere nel corso dell’anno scolastico, specialmente allo studio della Storia del Vecchio e del Nuovo Testamento del Calmet, della geografia dei Luoghi Santi, e dei principi della lingua ebraica, acquistandone sufficienti cognizioni.

Ancora nel 1884 si ricordava dello studio fatto dell’ebraico e fu sentito in Roma entrare con un professore di lingua ebraica sulla spiegazione di certe frasi originali dei profeti, facendo confronti con i testi paralleli di vari libri della Bibbia. E si occupava pure di una traduzione del Nuovo Testamento dal greco.

Don Bosco, quindi, come autodidatta, fu uno studioso attento degli scritti della Bibbia e se ne venne a fare una sicura conoscenza.

Un giorno, ancora studente di teologia, volle andare a trovare il suo vecchio insegnante e amico Don Giuseppe Lacqua che abitava a Ponzano. Questi, informato della proposta visita, gli scrisse una lettera nella quale gli diceva, tra l’altro, «giunto che sarà il tempo di venire a trovarmi, ricordatevi di portarmi i tre volumetti della Sacra Bibbia».

Prova questa, evidente, che il chierico Bosco li studiava.

Giovane sacerdote, discorrendo con il suo parroco, Teologo Cinzano, venne con lui a parlare della mortificazione cristiana. Don Bosco allora gli citò le parole del Vangelo: «Si quis vult post me venire, abneget semetipsum, et tollat crucem suam quotidie et sequatur me». Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua). Il teologo Cinzano lo interruppe dicendogli:

— Tu aggiungi una parola, quel quotidie (= ogni giorno) che nel vangelo non c’è».

E Don Bosco:

Questa parola non si trova in tre evangelisti, ma c’è nel vangelo di San Luca. Consulti il capo nono, versetto 23 e vedrà che io non aggiungo nulla.

Il buon Parroco, che pur era valente nelle discipline ecclesiastiche, non aveva notato il versetto di San Luca, mentre Don Bosco vi aveva fatto attenzione. Più volte Don Cinzano raccontò con gusto tale incidente.

L’impegno di Don Bosco a Valdocco

Don Bosco poi dimostrò in tanti altri modi questo suo profondo interesse e studio della Sacra Scrittura, e molto fece poi a Valdocco per farne conoscere i contenuti ai suoi figli.

Si pensi alla sua edizione della Storia Sacra, uscita la prima volta nel 1847 e poi ristampata in 14 edizioni e decine e decine di ristampe sino al 1964.

Si pensi a tutti gli altri suoi scritti correlati con la storia biblica, come Maniera facile per imparare la Storia Sacra, pubblicato la prima volta nel 1850; la Vita di San Pietro, uscita nel gennaio 1857 come fascicolo delle «Letture Cattoliche»; la Vita di San Paolo, uscita nel mese di aprile dello stesso anno come fascicolo delle «Letture Cattoliche»; la Vita di San Giuseppe, uscita nel fascicolo delle «Letture Cattoliche» del marzo 1867; ecc.

Don Bosco poi teneva per segnacoli nel suo Breviario massime della Sacra Scrittura, come la seguente: «Bonus Dominus et confortans in die tribulationis».

Fece dipingere sulle pareti del porticato di Valdocco sentenze della Sacra Scrittura come la seguente: «Omnis enim, qui petit accipit, et qui quaerit invenit, et pulsanti aperietur».

Sin dal 1853 volle che i suoi chierici studenti di filosofia e di teologia studiassero ogni settimana dieci versetti del Nuovo Testamento e lo recitassero letteralmente al mattino del giovedì.

All’inaugurazione del corso tutti i chierici tenevano in mano il volume della Bibbia Volgata latina e lo avevano aperto sulle prime linee del Vangelo di San Matteo. Ma Don Bosco, recitata la preghiera, prese a dire in latino il versetto 18 del capo 16° di Matteo: «Et ego dico tibi quia tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam»: Ed io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. Voleva proprio che i suoi figli tenessero sempre nella mente e nel cuore questa evangelica verità.