L’educazione della coscienza con san Francesco di Sales

            Con ogni probabilità è stato l’avvento della Riforma protestante a porre all’ordine del giorno il problema della coscienza, e, più precisamente, della «libertà di coscienza». In una lettera del 1597 a Clemente VIII, il prevosto di Sales deplorava la «tirannia» che lo «stato di Ginevra» faceva pesare «sulle coscienze dei cattolici». Domandava alla santa Sede di intervenire presso il re di Francia per ottenere che i Ginevrini concedessero «ciò che chiamano libertà di coscienza». Contrario a soluzioni militari della crisi protestante, faceva intravedere nella libertas conscientiae una possibile via d’uscita dal confronto violento, a condizione che la reciprocità fosse rispettata. Rivendicata da Ginevra a favore della Riforma, e da Francesco di Sales a beneficio del cattolicesimo, la libertà di coscienza stava per divenire uno dei pilastri della mentalità moderna.

Dignità della persona umana
            La dignità dell’individuo risiede nella coscienza, e la coscienza è in primo luogo sinonimo di sincerità, onestà, franchezza, convinzione. Il prevosto di Sales riconosceva ad esempio, «per scaricare la sua coscienza», che il progetto delle Controversie gli era stato in qualche modo imposto da altri Quando presentava le sue ragioni a favore della dottrina e della pratica cattolica, si preoccupava di precisare che lo faceva «in coscienza». «Ditemi in coscienza», domandava ai suoi contradditori. La «buona coscienza», infatti, fa sì che uno eviti certi atti che lo mettono in contraddizione con sé stesso.
            Tuttavia, la coscienza soggettiva individuale non può essere presa sempre come garante della verità oggettiva. Non si è sempre obbligati a credere ciò che uno vi dice in coscienza. «Mostratemi chiaramente – dice il prevosto ai signori di Thonon – che non mentite affatto, che proprio non mi ingannate, quando mi dite che in coscienza avete avuto questa o quell’ispirazione». La coscienza può essere vittima dell’illusione, in forma volontaria o anche involontariamente. «Gli avari incalliti, non soltanto non confessano di esserlo, ma non pensano in coscienza di esserlo».
            La formazione della coscienza è un compito essenziale, perché la libertà di coscienza comporta il rischio di «far il bene e il male», ma «scegliere il male non è usare, bensì abusare della nostra libertà». È un compito duro, perché la coscienza talvolta ci appare come un avversario che «combatte sempre contro noi e per noi»: essa «oppone costante resistenza alle nostre cattive inclinazioni», ma lo fa «per la nostra salvezza». Quando uno pecca, «il rimorso interiore si muove contro la sua coscienza con la spada in pugno», ma lo fa per «trafiggerla con un santo timore».
            Un mezzo per esercitare una libertà responsabile è la pratica dell’«esame di coscienza». Fare l’esame di coscienza è come seguire l’esempio delle colombe che si guardano «con occhi limpidi e puri», «si puliscono con cura e si ornano meglio che possono». Filotea è invitata a fare questo esame tutte le sere, prima di andare a coricarsi, chiedendosi «come ci si è comportati nelle varie ore della giornata; per farlo più facilmente si penserà a dove, con chi e a quali occupazioni ci si è dedicati».
            Una volta all’anno dovremo fare un esame approfondito dello «stato della nostra anima» davanti a Dio, al prossimo e a noi stessi, senza dimenticare un «esame degli affetti della nostra anima». L’esame – dice Francesco di Sales alle visitandine – vi condurrà a sondare «a fondo la vostra coscienza».
            Come alleggerire la coscienza quando uno la sente carica di un errore o di uno fallo? Certuni lo fanno in malo modo, giudicando e accusando gli altri «di vizi di cui sono succubi», pensando così di «addolcire i rimorsi della loro coscienza». In tal modo uno moltiplica il rischio di fare giudizi temerari. Al contrario, «coloro che si prendono correttamente cura della loro coscienza non sono affatto soggetti a giudizi temerari». Conviene considerare a parte il caso dei genitori, degli educatori e dei responsabili del bene pubblico, perché «una buona parte della loro coscienza consiste nel vegliare attentamente sulla coscienza degli altri».

Il rispetto di sé stessi
            Dall’affermazione della dignità e della responsabilità di ognuno dovrà nascere il rispetto di sé. Già Socrate e tutta l’antichità pagana e cristiana ne avevano mostrato il cammino:

È un detto dei filosofi, che però è stato ritenuto valido dai dottori cristiani: «Conosci te stesso», ossia, conosci l’eccellenza della tua anima per non avvilirla e disprezzarla.

            Certi nostri atti costituiscono non solo un’offesa di Dio, ma anche un’offesa della dignità della persona umana e della ragione. Le loro conseguenze sono deplorevoli:

La rassomiglianza e immagine di Dio, che portiamo in noi, viene imbrattata e sfigurata, la dignità del nostro spirito disonorata, e noi siamo resi simili agli animali senza ragione […], rendendoci schiavi delle nostre passioni e rovesciando l’ordine della ragione.

            Ci sono estasi e rapimenti che ci innalzano al di sopra della nostra condizione naturale e altri che ci abbassano: «O uomini, fino a quando sarete così insensati – scrive l’autore del Teotimo – dal voler calpestare la vostra dignità naturale, discendendo volontariamente e precipitandovi nella condizione delle bestie?».
            Il rispetto di sé stessi consentirà di evitare due pericoli opposti: l’orgoglio e il disprezzo dei doni che uno ha. In un secolo in cui il senso dell’onore era esaltato al massimo, Francesco di Sales ha dovuto intervenire per denunciare misfatti, in particolare nel problema del duello, che gli faceva «rizzare i capelli in testa», e più ancora l’orgoglio insensato che ne era la causa. «Sono scandalizzato» – scriveva alla sposa di un marito duellante – ; «in verità, non riesco a pensare come si possa avere un coraggio tanto sregolato persino per bagattelle e cose da nulla». Battendosi in duello è come se «diventassero l’uno carnefice dell’altro».
            Altri, al contrario, non osano riconoscere i doni ricevuti e peccano così contro il dovere della riconoscenza. Francesco di Sales denuncia «certa falsa e sciocca umiltà che impedisce di scoprire il buono che c’è in loro». Hanno torto, perché «i beni che Dio ha posto in noi vanno riconosciuti, stimati e onorati sinceramente».
            Il primo prossimo che devo rispettare e amare, sembra voler dire il vescovo di Ginevra, è il proprio io. Il vero amore verso me stesso e il rispetto dovutogli esigono che tenda alla perfezione e che mi corregga, se necessario, ma dolcemente, ragionevolmente e «seguendo la strada della compassione» piuttosto che quella dell’ira e del furore.
            Esiste infatti un amore di sé stessi non soltanto legittimo, ma anche benefico e comandato: «La carità ben ordinata incomincia da sé stessi» – dice il proverbio – e rispecchia bene il pensiero di Francesco di Sales, ma a condizione di non confondere l’amore di sé con l’amor proprio. L’amore di sé è buono, e Filotea è invitata a interrogarsi sul modo con cui ama sé stessa:

Tenete un buon ordine nell’amore di voi stessa? Perché soltanto il disordinato amore di noi stessi può mandarci in rovina. Ora, l’amore ordinato vuole che amiamo l’anima più del corpo, che cerchiamo di procurarci le virtù più di ogni altra cosa.

            Al contrario, l’amor proprio è un amore egoista, «narcisista», gonfio di sé stesso, geloso della propria bellezza e unicamente preoccupato del proprio interesse: «Narciso – dicono i profani – era un giovane cosi sdegnoso da non voler offrire il proprio amore a nessun altro; e infine, contemplandosi in una limpida fontana fu totalmente rapito dalla sua bellezza».

Il «rispetto dovuto alle persone»
            Se si rispetta sé stessi si sarà più preparati e disposti a rispettare gli altri. Il fatto di essere «l’immagine e la somiglianza di Dio» ha come corollario l’asserto secondo cui «tutti gli esseri umani godono della stessa dignità». Francesco di Sales, pur vivendo in una società segnata dall’antico regime, fortemente disuguale, ha promosso un pensiero e una prassi caratterizzate dal «rispetto dovuto alle persone».
            Bisogna iniziare dai bambini. La madre di san Bernardo – dice l’autore della Filotea – amava i suoi figli appena nati «con rispetto come una cosa sacra che Dio le aveva affidato». Un rimprovero molto grave rivolto dal vescovo di Ginevra ai pagani riguardava il loro disprezzo della vita di esseri indifesi. Il rispetto del bimbo che sta per nascere emerge in questo passo di una lettera, redatta secondo la retorica barocca dell’epoca, indirizzata da Francesco di Sales a una donna incinta. La incoraggia spiegandole che il bimbo che si sta formando nelle sue viscere non è soltanto «un’immagine vivente della divina Maestà», ma anche l’immagine di sua madre. Raccomanda a un’altra donna:

Offrite sovente alla gloria eterna del vostro Creatore la creaturina alla cui formazione vi ha voluto assumere come sua cooperatrice.

            Un altro risvolto del rispetto dovuto agli altri riguarda il tema della libertà. La scoperta di nuove terre aveva avuto, come conseguenza nefasta, il riemergere della schiavitù, che richiamava le pratiche degli antichi romani al tempo del paganesimo. La vendita di esseri umani li degradava al rango delle bestie:

Un giorno, Marcantonio comprò da un mercante due giovanetti; allora, come avviene ancora oggi in qualche contrada, si vendevano i bambini; c’erano degli uomini che se li procuravano e poi li trafficavano come si fa per i cavalli nei nostri paesi.

            Il rispetto degli altri è continuamente minacciato in forma più sottile dalla maldicenza e dalla calunnia. Francesco di Sales insiste parecchio sui «peccati di lingua». Un capitolo della Filotea che tratta esplicitamente di tale argomento è intitolato L’onestà nelle parole e rispetto che si deve alle persone. Rovinare la reputazione di qualcuno è commettere un «omicidio spirituale»; è sottrarre «la vita civile» a colui di cui si parla male. Così pure, «biasimando il vizio», ci si sforzerà di risparmiare il più possibile «la persona implicata in esso».
            Certe categorie di persone sono facilmente denigrate o disprezzate. Francesco di Sales difende la dignità della gente del popolo fondandosi sul Vangelo: «San Pietro – commenta – era un uomo rude, grossolano, un vecchio pescatore, un mestierante di bassa condizione; san Giovanni, al contrario, era un gentiluomo, dolce, amabile, saggio; san Pietro, invece, ignorante». Orbene, è stato san Pietro ad essere scelto per guidare gli altri e per essere il «superiore universale».
            Proclama la dignità dei malati, dicendo che «le anime che sono in croce sono dichiarate regine». Denunciando la «crudeltà verso i poveri» ed esaltando la «dignità dei poveri», giustifica e precisa l’atteggiamento che si deve tenere verso di loro, spiegando «come dobbiamo onorarli e quindi visitarli come rappresentanti di Nostro Signore». Nessuno è inutile, nessuno è insignificante: «Non vi è al mondo oggetto che non possa essere utile per qualche cosa; ma bisogna saperne trovare l’uso e il luogo».

L’«uno-diverso» salesiano
            Il problema che da sempre ha tormentato le società umane è quello di conciliare tra loro la dignità e la libertà di ogni individuo con quelle degli altri. Ricevette da Francesco di Sales un chiarimento originale grazie all’invenzione di una nuova parola. Infatti, ammesso che l’universo è formato da «tutte le cose create, visibili e invisibili» e che «la loro diversità viene ricondotta a unità», il vescovo Ginevra propose di chiamarlo «uno-diverso», ossia «unico e diverso, unico con diversità e diverso con unità».
            Per lui, ogni essere è unico. Le persone sono come le perle di cui parla Plinio: «sono talmente uniche, ciascuna nella sua qualità, che non se ne trovano mai due perfettamente uguali». È significativo che le sue due opere principali, l’Introduzione alla vita devota e il Trattato dell’amore di Dio siano indirizzate a una persona singola, Filotea e Teotimo. Quale varietà e diversità tra gli esseri! «Senza dubbio, come vediamo che non si trovano mai due uomini perfettamente uguali quanto ai doni della natura, così non se ne trovano mai di perfettamente uguali quanto ai doni soprannaturali». La varietà lo incantava anche da un punto di vista puramente estetico, ma temeva una curiosità indiscreta sulle sue cause:

Se qualcuno si ponesse la domanda perché Dio abbia fatto i cocomeri più grossi delle fragole, o i gigli più grandi delle violette; perché il rosmarino non sia una rosa o perché il garofano non sia una calendola; perché il pavone sia più bello di un pipistrello, o perché il fico sia dolce e il limone aspro, si riderebbe delle sue domande e gli si direbbe: pover’uomo, siccome la bellezza del mondo richiede varietà, è necessario che nelle cose ci siano perfezioni diverse e differenziate e che l’una non sia l’altra; ecco perché le une sono piccole, le altre grandi, le une aspre, le altre dolci, le une più belle, le altre meno. […] Tutte hanno il loro pregio, la loro grazia, il loro splendore, e tutte, viste nell’insieme delle loro varietà, costituiscono un meraviglioso spettacolo di bellezza.

            La diversità non ostacola l’unità, tutt’altro la rende ancor più ricca e bella. Ogni fiore ha le sue caratteristiche, che lo distinguono da tutti gli altri: «Non è proprio delle rose essere bianche, mi sembra, perché quelle vermiglie sono più belle e hanno un profumo migliore, il quale però è proprio del giglio». Certo, Francesco di Sales non sopporta la confusione e il disordine, ma è ugualmente nemico dell’uniformità. La diversità degli esseri può condurre alla dispersione e alla rottura della comunione, ma se c’è l’amore, «vincolo della perfezione», niente è perduto, al contrario, la diversità è esaltata dall’unione.
            In Francesco di Sales c’è sicuramente una reale cultura dell’individuo, ma questa non è mai una chiusura al gruppo, alla comunità o alla società. Egli vede spontaneamente l’individuo inserito in un contesto o «stato» di vita, che segna marcatamente l’identità e l’appartenenza di ciascuno. Non sarà possibile fissare un programma o un progetto uguale per tutti, per il semplice fatto che sarà applicato e attuato in maniera diversa «per il gentiluomo, per l’artigiano, per il valletto, per il principe, per la vedova, per la giovane, per la sposata»; bisogna inoltre adattarlo «alle forze e ai doveri di ognuno in particolare. Il vescovo di Ginevra vede la società ripartita in spazi vitali caratterizzati dall’appartenenza sociale e solidarietà di gruppo, come quando tratta «della compagnia di soldati, della bottega degli artigiani, della corte dei principi, della famiglia di gente sposata».
            L’amore personalizza e, quindi, individualizza. L’affetto che lega una persona a un’altra è unico, come dimostra Francesco di Sales nel suo rapporto con la signora di Chantal: «Ogni affetto ha una sua peculiarità che lo differenzia dagli altri; quello che provo per voi possiede una certa particolarità che mi consola infinitamente, e, per dire tutto, per me è oltremodo fruttuoso». Il sole illumina tutti e ciascuno: «rischiarando un angolo della terra, non lo rischiara meno di quel che farebbe se non risplendesse altrove, ma solamente in quell’angolo».

L’essere umano è in divenire
            Umanista cristiano, Francesco di Sales crede infine alla possibilità che la persona umana ha di perfezionarsi. Erasmo aveva forgiato la formula: Homines non nascuntur sed finguntur. Mentre l’animale è un essere predeterminato, guidato dall’istinto, l’uomo, al contrario, è in perpetua evoluzione. Non solo cambia, ma può cambiare sé stesso, tanto in meglio che in peggio.
            Ciò che preoccupava interamente l’autore del Teotimo era perfezionare sé stesso e aiutare gli altri a perfezionarsi, e non soltanto in ambito religioso, bensì in ogni cosa. Dalla nascita alla tomba, l’uomo è in una situazione di apprendista. Imitiamo il coccodrillo che «non cessa mai di crescere fin tanto che vive». Infatti, «rimanere in uno stesso stato a lungo non è possibile: chi non avanza, indietreggia in questo traffico; chi non sale, scende in questa scala; chi non vince è vinto in questo combattimento». Egli cita san Bernardo che diceva: «È scritto in modo particolare per l’uomo, che non si troverà mai nello stesso stato: bisogna che avanzi o indietreggi». Andiamo avanti:

Non sai che sei in cammino e che il camino non è fatto per sedersi, ma per andare avanti? Ed è talmente fatto per avanzare, che muoversi in avanti si chiama camminare.

            Ciò significa anche che la persona umana è educabile, capace di apprendere, di correggersi e di migliorarsi. E ciò è vero a tutti i livelli. L’età a volte non c’entra per nulla. Guardate questi fanciulli cantori della cattedrale, che superano di gran lunga le capacità del loro vescovo in questo loro ambito: «Ammiro questi bambini – diceva – che a mala pena sanno parlare e che cantano già la loro parte; comprendono tutti i segni e le regole musicali, mentre io non saprei proprio come cavarmela, io che sono un uomo fatto e che si vorrebbe far passare per un grande personaggio». Nessuno in questo mondo è perfetto:

Ci sono persone di loro natura leggere, altre sgarbate, altre ancora ben restie ad ascoltare le opinioni altrui, e altre infine portate all’indignazione, altre alla collera e altre all’amore; per farla breve, troviamo ben poche persone in cui non sia possibile scoprire l’una o l’altra di simili imperfezioni.

            Si deve allora disperare di poter migliorare il proprio temperamento, correggendo qualcuna delle nostre naturali inclinazioni? Niente affatto.

Per quanto, infatti, siano in ciascuno di noi come proprie e naturali, se con l’applicazione a un attaccamento contrario si possono correggere e regolare, e perfino uno può liberarsene e purificarsi, allora, vi dico Filotea, che bisogna farlo. Si è pur trovato il modo di far diventare dolci i mandorli amari: basta forarli al piede e farne uscire il succo; perché mai non potremmo allora far uscire le nostre inclinazioni perverse, per diventare così migliori?

            Di qui la conclusione ottimista ma esigente: «Non c’è natura buona che non si possa far diventare malvagia, tramite abitudini viziose; non c’è natura tanto perversa che non si possa, anzitutto con la grazia di Dio e poi con l’impegno industrioso e la diligenza, domare e vincere». Se l’uomo è educabile, bisogna non disperare di nessuno e guardarsi bene dai pregiudizi nei confronti delle persone:

Non dite: quel tale è un ubriacone, anche se l’avete visto ubriaco; è un adultero, per averlo visto peccare; è un incestuoso, per averlo colto in quella disgrazia; perché un solo atto non basta per dare il nome alla cosa. […] E anche quando un uomo fosse stato a lungo vizioso, si correrebbe lo stesso il rischio di mentire chiamandolo vizioso.

            La persona umana non ha mai terminato di coltivare il suo giardino. È la lezione che il fondatore delle visitandine inculcava loro, quando le chiamava «a coltivare la terra e il giardino» dei loro cuori e dei loro spiriti, perché non esiste «uomo tanto perfetto da non aver bisogno di impegnarsi sia per crescere nella perfezione e sia per conservarla».




Educare le facoltà del nostro spirito con san Francesco di Sales

San Francesco di Sales presenta lo spirito come la parte più elevata dell’anima, retta da intelletto, memoria e volontà. Cuore della sua pedagogia è l’autorità della ragione, “divina fiaccola” che rende l’uomo realmente umano e deve guidare, illuminare e disciplinare passioni, immaginazione e sensi. Educare lo spirito significa quindi coltivare l’intelletto con studio, meditazione e contemplazione, esercitare la memoria come deposito delle grazie ricevute, e irrobustire la volontà perché scelga costantemente il bene. Da tale armonia sgorgano le virtù cardinali – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza – che formano persone libere, equilibrate e capaci di autentica carità.

            Lo spirito è considerato da Francesco di Sales come la parte superiore dell’anima. Le sue facoltà sono l’intelletto, la memoria e la volontà. L’immaginazione potrebbe farne parte nella misura in cui la ragione e la volontà intervengono nel suo funzionamento. La volontà, da parte sua, è la facoltà maestra cui conviene riservare un trattamento particolare. Lo spirito fa sì che l’uomo divenga, secondo la definizione classica, un «animale razionale». «Siamo uomini soltanto mediante la ragione», scrive Francesco di Sales. Dopo «le grazie corporali», ci sono «i doni dello spirito», che dovrebbero essere oggetto delle nostre riflessioni e della nostra riconoscenza.  Fra essi l’autore della Filotea distingue i doni ricevuti dalla natura e quelli acquistati con l’educazione:

Considerate i doni dello spirito: quanta gente c’è al mondo ebete, pazza furiosa, mentecatta. Perché non vi trovate fra loro? Dio vi ha favorita. Quanti sono stati educati rozzamente e nella più estrema ignoranza: ma voi, la Provvidenza divina vi ha fatto allevare in un modo civile e onorato.

La ragione, “divina fiaccola”
           
In un Esercizio del sonno o riposo spirituale, composto a Padova quando aveva ventitré anni, Francesco si proponeva di meditare un argomento che stupisce:

Mi fermerò ad ammirare la bellezza della ragione che Dio ha donato all’uomo, affinché illuminato e istruito dal suo meraviglioso splendore, odiasse il vizio e amasse la virtù. Oh! Seguiamo la splendente luce di questa divina fiaccola, perché ci è donata in uso per vedere dove dobbiamo mettere i piedi! Ah! Se ci lasciamo condurre dai suoi dettami, raramente inciamperemo, difficilmente ci faremo male.

            «La ragione naturale è un buon albero che Dio ha piantato in noi, i frutti che ne provengono possono essere soltanto buoni», afferma l’autore del Teotimo; è vero che è «gravemente ferita e quasi morta a causa del peccato», ma il suo esercizio non è fondamentalmente impedito.
            Nel regno interiore dell’uomo, «la ragione deve essere la regina, alla quale tutte le facoltà del nostro spirito, tutti i nostri sensi e lo stesso corpo devono rimanere assolutamente sottomessi». È la ragione che distingue l’uomo dall’animale, per cui bisogna guardarsi bene dall’imitare «le bertucce e le scimmie che sono sempre immusonite, tristi e lamentose quando manca la luna; poi, al contrario, alla luna nuova, saltano, danzano, e fanno tutte le smorfie possibili». È necessario far regnare «l’autorità della ragione», ribadisce Francesco di Sales.
            Fra la parte superiore dello spirito, che deve regnare, e la parte inferiore del nostro essere, designata a volte da Francesco di Sales col termine biblico di «carne», la lotta talvolta diventa aspra. Ogni fronte ha i suoi alleati. Lo spirito, «fortezza dell’anima», è accompagnato «da tre soldati: l’intelletto, la memoria e la volontà». Attenti dunque alla «carne» che complotta e cerca alleati sul posto:

La carne usa ora l’intelletto, ora la volontà, ora l’immaginazione, le quali associandosi contro la ragione, le lasciano libero il campo, creando divisione e facendo un cattivo servizio alla ragione. […] La carne alletta la volontà a volte coi piaceri, a volte con le ricchezze; ora sollecita l’immaginazione a campare pretese, ora suscita nell’intelletto una grande curiosità, il tutto col pretesto del bene.

            In questa lotta, anche quando tutte le passioni dell’anima sembrano sconvolte, niente è perduto fin tanto che lo spirito resiste: «Se questi soldati fossero fedeli, lo spirito non avrebbe alcun timore e non darebbe alcun peso ai propri nemici: come soldati che, disponendo di sufficienti munizioni, resistono nel bastione di una fortezza imprendibile, nonostante che i nemici si trovino nei sobborghi o addirittura abbiano già preso anche la città; è capitato alla cittadella di Nizza, davanti alla quale la forza di tre grandi principi non l’ha spuntata contro la resistenza dei difensori». La causa di tutte queste interiori lacerazioni è l’amore proprio. In effetti, «i nostri ragionamenti ordinariamente sono pieni di motivazioni, opinioni e considerazioni suggerite dall’amor proprio, e ciò causa grandi conflitti nell’anima».
            In ambito educativo, è importante far sentire la superiorità dello spirito. «Qui sta il principio di un’educazione umana – dice il padre Lajeunie –: mostrare al fanciullo, appena la sua ragione si sveglia, ciò che è bello e buono, e distoglierlo da ciò che è cattivo; creare in questo modo nel suo cuore l’abitudine di controllare i suoi riflessi istintivi, invece di seguirli servilmente; è così, infatti, che si forma questo processo di sensualizzazione che lo rende schiavo dei suoi desideri spontanei. Al momento di scelte decisive, tale abitudine di cedere sempre, senza controllarsi, alle pulsioni istintive può rivelarsi catastrofica».

L’intelletto, “occhio dell’anima”
            L’intelletto, facoltà tipicamente umana e razionale, la quale consente di conoscere e comprendere, sovente è paragonato alla vista. Si afferma per esempio: «Io vedo», per dire: «Io comprendo». Per Francesco di Sales, l’intelletto è “l’occhio dell’anima”; di qui la sua espressione «l’occhio del vostro intelletto». L’incredibile attività di cui è capace, lo rende simile a «un operaio, il quale, con le centinaia di migliaia di occhi e di mani, come un altro Argo, compie più opere di tutti i lavoratori del mondo, perché non c’è niente nel mondo che non sia in grado di rappresentare».
            Come funziona l’intelletto umano? Francesco di Sales ne ha analizzato con precisione le quattro operazioni di cui è capace: il semplice pensiero, lo studio, la meditazione e la contemplazione. Il semplice pensiero si esercita su una grande diversità di cose, senza alcun fine, «come fanno le mosche che si posano sui fiori senza volerne estrarre alcun succo, ma soltanto perché li incontrano». Quando l’intelletto passa da un pensiero all’altro, i pensieri che così lo stipano sono d’ordinario «inutili e dannosi». Lo studio, al contrario, mira a considerare le cose «per conoscerle, per comprenderle e per parlarne bene, con lo scopo di «riempirne la memoria», come fanno li maggiolini che «si posano sulle rose per nessun altro fine se non per saziarsene e riempirsene il ventre».
            Francesco di Sales poteva fermarsi qui, ma conosceva e raccomandava altre due forme più elevate. Mentre lo studio mira a aumentare le conoscenze, la meditazione ha come scopo quello di «muovere gli affetti e, in particolare, l’amore»: «Fissiamo il nostro intelletto sul mistero dal quale speriamo di poter attingere buoni affetti», come la colomba che “tuba trattenendo il respiro e, mediante il brontolio che produce in gola senza lasciarne uscire il respiro, produce il suo tipico canto”.
            L’attività suprema dell’intelletto è la contemplazione, la quale consiste nel gioire del bene conosciuto tramite la meditazione e amato mediante tale conoscenza; questa volta assomigliamo agli uccellini che si trastullano nella gabbia soltanto per “far piacere al maestro». Con la contemplazione lo spirito umano giunge al suo vertice; l’autore del Teotimo afferma che la ragione «vivifica infine l’intelletto con la contemplazione”.
            Ritorniamo allo studio, l’attività intellettuale che ci interessa più da vicino. “C’è un vecchio assioma dei filosofi, secondo cui ogni uomo desidera conoscere”. Riprendendo da parte sua questa affermazione di Aristotele, come pure l’esempio di Platone, Francesco di Sales intende dimostrare che ciò costituisce un grande privilegio. Ciò che l’uomo vuol conoscere è la verità. La verità è più bella di quella «famosa Elena, per la cui bellezza morirono tanti Greci e Troiani». Lo spirito è fatto per la ricerca della verità: «La verità è l’oggetto del nostro intelletto, il quale, di conseguenza, scoprendo e conoscendo la verità delle cose, si sente pienamente appagato e contento». Quando lo spirito trova qualcosa di nuovo, ne prova una gioia intensa, e quando si incomincia a trovare qualche cosa di bello, si è spinti a continuare la ricerca, «come coloro che hanno trovato una miniera d’oro e si spingono sempre più avanti per trovarne ancora di più, di questo prezioso metallo». Lo stupore che produce la scoperta è un potente stimolo; «l’ammirazione, infatti, ha dato l’origine alla filosofia e all’attenta ricerca delle cose naturali». Essendo Dio la verità suprema, la conoscenza di Dio è la scienza suprema che riempie il nostro spirito. È lui che ci «ha donato l’intelletto per conoscerlo»; fuori di lui ci sono soltanto «pensieri vani e riflessioni inutili!»

Coltivare la propria intelligenza
            Ciò che caratterizza l’uomo è il grande desiderio di conoscere. È stato questo desiderio «a indurre il grande Platone a uscire da Atene e correre tanto», e «a indurre questi antichi filosofi a rinunciare alle loro comodità corporali». Certuni giungono perfino a digiunare diligentemente «per poter studiare meglio». Lo studio, infatti, produce un piacere intellettuale, superiore ai piaceri sensuali e difficile da fermare: «L’amore intellettuale, trovando nell’unione con il suo oggetto una contentezza insperata, ne perfeziona la conoscenza, continuando così ad unirvisi, e unendosi sempre più, non smette dal continuare a farlo».
            Si tratta di «illuminare bene l’intelletto», sforzandosi di «purgarlo» dalle tenebre dell’«ignoranza». Egli denuncia «l’ottusità e l’indolenza di spirito, che non vuole sapere ciò che è necessario» e insiste sul valore dello studio e dell’apprendimento: «Studiate sempre di più, con diligenza e umiltà», scriveva a uno studente. Ma non basta «purgare» l’intelletto dall’ignoranza, occorre inoltre «abbellirlo e ornarlo», «tappezzarlo di considerazioni». Per conoscere perfettamente una cosa, è necessario imparare bene, dedicare del tempo ad «assoggettare» l’intelletto, cioè a fissarlo su una cosa, prima di passare ad un’altra.
            Il giovane Francesco di Sales applicava la sua intelligenza non soltanto agli studi e a conoscenze intellettuali, ma anche a certi soggetti essenziali per la vita dell’uomo sulla terra, e, in particolare, alla «considerazione della vanità della grandezza, delle ricchezze, degli onori, delle comodità e dei piaceri voluttuosi di questo mondo»; alla «considerazione della nefandezza, abiezione e deplorabile miseria, presenti nel vizio e nel peccato», e alla «conoscenza dell’eccellenza della virtù».
            Lo spirito umano è sovente distratto, dimentica, si accontenta d’una conoscenza vaga o vana. Mediante la meditazione, non soltanto delle verità eterne, ma anche dei fenomeni e degli avvenimenti del mondo, è in grado di raggiungere una visione più realista e più profonda della realtà. Per questo motivo, nelle Meditazioni proposte dall’autore a Filotea, vi è dedicata una prima parte intitolata Considerazioni.
            Considerare significa applicare lo spirito a un oggetto preciso, esaminarne con attenzione i suoi diversi aspetti. Francesco di Sales invita Filotea a «pensare», a «vedere», a esaminare i differenti «punti», alcuni dei quali meritano di essere considerati «a parte». Esorta a vedere le cose in generale e a discendere poi ai casi particolari. Vuole che si esaminino i principi, le cause e le conseguenze di una determinata verità, di una data situazione, come pure le circostanze che l’accompagnano. Occorre anche saper «pesare» certe parole o sentenze, la cui importanza rischia di sfuggirci, considerarle una ad una, confrontarle l’una con l’altra.
            Come in ogni cosa, così nel desiderio di conoscere ci possono essere eccessi e deformazioni. Attenti alla vanità di falsi sapienti: certuni, infatti, «per il poco di scienza che hanno, vogliono essere onorati e rispettati da tutti, come se ognuno dovesse andare alla loro scuola e averli per maestri: perciò li si chiama pedanti». Ora, «la scienza ci disonora quando ci gonfia e degenera in pedanteria». Che ridicolaggine voler istruire Minerva, Minervam docere, la dea della saggezza! «La peste della scienza è la presunzione, che gonfia gli spiriti e li rende idropici, come sono d’ordinario i sapienti del mondo».
            Quando si tratta di problemi che ci superano e che rientrano nell’ambito dei misteri della fede, è necessario «purificarli da ogni curiosità», bisogna «tenerli ben chiusi e coperti di fronte a tali vane e sciocche questioni e curiosità». È la «purità intellettuale», la «seconda modestia» o l’«interiore modestia». Infine si deve sapere che l’intelletto può sbagliarsi e che esiste il «peccato dell’intelletto», come quello che Francesco di Sales rimprovera alla signora di Chantal, la quale aveva commesso un errore riponendo un’esagerata stima nel suo direttore.

La memoria e i suoi «magazzini»
            Come l’intelletto, così la memoria è una facoltà dello spirito che suscita ammirazione. Francesco di Sales la paragona a un magazzino «che vale più di quelli di Anversa o di Venezia». Non si dice forse «immagazzinare» nella memoria? La memoria è un soldato la cui fedeltà ci è assai utile. È un dono di Dio, dichiara l’autore dell’Introduzione alla vita devota: Dio ve l’ha donata «perché vi ricordiate di lui», dice a Filotea, invitandola a fuggire «i ricordi detestabili e frivoli».
            Questa facoltà dello spirito umano ha bisogno di essere allenata. Quando era studente a Padova, il giovane Francesco esercitava la sua memoria non soltanto negli studi, ma anche nella vita spirituale, nella quale la memoria dei benefici ricevuti è un elemento fondamentale:

Prima di ogni cosa, mi dedicherò a rinfrescare la mia memoria con tutti i buoni moti, desideri, affetti, propositi, progetti, sentimenti e dolcezze che in passato la divina Maestà m’ha ispirato e fatto sperimentare, considerando i suoi santi misteri, la bellezza della virtù, la nobiltà del suo servizio e un’infinità di benefici che mi ha liberamente elargito; metterò pure ordine nei miei ricordi circa gli obblighi che ho verso di lei per il fatto che, per la sua santa  grazia, a volte ha debilitato i miei sensi inviandomi certe malattie e infermità, dalle quali ho tratto grande profitto.

            Nelle difficoltà e nelle paure è indispensabile servirsene «per ricordarsi delle promesse» e per «restare saldi confidando che tutto perirà piuttosto che le promesse vengano meno». Tuttavia, la memoria del passato non è sempre buona, perché può ingenerare tristezza, come capitò a un discepolo di san Bernardo, che fu assalito da una brutta tentazione quando incominciò «a ricordare gli amici del mondo, i parenti, i beni che aveva lasciato». In certe circostanze eccezionali della vita spirituale «è necessario purificarla dal ricordo di cose caduche e da affari mondani e dimenticare per un certo tempo le cose materiali e temporali, benché buone e utili». In campo morale, per esercitare la virtù, la persona che si è sentita offesa prenderà una misura radicale: «Mi ricordo troppo delle frecciate e ingiurie, d’ora in poi perderò la memoria».

«Dobbiamo avere uno spirito giusto e ragionevole»
            Le capacità dello spirito umano, in particolare dell’intelletto e della memoria, non sono destinate soltanto a gloriose imprese intellettuali, ma anche e soprattutto alla condotta della vita. Cercare di conoscere l’uomo, di comprendere la vita e definire le norme riguardanti i comportamenti conformi alla ragione, questi dovrebbero essere i compiti fondamentali dello spirito umano e della sua educazione. La parte centrale della Filotea, che tratta dell’«esercizio delle virtù», contiene, verso la fine, un capitolo che riassume in certo modo l’insegnamento di Francesco di Sales sulle virtù: «Dobbiamo avere uno spirito giusto e ragionevole».
            Con finezza e un pizzico di umore, l’autore denuncia numerose condotte bizzarre, folli o semplicemente ingiuste: «Accusiamo il prossimo per poco, e scusiamo noi stessi per molto di più»; «vogliamo vendere con un prezzo alto e comperare a buon mercato»; «ciò che facciamo per gli altri ci sembra sempre molto, e ciò che fanno gli altri per noi è niente»; «abbiamo un cuore dolce, grazioso e cortese verso di noi, e un cuore duro, severo e rigoroso verso il prossimo»; «abbiamo due pesi: l’uno per pesare le nostre comodità con il maggior vantaggio possibile per noi, l’altro per pesare quelle del prossimo con il maggior svantaggio che si può». Per giudicare bene, consiglia a Filotea, è necessario sempre mettersi nei panni del prossimo: «Fatevi venditrice nel comperare e compratrice nel vendere». Non si perde nulla a vivere da persone «generose, nobili, cortesi, con un cuore regale, costante e ragionevole».
            La ragione sta alla base dell’edificio dell’educazione. Certi genitori non hanno un atteggiamento mentale giusto; infatti, «ci sono ragazzi virtuosi che padri e madri non riescono quasi a sopportare perché hanno questo o quel difetto nel corpo; ce ne sono invece di viziosi continuamente coccolati, perché hanno questa o quella bella dote fisica». Ci sono educatori e responsabili che si lasciano andare a preferenze. «Tenete la bilancia ben diritta fra le vostre figlie», raccomandava a una superiora delle visitandine, affinché «i doni naturali non vi facciano distribuire ingiustamente gli affetti e i favori». E aggiungeva: «La bellezza, la buona grazia e la parola garbata conferiscono spesso una grande forza d’attrattiva alle persone che vivono secondo le loro inclinazioni naturali; la carità ha come oggetto la vera virtù e la bellezza del cuore, e si estende a tutti senza particolarismi».
            Ma è soprattutto la gioventù quella che corre i rischi maggiori, perché se «l’amor proprio ci allontana solitamente dalla ragione», ciò avviene forse ancor di più nei giovani tentati dalla vanità e dall’ambizione. La ragione di un giovane rischia di perdersi soprattutto quando si lascia «prendere da innamoramenti». Attenzione dunque, scrive il vescovo a un giovane, «a non permettere ai vostri affetti di prevenire il giudizio e la ragione nella scelta dei soggetti da amare; poiché, una volta che si è messo in corsa, l’affetto trascina il giudizio, come si trascinerebbe uno schiavo, a scelte molto deplorevoli, di cui potrebbe pentirsi assai presto». Spiegava pure alle visitandine che «i nostri pensieri sono solitamente pieni di ragioni, opinioni e considerazioni suggerite dall’amor proprio, che causa grandi conflitti nell’anima».

La ragione, fonte delle quattro virtù cardinali
            La ragione assomiglia al fiume del paradiso, «che Dio fa scorrere per irrigare tutto l’uomo in tutte le sue facoltà e attività»; esso si divide in quattro bracci corrispondenti alle quattro virtù che la tradizione filosofica chiama virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.
            La prudenza «inclina il nostro intelletto a discernere veramente il male da evitare e il bene da compiere». Essa consiste nel «discernere quali sono i mezzi più appropriati per raggiungere il bene e la virtù». Attenzione alle passioni che rischiano di deformare il nostro giudizio e di provocare la rovina della prudenza! La prudenza non si oppone alla semplicità: saremo, congiuntamente, «prudenti come serpenti per non essere ingannati; semplici come colombe per non ingannare nessuno».
            La giustizia consiste nel «rendere a Dio, al prossimo e a sé stessi ciò che si deve». Francesco di Sales inizia con la giustizia verso Dio, connessa con la virtù della religione, «mediante la quale rendiamo a Dio il rispetto, l’onore, l’omaggio e la sottomissione a lui dovuti come nostro sovrano Signore e primo principio». La giustizia verso i genitori comporta il dovere della pietà, la quale «si estende a tutti gli uffici che si possono legittimamente rendere loro, sia in onore, sia in servizio».
            La virtù della fortezza aiuta a «superare le difficoltà che si incontrano nel compiere il bene e nel respingere il male». È ben necessaria, perché l’appetito sensitivo è «davvero un soggetto ribelle, sedizioso, turbolento». Quando la ragione domina le passioni, l’ira lascia il posto alla dolcezza, grande alleata della ragione. La fortezza è accompagnata spesso dalla magnanimità, «una virtù che ci spinge e inclina a compiere azioni di grande rilievo».
            Infine la temperanza è indispensabile «per reprimere le inclinazioni disordinate della sensualità», per «governare l’appetito dell’avidità» e «frenare le passioni connesse». In effetti, se l’anima si appassiona troppo ad un piacere e a una gioia sensibile, si degrada rendendosi incapace di gioie più elevate.
            In conclusione, le quattro virtù cardinali sono come le manifestazioni di questa luce naturale che ci fornisce la ragione. Praticando queste virtù, la ragione esercita «la sua superiorità e l’autorità che ha di regolare gli appetiti sensuali».




Via all’inferno proponimenti inefficaci (1873)

San Giovanni Bosco riferisce in una “buona notte” il frutto di una lunga supplica alla Madonna Ausiliatrice: comprendere la causa principale della dannazione eterna. La risposta, ricevuta in ripetuti sogni, è sconvolgente nella sua semplicità: la mancanza di un fermo, concreto proponimento al termine della Confessione. Senza una decisione sincera di cambiare vita, anche il sacramento diventa sterile e i peccati si ripetono.

            Un monito solenne: – Perché tanti vanno alla perdizione?… Perché non fanno buoni propositi quando si confessano.

            La sera del 31 maggio 1873, dopo le preghiere, nel dare la “buona notte” agli alunni, il Santo faceva quest’importante dichiarazione, dicendola «il risultato delle sue povere preghiere», e «che veniva dal Signore!».

            In tutto il tempo della novena di Maria Ausiliatrice, anzi in tutto il mese di maggio, nella Messa e nelle altre mie preghiere ho sempre domandato, al Signore ed alla Madonna, la grazia che mi facessero un po’ conoscere che cosa mai fosse che manda più gente all’Inferno. Adesso non dico se questo venga o no dal Signore; solamente posso dire che quasi tutte le notti sognava che questa era la mancanza di fermo proponimento nelle Confessioni. Quindi mi pareva veder dei giovani che uscivano di chiesa venendo da confessarsi, ed avevano due corna.
            – Come va questo? diceva tra me stesso.
            – Eh! questo proviene dall’inefficacia dei proponimenti fatti nella Confessione! E questo è il motivo per cui tanti vanno a confessarsi anche sovente, ma non si emendano mai, confessano sempre le medesime cose. Ci sono di quelli (adesso faccio dei casi ipotetici, non mi servo di nulla di confessione, perché c’è il segreto), ci sono di quelli che al principio dell’anno avevano un voto scadente e adesso hanno il medesimo voto. Altri mormoravano in principio dell’anno e continuano sempre nelle medesime mancanze.
            Io ho creduto bene di dirvi questo, perché questo si è il risultato delle povere preghiere di Don Bosco; e viene dal Signore.

            Di questo sogno non tracciò in pubblico altri dettagli, ma senza dubbio se ne servi privatamente per incoraggiare ed ammonire; e per noi anche quel poco che disse, e la forma colla quale lo disse, resta un grave ammonimento da ricordar di frequente ai giovinetti.
(MB X, 56)




Educare le nostre emozioni con san Francesco di Sales

La psicologia moderna ha dimostrato l’importanza e l’influsso delle emozioni nella vita della psiche umana e ognuno sa che le emozioni sono particolarmente forti durante la giovinezza. Ma non si parla quasi più delle «passioni dell’anima», che l’antropologia classica ha analizzato accuratamente, come testimonia l’opera di Francesco di Sales, e, in particolare, quando scrive che «l’anima, in quanto tale, è la sorgente delle passioni». Nel suo vocabolario il termine «emozione» non appare ancora con le connotazioni che gli attribuiamo. Dirà, invece, che le nostre «passioni» in certe circostanze sono «mosse». In ambito educativo, la questione che si pone riguarda l’atteggiamento che conviene avere di fronte a queste manifestazioni involontarie della nostra sensibilità, che hanno sempre una componente fisiologica.

«Io sono un povero uomo e nulla più»
            Tutti coloro che hanno conosciuto Francesco di Sales hanno notato la sua grande sensibilità e emotività. Gli saliva il sangue alla testa e il volto diventava tutto rosso. Conosciamo i suoi scatti d’ira contro gli «eretici» e la cortigiana di Padova. Come ogni buon Savoiardo, era «abitualmente calmo e dolce, ma capace di terribili scatti d’ira; un vulcano sotto la neve». La sua sensibilità era assai viva. In occasione della morte della sorellina Jeanne, scriveva a Giovanna di Chantal, anch’essa costernata:

Ahimè, Figlia mia: io sono un povero uomo e nulla più. Il mio cuore s’è intenerito più di quanto non avrei mai immaginato; ma la verità è che vi ha contribuito assai il dispiacere vostro e di mia madre: ho avuto paura per il cuore vostro e per quello di mia madre.

            Alla morte della madre, non nascose che quella separazione gli aveva fatto versare lacrime; ebbe certo il coraggio di chiuderle gli occhi e la bocca e di darle un ultimo bacio, ma dopo ciò, confidava a Giovanna di Chantal, «il cuore mi si gonfiò grandemente, e piansi per questa buona madre più di quanto non avessi mai fatto dal giorno in cui abbracciai il sacerdozio». Egli, infatti, non frenava sistematicamente le manifestazioni esteriori dei suoi sentimenti, il suo umanesimo le accettava tranquillamente. Una preziosa testimonianza di Giovanna di Chantal ci informa che «il nostro santo non era esente da sentimenti e da moti delle passioni, e non voleva esserne liberato».
            Si sa bene che le passioni dell’anima influiscono sul corpo, provocando reazioni esteriori ai loro movimenti interiori: «Noi esterniamo e manifestiamo le nostre passioni e i movimenti che le nostre anime hanno in comune con gli animali per mezzo degli occhi, con movimenti delle sopracciglia, della fronte e di tutto il volto». Così, non è in nostro potere non provare paura in determinate circostanze: «È come se uno dicesse ad una persona che si vede venire contro un leone od un orso: Non aver paura». Ora, «quando si prova timore si diventa pallidi, e quando veniamo richiamati per una cosa che ci contraria, ci sale il sangue al volto e diventiamo rossi, oppure la contrarietà può anche far sgorgare lacrime dai nostri occhi». I bambini, «se vedono un cane che abbaia, immediatamente si mettono a gridare e non smettono finché non sono vicini alla mamma».
            Quando la signora di Chantal incontrerà l’assassino del marito, come reagirà il suo «cuore»? «So che, senza dubbio, cotesto vostro cuore sobbalzerà e si sentirà sconvolto, e il vostro sangue bollirà», prevede il suo direttore spirituale, aggiungendo questa lezione di saggezza: «Dio ci fa toccare con mano, in queste emozioni, quanto sia vero che siamo fatti di carne, di ossa e di spirito».

Le dodici passioni dell’anima
            Nell’antichità, Virgilio, Cicerone e Boezio riducevano a quattro le passioni dell’anima, mentre sant’Agostino conosceva una sola passione dominante, l’amore, articolato a sua volta in quattro passioni secondarie: «L’amore che tende a possedere ciò che ama, si chiama cupidigia o desiderio; quando lo consegue e lo possiede, si chiama gioia; quando fugge ciò che gli è contrario, si chiama timore; se gli capita di perderlo e ne sente il peso, si chiama tristezza».
            Nella Filotea, Francesco di Sales ne segnala sette, paragonandole alle corde che il liutaio deve di volta in volta accordare: l’amore, l’odio, il desiderio, il timore, la speranza, la tristezza e la gioia.
            Nel Teotimo, invece, ne enumera fino a dodici. Stupisce che «questa moltitudine di passioni […] sia lasciata nelle nostre anime!». Le prime cinque hanno per oggetto il bene, ossia tutto ciò che la nostra sensibilità ci fa spontaneamente cercare e apprezzare come buono per noi (pensiamo ai beni fondamentali della vita, della salute e della gioia):

Se il bene viene considerato in sé stesso, secondo la sua bontà naturale, genera l’amore, prima e principale passione; se il bene viene considerato in quanto mancante, provoca il desiderio; se, desiderandolo, si pensa di poterlo conseguire, si ha la speranza; se si teme di non poterlo ottenere, si entra nella disperazione; e quando, di fatto, lo si possiede, si ha la gioia.

            Le altre sette passioni sono quelle che ci fanno spontaneamente reagire negativamente di fronte a tutto ciò che ci appare come male da evitare e da combattere (pensiamo alla malattia, alla sofferenza e alla morte):

Appena conosciamo il male, lo odiamo; se è assente, lo fuggiamo; se pensiamo di non poterlo evitare, lo temiamo; se riteniamo di poterlo evitare, ci facciamo animo e coraggio; ma se lo sentiamo presente, ci rattristiamo, e allora l’ira e il cruccio intervengono repentinamente per respingerlo e allontanarlo o almeno vendicarsene; e, se ciò non è fattibile, rimaniamo nella tristezza; ma, se riusciamo a respingerlo o a farne vendetta, proviamo soddisfazione e un senso di pace, che è piacere del trionfo, perché come il possesso del bene rallegra il cuore, la vittoria sul male soddisfa il coraggio.

            Come si vede, alle undici passioni dell’anima proposte da san Tommaso, Francesco di Sales aggiunge la vittoria sul male, che «soddisfa il coraggio» e provoca la gioia del trionfo.

L’amore, prima e principale passione
            Come era facile prevedere, l’amore è presentato come la «prima e principale passione»: «L’amore viene al primo posto, fra le passioni dell’anima: è il re di tutti i moti del cuore, trasforma in sé tutto il resto e ci fa essere ciò che esso ama». «L’amore è la prima passione dell’anima», ripete.
            Esso si manifesta in mille maniere e il suo linguaggio è assai diversificato; infatti, «non si esprime soltanto a parole, ma anche con gli occhi, con i gesti e con le azioni. Per quello che riguarda gli occhi, le lacrime che ne sgorgano sono prove d’amore». Ci sono pure i «sospiri d’amore». Ma tali manifestazioni dell’amore sono differenti. La più abituale e superficiale è l’emozione o passione, la quale mette in moto quasi involontariamente la sensibilità.
            E l’odio? Odiamo spontaneamente ciò che ci appare come un male. Occorre sapere che, tra le persone, ci sono forme di odio e avversioni istintive, irrazionali, inconsapevoli, come quelle esistenti tra il mulo e il cavallo, tra la vigna e i cavoli. Non ne siamo per nulla responsabili, perché non dipendono dalla nostra volontà.

Il desiderio e la fuga
            Il desiderio è un’altra realtà fondamentale della nostra psiche. La vita quotidiana provoca molteplici desideri, perché il desiderio consiste nella «speranza di un bene futuro». I più comuni desideri naturali sono quelli che «riguardano i beni, i piaceri e gli onori».
            All’opposto, noi fuggiamo spontaneamente i mali della vita. La volontà umana di Cristo lo spingeva a fuggire i dolori e le sofferenze della passione; di qui il tremore, l’angoscia e il sudare sangue.

La speranza e la disperazione
            La speranza concerne un bene che si pensa di poter ottenere. Filotea è invitata a esaminare come si è comportata in riferimento alla «speranza, forse troppo spesso riposta nel mondo e nella creatura, e troppo poco in Dio e nelle cose eterne».
            Quanto alla disperazione, guardate per esempio quella dei «giovani aspiranti alla perfezione»: «Appena incontrano una difficoltà sul loro cammino, eccoti subito una sensazione di disappunto, che li spinge a fare un mucchio di lamentele, tale da dare l’impressione di essere travagliati da grandi tormenti. L’orgoglio e la vanità non possono tollerare il minimo difetto, senza sentirsi subito fortemente turbati sino a giungere alla disperazione».

La gioia e la tristezza
            La gioia è «la soddisfazione per il bene ottenuto». Così, «quando incontriamo quelli che amiamo, non è possibile non sentirsi commossi per la gioia e la contentezza». Il possesso di un bene produce infallibilmente una compiacenza o allegrezza, come la legge di gravità muove la pietra: «È il peso che scuote le cose, le muove e le ferma: è il peso che muove la pietra e la trascina nella discesa non appena vengono tolti gli ostacoli; è lo stesso peso che le fa continuare il movimento verso il basso; infine, è sempre lo stesso peso che la fa arrestare ed assestarsi quando è giunta al suo posto».
            La gioia giunge talvolta al riso. «Il riso è una passione che erompe senza che lo vogliamo e non è in nostro potere trattenerlo, tanto più che ridiamo e siamo mossi a ridere da circostanze impreviste». Nostro Signore ha riso? Il vescovo di Ginevra pensa che Gesù sorrideva quando voleva: «Nostro Signore non poteva ridere, perché per lui nulla era imprevisto, dato che conosceva tutto prima che avvenisse; poteva, certo, sorridere, ma lo faceva volutamente».
            Le giovani visitandine, prese a volte da un incontenibile riso quando una compagna si batteva il petto o una lettrice commetteva un errore durante la lettura a tavola, avevano bisogno di una lezioncina su questo punto: «I pazzi ridono di ogni situazione, perché tutto li sorprende, non riuscendo a prevedere nulla; ma i saggi non ridono con tanta leggerezza, perché impiegano maggiormente la riflessione, la quale fa sì che prevedano le cose che devono accadere». Detto ciò, non è un difetto ridere di qualche imperfezione, «purché non si vada troppo oltre».
            La tristezza è «il dolore per un male presente». Essa «turba l’anima, provoca timori smodati, fa provare disgusto per la preghiera, fiacca e addormenta il cervello, priva l’anima di saggezza, di risoluzione, di giudizio e coraggio e annienta le forze»; è «come un duro inverno che rovina tutta la bellezza della terra e rende indolenti tutti gli animali; perché toglie ogni soavità dall’anima e la rende come pigra e impotente in tutte le sue facoltà».
            Può sfociare in certi casi nel pianto: un padre, all’atto di inviare il figlio a corte o agli studi, non può trattenersi «dal piangere congedandosi da lui»; e «una figlia, benché si sia sposata secondo i desideri del padre e della madre, li commuove fino alle lacrime al momento di riceverne la benedizione». Alessandro Magno pianse quando venne a sapere che c’erano altre terre che non avrebbe mai potuto conquistare: «Come un bambino che frigna per una mela che gli si nega, quell’Alessandro, che gli storici chiamano il Grande, più folle di un bambino, si mette a piangere a calde lacrime, perché gli sembra impossibile conquistare gli altri mondi».

Il coraggio e la paura
            Il timore si riferisce a un «male futuro». Certuni, volendo fare i coraggiosi, si aggirano da qualche parte durante la notte, ma «appena sentono cadere un sasso o il fruscio di un sorcio che scappa, si mettono ad urlare: Dio mio! – Che cosa c’è, si chiede loro, che cosa avete trovato? – Ho sentito un rumore.  – Ma che cosa? – Non lo so». È necessario essere guardinghi, perché «la paura è un male più grande del male stesso».
            Quanto al coraggio, prima di essere una virtù, è un sentimento che ci sostiene davanti a difficoltà che normalmente dovrebbero abbatterci. Francesco di Sales lo provò all’atto di intraprendere una lunga e rischiosa visita della sua diocesi di montagna:

Sono sul punto di montare a cavallo per la visita pastorale, che durerà circa cinque mesi. […] Parto pieno di coraggio, e, fin da questa mattina, ho provato una grande gioia di poter cominciare, sebbene, prima, per vari giorni, avessi provato vani timori e tristezze.

La collera e il sentimento del trionfo
            Quanto all’ira o collera, non possiamo impedire dall’esserne presi in certe circostanze: «Se mi vengono a dire che qualcuno ha parlato male di me, o che mi venga causata altra contrarietà, immediatamente scoppia la collera e non mi rimane nemmeno una vena che non si contorca, perché il sangue ribolle». Perfino nei monasteri della Visitazione le occasioni di irritarsi e arrabbiarsi non mancavano, e si sentivano prepotenti gli attacchi dell’«appetito irascibile». Niente di strano in ciò: «Impedire che il risentimento della collera si svegli in noi e che il sangue ci salga alla testa, non sarà mai possibile; saremo fortunati se potremo avere questa perfezione un quarto d’ora prima di morire». Può anche succedere «che l’ira sconvolga e metta sottosopra il mio povero cuore, che la testa mi fumi da tutte le parti, che il sangue ribolla come una pentola sul fuoco».
            L’appagamento dell’ira, per aver superato il male, provoca l’esaltante emozione del trionfo. Colui che trionfa «non può contenere il trasporto della sua gioia».

Alla ricerca dell’equilibrio
            Le passioni e i moti dell’anima sono il più delle volte indipendenti dal nostro volere: «Non si pretende da voi che non abbiate passioni; non è in vostro potere», diceva alle figlie della Visitazione, aggiungendo: «Che cosa può fare una persona per avere tale o tal altro temperamento, soggetto a questa o quella passione? Tutto sta dunque nelle azioni che ne facciamo derivare per mezzo di quel movimento, che dipende dalla nostra volontà».
            Una cosa è sicura, i moti d’animo e le passioni fanno dell’uomo un essere estremamente soggetto a variazioni della «temperatura» psicologica, ad immagine delle variazioni climatiche. «La sua vita scorre su questa terra come le acque, fluttuando e ondeggiando in una perpetua varietà di movimenti». «Oggi si sarà felici all’eccesso, e, subito dopo, esageratamente tristi. In tempo di carnevale si vedranno manifestazioni di gioia e di allegria, con azioni sciocche e pazzoidi, poi, subito dopo, vedrete segni di tristezza e di tedio così esagerati da far pensare che si tratti di cose terribili e, all’apparenza, irrimediabili. Un altro, al presente, sarà troppo fiducioso e nulla lo spaventerà, e, subito dopo, verrà preso da un’angoscia che lo sprofonderà fin sotto terra».
            Il direttore spirituale di Giovanna di Chantal ha individuato bene le diverse «stagioni dell’anima» attraversate da costei agli inizi della sua fervorosa vita:

Vedo che si trovano nella vostra anima tutte le stagioni dell’anno. Ora sentite l’inverno attraverso le molte sterilità, distrazioni, pesantezze e noie; ora le rugiade del mese di maggio col profumo dei santi fiorellini, e ora il calore dei desideri di piacere al nostro buon Dio. Non resta che l’autunno del quale, come dite, non vedete molti frutti. Orbene, spesso avviene che, trebbiando il grano o pigiando l’uva, si trova un frutto più abbondante di quanto promettessero le messi e la vendemmia. Voi vorreste che fosse sempre primavera o estate; ma no, Figlia mia: bisogna che avvenga l’avvicendamento delle stagioni nel nostro interiore come nel nostro esteriore. Solo in cielo tutto sarà primavera quanto alla bellezza, tutto sarà autunno quanto al godimento e tutto sarà estate quanto all’amore. Lassù, non vi sarà più inverno, ma qui esso è necessario per l’esercizio dell’abnegazione e di mille piccole e belle virtù, che si esercitano nel tempo delle aridità.

            La salute dell’anima come quella del corpo non può consistere nell’eliminare questi quattro umori, ma nel raggiungere una «invariabilità d’umore». Quando una passione predomina sulle altre, causa le malattie dell’anima; e siccome è oltremodo difficile regolarla, ne deriva che gli uomini sono bizzarri e variabili, per cui non si scorge altro tra loro se non fantasie, incostanze e stupidità.
            Le passioni hanno di buono il fatto di consentirci «d’esercitare la volontà nell’acquisto della virtù e nella vigilanza spirituale». Nonostante certe manifestazioni, nelle quali si deve «soffocare e reprimere le passioni», per Francesco di Sales non si tratta di eliminarle, cosa impossibile, ma di controllarle come più si può, cioè moderarle e orientarle a un fine che sia buono.
            Non si tratta, quindi, di fingere di ignorare le nostre manifestazioni psichiche, come se non esistessero (ciò che ancora una volta è impossibile), ma di «vegliare in continuazione sul proprio cuore e sul proprio spirito per mantenere le passioni nella norma e sotto il controllo della ragione; altrimenti si avranno soltanto originalità e comportamenti disuguali». Filotea non sarà felice, se non quando avrà «sedato e pacificato tante passioni che [le] provocavano inquietudine».
            Avere uno spirito costante è uno dei migliori ornamenti della vita cristiana e uno dei più amabili mezzi per acquistare e conservare la grazia di Dio, e anche per edificare il prossimo. «La perfezione, quindi, non consiste nell’assenza delle passioni, bensì nel loro corretta regolazione; le passioni stanno al cuore come le corde a un’arpa: bisogna che siano accordate perché possiamo dire: Ti loderemo con l’arpa».
            Quando le passioni ci fanno perdere l’equilibrio interiore e esteriore, due metodi sono possibili: «opponendovi passioni contrarie, oppure opponendovi maggiori passioni della stessa specie». Se sono turbato dal «desiderio delle ricchezze o del piacere voluttuoso», combatterò tale passione con il disprezzo e la fuga, oppure aspirerò a ricchezze e piaceri superiori. Posso lottare contro la paura fisica con il contrario che è il coraggio, oppure sviluppando un timore salutare riguardante l’anima.
            L’amore di Dio, da parte sua, imprime alle passioni una vera e propria conversione, cambiandone l’orientamento naturale e prospettando loro un fine spirituale. Per esempio, «l’appetito per i cibi viene reso molto spirituale se, prima di appagarlo, gli si dà il motivo dell’amore: e no, Signore, non è per accontentare questo povero ventre, né per appagare questo appetito che vado a tavola, ma, secondo la tua Provvidenza, per mantenere questo corpo che tu hai fatto soggetto a tale miseria; sì, Signore, perché così è piaciuto a te».
            La trasformazione così operata somiglierà a un «artificio» utilizzato nell’alchimia che cambia il ferro in oro. «O santa e sacra alchimia! – scrive il vescovo di Ginevra –, o polvere divina della fusione, con la quale tutti i metalli delle nostre passioni, affetti e azioni vengono mutati nell’oro purissimo della celeste dilezione!».
            Moti dell’animo, passioni e immaginazioni sono profondamente radicati nell’anima umana: rappresentano una risorsa eccezionale per la vita dell’anima. Sarà compito delle facoltà superiori, la ragione e soprattutto la volontà, moderarle e governarle. Impresa difficile; Francesco di Sales l’ha compiuta con successo, perché, secondo quanto afferma la madre di Chantal, «possedeva un tale assoluto dominio delle sue passioni da renderle obbedienti come schiave; e alla fine non comparivano quasi più».




donbosco.info: un motore di ricerca salesiano

Presentiamo la nuova piattaforma donbosco.info che è un motore di ricerca salesiano pensato per rendere più agevole la consultazione dei documenti legati al carisma di Don Bosco. Nato per supportare il Bollettino Salesiano Online, supera i limiti dei tradizionali sistemi di archiviazione, spesso incapaci di intercettare tutte le occorrenze delle parole. Questa soluzione integra un hardware dedicato e un software sviluppato appositamente, offrendo anche una funzione di lettura. L’interfaccia web, volutamente semplice, permette di navigare tra migliaia di documenti in diverse lingue, con la possibilità di filtrare i risultati per cartella, titolo, autore o anno. Grazie alla scansione OCR dei documenti PDF, il sistema individua il testo anche quando non perfetto, e adotta strategie per ignorare punteggiatura e caratteri speciali. I contenuti, ricchi di materiale storico e formativo, mirano a diffondere il messaggio salesiano in modo capillare. Con l’upload libero per documenti, si incoraggia l’arricchimento continuo della piattaforma, migliorando la ricerca.​

Nell’ambito dei lavori per la redazione del Bollettino Salesiano OnLine, si è resa necessaria la creazione di vari strumenti di supporto, fra cui un motore di ricerca dedicato.

Questo motore di ricerca è stato concepito tenendo conto dei limiti attualmente presenti nelle varie risorse salesiane disponibili in rete. Molti siti offrono sistemi di archiviazione con funzionalità di ricerca, ma spesso non riescono a individuare tutte le occorrenze delle parole, a causa di limiti tecnici o restrizioni introdotte per evitare il sovraccarico dei server.

Per superare tali difficoltà, anziché costruire un semplice archivio di documenti con una funzione di ricerca, abbiamo realizzato un vero e proprio motore di ricerca, dotato anche di una funzione di lettura. Si tratta di una soluzione completa, basata su hardware dedicato e su un software sviluppato appositamente.

In fase di progettazione, abbiamo valutato due opzioni: un software da installare localmente oppure un’applicazione server-side accessibile via web. Poiché la missione del Bollettino Salesiano Online è diffondere il carisma salesiano al maggior numero di persone, si è deciso di optare per la soluzione web, così da consentire a chiunque di cercare e consultare documenti salesiani.

Il motore di ricerca è disponibile all’indirizzo www.donbosco.info. L’interfaccia web è volutamente essenziale e “spartana”, per garantire maggiore velocità di caricamento. Nella “home page” sono elencati i file e le cartelle presenti, con lo scopo di agevolarne la consultazione. I documenti non sono soltanto in italiano, ma disponibili anche in altre lingue, selezionabili tramite l’apposita icona in alto a sinistra.

La maggior parte dei file caricati è in formato PDF ricavato da scansioni con OCR (riconoscimento ottico dei caratteri). Poiché l’OCR non è sempre perfetto, a volte non tutte le parole cercate vengono rilevate. Per ovviare a ciò, sono state implementate diverse strategie: ignorare la punteggiatura e i caratteri accentati o speciali, e consentire la ricerca anche in presenza di caratteri mancanti o errati. Ulteriori dettagli sono consultabili nella sezione FAQ, accessibile dal piè di pagina.

Data la presenza di migliaia di documenti, la ricerca può restituire un numero molto elevato di risultati. Per questo è possibile restringere l’ambito della ricerca per cartelle, per titolo, autore o anno: i criteri sono cumulativi e aiutano a trovare più rapidamente ciò che serve. I risultati vengono elencati in base a un punteggio di pertinenza, che attualmente tiene conto principalmente della densità delle parole chiave all’interno del testo e della loro vicinanza.

Idealmente, sarebbe preferibile disporre dei documenti in formato vettoriale invece che scannerizzati, poiché la ricerca risulterebbe sempre accurata e i file sarebbero più leggeri, con conseguenti vantaggi in termini di velocità.

Se possedete documenti in formato vettoriale o di qualità migliore rispetto a quelli già presenti nel motore di ricerca, potete caricarli tramite il servizio di upload disponibile su www.donbosco.space. Potete anche aggiungere altri documenti non presenti nel motore di ricerca. Per ottenere le credenziali di accesso (nome utente e password), inviate una richiesta via e-mail a bsol@sdb.org.




Educare il corpo e i suoi 5 sensi con san Francesco di Sales

            Un buon numero di antichi asceti cristiani hanno sovente considerato il corpo come un nemico, la cui corruzione doveva essere combattuta, anzi, come un oggetto di disprezzo e da tener in nessun conto. Numerosi uomini spirituali del Medioevo non si preoccupavano del corpo se non per infliggergli penitenze. Nella maggioranza delle scuole del tempo, niente era previsto per far riposare “fratello asino”.
            Per Calvino, la natura umana totalmente corrotta dal peccato originale, non poteva essere altro se non un “immondezzaio”. Sul fronte opposto, numerosi scrittori e artisti rinascimentali esaltavano il corpo fino al punto di tributargli un culto, nel quale la sensualità aveva un grande rilievo. Rabelais, da parte sua, magnificava il corpo dei suoi giganti e si compiaceva nel metterne in mostra le funzioni organiche anche meno nobili.

Il realismo salesiano
           
Tra la divinizzazione del corpo e il suo disprezzo, Francesco di Sales offre una visione realista della natura umana. Alla fine della prima meditazione sul tema della creazione dell’uomo, “il primo essere del mondo visibile”, l’autore dell’Introduzione alla vita devota mette sulle labbra di Filotea questo proposito che sembra riassumere il suo pensiero: “Voglio sentirmi onorata per l’essere che egli mi ha dato”. Certo, il corpo è votato alla morte. Con crudo realismo l’autore descrive l’addio dell’anima al corpo, che abbandonerà “pallido, livido, disfatto, orrendo e puzzolente”, ma ciò non costituisce una ragione per trascurarlo e denigrarlo ingiustamente mentre è vivo. San Bernardo ha avuto torto quando annunciava a coloro che volevano porsi al suo seguito “che dovevano abbandonare il loro corpo e andare da lui solamente in spirito”. I mali fisici non devono spingere a odiare il corpo: il male morale è assai peggiore.
            Non troviamo affatto in Francesco di Sales l’oblio o la messa in ombra dei fenomeni corporali, come quando parla di diverse forme di malattie o quando evoca le manifestazioni dell’amore umano. In un capitolo del Trattato dell’amor di Dio dal titolo: “L’amore tende all’unione”, egli scrive per esempio che “si applica una bocca sull’altra quando ci si bacia, per testimoniare che si vorrebbe versare un’anima nell’altra, per unirle con un’unione perfetta”. Questo atteggiamento di Francesco di Sales nei confronti del corpo ha suscitato, già al suo tempo, reazioni scandalizzate. Quando apparve la Filotea, un religioso avignonese criticò pubblicamente questo “libretto”, lo fece a pezzi tacciando il suo autore di “dottore corrotto e corruttore”. Nemico del pudore esagerato, Francesco di Sales non conosceva ancora il riserbo e le paure che emergeranno in tempi successivi. Sopravvivono in lui usanze medievali o più semplicemente è una manifestazione del suo gusto “biblico”? Ad ogni modo, in lui non si trova niente di paragonabile alle trivialità dell’“infame” Rabelais.
            I doni naturali più stimati sono la bellezza, la forza e la salute. In riferimento alla bellezza, Francesco di Sales così si esprimeva parlando di santa Brigida: “Nacque in Scozia; era una ragazza molto bella, dato che gli scozzesi sono belli di natura, e in quel Paese si incontrano le più belle creature esistenti”. Pensiamo d’altronde al repertorio di immagini riguardanti le perfezioni fisiche dello sposo e della sposa, prese dal Cantico dei cantici. Benché le rappresentazioni siano sublimate e trasferite su un registro spirituale, rimangono tuttavia significative di un’atmosfera dove si esalta la bellezza naturale dell’uomo e della donna. Si è tentato di fargli sopprimere il capitolo del Teotimo sul bacio, nel quale dimostra che “l’amore tende all’unione”, ma si è sempre rifiutato di farlo. In ogni caso, la bellezza esteriore non è quella più importante: la bellezza della figlia di Sion è interiore.

Stretto legame tra il corpo e l’anima
            Innanzi tutto Francesco di Sales afferma che il corpo è “una parte della nostra persona”. L’anima personificata potrà anche dire con un accento di tenerezza: “Questa carne è la mia cara metà, è mia sorella, è mia compagna, nata con me, nutrita con me”.
            Il vescovo è stato assai attento al legame esistente tra il corpo e l’anima, tra la sanità del corpo e quella dell’anima. Così scrive di una persona da lui diretta, cagionevole di salute, che la salute del suo corpo “dipende molto da quella dell’anima, e quella dell’anima dipende dalle consolazioni spirituali”. “Non è illanguidito il vostro cuore – scriveva a una malata –, bensì il vostro corpo, e, dati i legami strettissimi che li uniscono, il vostro cuore ha l’impressione di provare il male del vostro corpo”. Ognuno può costatare che le infermità corporali “finiscono per creare disagio anche allo spirito, a causa degli stretti vincoli fra l’uno e l’altro”. Inversamente, lo spirito agisce sul corpo fino al punto che “il corpo percepisce gli affetti che si agitano nel cuore”, come avvenne in Gesù, che si sedette al pozzo di Giacobbe, stanco del suo gravoso impegno al servizio del regno di Dio.
            Tuttavia, siccome “il corpo e lo spirito procedono spesso in direzione contraria, e, a misura che l’uno s’indebolisce, l’altro si irrobustisce”, e siccome “lo spirito deve regnare”, “dobbiamo sostenerlo e consolidarlo talmente, che resti sempre il più forte”. Se poi mi prendo cura del corpo è “perché sia al servizio dello spirito”.
            Intanto siamo giusti nei confronti del corpo. In caso di malessere o di sbagli, capita spesso che l’anima accusi il corpo e lo maltratti, come fece Balaam colla sua asina: “O povera anima! se la tua carne potesse parlare, ti direbbe, come l’asina di Balaam: perché batti me, miserabile? È contro di te, anima mia, che Dio arma la sua vendetta, sei tu la criminale”. Quando una persona riforma il suo intimo, la conversione si manifesterà anche esternamente: in tutti gli atteggiamenti, nella bocca, nelle mani e “finanche nei capelli”. La pratica della virtù rende l’uomo bello interiormente e anche esteriormente. Inversamente, un cambiamento esteriore, un comportamento del corpo può favorire un cambio interiore. Un atto di devozione esteriore durante la meditazione può risvegliare la devozione interiore. Ciò che qui è detto della vita spirituale può essere facilmente applicato all’educazione in generale.

Amore e dominio del corpo
            Parlando dell’atteggiamento da avere nei confronti del corpo e delle realtà corporali, non stupisce vedere Francesco di Sales raccomandare a Filotea, come prima cosa, la gratitudine per le grazie corporali che Dio le ha dato.

Dobbiamo amare il nostro corpo per diversi motivi: perché ci è necessario per compiere le buone opere, perché è una parte della nostra persona, e perché è destinato a partecipare alla felicità eterna. Il cristiano deve amare il proprio corpo come un’immagine vivente di quello del Salvatore incarnato, come da lui proveniente per parentela e consanguineità. Soprattutto dopo che abbiamo rinnovato l’alleanza, ricevendo realmente il corpo del Redentore nell’adorabile sacramento dell’eucaristia, e, col battesimo, la confermazione e gli altri sacramenti, ci siamo dedicati e consacrati alla somma bontà.

            L’amore del proprio corpo fa parte dell’amore dovuto a sé stessi. In verità, la ragione più convincente per onorare e usare saggiamente del corpo sta in una visione di fede, che il vescovo di Ginevra così spiegava alla madre di Chantal uscita da una malattia: “Abbiate ancora cura di questo corpo, perché è di Dio, mia carissima Madre”. La Vergine Maria viene presentata a questo punto come modello: “Con quale devozione doveva amare il suo corpo verginale! Non soltanto perché era un corpo dolce, umile, puro, obbediente al santo amore e totalmente impregnato di mille sacri profumi, ma anche perché era la viva sorgente di quello del Salvatore e gli apparteneva molto strettamente, con un legame che non ha confronti”.
            L’amore del corpo è, sì, raccomandato, ma il corpo deve rimanere sottomesso allo spirito, come il servitore al suo maestro. Per controllare l’appetito dovrò “comandare alle mani di non fornire alla bocca cibi e bevande, se non nella giusta misura”. Per governare la sessualità “bisogna togliere o dare alla facoltà della riproduzione i soggetti, gli oggetti e gli alimenti che l’eccitano, secondo i dettami della ragione”. Al giovane che si accinge a “prendere il largo nel vasto mare” il vescovo raccomanda: “Vi auguro anche un cuore vigoroso che vi impedisca di vezzeggiare il vostro corpo con soverchie ricercatezze nel mangiare, nel dormire o in altre cose. Si sa, infatti, che un cuore generoso sente sempre un po’ di disprezzo per le delicatezze e le delizie corporali”.
            Affinché il corpo rimanga sottomesso alla legge dello spirito, conviene evitare gli eccessi: né maltrattarlo né vezzeggiarlo. In ogni cosa occorre misura. Il motivo della carità deve avere il primato in tutte le cose; ciò gli fa scrivere: “Se il lavoro che fate vi è necessario oppure è molto utile alla gloria di Dio, preferirei che sopportiate le pene del lavoro piuttosto che quelle del digiuno”. Di qui la conclusione: “In generale è meglio avere in corpo più forze di quante servano, piuttosto che rovinarle al di là del necessario; perché rovinarle si può sempre, appena si vuole, ma per recuperarle non sempre basta volerlo”.
            Ciò che è necessario evitare è questa “tenerezza che si prova per sé stessi”. Se la prende, con fine ironia ma in modo spietato, con un’imperfezione che non è soltanto “propria dei bambini, e, se posso osare di dirlo, delle donne”, ma anche di uomini poco coraggiosi, di cui ci dà questo interessante quadro caratteristico: “Altri sono quelli teneri verso sé stessi, e che non fanno altro che lamentarsi, coccolarsi, vezzeggiarsi e guardarsi”.
            Ad ogni modo, il vescovo di Ginevra si prendeva cura del suo corpo com’era suo dovere, obbediva al proprio medico e alle “infermiere”. Si occupava anche della salute altrui, consigliando misure appropriate. Scriverà, per esempio, alla madre di un giovane allievo del collegio d’Annecy: “È necessario far visitare Charles dai medici, affinché il suo gonfiore di ventre non si aggravi”.
            Al servizio della salute c’è l’igiene. Francesco di Sales desiderava che sia il cuore e sia il corpo fossero puliti. Raccomandava il decoro, molto differente da affermazioni come questa di sant’Ilario secondo il quale “non bisognava cercare la pulizia nei nostri corpi che non sono altro se non carogne pestilenziali e cariche soltanto di infezione”. Era piuttosto del parere di sant’Agostino e degli antichi che facevano il bagno “per tener puliti i loro corpi sia dalla sporcizia prodotta dalla calura e dal sudore, e sia per la salute, che è certamente oltremodo aiutata dalla pulizia”.
            Per poter lavorare e adempiere i doveri del proprio incarico, ognuno dovrebbe prendersi cura del proprio corpo per quanto riguarda l’alimentazione e il riposo: “Mangiare poco, lavorare molto e con molta agitazione e negare al corpo il riposo necessario, è come esigere molto da un cavallo che è sfiancato senza dargli il tempo per masticare un po’ di biada”. Il corpo ha bisogno di riposare, è cosa del tutto evidente. Le lunghe veglie serali sono “dannose alla testa e allo stomaco”, mentre, invece, alzarsi presto al mattino è “utile sia alla salute che alla santità”.

Educare i nostri sensi, specialmente gli occhi e le orecchie
            I nostri sensi sono doni meravigliosi del Creatore. Ci mettono in contatto con il mondo e ci aprono a tutte le realtà sensibili, alla natura, al cosmo. I sensi sono la porta dello spirito, al quale forniscono, per così dire, la materia prima; infatti, come dice la tradizione scolastica, “niente è nell’intelletto, che prima non sia stato nei sensi”.
            Quando Francesco di Sales parla dei sensi, il suo interesse lo porta specialmente sul piano educativo e morale, e il suo insegnamento al riguardo si ricollega a quanto ha esposto sul corpo in generale: ammirazione e vigilanza. Da una parte dice che Dio ci dona “gli occhi per vedere le meraviglie delle sue opere, la lingua per lodarlo, e così per tutte le altre facoltà”, senza mai omettere, dall’altra, la raccomandazione a “porre delle sentinelle agli occhi, alla bocca, alle orecchie, alle mani e all’odorato”.
            È necessario incominciare dalla vista, perché “fra tutte le parti esterne del corpo umano non ce n’è una, per fattura come per attività, più nobile dell’occhio”. L’occhio è fatto per la luce: lo dimostra il fatto che più le cose sono belle, piacevoli alla vista e debitamente illuminate, più l’occhio le guarda con avidità e vivacità. “Dagli occhi e dalle parole si conosce qual è l’anima e lo spirito dell’uomo, poiché gli occhi servono all’anima come il quadrante all’orologio”. È risaputo che tra gli amanti, gli occhi parlano di più della lingua.
            Bisogna vigilare sugli occhi, perché attraverso di loro possono entrare la tentazione e il peccato, come avvenne ad Eva, che rimase incantata nel vedere la bellezza del frutto proibito, o a Davide, che fissò il suo sguardo sulla moglie di Uria. In certi casi bisogna procedere come si fa con l’uccello da preda: per farlo ritornare è necessario mostrargli il logoro; per quietarlo occorre coprirlo con un cappuccio; allo stesso modo, per evitare gli sguardi cattivi, “bisogna distogliere gli occhi, coprirli con il cappuccio naturale e chiuderli”.
            Ammesso che le immagini visive siano largamente dominanti nelle opere di Francesco di Sales, occorre riconoscere che le immagini uditive sono assai degne di nota. Ciò evidenzia l’importanza che attribuiva all’udito per ragioni tanto estetiche quanto morali. “Una sublime melodia ascoltata con molto raccoglimento” produce un tale magico effetto da “incantare le orecchie”. Ma attenzione a non superare le capacità uditive: una musica, per bella che sia, se è forte e troppo vicina, ci dà fastidio e offende l’orecchio.
            D’altra parte, occorre sapere che “il cuore e le orecchie discorrono fra loro”, perché è attraverso l’orecchio che il cuore “ascolta i pensieri degli altri”. È ancora attraverso l’orecchio che entrano nel più profondo dell’anima parole sospette, ingiuriose, menzognere o malevole, dalle quali è necessario guardarsi bene; perché le anime si avvelenano attraverso l’orecchio, come il corpo attraverso la bocca. La donna onesta si tapperà le orecchie per non udire la voce dell’incantatore che vuole conquistarla subdolamente. Restando nell’ambito simbolico, Francesco di Sales dichiara che l’orecchio destro è l’organo attraverso il quale ascoltiamo i messaggi spirituali, le buone ispirazioni e mozioni, mentre quello sinistro serve per udire discorsi mondani e vani. Per custodire il cuore, proteggiamo quindi con grande cura le orecchie.
            Il miglior servizio che possiamo chiedere alle orecchie è quello di poter udire la parola di Dio, oggetto della predicazione, la quale esige uditori attenti e tesi a farla penetrare nei loro cuori affinché porti frutto. Filotea è invitata a “farla stillare” a sua volta nell’orecchio ora dell’uno e ora dell’altro, e a pregare Dio nell’intimo della anima sua, perché gli piaccia far penetrare quella santa rugiada nel cuore di chi l’ascolta.

Gli altri sensi
            Anche in tema di odorato, si è rilevato l’abbondanza delle immagini olfattive. I profumi sono tanto diversi quanto lo sono le sostanze odorose, come il latte, il vino, il balsamo, l’olio, la mirra, l’incenso, il legno aromatico, il nardo, l’unguento, la rosa, la cipolla, il giglio, la violetta, la viola del pensiero, la mandragola, il cinnamomo… Stupisce ancor più costatare i risultati prodotti con la fabbricazione dell’acqua odorosa:

Il basilico, il rosmarino, la maggiorana, l’issopo, i chiodi di garofano, la cannella, la noce moscata, i limoni e il muschio, mescolati insieme e tritati, danno effettivamente un profumo molto gradevole per la miscela dei loro odori; ma non è nemmeno paragonabile a quello dell’acqua che ne viene distillata, nella quale gli aromi di tutti questi ingredienti, isolati dai loro corpi, si fondono più perfettamente, dando origine ad uno squisito profumo che penetra molto di più l’olfatto di quanto non avverrebbe se, assieme all’acqua, ci fossero le parti materiali.

            Numerose sono le immagini olfattive ricavate dal Cantico dei cantici, poema orientale dove i profumi occupano un posto rilevante e dove uno dei versetti biblici più commentati da Francesco di Sales è il grido accorato della sposa: “Attirami a te, noi cammineremo e correremo insieme nella scia dei tuoi profumi”. E quanto è raffinata questa annotazione: “Il soave profumo della rosa è reso più sottile dalla vicinanza dell’aglio piantato nei pressi dei roseti!”.
            Non confondiamo, però, il sacro balsamo con i profumi di questo mondo. Esiste infatti un olfatto spirituale, che dovrebbe essere nel nostro interesse coltivare. Esso ci consente di percepire la presenza spirituale del soggetto amato, e inoltre fa sì che non ci lasciamo distrarre dai cattivi odori del prossimo. Il modello è il padre che raccoglie a braccia aperte il figliol prodigo che ritorna da lui “seminudo, sporco, lurido e puzzolente di immondizie per la lunga consuetudine coi porci”. Un’altra immagine realista compare in riferimento a certe critiche mondane: non meravigliamoci, raccomanda Francesco di Sales a Giovanna di Chantal, è necessario “che il poco unguento di cui disponiamo sembri puzzolente alle narici del mondo”.
            A proposito del gusto, certe osservazioni del vescovo di Ginevra potrebbero farci pensare che era un goloso nato, anzi un educatore del gusto: “Chi non sa che la dolcezza del miele si unisce sempre più al nostro senso del gusto con un progresso continuo di sapore, allorché, tenendolo lungamente in bocca, anziché inghiottirlo subito, il suo sapore penetra più a fondo il senso del nostro gusto?”. Ammessa la dolcezza del miele, occorre però apprezzare maggiormente il sale, per il fatto che è di uso più comune. In nome della sobrietà e della temperanza, Francesco di Sales raccomandava di saper rinunciare al gusto personale, mangiando ciò che ci “è messo davanti”.
            Infine, trattandosi del tatto, Francesco di Sales ne parla soprattutto in un senso spirituale e mistico. Così raccomanda di toccare Nostro Signore crocifisso: il capo, le sante mani, il prezioso corpo, il cuore. Al giovane che sta per prendere il largo nel vasto mare del mondo richiede di governarsi energicamente e di disprezzare le mollezze, le delizie corporali e le leziosaggini: “Vorrei che a volte voi trattaste duramente il vostro corpo per fargli provare qualche asprezza e durezza, disprezzando delicatezze e cose gradevoli ai sensi; perché è necessario che talvolta la ragione eserciti la sua superiorità e l’autorità che ha di regolare gli appetiti sensuali”.

Il corpo e la vita spirituale
            Anche il corpo è chiamato a partecipare alla vita spirituale che si esprime in primo luogo nella preghiera: “È vero, l’essenza della preghiera è nell’anima, ma la voce, i gesti e gli altri segni esteriori, mediante i quali si rivela l’intimo dei cuori, sono nobili appannaggi e utilissime proprietà della preghiera; ne sono effetti e operazioni. L’anima non si accontenta di pregare se l’uomo nella sua interezza non prega; essa prega assieme agli occhi, alle mani, alle ginocchia”.
            Egli aggiunge che “l’anima prosternata davanti a Dio fa piegare facilmente su di sé l’intero corpo; alza gli occhi dove eleva il cuore, innalza le mani là, da dove aspetta un aiuto”. Francesco di Sales spiega anche che “pregare in spirito e verità è pregare volentieri e affettuosamente, senza finzione né ipocrisia, e impegnando del resto l’uomo intero, anima e corpo, affinché ciò che Dio ha unito non sia separato”. “Bisogna che tutto l’uomo preghi”, ripete alle visitandine. Ma la miglior preghiera è quella di Filotea, quando decide di consacrare a Dio non solamente l’anima, il suo spirito e il suo cuore, ma anche il suo “corpo con tutti i suoi sensi”; è così che l’amerà e servirà veramente con tutto il suo essere.




La «buona notte»

            Una sera, Don Bosco, addolorato per una certa indisciplinatezza generale notata all’Oratorio di Valdocco tra i ragazzi interni, si presentò, come al solito, a dir loro due parole dopo la preghiera della sera. Stette un istante in silenzio sulla piccola cattedra posta all’angolo dei portici dove usava dare ai giovani la cosiddetta «Buona Notte» che consisteva in un breve sermoncino serale. Dato uno sguardo attorno, disse:
            — Non sono contento di voi. Questa sera non posso dir altro!
            E discese dalla cattedra nascondendo le mani nelle maniche della veste, per non permettere che gli fossero baciate, come allora i ragazzi, prima di andare a riposo, usavano fare. Poi, lentamente, si avvicinò alla scala per salire in camera sua senza indirizzare parola ad alcuno. Quel suo modo di fare produsse un effetto magico. Si sentì tra i giovani qualche singhiozzo represso, molte facce erano rigate di lacrime e tutti andarono a dormire pensierosi, convinti di aver disgustato non solo Don Bosco ma anche il Signore (MB IV, 565).

Lo squillo della sera
            Il salesiano Don Giovanni Gnolfo nel suo studio: La «Buona Notte» di Don Bosco, fa notare che il mattino è risveglio di vita e di attività, la sera invece è adatta a seminare nella mente dei giovani un’idea che germogli in loro anche nel sonno. E con un ardito paragone si richiama addirittura al dantesco «squillo della sera»:
Era già l’ora che volge il desìo
ai naviganti e intenerisce il core…
            Proprio nell’ora della preghiera serale l’Alighieri descrive, infatti, nel Canto ottavo del «Purgatorio», i Re in una valletta mentre cantano l’inno della Liturgia delle Ore Te lucis ante terminum… (Prima che termini la luce, o Dio, noi cerchiamo Te, perché ci custodisca).
            Caro e sublime momento quello della «Buona Notte» di Don Bosco! Iniziava con una lode e le preghiere della sera e terminava con le sue parole che aprivano il cuore dei suoi figli alla riflessione, alla gioia, alla speranza. Egli ci teneva proprio a quell’incontro serale con tutta la comunità di Valdocco. Don G. B. Lemoyne ne fa risalire l’origine a Mamma Margherita. La buona madre nel mettere a letto il primo orfanello giunto dalla Val Sesia, gli fece alcune raccomandazioni. Di lì sarebbe derivata nei collegi salesiani la bella usanza di rivolgere brevi parole ai giovani prima di mandarli a riposo (MB III, 208-209). Don E. Ceria, riportando le parole pronunciate dal Santo nel ripensare ai primi tempi dell’Oratorio, «Ho cominciato a fare un brevissimo sermoncino alla sera dopo le orazioni» (MO, 205), pensa piuttosto ad un’iniziativa diretta di Don Bosco. Comunque, se Don Lemoyne accettò l’idea di alcuni dei primi discepoli, era perché pensava che la «Buona Notte» di Mamma Margherita rispondesse emblematicamente allo scopo di Don Bosco nel l’introdurre quell’usanza (Annali III, 857).

Caratteristiche della «Buona Notte»
            Una caratteristica della «Buona Notte» di Don Bosco era l’argomento da lui trattato: un fatto di attualità che colpisse, qualcosa di concreto che creasse suspense e permettesse anche domande da parte degli ascoltatori. A volte interrogava lui stesso, instaurando così un dialogo di grande attrattiva per tutti.
            Altre caratteristiche erano la varietà degli argomenti trattati e la brevità del discorso per evitare monotonia e conseguente noia negli ascoltatori. Non sempre, però, Don Bosco era breve, specialmente quando raccontava i suoi famosi sogni o i viaggi da lui compiuti. Ma abitualmente si trattava di un discorsetto di pochi minuti.
            Non si trattava, insomma, né di prediche né di lezioni scolastiche, ma di brevi parole affettuose che il buon padre rivolgeva ai suoi figli prima di mandarli a riposo.
            Le eccezioni alla regola facevano, naturalmente, enorme impressione, come avvenne la sera del 16 settembre 1867. Dopo essere stato tentato dai superiori ogni mezzo di correzione, alcuni ragazzi risultavano incorreggibili ed erano di scandalo ai compagni.
            Don Bosco salì sulla piccola cattedra. Incominciò con il citare il brano del Vangelo dove il Divin Salvatore pronuncia parole terribili contro chi scandalizza i pargoli. Ricordò le serie ammonizioni da lui ripetutamente fatte a quegli scandalosi, i benefici che essi avevano ottenuto in collegio, l’amore paterno di cui erano stati circondati, e poi proseguì:
«Costoro credono di non essere conosciuti, ma io so chi sono e potrei nominarli in pubblico. Se non li nomino, non credete che non ne sia pienamente informato… Che se volessi nominarli, potrei dire: Sei tu, o A… (e pronunciò nome e cognome) un lupo che ti aggiri in mezzo ai compagni e li allontani dai superiori mettendo in ridicolo i loro avvisi… Sei tu, o B… un ladro che coi discorsi appanni il candore dell’innocenza altrui… Sei tu o C… un assassino che con certi biglietti, con certi libri, strappi dal fianco di Maria i suoi figlioli… Sei tu o D… un demonio che guasti i compagni e impedisci loro con i tuoi scherni la frequenza ai Sacramenti…».
            Sei furono nominati. La voce di Don Bosco era calma. Ogni volta che pronunciava un nome si udiva un grido soffocato del colpevole che risuonava in mezzo al cupo silenzio dei compagni esterrefatti.
            Il giorno dopo alcuni furono mandati a casa. Quelli che poterono rimanere, cambiarono vita: Il «buon padre» Don Bosco non era un buonuomo davvero! Ed eccezioni di questo genere confermano la regola della sua «Buona Notte».

La chiave della moralità
            Non per nulla Don Bosco un giorno del 1875, a chi si stupiva come mai nell’Oratorio non si verificassero certi disordini lamentati in altri collegi, enumerò i segreti messi in azione a Valdocco, e tra questi indicò il seguente: «Mezzo potente di persuasione al bene è il rivolgere ai giovani due parole confidenziali ogni sera dopo le orazioni. Si taglia la radice ai disordini, prima ancora che nascano» (MB XI, 222).
            E nel suo prezioso documento Il sistema preventivo nell’educazione della gioventù, lasciò scritto che la «Buona Notte» del Direttore della Casa poteva divenire «la chiave della moralità, del buon andamento e del successo dell’educazione» (Costituzioni della Società di San Francesco di Sales, p. 239-240)
            Don Bosco faceva vivere la giornata ai suoi giovani tra due momenti solenni, anche se ben diversi tra loro, al mattino l’Eucaristia, perché la giornata non stemperasse il loro ardore giovanile, alla sera le preghiere e la «Buona Notte» perché prima del sonno riflettessero su valori che avrebbero illuminato la notte.




I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana

Il 4 giugno 2024 sono stati inaugurati e benedetti dall’allora Rettor Maggiore, il Cardinale Ángel Fernández Artime, i nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana situati presso la comunità “Zeffirino Namuncurà” in Via della Bufalotta a Roma. Nel piano di ristrutturazione della Sede Centrale, il Rettor Maggiore con il suo Consiglio decise di collocare gli ambienti relativi alla Postulazione Generale Salesiana in questa nuova presenza salesiana in Roma.

            Da don Bosco fino ai nostri giorni riconosciamo una tradizione di santità a cui merita dare attenzione, perché incarnazione del carisma che da lui ha avuto origine e che si è espresso in una pluralità di stati di vita e di forme. Si tratta di uomini e donne, giovani e adulti, consacrati e laici, vescovi e missionari che in contesti storici, culturali, sociali diversi nel tempo e nello spazio hanno fatto brillare di singolare luce il carisma salesiano, rappresentando un patrimonio che svolge un ruolo efficace nella vita e nella comunità dei credenti e per gli uomini di buona volontà. La Postulazione accompagna 64 Cause di Beatificazione e Canonizzazione riguardanti 179 tra Santi, Beati, Venerabili, Servi di Dio. Merita sottolineare che circa la metà dei gruppi della Famiglia Salesiana (15 su 32) hanno in corso almeno una Causa di Beatificazione e Canonizzazione.

Il progetto dei lavori è stato elaborato e seguito dall’architetto Toti Cameroni. Individuato lo spazio per la collocazione degli ambienti della Postulazione, comprendente originariamente un lungo e ampio corridoio e un grande salone, si è passati allo studio della distribuzione degli stessi, in base alle esigenze richieste. La soluzione definitiva è stata così progettata e realizzata:

La biblioteca con librerie a tutta altezza divise in quadrotti da cm. 40×40 che rivestono completamente le pareti. Lo scopo è raccogliere e custodire le diverse pubblicazioni relative alle figure di santità, nella consapevolezza che le vite e gli scritti dei santi hanno costituito, fin dall’antichità, una lettura frequente tra i fedeli, suscitando conversione e desiderio di vita più buona: essi riflettono lo splendore della bontà, della verità e della carità di Cristo. Inoltre, tale spazio si presta bene anche per ricerche personali, accoglienza di gruppi e riunioni.

            Da qui si passa all’ambiente dell’accoglienza che vuole essere uno spazio di spiritualità e di meditazione, come nelle visite ai monasteri del Monte Athos, dove l’ospite veniva introdotto prima di tutto nella cappella delle reliquie dei Santi: è lì che si trovava il cuore del monastero e da lì proveniva l’incitamento alla santità per i monaci. In questo spazio è stata realizzata una serie di piccole vetrinette che illuminano reliquiari o oggetti di valore inerenti alla santità salesiana. La parete di destra è rivestita da una boiserie in legno con inseriti pannelli sostituibili che rappresentano alcuni dei santi, beati, venerabili e servi di Dio della Famiglia Salesiana.

            Una porta immette nel locale più grande della postulazione: l’archivio. Un compattatore di 640 metri lineari permette di archiviare moltissimi documenti relativi ai diversi processi di Beatificazione e Canonizzazione. Una lunga cassettiera è posizionata sotto le finestre: sono collocate immaginette e paramenti liturgici.
            Un piccolo corridoio dall’accoglienza, dove sulle pareti si possono ammirare tele e dipinti, introduce prima in due luminosi uffici con arredi e poi nella custodia delle reliquie. Anche in questo spazio l’arredo riempie le pareti, armadiature e cassettiere accolgono le reliquie e i paramenti liturgici.

Un deposito e un piccolo locale adibito a zona break completano gli ambenti della postulazione.
            L’inaugurazione e la benedizione di questi locali ricorda che siamo depositari di una preziosa eredità che merita di essere conosciuta e valorizzata. Oltre all’aspetto liturgico-celebrativo, occorre valorizzare appieno le potenzialità di tipo spirituale, pastorale, ecclesiale, educativo, culturale, storico, sociale, missionario… delle Cause. La santità riconosciuta, o in via di riconoscimento, da un lato è già realizzazione della radicalità evangelica e della fedeltà al progetto apostolico di don Bosco, cui guardare come risorsa spirituale e pastorale; dall’altro è provocazione a vivere con fedeltà la propria vocazione per essere disponibili a testimoniare l’amore sino all’estremo. I nostri Santi, Beati, Venerabili e Servi di Dio sono l’autentica incarnazione del carisma salesiano e delle Costituzioni o Regolamenti dei nostri Istituti e Gruppi nel tempo e nelle situazioni più diverse, vincendo quella mondanità e superficialità spirituale che minano alla radice la nostra credibilità e fecondità.
            L’esperienza conferma sempre più che la promozione e la cura delle Cause di Beatificazione e Canonizzazione della nostra Famiglia, la celebrazione corale di eventi inerenti alla santità, sono dinamiche di grazia che suscitano gioia evangelica e senso di appartenenza carismatica, rinnovando propositi ed impegni di fedeltà alla chiamata ricevuta e generando fecondità apostolica e vocazionale. I santi sono veri mistici del primato di Dio nel dono generoso di sé, profeti di fraternità evangelica, servi dei fratelli con creatività.

            Al fine di promuovere le Cause di Beatificazione e Canonizzazione della Famiglia Salesiana e conoscere da vicino il patrimonio della santità fiorita da don Bosco la Postulazione è disponibile ad accogliere persone e gruppi che vogliono conoscere e visitare questi ambienti, offrendo anche la possibilità mini-ritiri con percorsi su tematiche specifiche e la presentazione di documenti, reliquie, oggetti significativi. Per informazioni scrivere a postulatore@sdb.org.

Galleria foto – nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana

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I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana





Diffondere lo spirito missionario di don Bosco

Ci avviciniamo alla celebrazione dei 150 anni della Prima Spedizione Missionaria salesiana (1875-2025). La dimensione missionaria della Società Salesiana fa parte del suo “DNA”. È stata così voluta da don Bosco fin dall’inizio, e oggi la congregazione è presente in 136 paesi. Questo slancio iniziale continua anche oggi ed è sostenuto dal Dicastero delle Missioni. Presentiamo brevemente la loro attività e organizzazione.

            Don Bosco, pur non essendo mai partito per terre lontane come missionario ad gentes, ha sempre avuto un cuore missionario ed un ardente desiderio di condividere il carisma salesiano per raggiungere tutti i confini del mondo e contribuire alla salvezza dei giovani.
Questo è stato possibile grazie alla disponibilità di tanti salesiani inviati nelle spedizioni missionarie (a fine settembre di quest’anno si celebrerà la 155esima) che, collaborando con i locali e i laici, hanno permesso la diffusione e l’inculturazione del carisma salesiano. Rispetto ai primi “pionieri” oggi la figura del missionario deve rispondere a sfide diverse, e il paradigma missionario si è aggiornato per essere un veicolo efficace di evangelizzazione nel mondo di oggi. Innanzitutto, come ci ricorda don Alfred Maravilla, Consigliere Generale per le Missioni, (nel 2021 ha scritto una lettera, “La vocazione missionaria salesiana”), le missioni non rispondono più a criteri geografici, come una volta, e i missionari di oggi provengono dai cinque continenti e si inviano ai cinque continenti, perciò non esiste più una netta separazione tra “terre di missione” e altre presenze salesiane. Inoltre, molto importante è la distinzione tra la vocazione missionaria salesiana, ovvero la chiamata che alcuni salesiani ricevono per essere inviati per tutta la vita in un altro luogo come missionari, e lo spirito missionario, tipico di tutti i salesiani e di tutti i membri di una comunità educativo-pastorale, che si manifesta nel cuore oratoriano e nello slancio per l’evangelizzazione dei giovani.

            Il compito di promuovere lo spirito missionario e mantenerlo vivo nei salesiani e nei laici è affidato soprattutto ai “Delegati Ispettoriali per l’Animazione Missionaria” (DIAM), ovvero quei salesiani, o laici, che ricevono dall’Ispettore, il salesiano superiore della provincia (“ispettoria”) in questione, il compito di occuparsi dell’animazione missionaria. Il DIAM ha un ruolo molto importante, è la “sentinella missionaria” che, attraverso la sua sensibilità ed esperienza, si impegna nel diffondere la cultura missionaria a vari livelli (v. Animazione Missionaria Salesiana. Manuale del Delegato Ispettoriale, Roma, 2019).

            Il DIAM innesca la sensibilità missionaria in tutte le comunità dell’Ispettoria e lavora in sinergia con i responsabili delle altre aree per testimoniare l’importanza di questo ambito trasversale e comune ad ogni cristiano. A livello pratico, organizza alcune iniziative, promuove la preghiera per le missioni nel giorno 11 del mese, nel ricordo della prima spedizione missionaria l’11 Novembre 1875, promuove nell’Ispettoria la “Giornata Missionaria Salesiana” ogni anno, diffonde i materiali preparati dalla Congregazione a tema missionario, come il bollettino “Cagliero11” o il video “CaglieroLife”. La Giornata Missionaria Salesiana, che ricorre dal 1988, è un’occasione bella per fermarsi a riflettere e rilanciare l’animazione missionaria. Non deve essere necessariamente una giornata, può essere un itinerario di più giorni e non ha una data fissa, in modo da permettere a tutti di scegliere il miglior momento dell’anno che si adatta al ritmo e al calendario dell’Ispettoria. Ogni anno viene scelto un tema comune e preparati alcuni materiali di animazione come spunto di riflessione e di attività, adattabili e modificabili. Quest’anno il tema è “costruttori di dialogo”, mentre nel 2025 si concentrerà sul 150esimo anniversario della prima spedizione missionaria secondo i tre verbi “Ringraziare, Ripensare, Rilanciare”. Il Cagliero11, invece, è un semplice bollettino di animazione missionaria, creato nel 2009 e pubblicato tutti i mesi, di due pagine che contiene riflessioni missionarie, interviste, notizie, curiosità e la preghiera mensile che viene proposta. Il “CaglieroLife” è un video di un minuto che, sulla base della preghiera missionaria del mese (a su volta basata sull’intenzione mensile proposta dal Papa), aiuta a riflettere sul tema. Questi sono tutti strumenti che permettono al DIAM di svolgere bene il suo compito di promozione dello spirito missionario, in linea con i tempi di oggi.
            Il DIAM collabora o coordina, a seconda delle Ispettorie, il Volontariato Missionario Salesiano (“VMS”), ovvero quelle esperienze giovanili di servizio solidale e gratuito in una comunità diversa dalla propria per un periodo di tempo continuo (in estate, per più mesi, un anno…), motivate dalla fede, con stile missionario e secondo la pedagogia e la spiritualità di Don Bosco (Il Volontariato nella Missione Salesiana. Identità e Orientamenti del Volontariato Missionario Salesiano, Roma, 2019).
            Quest’anno, a marzo, è stato realizzato a Roma un primo incontro dei coordinatori del VMS, che ha visto la presenza di una cinquantina di partecipanti, tra laici e salesiani, sotto la guida di un advisory team misto che ne ha curato l’organizzazione. Tra i punti salienti usciti dall’incontro, ricchissimo soprattutto per la condivisione delle esperienze, ci sono stati l’esplorazione dell’identità del volontario missionario salesiano, la formazione dei volontari e dei coordinatori, la collaborazione tra laici e religiosi, l’accompagnamento a tutti i livelli e il lavoro in rete. È stata presentata una nuova croce simbolica del VMS, che può essere utilizzata da tutti i volontari nelle varie esperienze in tutto il mondo, e la bozza di un nuovo sito web che fungerà come piattaforma di dati e di rete.
            Inoltre, il DIAM visita le comunità dell’Ispettoria e le accompagna dal punto di vista missionario, prendendosi cura soprattutto di quei salesiani che camminano per capire se sono chiamati a diventare missionari ad gentes.

            Ovviamente, tutto questo lavoro non può essere fatto da una singola persona, è importante il lavoro in equipe e la mentalità progettuale. Ogni Ispettoria ha una commissione di animazione missionaria, composta da salesiani, laici e giovani corresponsabili che formula proposte, suggerimenti creativi e coordina le attività. Inoltre, redige il progetto di animazione missionaria ispettoriale, da presentare all’Ispettore, che è la bussola da seguire con obiettivi, tempi scanditi, risorse e passi concreti. In questo modo si evita l’improvvisazione e si agisce seguendo un piano strutturato e strategico sulla base del più ampio progetto educativo pastorale salesiano ispettoriale (PEPSI), promuovendo una visione condivisa dell’animazione missionaria. Nell’Ispettoria vengono organizzati momenti di formazione permanente, di riflessione e di discussione, e si promuove la cultura missionaria a vari livelli. Queste strutture che si sono create nel tempo permettono un’animazione e un coordinamento più efficaci, nell’ottica di dare sempre il meglio per il bene dei giovani.

            Un altro aspetto importante è la condivisione tra DIAM di diversi Paesi e ispettorie. Ogni Regione (ne esistono sette: America Cono Sud, Interamerica, Europa Centro-Nord, Mediterranea, Africa – Madagascar, Asia Est – Oceania e Asia Sud) si incontra regolarmente, in presenza una volta l’anno e on-line ogni tre mesi circa, per mettere in comunione le proprie ricchezze, condividere le sfide e elaborare un cammino regionale. Gli incontri on-line, iniziati da pochi anni, permettono una maggiore conoscenza dei DIAM e dei contesti in cui operano, un aggiornamento continuo e di qualità, e uno scambio proficuo che arricchisce tutti. In ogni Regione c’è un coordinatore, che convoca le riunioni, promuove il cammino regionale e modera i processi comuni, insieme al salesiano referente dell’equipe centrale del Settore per le Missioni, che rappresenta il Consigliere Generale per le Missioni portando idee, spunti e suggerimenti all’interno del gruppo.

            Questo grande impegno, faticoso ma assai utile e pieno di gioia vera, è uno dei tasselli che si unisce alle tante tessere del mosaico salesiano, e fa sì che il sogno di Don Bosco possa continuare ancora oggi.




San Francesco di Sales forma i suoi collaboratori

            Francesco di Sales non desiderava diventare vescovo. «Io non sono nato per comandare», avrebbe detto a un confratello, il quale per incoraggiarlo gli diceva: «Ma tutti vi vogliono!». Accettò quando riconobbe il volere di Dio in quello del duca, del vescovo mons. de Granier, del clero e del popolo. Fu consacrato vescovo di Ginevra l’8 dicembre 1602 nella piccola chiesa della sua parrocchia di Thorens. In una lettera a Giovanna di Chantal scriverà che, in quel giorno, «Dio mi aveva tolto a me stesso per prendermi per sé, e quindi, darmi al popolo, intendendo dire che mi aveva trasformato da ciò che ero per me in ciò che dovevo essere per loro».
            Per compiere la missione pastorale affidatagli e volta al servizio di «questa misera et afflitta diocesi di Ginevra», aveva bisogno di collaboratori. Certo, secondo le circostanze amava chiamare tutti i fedeli «miei fratelli e miei collaboratori», ma tale appellativo era diretto a maggior ragione ai membri del clero, suoi «confratelli». La riforma del popolo auspicata dal concilio di Trento poteva iniziare anzi tutto da loro e per mezzo di loro.

La pedagogia dell’esempio
            Prima di tutto, il vescovo doveva dare l’esempio: il pastore doveva divenire il modello del gregge a lui affidato, e in primo luogo del clero. A tale scopo, Francesco di Sales si impose un Regolamento episcopale. Redatto in terza persona, prevedeva non soltanto i doveri strettamente religiosi dell’incarico pastorale, ma anche la pratica di un certo numero di virtù sociali, quali la semplicità della vita, la cura abituale dei poveri, la buona educazione e la decenza. Fin dall’inizio si legge un articolo contro la vanità ecclesiastica:

In primo luogo, quanto al comportamento esterno Francesco di Sales, vescovo di Ginevra, non indosserà abiti di seta e neppure vesti che siano più preziose di quelle finora portate; tuttavia esse saranno pulite, ben confezionate in modo da essere indossate con proprietà attorno al corpo.

            Nella sua casa episcopale si contenterà di due ecclesiastici e di qualche servo, sovente giovanissimo. Saranno anch’essi formati alla semplicità, alla cortesia e al senso dell’accoglienza. La tavola sarà frugale, ma curata e pulita. La sua casa dovrà essere aperta a tutti, perché «la casa d’un vescovo deve essere come una fontana pubblica, dove i poveri e i ricchi hanno lo stesso diritto di avvicinarsi per attingere l’acqua».
            Inoltre, il vescovo dovrà continuare a formarsi e a studiare: «Farà in modo di imparare ogni giorno qualcosa comunque utile e che sia conveniente per la sua professione». Di norma consacrerà due ore per studiare, tra le sette e le nove del mattino, e dopo la cena potrà leggere per la durata di un’ora. Riconosceva che lo studio gli piaceva, esso però gli era indispensabile: si considerava come un «perpetuo studente di teologia».

Conoscere le persone e le situazioni
            Un vescovo di questa levatura non poteva contentarsi di essere unicamente un buon amministratore. Per condurre il gregge, il pastore deve conoscerlo, e per conoscere l’esatta situazione della diocesi e del clero in particolare, Francesco di Sales intraprese una serie impressionante di visite pastorali. Nel 1605 visitò 76 parrocchie situate nella zona francese della diocesi e rientrò «dopo aver battuto le campagne per sei settimane senza interruzione». L’anno seguente, un grande giro pastorale durato alcuni mesi lo portò in 185 parrocchie, circondate da «monti spaventosi, coperti d’una lastra di ghiaccio spessa da dieci a dodici pertiche». Nel 1607 si rese presente in 70 parrocchie e, nel 1608, pose fine alle visite ufficiali della sua diocesi spostandosi in 20 parrocchie nei dintorni d’Annecy, ma continuerà a fare ancora non poche visite nel 1610 ad Annecy e nelle parrocchie circostanti. Nel corso di sei anni avrà visitato 311 parrocchie con le loro filiali.
            Grazie a queste visite e ai contatti personali, acquistò una conoscenza precisa della situazione reale e dei bisogni concreti della popolazione. Costatò l’ignoranza e la mancanza di spirito sacerdotale di certi preti, senza dimenticare gli scandali di alcuni monasteri dove la Regola non era più osservata. Il culto interessato, ridotto a funzione e inficiato dalla ricerca del guadagno, richiamava fin troppo i cattivi esempi tratti dalla Bibbia: «Assomigliamo a Nabal e Assalonne, che gioivano solo alla tosatura del gregge».
            Allargando il suo sguardo sulla Chiesa, giungeva a denunciare la vanità di certi prelati, veri «cortigiani di Chiesa», che paragonava ai coccodrilli e ai camaleonti: «Il coccodrillo è un animale a volte terrestre e a volte acquatico, partorisce sulla terra e va a caccia in acqua; così si comportano i cortigiani di Chiesa. Gli alberi dopo il solstizio rigirano le foglie: l’olmo, il tiglio, il pioppo, l’ulivo, il salice; avviene lo stesso tra gli ecclesiastici».
            Alle lagnanze riguardanti il comportamento del clero aggiungeva i rimproveri per la loro debolezza di fronte alle ingiustizie commesse dal potere temporale. Ricordando alcuni vescovi coraggiosi del passato, esclamava: «Oh! come vorrei vedere degli Ambrogio che comandano a Teodosio, dei Crisostomo che sgridano Eudossia, degli Ilario che correggono Costanzo!». Se si presta fede a una confidenza della madre Angelica Arnauld, mons. di Sales gemeva anche sui «disordini della Curia di Roma», veri «argomenti lacrimevoli», ben convinto però che «parlarne al mondo nella situazione in cui esso si trova, è causa di inutile scandalo».

Selezione e formazione dei candidati
            Il rinnovamento della Chiesa comportava uno sforzo teso al discernimento e alla formazione dei futuri preti, assai numerosi all’epoca. In occasione della prima visita pastorale nel 1605, il vescovo ricevette 175 giovani candidati; l’anno successivo ne ebbe 176; in meno di due anni aveva incontrato 570 candidati al ministero presbiterale o novizi nei monasteri.
            Il male nasceva in primo luogo dall’assenza di vocazione in un buon numero di loro. Sovente era preminente l’attrattiva del beneficio temporale o il desiderio delle famiglie di collocare i loro secondogeniti. In ogni caso si imponeva un discernimento diretto a valutare se la vocazione veniva «dal cielo o dalla terra».
            Il vescovo di Ginevra prendeva molto sul serio i decreti del concilio di Trento, il quale aveva previsto la creazione di seminari. La formazione doveva iniziare in tenera età. Fin dal 1603, si tentò di dar vita a un embrione di seminario minore a Thonon. Gli adolescenti erano poco numerosi, probabilmente per mancanza di mezzi e di spazio. Nel 1618 Francesco di Sales si propose di ricorrere direttamente all’autorità della Santa Sede per ottenere un appoggio giuridico e finanziario al proprio progetto. Voleva erigere un seminario, scriveva, nel quale i candidati potessero «imparare a osservare le cerimonie, a catechizzare ed esortare, a cantare ed esercitare le altre virtù clericali». Tutti i suoi sforzi, però, furono vani per la mancanza di risorse materiali.
            Come assicurare la formazione dei futuri preti in tali condizioni? Alcuni frequentavano i collegi o le università all’estero, mentre in maggioranza si formavano nelle canoniche, sotto la guida di un prete saggio e istruito o nei monasteri. Francesco di Sales voleva che in ogni centro importante della diocesi ci fosse un «teologale», ossia un membro del capitolo della cattedrale incaricato d’insegnare la sacra Scrittura e la teologia.
            L’ordinazione, ad ogni modo, era preceduta da un esame e prima di vedersi assegnata una parrocchia (con l’annesso beneficio), il candidato doveva superare un concorso. Il vescovo vi assisteva e interrogava di persona il candidato per cerziorarsi che possedesse le conoscenze e le qualità morali richieste.

Formazione permanente
            La formazione non doveva fermarsi al momento dell’ordinazione o dell’assegnazione di una parrocchia. Per assicurare la formazione continua dei suoi preti, il mezzo principale di cui disponeva il vescovo era l’annuale convocazione del sinodo diocesano. Il primo giorno di detta assemblea era solennizzato da una messa pontificale e da una processione attraverso la città di Annecy. Il secondo giorno, il vescovo lasciava la parola a uno dei suoi canonici, faceva rileggere gli statuti dei sinodi precedenti e raccoglieva le osservazioni dei parroci presenti. Dopo ciò incominciava il lavoro in commissioni per discutere di questioni riguardanti la disciplina ecclesiastica e il servizio spirituale e materiale delle parrocchie.
            Siccome le costituzioni sinodali contenevano parecchie norme disciplinari e rituali, la cura della formazione permanente, intellettuale e spirituale vi era visibile. Si riferivano ai canoni degli antichi concili, ma soprattutto ai decreti del «santissimo concilio di Trento». D’altra parte, vi si raccomandava la lettura di opere che trattavano di pastorale o di spiritualità, come quelle del Gersone (probabilmente l’Istruzione dei parroci per istruire il popolo semplice) e quelle del domenicano spagnolo Luis de Granada, autore di un’Introduzione al simbolo.
            La scienza, scriveva in una sua Esortazione agli ecclesiastici, «è l’ottavo sacramento della gerarchia della Chiesa». I mali della Chiesa erano dovuti principalmente all’ignoranza e alla pigrizia del clero. Per fortuna, sono venuti i padri gesuiti! Modelli di preti istruiti e zelanti, questi «grandi uomini», che «divorano i libri con i loro incessanti studi», hanno «ristabilito e consolidato la nostra dottrina e tutti i santi misteri della nostra fede; sicché ancor oggi, grazie al loro encomiabile lavoro, riempiono il mondo di uomini dotti che distruggono ovunque l’eresia». Nella conclusione, il vescovo riassumeva tutto il suo pensiero: «Siccome la divina Provvidenza, senza aver riguardo della mia incapacità, mi ha stabilito vostro vescovo, vi esorto a studiare senza stancarvi, affinché essendo dotti ed esemplari, siate irreprensibili, e pronti a rispondere a tutti coloro che vi interrogano su argomenti di fede».

Formare i predicatori
            Francesco di Sales predicava tanto sovente e così bene da essere considerato come uno dei migliori predicatori del suo tempo e modello dei predicatori. Predicò non soltanto nella sua diocesi, ma accettò di predicare anche a Parigi, a Chambéry, a Digione, a Grenoble e a Lione. Predicò inoltre nella Franca Contea, a Sion nel Vallese e in parecchie città del Piemonte, in particolare a Carmagnola, Mondovì, Pinerolo, Chieri e Torino.
            Per conoscere il suo pensiero sulla predicazione occorre far riferimento alla lettera che indirizzò, nel 1604, ad Andrea Frémyot, fratello della baronessa di Chantal, giovane arcivescovo di Bourges (aveva solo trentun anni), che gli aveva chiesto consiglio sul modo di predicare. Per predicare bene, diceva, occorrono due cose: la scienza e la virtù. Per ottenere un buon risultato, il predicatore deve cercare di istruire i suoi uditori e di toccare il loro cuore.
            Per istruirli bisogna andare sempre alla fonte: la Sacra Scrittura. Le opere dei Padri non dovranno essere trascurate; in effetti, «che cos’è la dottrina dei Padri della Chiesa, se non una spiegazione del Vangelo e un’esposizione della sacra Scrittura?». È bene servirsi ugualmente della vita dei santi che ci fanno sentire la musica del Vangelo. Quanto al grande libro della natura, creazione di Dio, opera della sua parola, esso costituisce una sorgente straordinaria di ispirazione se lo si sa osservare e meditare. «È un libro – scrive – che contiene la parola di Dio». Da uomo del suo tempo, cresciuto alla scuola degli umanisti classici, Francesco di Sales non escludeva dalle sue prediche gli autori pagani dell’antichità e persino un pizzico della loro mitologia, ma occorreva servirsene «come si usano i funghi, cioè, solo per stuzzicare l’appetito».
            Inoltre, ciò che aiuta parecchio la comprensione della predicazione e che la rende gradevole, è l’uso delle immagini, dei paragoni e degli esempi, tratti dalla Bibbia, dagli antichi autori o dall’osservazione personale. Le similitudini, infatti, possiedono «un’efficacia incredibile quando si tratta d’illuminare l’intelligenza e muovere la volontà».
            Ma il vero segreto dell’efficacia della predicazione è la carità e lo zelo del predicatore, che sa trovare nel più profondo del suo cuore le parole adatte. Bisogna parlare «con calore e con devozione, con semplicità, con candore e con fiducia, essere profondamente convinti di quello che si insegna e si inculca agli altri». Le parole devono uscire dal cuore più che dalla bocca, perché «il cuore parla al cuore, mentre la bocca non parla che alle orecchie».

Formare i confessori
            Un altro compito assunto da Francesco di Sales fin dagli albori del suo episcopato fu redigere una serie di Avvertimenti ai confessori. Contengono non solo una dottrina sulla grazia di questo sacramento, ma anche norme pedagogiche dirette a coloro che hanno una responsabilità di guida delle persone.
            Innanzi tutto, chi è chiamato a lavorare alla formazione delle coscienze e al progresso spirituale degli altri deve incominciare da sé stesso, per non meritare il rimprovero: «Medico, cura te stesso»; e l’ammonimento dell’apostolo: «Tu che giudichi gli altri, condanni te stesso». Il confessore è un giudice: compete a lui decidere se assolvere o meno il peccatore, tenuto conto delle disposizioni interiori del penitente e delle norme in vigore. È insieme medico, perché «i peccati sono malattie e ferite spirituali», per cui spetta a lui prescrivere i rimedi appropriati. Francesco di Sales, però, evidenzia che il confessore è soprattutto un padre:

Ricordatevi che i poveri penitenti dando inizio alla loro confessione vi chiamano padre, e che in effetti voi dovete avere un cuore paterno nei loro confronti. Accoglieteli con immenso amore, sopportandone pazientemente la rozzezza, l’ignoranza, la debolezza, la lentezza nel comprendere e altre imperfezioni, non desistendo mai dall’aiutarli e soccorrerli fin tanto che in loro c’è qualche speranza che possano correggersi.

            Un buon confessore deve essere attento allo stato di vita di ciascuno e procedere in maniera diversificata, tenendo conto della professione di ognuno, “sposato o no, ecclesiastico o no, religioso o secolare, avvocato o procuratore, artigiano o contadino”. Il tipo di accoglienza, però, doveva essere uguale per tutti. Egli, a detta della madre di Chantal, riceveva tutti «con uguale amore e dolcezza»: «signori e signore, borghesi, soldati, cameriere, contadini, mendicanti, malati, galeotti puzzolenti e abietti».
            Riguardo alle disposizioni interiori, ogni penitente si presenta a modo suo, e Francesco di Sales può fare appello alla propria esperienza quando traccia una specie di tipologia di penitenti. C’è chi si accosta «tormentato dalla paura e dalla vergogna», chi si mostra «sfrontato e senza alcun timore», chi è «timido e nutre qualche sospetto di ottenere il perdono dei suoi peccati» e chi, infine, è «perplesso perché non sa dire i propri peccati oppure perché non sa fare il proprio esame di coscienza».
            Una buona maniera di incoraggiare il penitente timido e di infondergli fiducia consiste nel riconoscere voi stessi che «non siete un angelo», e che «non trovate strano che gli uomini commettano peccati». Con lo sfrontato occorre comportarsi con serietà e gravità, ricordandogli che «all’ora della morte di nient’altro renderà strettissimo conto se non delle confessioni mal fatte». Ma soprattutto, il vescovo di Ginevra insisteva su questa raccomandazione: «Siate caritatevoli e discreti verso tutti i penitenti e specialmente verso le donne». Si ritrova questa tonalità salesiana nel frammento del seguente consiglio: «Guardatevi bene dall’usare parole troppo rudi verso i penitenti; perché talvolta noi siamo così austeri nelle nostre correzioni da mostrarci biasimevoli più di quanto sono colpevoli coloro che rimproveriamo». Inoltre, cercherà di «non imporre ai penitenti penitenze confuse, bensì specifiche, e di essere più incline alla dolcezza che al rigore».

Formarsi insieme
            Conviene infine prendere in considerazione una preoccupazione del vescovo di Ginevra concernente l’aspetto comunitario della formazione, perché era persuaso dell’utilità dell’incontro, dell’animazione vicendevole e dell’esempio. Non ci si forma bene se non insieme; di qui il desiderio di riunire i preti e anche, per quanto possibile, di dividerli in gruppi. Le assemblee sinodali che, ad Annecy, vedevano riuniti una volta all’anno i parroci attorno al loro vescovo erano una cosa buona, anche insostituibile, ma non sufficiente.
            A tal fine, il vescovo di Ginevra allargò il ruolo dei «sorveglianti», una specie di animatori di settori pastorali con la «facoltà e la missione di sostenere, avvertire, esortare gli altri preti e di vegliare sulla loro condotta». Erano incaricati non soltanto di visitare i parroci e le chiese di loro competenza, ma anche di riunire i loro confratelli due volte all’anno per trattare problematiche pastorali. Il vescovo ci teneva molto a queste riunioni, «rimarcava l’importanza delle assemblee, e ingiungeva ai suoi sorveglianti di inviargli i registri dei presenti e le ragioni degli assenti». A detta di un testimone, vi faceva tenere «prediche sulle virtù richieste a un prete e sui doveri dei pastori riguardanti il bene delle anime loro affidate». Era prevista anche «una conferenza spirituale attinente le difficoltà che potevano nascere circa il significato delle Costituzioni sinodali oppure i mezzi necessari per ottenere migliori risultati in vista della salvezza delle anime».
            Il desiderio di raggruppare i preti fervorosi gli suggerì un progetto sul modello degli Oblati di sant’Ambrogio, fondati da san Carlo Borromeo per aiutarlo nel rinnovamento del clero. Non si potrebbe forse tentare qualche cosa di simile in Savoia per favorire tra le file del clero non soltanto la riforma ma anche la devozione? Di fatto, secondo l’amico mons. Camus, Francesco di Sales avrebbe coltivato il progetto di creare una congregazione di preti secolari «libera e senza voti». Vi rinunciò quando fu fondata a Parigi la congregazione dell’Oratorio, una società di «sacerdoti riformati» che lui stesso cercò di portare in Savoia.
            I suoi sforzi non furono coronati sempre dal successo; testimoniano, in ogni caso, la sua costante cura di formare i propri collaboratori nel quadro di un progetto globale di rinnovamento della vita ecclesiale.