Giuseppe Augusto Arribat: un Giusto tra le Nazioni

1. Profilo biografico
            Il venerabile Giuseppe Augusto Arribat nacque il 17 dicembre 1879 a Trédou (Rouergue – Francia). La povertà della famiglia costrinse il giovane Augusto ad iniziare la scuola media presso l’oratorio salesiano di Marsiglia solamente all’età di 18 anni. Per la situazione politica di inizio secolo, egli cominciò la vita salesiana in Italia e ricevette la veste talare dalle mani del beato Michele Rua. Tornato in Francia cominciò, come tutti i suoi confratelli, la vita salesiana in una condizione di semi clandestinità, prima a Marsiglia e poi a La Navarre, fondata da Don Bosco nel 1878.
            Ordinato sacerdote nel 1912, venne chiamato alle armi durante la Prima guerra mondiale e fece l’infermiere barelliere. Terminata la guerra don Arribat continuò a lavorare intensamente a La Navarre fino al 1926, dopo di che andò a Nizza dove stette fino al 1931. Ritornò a La Navarre come direttore e contemporaneamente incaricato della parrocchia Sant`Isidoro nella valle di Sauvebonne. I suoi parrocchiani lo chiameranno “Il santo della valle”.
            Al termine del terzo anno fu mandato a Morges, nel cantone di Vaud, in Svizzera. Ricevette poi tre mandati successivi di sei anni ciascuno, prima a Millau, poi a Villemur e infine a Thonon nella diocesi di Annecy. Il periodo più carico di pericoli e di grazie fu probabilmente quello del suo incarico a Villemur durante la Seconda guerra mondiale. Tornato a La Navarre nel 1953, don Arribat vi resterà sino alla sua morte avvenuta il 19 marzo 1963.

2. Profondamente uomo di Dio
            Uomo del dovere quotidiano, nulla per lui era secondario, e tutti sapevano che si alzava per primo molto presto per pulire i bagni degli allievi e il cortile. Fatto direttore della casa salesiana, e volendo fare il suo dovere fino alla fine e alla perfezione, per rispetto e amore agli altri, spesso finiva le sue giornate molto tardi, abbreviando le sue ore di riposo. D’altra parte, era sempre disponibile, accogliente verso tutti, sapendo adattarsi a tutti, sia ai benefattori e grandi proprietari terrieri, sia ai servitori di casa, mantenendo una preoccupazione permanente per i novizi e i confratelli, e soprattutto per i giovani a lui affidati.
            Questo dono totale di sé si manifestò fino all’eroismo. Durante la Seconda guerra mondiale egli non esitò a ospitare famiglie e giovani ebrei, esponendosi al grave rischio di un’indiscrezione o di una denuncia. Trentatré anni dopo la sua morte, coloro che erano stati testimoni diretti del suo eroismo, fecero riconoscere il valore del suo coraggio e del sacrificio della sua vita. Il suo nome è iscritto a Gerusalemme, dove è stato ufficialmente riconosciuto come un «Giusto tra le Nazioni».
            Fu riconosciuto da tutti come un vero uomo di Dio, che faceva «tutto per amore, e nulla per forza», come diceva san Francesco di Sales. Ecco il segreto di un’irradiazione, di cui forse lui stesso non intuiva tutta la portata.
            Tutti i testimoni hanno rilevato la fede viva di questo servo di Dio, uomo di preghiera, senza ostentazione. La sua fede era la fede irradiante di un uomo sempre unito a Dio, un vero uomo di Dio, e in particolare un uomo dell’Eucaristia.
            Nel celebrare la Messa o quando pregava, emanava dalla sua persona una sorta di fervore che non poteva passare inosservato. Un confratello ha dichiarato che: «vedendolo tracciare su di sé il suo gran segno della croce, ognuno sentiva un opportuno richiamo alla presenza di Dio. Il suo raccoglimento all’altare era impressionante». Un altro salesiano ricorda che «s’imponeva di fare alla perfezione le sue genuflessioni con un coraggio, un’espressione di adorazione che mi portavano alla devozione». Lo stesso aggiunge: «Egli ha rafforzato la mia fede».
            La sua visione di fede traspariva in confessionale e nelle conversazioni spirituali. Egli comunicava la sua fede. Uomo della speranza, contava in ogni momento su Dio e la sua Provvidenza, mantenendo la calma nella tempesta e diffondendo ovunque un senso di pace.
            Questa profonda fede si è ulteriormente perfezionata in lui durante gli ultimi dieci anni della sua vita. Non aveva più alcuna responsabilità e non poteva più leggere facilmente. Viveva soltanto dell’essenziale e lo testimoniava con semplicità accogliendo tutti quelli che sapevano bene che la sua semicecità non gli impediva di vedere chiaro nei loro cuori. In fondo alla cappella, il suo confessionale era un luogo assediato dai giovani e dai vicini della valle.

3. «Non sono venuto per essere servito…»
            L’immagine che i testimoni hanno conservato di don Augusto è quella del servitore del Vangelo, ma nel senso più umile. Spazzare il cortile, pulire i bagni degli allievi, lavare i piatti, curare e vegliare i malati, vangare il giardino, rastrellare il parco, decorare la cappella, allacciare le scarpe dei piccoli, pettinare i loro capelli, niente gli ripugnava ed era impossibile distoglierlo da questi umili esercizi di carità. Il “buon padre” Arribat, è stato più generoso con le azioni concrete che con le parole: dava volentieri la sua stanza al visitatore occasionale, che rischiava di essere alloggiato meno comodamente di lui. La sua disponibilità era permanente, di ogni momento. La sua preoccupazione per la pulizia e la dignitosa povertà non lo lasciavano in pace, perché la casa doveva essere accogliente. Come uomo dal contatto facile, approfittava delle sue lunghe marce per salutare tutti e avviare un dialogo, anche con i “mangia preti”.
            Don Arribat è vissuto oltre trent’anni alla Navarre, nella casa che Don Bosco stesso volle mettere sotto la protezione di san Giuseppe, capo e servitore della Sacra Famiglia, modello di fede nel nascondimento e nella discrezione. Nella sua sollecitudine per i bisogni materiali della casa e attraverso la sua vicinanza a tutte le persone dedite ai lavori manuali, contadini, giardinieri, operai, impiegati, uomini tuttofare, persone di cucina o di lavanderia, questo sacerdote faceva pensare a san Giuseppe, di cui portava anche il nome. E poi non è forse morto il 19 marzo, festa di san Giuseppe?

4. Un autentico educatore salesiano
            «La Provvidenza mi ha assegnato in modo speciale la cura dell’infanzia», ha detto per riassumere la sua specifica vocazione di salesiano, discepolo di Don Bosco, al servizio dei giovani, specialmente dei più bisognosi.
            Don Arribat non aveva esteriormente nessuna delle qualità particolari che s’impongono facilmente alla gioventù. Non era un grande sportivo, né un brillante intellettuale, né un parlatore che trascina le folle, né un musicista, né un uomo di teatro o di cinema, niente di tutto questo! Come spiegare l’influenza che esercitò sui giovani? Il suo segreto non è altro che quello che aveva imparato da Don Bosco, che conquistò il suo piccolo mondo con tre cose ritenute fondamentali nell’educazione della gioventù: la ragione, la religione e l’amorevolezza. Come il “padre e maestro della gioventù” egli ha saputo parlare con i giovani il linguaggio della ragione, per motivare, spiegare, persuadere, convincere i suoi allievi, evitando i moti della passione e dell’ira. Ha messo al centro della sua vita e della sua azione la religione, non nel senso dell’imposizione forzata, ma della testimonianza luminosa del suo rapporto con Dio, con Gesù e con Maria. Quanto all’amorevolezza, con la quale si guadagna il cuore dei giovani, vale la pena richiamare alla memoria a proposito del servo di Dio ciò che diceva san Francesco di Sales: «Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con un barile di aceto».
            Particolarmente autorevole la testimonianza di don Pietro Ricaldone, futuro successore di Don Bosco, che scriveva dopo la sua visita canonica del 1923-1924: «Don Arribat Augusto è catechista, confessore e legge i voti di condotta! Si tratta di un santo confratello. Solo la sua bontà può rendere meno incompatibili tra di loro le sue diverse mansioni». Poi ripete l’elogio: «È un ottimo confratello, non troppa salute. Per le sue belle maniere gode della confidenza dei giovani più grandi che vanno quasi tutti da lui».
            Una cosa che colpiva era il rispetto quasi cerimonioso che manifestava verso tutti, ma soprattutto per i fanciulli. A un ometto di otto anni dava del “voi” chiamandolo “Monsieur”. Una signora ha testimoniato: «Lui rispettava talmente l’altro che l’altro era quasi costretto a innalzarsi alla dignità che gli era testimoniata in quanto figlio di Dio, e tutto ciò senza nemmeno parlare di religione».
            Viso aperto e sorridente, questo figlio di san Francesco di Sales e di Don Bosco non dava fastidio a nessuno. Se la magrezza della persona e l’ascetismo richiamavano il santo curato d’Ars e don Rua, il suo sorriso e la sua dolcezza erano di marca tipicamente salesiana. Come dichiara un testimone: «Era l’uomo più naturale del mondo, pieno di umorismo, spontaneo nelle sue reazioni, giovane di cuore».
            Le sue parole, che non erano quelle di un grande oratore, risultavano efficaci perché promanavano dalla semplicità e dal fervore della sua anima.
            Uno dei suoi exallievi testimoniò: «Nelle nostre teste di bambini, nelle nostre conversazioni infantili, dopo aver sentito le storie della vita di Giovanni Maria Vianney, ci rappresentavamo don Arribat come se fosse il Santo curato d’Ars per noi. Le ore di catechismo, presentato in linguaggio semplice ma vero, erano seguite con grande attenzione. Durante la Messa, le panche sul retro della cappella erano sempre piene. Avevamo l’impressione di incontrare Dio nella sua bontà e ciò ha segnato la nostra gioventù».

5. Don Arribat ecologista?
            Ecco un tratto originale per completare il quadro di questa figura che sembra del tutto ordinaria. È stato ritenuto quasi come un ecologista prima che questo termine fosse molto diffuso. Piccolo contadino, aveva imparato ad amare e rispettare profondamente la natura. Le sue composizioni giovanili sono piene di freschezza e di osservazioni molto fini, con un tocco di poesia. Ha condiviso spontaneamente il lavorare di questo mondo rurale, dove ha vissuto gran parte della sua lunga esistenza.
            A proposito del suo amore per gli animali, quante volte venne visto «il buon padre, con una scatola sotto il braccio, piena di briciole di pane, facendo faticosamente a piccoli passi molto dolorosi il percorso dal refettorio fino alle sue colombe». Fatto incredibile per chi non ha visto, narra la persona che ha assistito alla scena, le colombe appena lo vedevano si sono fatte avanti verso la grata come per accoglierlo. Lui ha aperto la gabbia e subito sono venute da lui, alcune si sono poste sulle sue spalle. «Egli parlava loro con espressioni che non posso ricordare, era come se le conoscesse tutte». Quando un ragazzino gli portava un passerotto che aveva preso dal nido, gli diceva: «Tu devi rendergli la libertà». Si racconta anche la storia di un cane lupo abbastanza feroce, che solo lui fu in grado di ammansire, e che venne a coricarsi accanto alla sua bara dopo la sua morte.
            Il rapido profilo spirituale di don Augusto Arribat ci ha riproposto alcuni lineamenti spirituali del volto di santi cui si sentiva vicino: l’amorevolezza di Don Bosco, l’ascesi di don Rua, la dolcezza di san Francesco di Sales, la pietà sacerdotale del santo curato d’Ars, l’amore della natura di san Francesco d’Assisi e il lavoro costante e fedele di san Giuseppe.




Venerabile Ottavio Ortiz Arrieta Coya, vescovo

Ottavio Ortiz Arrieta Coya, nato a Lima, in Perù, il 19 aprile 1878, è stato il primo salesiano peruviano. Da giovane si formò come falegname, ma il Signore lo chiamò a una missione più alta. Emise la sua prima professione salesiana il 29 gennaio 1900 e fu ordinato sacerdote nel 1908. Nel 1922 fu consacrato vescovo della diocesi di Chachapoyas, incarico che mantenne con dedizione fino alla morte, avvenuta il 1º marzo 1958. Due volte rifiutò la nomina alla più prestigiosa sede di Lima, preferendo restare vicino al suo popolo. Instancabile pastore, percorse tutta la diocesi per conoscere personalmente i fedeli e promosse numerose iniziative pastorali per l’evangelizzazione. Il 12 novembre 1990, sotto il pontificato di San Giovanni Paolo II, fu aperta la sua causa di canonizzazione, e gli fu attribuito il titolo di Servo di Dio. Il 27 febbraio 2017, papa Francesco ne ha riconosciuto le virtù eroiche, dichiarandolo Venerabile.


            Il venerabile Mons. Ottavio Ortiz Arrieta Coya trascorse la prima parte della vita quale oratoriano, studente e quindi diventò egli stesso Salesiano, impegnato nelle opere dei Figli di Don Bosco in Perù. Fu il primo Salesiano formatosi nella prima casa salesiana del Perù, fondata nel Rimac, un quartiere povero, dove imparò a vivere una vita austera di sacrificio. Tra i primi Salesiani che arrivarono in Perù nel 1891, conobbe lo spirito di Don Bosco e il Sistema Preventivo. Come Salesiano della prima generazione apprese che il servizio e il dono di sé sarebbero stati l’orizzonte della sua vita; per questo fin da giovane salesiano assunse importanti responsabilità, come l’apertura di nuove opere e la direzione di altre, con semplicità, sacrificio e totale dedizione ai poveri.
            Visse la seconda parte della vita, dall’inizio degli anni venti, come vescovo di Chachapoyas, diocesi immensa, vacante da anni, in cui le proibitive condizioni del territorio si sommavano a una certa chiusura, soprattutto nei villaggi più sperduti. Qui il campo e le sfide dell’apostolato erano immensi. Ortiz Arrieta era di temperamento vivace, abituato alla vita comunitaria; inoltre delicatissimo d’animo, al punto da venire chiamato “pecadito” nei suoi giovani anni, per la sua esattezza nel rilevare le mancanze e aiutare sé stesso e gli altri a emendarsene. Disponeva inoltre di un innato senso del rigore e del dovere morale. Le condizioni in cui dovette svolgere il ministero episcopale gli si prospettano invece diametralmente opposte: solitudine e sostanziale impossibilità a condividere una vita salesiana e sacerdotale, nonostante le reiterate e quasi supplicanti richieste alla propria Congregazione; necessità di contemperare il proprio rigore morale con una fermezza sempre più docile e quasi disarmata; fine coscienza morale continuamente messa alla prova da grossolanità di scelte e tiepidezza nella sequela, da parte di alcuni collaboratori meno eroici di lui, e di un popolo di Dio che sapeva opporsi al vescovo quando la sua parola diveniva denuncia di ingiustizia e diagnosi dei mali spirituali. Il cammino del venerabile verso la pienezza della santità, nell’esercizio delle virtù, fu pertanto segnato da fatiche, difficoltà e dalla continua necessità di convertire il proprio sguardo e il proprio cuore, sotto l’azione dello Spirito.
            Se senz’altro troviamo nella sua vita episodi definibili come eroici in senso stretto, occorre però evidenziare nel suo cammino virtuoso anche e forse soprattutto quei momenti in cui egli avrebbe potuto agire diversamente, ma non lo fece; cedere all’umana disperazione, mentre rinnovò la speranza; accontentarsi di una carità grande, senza però dare piena disponibilità all’esercizio di quella carità eroica che invece praticò con esemplare fedeltà per diversi decenni. Quando, per due volte, gli venne proposto di cambiare sede, e nel secondo caso gli fu offerta la sede primaziale di Lima, decise di restare tra i suoi poveri, quelli che nessuno voleva, davvero alla periferia del mondo, rimanendo nella diocesi che aveva per sempre sposato e amato così come essa era, impegnandosi con tutto sé stesso a renderla anche solo un poco migliore. Fu pastore “moderno” nel suo stile di presenza e nel ricorso a mezzi di azione come l’associazionismo e la stampa. Uomo di temperamento deciso e di salde convinzioni di fede, Mons. Ortiz Arrieta usò certamente di questo “don de gobierno” nella sua guida, sempre unita però al rispetto e alla carità, espressi con coerenza straordinaria.
            Benché sia vissuto prima del Concilio Vaticano II, tuttavia è attuale il modo in cui egli pianificò e svolse gli incarichi pastorali a lui affidati: dalla pastorale vocazionale al concreto appoggio ai suoi seminaristi e sacerdoti; dalla formazione catechetica e umana dei più giovani a quella pastorale familiare attraverso cui incontra coppie di sposi in crisi o coppie di conviventi restii nel regolarizzare la loro unione. Mons. Ortiz Arrieta del resto non educa solo con la sua concreta azione pastorale, ma con il suo stesso comportamento: con la capacità di discernere per sé stesso, prima di tutto, che cosa significhi e che cosa comporti rinnovare la fedeltà alla strada intrapresa. Egli davvero ha perseverato nella povertà eroica, nella fortezza attraverso le numerose prove della vita e nella radicale fedeltà alla diocesi cui era stato assegnato. Umile, semplice, sempre sereno; tra il serio e il gentile; la dolcezza del suo sguardo faceva trasparire tutta la tranquillità del suo spirito: questo fu il cammino della santità che percorse.
            Le belle caratteristiche che i suoi superiori salesiani riscontrarono in lui prima dell’ordinazione sacerdotale – quando lo definiscono una “perla di salesiano” e ne valorizzano lo spirito di sacrificio – ritornano come una costante in tutta la sua vita, anche episcopale. Davvero si può dire che Ortiz Arrieta si sia «fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22): autorevole con le autorità, semplice con i bambini, povero tra i poveri; mite con chi lo insultava o tentava per rancore di delegittimarlo; sempre pronto a non restituire male per male, ma a vincere il male con il bene (cf Rm 12,21). Tutta la sua vita fu dominata dal primato della salvezza delle anime: una salvezza cui vorrebbe fattivamente dedicati anche i suoi sacerdoti, dei quali prova a contrastare la tentazione di rinserrarsi entro facili sicurezze o trincerarsi dietro incarichi di maggior prestigio, per impegnarli invece nel servizio pastorale. Si può davvero dire che si sia situato in quella misura “alta” della vita cristiana, che ne fa un pastore che incarnò in modo originale la carità pastorale, cercando la comunione nel popolo di Dio, andando verso i più bisognosi e testimoniando una vita evangelica povera.




Visitare Roma con don Bosco. Cronaca del suo primo viaggio a Roma

La prima volta che Don Bosco si recò a Roma fu nel 1858, dal 18 febbraio al 16 aprile, accompagnato dal ventunenne chierico Michele Rua. Quattro anni prima, la Chiesa aveva celebrato un Giubileo straordinario di sei mesi, indetto in occasione della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione (8 dicembre 1854). Don Bosco colse l’opportunità di questa grande festa spirituale per pubblicare il volume “Il Giubileo e Pratiche divote per la visita delle chiese”.
Durante quella che sarebbe stata la sua prima di ben venti visite alla Città Eterna, Don Bosco si comportò come un vero pellegrino giubilare, dedicandosi con fervore alle visite e alle devozioni previste, fino a partecipare ai solenni riti pasquali officiati dal Pontefice. Fu un’esperienza intensa, che lui stesso non tenne per sé, ma condivise con i suoi giovani con l’entusiasmo e la passione educativa che lo contraddistinguevano.
Nel descrivere minuziosamente il viaggio, le tappe e i luoghi sacri, Don Bosco aveva un chiaro intento apostolico ed educativo: far rivivere a chi lo ascoltava o leggeva la stessa profonda esperienza di fede, trasmettendo loro l’amore per la Chiesa e per la tradizione cristiana.
Invitiamo ora anche voi lettori a unirvi spiritualmente a Don Bosco, ripercorrendo idealmente le strade della Roma cristiana, per lasciarvi affascinare dal suo slancio e dal suo zelo e, insieme, rinnovare la vostra fede.

A Genova in ferrovia
La partenza per Roma era fissata per il giorno 18 del mese di febbraio 1858. In quella notte cadde quasi un palmo di neve sopra i due che coprivano già il terreno. Alle 8 e mezzo, mentre ancora nevicava, con la commozione che prova un padre che lascia i suoi figli, salutavo i giovani per iniziare il viaggio verso Roma. Benché avessimo una certa fretta per poter arrivare in tempo al treno, ci trattenemmo ancora un po’ per fare testamento: non volevo infatti lasciare pendenze di nessun genere all’Oratorio qualora la Provvidenza avesse voluto darci in pasto ai pesci del mediterraneo […] Poi di corsa ci recammo allo scalo ferroviario e, assieme a don Mentasti […], partimmo col treno alle dieci del mattino.
Avvenne qui uno spiacevole incidente: le carrozze erano quasi complete per cui dovetti lasciare Rua e don Mentasti in uno scompartimento e trovare posto in un altro […]

Il fanciullo ebreo
Capitai per caso vicino a un ragazzino di dieci anni. Notandone l’aspetto semplice e il viso buono, mi misi a conversare con lui e […] mi accorsi che era ebreo. Il padre, che gli sedeva accanto, mi assicurava che il figlio frequentava la quarta elementare, ma la sua istruzione mi pareva non arrivasse alla seconda. Però era d’ingegno pronto. Il padre aveva piacere che lo interrogassi anzi, m’invitò a farlo parlare della Bibbia. Così cominciai a interrogarlo sulla creazione del mondo e dell’uomo, sul Paradiso terrestre, sulla caduta dei progenitori. Rispondeva abbastanza bene, ma rimasi meravigliato quando capii che non aveva alcuna idea del peccato originale e della promessa di un Redentore.
– Non c’è nella tua Bibbia la promessa di Dio ad Adamo quando lo cacciò dal Paradiso?
– No, me lo dica lei, rispose.
– Subito. Dio disse al serpente: poiché hai ingannato la donna, sarai maledetto fra tutti gli animali, e Uno che nascerà da una donna ti schiaccerà il capo.
– Chi è quest’Uno di cui si parla?
– È il Salvatore che avrebbe liberato il genere umano dalla schiavitù del demonio.
– Quando verrà?
– È già venuto ed è quello che noi chiamiamo…
Qui il padre ci interruppe dicendo:
– Queste cose noi non le studiamo perché non riguardano la nostra legge.
– Fareste bene a studiarle, perché sono nei libri di Mosè e dei profeti cui voi credete.
– Va bene, disse l’altro, ci penserò. Ora gli chieda qualcosa di aritmetica.
Vedendo che non desiderava che gli parlassi di religione, conversammo di cose piacevoli, cosicché il padre, il figlio e anche gli altri viaggiatori cominciarono a divertirsi e a ridere di gusto. Alla stazione di Asti il ragazzino doveva scendere, ma non si decideva a lasciarmi. Aveva le lacrime agli occhi, mi teneva la mano e commosso riuscì solo a dirmi:
– Mi chiamo Sacerdote Leone di Moncalvo; si ricordi di me. Venendo a Torino spero di poterle far visita. Il padre per allentare la commozione disse che aveva cercato a Torino la “Storia d’Italia” [da me scritta]. Non avendola trovata mi pregava di mandargliene copia. Promisi di inviare quella stampata appositamente per la gioventù, poi scesi anch’io per cercare i miei compagni per vedere se c’era posto nel loro scompartimento. Trovai Rua che aveva le mandibole stanche a forza di sbadigliare, giacché da Torino ad Asti si era annoiato molto, non sapendo con chi attaccare discorso: i suoi compagni di viaggio non parlavano che di balli, teatro e altre cose di poco gusto […]

Verso Genova
Giungemmo agli Appennini. Si alzavano davanti a noi altissimi e ripidissimi. Poiché il treno viaggiava a gran velocità, avevamo l’impressione di andare a urtare contro le rocce, finché sul treno si fece improvvisamente buio. Eravamo entrati nelle gallerie. Queste sono “fori” che passando sotto le montagne fanno risparmiare parecchie decine di miglia […] Senza gallerie sarebbe impossibile valicarle, e siccome ci sono molte montagne, esistono parecchi trafori. Uno di essi è lungo quanto la distanza tra Torino e Moncalieri; qui il convoglio rimase al buio per otto minuti, tempo necessario a percorrere il tratto di galleria.

Ci stupì constatare che la neve diminuiva man mano che ci avvicinavamo alla riviera di Genova. Ma quale non fu la nostra meraviglia quando scorgemmo le campagne senza un filo di bianco, le rive verdeggianti, i giardini pieni di colori, le piante di mandorlo fiorite e gli alberi di pesco coi boccioli in procinto di schiudersi al sole! Allora, facendo un confronto tra Torino e Genova, ci siamo detti che in questa stagione Genova è la primavera e Torino il più crudo inverno.

I due montanari
Mi dimenticavo di parlare di due montanari che salirono nel nostro scompartimento alla stazione di Busalla. Uno era pallido e infermiccio da far compassione, l’altro invece aveva un’aria sana e vivace, e, sebbene toccasse i settant’anni, mostrava la vigoria di un venticinquenne. Aveva le brache corte e le ghette quasi sbottonate, tanto che mostrava le gambe nude fino al ginocchio sferzate dal freddo. Era in maniche di camicia con la sola maglia e una giubba di panno grossolano buttata sulle spalle. Dopo averlo fatto parlare di vari argomenti, gli dissi:
– Perché non vi aggiustate questi abiti in modo da difendervi dal freddo? Rispose:
– Vede, caro signore, noi siamo montanari, e siamo abituati al vento, alla pioggia, alla neve e al ghiaccio. Quasi nemmeno ci accorgiamo della stagione invernale. I nostri ragazzi camminano a piedi nudi in mezzo alla neve, anzi ci si divertono senza badare al freddo. Da ciò ho potuto capire che l’uomo vive di abitudini, e il corpo è capace di sopportare a seconda dei casi il freddo o il caldo, e quelli che vorrebbero porre riparo a ogni piccolo incomodo rischiano di indebolire la loro condizione invece di rafforzarla.

La sosta genovese
Ma ecco Genova, ecco il mare! Rua si agita per vederlo, allunga il collo: qua nota un bastimento, là alcune navi, più in giù la lanterna che è un altissimo fanale. Giungiamo intanto alla stazione e scendiamo dal treno. Il cognato dell’abate Montebruno ci attendeva con alcuni giovani, e appena a terra ci accolsero con gioia, e portando i nostri bagagli ci condussero presso l’opera degli artigianelli che è una casa simile al nostro Oratorio. I complimenti furono brevi giacché tutti avevamo una gran fame: erano le tre e mezza del pomeriggio e io avevo preso solo una tazza di caffè. A tavola sembrava che nulla ci potesse saziare, tuttavia a forza di mandar giù il sacco si riempì.
Subito dopo abbiamo visitato la casa: scuole, dormitori, laboratori: mi sembrava di vedere l’Oratorio di dieci anni fa. I convittori erano venti; altri venti, pur mangiando e lavorando qui, dormivano altrove. Qual è il loro vitto? A pranzo un buon piatto di minestra, poi… niente altro. A cena una pagnottella che si mangia in piedi quindi a letto!
Al termine siamo usciti per un giro in città che a dire il vero è poco attraente, sebbene abbia magnifici palazzi e grandi negozi. Le vie sono strette, tortuose e ripide. Ma la cosa più seccante era un vento molesto che, spirando quasi senza interruzione, toglieva il piacere di ammirare qualsiasi cosa anche la più bella […]

A Genova insomma andarono deluse le nostre aspettative. Come se non bastasse il vento contrario impedì l’attracco del bastimento su cui dovevamo imbarcarci, perciò, nostro malgrado, dovemmo attendere fino al giorno seguente […] Al mattino ho detto messa nella chiesa dei Padri Predicatori sull’altare del Beato Sebastiano Maggi, un frate vissuto circa trecento anni fa. Il suo corpo è un prodigio continuato, perché si conserva intero, flessibile e con un colore che lo diresti morto da pochi giorni […] Poi andammo a vidimare, cioè firmare il passaporto. Il console pontificio ci accolse con molta cortesia […] Cercò anche di farci avere qualche sconto sul battello, ma non fu possibile.

A Civitavecchia via mare. L’imbarco
Alle sei e mezza di sera, prima di avviarci verso il battello a vapore chiamato Aventino, salutammo parecchi ecclesiastici venuti dagli Artigianelli per augurarci buon viaggio. Anche i ragazzi, attratti dalle buone parole, ma soprattutto da alcune portate in più nel pranzo di quel giorno, ci erano divenuti amici e sembrava provassero dispiacere a vederci partire. Parecchi di loro ci accompagnarono fino al mare, quindi saltando agilmente su una barchetta, vollero scortarci fino al battello. Il vento era assai forte: non avvezzo a viaggiare per mare, ad ogni agitarsi della barca temevamo di capovolgerci e affondare e i nostri accompagnatori ridevano di gusto. Dopo venti minuti giungemmo finalmente alla nave.

A prima vista ci sembrava un palazzo circondato dalle onde. Salimmo a bordo, e portato il nostro bagaglio in un alloggiamento alquanto spazioso, ci sedemmo per riposarci e pensare: ciascuno provava particolari sensazioni che non sapeva come esprimere. Rua osservava tutto e tutti in silenzio. Ed ecco il primo intoppo: essendo arrivati all’ora di pranzo, non siamo andati subito a mangiare; quando l’abbiamo richiesto, era tutto finito. Rua dovette cenare con una mela, una pagnottella e un bicchiere di vino Bordò, io mi accontentai di un pezzetto di pane e un po’ di quell’eccellente vino. Da notare che quando si viaggia in nave, nel biglietto sono compresi anche i pasti, per cui che si mangi o no si paga ugualmente.

Dopo siamo saliti in coperta per renderci conto di come fosse questo “Aventino”. Abbiamo così saputo che i bastimenti prendono nome dai luoghi più famosi delle zone verso cui sono diretti. Uno si chiama Vaticano, un altro Quirinale, un altro Aventino, come il nostro, per ricordare i sette famosi colli di Roma. Questa nostra nave parte da Marsiglia, tocca Genova, Livorno, Civitavecchia, poi continua per Napoli, Messina e Malta. Al ritorno ripete lo stesso percorso fino a Marsiglia. Si chiama anche battello postale perché porta lettere, pieghi, ecc. Che faccia bello o brutto tempo parte comunque.

Il mal di mare
Ci avevano assegnato la cuccetta che è una specie di armadio a ripiani dove i passeggeri si coricano sopra un materasso in ciascun ripiano. Alle dieci salparono le ancore e il battello, spinto dal vapore e da un vento favorevole, cominciò a correre a gran velocità alla volta di Livorno. Quando fummo al largo fui assalito dal mal di mare che mi tormentò per due giorni. Questo fastidio consiste in un vomito frequente, e quando non si ha più nulla da rigettare gli sforzi diventano più violenti, sicché la persona diviene così sfinita che rifiuta qualsiasi alimento. L’unica cosa che può recare qualche sollievo è il mettersi a letto e stare, quando il vomito lo permette, col corpo interamente disteso.

Livorno
Quella del 20 febbraio fu una brutta notte. Non correvamo pericolo per il mare agitato, ma il mal di mare mi aveva talmente prostrato che non riuscivo a stare né coricato, né in piedi. Mi gettai giù dalla cuccetta e andai a vedere se Rua fosse vivo o morto. Egli però non aveva che un po’ di spossatezza, nient’altro. Si alzò subito mettendosi a mia disposizione per alleviarmi i disagi della traversata. Quando Dio volle giungemmo al porto di Livorno. Per porto s’intende un seno del mare riparato dalla furia dei venti da barriere naturali o da bastioni costruiti dall’uomo. Qui le navi sono al riparo da ogni pericolo, qui scaricano le loro merci e ne caricano altre per altre destinazioni, qui si fanno i rifornimenti. I passeggeri che lo desiderano possono anche scendere a terra per qualche giro in città purché tornino in orario […]

Sebbene io desiderassi scendere per visitare la città, dire messa e salutare qualche amico, non potei farlo, anzi fui costretto a tornare nella mia cuccetta e starmene lì buono buono a digiuno. Un cameriere di nome Charles mi guardava con occhio di compassione e ogni tanto mi veniva vicino offrendomi i suoi servizi. Vedendolo così buono e cortese cominciai a conversare con lui, e fra le altre cose gli domandai se non temesse di essere deriso assistendo un prete sotto l’occhio di tante persone.
No, mi disse in francese, come vede nessuno fa le meraviglie, anzi tutti la guardano con bontà, mostrando desiderio di aiutarla. D’altronde mia madre mi ha insegnato ad avere grande rispetto per i sacerdoti per guadagnare la benedizione del Signore. Charles, andò poi a chiamare un dottore: ogni bastimento ha il suo medico e i principali rimedi per qualsiasi bisogno. Il medico venne e le sue maniere affabili mi sollevarono alquanto.
Comprendete il francese? Mi disse. Risposi:
– Comprendo tutti i linguaggi del mondo, anche quelli che non sono scritti, perfino il linguaggio dei sordomuti. Scherzavo per svegliarmi dalla sonnolenza che mi aveva preso. L’altro comprese e si mise a ridere.
Peut être, può darsi! Diceva mentre mi visitava. Alla fine mi annunciò che al mal di mare si era aggiunta la febbre e che una bibita di tè mi avrebbe fatto bene. Lo ringraziai e gli chiesi il suo nome.
Il mio nome, disse, è Jobert di Marsiglia, dottore in medicina e chirurgia. Charles attento agli ordini del dottore in breve tempo mi preparò una tazza di tè, di lì a poco un’altra, poi un’altra ancora. E mi fece bene, tanto che riuscii a prendere sonno.
Alle cinque [pomeridiane] il battello levò le ancore. Quando fummo in alto mare di nuovo ebbi conati di vomito ancor più violenti, rimanendo agitato per circa quattro ore, poi per lo sfinimento – non avevo ormai più nulla nello stomaco – coadiuvato dal rollio della nave mi addormentai e riposai di un sonno tranquillo fino all’arrivo a Civitavecchia.

Pagare, pagare, pagare
Il riposo della notte mi aveva fatto tornare le forze. Sebbene sfinito per il lungo digiuno, mi alzai e preparai i bagagli. Stavamo per scendere quando ci avvisarono di un debito che non sapevamo di aver contratto. Il caffè non era compreso col vitto ma si doveva pagare a parte, e noi che ne avevamo prese quattro tazze pagammo un supplemento di due franchi, vale a dire cinquanta centesimi a tazza.
Il capitano, fatti vidimare i passaporti, ci consegnò il permesso di sbarco; e qui cominciò la teoria delle mance: un franco ciascuno ai barcaioli, mezzo franco per il bagaglio (che portavamo noi), mezzo franco alla dogana, mezzo franco a chi ci invitava in vettura, mezzo al facchino che sistemava i bagagli, due franchi per il visto sul passaporto, un franco e mezzo al console pontificio. Non si faceva in tempo ad aprire bocca che subito bisognava pagare. Con l’aggiunta che, variando le monete di nome e di valore, dovevamo fidarci di chi ci faceva il cambio […] Alla Dogana rispettarono un pacco indirizzato al cardinale Antonelli col bollo pontificio, entro cui avevamo messo le cose più importanti […]

Terminate le operazioni mi recai dal barbiere a farmi radere una barba di dieci giorni. Tutto andò bene, ma in bottega non riuscii a distogliere lo sguardo da due corna su un tavolino. Erano lunghe circa un metro e ornate di anelli luccicanti e nastri. Pensavo fossero destinate a qualche uso particolare, ma mi dissero che erano di giovenca, che noi chiamiamo bue, poste là solo per ornamento […]

Verso Roma in carrozza
Intanto don Mentasti era su tutte le furie perché non ci vedeva arrivare, mentre la vettura già ci attendeva. Noi ci eravamo messi a correre per arrivare in tempo. Saliti in vettura partimmo per Roma. La distanza da percorrere era di 47 miglia italiane che corrispondono a 36 miglia piemontesi; la strada era molto bella. Avevamo preso posto sul coupé da dove potevamo contemplare i prati verdeggianti e le siepi fiorite. Una curiosità ci divertì non poco. Ci accorgemmo che tutto andava a tre a tre: i cavalli della nostra vettura erano aggiogati a tre a tre; incontrammo pattuglie di soldati che andavano a tre a tre; perfino alcuni contadini camminavano a tre a tre, come pure alcune vacche e alcuni asini pascolavano a tre a tre. Noi ridevamo su queste strane coincidenze […]

Una tappa per i cavalli
A Palo il vetturino concesse ai viaggiatori un’ora di libertà per avere il tempo di ristorare i cavalli. Noi ce ne servimmo per correre nella vicina locanda a levarci la fame. Le faccende ci avevano quasi fatto dimenticare il mangiare; da mezzogiorno del venerdì non avevo preso che una tazza di caffelatte. Ci siamo messi intorno alle pagnottelle e abbiamo mangiato, o meglio, divorato tutto. Nel vedere poi il cameriere tutto sfinito e pallido gli chiesi che cosa avesse.
– Ho le febbri che da molti mesi mi affliggono, rispose. Io allora feci il buon medico:
– Lasciate fare a me, vi prescrivo una ricetta che caccerà per sempre la febbre. Abbiate solo fiducia in Dio e in san Luigi. Preso quindi un pezzo di carta con la matita scrissi la mia ricetta, raccomandandogli di portarla da qualche farmacista. Era fuori di sé dalla gioia, e, non sapendo come meglio dimostrare la sua gratitudine, baciava e ribaciava la mia mano, e voleva baciarla anche a Rua, che per modestia non glielo permise.

Fu pure simpatico l’incontro con un carabiniere pontificio. Egli pensava di conoscermi, ed io credevo di conoscere lui, così ci siamo salutati tutti e due con gran festa. E quando ci siamo accorti dell’equivoco, l’amicizia e le espressioni di benevolenza e di rispetto continuarono: per fargli piacere ho dovuto permettere che mi pagasse una tazza di caffè, da parte mia gli offrii un bicchierino di rhum. Avendomi poi chiesto di lasciargli qualche ricordo, gli regalai la medaglia di san Luigi Gonzaga. Il nome di quel buon carabiniere era Pedrocchi.

Nella città dei papi
Montati nuovamente in vettura e volando più veloci col desiderio che con le zampe dei cavalli, ci sembrava ogni momento di essere a Roma. Calata la notte, ogni volta che si scorgeva lontano un arbusto od una pianta Rua subito esclamava:
– Ecco la cupola di S. Pietro. Ma prima di arrivare abbiamo dovuto procedere fino alle dieci e mezza della sera, ed essendo ormai notte fonda, non riuscivamo a scorgere più nessun particolare. Un certo brivido tuttavia ci prese al pensiero che stavamo entrando nella città santa. […] Arrivati finalmente al punto di fermata, non avendo alcuna conoscenza del luogo, abbiamo cercato una guida che per dodici baiocchi ci accompagnò a casa De Maistre, in via del Quirinale 49, alle Quattro Fontane. Erano già le undici. Fummo accolti con bontà dal conte e dalla contessa; gli altri erano già a letto. Preso un po’ di ristoro ci siamo dati la buona notte e siamo andati a dormire.

San Carlino
La parte del Quirinale da noi abitata viene chiamata Quattro Fontane perché zampillano quattro fonti perenni da quattro angoli di quattro contrade che qui si uniscono. Di fronte alla casa dove avevamo preso dimora vi era la chiesa dei carmelitani. Costoro, tutti spagnoli, appartenevano all’ordine detto della Redenzione degli Schiavi. La chiesa fu costruita nel 1640 e intitolata a san Carlo; ma per distinguerla da altre dedicate al medesimo santo fu chiamata S. Carlino. Recatici in sacrestia, abbiamo mostrato il Celebret, (il documento per celebrare n.d.r.) e così abbiamo potuto dire messa. […] Il giorno lo passammo quasi interamente ad ordinare le nostre carte, fare commissioni, portar lettere […]

Il Pantheon
Approfittando di un’ora che rimaneva ancora prima di notte, ci recammo al Pantheon che è uno dei più antichi e celebri monumenti di Roma. Venne fatto costruire da Marco Agrippa, genero di Cesare Augusto, venticinque anni prima dell’era volgare (della nascita di Cristo n.d.r.). Si crede che questo edificio sia stato chiamato Pantheon, che vuol dire tutti gli dei, perché di fatto era dedicato a tutte le divinità. La facciata è veramente superba. Otto grosse colonne reggono un elegante cornicione. Subito dopo ecco un porticato formato da sedici colonne fatte di un sol blocco di granito, poi il pronao, o avantempio, costituito da quattro pilastri scanalati, entro cui sono ricavate nicchie anticamente occupate dalle statue di Augusto e di Agrippa.
All’interno si presenta un’alta cupola aperta in mezzo, dalla quale penetra la luce, ma anche il vento, la pioggia, e la neve, quando ne cade da queste parti. Qui i più preziosi marmi servono da pavimento o da ornamento tutto intorno. Il diametro è di centotrentatre piedi, corrispondenti a diciotto trabucchi (c.ca 55 mt.). Questo tempio servì al culto degli dei fino al 608 dopo Cristo, quando papa Bonifacio IV, per impedire i disordini che si commettevano durante i sacrifici, lo dedicò al culto del vero Dio, cioè a tutti i santi.

Questa chiesa andò soggetta a molte vicende. Quando Bonifacio IV ottenne questo luogo dall’imperatore Foca e lo dedicò al culto di Dio e della Madonna, fece trasportare da vari cimiteri ventotto carri di reliquie che collocò sotto l’altare maggiore. Da allora cominciò ad essere chiamato Santa Maria ad Martyres. Fra le cose che gradimmo molto fu visitare la tomba del grande Raffaello […] Ora questa chiesa porta anche il nome di Rotonda, dalla forma della sua costruzione. Davanti si estende una piazza il cui centro è occupato da una grande fontana di marmo, sormontata da quattro delfini che gettano continuamente acqua.

San Pietro in Vincoli
Il 23 febbraio […] siamo rimasti molto contenti della visita a S. Pietro in Vincoli, chiesa a sud di Roma sul confine della città. Fu una giornata memorabile perché coincideva con una delle rare volte in cui venivano messe in mostra le catene di san Pietro, le cui chiavi sono custodite dallo stesso Santo Padre.
Una tradizione ritiene che fu lo stesso Pietro a erigere qui la prima chiesa, dedicandola al Salvatore. Distrutta dall’incendio di Nerone, venne da san Leone Magno ricostruita nel 442 e dedicata al primo Papa. Fu chiamata S. Pietro in Vincoli, perché il Pontefice vi collocò la catena con cui il Principe degli Apostoli a Gerusalemme era stato, per ordine di Erode, incatenato. Il patriarca Giovenale l’aveva regalata all’imperatrice Eudossia, che a sua volta l’inviò a Roma alla figlia Eudossia junior, moglie di Valentiniano III. A Roma si conservava anche la catena cui era incatenato san Pietro nel carcere Mamertino. Quando san Leone volle fare il confronto di questa con quella di Gerusalemme, in modo prodigioso le due catene si unirono, cosicché oggi ne formano una sola, che si conserva in un altare apposito a lato della sacrestia. Noi abbiamo avuto la consolazione di toccare quelle catene colle nostre mani, baciarle, mettercele al collo e accostarle alla fronte. Abbiamo anche attentamente controllato per riuscire a scorgere il punto di unione delle due, ma non ci fu possibile. Abbiamo solo potuto constatare che la catena di Roma è più piccola di quella di Gerusalemme.

A S. Pietro in Vincoli si trova il magnifico sepolcro di Giulio II […] È uno dei capolavori del celebre Michelangelo Buonarroti, che è ritenuto uno dei massimi artisti del marmo, specialmente per la statua del Mosè posta vicino all’urna. Il patriarca è rappresentato con le tavole della legge piegate sotto al braccio destro, in atto di parlare al popolo che egli guarda fieramente, perché si era ribellato. La chiesa è a tre navate, separate da venti colonne di marmo pario, e due di granito ben conservato.

S. Luigi dei Francesi
Verso le nove ci portammo a Santa Maria sopra Minerva, ove fummo ricevuti in udienza privata dal cardinale Gaude per circa un’ora e mezza. Egli parlò con noi in dialetto piemontese, interessandosi ai nostri oratori […] Dopo mezzogiorno ci recammo a fare visita al marchese Giovanni Patrizi […] In faccia al suo palazzo c’è la chiesa di S. Luigi dei Francesi che dà il nome alla piazza e alla contrada vicina. È una chiesa ben tenuta e arricchita di molti marmi preziosi. La sua singolarità consiste nei sepolcri degli uomini illustri francesi morti a Roma. Infatti il pavimento e le mura sono coperte di epitaffi e lapidi. […]

S. Maria Maggiore all’Esquilino
Dal Quirinale si apre una via che porta all’Esquilino, così detto per i molti elci di cui era ammantato. Nella parte più elevata s’innalza S. Maria Maggiore, la cui origine è narrata così da tutti gli storici sacri. Un certo Giovanni, patrizio romano, non avendo figli, desiderava impiegare le sue sostanze in qualche opera di pietà […] La notte del 4 agosto del 352 gli apparve in sogno la Madonna che gli comandò di innalzarle un tempio nel luogo dove la mattina dopo avrebbe trovato neve fresca. La stessa visione ebbe il papa di allora Liberio. Il giorno seguente si sparse voce che sul colle Esquilino era caduta abbondante neve, perciò Liberio e Giovanni vi si recarono, e, constatato il prodigio, si attivarono per mettere in pratica il comando avuto nella visione. Il Papa segnò il tracciato del nuovo tempio, che in breve fu portato a termine con i denari di Giovanni: pochi anni dopo Liberio poté procedere alla consacrazione […]

Davanti alla chiesa si estende una vasta piazza al centro della quale è posta l’antica colonna di marmo bianco, tolta dal tempio della pace. Il pontefice Paolo V l’anno 1614 la dotò di una base e un capitello, sopra cui collocò la statua della Madonna col Bambino. L’architettura della facciata è maestosa ed è sostenuta da grosse colonne di marmo che formano uno spazioso vestibolo. In fondo ad esso è stata posta la statua di Filippo IV, re di Spagna, che fece molte donazioni a favore di questa chiesa e volle egli stesso essere iscritto fra i canonici. Il pavimento è in mosaico prezioso lavorato con marmi di vario genere, tutti di incalcolabile valore.

La cappella a destra dell’altare maggiore conserva la tomba di san Girolamo, la culla del Salvatore e l’altare di papa Liberio. L’altare papale è ricoperto da preziosi marmi di porfido, e sostenuto da quattro putti di bronzo dorato. Sotto di esso si apre la Confessione, che è una cappella dedicata a san Mattia. Siamo andati a visitarla nel giorno della stazione quaresimale, così abbiamo avuto la fortuna di trovare esposto sopra un ricco altare il capo di san Mattia. L’abbiamo osservato attentamente, e abbiamo notato la pelle attaccata alla testa, anzi, appaiono ancora alcuni capelli attaccati al venerato teschio.

La Vergine e la peste
Nella cappella a sinistra dell’altare si può osservare un dipinto della Vergine attribuito a san Luca, molto venerato dal popolo. L’immagine fu tenuta in grande considerazione dai papi. San Gregorio Magno nella terribile pestilenza del 590 la portò in processione fino al Vaticano. Era il 25 aprile. Giunto il corteo nei pressi della mole Adriana, fu visto un angelo che riponeva la spada nel fodero, indicando così la cessazione della peste. In memoria di questo prodigio la Mole Adriana fu denominata Castel Sant’Angelo, e da allora la processione si ripete ogni anno nel giorno di san Marco Evangelista. In S. Maria Maggiore tutto è maestoso e grande; ma il parlarne o scriverne sono insufficienti per arrivare a descriverla con verità. Chi la vede coi propri occhi ferma lo sguardo meravigliato in ogni angolo.

Oggi mercoledì di quaresima qui a Roma si digiuna e questo vuol dire che sono proibiti non solo i cibi di carne, ma anche ogni minestra o pietanza a base di uova, burro o latte. Olio, acqua e sale sono i condimenti che si usano in questi mercoledì. La pratica è rigorosamente osservata da ogni classe di persone tanto che nei mercati e nelle botteghe quel giorno non si trova né carne, né uova, né burro.

La leggenda di san Galgano
A sera la signora De Maistre ci raccontò una storia degna di essere ricordata. Disse:
L’anno scorso venne a trovarci il vicario generale di Siena. Fra le tante cose di cui era solito parlarci, ci narrò la storia di san Galgano soldato. Questo santo è morto da secoli, e il suo capo si conserva intatto; ma la meraviglia più grande è che ogni anno gli tagliano i capelli, che crescono insensibilmente e tornano della medesima lunghezza l’anno seguente. Un protestante dopo che ebbe ascoltato questo prodigio si mise a ridere dicendo: lascino sigillare da me l’urna dove è conservato il capo, e se i capelli cresceranno ugualmente riconoscerò il miracolo e diventerò cattolico. La cosa fu riferita al vescovo che rispose: io metterò i sigilli vescovili per l’autenticità della reliquia, egli metta i suoi per assicurarsi del fatto. Così fu fatto; ma quel signore, impaziente di vedere se il prodigio cominciava ad operarsi, dopo alcuni mesi chiese di aprire l’urna. Immaginate la sua meraviglia quando vide che i capelli di san Galgano erano già cresciuti come avrebbero fatto se fosse stato vivo! Allora è vero! Esclamò. Diventerò cattolico. Infatti l’anno seguente nel giorno della festa del Santo egli con la sua famiglia rinunziò al luteranesimo e abbracciò la religione cattolica, che oggi professa con esemplarità.

S. Pudenziana al Viminale
Dalle Quattro Fontane si sale al Viminale, chiamato così per i molti vimini, cioè i giunchi, che un tempo lo ricoprivano. Ai piedi di questo colle nella casa di Pudente, senatore romano, alloggiò san Pietro quando venne a Roma. Il santo apostolo convertì alla fede il suo ospite e trasformò la sua casa in chiesa. San Pio I verso il 160, su istanza delle vergini Pudenziana e Prassede, figlie del nipote del senatore Pudente, consacrò questa chiesa, che […] in seguito venne dedicata a S. Pudenziana perché vi aveva abitato e vi era morta. Molti pontefici misero mano alla ristrutturazione di questo luogo che contiene preziose testimonianze cristiane. Merita speciale attenzione il pozzo di santa Pudenziana. Si crede che in esso ella seppellisse i corpi dei martiri. Sul fondo si possono notare una grande quantità di reliquie: la storia dice che contiene le reliquie di tremila martiri.

Accanto all’altare maggiore c’è una cappella di forma oblunga sul cui altare si ammira un gruppo marmoreo di Gesù nell’atto di consegnare le chiavi a san Pietro. Si crede che l’altare sia quello stesso su cui ha celebrato messa san Pietro, e sul quale con grande consolazione ho potuto celebrare io stesso. Vi sono conservati vari pezzi di spugna, gli stessi di cui si serviva Pudenziana per raccogliere il sangue dalle piaghe dei martiri, oppure dalla terra che ne era impregnata.
Continuando verso sinistra si giunge a una cappella dove si conserva la testimonianza di un grande miracolo. Mentre celebrava messa un sacerdote cadde in dubbio sulla possibilità della presenza reale di Gesù nell’ostia santa. Dopo la consacrazione l’ostia gli sfuggì dalle mani e cadendo sul pavimento rimbalzò prima su un gradino poi su un altro. Là dove batté la prima volta il marmo rimase quasi forato, anche nel secondo scalino si formò una cavità assai profonda a forma di ostia. Questi due gradini di marmo sono conservati in quello stesso luogo, custoditi da appositi cancelli.

Santa Prassede
Da S. Pudenziana salendo verso l’Esquilino, a poca distanza da S. Maria Maggiore s’incontra la chiesa di S. Prassede. Verso l’anno 162 d. C., sopra il luogo dove erano le terme, ossia i bagni di Novato, san Pio I eresse una chiesa in onore di questa vergine, sorella di Novato, Pudenziana e Teotilo. Il luogo servì di rifugio agli antichi cristiani in tempo di persecuzione. La Santa, che si adoperava per fornire quanto occorreva ai cristiani perseguitati, provvedeva anche a raccogliere i corpi dei martiri che poi seppelliva, versando il loro sangue nel pozzo che sta in mezzo alla chiesa. Essa è ricchissima di ornamenti e marmi preziosi, come lo sono quasi tutte le chiese di Roma.

C’è anche la cappella dei martiri Zenone e Valentino, i cui corpi, fatti trasportare da san Pasquale I l’anno 899, riposano sotto l’altare. Qui si conserva anche una colonna di diaspro, alta circa tre palmi, che un cardinale di nome Colonna l’anno 1223 fece trasportare dalla Terrasanta. Si ritiene che sia quella a cui fu legato il Salvatore durante la flagellazione.

Il Celio
Dall’Esquilino guardando a ovest si vede il colle Celio. Anticamente veniva chiamato Querchetulano dalle querce che lo ricoprivano. Più tardi fu denominato Celio da Cele Vilenna, capitano degli Etruschi venuti in soccorso di Roma, e che Tarquinio Prisco fece alloggiare su detto colle. La prima cosa che si nota è l’obelisco più grande che si conosca. Ramsete, faraone d’Egitto, lo fece innalzare a Tebe dedicandolo al sole. Costantino il Grande lo fece trasportare attraverso il Nilo fino ad Alessandria, ma, colto dalla morte, toccò al figlio Costanzo trasportarlo a Roma. Per il viaggio si usò un vascello di trecento remi, e attraverso il Tevere fu condotto nell’Urbe e posto in un luogo detto Circo Massimo. Qui cadde spezzandosi in tre parti. Papa Sisto V lo fece restaurare e innalzare nella piazza del Laterano l’anno 1588. L’obelisco giunge all’altezza di 153 piedi romani. È tutto ornato di geroglifici e sormontato da un’alta croce.

A destra della piazza c’è il battistero di Costantino con la chiesa di S. Giovanni in Fonte. Si dice sia stata costruita da Costantino in occasione del battesimo che ricevette dal pontefice san Silvestro l’anno 324. Dalle due cappelle annesse dedicate una a san Giovanni Battista, l’altra a san Giovanni Evangelista ha preso il nome di chiesa di S. Giovanni in Fonte. Il battistero, che è una vasca di grande larghezza rivestita di marmi preziosi, è nel mezzo. La cappelletta annessa dedicata a san Giovanni Battista si crede sia una camera di Costantino, cambiata in oratorio e dedicata al santo Precursore dal papa sant’Ilario.

S. Giovanni in Laterano
Uscendo dal battistero e attraversando la vasta piazza, s’incontra la basilica di S. Giovanni in Laterano. Questa celeberrima costruzione è la prima e principale chiesa del mondo cattolico. Sulla facciata è scritto: Ecclesiarum Urbis et Orbis Mater et Caput (madre e capo di tutte le chiese di Roma e del mondo). È la sede del Sommo Pontefice come vescovo di Roma; dopo la sua incoronazione egli va a prenderne solennemente possesso. Fu chiamata anche Basilica Costantiniana, perché fondata da Costantino il Grande. Fu detta poi Basilica Lateranense perché innalzata dove era il palazzo di un certo Plauzio Laterano, fatto uccidere da Nerone; e anche Basilica del Salvatore a seguito di una apparizione del Salvatore avvenuta durante la costruzione. La chiamano ancora Basilica Aurea per i preziosi doni di cui fu arricchita, e Basilica di S. Giovanni perché dedicata ai santi Giovanni Battista ed Evangelista.

Fu Costantino il Grande a farla costruire presso il suo palazzo, attorno all’anno 324. Ampliata poi con nuovi corpi di fabbrica, fu ceduta al santo Pontefice. Qui abitarono i Papi fino al tempo di Gregorio XI. Quando costui riportò la Santa Sede da Avignone a Roma trasferì la sua abitazione in Vaticano.
L’anno 1308 scoppiò un terribile incendio che la distrusse, ma Clemente V, che allora era in Avignone, mandò subito i suoi agenti con grandi somme di danaro, e in breve fu ricostruita. Il portico è retto da ventiquattro grossi pilastri; in fondo vi è la statua di Costantino trovata nelle sue terme al Quirinale. La porta grande di bronzo è di straordinaria altezza. Essa fu tolta dalla chiesa di S. Adriano in Campo Vaccino e fatta trasportare qui. Costituisce un raro esempio di porte antiche dette Quadrifores, cioè costruite in modo che si potessero aprire in quattro parti, una per volta senza che alcuna mettesse in pericolo la stabilità dell’altra. Sulla destra c’è una porta murata che si apre solo nell’anno del giubileo e perciò è detta Porta Santa.

L’interno è a cinque navate. La lunghezza, l’altezza, la preziosità dei pavimenti, delle sculture e delle pitture sono cose che incantano a vederle. Bisognerebbe farne grossi volumi a parlarne degnamente. Le reliquie più insigni di questa chiesa sono il capo dei due principi degli Apostoli Pietro e Paolo. Essi sono custoditi sotto l’altare maggiore e incassati in un altro capo d’oro. Vi è pure una reliquia insigne di san Pancrazio martire, e vi si custodisce una tavola che si pensa sia quella medesima sopra la quale Gesù celebrò la sacra cena coi suoi Apostoli.

Uscendo dalla chiesa per la porta principale e attraversando la piazza si trova la Scala Santa, un edificio che papa Sisto V fece innalzare per custodirvi la scala, che prima si trovava a pezzi nel vecchio palazzo papale del Laterano. Essa è formata da ventotto gradini di marmo bianco del pretorio di Pilato a Gerusalemme che Gesù salì e discese più volte durante la sua passione. Sant’Elena, madre di Costantino, li inviò a Roma insieme con molte altre cose santificate dal sangue di Gesù Cristo. Questa celebre scalinata è tenuta in grande venerazione e perciò si sale in ginocchio; e si ridiscende per una delle quattro scale laterali. Questi gradini si sono incavati per il grande afflusso di cristiani che li hanno saliti, per cui sono stati coperti con tavoloni di legno. Lo stesso Sisto V fece collocare nell’alto della scala la celebre cappella domestica dei papi, che è piena delle più insigni reliquie, e che perciò viene chiamata Sancta Sanctorum.

Città del Vaticano. La costruzione
Il colle Vaticano contiene quanto esiste di più eccellente nelle arti, e di memorabile nella religione; perciò ne daremo un ragguaglio un po’ più preciso. Fu chiamato Vaticano da Vagitanus, una divinità che pensavano sovrintendesse al vagito dei fanciulli. Infatti la prima sillaba Uà (va n.d.r.) di cui è composta la parola è anche il primo grido dei bambini. Il colle acquistò rinomanza quando Caligola vi costruì il circo che fu poi detto di Nerone. Caligola per passare dalla sinistra alla sponda destra del Tevere costruì il ponte Vaticano, detto anche Trionfale che ora però non esiste più. Il circo di Nerone incominciava dov’è oggi la chiesa di S. Marta e si estendeva fino alle scale dell’antica basilica Vaticana. In questo circo fu seppellito il corpo del Principe degli Apostoli […]

Lì vennero anche sotterrate le ossa di altri papi tra cui Lino, Cleto, Anacleto, Evaristo ed altri ancora. La Memoria di S. Pietro, ossia il tempietto costruito sulla sua tomba, durò fino ai tempi di Costantino che, per desiderio di san Silvestro, verso il 319 mise mano alla costruzione di una chiesa in onore dell’Apostolo. Essa fu eretta proprio intorno a quel tempietto, servendosi di materiale tolto da edifici pubblici. La costruzione fu chiamata Basilica Costantiniana, e a quei tempi era reputata fra le più celebri della cristianità. Nel mezzo di quella chiesa, fatta a forma di croce latina, vi era l’altare dedicato a san Pietro sotto il quale era sepolto, protetto da cancelli, il suo corpo; quel vano fin da allora si usava chiamare Confessione di san Pietro. Terminato il tempio e dotatolo di ricchi arredi papa Silvestro lo consacrò il 18 novembre del 324 […] I pontefici che vennero in seguito lo abbellirono e ampliarono. Per undici secoli fu l’oggetto della devozione e dell’ammirazione dei cristiani che si recavano a Roma.

Nel secolo XV cominciava ad andare in rovina, perciò Nicolò V pensò di rinnovarlo, ma ebbe solo il merito di iniziare i lavori, perché la morte gli fece sospendere ogni cosa. Giulio II riprese la costruzione alla quale cambiò nome, da Basilica Costantiniana a S. Pietro in Vaticano, e pose la prima pietra il 18 aprile 1506. Gli architetti furono Bramante, in seguito fra Giocondo Domenico e Raffaello Sanzio. Dopo costoro lavorarono i più celebri architetti, e i più sublimi ingegni del tempo.

La grande piazza
 […] Dinanzi alla basilica si apre una vasta piazza la cui lunghezza supera il mezzo chilometro. Essa è formata da 284 colonne e da 64 pilastri che, disposti in semicerchio da ambo i lati in quattro file, formano tre vie di cui la più ampia quella centrale può permettere il transito di due carrozze. Sopra al colonnato sono poste 96 statue di santi, in marmo, dell’altezza di circa 10 piedi. Al centro invece s’innalza l’obelisco egizio. Esso è formato da un sol pezzo, ed è il solo che sia restato intero. Misura 126 piedi di altezza compresa la croce e il piedistallo. Non ha geroglifici. Nuccoreo re d’Egitto l’aveva innalzato a Eliopoli, da dove venne prelevato e fatto trasportare a Roma da Caligola l’anno 3° del suo impero. Fu collocato nel circo costruito ai piedi del colle Vaticano, come dimostrano le iscrizioni che vi si leggono. Questo circo fu chiamato di Nerone perché da lui molto frequentato; qui quel crudele imperatore fece strage di cristiani, calunniandoli di essere autori dell’incendio di Roma che lui stesso aveva appiccato.

Nel 1818 sulla piazza venne costruita una meridiana. Per terra si disegnarono i dodici segni dello zodiaco. L’obelisco faceva da gnomone (asta), e con la sua ombra indicava le stazioni del sole. Tutto intorno furono scritti i nomi dei venti nella direzione in cui spira ciascuno di essi. Ai lati due fontane uguali gettano perennemente acqua da un gruppo di zampilli che s’innalzano anche fino a sessanta piedi. La regina di Scozia accolta con pompa in questo luogo guardò con meraviglia le due fontane pensando che fossero state fatte apposta per la sua accoglienza. No, disse un signore che le stava a fianco, questi zampilli sono perenni.

Visita a San Pietro
Camminando verso la facciata della basilica si arriva a una magnifica gradinata fiancheggiata da due statue una di san Pietro l’altra di san Paolo, fatte collocare dal regnante Pio IX. Salite le scale si è davanti alla facciata che ha questa iscrizione: In onore del Principe degli Apostoli Paolo V Pontefice Massimo l’anno 1612 7° del suo pontificato. Sopra al porticato si estende la grande Loggia delle benedizioni. La facciata è maestosa e imponente. Il porticato è tutto adorno di marmi, pitture in mosaico e altri eleganti lavori. In fondo al vestibolo a destra si può osservare la bellissima statua equestre di Costantino in atto di mirare la prodigiosa croce apparsagli in cielo prima della battaglia finale con Massenzio.

Dal portico si entra in basilica attraverso quattro porte, di cui l’ultima a destra non si apre che per l’anno santo. La porta maggiore è in bronzo, di grande altezza, e occorrono molte e forti braccia per aprirla. L’interno si presenta a cinque navate oltre la crociera che termina con la tribuna. La curiosità e la sorpresa ci portò nel mezzo della navata maggiore. Qui ci siamo fermati ad ammirare e riflettere senza dire parola. Ci parve di vedere la celeste Gerusalemme. La lunghezza della basilica è di palmi 837, la sua larghezza di 607. È il maggior tempio di tutta la cristianità. Dopo S. Pietro il più vasto è quello di S. Paolo a Londra. Se alla chiesa di S. Paolo aggiungiamo quella del nostro Oratorio si forma la precisa lunghezza di S. Pietro.

Dopo di essere stati per qualche tempo immobili abbiamo cercato il catino dell’acqua santa. Abbiamo scorto due putti, a prima vista molto piccoli, che reggevano una specie di conchiglia nel primo pilastro della basilica. Ci recò meraviglia che una chiesa tanto vasta avesse un’acquasantiera così piccola. Ma la meraviglia si cambiò in sorpresa quando vedemmo i putti farsi sempre più grandi man mano che ci avvicinavamo. La conchiglia divenne un vaso di circa sei piedi di circonferenza, e i putti ai lati ci facevano vedere le loro mani con le dita grandi come un nostro braccio. Ciò dimostra che le proporzioni di questo meraviglioso edificio sono così ben regolate da renderne meno sensibile l’ampiezza, la quale però si nota sempre meglio esaminando ciascun dettaglio. Intorno ai pilastri della navata maggiore si vedono scolpite in marmo le statue dei fondatori degli ordini religiosi.

Nell’ultimo pilone a destra è collocata la statua in bronzo di san Pietro tenuta in grande venerazione. Fu fatta fondere da san Leone Magno col bronzo di quella di Giove Capitolino. Essa ricorda la pace che quel Pontefice ottenne da Attila che infuriava contro l’Italia. Il piede destro che sporge fuori del piedistallo è consumato dalle labbra dei fedeli che non passano mai davanti senza baciarlo con rispetto. Mentre stavamo rimirando la statua, passò l’ambasciatore austriaco a Roma che s’inchinò dinanzi al principe degli Apostoli e gli baciò il piede.

Navate e cappelle
Passiamo ora a dire qualche cosa delle navate minori e delle cappelle che vi si trovano. In quella di destra si incontra per prima la cappella della Pietà. Oltre a magnifici mosaici e alle statue che la adornano, si ammira sopra l’altare il celebrato gruppo scolpito da Michelangelo Buonarroti in marmo bianco, quando non aveva che ventiquattro anni di età. È forse la più bella scultura del mondo. Il medesimo Buonarroti se ne compiacque, tanto che lo firmò sulla cintola del petto di Maria.

A sinistra della cappella della Pietà c’è quella interna dedicata al Crocifisso e a S. Nicola. Da qui si entra nella così detta Cappellina della Colonna Santa, dove si conserva, protetta da una cancellata in ferro, una delle colonne a vite che stavano anticamente davanti all’altare della Confessione di san Pietro. È questa la colonna a cui si appoggiò Gesù Cristo allorché predicò nel tempio di Salomone. Si ammira con meraviglia in questa colonna che la parte toccata dalle sacre spalle del Salvatore non è mai imbrattata di polvere, e perciò non occorre che sia spolverata come il resto.

Dopo la cappella della Pietà s’incontra il monumento sepolcrale di Leone XII, fatto erigere da Gregorio XVI. Il Pontefice è ritratto mentre benedice il popolo dalla Loggia sopra il portico; attorno si vedono le teste dei cardinali assistenti alla cerimonia. Di fronte a questo sepolcro è il cenotafio di Cristina Alessandra, regina di Svezia, morta a Roma il 19 aprile 1689. Costei, protestante, convintasi della poca consistenza della sua religione, si fece istruire nel cattolicesimo e fece la solenne abiura a Ispruch il 3 novembre 1655. Vari bassorilievi che adornano il sepolcro rappresentano l’avvenimento.

Segue la cappella di san Sebastiano anch’essa ricca di pitture e marmi. Uscendo a destra si trova il deposito sepolcrale di Innocenzo XII dei Pignatelli di Napoli. Di fronte c’è il sepolcro della famosa contessa Matilde, insigne benefattrice della Chiesa, e sostenitrice della autorità pontificia. Urbano VIII fece trasferire qui le sue ceneri togliendole dal monastero di san Benedetto a Mantova. Essa fu la prima delle illustri donne che meritarono un sepolcro nella basilica Vaticana. La contessa è rappresentata in piedi; il sepolcro è ornato da un bassorilievo che raffigura l’assoluzione impartita da Gregorio VII ad Enrico IV imperatore di Germania, su istanza di Matilde e di altri personaggi, il 25 gennaio 1077 nella fortezza di Canossa.

Si giunge così alla cappella del Sacramento, ricca di marmi e mosaici. Accanto all’altare una scala porta al palazzo pontificio. Questo altare è dedicato a san Maurizio e compagni martiri, patroni principali del Piemonte. Le due colonne a vite di un sol pezzo che ornano l’altare sono due delle dodici che si credono portate a Roma dall’antico tempio di Salomone. Sul pavimento davanti all’altare si ammira il sepolcro in bronzo di Sisto IV Della Rovere. Esso fu eseguito per ordine di Giulio II suo nipote, e rappresenta le virtù e la scienza proprie del defunto. In esso sono contenute le ceneri dei due papi.

All’uscire dalla cappella ecco a destra il sepolcro di Gregorio XIII Buoncompagni. Lo ornano due statue: la Religione e la Fortezza, al centro un grande bassorilievo rappresenta la riforma del calendario, detta perciò Gregoriana. Qui sono ritratti una quantità di personaggi illustri che ebbero parte in quell’opera, tutti in atto di venerare il Pontefice. Di fronte, entro un’urna di stucco, riposano le ossa di Gregorio XIV della famiglia Sfrondato. Qui termina la navata minore e si entra nella croce greca secondo il disegno del Buonarroti.

Uscendo dalla navata, a destra si trova la Cappella Gregoriana. Sopra l’altare è venerata un’antica immagine della Madonna dei tempi di Pasquale II. Sotto riposa il corpo di san Gregorio Nazianzeno, fatto trasferire per ordine di Gregorio XIII dalla chiesa delle monache di campo Marzio. Proseguendo il cammino si giunge al monumento sepolcrale di Benedetto XIV Lambertini, fatto erigere dai cardinali da lui creati. Ai due lati del sepolcro s’innalzano due magnifiche statue che rappresentano il Disinteresse e la Sapienza, le due virtù maggiormente luminose di questo papa. La statua del Pontefice, in piedi, benedice il popolo con gesto maestoso. Questo lavoro è tanto ben eseguito che il semplice rimirare il Papa ci fa riconoscere in lui la grandezza e la elevatezza del suo animo. Di fronte si riconosce l’altare di san Basilio Magno con sopra un prezioso quadro in mosaico dell’imperatore Valente svenuto alla presenza del Santo, mentre lo guardava celebrare la messa.

Si giunge quindi alla tribuna. Il primo altare a destra è dedicato a san Venceslao martire, re di Boemia; quello di mezzo è consacrato ai santi Processo e Martiniano, guardie del carcere Mamertino, convertite alla fede da san Pietro, quando l’Apostolo vi era rinchiuso. Da questi santi prende nome il complesso; i loro corpi riposano sotto l’altare. Tre preziosi bassorilievi rappresentano san Pietro in prigione liberato dall’Angelo (quello di mezzo), san Paolo che predica nell’Areopago (quello a destra), il terzo i santi Paolo e Barnaba, presi per divinità dagli abitanti di Listri.
S’incontra poi il sepolcro di Clemente XIII Rezzonico, scultura di Antonio Canova. È un capolavoro. Il quadro dell’altare che rimane in faccia al monumento, raffigura san Pietro in pericolo di annegare, sostenuto dal Redentore. Più avanti ecco l’altare di san Michele, poi quello di santa Petronilla, figlia di san Pietro. Questa santa è rappresentata in un mosaico che narra il dissotterramento del cadavere di lei per mostrarlo a Flacco, nobile Romano, che l’aveva chiesta in sposa. Nella parte superiore è raffigurata l’anima di lei che con preghiere ottenne di morire vergine ed è accolta da Gesù Cristo. Più avanti si vede il sarcofago di Clemente X, Altieri: il bassorilievo rappresenta l’apertura della porta santa per il Giubileo del 1675. L’altare è sormontato dal quadro di san Pietro che alle preghiere di una turba di mendicanti risuscita la vedova Tabita.

Attraverso due gradini di porfido che facevano parte dell’altare maggiore dell’antica basilica si ascende all’Altare della Cattedra. Un sorprendente gruppo di quattro statue di metallo reggono la sede pontificale. Le due davanti rappresentano due padri latini Ambrogio e Agostino; le due di dietro i padri Greci, Atanasio e Giovanni Crisostomo. Il peso di questi gruppi ammonta a 219.161 libbre di metallo. La sedia in bronzo riveste, come preziosa reliquia, quella di legno intarsiata con vari bassorilievi d’avorio. Questa sedia è quella del senatore Pudente che servì l’Apostolo Pietro e molti altri papi dopo di lui.

Sopra l’altare della Cattedra come sfondo è effigiato su tela lo Spirito Santo tra vetri colorati e raggianti di modo che, a chi lo guarda, sembra di vedere una stella d’oro risplendente. Sotto invece, a sinistra di chi guarda, c’è il magnifico sepolcro di Paolo III Farnese, monumento molto pregiato per le sue sculture. La statua del Pontefice assiso sull’urna è di bronzo, le altre due statue, di marmo, rappresentano la Prudenza e la Giustizia. Di fronte è posto il sepolcro di papa Urbano VIII la cui statua è di bronzo. La Giustizia e la Carità sono ai suoi lati, scolpite in marmo bianco. Sull’urna si scorge l’immagine della morte in atto di scrivere in un libro il nome del Pontefice. Qui interrompemmo la visita: eravamo stanchi, la visita era durata dalle undici del mattino alle cinque pomeridiane.

Roma. S. Maria della Vittoria
Dal Quirinale guardando verso mezzogiorno si vede la via di Porta Pia, così chiamata dal pontefice Pio IV che per abbellirla eseguì non pochi lavori. Lungo questa strada, presso la fontana dell’Acqua Felice, s’innalza a sinistra la chiesa di S. Maria della Vittoria, edificata da Paolo V nel 1605, e chiamata così per una immagine miracolosa della Madonna trasportatavi dal padre Domenico dei Carmelitani Scalzi. A questa immagine, o meglio alla protezione di Maria, Massimiliano duca di Baviera dovette la grande vittoria riportata in pochi giorni contro i protestanti, che con un esercito numerosissimo avevano messo sottosopra il regno d’Austria. La prodigiosa immagine si conserva sull’altare maggiore. Ai cornicioni sono appese le bandiere tolte ai nemici: glorioso monumento alla protezione di Maria.

In memoria della liberazione di Vienna fu istituita la festa del Nome di Maria che si celebra da tutta la cristianità la domenica tra l’ottava della nascita di Maria. La cosa accadde il 12 settembre 1683 sotto il pontificato di Innocenzo XI. In questa stessa chiesa si celebra una speciale solennità nella seconda domenica di novembre in ricordo della famosa vittoria riportata dai cristiani contro i Turchi a Lepanto il 7 ottobre 1571, sotto Pio V. Anche alcune bandiere tolte ai Turchi sono appese come trofei al cornicione di questa chiesa.
Davanti a S. Maria della Vittoria si trova la fontana di Termini, chiamata fontana del Mosè, perché in una nicchia vi è scolpita la statua di Mosè che con la verga in mano fa scaturire l’acqua dalla pietra. È anche chiamata Acqua Felice da fra’ Felice, che è il nome di Sisto V quando era in convento.

L’isola Tiberina
Nel pomeriggio abbiamo deciso di andare col conte De Maistre a visitare la grande opera di San Michele al di là del Tevere. Dovemmo perciò attraversare il fiume all’altezza di un’isoletta detta Tìberina o anche Lycaonia, da un tempio dedicato a Giove Lycaonio. Quest’isola ebbe origine così. Quando fu espulso Tarquinio da Roma il Tevere era quasi privo d’acqua, e lasciava scoperti alcuni banchi di sabbia. I Romani, mossi da odio contro questo re, andarono nei suoi campi, tagliarono le biade e il farro che era vicino a maturare e gettarono tutto nel Tevere. La paglia andò ad arrestarsi sopra quella sabbia, e depositandosi la fanghiglia di arena che l’acqua faceva scorrere, giunse a consolidarsi a tal punto da potersi coltivare e abitare. In quest’isola i pagani innalzarono un tempio in onore di Esculapio; ma nel 973 vi fu trasferito il corpo di san Bartolomeo che riposa nell’urna sotto l’altare maggiore.

Passato il Tevere e continuando verso il S. Michele s’incontra a destra la chiesa di S. Cecilia, edificata nel luogo dov’era la sua casa. Urbano I, verso la metà del terzo secolo, la consacrò, e san Gregorio Magno la arricchì di molti oggetti preziosi. Entrando a destra c’è la cappella ove era il bagno di santa Cecilia, in cui si dice abbia ricevuto il colpo mortale. L’altare maggiore protetto da una cancellata di ferro, custodisce il corpo della santa. Sopra l’urna è scolpito un commovente lavoro in marmo che la rappresenta distesa e vestita come fu rinvenuta nel sepolcro.

Giunti all’ospizio S. Michele abbiamo avuto udienza dal Cardinale Tosti che ci raccontò vari episodi a lui accaduti al tempo della repubblica. Anch’egli fu costretto a vivere per un po’ lontano dall’ospizio per non rimanere vittima di qualche attentato. Fra le varie cose derubate in quella triste circostanza a questo pio porporato vi furono tre tabacchiere assai preziose specialmente per l’antichità e la provenienza. Portate ai componenti del triumvirato, Mazzini pensò di trattenerne una per sé e regalare le altre due a suoi compagni. Ma essi non osarono prenderle. Mazzini aggiustò tutto, e graziosamente se le pose tutte tre in tasca!

Il Campidoglio
Lungo il tragitto di ritorno, a metà strada si alza il colle più alto di Roma, il Campidoglio così chiamato da caput Toli, capo di Tolo, che fu ritrovato mentre Tarquinio il Superbo ne faceva appianare la sommità per erigerlo in fortezza. Noi salimmo una lunga gradinata alla cui estremità si alzano due statue colossali rappresentanti Castore e Polluce. Il piano che forma la piazza si chiamava anticamente inter duos lucos, perché restava tra i boschetti che ricoprivano le due cime. Qui Romolo aveva creato un riparo per i popoli vicini che avessero voluto rifugiarvisi. Il Campidoglio d’oggi non ha più imponenza guerresca, ma è una piazza maestosa contornata da palazzi che ospitano musei, e dove si trattano gli affari municipali. In una parte di questa piazza esisteva il tempio di Giove Feretrio, così detto dalle armi dei vinti che i vincitori andavano ad appendere all’altare di quel tempio.

In mezzo alla piazza s’innalza la famosa statua equestre di Marco Aurelio in atto di pacificatore. Essa è la più bella fra le più antiche statue di bronzo che si siano conservate intatte. Una parte dei grandi edifici che circondano la piazza costituiscono il palazzo senatorio, fondato da Bonifacio IX nel 1390 sopra il medesimo terreno ove era l’antico senato dei Romani. A lato si trova la fonte dell’Acqua Felice, cui fanno ornamento due statue giacenti del Nilo e del Tevere. Da qui, attraverso una piccola scala, si arriva alla torre del Campidoglio, eretta in forma di campanile sul medesimo luogo ove anticamente montavano gli osservatori per ammirare Roma e controllare i nemici che tentassero di avvicinarsi alla città […]
Nella parte più elevata verso oriente vi era il tempio di Giove Capitolino che veniva chiamato di Giove Ottimo, Massimo, ed era stato eretto da Tarquinio il Superbo sopra le fondamenta preparate da Tarquinio Prisco che ne aveva fatto voto durante la guerra contro i Sabini. Proprio mentre si faceva lo scavo fu rinvenuto il caput Toli.

S. Maria in Aracoeli
Dove era il tempio di Giove Capitolino, ora c’è la maestosa chiesa di Santa Maria in Aracoeli, edificata nel VI secolo dell’era volgare. Per qualche tempo si chiamò Santa Maria in Campidoglio, dal luogo dove sorgeva. Fu poi detta Aracoeli dal fatto seguente. Avendo un fulmine colpito il Campidoglio, Ottaviano Augusto per timore di qualche sventura mandò ad interrogare l’oracolo di Delfi […] Per questo fatto, e per alcuni detti delle Sibille che riguardavano la nascita del Salvatore, Augusto fece innalzare un’ara intitolata: Ara primogeniti Dei, altare del primogenito di Dio. Donde ne derivò il nome di Santa Maria in Aracoeli, dopo che sul posto fu innalzata una chiesa in onore della Madre di Dio. L’interno è a tre navate divise da 22 colonne di marmo già appartenenti al tempio di Giove Feretrio. L’altare maggiore è degno di speciale osservazione, perché sopra di esso si venera un’immagine di Maria, che si pensa sia di san Luca. Questa ai tempi di san Gregorio Magno venne portata processionalmente per Roma per ottenere la liberazione dalla peste. Il fatto è rappresentato in un dipinto sul pilastro a lato dell’altare. Nel mezzo della crociera è collocata la cappella di sant’Elena, dove venne innalzata l’Ara Primogeniti. La mensa dell’altare è una grande urna di porfido, entro cui sono stati riposti i corpi di sant’Elena madre di Costantino, e dei santi Abbondio e Abbondanzio.

In una stanza vicina alla sacrestia si conserva un’effigie miracolosa di Gesù Bambino. Le fasce che lo rivestono sono arricchite di pietre preziose. Essa viene esposta in venerazione durante le feste di Natale, in un bel presepio che si rappresenta in chiesa dentro una cappella. Insieme col Bambino si pongono anche le figure di Augusto e della Sibilla a ricordo di una tradizione che afferma che la Sibilla Cumana predicesse la nascita del Salvatore e perciò Augusto vi eresse un’ara.

Uscendo da Aracoeli e andando verso la parte occidentale del Campidoglio s’incontra la rupe Tarpea che occupava la parte verso il Tevere, e si chiamava così dalla Vergine Tarpea, che vi fu uccisa a tradimento nella guerra dei Sabini. Dall’alto di questa rupe venivano precipitati i traditori della patria. Qui furono martirizzati molti cristiani che, in odio alla fede, furono gettati in basso. Là vicino si trovava la Curia, e la capanna di Romolo, dove, si dice, abbia atteso il responso degli avvoltoi […]

Scendendo verso il basso ecco il tempio della Concordia, fatto costruire da Camillo l’anno 387 di Roma. […] Presso questo tempio nella parte sinistra di chi scende era situato quello di Giove Tonante di cui restano tre colonne di marmo. Fu eretto da Augusto sul clivo capitolino e dedicato a Giove in ringraziamento di essere scampato al fulmine che uccise il servo che lo precedeva.

Il Carcere Mamertino
Il mattino del 2 marzo insieme con la famiglia De Maistre siamo andati a visitare il carcere Mamertino, che è ai piedi del Campidoglio nella parte occidentale. Questo carcere è chiamato così da Mamerto, o Anco Marzio, 4° re di Roma che lo fece costruire per spargere terrore nella plebe, e così impedire i furti e gli assassini. Servio Tullio 6° Re di Roma aggiunse sotto a questo un altro carcere che fu chiamato Tulliano. Esso ha due sotterranei, che nella volta presentano un’apertura capace di far passare un uomo. Attraverso questa si calavano con una corda i condannati […]

Qui sgorga una sorgente d’acqua che si dice sia stata fatta miracolosamente scaturire da san Pietro quando con san Paolo vi era tenuto in prigione. Il principe degli Apostoli si servì di quest’acqua per battezzare i santi Processo e Martiniano, custodi del carcere, assieme ad altri 47 compagni morti tutti martiri. Quest’acqua presenta aspetti miracolosi. Il suo gusto è naturale. Non cresce mai, né mai diminuisce di volume qualsiasi quantità se ne attinga. Due signori inglesi quasi per burlare i cattolici vollero provare a svuotare la piccola fossa dell’acqua che assomiglia a un vaso di piccole dimensioni. Si stancarono essi e i loro amici, ma l’acqua rimase sempre allo stesso livello. Si raccontano molte guarigioni miracolose ottenute dal suo uso. Accanto alla fonte è posta una colonna di pietra a cui furono legati i due principi degli Apostoli. A fianco della colonna è ubicato un piccolo e basso altare ove con grande consolazione ho celebrato la messa, cui hanno partecipato la famiglia De Maistre e altre pie persone. Sopra l’altare un bassorilievo rappresenta Paolo che predica e Pietro che battezza le guardie […]

In un angolo del 1° piano del carcere si nota sul muro l’impronta di un volto umano. Si dice che san Pietro abbia ricevuto un forte schiaffo da uno sgherro, sicché battendo con la faccia nel muro vi abbia lasciato impresso il suo volto che in modo miracoloso si è conservato. Al disopra di questa figura è scolpita questa antica iscrizione: “In questo sasso Pietro batté la testa spinto da sgherro ed il prodigio resta”. Sopra questo carcere venne edificata una chiesa, e sopra questa un’altra ancora dedicata a san Giuseppe. Ha sede qui la confraternita dei falegnami. I membri si radunano nei giorni festivi, assistono alle funzioni sacre e provvedono a quanto è necessario per la manutenzione della chiesa e a quanto occorre per la pulizia del carcere. Anticamente per arrivare all’ingresso della prigione si scendeva attraverso una scala in fondo alla quale era l’apertura da cui venivano precipitati i condannati. Quelle scale furono chiamate Gemonie, dai gemiti dei condannati […]

Città del Vaticano. Devozioni giubilari
Il 3 marzo era destinato alla visita a san Pietro. Partiti alle sei e mezzo da casa con un fresco che allietava la vita e rendeva celeri i nostri passi, prendemmo la direzione del colle Vaticano. Giunti al Ponte Elio, o Ponte Sant’Angelo, sopra cui si passa traversando il Tevere, recitammo il credo. I Pontefici concedono cinquanta giorni d’indulgenza a quelli che recitano il simbolo degli Apostoli mentre passano sopra questo ponte. Viene chiamato Elio da Elio Adriano che lo ha costruito. Ma si chiama anche ponte Sant’Angelo da Castel Sant’Angelo, che è il primo edificio che s’incontra sulla sponda opposta.

Diremo qualche cosa di questo castello. L’imperatore Adriano volle erigere un grande sepolcro sulla riva destra del Tevere. Per la sua larghezza, lunghezza e altezza lo chiamarono Mole Adriana. Allorché Teodosio imperatore fece prelevare le colonne dal mausoleo di Adriano per dotarne la basilica di san Paolo, questa costruzione restò priva della metà superiore e senza colonne. L’anno 537 le truppe di Belisario diedero l’assalto ai Goti per allontanarli da Roma, e allora quasi tutti gli avanzi di quel mausoleo vennero ridotti in pezzi. Nel secolo X fu chiamato Castro e Torre di Crescenzio da un certo Cescenzo Nomentano che se ne impadronì e lo fortificò. Poco dopo la storia gli diede il nome di Castel Sant’Angelo, derivandolo forse da una chiesa dedicata all’angelo Michele […] Ma l’opinione più probabile resta quella che narra di una processione di san Gregorio Magno per ottenere dalla Vergine la liberazione dalla peste: in quell’occasione apparve sull’alta cima della Mole un angelo che rimetteva nel fodero la spada, segno che il flagello stava per cessare. Ora Castel Sant’Angelo è ridotto ad una fortezza ed è l’unica di Roma.

Continuando il nostro cammino siamo arrivati nella grande piazza S. Pietro. Passando davanti all’obelisco, ci siamo tolti il cappello, perché i papi hanno concesso cinquanta giorni d’indulgenza a chi fa riverenza o si scopre il capo passando vicino a quell’obelisco, sopra cui è stata applicata una croce che contiene un pezzo del Santo Legno della croce di Gesù.
Eccoci dunque di nuovo nella Basilica Vaticana. Ne avevamo già visitata la metà più la tribuna, che forma come il coro dell’altare papale, ubicata in mezzo alla crociera, dirimpetto alla cattedra di Pietro. Detto coro fu fatto erigere da Clemente VIII e da lui consacrato l’anno 1594: racchiude l’altare già edificato da san Silvestro. Essendo l’altare papale, vi celebra solo il Papa, e quando qualche altro vuole usarlo occorre un “Breve” apostolico. Ai quattro lati s’innalzano quattro grandi colonne a vite che sorreggono un baldacchino ornato di fregi tutto di bronzo. L’altezza di questo baldacchino dal piano del pavimento eguaglia quella dei più alti palazzi di Torino.

La tomba di Pietro: curiosità di un santo
Davanti all’altare papale attraverso una doppia scala di marmo si discende nel piano della Confessione. All’estremità delle scale sono poste due colonne di alabastro d’Orte, materiale assai raro, trasparente come diamante. Centododici lampade ardono continuamente intorno al venerando luogo. Nel fondo si apre una nicchia formata sull’antico oratorio eretto da san Silvestro, dove sant’Anacleto “eresse una memoria a san Pietro”. Qui riposa il corpo del Principe degli Apostoli. Nelle pareti laterali si aprono due porte munite di un cancello di ferro da dove si passa alle sacre grotte. Proprio di fronte alla nicchia il 28 Novembre 1822 venne collocata la statua in marmo di Pio VI che, in ginocchio, sta in fervorosa preghiera. È questa una delle più belle opere di Antonio Canova. Pio VI era solito di giorno e talvolta anche di notte recarsi presso la tomba di san Pietro per pregare. In vita mostrò il vivo desiderio di essere sepolto lì e alla sua morte si volle esaudirlo. Ma fatto uno scavo di poca profondità fu scoperta una tomba sopra cui era scritto: Linus episcopus. Immediatamente fu rimessa ogni cosa a posto, e il Pontefice fu sepolto in altro angolo della chiesa. In quello prescelto invece del corpo fu collocata la statua di cui abbiamo parlato. Noi abbiamo visto e toccato con mano quanto c’è qui di prezioso, ma non abbiamo potuto vedere il corpo del primo papa, perché da secoli il sepolcro non è stato più aperto per timore che qualcuno tenti di spezzarne qualche reliquia.

Sopra questa tomba è stato innalzato un ricco altare: qui ho avuto la consolazione di celebrare la santa messa. Questo altare con una cappelletta annessa riceve luce da alcuni oblò ricoperti di grate di metallo. Durante la costruzione della basilica, avvenne un fatto prodigioso, riferito da un testimone oculare. Prima che il tetto fosse terminato, caddero piogge così impetuose che le acque inondarono il pavimento della basilica fino a un palmo di altezza. Malgrado tanta abbondanza, l’acqua non osò accostarsi all’altare della Confessione, e neppure discese nell’oratorio inferiore attraverso i tre oblò suddetti, perché, giunta nelle vicinanze, si fermò rimanendo sospesa di modo che neppure una goccia giunse a bagnare quel santuario. Dopo aver osservato ogni oggetto, guardato ogni angolo, le mura, le volte, il pavimento, chiedemmo se non ci fosse più nulla da vedere.
Più nulla, ci fu risposto.
– Ma la tomba del santo apostolo, dov’è?
– Qui sotto. È situata nello stesso luogo che occupava quando era in piedi l’antica basilica
[…]
– Ma noi vorremmo vedere fin là.
– Non è possibile […]
– Ma il papa ha detto che avremmo potuto vedere tutto. Se tornando da lui ci dicesse se abbiamo visto tutto, mi rincrescerebbe di non poter rispondere affermativamente.
Il monsignore [che ci accompagnava] mandò a prendere alcune chiavi e aprì una specie di armadio. Qui si apriva una cavità che scendeva sotterra. Era tutto buio.
È soddisfatto? Mi disse il monsignore.
– Non ancora, vorrei vedere.
– E come vuol fare?
Mandi a prendere una canna e un cerino. Portarono canna e cerino che applicato sulla punta di quella venne calato giù, ma si spense subito nell’aria senza ossigeno. La canna non giungeva fino in fondo. Allora fu fatta venire un’altra canna che aveva all’estremità un uncino di ferro. Così si giunse a toccare il coperchio della tomba di san Pietro. Era a sette/otto metri di profondità. Battendo leggermente, il suono che veniva su indicava che l’uncino stava urtando ora nel ferro ora nel marmo. Ciò confermava quello che avevano scritto gli storici antichi.

Ci vorrebbe un volume per descrivere le cose viste. Quanto esisteva nella basilica costantiniana si conserva in lapidi laterali, o sui pavimenti o nelle volte dei sotterranei. Metto in risalto solo una cosa, l’immagine di Santa Maria della Bocciata, molto antica, posta in un altare sotterraneo. Il nome deriva dal fatto seguente. Un giovane per disprezzo o, forse, inavvertitamente con una boccia colpì in un occhio la figura di Maria. Avvenne un gran prodigio. Grondò sangue dalla fronte e dall’occhio che ancora rosso si vede sopra le gote dell’immagine. Due gocce schizzarono lateralmente sopra il sasso che si conserva gelosamente riparato dietro due cancelli di ferro.

Altari, cappelle, sepolcri
Sopra l’altare papale e la tomba di san Pietro si alza la sterminata cupola che fa restare incantato chi la osserva. Quattro grandi piloni la sostengono: ciascuno di essi ha cento cinquanta passi, circa venticinque trabucchi, di circuito. Tutto intorno a quell’alta cupola ci sono eleganti lavori in mosaico eseguiti dai più celebri autori. Sui pilastri sono incavate quattro nicchie dette Logge delle Reliquie, che sono il Volto Santo della Veronica, la Santa Croce, la Sacra Lancia, e Sant’Andrea. Tra esse è celebre quella del Sacro Volto che si crede essere quel pannolino di cui si servì il Salvatore per asciugarsi la faccia grondante di sangue. Egli vi lasciò impressa la sua effigie che regalò a Veronica che piangente l’accompagnava al Calvario. Persone degne di fede raccontano che questo Sacro Volto l’anno 1849 trasudò sangue più volte, anzi cambiò colore tanto da variarne i lineamenti. Queste cose furono scritte, e i canonici di S. Pietro ne danno testimonianza.

Partendo dall’altare papale e proseguendo verso la parte meridionale si incontra il sepolcro di Alessandro VIII degli Ottobuoni. Fu fatto erigere dal nipote cardinale Pietro Ottobuoni. La statua del Papa assiso in trono è di metallo. Due statue in marmo sono ai due lati, e rappresentano la Religione e la Prudenza. L’urna è coperta dal bassorilievo della canonizzazione di Lorenzo Giustiniani, Giovanni da Capistrano, Giovanni da san Facondo, Giovanni di Dio e Pasquale Bajlon, fatta da Alessandro VIII nel 1690. A fianco si erge l’altare di san Leone Magno su cui si ammira il sorprendente bassorilievo del Pontefice che va incontro al feroce Attila. In alto sono effigiati Pietro e Paolo, accanto al Papa Attila, spaventato dalla comparsa dei due e in atto di ossequiare il Pontefice. In un’urna sotto l’altare riposa il corpo del santo papa e dottore della Chiesa. Davanti è posta la tomba di Leone XII, morto nel 1829, il quale aveva tanta venerazione per questo suo glorioso antecessore, da voler essere sepolto accanto a lui. […]

L’altare che segue è dedicato alla Vergine della Colonna, così detta perché vi si venera l’immagine di Maria dipinta sopra una colonna dell’antica basilica costantiniana. Vi fu collocata nel 1607. L’altare custodisce i corpi di Leone II, III e IV. Continuando il giro sulla linea meridionale incontriamo a destra il sepolcro di Alessandro VII Ghigi con quattro statue: Giustizia, Prudenza, Carità e Verità. Siccome questo pontefice aveva sempre presente il pensiero della morte, lo scultore ha steso una coltre in rilievo, sotto a cui la figura della morte mostra una clessidra, cioè un orologio a polvere, che sta per terminare la sua carica. Il Papa sta pregando a mani giunte in ginocchio. L’altare sulla sinistra è dedicato agli apostoli Pietro e Paolo. Vi è rappresentata la caduta di Simon Mago. Di fronte è collocato l’altare dei santi Simone e Giuda che qui riposano. L’altare a destra invece è dedicato a san Tommaso e custodisce il corpo di Bonifacio IV, mentre quello a sinistra conserva le spoglie di Leone IX. Di fronte alla porta della sacrestia l’altare dei santi Pietro e Andrea rappresenta in prezioso mosaico la morte di Anania e Saffira.

Si giunge così alla cappella Clementina, il cui altare, dedicato a san Gregorio Magno, è sormontato da un bel mosaico del santo in atto di convincere gli increduli. Sotto l’altare se ne venera il corpo. Sopra la porta che conduce all’organo è posto il monumento sepolcrale di Pio VII. Il Pontefice, seduto sopra una ricca sedia e vestito degli abiti pontificali, è in atto di benedire. Le statue poste ai lati rappresentano la Sapienza e la Fortezza. Prima di arrivare alla navata laterale si incontra l’altare della Trasfigurazione il cui mosaico presenta la trasfigurazione del Salvatore sul monte Tabor.

La navata minore sinistra
Entrati nella navata minore si incontrano ai due lati due sepolcri, a destra quello di Leone XI dei Medici. Un bassorilievo descrive il Pontefice che assolve Enrico IV re di Francia […] Più in basso vi sono rose scolpite col motto: Sic floruit, per indicare la caducità della vita e simboleggiare la brevità del pontificato di Leone XI, che fu di soli 21 giorni.
Il sarcofago di sinistra è di Innocenzo XI Odescalchi. Il bassorilievo sovrapposto ritrae la liberazione di Vienna dai Turchi, avvenuta sotto il suo pontificato. Inoltrandosi lungo la navata, si giunge alla cappella del coro, arricchita di mosaici e dipinti. Sotto l’altare riposa il corpo di san Giovanni Crisostomo. Questa cappella ha un sotterraneo ove si conservano le ceneri di Clemente XI. Viene chiamata Cappella Sistina da Sisto IV che ne aveva eretta un’altra nel luogo medesimo dell’antica basilica. A destra si accede alla cantoria del coro, e alla Cappella Giulia, così detta da Giulio II che ne fu l’istitutore. Sopra questa porta esiste un’urna di stucco che racchiude le ceneri di Gregorio XVI, morto nel 1846. Quest’urna viene riservata per accogliere il cadavere dell’ultimo pontefice sino a che gli venga eretta una sepoltura.

Il sepolcro d’Innocenzo VIII della famiglia Cibo è di fronte. Due sono le figure di quel Papa: una seduta col ferro della lancia in mano, per alludere a quella con cui venne trafitto Gesù, mandatagli in dono da Bajasetto II, imperatore dei Turchi; l’altra distesa, sotto la prima […] Prospiciente alla porticina che immette alla scala della cupola c’è il cenotafio di Giacomo III, re d’Inghilterra, della famiglia Stuart, morto a Roma il 1° di gennaio 1766, e dei due suoi figli Carlo III ed Enrico IX, cardinale, duca di York. I tre busti in bassorilievo, sono di Antonio Canova.
L’ultima cappella è quella del Battistero. La conca battesimale è di porfido e formava il coperchio dell’urna di Ottone II imperatore che fu qui trasportata quando le sue ceneri vennero poste nelle grotte Vaticane […]

Roma. S. Andrea al Quirinale
Il permesso di visita terminava a mezzogiorno e mezzo, sicché il signor Carlo, che ci guidava e noi pure guidati da buon appetito, abbiamo rimandato ad altra volta la salita sulla cupola e la visita al palazzo Vaticano. Dopo il pranzo, e qualche ora di riposo abbiamo dato un’occhiata al Quirinale e alle cose più importanti vicine alla nostra dimora. Il Quirinale è uno dei sette colli di Roma antica, così chiamato dai Quiriti che vennero qui ad abitare, e da un tempio dedicato a Romolo, venerato sotto il nome di Quirino. Alla nostra sinistra procedendo verso piazza Monte Cavallo, s’incontra la chiesa di Sant’Andrea, dov’è oggi il noviziato dei Gesuiti. Essa custodisce, in una cappella dedicata a san Stanislao Kostka, dentro un’urna di lapislazzuli ornata di marmi preziosi, il corpo del santo. Accanto a questa chiesa c’è il monastero delle Domenicane. Si vuole che queste due costruzioni siano sorte sulle rovine del tempio di Quirino. A destra della via s’innalza il maestoso palazzo del Quirinale, iniziato da Paolo III circa 300 anni or sono, e terminato dai suoi successori. Lo ornano architetture, sculture, pitture e mosaici di gran pregio. Il Papa vi abita per una parte dell’anno. Il palazzo ha uno spazioso giardino di un miglio circa di perimetro. Fra le altre meraviglie vi si ammira un organo che suona alimentato dalla forza dell’acqua che qui scorre.

Davanti al Quirinale si apre la piazza di Monte Cavallo, così chiamata per via di due cavalli colossali in bronzo che rappresentano Castore e Polluce. Pio VI fece innalzare un obelisco in mezzo a questa piazza. Esso è lavoro eseguito per ordine di Smarre ed Efre, principi dell’Egitto, e trasportato a Roma dall’imperatore Claudio. Non ha geroglifici. A sud domina il magnifico palazzo Rospigliosi, innalzato dove anticamente erano le terme di Costantino. Gli amanti delle belle arti possono qui visitare molti capolavori di pittura e scultura.

Santa Croce in Gerusalemme
Il 4 marzo era dedicato alla basilica di S. Croce in Gerusalemme. Il tempo era nuvoloso, e fatta appena un po’ di strada fummo sorpresi dalla pioggia. Non essendo provvisti di ombrella giungemmo bagnati come due sorci; ma la consolazione provata nella visita ci compensò sia dell’acqua che del disagio patito. È questa una delle sette basiliche che si visitano per guadagnare le indulgenze. Fondata da Costantino il Grande, dove sorgeva il palazzo detto Sassorio, fu chiamata Basilica Sassoriana e venne eretta in memoria del ritrovamento della santa Croce fatto da sant’Elena, madre dell’imperatore, a Gerusalemme. Quella principessa vi fece trasportare molta terra del Calvario, prelevata dal luogo dove fu rinvenuta la Croce di Cristo. L’edificio prese il nome Santa Croce dalla parte considerevole del santo Legno che vi si conserva, e fu aggiunto in Gerusalemme perché questa santa reliquia, assieme a molte altre, fu qui trasportata da quella città. La chiesa venne consacrata da san Silvestro papa. Sotto l’altare maggiore riposano i corpi di san Cesario e sant’Anastasio martiri […]

Di fronte all’altare vi è la cappella Gregoriana, privilegiata perché si può lucrare l’indulgenza plenaria applicabile alle anime del purgatorio, sia per quelli che celebrano la messa, che per quelli che l’ascoltano. A questo altare con gran consolazione ho celebrato anch’io. Accanto alla chiesa sorge il convento dei Cistercensi. Il padre Abbate è un certo Marchini, piemontese, il quale ci usò molta cortesia. Fra le altre cose ci ha fatto visitare la biblioteca, ricca di pergamene antiche e di altre opere […]

Un giorno di pioggia
Il 5 marzo fu un giorno piovoso, perciò l’abbiamo impiegato quasi interamente a scrivere. C’è questo di singolare a Roma, che piove e c’è sole contemporaneamente, sicché in certe epoche dell’anno bisogna essere continuamente muniti di ombrello per difendersi o dal sole o dalla pioggia. Alle dieci di questo giorno passava a miglior vita il padre Lolli, rettore del noviziato dei Gesuiti, nella chiesa di Sant’Andrea a Monte Cavallo, un piemontese che dimorò per lungo tempo a Torino ove si rese celebre per la predicazione e la sollecitudine nell’apostolato del confessionale. La regina di Sardegna Maria Teresa lo aveva scelto come suo confessore […]

In questo giorno siamo venuti a sapere che le malattie a Roma si erano moltiplicate, e che la mortalità attuale è quattro volte superiore alla media. Nei soli mesi di gennaio e febbraio morirono circa 6600 persone; un numero assai grande, tenuto conto della popolazione che ammonta a circa 130 mila abitanti. Verso sera sono uscito per farmi radere la barba. Andai in una bottega e fui servito abbastanza bene; ma feci il proposito di non andarci mai più, perché tanti furono gli urti e gli scrolloni che mi diede colle sue manacce il barbiere che mi avrebbe spostato denti e mandibole, se non avessero avuto radici ben salde.

L’Ospizo s. Michele
Secondo l’invito fattoci dal cardinale Tosti, il 6 marzo siamo andati colla famiglia De Maistre a visitare l’Ospizio S. Michele. Oltre a quanto dissi la volta scorsa, posso aggiungere quanto segue. Il primo tratto di cortesia usatoci fu una sontuosa colazione, cui però non abbiamo potuto partecipare, perché l’avevamo fatta prima di partire, ed essendo giorno di digiuno non potevamo più mangiare fino al pranzo. Così ci siamo limitati ad una piccola tazza di cioccolata, che sua Eminenza ci disse essere compatibile col digiuno. Ci fu data anche una bibita di ottimo sapore al mandarino, una specie di vino fatto con frutti disseccati e posti in fusione con acqua e zucchero. Soltanto Rua non essendo obbligato al digiuno mangiò qualche cosa di più solido.

Poi abbiamo iniziato la visita di quello spazioso ospizio dove sono ricoverate oltre ottocento persone. Il cardinale Tosti ci accompagnò ovunque. Ci siamo fermati specialmente a considerare il lavoro dei giovani. Qui imparano gli stessi mestieri che imparano da noi: la maggior parte si occupa nel disegno, nella pittura, nella scultura; e molti lavorano in una tipografia interna. Il Santo Padre per aiutare l’Ospizio gli ha concesso il privilegio di stampare in esclusiva i libri di scuola che si usano negli Stati Pontifici. Sopra l’edificio vi è un terrazzo con una magnifica vista: guardando a ponente si scorge l’accampamento dei francesi venuti a liberare Roma […] Alle dodici e mezzo, quando ormai i ragazzi erano a pranzo, essendo anche il cardinale molto stanco, abbiamo preso congedo […]

S. Maria in Cosmedin e la Bocca della Verità
Secondo il solito pioveva a meraviglia, e tra me e Rua, avendo una sola ombrella assai piccola, abbiamo trovato il modo di bagnarci tutti e due. Abbiamo passato il Tevere sopra un ponte chiamato Ponte Rotto perché, si era rovinato, e fu sostituito con un ponte di ferro molto simile a quello che abbiamo sul Po a Torino. Anticamente si chiamava ponte Coclite, perché è quello stesso, in cui Orazio Coclite oppose un’eroica resistenza all’esercito di Porsenna, finché il ponte fu tagliato, ed egli si gettò nel Tevere passando a nuoto all’altra sponda fra i dardi dei nemici meravigliati.

S’incontra qui una via detta Bocca della Verità, perché in fondo alla medesima c’era il luogo dove si conducevano coloro che dovevano fare un giuramento. Adesso c’è una chiesa chiamata S. Maria in Cosmedin, parola che vuol dire ornamento, perché fu con magnificenza ornata dal pontefice Adriano I. Al suo interno si conserva la cattedra di cui si servì Sant’Agostino quando insegnava Retorica. Sotto al vestibolo ci siamo ritirati per attendere che smettesse l’acquazzone che stava inondando tutte le vie. Mentre stavamo là abbiamo dato uno sguardo alla piazza chiamata anch’essa Bocca della Verità.

I vaccari
Vi erano molti buoi aggiogati che bivaccavano, esposti alla pioggia al fango e al vento. I bovari si erano riparati sotto il medesimo vestibolo mettendosi a pranzare con invidiabile appetito. Al posto della minestra e della pietanza avevano un pezzo di merluzzo crudo, da cui ciascuno strappava un pezzo. Alcune pagnottelle di meliga e segala era il loro pane. Acqua la bevanda. Scorgendo in loro un’aria di semplicità e di bontà mi avvicinai e feci questa conversazione.
– Avete buon appetito?
Molto, rispose uno di essi.
– Vi basta quel cibo a togliervi la fame e sostentarvi?
– Ci basta, grazie a Dio, quando possiamo averne, giacché, essendo poveri, non possiamo pretendere di più.
– Perché non conducete quei buoi nelle stalle?
– Perché non ne abbiamo.
– Li lasciate sempre esposti al vento, alla pioggia, alla grandine giorno e notte?
– Sempre, sempre.
– Fate lo stesso ai vostri paesi?
– Si, facciamo lo stesso, perché nemmeno là abbiamo stalla, perciò o piova, o faccia vento, o nevichi, giorno e notte stanno sempre all’aperto.
– E le vacche e i vitelli piccoli sono anch’essi esposti a tali intemperie?
– Certamente. Tra di noi si usa che gli animali, quelli di stalla stanno sempre in stalla e quelli che cominciano a stare fuori se ne stanno sempre fuori.
– Abitate molto lontano di qui?
– Quaranta miglia.
– Nei giorni festivi potete assistere alle sacre funzioni?
– Oh! chi ne dubita? Abbiamo la nostra cappella, il prete che ci dice messa, fa la predica ed il catechismo, e tutti, comunque lontani, si danno premura d’intervenire.
– Andate anche qualche volta a confessarvi?
– Oh! Senza dubbio. Ci sono forse cristiani che non adempiono questi santi doveri? Adesso ci è il giubileo e noi tutti ci daremo sollecitudine di farlo bene.
Da questo ragionamento appare la buona indole di questi paesani, i quali nella loro semplicità vivono contenti della loro povertà e lieti del loro stato, purché possano adempiere i doveri di buon cristiano e disimpegnare ciò che riguarda al basso loro commercio.

S. Maria del Popolo
Domenica 7 marzo era destinata alla visita di S. Maria del Popolo. Alcune pie e nobili persone desideravano che andassimo là a celebrare la messa, per poter fare la comunione. Era questa una pia devozione. Alle nove il signor Foccardi, persona servizievole e piena di fede, ci venne a prendere con la propria vettura per trasportarci al luogo indicato. Questa chiesa fu costruita sul luogo dove erano stati sepolti Nerone e la famiglia Domizia. La tradizione dice che vi apparissero continuamente spettri che atterrivano i cittadini tanto che nessuno voleva abitare nei dintorni. Il pontefice Pasquale II l’anno 1099 vi fece innalzare una chiesa, e per allontanare l’infestazione diabolica la dedicò a Maria Santissima. L’anno 1227 l’antica chiesa minacciava di cadere e il popolo romano concorse con generosità alle spese di ricostruzione. Proprio per questo fu chiamata S. Maria del Popolo. Una chiesa grandiosa, ricca di marmi e pitture. Nell’altare maggiore si venera un’immagine miracolosa della Madonna fatta prelevare per ordine di Gregorio IX dalla cappella del Salvatore in Laterano. Vicino c’è il convento dei padri Agostiniani.

Porta del Popolo anticamente si chiamava Porta Flaminia, perché era all’inizio della via Flaminia […]. Fuori di questa porta, voltando a destra, si trova Villa Borghese, un maestoso edificio degno di essere visitato dai turisti a motivo dei molti oggetti d’arte che vi sono conservati. Porta del Popolo delimita una gran piazza chiamata Piazza del Popolo, e abbellita da copiose fontane, e da obelischi, i quali come ognuno sa, sono monumenti di una remota antichità fatti innalzare dai re dell’Egitto per rendere immortale la memoria delle loro azioni. Il superbo obelisco che si eleva in mezzo alla piazza fu costruito a Eliopoli per ordine di Ramesse, re di Egitto, che regnò nel 522 a. C. L’imperatore Augusto lo fece trasportare a Roma; ma per sventura si rovesciò, spezzandosi e fu coperto di terra. Papa Sisto V nel 1589 lo fece dissotterrare innalzandolo nella piazza, dopo averne dotato il culmine di un’alta croce di metallo. Le sue quattro facce sono coperte di geroglifici, cioè di simboli misteriosi dei quali si servivano gli Egiziani per esprimere le cose sacre ed i misteri della loro teologia.

Nel fondo della piazza s’innalza la chiesa di S. Maria dei Miracoli, costruita da Alessandro VII, e chiamata così a causa di un’immagine miracolosa della Madonna che prima era dipinta sotto un arco nei pressi del Tevere. A sinistra c’è un’altra chiesa, S. Maria di Monte Santo, perché edificata sopra un’altra chiesa che apparteneva ai carmelitani della provincia di Monte Santo. Fu inaugurata nel 1662. Appagata così devozione e curiosità, siamo di nuovo saliti in vettura che ci portò a casa della principessa Potosca, dei conti e principi Sobieschi, antichi sovrani di Polonia. La colazione apparecchiata per noi era sontuosa, ma troppo signorile, quindi poco adatta al nostro appetito. Ci siamo aggiustati alla meglio. Siamo tuttavia rimasti molto soddisfatti dalla conversazione veramente cristiana, che quelle signore tennero per il tempo che ci trattenemmo a casa loro.
Una cosa suscitò la nostra meraviglia. Terminato di mangiare, la padrona di casa si fece portare un mazzetto di sigari e si mise a fumare. Malgrado una conversazione assai animata ella continuò con grande avidità a fumare un sigaro dopo l’altro, e questo mi mise a disagio, essendo costretto a sopportare l’odore di fumo che impregnava tutta la casa. Mi provocava la nausea risultandomi insopportabile […]

Città del Vaticano. La salita al Cupolone
Riservammo l’8 marzo per visitare la famosa cupola di S. Pietro. Il canonico Lantieri ci aveva procurato il biglietto necessario per appagare questa curiosità. L’orario in cui è permessa la salita va dalle 7 alle 11 ½ del mattino. Il tempo era sereno e perciò propizio. Dopo aver celebrato l’eucarestia nella Chiesa del Gesù, dove stanno i Gesuiti, sull’altare di san Francesco Saverio, giungemmo in Vaticano alle 9 in compagnia del signor Carlo De Maistre. Consegnato il biglietto, ci fu aperta la porticina e cominciammo a salire su per una scala assai comoda fatta come un ripido terrazzo. Salendo s’incontrano varie iscrizioni che ricordano il nome e l’anno di tutti i pontefici che aprirono e chiusero gli anni giubilari. Vicino al ripiano del terrazzo sono scritti i più celebri personaggi, re o principi, che salirono fino alla palla della cupola. Abbiamo letto con piacere anche il nome di vari dei nostri sovrani e della famiglia reale.

Abbiamo dato un’occhiata al terrazzo della basilica. Si presenta come una vasta piazza selciata dove si può giocare a palla, a bocce, e simili. Qui abitano alcune persone cui è affidata la cura della parte superiore del tempio: falegnami, ferrai, lavoratori dell’asfalto. Quasi nel mezzo del terrazzo è posta una fontana sempre aperta, dove Rua andò a bere.
Dalla piazza sottostante avevamo osservato le statue dei dodici apostoli che ornano l’alto cornicione della basilica. Da laggiù apparivano piccole, ma da vicino ci accorgemmo che il solo dito pollice del piede aveva la grossezza del corpo d’un uomo. Da ciò si può capire a quale altezza eravamo. Abbiamo anche visitato la campana maggiore che ha un diametro di oltre tre metri che significano tre trabucchi di circonferenza (c.ca 9 metri n.d.r.).

Una veduta per noi assai curiosa fu il giardino vaticano dove il papa suole andare a passeggiare a piedi. Si calcola che esso abbia la lunghezza che vi è da Porta Susa al principio di Via Po. A Sud si scorgevano vaste campagne. La nostra guida ci disse:
Tutto quel piano era coperto di soldati francesi quando vennero a liberare la nostra città dai ribelli. E ci indicava la basilica di S. Sebastiano, S. Pietro in Montorio, Villa Panfili, Villa Corsini, tutti edifici che soffrirono gravissimi danni per essere stati fatti campi di battaglia.
Una scaletta a chiocciola ai fianchi della cupola ci condusse su fino alla prima ringhiera. Da questo ripiano ci pareva di volare in alto e allontanarci da terra. La guida ci aprì una porticina la quale immetteva su una ringhiera interna che faceva il giro della cupola. L’ho voluta misurare, e camminando da buon viaggiatore ho contato 230 passi prima di completare il giro. Una curiosità: in qualsiasi punto della ringhiera ti trovi, parlando anche sottovoce con la faccia rivolta al muro, il più piccolo suono si comunica nitidamente da una parete all’altra. Abbiamo anche notato che i mosaici della chiesa che da sotto apparivano molto piccoli, da lì prendevano una forma gigantesca.
Coraggio, ci esortò la guida, se vogliamo vedere altre cose. Così infilammo un’altra scala a chiocciola e arrivammo alla seconda ringhiera. Qui ci pareva di esserci innalzati verso il Paradiso, e quando entrammo nella ringhiera interna e lasciammo cadere lo sguardo sul pavimento della basilica, ci rendemmo conto della straordinaria altezza cui eravamo giunti. Le persone che lavoravano o camminavano laggiù sembravano bambini. L’altare papale che è sormontato da un baldacchino di bronzo che in altezza sorpassa le più alte case di Torino, da lì pareva un semplice seggiolone.

L’ultimo piano sopra cui siamo saliti è quello che posa sopra la punta della cupola, da dove si gode forse la veduta più maestosa del mondo. Tutto intorno lo sguardo va a perdersi in un orizzonte formato dai limiti della vista umana. Dicono che guardando verso levante si può vedere il mare Adriatico, a ponente il Mediterraneo. Noi però abbiamo soltanto potuto scorgere la nebbia che il tempo piovoso dei giorni passati aveva sparso un po’ dovunque.

C’era rimasta la palla, un globo che da terra pare una delle bocce di cui ci serviamo per passare un po’ di tempo; da lì appariva grandissima. I più coraggiosi, passando per una scaletta perpendicolare e camminando come dentro a un sacco, si arrampicarono come gatti per l’altezza di due trabucchi, ossia sei metri. Alcuni non ebbero abbastanza coraggio. Noi, che eravamo un po’ più temerari, ci siamo riusciti. Dalla palla tutto appare meraviglioso. Mi avevano detto che avrebbe potuto contenere sedici persone; a me pareva però che ce ne potessero stare comodamente trenta. Alcuni buchi, quasi piccole finestre, permettono di osservare la città e le campagne. Ma la grande altezza dà una certa sensazione e non rende del tutto gradevole la visione. Pensavamo che lassù facesse freddo. Tutto il contrario: il sole battendo sul bronzo della palla la riscaldava a tal punto che ci sembrava essere in piena estate. Credo che questa sia una delle ragioni per cui dopo pranzo non è permesso salire fin lassù: per il caldo insopportabile. Qui dopo aver parlato di varie cose riguardanti i giovani dell’oratorio, soddisfatti della nostra impresa, quasi avessimo riportata una grande vittoria, abbiamo cominciato la discesa con passo lento e grave, per non romperci l’osso del collo, e senza più fermarci siamo arrivati a terra.

Per riposarci un po’ siamo andati ad ascoltare la predica che era iniziata proprio allora nella basilica. Il predicatore ci piacque. Buona lingua, bel gesto, ma il tema non ci interessò molto perché trattava dell’osservanza delle leggi civili. Quello però che non servì a nutrire lo spirito servì assai bene a dar riposo al corpo. Restandoci ancora un briciolo di tempo l’abbiamo impiegato a visitare la sacrestia che è una vera magnificenza degna di S. Pietro.
Intanto erano arrivate le undici e mezzo, e a causa del digiuno e del tanto camminare avevamo un grande appetito; perciò siamo andati a fare una piccola refezione. Rua non soddisfatto giudicò bene di andarsene a pranzo, così io rimasi solo col signor Carlo De Maistre, indivisibile compagno di quella giornata. Ristorati alquanto siamo andati a fare visita a monsignor Borromeo, maggiordomo di Sua Santità che ci accolse benissimo, e, dopo aver parlato del Piemonte e di Milano sua patria, si annotò i nostri nomi per inserirci sul catalogo delle persone che desiderano ricevere la palma dal Santo Padre nella funzione della Domenica delle Palme.

Ai famosi musei
Accanto alla loggia di questo prelato, intorno al cortile del palazzo pontificio ci sono i Musei Vaticani. Ci siamo entrati e abbiamo visto cose davvero eccezionali. Ne descrivo solo alcune. C’è una sala di lunghezza straordinaria arricchita di marmi e preziosissimi dipinti. In mezzo alla seconda arcata campeggia una acquasantiera di circa un metro e mezzo, formata di malachite, uno dei marmi più preziosi del mondo. È un dono fatto dall’imperatore di Russia al Sommo Pontefice. Ci sono vari altri oggetti di simile genere. In fondo a quella grande sala a sinistra si apre una specie di lungo corridoio che ospita il museo cristiano […] Nel medesimo si estende la Biblioteca Vaticana, dove si conservano i manoscritti più celebri dell’antichità […]

In giro per Roma
Dal Vaticano andando verso il centro di Roma siamo arrivati a piazza Scossacavalli ove lavorano gli scrittori del celebre periodico La Civiltà Cattolica. Ci siamo fermati a far loro una visita e abbiamo provato un vero piacere nell’osservare che i principali sostenitori di questa pubblicazione sono piemontesi. Sentivo ormai un vivo desiderio di tornare a casa, superando ogni indugio, ed eravamo quasi giunti al Quirinale, quando il signor Foccardi ci vide passare davanti la sua bottega e ci chiamò dentro. A forza di inviti e cortesia ci trattenne alquanto, e nel momento in cui chiedemmo di partire ci disse:
Ecco la vettura, vi accompagno fino a casa. Sebbene mi mettessi di mala voglia in vettura, tuttavia per compiacerlo accondiscesi. Ma il Foccardi desiderando trattenersi più a lungo con noi ci fece fare un lungo giro tanto che siamo arrivati a casa a notte inoltrata.

Qui mi venne consegnata una lettera. L’apro e la leggo. Si notifica al signor Abate Bosco che Sua Santità si è degnata di ammetterlo all’udienza domani, nove di marzo, dalle ore undici e tre quarti ad un’ora. Questa notizia, attesa e molto desiderata, mi procurò una rivoluzione interiore e per tutta la serata non riuscii a parlare d’altro se non del Papa e dell’udienza.

L’udienza papale. S. Maria sopra Minerva
Era arrivato il 9 marzo, il grande giorno dell’udienza papale. Prima però avevo bisogno di parlare col cardinale Gaude; perciò mi recai a dire messa nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, dove il porporato aveva la sua dimora. Anticamente era un tempio che Pompeo il Grande aveva fatto edificare alla dea Minerva; fu chiamata S. Maria sopra Minerva perché fu fabbricata precisamente sopra le rovine di questo tempio. L’anno 750 papa Zaccaria la donò ad un convento di monache greche. L’anno 1370 passò ai padri predicatori che tuttora la officiano. Dinanzi a questa chiesa si apre una piazza ove abbiamo ammirato un obelisco egizio con geroglifici, la cui base poggia sul dorso di un elefante di marmo. Entrati abbiamo potuto ammirare uno degli edifici sacri più belli di Roma. Sotto l’altare maggiore riposa il corpo di S. Caterina da Siena. Celebrata la messa e recatomi con tutta fretta dal cardinale Gaude, gli parlai, quindi partimmo alla volta del Quirinale.

Il piccolo bugiardo
Lungo la via abbiamo incontrato un ragazzo che con buona grazia ci chiese l’elemosina e per farci conoscere la sua condizione ci disse che suo padre era morto, sua madre aveva cinque figlie e che egli sapeva parlare italiano, francese e latino. Meravigliato, gli indirizzai un discorso in francese a cui diede per risposta un solo oui senza né intendere quel che dicevo, né articolare altre espressioni; lo invitai allora a parlare latino, ed egli senza badare alle mie parole si mise a recitare a memoria le seguenti parole: ego stabam bene, pater meus mortuus est l’annus passatus et ego sum rimastus poverus. Mater mea etc. Qui non abbiamo più potuto trattenere le risa. Però l’abbiamo poi avvertito di non dire bugie e gli abbiamo regalato un baiocco.

L’anticamera
Intanto l’ora dell’udienza si avvicinava […] Giunti in Vaticano, salimmo le scale macchinalmente. Ovunque c’erano le guardie nobili, vestite da sembrare tanti principi. Al piano nobile ci aprirono la porta che introduceva nelle sale pontificie. Guardie e camerieri, abbigliati con gran lusso, ci salutavano con profondi inchini. Consegnato il biglietto per l’udienza, fummo condotti di sala in sala fino all’anticamera papale. Siccome vi erano parecchi altri che attendevano, abbiamo aspettato circa un’ora e mezzo prima di essere ricevuti.

Quel tempo l’abbiamo impiegato a osservare le persone e il posto dove ci trovavamo. I domestici del Papa erano vestiti quasi come i vescovi dei nostri paesi. Un monsignore, cui si dà il titolo di prelato domestico introduceva a turno le persone per l’udienza man mano che finiva quella precedente. Abbiamo ammirato grandi sale ben tappezzate, maestose, ma senza lusso. Un semplice tappeto di panno verde copriva il pavimento. Le tappezzerie erano di seta rossa ma senza ornati. Le sedie di legno duro. Un seggiolone posto sopra un palchetto alquanto elegante indicava che quella era la sala pontificia. Tutto questo ci ha fatto piacere, perché coi nostri occhi abbiamo potuto renderci conto della falsità delle dicerie che taluni vanno spargendo contro lo spazio e il lusso della corte pontificia. Mentre eravamo immersi in vari pensieri, suonò il campanello, e il prelato ci fece cenno di avanzare per presentarci a Pio IX. In quel momento io rimasi veramente confuso e dovetti farmi violenza per rimanere calmo.

Pio IX
Rua mi seguì recando una copia delle Letture Cattoliche. Entrati, facemmo la genuflessione all’inizio, poi a metà della sala, infine, la terza, ai piedi del Papa. Cessò ogni apprensione quando scorgemmo nel Pontefice l’aspetto di un uomo affabile, venerando, e al tempo stesso il più bello che potesse dipingere un pittore. Non gli potemmo baciare il piede, perché era seduto al tavolino; gli baciammo però la mano, e Rua, memore della promessa fatta ai chierici, la baciò una volta per sé e una volta per suoi compagni. Allora il Santo Padre fece segno di alzarci e metterci davanti a lui. Io, secondo l’etichetta, avrei voluto parlare restando in ginocchio.
No, egli disse, alzatevi pure. Conviene qui notare che nell’annunziarci al Papa fu letto male il nostro nome. Infatti invece di scrivere Bosco era stato scritto Bosser, perciò il Papa cominciò ad interrogarmi:
– Voi siete piemontese?
– Sì, Santità, sono piemontese, e in questo momento provo la più grande consolazione della mia vita, trovandomi ai piedi del Vicario di Cristo.
– Di che cosa vi occupate?
– Santità, io mi occupo dell’istruzione della gioventù e delle Letture Cattoliche.
– L’istruzione della gioventù è stato un apostolato utile in tutti i tempi, ma oggi lo è molto di più.
C’è anche un altro a Torino che si occupa di giovani. Allora mi accorsi che il Papa aveva sottomano un nome sbagliato, ma, senza saper come, anche lui si rese conto che io non ero Bosser, ma Bosco; così assunse un aspetto molto più festoso, e chiese tante cose riguardanti i giovani, i chierici, gli oratori […] Quindi con volto ridente mi disse:
– Mi ricordo dell’offerta mandatami a Gaeta e dei teneri sentimenti con cui quei giovani l’accompagnarono. Approfittai per esprimergli l’attaccamento dei nostri giovani alla sua persona e lo pregai di gradire una copia delle Letture Cattoliche:
– Santità, gli dissi, le offro una copia dei volumetti finora stampati a nome della direzione; la legatura è opera dei giovani della nostra scuola.
– Quanti sono questi giovani?
– Santità, i giovani della casa sono circa duecento, i legatori sono quindici.
Bene, egli rispose, voglio mandare una medaglia a ciascuno. Quindi andato in un’altra stanza, dopo brevi istanti tornò portando quindici piccole medaglie della Concezione:
Queste saranno per i giovani legatori, disse mentre me le porgeva. Rivoltosi poi a Rua, gliene diede una più grande dicendo:
Questa è per il suo compagno. Quindi rivoltosi nuovamente a me, mi porse una piccola scatola che ne rinchiudeva un’altra più grande:
E questa è per voi. Essendoci inginocchiati per ricevere i regali, il Santo Padre ci invitò ad alzarci, e credendo poi che volessimo partire, stava per congedarci, quando io presi a parlargli così:
– Santità, avrei qualche cosa di particolare da comunicarle.
Va bene, rispose […].
Il Santo Padre è speditissimo nel capire le domande e prontissimo nel dare le risposte, perciò con lui si tratta in cinque minuti quello che con altri richiederebbe oltre un’ora. Tuttavia la bontà del Papa e il mio vivo desiderio di trattenermi con lui prolungarono l’udienza di oltre mezz’ora, tempo assai considerevole sia riguardo alla sua persona sia riguardo all’ora del pranzo che per nostra cagione le era ritardato […].

Il Gianicolo
Alle 13,30 del 10 marzo il padre Giacinto dei Carmelitani Scalzi passava a prenderci con un calesse per trasportarci alla basilica di S. Pancrazio e di S. Pietro in Montorio. Sono due chiese situate sul Gianicolo, chiamato così a causa di Giano che dicono vi abitasse. Sulla sommità di questo colle al di là del Tevere, è situata la basilica di S. Pancrazio, costruita da papa Felice II nel 485, circa 100 anni dopo il martirio di Pancrazio. Il generale Narsete, vinti i Goti, fece una solenne processione insieme con papa Pelagio da S. Pancrazio a S. Pietro. San Gregorio Magno che aveva grande venerazione per questa chiesa vi celebrò più volte la messa e vi tenne alcune omelie, infine la donò ai monaci benedettini. Nel 1673 venne affidata ai Carmelitani Scalzi col convento annesso e un seminario per le missioni delle Indie […]

Sotto l’altare maggiore, vi è un altro altare sotterraneo dove anticamente veniva conservato il corpo del Santo, protetto da una cancellata di ferro. C’era l’usanza di condurre quelli che erano sospettati di spergiuro davanti a questa cancellata, perché se erano colpevoli venivano presi da un vistoso tremolio o da altro accidente.

Le Catacombe
Venite con me, ci disse il padre Giacinto, andremo nelle catacombe. Aveva approntato un lume per ciascuno. Noi ci siamo messi a seguirlo. A metà chiesa sul pavimento ci indicò una botola. Alzato il coperchio apparve una cavità oscura e profonda: cominciavano le catacombe. All’entrata era scritto in latino: “In questo luogo è stato decollato il martire di Cristo Pancrazio”. Eccoci nelle catacombe. Immaginatevi lunghi corridoi ora più stretti e più bassi, ora più alti e spaziosi, ora tagliati da altri corridoi, ora in discesa, ora in salita, e avrete la prima idea di questi sotterranei. A destra e a sinistra vi sono piccole tombe scavate parallelamente nel tufo. Qui anticamente venivano seppelliti i cristiani, soprattutto i martiri. Quelli che avevano dato la vita per la fede erano designati con emblemi particolari. La palma era segno della vittoria riportata contro i tiranni; l’ampolla indicava che aveva sparso il sangue per la fede; il “” significava che era morto nella pace del Signore oppure che aveva patito per Cristo. In altri comparivano gli strumenti con cui erano stati martirizzati. Talvolta questi emblemi erano chiusi nella piccola tomba del santo. Quando non infierivano molto le persecuzioni si scriveva nome e cognome del martire e qualche riga che sottolineava qualche importante circostanza della sua vita. […]
Ecco, ci disse la guida, questo è il luogo dov’era sepolto san Pancrazio, accanto a lui san Dionigi suo zio e qui vicino un altro suo parente. Poi abbiamo visitato alcune tombe riunite in una cameretta sulle cui pareti si vedevano iscrizioni antiche che non abbiamo saputo leggere. In mezzo alla volta era dipinto un giovane che ci parve rappresentasse san Pancrazio […]

Stavolta la guida ci indicò una cripta. Cripta, parola greca, vuol dire profondità. È uno spazio più grande dell’ordinario dove i cristiani solevano radunarsi, in tempo di persecuzione, per ascoltare la Parola, assistere alla messa, e alle funzioni sacre. In un lato c’è ancora un altare antico dove è possibile celebrare. Per lo più era la tomba di qualche martire a servire da altare. Fatto un po’ di cammino ci fu mostrata la cappella dove san Felice papa era solito riposarsi e celebrare l’Eucarestia. Il suo sepolcro è a poca distanza. Ovunque si vedevano scheletri umani ridotti in pezzi dal tempo. La nostra guida ci assicurò che di lì a poco saremmo arrivati a un luogo dove si conservavano lapidi con le iscrizioni intatte.

Ma eravamo molto stanchi, anche perché l’aria sotterranea, e le difficoltà del cammino – ognuno doveva badare a non sbattere il capo, non urtare con le spalle e non scivolare coi piedi – ci avevano affaticano non poco. La guida ci avvertiva che i sotterranei sono moltissimi e alcuni giungono fino alla lunghezza di quindici/venti miglia. Se fossimo andati da soli avremmo potuto cantare il requiescant in pace, perché sarebbe stato assai difficile ritrovare la strada per tornare all’aperto. La nostra guida però era molto pratica e in breve ci ricondusse al punto da dove eravamo partiti […]

San Pietro in Montorio
Saliti di nuovo in vettura col padre Giacinto ci avviammo giù dal Gianicolo per andare a S. Pietro in Montorio. La parola è una corruzione di “monte d’oro”, perché qui il terreno e la ghiaia assumono un colore giallo simile all’oro. Fu anche chiamato Castro Aureo, fortezza d’oro, per gli avanzi della rocca di Anco Marzio ancora esistenti sulla vetta. È una delle chiese fondate da Costantino il Grande, ricca di statue, dipinti e marmi. Tra la chiesa e il convento annesso si staglia un edificio chiamato Tempietto di Bramante di forma rotonda. Si tratta di uno dei più insigni lavori del Bramante. Esso venne edificato sul luogo dove fu martirizzato san Pietro. Sul retro una scaletta conduce in una cappella sotterranea circolare, in mezzo alla quale c’è un foro ove arde continuamente un lume. È il posto dove fu incastrata la cima della croce su cui san Pietro fu inchiodato a testa in giù. La chiesa è situata dove ha termine il Gianicolo e comincia il Vaticano.

Vicino a S. Pietro in Montorio è ubicata la magnifica Fontana Paolina, da Paolo V che l’ha fatta costruire nel 1612. L’acqua sgorga da tre colonne che sembrano un fiume. Arriva fin lì da Bramario, un luogo a 35 miglia da Roma. Queste acque, precipitando, servono a far girare macine da molino ed altre macchine e si diramano con gran vantaggio in vari punti della città […].

Una disavventura
L’11 marzo, siamo stati occupati a scrivere e fare commissioni. Merita un ricordo l’episodio dello smarrimento per Roma. Andai a fare una visita a monsignor Pacca, prelato domestico di Sua Santità. Al ritorno ero accompagnato da padre Bresciani avendo mandato Rua a cercare padre Botandi a Ponte Sisto. Il buon Bresciani mi condusse fino all’accademia della Sapienza quindi mi indicò dove passare per arrivare al Quirinale:
Attraversi questa contrada, poi si tenga sempre a destra. Io invece di prendere a destra presi a sinistra, sicché dopo un’ora di cammino mi sono ritrovato in Piazza del Popolo, distante quasi un miglio da casa. Povero me! Almeno avessi avuto Rua insieme, ci saremmo potuti consolare a vicenda, ma ero solo. Il tempo era nuvoloso, soffiava un vento gagliardo e cominciava a piovere. Che fare? Dormire in mezzo a quella piazza mi rincresceva, perciò con tutta pazienza salii sul Pincio, chiamato così dal palazzo di un signore detto Pincio […]. Questo monte non è molto abitato e non è uno dei sette colli di Roma […]

S. Andrea della Valle
Venerdì 12 sono andato a celebrare la messa a S. Andrea della Valle per distinguerlo da altre chiese consacrate al medesimo Apostolo. Valle gli fu aggiunto sia perché la basilica si trova nel punto più basso di Roma sia anche a causa di un palazzo appartenente alla famiglia Valle. Anticamente la chiesa era dedicata a san Sebastiano che aveva qui sofferto il martirio. Vicino ne fu costruita un’altra dedicata a san Luigi re di Francia. Ma l’anno 1591 un ricco signore di nome Gesualdo la fece ristrutturare rinnovandone interamente il disegno. Essa è una delle prime chiese di Roma. La sua cupola misura 64 palmi di diametro, e perciò dopo S. Pietro in Vaticano è la cupola più ampia di tutte le altre della città.
La prima cappella entrando a sinistra ha un cancello di ferro che indica il punto della cloaca in cui si crede sia stato gettato il corpo di san Sebastiano martire. Quasi in faccia a questa chiesa vi è il palazzo Stoppani che servì di abitazione all’imperatore Carlo V quando venne a Roma, come appare da un’iscrizione sul muro ai piedi della scala.

S. Gregorio Magno
Un’ora e mezza dopo mezzogiorno col signor Francesco De Maistre, nostra guida, siamo partiti per visitare la chiesa di S. Gregorio Magno. Essa è edificata sopra una parte del monte Celio detto anticamente clivus Scauri, cioè discesa di Scauro, ed era la casa abitata da san Gregorio e dai suoi. Fu proprio lui a convertirla in monastero, dove poi dimorò fino all’anno 590, all’inizio come semplice monaco, quindi come Abate. Quando fu eletto pontefice (nel 590) dedicò quell’edificio all’apostolo sant’Andrea, trasformando una parte dei locali ad uso di chiesa. Dopo la sua morte essa venne dedicata a lui medesimo.

È certamente una delle più belle chiese di Roma. La prima cappella entrando a sinistra è dedicata a santa Silvia, madre di san Gregorio. L’ultima a destra è quella del Sacramento, sul cui altare celebrava lo stesso san Gregorio. […]. Questo altare, venerabile per il titolo e il patrocinio del santo Papa, fu reso celebre in tutto il mondo dai privilegi concessi da molti pontefici. Capitò che un monaco del monastero avendo per comando del santo offerto la messa per trenta giorni continui in suffragio dell’anima di un suo fratello defunto, un altro monaco la vide liberata dalle pene del purgatorio.

Accanto a questa cappella ne esiste un’altra più piccola, dove san Gregorio si ritirava per riposarsi. Si fa vedere ancora con precisione il luogo dove era il suo letto. Lì accanto c’è la sedia di marmo sopra cui sedeva sia quando scriveva che quando annunziava la parola di Dio al popolo.
Passato l’altare maggiore s’incontra la cappella che custodisce un’immagine della Madonna molto antica e prodigiosa. Si crede che sia quella che il Santo teneva in casa e ogni volta che le passava davanti la salutasse dicendo “Ave, Maria”. Un giorno però il buon Pontefice per la fretta che aveva a causa di alcuni affari urgenti, uscendo non indirizzò alla Vergine il consueto saluto. Ed Ella gli fece questo dolce rimprovero: “Ave, Gregori”, con le quali parole lo invitava a non dimenticare quel saluto che a lei tornava tanto gradito.

In un’altra cappella troneggia la statua di san Gregorio, un lavoro progettato e diretto da Michelangelo Buonarroti. Il Santo è seduto sul trono con una colomba vicino all’orecchio, che ricorda quanto asserisce Pietro Diacono, famigliare del Santo, cioè che ogni qualvolta che Gregorio predicava o scriveva, sempre una colomba gli parlava all’orecchio. Al centro della cappella è collocata una grande tavola di marmo sopra la quale il Pontefice ogni giorno offriva da mangiare a dodici poveri servendoli di propria mano. Un giorno sedette a mensa con gli altri un angelo sotto forma di giovanetto, che poi ad un tratto disparve. Da allora il Santo aumentò a tredici il numero dei poveri da lui sfamati. Così ebbe origine l’usanza di porre tredici pellegrini alla tavola che nel giovedì santo il Papa ogni anno serve di sua mano. Sopra la tavola è inciso il distico seguente: “Qui Gregorio sfamava dodici poveri; un angelo sedette a mensa e compì il numero di tredici”.

Santi Giovanni e Paolo
Uscendo da questa chiesa e voltando a destra s’incontra quella dei Santi Giovanni e Paolo. L’imperatore Gioviano permise al monaco san Pammacchio di costruirla nel 400 in onore di questi due fratelli martiri. Essa fu edificata sopra la loro abitazione proprio dove subirono il martirio. Venne poi restaurata da san Simmaco Papa verso il 444 […] Entrando si presenta allo sguardo un maestoso edificio. Nel mezzo una cancellata di ferro delimita il luogo dove i santi furono uccisi. I loro corpi, chiusi in un’urna preziosa, riposano sotto l’altare maggiore. Nella cappella accanto, sotto l’altare, viene custodito il corpo del beato Paolo della Croce, fondatore dei passionisti, ai quali è affidata la chiesa. Questo servo di Dio è un piemontese, nato a Castellazzo nella diocesi di Alessandria. Morì nel 1775 all’età di 82 anni. I molti miracoli che a Roma e altrove accadono per sua intercessione, hanno fatto crescere la congregazione dei passionisti, così chiamati a motivo del quarto voto che essi fanno, cioè promuovere la venerazione verso la passione del Signore.

Uno di quei religiosi, un genovese, fra Andrea, dopo averci accompagnati a vedere le cose più importanti della chiesa ci portò in convento, un bell’edificio che ospita una ottantina di padri in gran parte piemontesi.
Questa, ci disse fra Andrea, è la camera in cui morì il nostro santo Fondatore. Ci siamo entrati ed abbiamo in devoto raccoglimento ammirato il luogo d’onde partì l’anima sua per volare al cielo.
Là c’è la sedia, gli abiti, i libri ed altri oggetti che servirono ad uso del Beato. Ogni cosa è posta sotto sigillo e si distribuiscono come reliquie ai fedeli cristiani. Quella camera oggi è una cappella dove si celebra la messa.

Archi di Costantino e Tito
Dato un saluto al cortese fra Andrea, ci siamo avviati verso S. Lorenzo in Lucina. Ma fatta un po’ di strada ci siamo ritrovati sotto all’Arco di Costantino. Esso si è conservato quasi integro. Un’iscrizione del senato e del popolo romano indica che fu dedicato all’imperatore Costantino in occasione della vittoria riportata sopra il tiranno Massenzio. Questo imperatore, divenuto cristiano, fece collocare sopra l’arco una statua con una croce in mano in memoria della croce apparsagli davanti all’esercito, per ricordare a tutto il mondo che egli professava la religione di Gesù crocifisso.
Fatto un altro tratto di strada ecco un altro arco, quello Arco di Tito. Esistono tre archi a Roma e quello di Tito è il più antico ed elegante. È arricchito da bassorilievi che commemorano le varie vittorie riportate da quel prode guerriero: tra essi è scolpito il candelabro del tempio di Gerusalemme in memoria della caduta di quella città e del suo tempio. Sotto quest’arco passava la celebre Via Sacra, una delle più antiche di Roma, così chiamata perché attraverso questa si portavano ogni mese le cose sacre sulla Rocca, e veniva percorsa dagli àuguri per recarsi a prendere i loro responsi.

Giunti a S. Lorenzo in Lucina non riuscimmo a entrare a motivo dei lavori che vi si eseguivano […] Questa chiesa è una delle più vaste parrocchie di Roma, e fu eretta da Sisto III col consenso dell’imperatore Valentiniano in onore di san Lorenzo martire. Per distinguerlo dalle altre chiese innalzate a questo levita, fu denominata in Lucina o dalla santa martire di tal nome, o forse dal luogo che così si chiamava. Annesso a questa chiesa verso il corso è il palazzo Ottobuoni, fabbricato verso l’anno 1300 sopra le rovine di un grande edificio antico chiamato Palazzo di Domiziano. Essendo ormai stanchi e avvicinandosi l’ora del pranzo siamo tornati a casa […].

Santa Maria degli Angeli
 […] Il 13 marzo la stazione quaresimale era a S. Maria degli Angeli, e noi ci siamo andati sia per guadagnare l’indulgenza plenaria, sia anche per pregare Dio a favore della nostra casa. Questa chiesa è distinta da un’altra del medesimo nome con l’aggiunta alle Terme di Diocleziano, perché è costruita sul luogo dove anticamente s’innalzavano le famose terme ossia i bagni dell’imperatore Diocleziano. Il sommo pontefice Pio IV diede incarico a Michelangelo Buonarroti che col vasto suo ingegno seppe trasformare in chiesa una parte di quei superbi edifici. In un salone delle terme esisteva già una chiesetta dedicata a san Cirillo martire. Questa fu rinchiusa nella nuova chiesa, che il Pontefice dedicò a santa Maria degli Angeli, per compiacere il duca e re di Sicilia devotissimo degli Angeli, che cooperò assai alla sua edificazione.

Nel giorno della stazione quaresimale la chiesa è ornata con speciale eleganza, e si espongono alla pubblica venerazione le reliquie più insigni. In una cappella accanto all’altare maggiore era posto il reliquiario con moltissime reliquie tra le quali abbiamo notato i corpi di san Prospero, san Fortunato, san Cirillo, inoltre la testa di san Giustino e di san Massimo martiri e di moltissimi altri. Appagata così la nostra devozione siamo giunti a casa verso le sei assai stanchi e con buon appetito.

Santa Maria della Quercia
Domenica 14 marzo abbiamo celebrato in casa, poi siamo andati a visitare un oratorio, secondo le indicazioni avute dal marchese Patrizi. La chiesa dove si radunano i giovani si chiama S. Maria della Quercia. Eccone l’origine, che risale ai tempi di Giulio II. Un’immagine di Maria era stata dipinta su una tegola da un certo Battista Calvaro, che la pose sopra una quercia entro una sua vigna a Viterbo. Questa immagine rimase nascosta sessant’anni, fino a quando nel 1467 cominciò a manifestarsi con tante grazie e miracoli che i fedeli che l’andavano a visitare, con le loro offerte innalzarono una chiesa e un monastero. Papa Giulio II desiderò che anche a Roma ci fosse un tempio dedicato a Maria della Quercia, che è quello di cui parliamo.
Entrati in chiesa, e arrivati nella spaziosa sacrestia, fummo rallegrati dalla vista di una quarantina di giovanetti. Per la vivacità del comportamento assomigliano molto ai birichini del nostro oratorio. Le loro sacre funzioni si compiono tutte al mattino. Messa, confessione, catechismo e una breve istruzione è quanto si fa per loro […]

Dopo mezzogiorno i giovani vanno a S. Giovanni dei Fiorentini, un altro oratorio dove c’è solo ricreazione senza funzioni di chiesa. Ci siamo andati ed abbiamo visto circa un centinaio di giovani che si divertivano a più non posso. I loro giuochi erano la tombola e la campana, conosciute anche da noi. Praticano pure il giuoco del buco che consiste in cinque buchi alquanto capaci entro cui si mettono due castagne o altra cosa. Da una distanza di sei passi si fa rotolare una boccia. Chi riesce a farla entrare in uno dei buchi guadagna quello che c’è dentro. Ci dispiacque molto che essi non avessero altro che la ricreazione. Se ci fosse qualche prete in mezzo a loro, costui potrebbe fare del bene alle loro anime, perché ce n’è grande bisogno. Tanto più ci rincrebbe in quanto abbiamo trovato in costoro buone disposizioni. Parecchi provavano piacere a dialogare con noi, baciando più volte la mano tanto a me che a Rua, il quale suo malgrado era costretto ad acconsentire […]

Tornati a casa ricevemmo la visita di monsignor Merode, maestro di camera di Sua Santità. Dopo alcuni convenevoli, costui mi annunciò che il Santo Padre mi invitava a predicare gli esercizi spirituali alle detenute nelle carceri presso S. Maria degli Angeli alle terme di Diocleziano. Ogni desiderio del Papa è per me un comando e quindi accettai con vero piacere […]

Al carcere femminile
Alle due pomeridiane mi recai dalla superiora del carcere per combinare il giorno e l’ora in cui iniziare la predicazione. Ella mi disse:
Se per lei va bene può cominciare subito, poiché le donne sono in chiesa e non c’è nessuno che predichi. Così ho cominciato subito e la settimana fu quasi interamente dedicata a questo ministero. La casa correzionale si chiama Alle Terme di Diocleziano perché è situata nel medesimo luogo dove erano le terme di quel famoso imperatore. Vi erano ospitate 260 detenute colpevoli di gravi delitti e condannate alla galera […]. Gli esercizi andarono con soddisfazione. La predicazione semplice e popolare che usiamo tra noi riuscì fruttuosa in questo carcere. Al sabato, dopo l’ultima predica, la madre superiora mi annunziò con gran piacere che nessuna delle condannate aveva omesso di accostarsi ai Sacramenti.

Due episodi
Un piacevole episodio accadde al Santo Padre in questa settimana. Il conte Spada, andò a fargli visita, e s’intavolò questa conversazione:
– Santità, io vorrei chiederle un ricordo di questa visita.
– Chiedete quel che volete e cercherò di accontentarvi.
– Vorrei qualcosa di straordinario.
– Bene, domandate pure.
– Santità, desidererei per ricordo la vostra tabacchiera.
– Ma è piena di un tabacco di qualità infima.
– Non importa; la terrò molto cara.
– Prendetela pure, ve ne faccio un dono con piacere
. Il conte Spada partì più contento di quella tabacchiera che di un gran tesoro. Essa è semplice, di corno di bufalo, unita con due anelli di ottone e non vale quattro soldi, ma è preziosissima per la provenienza. Il buon conte la mostra ai suoi amici come un oggetto degno di venerazione […]

Un altro aneddoto mi fu raccontato di questo venerando Pontefice. L’anno scorso mentre il Santo Padre viaggiava attraverso i suoi stati si trovò nelle vicinanze di Viterbo. Una ragazzina con un fascio di legna, vedendo che la vettura pontificia s’era fermata, pensò che quei signori volessero comperare la sua fascina. Corse verso di loro:
Signore, disse al Santo Padre, compratela, il legno è molto secco.
Non ne abbiamo bisogno, rispose il Papa.
– Comperatela ve la do per tre baiocchi.
Prendi i tre baiocchi e tieni pure la tua fascina. Il Santo Padre le diede tre scudi, quindi si apprestò a risalire in vettura. Ma la ragazzina voleva che il Santo Padre prendesse la sua fascina.
Prendetela, sarete contenti; nella vostra vettura c’è posto abbondante. Mentre il Papa e la sua corte ridevano di un tale affare, la madre della ragazza, che lavorava in un campo vicino, accorse gridando:
Santo Padre, Santo Padre, perdonate; questa povera ragazza è mia figlia. Essa non vi conosce. Abbiate pietà di noi che siamo in grande miseria. Il Papa aggiunse ancora sei scudi e continuò il cammino […]

San Paolo fuori le Mura
Il giorno 22 marzo domenica Don Bosco andò dal cardinale vicario, l’eminentissimo Costantino Patrizi […] Uscito dal Vicariato, peregrinò fino a S. Paolo fuori le Mura per venerare il sepolcro del grande Apostolo delle Genti e ammirare le meraviglie di quel tempio immenso. Dopo un miglio di strada, arrivò al celebre luogo denominato Ad Aquas Salvias, dove san Paolo diede il sangue per Gesù Cristo. Proprio in questo punto, in cui sono tre miracolose sorgenti d’acqua, sgorgate nelle zolle sulle quali fece tre balzi il capo troncato del santo Apostolo, è stata costruita una chiesa. Don Bosco pregò anche nella chiesa vicina di Sancta Maria Scala Coeli, di forma ottagonale, edificata sul cimitero di san Zenone, un tribuno che subì il martirio sotto Diocleziano, assieme a 10.203 suoi commilitoni […]

Il Colosseo
Il 23 marzo il suo sguardo sbalordito contemplò le gigantesche rovine dell’anfiteatro Flavio o Colosseo, di forma ovale con 527 metri di circonferenza esterna, e alto ancora in alcuni tratti cinquanta metri. Nei tempi del suo splendore era coperto di marmi, ornato di colonnati, di centinaia di statue, di obelischi, di quadrighe di bronzo; e nell’interno sosteneva tutto all’intorno immense gradinate, che potevano contenere circa 200.000 persone, per assistere ai combattimenti delle bestie feroci e dei gladiatori, e alle stragi di migliaia e migliaia di martiri. Don Bosco entrò nell’arena degli spettacoli che misura 241 metri di circonferenza […]

San Clemente
Il 24 Don Bosco si recò alla basilica di S. Clemente per venerare le reliquie del quarto papa dopo san Pietro, e quelle di sant’Ignazio martire, vescovo di Antiochia; come anche per ammirare l’architettura dell’antichissima chiesa a tre navate. In quella di mezzo, davanti all’altare della Confessione, un recinto di marmo bianco delimita il coro per il clero minore. È dotato di due pulpiti, uno per il canto del vangelo, presso il quale si alza la colonnina del cero pasquale, e l’altro per la lettura dell’epistola. A fianco di quest’ultimo era posto il leggio per i cantori e lettori delle profezie e degli altri libri delle scritture; intorno all’abside le sedi dei sacerdoti, e, in fondo al centro su tre gradini, la cattedra episcopale […].

Da qui Don Bosco procedette verso la chiesa dei Quattro Coronati, per visitare i sepolcri dei martiri Severo, Severino, Carpoforo e Vittorino, uccisi sotto Diocleziano. Passò poi a S. Giovanni davanti alla Porta Latina, presso la quale sorge una cappella sul luogo dove san Giovanni Evangelista fu immerso nella caldaia d’olio bollente; da lì s’inoltrò fino alla chiesina del Quo Vadis, così chiamata perché in quel punto il Signore apparve a san Pietro che usciva da Roma per sottrarsi alla persecuzione:
Signore, dove vai? gridò l’Apostolo stupito. E Gesù gli rispose:
Vengo per essere crocifisso un’altra volta. San Pietro comprese, e ritornò a Roma dove lo aspettava il martirio. Da questo tempietto Don Bosco rifece la strada, dopo aver dato uno sguardo alla via Appia, lungo la quale si contano moltissimi mausolei dei tempi del paganesimo, che ricordano la fine di ogni grandezza umana.

Don Bosco… salesiano!
Una scena graziosa accadde la mattina del 25 marzo. Don Bosco, passato il Tevere, vide in una piccola piazza una trentina di ragazzi che si divertivano. Senz’altro si portò in mezzo a loro, che, sospesi i giochi, lo guardavano meravigliati. Egli alzò allora la mano tenendo fra le dita una medaglia, poi esclamò:
Siete troppi e mi rincresce di non aver tante medaglie per regalarne una a ciascuno di voi. Quelli, fattosi coraggio, protendendo le mani gridavano a gran voce:
Non importa, non importa… a me, a me! Don Bosco soggiunse:
– Ebbene, non avendone per tutti, questa medaglia voglio regalarla al più buono. Chi è di voi il più buono?
– Sono io, sono io! schiamazzarono tutti insieme
. Egli continuò:
– Come posso fare io, se siete tutti ugualmente buoni? Allora la darò al più discolo! Chi fra di voi è il più discolo?
– Sono io, sono io!
risposero con grida assordanti.
Il marchese Patrizi e i suoi amici, ad una certa distanza, sorridevano commossi e stupiti nel vedere Don Bosco trattare così famigliarmente con quei ragazzi, che per la prima volta aveva incontrati; ed esclamavano:
– Ecco un altro san Filippo Neri, amico della gioventù. Don Bosco infatti, come se fosse stato un amico già conosciuto da quei fanciulli, continuò ad interrogarli, se avessero già ascoltata la Messa, in quale chiesa solessero andare, se frequentassero gli oratori che erano in quelle parti […] Il dialogo era animato. Don Bosco, dopo averli esortati ad essere sempre buoni cristiani, promise che sarebbe passato altra volta per quella piazza e avrebbe regalato una medaglia ciascuno; poi, salutatili affettuosamente, tornò dai suoi accompagnatori mostrando la medaglia. Non aveva dato nulla ai ragazzi, eppure li aveva lasciati contenti.

Santo Stefano Rotondo
Il 26 marzo Don Bosco ritornò al Celio nella spaziosa chiesa di S. Stefano Rotondo, chiamata così per la sua forma. Il cornicione circolare è sostenuto da 56 colonne. Tutt’intorno alle pareti sono dipinte le scene degli atroci supplizi coi quali furono straziati i martiri. È ornata da mosaici del secolo VII, che rappresentano Gesù crocifisso, con alcuni santi, e conserva i corpi di due confessori della fede: san Primo e san Feliciano. Da lì D. Bosco passò a S. Maria in Dominica, o della Navicella, per una barca di marmo che sta sulla piazza antistante. Ha tre navate spartite da 18 colonne e contiene mosaici del secolo IX. Fra questi la Vergine è al posto d’onore fra molti angeli e ai suoi piedi è inginocchiato papa Pasquale […]

Intanto il Santo Padre aveva espresso il desiderio che Don Bosco assistesse in Vaticano al devoto e magnifico spettacolo delle funzioni della Settimana Santa. Quindi aveva dato incarico a monsignor Borromeo di invitarlo a nome suo, e di procurargli un posto dal quale potesse assistere comodamente ai sacri riti. Il monsignore lo fece ricercare tutto il giorno senza esito. Finalmente, a ora tardissima, il messo lo trovò a casa De Maistre dov’era tornato dopo una giornata di visite. Dicendo che veniva per ordine del Papa, fu introdotto e presentò a Don Bosco la lettera d’invito, con la quale era ammesso a ricevere la palma benedetta dalle mani stesse del Papa. Don Bosco la lesse subito ed esclamò che sarebbe andato con gran piacere.

Pasqua Romana di don Bosco. La Domenica delle Palme
Domenica 28 marzo, col chierico Rua, entrò nella basilica di San Pietro molto prima che incominciassero le funzioni. Il conte Carlo De Maistre lo accompagnò al suo posto, nella tribuna dei diplomatici. Egli era attentissimo poiché conosceva l’importanza delle cerimonie della Chiesa. Al suo fianco stava un milord inglese protestante, meravigliato di tanta solennità. A un certo punto un cantore della cappella Sistina eseguì un assolo così bene che Don Bosco ne restò commosso fino alle lacrime e quel milord volgendosi a lui esclamò in latino, perché in altra lingua non sapeva come farsi intendere:
Post hoc paradisus! Quel signore dopo qualche tempo si convertì al cattolicesimo non solo, ma divenne prete e vescovo. Benedette le palme, a turno il corpo diplomatico sfilò davanti al Pontefice, e ogni ambasciatore e ministro ricevette la palma dalle sue mani. Anche Don Bosco e il chierico Rua s’inginocchiarono ai piedi del Papa e ricevettero la palma. Così volle Pio IX: non era forse Don Bosco ambasciatore di Dio? Il chierico Rua, ritornato presso i Rosminiani, regalò la sua al padre Pagani, che la gradì molto […]

Don Bosco caudatario
Il cardinale Marini, uno dei due assistenti al trono, perché Don Bosco potesse assistere a tutte le funzioni della settimana santa, lo prese come caudatario. Così egli in veste violacea stette quasi a fianco del Papa per tutto il tempo, e poté gustare i canti gregoriani e le musiche dell’Allegri e del Palestrina.
Il giovedì santo pontificò il cardinale Mario Mattei, essendo il più anziano dei vescovi suburbicari, invece del cardinale decano che era impedito. D. Bosco seguì il Pontefice che processionalmente portava il SS. Sacramento nella cappella Paolina per riporlo dentro l’urna appositamente preparata; lo accompagnò fin sulla loggia vaticana dalla quale il Papa benedice Roma e il mondo; assistette alla lavanda dei piedi fatta dal Pontefice a tredici sacerdoti, e partecipò alla loro cena commemorativa, servita dallo stesso Vicario di Gesù Cristo.

La benedizione Urbi et Orbi
[…] Il 4 aprile le salve d’artiglieria di Castel S. Angelo annunciavano il giorno di Pasqua. Pio IX scese in basilica verso le dieci per il pontificale. Subito dopo, preceduto dal corteo di vescovi e cardinali, si recò alla Loggia per la benedizione Urbi et Orbi. Don Bosco col cardinale Marini ed un vescovo restò per un istante vicino al davanzale ricoperto da un magnifico drappo, sul quale erano stati deposti tre Triregni d’oro. Il cardinale disse a Don Bosco:
Osservate quale spettacolo! Don Bosco girava sulla piazza gli occhi attoniti. Una folla di 200.000 persone stava accalcata colla faccia rivolta alla Loggia. I tetti, le finestre, i terrazzi di tutte le case erano occupati. L’esercito francese riempiva una parte dello spazio compreso tra l’obelisco e la scalinata di San Pietro. I battaglioni della fanteria pontificia stavano schierati a destra e a sinistra. Indietro, la cavalleria e l’artiglieria. Migliaia di carrozze erano ferme alle due ali della piazza, vicino ai portici del Bernini, e nel fondo presso le case. Specialmente su quelle a nolo stavano in piedi gruppi di persone che parevano dominare la piazza. Era un vociare clamoroso, un calpestio di cavalli, una confusione incredibile. Nessuno può farsi un’idea di tale spettacolo.

Intrappolato
Don Bosco, che aveva lasciato il Papa in basilica mentre era in venerazione delle reliquie insigni, credeva che avrebbe tardato a comparire. Assorto nel contemplare tanta gente di ogni nazione, non s’accorse del sopraggiungere della sedia gestatoria su cui sedeva il Papa. Si venne a trovare in una posizione difficile; stretto fra la sedia e la balaustra, poteva muoversi appena; tutto intorno stavano pigiati cardinali, vescovi, cerimonieri e sediari, sicché non scorgeva alcun varco per uscirne. Rivolgere il viso al Papa era sconvenienza; voltargli le spalle inciviltà; rimanere nel centro del balcone una ridicolaggine. Non potendo far di meglio, si volse di fianco; allora la punta di un piede del Papa arrivò a posarsi sulla sua spalla.

In quel mentre un silenzio solenne regnava sulla grande piazza tanto che si sarebbe potuto udire il ronzio di una mosca. Gli stessi cavalli stavano immobili. Don Bosco, per nulla turbato, attento ad ogni minimo particolare, osservò che un solo nitrito, e il suono di un orologio che batteva le ore, si fece udire mentre il Papa recitava le preghiere di rito. Egli intanto, visto che il pavimento della Loggia era sparso di fronde e fiori, si curvò, e raccogliendo alcuni fiori li mise tra le pagine del libro che aveva in mano. Finalmente Pio IX si alzò in piedi per benedire: aperse le braccia, sollevò al cielo le mani, le stese sulla moltitudine che curvò la fronte, e la sua voce nel cantare la formula della benedizione, sonora, potente, solenne si udiva al di là di piazza Rusticucci e dalla soffitta del palazzo degli scrittori della Civiltà Cattolica.

La folla rispose con una immensa ovazione. Allora il cardinale Ugolini lesse in latino il Breve dell’indulgenza plenaria e subito dopo il cardinale Marini lo ripeté in lingua italiana. Don Bosco si era inginocchiato, e quando si rialzò il corteo papale era ormai scomparso. Tutte le campane suonavano a festa, tuonava il cannone da Castel Sant’Angelo, le musiche militari facevano risuonare le loro trombe. Il cardinale Marini, accompagnato dal caudatario, discese e andò verso la sua carrozza. Appena questa si mosse, Don Bosco si sentì preso dal male prodotto da quel moto che gli rivoltava lo stomaco; non potendo più resistere, manifestò al cardinale quel suo incomodo. Per suo consiglio salì in cassetta col cocchiere, ma il malessere non diminuì, allora scese per camminare a piedi. Essendo in veste violacea, sarebbe stato oggetto di meraviglia o di scherno, se avesse attraversato Roma così; perciò il segretario gentilmente scese dalla carrozza e lo accompagnò a palazzo […].

Il ricordo del Papa
Don Bosco il 6 aprile ritornò a un’udienza particolare di Pio IX col chierico Rua e il teologo Murialdo, ammesso in Vaticano per interposizione dello stesso Don Bosco. Entrarono nell’anticamera alle nove di sera, e subito Don Bosco venne introdotto. Il Papa appena lo ebbe innanzi gli disse con viso serio:
– Abate Bosco, dove vi siete andato a ficcare il giorno di Pasqua durante la benedizione papale? Lì, davanti al Papa, e tenendo la spalla sotto il suo piede come se il Pontefice avesse bisogno di essere sostenuto da Don Bosco.
– Santo Padre
, rispose tranquillo ed umile, sono stato colto di sorpresa e chiedo perdono se l’ho in qualche modo offesa!
– E aggiungete ancora l’affronto di chiedermi se mi avete offeso? Don Bosco guardò il Papa e gli parve che fingesse: un sorriso accennava a comparirgli sulle labbra. Ma che cosa vi è saltato in testa di raccogliere fiori in quel momento? C’è voluta tutta la serietà di Pio IX per non scoppiare dalle risa. […]
Ora, Beatissimo Padre, supplicò Don Bosco, abbiate la bontà di suggerirmi una massima che io possa ripetere ai miei giovani, come ricordo del Vicario di Cristo.
– La presenza di Dio! rispose il Papa. Dite ai vostri giovani che si regolino sempre con questo pensiero!… E voi non avete nulla da domandarmi? Certamente desiderate qualche cosa anche voi.
– Santo Padre, Vostra Santità si è degnata di concedermi quanto ho domandato, ora non mi resta che ringraziarla dal più intimo del cuore.
– Eppure, eppure, voi desiderate ancora qualche cosa.
Al che Don Bosco stava là come sospeso senza proferire parola. Il Pontefice soggiunse:
– Ma come? Non desiderate di fare stare allegri i vostri giovani, quando sarete ritornato tra loro?
– Santità, questo sì.
– Allora aspettate.
Pochi istanti prima erano entrati in quella stanza il teologo Murialdo, il chierico Rua e don Cerutti di Varazze, cancelliere nella Curia Arcivescovile di Genova. Essi rimasero stupiti della famigliarità con la quale il Papa trattava Don Bosco e di ciò che videro in quel momento. Il Papa aveva aperto lo scrigno, ne aveva tirato fuori una manciata di monete d’oro e senza contarle le aveva porte a Don Bosco dicendo:
– Prendete e date poi una buona merenda ai vostri ragazzi. Ognuno può immaginare l’impressione che fece su Don Bosco quest’atto di bontà di Pio IX, il quale con grande amorevolezza si rivolgeva anche agli ecclesiastici sopravvenuti, benediceva le corone, i crocifissi ed altri oggetti di devozione che gli presentavano, e dava a tutti una medaglia ricordo.

La sfida educativa di don Bosco
Fra i cardinali che passò ad ossequiare vi fu l’Eminentissimo Tosti, per invito del quale aveva parlato ai giovani dell’Ospizio San Michele. Costui, soddisfatto della cortesia di Don Bosco, essendo l’ora della sua passeggiata, volle averlo per compagno, così tutti e due salirono in carrozza. Si incominciò a parlare del sistema più adatto all’educazione dei giovani. Don Bosco si era andato persuadendo che gli alunni di quell’ospizio non avevano famigliarità coi superiori, anzi li temevano: cosa poco piacevole, poiché gli educatori erano sacerdoti. Perciò diceva:
– Vede, Eminenza, è impossibile educare bene i giovani se questi non hanno confidenza nei superiori.
– Ma come, replicava il cardinale, si può guadagnare questa confidenza?
– Facendo in modo che essi si avvicinino a noi, togliendo ogni causa che li allontani.
– E come si può fare per avvicinarli a noi?
– Avvicinandoci noi ad essi, cercando di adattarci ai loro gusti, facendoci simili a loro. Vuole che facciamo una prova? Mi dica: in qual punto di Roma si può trovare un bel numero di ragazzi?
– In Piazza Termini e in Piazza del Popolo, rispose il cardinale.
– Ebbene, andiamo in Piazza del Popolo.

Il cardinale passò l’ordine al carrozziere. Appena arrivati, Don Bosco scese di carrozza, e il prelato rimase ad osservarlo. Visto un crocchio di giovanetti che giocavano, si avvicinò, ma i birichini fuggirono. Allora li chiamò con le buone maniere e quelli dopo qualche esitazione si avvicinarono. Don Bosco regalò qualche cosuccia, domandò notizie delle loro famiglie, chiese che gioco stavano facendo e li invitò a continuare, fermandosi prima a guardarli, poi cominciando a prendervi parte. Allora anche altri che stavano osservando da lontano accorsero numerosissimi dai quattro angoli della piazza intorno al prete, che tutti accoglieva amorevolmente ed aveva per tutti una buona parola e un regaluccio. Chiedeva se fossero buoni, se dicessero le orazioni, se andassero a confessarsi. Quando volle allontanarsi, lo seguirono per un buon tratto, lasciandolo solo quando egli risalì in carrozza. Il cardinale era meravigliato.
– Ha visto?
– Avevate ragione!
esclamò il cardinale […]

Le ultime visite
Le ultime visite di D. Bosco furono riservate alla Confessione di San Pietro ed alle Catacombe. Dopo aver pregato nella basilica di S. Sebastiano, viste due delle frecce che ferirono il santo tribuno e la colonna a cui fu legato, scese nelle gallerie sotterranee che custodirono le ossa di migliaia e migliaia di martiri, e dove san Filippo Neri tante notti vegliò in preghiera. Passò poi alle vicine Catacombe di san Callisto. Qui lo attendeva il cavaliere G. B. De Rossi, che le aveva scoperte, al quale lo aveva presentato monsignor di San Marzano.
Chi entra in quei luoghi prova una tale commozione, che gli resta per tutta la vita. Don Bosco era assorto in santi pensieri nel percorrere quei sotterranei, ove i primi cristiani, attraverso la messa, le preghiere in comune, il canto dei salmi e delle profezie, la comunione eucaristica, l’ascolto dei vescovi e dei papi, avevano trovato la forza necessaria per affrontare il martirio. È impossibile contemplare ad occhi asciutti quei loculi che avevano rinchiuso i corpi insanguinati o bruciati di tanti eroi della fede, le tombe di ben quattordici papi che avevano data la vita per testimoniare ciò che insegnavano, e la cripta di santa Cecilia.

Don Bosco osservava gli antichissimi affreschi che ritraevano Gesù Cristo e l’Eucarestia; e le immagini che rappresentavano lo sposalizio di Maria SS. con san Giuseppe, l’Assunzione di Maria in cielo, la Madre di Dio col bambino in braccio o sulle ginocchia. Era incantato dal sentimento di modestia che splendeva in queste immagini, nelle quali l’arte cristiana primitiva aveva saputo riprodurre la bellezza incomparabile dell’anima e dell’ideale altissimo della perfezione morale che si deve attribuire alla Vergine. Non mancavano altre figure di santi e di martiri. Don Bosco uscì dalle catacombe alle 6 della sera. Vi era entrato alle 8 del mattino […]

Verso casa
Don Bosco il 14 aprile partì da Roma col chierico Rua, lieto che fossero state gettate le basi della Società di San Francesco di Sales […] Prese dunque una carrozza a nolo, fece una breve fermata nel paese di Palo dove trovò l’albergatore perfettamente libero dalle febbri: la sua guarigione era stata istantanea. Questi non dimenticherà più l’accaduto, e verso il 1875 o 76, capitato a Genova per ragioni di commercio, volle continuare il suo viaggio fino a Torino. Chiesto e saputo per telegrafo che Don Bosco era all’Oratorio, ci andò; ma egli in quel giorno era a pranzo dal signor Occelletti Carlo. Allora si recò là a trovarlo, facendogli feste senza fine. Il signor Occelletti ricordò sempre con grande piacere il racconto da lui udito di quella guarigione. Arrivato a Civitavecchia e fatta una visita al delegato pontificio, Don Bosco andò al porto per imbarcarsi.

Le onde questa volta furono calme e bello il tempo, sicché egli poté scendere a Livorno, intrattenersi con qualche amico e visitare alcune chiese. Ripreso il mare sul far della sera, don Rua ricorda come la nave giungesse nel porto di Genova al sorgere di una splendida aurora che illuminava il magnifico panorama della superba città. Don Bosco, appena messo piede in terra, si recò al collegio degli Artigianelli, dove lo aspettava don Montebruno e il signor Giuseppe Canale. Dopo mezzogiorno salì in treno. Nell’attraversare la città aveva provato una gradita sorpresa: quando le campane suonarono l’Angelus, molte persone per le vie e le piazze si scoprivano il capo, e gli stessi facchini si erano alzati dalle loro panche per recitare la preghiera. Più volte egli raccontò questo per edificazione dei suoi alunni. Giunse a Torino il 16 di aprile, accolto dai giovani con tanta festa ed affetto, che nessun padre potrebbe augurarsene di più dai propri figli.




Devozione di don Bosco al Sacro Cuore di Gesù

La devozione al Sacro Cuore di Gesù, cara a don Bosco, nasce dalle rivelazioni a Santa Margherita Maria Alacoque nel monastero di Paray-le-Monial: Cristo, mostrando il suo Cuore trafitto e coronato di spine, chiese una festa riparatrice il venerdì dopo l’Ottava del Corpus Domini. Nonostante opposizioni, il culto si diffuse perché quel Cuore, sede dell’amore divino, ricorda la carità manifestata sulla croce e nell’Eucaristia. Don Bosco invita i giovani a onorarlo costantemente, soprattutto nel mese di giugno, recitando la Corona e compiendo atti di riparazione che ottengono copiose indulgenze e le dodici promesse di pace, misericordia e santità.

            La devozione al Sacratissimo Cuore di Gesù, che ogni dì più va crescendo, ascoltate, o cari giovani, come ebbe origine. Viveva in Francia nel monastero della Visitazione di Paray le Monial un’umile verginella per nome Margherita Alacoque, cara a Dio per la sua grande purezza. Un dì mentre ella se ne stava avanti al SS. Sacramento per adorarvi il benedetto Gesù, vide il Celeste suo Sposo nell’atto di scoprirsi il petto, e mostrarle il Sacratissimo suo Cuore, raggiante di fiamme, cinto di spine, trapassato da una ferita, sormontato da una croce. Nello stesso tempo lo udì lagnarsi della mostruosa ingratitudine degli uomini, e ordinarle di adoperarsi, affinché nel venerdì dopo l’Ottava del Corpus Domini fosse reso un culto speciale al Divin suo Cuore in riparazione delle offese, che Ei riceve nella SS. Eucaristia. La pia verginella piena di confusione espose a Gesù quanto fosse inetta a sì grande impresa, ma fu dal Signore confortata a proseguire nella sua opera, e la festa del Sacro Cuore di Gesù fu stabilita non ostante le vive opposizioni dei suoi avversari.
            I motivi poi di questo culto sono molteplici: 1° Perché G. Cristo ci offerse il suo S. Cuore come la sede delle sue affezioni: 2° Perché ci è simbolo di quella immensa carità, che Egli dimostrò specialmente col permettere che il SS. suo Cuore fosse ferito da una lancia: 3° Perché da questo Cuore siano mossi i fedeli a meditare i dolori di Gesù Cristo e a professargli riconoscenza.
            Onoriamo adunque costantemente questo Divin Cuore, il quale pei molti e grandi benefizi, che già ci ha fatto e ci farà, ben merita tutta la nostra più umile ed amorosa venerazione.

Mese di giugno
            Chi consacra l’intero mese di giugno ad onore del Sacro Cuore di Gesù con qualche quotidiana preghiera o devoto ossequio, acquista 7 anni d’Indulg. per ciascun giorno e Plenaria alla fine del mese.

Corona al Sacro Cuore di Gesù
            Intendete di recitar questa Corona al Divin Cuore di Gesù Cristo per risarcirlo degli oltraggi, che riceve nella SS. Eucaristia dagli infedeli, dagli eretici e dai cattivi Cristiani. Si dica adunque o da solo o con altre persone raccolte, se si può dinanzi all’Immagine del Divin Cuore o avanti al Santissimo Sacramento:
            V. Deus, in adjutorium meum intende (O Dio vieni a salvarmi).
            R. Domine ad adjuvandum me festina (Signore, vieni presto in mio aiuto).
            Gloria Patri, etc.

            1. O Cuore amabilissimo del mio Gesù, adoro umilmente quella dolcissima amabilità vostra, che in singolar modo usate nel Divin Sacramento colle anime ancor peccatrici. Mi dispiace di vedervi così ingratamente corrisposto, ed intendo risarcirvi di tante offese che ricevete nella SS. Eucaristia dagli eretici, dagl’infedeli e dai cattivi Cristiani.
            Pater, Ave e Gloria.

            2. O Cuore umilissimo del mio Sacramentato Gesù, adoro quella profondissima umiltà vostra nella Divina Eucaristia, nascondendovi per nostro amore sotto le specie del pane e del vino. Deh! vi prego, Gesù mio, ad insinuare nel mio cuore così bella virtù; io intanto procurerò di risarcirvi di tante offese che ricevete nel SS. Sacramento dagli eretici, dagl’infedeli e dai cattivi Cristiani.
            Pater, Ave e Gloria.

            3. O Cuore del mio Gesù, desiderosissimo di patire, adoro quei desideri così accesi d’incontrare la vostra Passione dolorosissima e di assoggettarvi a quei torti da Voi preveduti nel SS. Sacramento. Ah Gesù mio! intendo ben di cuore di risarcirvene colla mia vita stessa; vorrei impedire quelle offese, che pur troppo ricevete nella SS. Eucaristia dagli eretici, dagl’infedeli e dai cattivi Cristiani.
            Pater, Ave e Gloria.

            4. O Cuore pazientissimo del mio Gesù, io venero umilmente quell’invincibile pazienza vostra nel sostenere per amor mio tante pene sulla Croce, e tanti strapazzi nella Divina Eucaristia. Oh mio caro Gesù! Poiché non posso lavar col Sangue mio quei luoghi dove foste così maltrattato nell’uno e nell’altro Mistero, vi prometto, o mio Sommo Bene, di usare ogni mezzo per risarcire il vostro Divin Cuore di tanti oltraggi, che ricevete nella SS. Eucaristia dagli eretici, dagl’infedeli e dai cattivi Cristiani.
            Pater, Ave e Gloria.

            5. O Cuore del mio Gesù, amantissima delle anime nostre nell’istituzione ammirabile della SS. Eucaristia, io adoro umilmente quell’amore immenso, che ci portate donandoci per nutrimento il vostro Divin Corpo e Divin Sangue. Qual è quel cuore che struggere non si debba alla vista di così immensa carità? Oh mio buon Gesù! datemi abbondanti lacrime per piangere e risarcire tante offese, che ricevete nel SS. Sacramento dagli eretici, dagl’infedeli e dai cattivi Cristiani.
            Pater, Ave e Gloria.

            6. O Cuore del mio Gesù sitibondo della salute nostra, io venero umilmente quell’amore ardentissimo che vi spinse ad operare il Sacrificio ineffabile della Croce, rinnovandolo ogni giorno sugli Altari nella Santa Messa. Possibile che a tanto amore non arda il cuore umano pieno di gratitudine? Sì, pur troppo, o mio Dio; ma per l’avvenire vi prometto di fare quanto posso per risarcirvi di tanti oltraggi, che ricevete in questo Mistero d’amore dagli eretici, dagl’infedeli e dai cattivi Cristiani.
            Pater, Ave e Gloria.

            Chi reciterà anche solo i suddetti 6 Pater, Ave e Gloria davanti al SS. Sacramento, di cui l’ultimo Pater, Ave e Gloria sia detto secondo l’intenzione del Sommo Pontefice, acquista 300 giorni d’Indulgenza per ogni volta.

Promesse fatte da Gesù Cristo
alla beata Margherita Alacoque pei devoti del suo Divin Cuore
            Io darò loro tutte le grazie necessarie nel loro stato.
            Io farò regnare la pace nelle loro famiglie.
            Io li consolerò in tutte le loro afflizioni.
            Io sarò il loro sicuro rifugio in vita, ma specialmente in punto di morte.
            Ricolmerò di benedizioni ogni loro impresa.
            I peccatori troveranno nel mio Cuore la sorgente e l’oceano infinito della misericordia.
            Le anime tiepide diverranno fervorose.
            Le anime ferventi saliranno rapidamente ad una grande perfezione.
            Io benedirò alla stessa casa dove l’Immagine del mio Sacro Cuore sarà esposta ed onorata.
            Io darò ai Sacerdoti il dono di commuovere i cuori più induriti.
            Il nome delle persone che propagheranno questa Divozione sarà scritto nel mio Cuore, e non ne sarà mai più cancellato.

Atto di riparazione contro le bestemmie.
            Dio sia benedetto.
            Benedetto il suo Santo Nome.
            Benedetto Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo.
            Benedetto il Nome di Gesù.
            Benedetto Gesù nel Santissimo Sacramento dell’Altare.
            Benedetto il suo Amabilissimo Cuore.
            Benedetta la gran Madre di Dio Maria Santissima.
            Benedetto il Nome di Maria, Vergine e Madre.
            Benedetta la sua Santa ed Immacolata Concezione.
            Benedetto Dio nei suoi Angeli e nei suoi Santi.

            È concessa Indulgenza di un anno per ogni volta: e Plenaria a, chi lo recita per un mese, in quel giorno che farà la Santa Confessione e Comunione.

Offerta al SS. Cuore di Gesù avanti la sua s. Immagine
            Io NN. per esservi grato, e per riparare alle mie infedeltà vi dono il cuore, e interamente mi consacro a Voi, amabile mio Gesù, e col vostro aiuto propongo di non più peccare.

            Il Pontefice Pio VII concesse cento giorni d’Indulgenza una volta al giorno, recitandola con cuore contrito, e Plenaria una volta al mese, a chi la reciterà tutti i giorni.

Orazione al Sacratissimo Cuore di Maria
            Dio vi salvi, Augustissima Regina di pace, Madre di Dio; pel Sacratissimo Cuore del vostro Figlio Gesù, Principe della pace, fata che l’ira di Lui si plachi, e che regni sopra di noi in pace. Ricordatevi, o Piissima Vergine Maria, che non si è mai udito al mondo, che da Voi sia stato rigettato, od abbandonato alcuno, il quale implori i vostri favori. Io animato da questa fiducia mi presento a Voi: non vogliate, o Madre del Verbo Eterno, disprezzare le mie preghiere, ma uditele favorevolmente, ed esauditele, o Clemente, o Pia, o Dolce Vergine Maria.

            Pio IX accordò l’Indulgenza di 300 giorni ogni volta che si reciterà devotamente detta orazione, e Plenaria una volta al mese a chi l’avrà recitata ogni giorno.

O Gesù d’amor acceso,
            Non t’avessi mai offeso;
            O mio dolce e buon Gesù,
            Non ti voglio offender più.

Sacro Cuore di Maria,
            Fa, ch’io salvi l’alma mia.
            Sacro Cuor del mio Gesù,
            Fa, ch’io t’ami sempre più.

            A voi dono il mio cuore,
Madre del mio Gesù – Madre d’amore.

(Fonte: “Il Giovane Provveduto per la pratica de’ suoi doveri negli esercizi di cristiana pietà per la recita dell’Uffizio della b. Vergine dei vespri di tutto l’anno e dell’uffizio dei morti coll’aggiunta di una scelta di laudi sacre, pel sac. Giovanni Bosco, 101a edizione, Torino, 1885, Tipografia e Libreria Salesiana, S. Benigno Canavese – S. Per d’Arena – Lucca – Nizza Marittima – Marsiglia – Montevideo – Buenos-Aires”, pp. 119-124 [Opere Edite, pp. 247-253])

Foto: Statua del Sacro Cuore in bronzo dorato sul campanile della Basilica del Sacro Cuore a Roma, dono degli ex-allievi Salesiani dell’Argentina. Eretta nel 1931, è un lavoro eseguito a Milano da Riccardo Politi su progetto dello scultore Enrico Cattaneo di Torino.




Don Bosco assiste a un conciliabolo di demoni (1884)

Le pagine che seguono ci conducono nel cuore dell’esperienza mistica di San Giovanni Bosco, attraverso due vividi sogni avuti fra settembre e dicembre 1884. Nel primo, il Santo attraversa la pianura verso Castelnuovo con un misterioso personaggio e riflette sulla scarsità di preti, ammonendo che soltanto lavoro indefesso, umiltà e moralità possono far fiorire autentiche vocazioni. Nel secondo ciclo onirico, Bosco assiste a un concilio infernale: mostruosi demoni complottano di annientare la nascente Congregazione Salesiana, diffondendo gola, brama di ricchezze, libertà senza obbedienza e orgoglio intellettuale. Tra presagi di morte, minacce interne e segni di Provvidenza, questi sogni diventano uno specchio drammatico delle lotte spirituali che attendono ogni educatore e la Chiesa intera, offrendo insieme avvertimenti severi e speranze luminose.

            Ricchi di ammaestramenti sono due sogni fatti in settembre e in dicembre.

            Il primo, avuto nella notte dal 29 al 30 settembre, è una lezione per i preti. Gli parve di andare verso Castelnuovo attraverso una pianura; gli camminava a fianco un venerando sacerdote, del quale disse di non ricordare più il nome. Cadde il discorso sui preti. – Lavoro, lavoro, lavoro! dicevano. Ecco quale dovrebbe essere l’obiettivo e la gloria dei preti. Non stancarsi mai di lavorare, Così, quante anime si salverebbero! Quante cose vi sarebbero da fare per la gloria di Dio! Oh se il missionario facesse davvero il missionario, se il parroco facesse davvero il parroco, quanti prodigi di santità splenderebbero da ogni parte! Ma purtroppo molti hanno paura di lavorare e preferiscono le proprie comodità…
            Ragionando a questo modo fra loro, giunsero ad un luogo detto Filippelli. Allora Don Bosco prese a lamentare l’odierna scarsità di preti.
            – É vero, rincalzò l’altro, i preti scarseggiano; ma se tutti i preti facessero il prete, ve ne sarebbero abbastanza, Quanti preti invece vi sono che non fan nulla per il ministero! Gli unì non fanno altro che il prete di famiglia, altri per timidità se ne stanno oziosi, mentre se si mettessero nel ministero, se prendessero l’esame di confessione, riempirebbero un gran vuoto nelle file della Chiesa… Iddio le vocazioni le proporziona alla necessità. Quando venne la leva dei chierici, tutti erano spaventati, come se nessuno più si dovesse far prete; ma, quando le fantasie si calmarono, si vede che le vocazioni invece di scemare andavano crescendo.
            – E adesso, interrogò Don Bosco, che cosa bisogna fare per promuovere le vocazioni in mezzo ai giovanetti?
            – Nient’altro, rispose il compagno di viaggio, che coltivare gelosamente fra essi la moralità. La moralità è il semenzaio delle vocazioni.
            – E che cosa debbono fare specialmente i preti per ottenere che la loro vocazione rechi frutto?
            – Presbyter discat domum suam regere et sanctificare. (il sacerdote deve imparare a governare e santificare la sua casa). Ognuno sia esempio di santità nella propria famiglia e nella propria parrocchia. Non disordini di gola, non ingolfarsi nelle cure temporali… Sia anzitutto modello in casa e poi sarà il primo fuori.
            A un certo punto del cammino quel sacerdote chiese a Don Bosco ove andasse; Don Bosco indicò Castelnuovo. Egli allora, lasciatolo proseguire, rimase con un gruppo di persone che lo precedevano. Fatti pochi passi, Don Bosco si svegliò. In questo sogno possiamo vedere una rimembranza delle antiche passeggiate attraverso quei luoghi.

Predice la morte di salesiani
            Il secondo sogno si riferisce alla Congregazione e mette in guardia contro pericoli che potrebbero minacciarne l’esistenza. Veramente, più che un sogno, è un argomento che si svolge in una successione di sogni.
            Nella notte del io dicembre il chierico Viglietti fu svegliato di soprassalto da strazianti grida, che partivano dalla camera di Don Bosco. Balzò subito di letto e stette ad ascoltare. Don Bosco, con voce soffocata dal singhiozzo gridava:
            – Ohimè! ohimè! aiuto! aiuto!
            Viglietti senza più entrò e:
            – Oh Don Bosco, disse, si sente male?
            – Oh Viglietti! rispose svegliandosi. No, non sto male; ma non poteva proprio più respirare, sai. Ma basta: ritorna tranquillo a letto e dormi.
            Al mattino, quando Viglietti secondo il solito gli portò dopo la Messa il caffè:
            – Oh Viglietti! prese a dire, non ne posso proprio più, ho lo stomaco tutto rotto dalle grida di questa notte. Sono quattro notti consecutive che faccio sogni, i quali mi costringono a gridare e mi stancano all’eccesso. Quattro notti fa io vedeva una lunga schiera di Salesiani che andavano tutti uno dietro all’altro, portando ciascuno un’asta, in cima alla quale stava un cartello e sul cartello un numero stampato. Si leggeva in uno 73, in un altro 30, in un terzo 62 e così via. Dopo che furono passati molti, in cielo apparve la luna, nella quale di mano in mano che compariva un Salesiano, si vedeva una cifra non mai maggiore di 12, e dietro venivano tanti punti neri. Tutti i Salesiani da me visti andarono a sedersi ciascuno sopra una tomba preparata.
            Ed ecco la spiegazione datagli di quello spettacolo. Il numero che stava sui cartelli era il numero degli anni di vita destinato a ciascuno; l’apparire della luna in varie forme e fasi, indicava il mese ultimo di vita; i punti neri erano i giorni del mese, in cui sarebbero morti. Più e più ne vedeva talvolta riuniti in gruppi: erano quelli che dovevano morire insieme, in un medesimo giorno. Se avesse voluto narrare minutamente tutte le cose e le circostanze accessorie, assicurò che avrebbe impiegato almeno una decina di giorni interi.

Assiste a un conciliabolo di demoni
            Tre notti fa, continuò, sognai di nuovo. Ti racconterò in breve. Mi parve di essere in una gran sala, dove diavoli in gran numero tenevano congresso e trattavano del modo di sterminare la Congregazione Salesiana. Sembravano leoni, tigri, serpenti e altre bestie; ma la loro figura era come indeterminata e si avvicinava piuttosto alla figura umana. Parevano ombre, che ora si abbassavano e ora si alzavano, si accorciavano, si stendevano, come farebbero molti corpi che dietro avessero un lume trasportato or da una parte or dall’altra, ora abbassato al suolo e ora sollevato. Ma quella fantasmagoria metteva spavento.
            Or ecco uno dei demoni avanzarsi e aprire la seduta. Per distruggere la Pia Società propose un mezzo: la gola. Fece vedere le conseguenze di questo vizio: inerzia per il bene, corruzione dei costumi, scandalo, nessuno spirito di sacrificio, nessuna cura dei giovani… Ma un altro diavolo gli rispose:
            – Il tuo mezzo non è generale ed efficace, né si possono assalire con esso tutti i membri insieme, perché la mensa dei religiosi sarà sempre parca e il vino misurato: la regola fissa il loro vitto ordinario: i Superiori invigilano per impedire che succedano disordini. Chi eccedesse talvolta nel mangiare e nel bere, invece di scandalizzare, farebbe piuttosto ribrezzo. No, non è questa l’arma per combattere i Salesiani; procurerò io un altro mezzo, che sarà più efficace e ci farà ottenere meglio il nostro intento: l’amore alle ricchezze. In una Congregazione religiosa, quando c’entra l’amore alle ricchezze, c’entra insieme l’amore alle comodità, si cerca ogni via per avere un peculio, si rompe il vincolo della carità, pensando ognuno a sé stesso, si trascurano i poveri per occuparsi solo di quelli che hanno fortuna, si ruba alla Congregazione…
            Colui voleva continuare, ma sorse un terzo demonio.
            – Ma che gola! esclamò. Ma che ricchezze! Fra i Salesiani l’amore delle ricchezze può vincere pochi. Sono tutti poveri i Salesiani; hanno poche occasioni di procurarsi un peculio. In generale poi essi sono così costituiti e sono così immensi i loro bisogni per i tanti giovani e per le tante case, che qualunque somma anche grossa verrebbe consumata. Non è possibile che tesoreggino. Ma ho un mezzo io, infallibile, per guadagnare a noi la Società Salesiana, e questo è la libertà. Indurre quindi i Salesiani a sprezzare le Regole, a rifiutare certi uffizi come pesanti e poco onorifici, spingerli a fare scismi dai loro Superiori con opinioni diverse, ad andare a casa col pretesto d’inviti e simili.
            Mentre i demoni parlamentavano, Don Bosco pensava: – Io sto bene attento, sapete, a quello che andate dicendo. Parlate, parlate pure, che così potrò sventare le vostre trame.
            Intanto saltava su un quarto demonio e:
            – Ma che! gridò. Armi spezzate le vostre! I Superiori sapranno frenare questa libertà, scacceranno via dalle case chi osasse dimostrarsi ribelle alle Regole. Qualcheduno forse sarà trascinato dall’amore di libertà, ma la gran maggioranza si manterrà nel dovere. Io, ho un mezzo adattato per guastar tutto fin dalle fondamenta; un mezzo tale che a stento i Salesiani se ne potranno guardare: sarà proprio un guasto in radice. Ascoltatemi con attenzione. Persuaderli che l’essere dotto è quello che deve formare la loro gloria principale. Quindi indurli a studiare molto per sé, per acquistare fama, e non per praticare quello che imparano, non per usufruire della scienza a vantaggio del prossimo. Perciò boria nelle maniere verso gl’ignoranti e i poveri, poltroneria nel sacro ministero. Non più oratorii festivi, non più catechismi ai fanciulli, non più scuolette basse per istruii e i poveri ragazzi abbandonati, non più le lunghe ore di confessionale. Terranno solo la predicazione, ma rara e misurata e questa sterile, perché fatta a sfogo di superbia col fine di avere le lodi degli uomini e non di salvare anime.
            La proposta di costui fu accolta con applausi generali. Allora Don Bosco intravide il giorno in cui i Salesiani potrebbero darsi a credere che il bene della Congregazione e il suo onore dovesse unicamente consistere nel sapere, e paventò che non solo così praticassero, ma anche predicassero a gran voce doversi così praticare.
            Anche stavolta Don Bosco se ne stava in un angolo della sala ad ascoltare e a vedere tutto, quando uno dei demoni lo scoperse e gridando lo indicò agli altri. A quel grido, tutti si avventarono contro di lui urlando:
            – La faremo finita! Era una ridda infernale di spettri, che lo urtavano, lo afferravano per le braccia e per la persona, ed egli a gridare: Lasciatemi! Aiuto! – Finalmente si svegliò con lo stomaco tutto sconquassato dal molto gridare.

Leoni, tigri e mostri vestiti da agnelli
            La notte seguente s’avvide che il demonio aveva assalito i Salesiani nel punto più essenziale, spingendoli alla trasgressione delle Regole. Fra essi gli si parava innanzi, distintamente chi le osservava e chi non le osservava.
            Nella notte ultima poi il sogno era stato spaventevole. Don Bosco vedeva un grosso gregge di agnelli e di pecore che raffiguravano altrettanti Salesiani. Egli si avvicinò cercando di accarezzare gli agnelli; ma s’accorse che la loro lana invece di essere lana d’agnelli, faceva solo da copertura, nascondendo leoni, tigri, cani arrabbiati, porci, pantere, orsi, e ognuno aveva ai fianchi un mostro brutto e feroce. In mezzo al gregge stavano alcuni radunati a consiglio. Don Bosco inosservato si avvicinò ad essi per udire che cosa dicessero: concertavano il modo di distruggere la Congregazione Salesiana. Uno diceva:
            – Bisogna scannarli i Salesiani.
            E un altro sghignazzando soggiungeva:
            – Bisogna strangolarli.
            Ma sul più bello tino di loro vide Don Bosco là vicino che ascoltava. Diede l’allarme e tutti a una voce gridarono che bisognava cominciare da Don Bosco. Ciò detto, gli si avventarono contro come per strozzarlo. In quel punto egli mandò il grido che svegliò Viglietti. Un’altra cosa oltre le violenze diaboliche opprimeva allora il suo spirito: aveva veduto su quel gregge spiegarsi una grande insegna, che portava scritto: BESTIIS COMPARATI SUNT (sono paragonati alle bestie). Raccontato questo, chinò il capo e piangeva.
            Viglietti gli prese la mano e stringendosela al cuore:
            – Ah! Don Bosco, gli disse, noi però con l’aiuto di Dio le saremo sempre fedeli e buoni figliuoli, non è vero?
            – Caro Viglietti, rispose, sta’ buono e preparati a vedere gli avvenimenti. Questi sogni io te li ho appena accennati; che se ti dovessi narrare particolareggiatamente ogni cosa, ne avrei per molto tempo ancora. Quante cose vidi! Ci sono alcuni nelle nostre case che non arriveranno più a far la novena del Santo Natale. Oh se potessi parlare ai giovani, se mi reggessero le forze per intrattenermi con essi, se potessi girare per le case, fare quello che facevo una volta, rivelare a ciascuno lo stato della sua coscienza, come l’ho visto nel sogno e dire a certi tali: Rompi il ghiaccio, fa’ una volta una buona confessione! Essi mi risponderebbero: Ma io mi sono confessato bene! Invece io potrei replicare, dicendo loro quello che hanno taciuto le in modo che non oserebbero più aprir bocca. Anche certi Salesiani, se potessi far giungere loro una mia parola, vedrebbero il bisogno che hanno di aggiustare le proprie partite rifacendo le confessioni. Vidi chi osservava le Regole e chi no. Vidi molti giovani che andranno a S. Benigno, si faranno Salesiani e poi defezioneranno. Defezioneranno anche certuni che ora sono già Salesiani. Vi saranno di quelli che vorranno soprattutto la scienza che gonfia, che procaccia foro le lodi degli uomini e che li rende sprezzanti dei consigli di chi essi credono da meno di loro per sapere…
            A questi affliggenti pensieri s’intrecciavano provvidenziali consolazioni, che gli rallegravano il cuore. La sera del 3 dicembre giungeva all’Oratorio il Vescovo di Para, cioè del paese centrale nel sogno sulle Missioni. E giorno dopo diceva a Viglietti:
            – Come è grande la Provvidenza! Senti, e poi di’ se non siamo protetti da Dio. Don Albera mi scriveva di non poter più andare avanti e abbisognargli subito mille franchi; nel giorno stesso una signora di Marsiglia, che sospirava di rivedere tiri suo fratello religioso a Parigi, contenta d’aver ottenuta la grazia dalla Madonna, portò mille franchi a Don Albera. Don Ronchail versa in gravi strettezze ed ha assolutamente bisogno di quattromila franchi; una signora scrive oggi stesso a Don Bosco che mette a sua disposizione quattromila franchi. Don Dalmazzo non sa più ove dare del capo per aver danaro; oggi una signora dona per la chiesa del Sacro Cuore una somma considerevolissima. – E poi il 7 dicembre vi fu la gioia per la consacrazione di monsignor Cagliero. Tutti questi fatti erano tanto più incoraggianti, perché segni visibili della mano di Dio nell’Opera del suo Servo.
(MB XVII 383-389)




Don Bosco e il Sacro Cuore. Custodire, riparare, amare

Nel 1886, alle soglie della consacrazione della nuova Basilica del Sacro Cuore al centro di Roma, il “Bollettino Salesiano” volle preparare i suoi lettori – cooperatori, benefattori, giovani, famiglie – a un incontro vitale con «il Cuore trafitto che continua ad amare». Per un anno intero, la rivista fece scorrere davanti agli occhi del mondo salesiano un vero “rosario” di meditazioni: ciascun numero legava un aspetto della devozione a un’urgenza pastorale, educativa o sociale che don Bosco – già stremato ma lucidissimo – considerava strategica per il futuro della Chiesa e della società italiana. A quasi centoquarant’anni di distanza quella serie resta un piccolo trattato di spiritualità del cuore, scritto con toni semplici ma pieni d’ardore, capace di coniugare contemplazione e prassi. Presentiamo qui, una lettura unitaria di quel percorso mensile, mostrando come l’intuizione salesiana sappia ancora parlare all’oggi.

Febbraio – La guardia d’onore: vegliare sull’Amore ferito
Il nuovo anno liturgico si apre, nel Bollettino, con un invito sorprendente: non solo adorare Gesù presente nel tabernacolo, ma “fargli la guardia” – un turno di un’ora scelta liberamente in cui ogni cristiano, senza interrompere le attività quotidiane, si fa sentinella amorosa che consola il Cuore trafitto dalle indifferenze del carnevale. L’idea, nata a Paray-le-Monial e fiorita in molte diocesi, diventa programma educativo: trasformare il tempo in spazio di riparazione, insegnare ai giovani che la fedeltà nasce da piccoli atti costanti, fare della giornata una liturgia diffusa. Il voto collegato – destinare il ricavato del Manuale della Guardia d’Onore alla costruzione della Basilica romana – rivela la logica salesiana: contemplazione che subito si traduce in mattoni, perché la preghiera vera edifica (letteralmente) la casa di Dio.

Marzo – Carità creativa: il timbro salesiano
Nella grande conferenza dell’8 maggio 1884, il cardinale Parocchi sintetizzò la missione salesiana in una parola: “carità”. Il Bollettino riprende quel discorso per ricordare che la Chiesa conquista il mondo più con gesti d’amore che con dispute teoriche. Don Bosco non fonda scuole d’elite ma ospizi popolari; non toglie i ragazzi dall’ambiente solo per proteggerli, bensì per restituirli alla società come cittadini solidi. È la carità “secondo le esigenze del secolo”: risposta al materialismo non con polemiche, bensì con opere che mostrano la forza del Vangelo. Da qui l’urgenza di un grande santuario dedicato al Cuore di Gesù: far svettare nel cuore di Roma un segno visibile di quell’amore che educa e trasforma.

Aprile – Eucaristia: “capolavoro del Cuore di Gesù”
Nulla, per don Bosco, è più urgente che riportare i cristiani alla Comunione frequente. Il Bollettino ricorda che «non v’è cattolicismo senza Madonna e senza Eucaristia». La mensa eucaristica è “genesi della società cristiana”: da lì nascono fraternità, giustizia, purezza. Se la fede languisce, bisogna riaccendere il desiderio del Pane vivo. Non a caso san Francesco di Sales consegnò alle Visitandine la missione di custodire il Cuore eucaristico: la devozione al Sacro Cuore non è sentimento astratto, ma strada concreta che conduce al tabernacolo e da lì si riversa nelle strade. Ed è ancora il cantiere romano a fare da verifica: ogni lira offerta per la basilica diventa “mattone spirituale” che consacra l’Italia al Cuore che si dona.

Maggio – Il Cuore di Gesù risplende nel Cuore di Maria
Il mese mariano porta il Bollettino a intrecciare le due grandi devozioni: tra i due Cuori esiste una comunione profonda, simboleggiata dall’immagine biblica dello “specchio”. Il Cuore immacolato di Maria riflette la luce del Cuore divino, rendendola sopportabile agli occhi umani: chi non osa fissare il Sole guarda il suo chiarore riflesso nella Madre. Culto di latria per il Cuore di Gesù, di “iperdulia” per quello di Maria: distinzione che evita gli equivoci dei polemisti giansenisti di ieri e di oggi. Il Bollettino smonta le accuse di idolatria e invita i fedeli a un amore equilibrato, dove contemplazione e missione si alimentano a vicenda: Maria introduce al Figlio e il Figlio conduce alla Madre. In vista della consacrazione del nuovo tempio, si chiede di unire le due invocazioni che campeggiano sulle colline di Roma e Torino: Sacro Cuore di Gesù e Maria Ausiliatrice.

Giugno – Consolazioni soprannaturali: l’amore operante nella storia
Duecento anni dopo la prima consacrazione pubblica al Sacro Cuore (Paray-le-Monial, 1686), il Bollettino afferma che la devozione risponde alla malattia del tempo: «raffreddamento della carità per sovrabbondanza d’iniquità». Il Cuore di Gesù – Creatore, Redentore, Glorificatore – viene presentato come centro di tutta la storia: dalla creazione alla Chiesa, dall’Eucaristia all’escatologia. Chi adora quel Cuore entra in un dinamismo che trasforma la cultura e la politica. Per questo il Papa Leone XIII ha chiesto a tutti di concorrere al santuario romano: monumento di riparazione ma anche “argine” contro la «fiumana immonda» dell’errore moderno. È un appello che suona attuale: senza carità ardente, la società si sfilaccia.

Luglio – Umiltà: la fisionomia di Cristo e del cristiano
La meditazione estiva sceglie la virtù più trascurata: l’umiltà, «gemma trapiantata dalla mano di Dio nel giardino della Chiesa». Don Bosco, figlio spirituale di san Francesco di Sales, sa che l’umiltà è la porta delle altre virtù e il sigillo di ogni vero apostolato: chi serve i giovani senza cercare visibilità rende presente «il nascondimento di Gesù per trent’anni». Il Bollettino smaschera la superbia mascherata da falsa modestia e invita a coltivare una doppia umiltà: dell’intelletto, che si apre al mistero, e della volontà, che obbedisce alla verità riconosciuta. La devozione al Sacro Cuore non è sentimentalismo: è scuola di pensiero umile e di azione concreta, capace di costruire pace sociale perché toglie dal cuore il veleno dell’orgoglio.

Agosto – Mansuetudine: la forza che disarma
Dopo l’umiltà, la mansuetudine: virtù che non è debolezza ma dominio di sé, «il leone che genera miele», dice il testo rimandando all’enigma di Sansone. Il Cuore di Gesù appare mite nell’accogliere i peccatori, fermo nel difendere il tempio. I lettori sono invitati a imitare quel duplice movimento: dolcezza verso le persone, fermezza contro l’errore. San Francesco di Sales torna modello: con un tono pacato riversò fiumi di carità nella turbolenta Ginevra, convertendo più cuori di quanti ne avrebbero vinti le polemiche aspre. In un secolo che «pecca di essere senza cuore», edificare il santuario del Sacro Cuore significa erigere una palestra di mansuetudine sociale – una risposta evangelica al disprezzo e alla violenza verbale che già allora avvelenavano il dibattito pubblico.

Settembre – Povertà e questione sociale: il Cuore che riconcilia ricchi e poveri
Il rombo del conflitto sociale, avverte il Bollettino, minaccia di «scagliare in rottami l’edificio civile». Siamo in piena “questione operaia”: i socialisti agitano le masse, i capitali si concentrano. Don Bosco non nega la legittimità della ricchezza onesta, ma ricorda che la vera rivoluzione comincia dal cuore: il Cuore di Gesù proclamò beati i poveri e vissuta in prima persona la povertà. Il rimedio passa per una solidarietà evangelica alimentata dalla preghiera e dalla generosità. Finché il tempio romano non sarà terminato – scrive il giornale – il segno visibile della riconciliazione mancherà. Nei decenni seguenti la dottrina sociale della Chiesa svilupperà queste intuizioni; ma il germe è già qui: la carità non è elemosina, è giustizia che nasce da un cuore trasformato.

Ottobre – Fanciullezza: sacramento della speranza
«Guai a chi scandalizza uno di questi piccoli»: sulle labbra di Gesù, l’invito diventa ammonimento. Il Bollettino ricorda gli orrori del mondo pagano contro i bambini e mostra come il Cristianesimo abbia cambiato la storia affidando ai piccoli un posto centrale. Per don Bosco, l’educazione è atto religioso: nella scuola e nell’oratorio si custodisce il tesoro della Chiesa futura. La benedizione di Gesù ai bimbi, riprodotta sulle prime pagine del giornale, è manifestazione del Cuore che «si stringe come un padre» e annuncia la vocazione salesiana: fare della gioventù un “sacramento” che rende presente Dio nella città. Scuole, collegi, laboratori non sono un optional: sono il modo concreto di onorare il Cuore di Gesù vivo nei ragazzi.

Novembre – Trionfi della Chiesa: umiltà che vince la morte
La liturgia ricorda i santi e i defunti; il Bollettino medita sul “trionfo mite” di Gesù che entra a Gerusalemme. L’immagine diventa chiave di lettura della storia ecclesiale: successi e persecuzioni si alternano, ma la Chiesa, come il Maestro, risorge sempre. I lettori sono invitati a non lasciarsi paralizzare dal pessimismo: le ombre del momento (leggi anticlericali, riduzione degli ordini, propaganda massonica) non cancellano il dinamismo del Vangelo. Il tempio del Sacro Cuore, sorto fra ostilità e povertà, sarà il segno tangibile che «la pietra con i suggelli viene ribaltata». Collaborare alla sua costruzione significa scommettere sul futuro di Dio.

Dicembre – Beatitudine del dolore: la Croce accolta dal cuore
L’anno si chiude con la più paradossale delle beatitudini: «Beati quelli che piangono». Il dolore, scandalo per la ragione pagana, diventa nel Cuore di Gesù via di redenzione e di fecondità. Il Bollettino vede in questa logica la chiave per leggere la crisi contemporanea: società fondate sul divertimento a tutti i costi producono ingiustizia e disperazione. Accettato in unione con Cristo, invece, il dolore trasforma i cuori, rende forte il carattere, stimola la solidarietà, libera dalla paura. Anche le pietre del santuario sono “lacrime trasformate in speranza”: offerte piccole, a volte frutto di sacrifici nascosti, che costruiranno un luogo da cui pioveranno, promette il giornale, «torrenti di caste delizie».

Un lascito profetico
Nel montare mensile del Bollettino Salesiano 1886 colpisce la pedagogia del crescendo: si parte dalla piccola ora di guardia e si approda alla consacrazione del dolore; dal singolo fedele al cantiere nazionale; dal tabernacolo turrito dell’oratorio ai bastioni dell’Esquilino. È un itinerario che intreccia tre assi portanti:
Contemplazione – Il Cuore di Gesù è prima di tutto mistero da adorare: veglia, Eucaristia, riparazione.
Formazione – Ogni virtù (umiltà, mansuetudine, povertà) viene proposta come medicina sociale, in grado di guarire le ferite collettive.
Costruzione – La spiritualità diventa architettura: la basilica non è ornamento, ma laboratorio di cittadinanza cristiana.
Senza forzare, possiamo riconoscere qui la pre-annunciazione di temi che la Chiesa svilupperà lungo il XX secolo: l’apostolato dei laici, la dottrina sociale, la centralità dell’Eucaristia nella missione, la tutela dei minori, la pastorale della sofferenza. Don Bosco e i suoi collaboratori colgono i segni dei tempi e rispondono con la lingua del cuore.

Il 14 maggio 1887, quando Leone XIII consacrò la Basilica del Sacro Cuore, tramite il suo vicario Cardinale Lucido Maria Parocchi, don Bosco – troppo debole per salire l’altare – assistette nascosto tra i fedeli. In quel momento, tutte le parole del Bollettino 1886 divennero pietra viva: la guardia d’onore, la carità educativa, l’Eucaristia centro del mondo, la tenerezza di Maria, la povertà riconciliatrice, la beatitudine del dolore. Oggi quelle pagine chiedono nuovo fiato: tocca a noi, consacrati o laici, giovani o anziani, continuare la veglia, erigere cantieri di speranza, imparare la geografia del cuore. Il programma resta lo stesso, semplice e audace: custodire, riparare, amare.

Nella foto: Dipinto del Sacro Cuore, collocato sull’altare maggiore della Basilica del Sacro Cuore di Roma. L’opera fu voluta da Don Bosco e affidata al pittore Francesco de Rohden (Roma, 15 febbraio 1817 – 28 dicembre 1903).




Don Bosco e le processioni eucaristiche

Un aspetto poco conosciuto ma importante del carisma di san Giovanni Bosco sono le processioni eucaristiche. Per il santo dei giovani, l’Eucaristia non era solo devozione personale, ma strumento pedagogico e testimonianza pubblica. In una Torino in trasformazione, don Bosco vide nelle processioni un’occasione per rafforzare la fede dei ragazzi e annunciare Cristo nelle strade. L’esperienza salesiana, proseguita in tutto il mondo, mostra come la fede possa incarnarsi nella cultura e rispondere alle sfide sociali. Ancora oggi, vissute con autenticità e apertura, queste processioni possono diventare segni profetici di fede.

Quando si parla di san Giovanni Bosco (1815-1888) si pensa immediatamente ai suoi oratori popolari, alla passione educativa per i giovani e alla famiglia salesiana nata dal suo carisma. Meno noto, ma non per questo meno decisivo, è il ruolo che la devozione eucaristica — e in particolare le processioni eucaristiche — ebbe nella sua opera. Per Don Bosco l’Eucaristia non era soltanto il cuore della vita interiore; costituiva anche un potente strumento pedagogico e un segno pubblico di rinnovamento sociale in una Torino in rapida trasformazione industriale. Ripercorrere il legame fra il santo dei giovani e le processioni con il Santissimo significa entrare in un laboratorio di pastorale in cui liturgia, catechesi, educazione civica e promozione umana si intrecciano in modo originale e, a tratti, sorprendente.

Le processioni eucaristiche nel contesto del XIX secolo
Per comprendere Don Bosco occorre ricordare che l’Ottocento italiano visse un intenso dibattito sul ruolo pubblico della religione. Dopo l’epoca napoleonica e il moto risorgimentale, le manifestazioni religiose nelle vie cittadine non erano più scontate: in molte regioni si andava delineando uno stato liberale che guardava con sospetto qualsiasi espressione pubblica del cattolicesimo, temendo raduni di massa o rigurgiti “reazionari”. Le processioni eucaristiche, tuttavia, mantenevano una forza simbolica potentissima: ricordavano la signoria di Cristo su tutta la realtà e, allo stesso tempo, facevano emergere una Chiesa popolare, visibile e incarnata nei rioni. Contro questo sfondo si staglia l’ostinazione di Don Bosco, che non rinunciò mai ad accompagnare i suoi ragazzi nel testimoniare la fede fuori dalle mura dell’oratorio, fossero i viali di Valdocco o le campagne circostanti.

Fin dagli anni di formazione al seminario di Chieri, Giovanni Bosco maturò una sensibilità eucaristica di sapore “missionario”. Le cronache raccontano che spesso si fermava in cappella, dopo le lezioni, a lungo in preghiera davanti al tabernacolo. Nelle “Memorie dell’Oratorio” egli stesso riconosce di aver imparato dal suo direttore spirituale, don Cafasso, il valore di “farsi pane” per gli altri: contemplare Gesù che si dona nell’Ostia significava, per lui, apprendere la logica dell’amore gratuito. Questa linea attraversa l’intera sua vicenda: “Tenetevi amici Gesù sacramentato e Maria Ausiliatrice” ripeterà ai giovani, indicando la comunione frequente e l’adorazione silenziosa come pilastri di un cammino di santità laicale e quotidiana.

L’oratorio di Valdocco e le prime processioni interne
Nei primi anni Quaranta dell’Ottocento, l’oratorio torinese non possedeva ancora una chiesa vera e propria. Le celebrazioni avvenivano in baracche di legno o in cortili adattati. Don Bosco, tuttavia, non rinunciò a organizzare piccole processioni interne, quasi “prove generali” di quella che sarebbe diventata una pratica stabile. I ragazzi portavano ceri e stendardi, cantavano lodi mariane e, al termine, si fermavano attorno ad un improvvisato altare per la benedizione eucaristica. Questi primi tentativi avevano una funzione eminentemente pedagogica: abituare i giovani a una partecipazione devota ma gioiosa, unendo disciplina e spontaneità. Nella Torino operaia, dove spesso la miseria sfociava in violenza, sfilare ordinati con il fazzoletto rosso al collo era già un segnale controcorrente: mostrava che la fede poteva educare al rispetto di sé e degli altri.

Don Bosco sapeva bene che una processione non si improvvisa: occorrono segni, canti, gesti che parlino al cuore ancor prima che alla mente. Per questo curava personalmente la spiegazione dei simboli. Il baldacchino diventava l’immagine della tenda del convegno, segno della presenza divina che accompagna il popolo in cammino. I fiori sparsi lungo il percorso ricordavano la bellezza delle virtù cristiane che devono adornare l’anima. I lampioni, indispensabili nelle uscite serali, alludevano alla luce della fede che rischiara le tenebre del peccato. Ogni elemento era oggetto di una piccola “predica” conviviale in refettorio o nella ricreazione, così che la preparazione logistica si intrecciasse alla catechesi sistematica. Il risultato? Per i ragazzi la processione non era un dovere rituale ma un’occasione di festa carica di significato.

Uno degli aspetti più caratteristici delle processioni salesiane era la presenza della banda formata dagli stessi allievi. Don Bosco considerava la musica un antidoto contro l’ozio e, al contempo, un potente strumento di evangelizzazione: “Un’allegra marcia eseguita bene — scriveva — attira la gente come la calamita il ferro”. La banda precedeva il Santissimo, alternando brani sacri ad arie popolari adattate con testi religiosi. Questo “dialogo” tra fede e cultura popolare riduceva le distanze con i passanti e creava attorno alla processione un’aura di festa condivisa. Non pochi cronisti laici testimonieranno di essere stati “intrigati” da quel drappello di giovanissimi suonatori disciplinati, così diverso dalle bande militari o filarmoniche dell’epoca.

Processioni come risposta alle crisi sociali
La Torino dell’Ottocento conobbe epidemie di colera (1854 e 1865), scioperi, carestie e tensioni anticlericali. Don Bosco reagì spesso proponendo processioni straordinarie di riparazione o di supplica. Durante il colera del ’54 portò i giovani per le vie più colpite, recitando ad alta voce le litanie per gli infermi e distribuendo pane e medicine. In quel frangente nacque la promessa — poi mantenuta — di costruire la chiesa di Maria Ausiliatrice: “Se la Madonna salva i miei ragazzi, le innalzerò un tempio”. Le autorità civili, inizialmente contrarie a cortei religiosi per timore di contagio, dovettero riconoscere l’efficacia della rete di assistenza salesiana, alimentata spiritualmente proprio dalle processioni. L’Eucaristia, portata fra i malati, diventava così segno tangibile della compassione cristiana.

Contrariamente a certi modelli devozionali chiusi entro le sacrestie, le processioni di Don Bosco rivendicavano un diritto di cittadinanza della fede nello spazio pubblico. Non si trattava di “occupare” le strade, ma di restituirle alla loro vocazione comunitaria. Passare sotto i balconi, attraversare piazze e portici voleva dire ricordare che la città non è solo luogo di scambio economico o di scontro politico, bensì di incontro fraterno. Per questo Don Bosco insisteva su un ordine impeccabile: mantelli spazzolati, scarpe pulite, file regolari. Voleva che l’immagine della processione comunicasse bellezza e dignità, persuadendo anche gli osservatori più scettici che la proposta cristiana elevava la persona.

L’eredità salesiana delle processioni
Dopo la morte di Don Bosco, i suoi figli spirituali diffusero la prassi delle processioni eucaristiche in tutto il mondo: dalle scuole agricole dell’Emilia alle missioni della Patagonia, dai collegi asiatici ai quartieri operai di Bruxelles. Ciò che contava non era duplicare pedissequamente un rito piemontese, ma trasmettere il nucleo pedagogico: protagonismo giovanile, catechesi simbolica, apertura alla società circostante. Così, in America Latina, i salesiani inserirono danze tradizionali all’inizio del corteo; in India adottarono tappeti di fiori secondo l’arte locale; in Africa subsahariana alternarono canti gregoriani a ritmi polifonici tribali. L’Eucaristia diventava ponte fra culture, realizzando il sogno di Don Bosco di “fare di tutti i popoli un’unica famiglia”.

Sotto il profilo teologico, le processioni di Don Bosco incarnano una forte visione della presenza reale di Cristo. Portare il Santissimo “fuori” significa proclamare che il Verbo non si è fatto carne per restare rinchiuso, ma per “piantare la sua tenda in mezzo a noi” (cfr. Gv 1,14). Tale presenza chiede di essere annunciata in forme comprensibili, senza ridursi a gesto intimista. In Don Bosco la dinamica centripeta dell’adorazione (raccogliere i cuori attorno all’Ostia) genera una dinamica centrifuga: i giovani, nutriti all’altare, si sentono inviati a servire. Dalla processione scaturiscono micro-impegni: assistere un compagno ammalato, pacificare un litigio, studiare con maggiore diligenza. L’Eucaristia si prolunga nelle “processioni invisibili” della carità quotidiana.

Oggi, in contesti secolarizzati o multireligiosi, le processioni eucaristiche possono sollevare interrogativi: sono ancora comunicative? Non rischiano di apparire folclore nostalgico? L’esperienza di Don Bosco suggerisce che la chiave sta nella qualità relazionale più che nella quantità di incenso o di paramenti. Una processione che coinvolge famiglie, spiega i simboli, integra linguaggi artistici contemporanei, e soprattutto si collega a gesti concreti di solidarietà, mantiene una sorprendente forza profetica. Il recente Sinodo sui giovani (2018) ha richiamato più volte l’importanza di “uscire” e di “mostrare la fede con la carne”. La tradizione salesiana, con la sua liturgia itinerante, offre un paradigma già collaudato di “Chiesa in uscita”.

Le processioni eucaristiche non erano per Don Bosco semplici tradizioni liturgiche, ma veri e propri atti educativi, spirituali e sociali. Esse rappresentavano una sintesi tra fede vissuta, comunità educante e testimonianza pubblica. Attraverso di esse, Don Bosco formava giovani capaci di adorare, di rispettare, di servire e di testimoniare.
Oggi, in un mondo frammentato e distratto, riproporre il valore delle processioni eucaristiche alla luce del carisma salesiano può essere un modo efficace per ritrovare il senso dell’essenziale: Cristo presente in mezzo al suo popolo, che cammina con lui, lo adora, lo serve e lo annuncia.
In un’epoca che cerca autenticità, visibilità e relazioni, la processione eucaristica – se vissuta secondo lo spirito di Don Bosco – può essere un segno potente di speranza e di rinnovamento.

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Il Venerabile padre Carlo Crespi “testimone e pellegrino di speranza”

Padre Carlo Crespi, missionario salesiano in Ecuador, ha vissuto la sua vita dedicandosi alla fede e alla speranza. Negli ultimi anni, nel santuario di Maria Ausiliatrice, ha consolato fedeli, infondendo ottimismo anche nei momenti di crisi. La sua pratica esemplare delle virtù teologali, evidenziata dalla testimonianza di chi lo conosceva, si è espressa anche nell’impegno per l’educazione: fondando scuole e istituti, ha offerto ai giovani nuove prospettive. Il suo esempio di resilienza e dedizione continua ad illuminare il cammino spirituale e umano della comunità. Il suo lascito perdura e ispira generazioni di credenti.

            Negli ultimi anni della sua vita, padre Carlo Crespi (Legnano, 29 maggio 1891 – Cuenca, 30 aprile 1982), missionario salesiano in Ecuador, messi gradualmente in secondo piano gli aneliti accademici della giovinezza, si circonda di essenzialità e la sua crescita spirituale appare inarrestabile. Viene visto nel santuario di Maria Ausiliatrice a divulgare la devozione alla Vergine, a confessare e a consigliare file interminabili di fedeli, rispetto ai quali gli orari, i pasti e persino il sonno non contano più. Così come aveva fatto in modo esemplare per tutta la vita, tiene lo sguardo fisso verso i beni eterni, che ora appaiono quanto mai vicini.
            Egli aveva quella speranza escatologica che si lega alle aspettative dell’uomo in vita e oltre la morte, influenzando in modo significativo la visione del mondo e il comportamento quotidiano. Secondo san Paolo, la speranza è un ingrediente indispensabile per una vita che si dona, che cresce collaborando con gli altri e sviluppando la propria libertà. Il futuro diventa così un compito collettivo che ci fa crescere come persone. La sua presenza ci invita a guardare al futuro con un senso di fiducia, intraprendenza e connessione con gli altri.
            Questa era la speranza del Venerabile padre Crespi! Una grande virtù che, come le braccia di un giogo, sorregge la fede e la carità; come il braccio trasverso della croce è trono di salvezza, è appoggio del serpente salutare alzato da Mosè nel deserto; ponte dell’anima per spiccare il volo nella luce.
            Il non comune livello raggiunto dal padre Crespi nella pratica di tutte le virtù è stato evidenziato, in maniera concorde, dai testimoni ascoltati nel corso della Inchiesta diocesana della Causa di beatificazione, ma emerge anche dall’analisi attenta dei documenti e dalle vicende biografiche di padre Carlo Crespi. L’esercizio delle virtù cristiane da parte sua fu, a detta di chi lo conobbe, non solo fuori dal comune, ma anche costante nel corso della sua lunga vita. La gente lo seguiva fedelmente perché nel suo quotidiano traspariva, quasi naturalmente, l’esercizio delle virtù teologali, tra le quali la speranza spiccava in modo particolare nei tanti momenti di difficoltà. Egli seminò la speranza nel cuore delle persone e visse tale virtù in massimo grado.
            Quando la scuola “Cornelio Merchan” fu distrutta da un incendio, al popolo accorso in lacrime davanti alle rovine fumanti, egli, pure piangente, manifestò una costante e non comune speranza incoraggiando tutti: “Pachilla non c’è più, ma noi ne costruiremo una migliore e i bambini saranno più felici e più contenti“. Dalle sue labbra non uscì mai una parola di amarezza o di dolore per ciò che era andato perduto.
            Alla scuola di don Bosco e di Mamma Margherita, ha vissuto e testimoniato la speranza in pienezza perché, confidando nel Signore e sperando nella Divina Provvidenza, ha realizzato grandi opere e servizi senza budget, anche se non gli è mai mancato il denaro. Non aveva tempo per agitarsi o disperarsi, il suo atteggiamento positivo dava fiducia e speranza agli altri.
            Don Carlo veniva spesso descritto come un uomo dal cuore ricco di ottimismo e speranza davanti alle grandi sofferenze della vita, perché era portato a relativizzare le vicende umane, anche le più difficili; in mezzo alla sua gente era testimone e pellegrino di speranza nel cammino della vita!
            Molto edificante, al fine di comprendere in che modo ed in quali ambiti della vita del Venerabile la virtù della speranza trovò concreta espressione, è anche il racconto che lo stesso padre Carlo Crespi fa in una lettera, inviata da Cuenca nel 1925, al Rettor Maggiore don Filippo Rinaldi. In essa, accogliendo una sua insistente richiesta, gli riferisce un episodio vissuto in prima persona, quando, nel consolare una donna kivara per la perdita prematura del figlio, le annuncia la buona novella della vita senza fine: “Commosso fino alle lacrime mi accostai alla veneranda figlia della selva dai capelli sciolti al vento: l’assicurai che il figlio era morto bene, che prima di morire non aveva avuto sulle labbra che il nome della madre lontana, e che aveva avuto una sepoltura in una cassa espressamente lavorata, essendo certamente la sua anima stata raccolta dal grande Iddio nel Paradiso […]. Potei quindi scambiare tranquillamente alcune parole, gettando in quel cuore infranto il soave balsamo della Fede e della Speranza cristiana”.
            La pratica della virtù della speranza crebbe parallelamente alla pratica delle altre virtù cristiane, incentivandole: fu uomo ricco di fede, di speranza e di carità.
            Quando la situazione socio-economica di Cuenca nel XX secolo peggiorò notevolmente, creando importanti ripercussioni sulla vita della popolazione, ebbe l’intuizione di comprendere che formando i giovani da un punto di vista umano, culturale e spirituale, avrebbe seminato in loro la speranza in una vita e in futuro migliore, contribuendo a cambiare le sorti dell’intera società.
            Padre Crespi intraprese, pertanto, numerose iniziative in favore della gioventù di Cuenca, partendo anzitutto dall’educazione scolastica. La Scuola Popolare Salesiana “Cornelio Merchán”; il Collegio Normale Orientalista rivolto agli insegnanti salesiani; la fondazione delle scuole d’arti e mestieri – che in seguito diventarono il “Técnico Salesiano” e l’Istituto Tecnologico Superiore, culminante nell’Università Politecnica Salesiana – confermano il desiderio del Servo di Dio di offrire alla popolazione cuencana migliori e più numerose prospettive per una crescita spirituale, umana e professionale. I giovani e i poveri, considerati anzitutto quali figli di Dio destinati alla beatitudine eterna, furono quindi raggiunti da padre Crespi attraverso una promozione umana e sociale capace di confluire in una più ampia dinamica, quella della salvezza.
            Tutto ciò fu da lui attuato con pochi mezzi economici, ma abbondante speranza nel futuro dei giovani. Lavorò attivamente senza perdere di vista lo scopo ultimo della propria missione: il conseguimento della vita eterna. È proprio in questo senso che padre Carlo Crespi intese la virtù teologale della speranza ed è attraverso questa prospettiva che passò tutto il suo sacerdozio.
La riaffermazione della vita eterna fu senza dubbio uno dei temi centrali trattati negli scritti di padre Carlo Crespi. Questo dato ci permette di cogliere l’evidente importanza da lui assegnata alla virtù della speranza. Tale dato mostra chiaramente come la pratica di questa virtù permeò costantemente il percorso terreno del Servo di Dio.
            Nemmeno la malattia poté spegnere l’inesauribile speranza che sempre animò padre Crespi.
            Poco prima di chiudere la propria esistenza terrena don Carlo chiese che gli fosse dato fra le mani un crocifisso. La sua morte avvenne il 30 aprile 1982 alle ore 17.30 nella Clinica Santa Inés di Cuenca a causa di una broncopolmonite e d’un attacco cardiaco.
            Il medico personale del Venerabile Servo di Dio, che per 25 anni e fino alla morte, fu testimone diretto della serenità e della consapevolezza con la quale padre Crespi, che sempre aveva vissuto con lo sguardo rivolto al cielo, visse il tanto atteso incontro con Gesù.
            Nel processo testimoniò: “Per me un segno speciale è proprio quell’atteggiamento di aver comunicato con noi in un atto semplicemente umano, ridendo e scherzando e, quando -dico- ha visto che le porte dell’eternità erano aperte e forse la Vergine l’aspettava, ci ha zittito e ci ha fatto pregare tutti”.

Carlo Riganti,
Presidente Associazione Carlo Crespi




Patagonia: “La più grande impresa della nostra Congregazione

Appena giunti in Patagonia, i Salesiani – guidati da Don Bosco – puntarono a ottenere un Vicariato apostolico che garantisse autonomia pastorale e sostegno di Propaganda Fide. Tra il 1880 e il 1882 ripetute richieste a Roma, al presidente argentino Roca e all’arcivescovo di Buenos Aires si infransero contro disordini politici e diffidenze ecclesiastiche. Missionari come Rizzo, Fagnano, Costamagna e Beauvoir percorrevano il Río Negro, il Colorado e fino al lago Nahuel-Huapi, fondando presenze tra indios e coloni. La svolta giunse il 16 novembre 1883: un decreto eresse il Vicariato della Patagonia settentrionale, affidato a mons. Giovanni Cagliero, e la Prefettura meridionale, guidata da mons. Giuseppe Fagnano. Da quel momento l’opera salesiana si radicò «alla fine del mondo», preparandone la futura fioritura.

            Erano appena arrivati i Salesiani in Patagonia, che don Bosco il 22 marzo 1880 tornò nuovamente alla carica presso varie Congregazioni Romane e lo stesso papa Leone XIII
per l’erezione di Vicariato o Prefettura della Patagonia con sede a Carmen, che abbracciasse le colonie già costituite o che si sarebbero andate organizzando sulle sponde del Río Negro, dal 36° al 50° grado di latitudine Sud. Carmen sarebbe potuta divenire “il centro delle Missioni Salesiane fra gli Indi”.
            Ma i disordini militari al momento dell’elezione del generale Roca a Presidente della Repubblica (maggio-agosto 1880) e la morte dell’ispettore salesiano don Francesco Bodrato (agosto 1880) fecero sospendere le pratiche. Don Bosco insistette anche presso il Presidente in novembre, ma senza risultati. Il Vicariato non era voluto né dall’arcivescovo né era gradito all’autorità politica.
            Pochi mesi dopo, nel gennaio 1881 don Bosco incoraggiava il neoispettore don Giacomo Costamagna a darsi da fare per il Vicariato in Patagonia ed assicurava il direttore-parroco don Fagnano che a proposito della Patagonia – “la più grande impresa della nostra Congregazione” – una grande responsabilità sarebbe presto ricaduta su di lui. Ma si rimaneva nell’impasse.
            Intanto in Patagonia don Emilio Rizzo, che aveva accompagnato nel 1880 il vicario di Buenos Aires monsignor Espinosa lungo il Río Negro fino a Roca (50 km), con altri salesiani si apprestava ad ulteriori missioni volanti lungo lo stesso fiume. Don Fagnano poi nel 1881 poté accompagnare l’esercito fino alla Cordigliera. Don Bosco, impaziente, fremeva e don Costamagna ancora nel novembre 1881 lo consigliò di trattare direttamente con Roma.
            Fortuna volle che a fine 1881 venisse in Italia monsignor Espinosa; don Bosco ne approfittò per informare suo tramite l’arcivescovo di Buenos Aires, che nell’aprile del 1882 sembrò favorevole al progetto di un Vicariato affidato ai Salesiani. Più che altro forse per l’impossibilità di attendervi con il suo clero. Ma ancora una volta non se ne fece nulla.           Nell’estate 1882 e poi ancora nel 1883 don Beauvoir accompagnò l’esercito fino al lago Nahuel-Huapi sulle Ande (880 km); altrettante escursioni apostoliche avevano fatto altri salesiani in aprile lungo il Río Colorado, mentre don Beauvoir ritornava a Roca e in agosto don Milanesio si inoltrava fino a Ñorquín nel Neuquén (900 km).
            Don Bosco era sempre più convinto che senza un proprio Vicariato apostolico i Salesiani non avrebbero goduto della necessaria libertà di azione, visti i difficilissimi rapporti che aveva avuto lui con il suo arcivescovo di Torino e tenuto pure conto che lo stesso Concilio Vaticano I non aveva deciso nulla circa i non facili rapporti fra Ordinari e superiori di Congregazioni religiose nei territori di missione. Inoltre, cosa non di poco conto, solo un Vicariato missionario avrebbe potuto avere il sostegno finanziario dalla Congregazione di Propaganda Fide.
            Pertanto don Bosco riprese i suoi sforzi, avanzando alla Santa Sede la proposta di suddivisione amministrativa della Patagonia e Terra del Fuoco in tre Vicariati o Prefetture: dal Río Colorado al Río Chubut, da questi al Río Santa Cruz, e da questi alle isole della Terra del Fuoco, Malvine (Falkland) comprese.
            Papa Leone XIII alcuni mesi dopo acconsentì e gli fece chiedere i nominativi. Don Bosco allora suggerì al cardinale Simeoni l’erezione di un solo Vicariato per la Patagonia settentrionale con sede a Carmen, dal quale dipendesse una Prefettura apostolica per la Patagonia meridionale. Per quest’ultima proponeva don Fagnano; per il Vicariato don Cagliero o don Costamagna.

Un sogno che si avvera
            Il 16 novembre 1883 un decreto di Propaganda Fide eresse il Vicario apostolico della Patagonia settentrionale e centrale, che comprendeva il sud della provincia di Buenos Aires, i territori nazionali di La Pampa centrale, il Río Negro, il Neuquén e il Chubut. Quattro giorni dopo lo affidò a don Cagliero come Provicario apostolico (e successivamente Vicario apostolico). Il 2 dicembre 1883 fu la volta del Fagnano ad essere nominato Prefetto apostolico della Patagonia cilena, del territorio cileno di Magallanes-Punta Arenas, del territorio argentino di Santa Cruz, delle isole Malvinas e delle non meglio definite isole che si estendevano fino allo stretto di Magellano. Ecclesiasticamente la Prefettura copriva aree appartenenti alla diocesi cilena di San Carlos de Ancud.
            Il sogno del famoso viaggio in treno da Cartagena in Colombia a Punta Arenas in Cile del 10 agosto 1883 iniziava così a realizzarsi, tanto più che alcuni Salesiani da Montevideo in Uruguay all’inizio del 1883 erano arrivati a fondare la casa di Niteroi in Brasile. Il lungo processo di poter gestire una missione in piena libertà canonica era arrivato a conclusione. Nell’ottobre del 1884 don Cagliero sarebbe stato insignito della nomina di Vicario apostolico della Patagonia, là dove avrebbe fatto la sua entrata l’8 luglio successivo, sette mesi dopo la sua consacrazione episcopale avvenuta a Valdocco il 7 dicembre 1884.

Il seguito
            Sia pure in mezzo a difficoltà di ogni genere che la storia ricorda – comprese accuse e vere calunnie – l’opera salesiana da quei timidi inizi si dispiegò rapidamente sia nella Patagonia Argentina sia in quella cilena. Si radicò per lo più in piccolissimi centri di indios e di coloni, oggi diventati cittadine e città. Monsignor Fagnano nel 1887 si stabilì a Punta Arenas (Cile), da dove iniziò poco dopo le missioni nelle isole della Terra del Fuoco. Generosi e capaci missionari spesero generosamente la vita al di qua e al di là dello Stretto di Magellano “per la salvezza delle anime” e pure dei corpi (per quanto era nelle loro possibilità) degli abitanti di quelle terre “laggiù, alla fine del mondo”. Lo hanno riconosciuto in tanti, fra loro una persona che se ne intende, perché a sua volta venuto “quasi dalla fine del mondo”: papa Francesco.

Foto d’epoca: I tre Bororòs che accompagnarono i missionari salesiani a Cuyabà (1904)




La radicalità evangelica del Beato Stefano Sándor

Stefano Sándor (Szolnok 1914 – Budapest 1953) è un martire coadiutore salesiano. Giovane allegro e devoto, dopo gli studi metallurgici entrò tra i Salesiani, diventando maestro tipografo e guida dei ragazzi. Animò oratori, fondò la Gioventù Operaia Cattolica e trasformò trincee e cantieri in “oratori festivi”. Quando il regime comunista confiscò le opere ecclesiali, continuò clandestinamente a educare e salvare giovani e macchinari; arrestato, fu impiccato l’8 giugno 1953. Radicato nell’Eucaristia e nella devozione a Maria, incarnò la radicalità evangelica di Don Bosco con dedizione educativa, coraggio e fede incrollabile. Beatificato da papa Francesco nel 2013, resta modello di santità laicale salesiana.

1. Cenni biografici
            Sándor Stefano nacque a Szolnok, in Ungheria, il 26 ottobre 1914 da Stefano e Maria Fekete, primo di tre fratelli. Il padre era impiegato presso le Ferrovie dello Stato, la madre invece era casalinga. Entrambi trasmisero ai propri figli una profonda religiosità. Stefano studiò nella sua città ottenendo il diploma di tecnico metallurgico. Fin da ragazzo veniva stimato dai compagni, era allegro, serio e gentile. Aiutava i fratellini a studiare e a pregare, dandone per primo l’esempio. Fece con fervore la cresima impegnandosi a imitare il suo santo protettore e san Pietro. Serviva ogni giorno la santa Messa dai padri francescani ricevendo l’Eucaristia.
            Leggendo il Bollettino Salesiano conobbe Don Bosco. Si sentì subito attratto dal carisma salesiano. Si confrontò col suo direttore spirituale, esprimendogli il desiderio di entrare nella Congregazione salesiana. Ne parlò anche ai suoi genitori. Essi gli negarono il consenso, e cercarono in ogni modo di dissuaderlo. Ma Stefano riuscì a convincerli, e nel 1936 fu accettato al Clarisseum, sede dei Salesiani a Budapest, dove in due anni fece l’aspirantato. Frequentò nella tipografia “Don Bosco” i corsi di tecnicostampatore. Iniziò il noviziato, ma dovette interromperlo per la chiamata alle armi.
            Nel 1939 ottenne il congedo definitivo e, dopo l’anno di noviziato, emise la sua prima professione l’8 settembre 1940 come salesiano coadiutore. Destinato al Clarisseum, si impegnò attivamente nell’insegnamento nei corsi professionali. Ebbe anche l’incarico dell’assistenza all’oratorio, che condusse con entusiasmo e competenza. Fu il promotore della Gioventù Operaia Cattolica. Il suo gruppo venne riconosciuto come il migliore del movimento. Sull’esempio di Don Bosco, si mostrò un educatore modello. Nel 1942 fu richiamato al fronte, e si guadagnò una medaglia d’argento al valore militare. La trincea era per lui un oratorio festivo che animava salesianamente, rincuorando i compagni di leva. Alla fine della Seconda guerra mondiale si impegnò nella ricostruzione materiale e morale della società, dedicandosi in particolare ai giovani più poveri, che radunava insegnando loro un mestiere. Il 24 luglio 1946 emise la sua professione perpetua. Nel 1948 conseguì il titolo di maestro-stampatore. Alla fine degli studi gli allievi di Stefano venivano assunti nelle migliori tipografie della capitale Budapest e dell’Ungheria.

            Quando lo Stato nel 1949, sotto Mátyás Rákosi, incamerò i beni ecclesiastici e iniziarono le persecuzioni nei confronti delle scuole cattoliche, che dovettero chiudere i battenti, Sándor cercò di salvare il salvabile, almeno qualche macchina tipografica e qualcosa dell’arredamento che tanti sacrifici era costato. Di colpo i religiosi si ritrovarono senza più nulla, tutto era diventato dello Stato. Lo stalinismo di Rákosi continuò ad accanirsi: i religiosi vennero dispersi. Senza più casa, lavoro, comunità, molti si ridussero allo stato di clandestini. Si adattarono a fare di tutto: spazzini, contadini, manovali, facchini, servitori… Anche Stefano dovette “sparire”, lasciando la sua tipografia che era diventata famosa. Invece di rifugiarsi all’estero rimase in patria per salvare la gioventù ungherese. Colto sul fatto (stava cercando di salvare delle macchine tipografiche), dovette fuggire in fretta e rimanere nascosto per alcuni mesi; poi, sotto altro nome, riuscì a farsi assumere in una fabbrica di detergenti della capitale, ma continuò impavido e clandestinamente il suo apostolato, pur sapendo che era attività rigorosamente proibita. Nel luglio del 1952 fu catturato sul posto di lavoro, e non fu più rivisto dai confratelli. Un documento ufficiale ne certifica il processo e la condanna a morte, eseguita per impiccagione l’8 giugno 1953.
            La fase diocesana della Causa di martirio iniziò a Budapest il 24 maggio 2006 e si concluse l’8 dicembre 2007. Il 27 marzo 2013 papa Francesco autorizzò la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto di martirio e a celebrare il rito di beatificazione, che si svolse sabato 19 ottobre 2013 a Budapest.

2. Testimonianza originale di santità salesiana
            I rapidi cenni sulla biografia di Sándor ci hanno introdotto nel cuore della sua vicenda spirituale. Contemplando la fisionomia che ha assunto in lui la vocazione salesiana, segnata dall’azione dello Spirito e ora proposta dalla Chiesa, scopriamo alcuni tratti di quella santità: il senso profondo di Dio e la disponibilità piena e serena alla sua volontà, l’attrazione per Don Bosco e la cordiale appartenenza alla comunità salesiana, la presenza animatrice ed incoraggiante tra i giovani, lo spirito di famiglia, la vita spirituale e di preghiera coltivata personalmente e condivise con la comunità, la totale consacrazione alla missione salesiana vissuta nella dedizione agli apprendisti e ai giovani lavoratori, ai ragazzi dell’oratorio, all’animazione di gruppi giovanili. Si tratta di un’attiva presenza nel mondo educativo e sociale, tutta animata dalla carità di Cristo che lo spinge interiormente!

            Non mancarono gesti che hanno dell’eroico e dell’insolito, fino a quello supremo di donare la propria vita per la salvezza della gioventù ungherese. «Un giovanotto voleva saltare sul tram che passava davanti alla casa salesiana. Sbagliando mossa, cadde sotto il veicolo. La carrozza si fermò troppo tardi; una ruota lo ferì profondamente alla coscia. Una grande folla si radunò a guardare la scena senza intervenire, mentre il povero malcapitato stava per dissanguarsi. In quel momento si aprì il cancello del collegio e Pista (nome famigliare di Stefano) corse fuori con una barella pieghevole sotto il braccio. Buttò per terra la sua giacca, si infilò sotto il tram e tirò fuori il giovanotto con prudenza, stringendo la sua cintura attorno alla coscia sanguinante, e mise il ragazzo sulla barella. A questo punto arrivò l’ambulanza. La folla festeggiò Pista con entusiasmo. Egli arrossì, ma non poté nascondere la gioia di avere salvato la vita a qualcuno».
            Uno dei suoi ragazzi ricorda: «Un giorno mi ammalai gravemente di tifo. All’ospedale di Újpest mentre al capezzale i miei genitori si preoccupavano per la mia vita, Stefano Sándor si offrì di darmi il sangue, se fosse stato necessario. Questo atto di generosità commosse molto mia madre e tutte le persone intorno a me».
            Anche se sono trascorsi oltre sessant’anni dal suo martirio e profonda è stata l’evoluzione della Vita Consacrata, dell’esperienza salesiana, della vocazione e della formazione del salesiano coadiutore, la via salesiana alla santità tracciata da Stefano Sándor è un segno e un messaggio che apre prospettive per l’oggi. Si compie in questo modo l’affermazione delle Costituzioni salesiane: «I confratelli che hanno vissuto o vivono in pienezza il progetto evangelico delle Costituzioni sono per noi stimolo e aiuto nel cammino di santificazione». La sua beatificazione indica concretamente quella «misura alta della vita cristiana ordinaria» indicata da Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte.

2.1. Sotto il vessillo di Don Bosco
            È sempre interessante cercare di individuare nel piano misterioso che il Signore tesse su ciascuno di noi il filo conduttore di tutta l’esistenza. Con una formula sintetica il segreto che ha ispirato e guidato tutti i passi della vita di Stefano Sándor, si può sintetizzare con queste parole: al seguito di Gesù, con Don Bosco e come Don Bosco, dovunque e sempre. Nella storia vocazionale di Stefano Don Bosco irrompe in modo originale e con i tratti tipici di una vocazione ben identificata, come scrisse il parroco francescano, presentando il giovane Stefano: «Qui a Szolnok, nella nostra parrocchia abbiamo un giovane molto bravo: Stefano Sándor di cui sono padre spirituale e che, finita la scuola tecnica, apprese il mestiere in una scuola metallurgica; fa la Comunione giornalmente e vorrebbe entrare in un ordine religioso. Da noi non avremmo nessuna difficoltà, ma lui vorrebbe entrare dai Salesiani come fratello laico».
            Il giudizio lusinghiero del parroco e direttore spirituale evidenzia: i tratti di lavoro e preghiera tipici della vita salesiana; un cammino spirituale perseverante e costante con una guida spirituale; l’apprendistato dell’arte tipografica che nel tempo si perfezionerà e si specializzerà.
            Era venuto a conoscere Don Bosco tramite il Bollettino Salesiano e le pubblicazioni salesiane di Rákospalota. Da questo contatto attraverso la stampa salesiana nacque forse la sua passione per la tipografia e per i libri. Nella lettera all’Ispettore dei Salesiani d’Ungheria, don János Antal, dove chiede di essere accettato tra i figli di Don Bosco, dichiarava: «Sento la vocazione di entrare nella Congregazione salesiana. Di lavoro ce n’è bisogno ovunque; senza lavoro non si può raggiungere la vita eterna. A me piace lavorare».
            Fin dall’inizio emerge la volontà forte e decisa di perseverare nella vocazione ricevuta, come poi di fatto avverrà. Quando il 28 maggio 1936 egli fece domanda di ammissione al noviziato salesiano, dichiarò di «aver conosciuto la Congregazione salesiana ed essere stato sempre più confermato nella sua vocazione religiosa, tanto da confidare di poter perseverare sotto il vessillo di Don Bosco». Con poche parole Sándor esprime una coscienza vocazionale di alto profilo: conoscenza esperienziale della vita e dello spirito della Congregazione; conferma di una scelta giusta e irreversibile; sicurezza per il futuro di essere fedele sul campo di battaglia che lo attende.
            Il verbale dell’ammissione al noviziato, in lingua italiana (2 giugno 1936), qualifica unanimemente l’esperienza dell’aspirantato: «Con ottimo risultato, diligente, di pietà buona e si offrì da sé all’oratorio festivo, fu pratico, di buon esempio, ricevette l’attestato di stampatore, ma non ha ancora la perfetta praticità». Sono già presenti quei tratti che, consolidati successivamente nel noviziato, ne definiranno la fisionomia di religioso salesiano laico: l’esemplarità della vita, la generosa disponibilità alla missione salesiana, la competenza nella professione di tipografo.
            L’8 settembre 1940 emette la sua professione religiosa come salesiano coadiutore. Di questo giorno di grazia riportiamo una lettera scritta da Pista, come veniva famigliarmente chiamato, ai suoi genitori: «Cari genitori, ho da riferire di un evento importante per me e che lascerà orme indelebili nel mio cuore. L’8 settembre per grazia del buon Dio e con la protezione della Santa Vergine mi sono impegnato con la professione ad amare e servire Dio. Nella festa della Vergine Madre ho fatto il mio sposalizio con Gesù e gli ho promesso col triplice voto di essere Suo, di non staccarmi mai più da Lui e di perseverare nella fedeltà a Lui fino alla morte. Prego pertanto tutti voi di non dimenticarmi nelle vostre preghiere e nelle Comunioni, facendo voti che io possa rimanere fedele alla mia promessa fatta a Dio. Potete immaginare che quello fu per me un giorno lieto, mai capitato nella mia vita. Penso che non avrei potuto dare alla Madonna un dono di compleanno più gradito del dono di me stesso. Immagino che il buon Gesù vi avrà guardato con occhi affettuosi, essendo stati voi a donarmi a Dio… Affettuosi saluti a tutti. PISTA».

2.2. Dedizione assoluta alla missione
            «La missione dà a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto…», dicono le Costituzioni salesiane.12 Stefano Sándor visse la missione salesiana nel campo che gli era stato affidato, incarnando la carità pastorale educativa come salesiano coadiutore, con lo stile di Don Bosco. La sua fede lo portò a vedere Gesù nei giovani apprendisti e lavoratori, nei ragazzi dell’oratorio, in quelli della strada.
            Nell’industria tipografica la direzione competente dell’amministrazione è considerata un compito essenziale. Stefano Sándor era incaricato della direzione, dell’addestramento pratico e specifico degli apprendisti e della fissazione dei prezzi dei prodotti tipografici. La tipografia “Don Bosco” godeva in tutto il Paese di grande prestigio. Facevano parte delle edizioni salesiane il Bollettino Salesiano, Gioventù Missionaria, riviste per la gioventù, il Calendario Don Bosco, libri di devozione e l’edizione in traduzione ungherese degli scritti ufficiali della Direzione Generale dei Salesiani. È in quell’ambiente che Stefano Sándor prese ad amare i libri cattolici che venivano da lui non solo approntati per la stampa, ma anche studiati.
            Nel servizio della gioventù egli era pure responsabile dell’educazione collegiale dei giovani. Anche questo era un compito importante, oltre al loro addestramento tecnico. Era indispensabile disciplinare i giovani, in fase di sviluppo vigoroso, con fermezza affettuosa. In ogni momento del periodo di apprendistato egli li affiancava come un fratello maggiore. Stefano Sándor si distinse per una forte personalità: possedeva un’eccellente istruzione specifica, accompagnata dalla disciplina, dalla competenza e dallo spirito comunitario.
            Non si accontentava di un solo determinato lavoro, ma si rendeva disponibile ad ogni necessità. Si assunse il compito di sagrestano della piccola chiesa del Clarisseum e si prese cura nella direzione del “Piccolo Clero”. Prova della sua capacità di resistenza fu anche l’impegno spontaneo di lavoro volontario nel fiorente oratorio, frequentato regolarmente dai giovani dei due sobborghi di Újpest e Rákospalota. Gli piaceva giocare con i ragazzi; nelle partite di calcio faceva l’arbitro con grande competenza.

2.3. Religioso educatore
            Stefano Sándor fu educatore alla fede di ogni persona, confratello e ragazzo, soprattutto nei momenti di prova e nell’ora del martirio. Davvero Sándor aveva fatto della missione per i giovani il proprio spazio educativo, dove viveva quotidianamente i criteri del Sistema Preventivo di Don Bosco – ragione, religione, amorevolezza – nella vicinanza e assistenza amorosa ai giovani lavoratori, nell’aiuto prestato a comprendere e accettare le situazioni di sofferenza, nella testimonianza viva della presenza del Signore e del suo amore indefettibile.
            A Rákospalota Stefano Sándor si dedicò con zelo all’addestramento dei giovani tipografi e all’educazione dei giovani dell’oratorio e dei “Paggi del Sacro Cuore”. Su questi fronti manifestò uno spiccato senso del dovere, vivendo con grande responsabilità la sua vocazione religiosa e caratterizzandosi per una maturità che suscitava ammirazione e stima. «Durante la sua attività tipografica, viveva coscienziosamente la sua vita religiosa, senza alcuna volontà di apparire. Praticava i voti di povertà, castità e obbedienza, senza alcuna forzatura. In questo campo, la sua sola presenza valeva una testimonianza, senza dire alcuna parola. Anche gli alunni riconoscevano la sua autorevolezza, grazie ai suoi modi fraterni. Metteva in pratica tutto ciò che diceva o chiedeva agli alunni, e a nessuno veniva in mente di contraddirlo in alcun modo».
            György Érseki conosceva i Salesiani fin dal 1945 e dopo la Seconda guerra mondiale andò ad abitare a Rákospalota, nel Clarisseum. La sua conoscenza con Stefano Sándor durò fino al 1947. Per questo periodo non solo ci offre uno spaccato della molteplice attività del giovane coadiutore, tipografo, catechista ed educatore della gioventù, ma anche una lettura profonda, dalla quale emerge la ricchezza spirituale e la capacità educativa di Stefano: «Stefano Sándor fu una persona molto dotata di natura. In qualità di pedagogo, posso sostenere e confermare la sua capacità di osservazione e la sua personalità poliedrica. Fu un bravo educatore e riusciva a gestire i giovani, uno per uno, in una maniera ottimale, scegliendo il tono adeguato con tutti. Vi è ancora un dettaglio appartenente alla sua personalità: considerava ogni suo lavoro un santo dovere, consacrando, senza sforzi e con grande naturalezza, tutta la sua energia alla realizzazione di questo scopo sacro. Grazie ad un intuito innato, riusciva a cogliere l’atmosfera e ad influenzarla positivamente. […] Aveva un carattere forte come educatore; si prendeva cura di tutti singolarmente. S’interessava dei nostri problemi personali, reagendo sempre nel modo più adatto a noi. In questo modo realizzava i tre principi di Don Bosco: la ragione, la religione e l’amorevolezza… I coadiutori salesiani non indossavano la veste all’infuori del contesto liturgico, ma l’aspetto di Stefano Sándor si distingueva dalla massa della gente. Per quanto riguarda la sua attività di educatore, non ricorreva mai alla punizione fisica, vietata secondo i principi di Don Bosco, diversamente da altri insegnanti salesiani più impulsivi, incapaci di padroneggiarsi e che a volte davano degli schiaffi. Gli alunni apprendisti affidati a lui formavano una piccola comunità all’interno del collegio, pur essendo diversi fra di loro dal punto di vista dell’età e della cultura. Essi mangiavano alla mensa insieme agli altri studenti, dove abitualmente durante i pasti si leggeva la Bibbia. Naturalmente vi era presente anche Stefano Sándor. Grazie alla sua presenza, il gruppo di apprendisti industriali riuscì sempre il più disciplinato… Stefano Sándor rimase sempre giovanile, dimostrando grande comprensione verso i giovani. Cogliendo i loro problemi, trasmetteva dei messaggi positivi e li sapeva consigliare sia sul piano personale, che su quello religioso. La sua personalità rivelava grande tenacia e resistenza nel lavoro; anche nelle situazioni più difficili, rimaneva fedele ai suoi ideali e a se stesso. Il collegio salesiano di Rákospalota ospitava una grande comunità, richiedendo un lavoro con i giovani a più livelli. Nel collegio, accanto alla tipografia, abitavano dei giovani salesiani in formazione, che erano in stretto rapporto con i coadiutori. Ricordo i seguenti nomi: József Krammer, Imre Strifler, Vilmos Klinger e László Merész. Questi giovani avevano compiti diversi da quelli di Stefano Sándor e ne differivano anche caratterialmente. Grazie però alla loro vita in comune, conoscevano i problemi, le virtù e i difetti gli uni degli altri. Stefano Sándor nel suo rapporto con questi chierici trovò sempre la misura adeguata. Stefano Sándor riuscì a trovare il tono fraterno per ammonirli, quando mostravano qualche loro manchevolezza, senza cadere nel paternalismo. Anzi, furono i giovani chierici a chiedere la sua opinione. A mio avviso, egli realizzò gli ideali di Don Bosco. Fin dal primo momento della nostra conoscenza, Stefano Sándor rappresentò lo spirito che caratterizzava i membri della Società Salesiana: senso del dovere, purezza, religiosità, praticità e fedeltà ai principi cristiani».

            Un ragazzo di quel tempo così ricorda lo spirito che animava Stefano Sándor: «Il mio primo ricordo di lui è legato alla sagrestia del Clarisseum, in cui egli, in qualità di sagrestano principale, esigeva l’ordine, imponendo la serietà dovuta alla situazione, rimanendo però sempre lui, con il suo comportamento, a darci il buon esempio. Era una delle sue caratteristiche quella di darci le direttive con un tono moderato, senza alzar la voce, chiedendoci piuttosto cortesemente di fare i nostri doveri. Questo suo comportamento spontaneo ed amichevole ci conquistò. Gli volevamo veramente bene. Ci incantò la naturalezza con la quale Stefano Sándor si occupava di noi. Ci insegnava, pregava e viveva con noi, testimoniando la spiritualità dei coadiutori salesiani di quel tempo. Noi, giovani, spesso non ci rendevamo conto di quanto fossero speciali queste persone, ma egli spiccava per la sua serietà, che manifestava in chiesa, nella tipografia e persino nel campo da gioco».

3. Riflesso di Dio con radicalità evangelica
            Ciò che dava spessore a tutto questo – la dedizione alla missione e la capacità professionale ed educativa – e che colpiva immediatamente coloro che lo incontravano era la figura interiore di Stefano Sándor, quella di discepolo del Signore, che viveva in ogni momento la sua consacrazione, nella costante unione con Dio e nella fraternità evangelica. Dalle testimonianze processuali emerge una figura completa, anche per quell’equilibrio salesiano per cui le diverse dimensioni si congiungono in una personalità armonica, unificata e serena, aperta al mistero di Dio vissuto nel quotidiano.
            Un tratto che colpisce di tale radicalità è il fatto che fin dal noviziato tutti i suoi compagni, anche quelli aspiranti al sacerdozio e molto più giovani di lui, lo stimassero e lo vedessero come modello da imitare. L’esemplarità della sua vita consacrata e la radicalità con cui visse e testimoniò i consigli evangelici lo distinsero sempre e ovunque per cui in molte occasioni, anche nel tempo della prigionia, diversi pensavano che fosse un sacerdote. Tale testimonianza dice molto della singolarità con cui Stefano Sándor visse sempre con chiara identità la sua vocazione di salesiano coadiutore, evidenziando proprio lo specifico della vita consacrata salesiana in quanto tale. Tra i compagni di noviziato Gyula Zsédely così parla di Stefano Sándor: «Entrammo insieme nel noviziato salesiano di Santo Stefano a Mezőnyárád. Il nostro maestro fu Béla Bali. Qui passai un anno e mezzo con Stefano Sándor e fui testimone oculare della sua vita, modello di giovane religioso. Benché Stefano Sándor avesse almeno nove-dieci anni più di me, conviveva con i suoi compagni di noviziato in modo esemplare; partecipava alle pratiche di pietà insieme a noi. Non sentivamo affatto la differenza d’età; ci stava a fianco con affetto fraterno. Ci edificava non solo attraverso il suo buon esempio, ma anche dandoci dei consigli pratici in merito all’educazione della gioventù. Si vedeva già allora come fosse predestinato a questa vocazione secondo i principi educativi di Don Bosco… Il suo talento di educatore balzò agli occhi anche di noi novizi, specialmente in occasione delle attività comunitarie. Con il suo fascino personale ci entusiasmava a tal punto, che davamo per scontato di poter affrontare con facilità anche i compiti più difficili. Il motore della sua profonda spiritualità salesiana furono la preghiera e l’Eucaristia, nonché la devozione alla Vergine Maria Ausiliatrice. Durante il noviziato, che durò un anno, vedevamo nella sua persona un buon amico. Divenne il nostro modello anche nell’obbedienza, poiché, essendo lui il più vecchio, fu messo alla prova con delle piccole umiliazioni, ma egli le sopportò con padronanza e senza dar segni di sofferenza o risentimento. In quel tempo, purtroppo, c’era qualcuno tra i nostri superiori che si divertiva ad umiliare i novizi, ma Stefano Sándor seppe resistere bene. La sua grandezza di spirito, radicata nella preghiera, era percepibile da tutti».
            Riguardo alla intensità con cui Stefano Sándor viveva la sua fede, con una continua unione con Dio, emerge una esemplarità di testimonianza evangelica, che possiamo ben definire un “riflesso di Dio”: «Mi pare che la sua attitudine interiore sia scaturita dalla devozione all’Eucaristia e alla Madonna, la quale aveva trasformato anche la vita di Don Bosco. Quando si occupava di noi, “Piccolo Clero”, non dava l’impressione di esercitare un mestiere; le sue azioni manifestavano la spiritualità di una persona capace di pregare con grande fervore. Per me e per i miei coetanei “il Signor Sándor” fu un ideale e neanche per sogno pensavamo che tutto ciò che abbiamo visto e udito fosse una messinscena superficiale. Ritengo che solo la sua intima vita di preghiera abbia potuto alimentare tale comportamento quando, ancora confratello giovanissimo, aveva compreso e preso sul serio il metodo di educazione di Don Bosco».
            La radicalità evangelica si espresse in diverse forme nel corso della vita religiosa di Stefano Sándor:
            – Nell’aspettare con pazienza il consenso dei genitori per entrare dai Salesiani.
            – In ogni passaggio della vita religiosa dovrà attendere: prima di essere ammesso al noviziato dovrà fare l’aspirantato; ammesso al noviziato dovrà interromperlo per fare il servizio militare; la domanda per la professione perpetua, prima accettata, verrà rinviata dopo un ulteriore periodo di voti temporanei.
            – Nelle dure esperienze del servizio militare e al fronte. Lo scontro con un ambiente che tendeva molte insidie alla sua dignità di uomo e di cristiano rafforzarono in questo giovane novizio la decisione di seguire il Signore, di essere fedele alla sua scelta di Dio, costi quel che costi. Davvero non c’è discernimento più duro ed esigente che quello di un noviziato provato e vagliato nella trincea della vita militare.
            – Negli anni della soppressione e poi del carcere, fino all’ora suprema del martirio.

            Tutto questo rivela quello sguardo di fede che accompagnerà sempre la storia di Stefano: la consapevolezza che Dio è presente e opera per il bene dei suoi figli.

Conclusione
            Stefano Sándor dalla nascita fino alla morte fu un uomo profondamente religioso, che in tutte le circostanze della vita rispose con dignità e coerenza alle esigenze della sua vocazione salesiana. Così visse nel periodo dell’aspirantato e della formazione iniziale, nel suo lavoro di tipografo, come animatore dell’oratorio e della liturgia, nel tempo della clandestinità e della carcerazione, fino ai momenti che precedettero la sua morte. Desideroso, fin dalla prima giovinezza, di consacrarsi al servizio di Dio e dei fratelli nel generoso compito dell’educazione dei giovani secondo lo spirito di Don Bosco, fu capace di coltivare uno spirito di fortezza e di fedeltà a Dio e ai fratelli che lo misero in grado, nel momento della prova, di resistere, prima alle situazioni di conflitto e poi alla prova suprema del dono della vita.
            Vorrei evidenziare la testimonianza di radicalità evangelica offerta da questo confratello. Dalla ricostruzione del profilo biografico di Stefano Sándor emerge un reale e profondo cammino di fede, iniziato fin dalla sua infanzia e giovinezza, irrobustito dalla professione religiosa salesiana e consolidato nell’esemplare vita di salesiano coadiutore. Si nota in particolare una genuina vocazione consacrata, animata secondo lo spirito di Don Bosco, da un intenso e fervoroso zelo per la salvezza delle anime, soprattutto giovanili. Anche i periodi più difficili, quali il servizio militare e l’esperienza della guerra, non scalfirono l’integro comportamento morale e religioso del giovane coadiutore. È su tale base che Stefano Sándor subirà il martirio senza ripensamenti o esitazioni.
            La beatificazione di Stefano Sándor impegna tutta la Congregazione nella promozione della vocazione del salesiano coadiutore, accogliendo la sua testimonianza esemplare e invocando in forma comunitaria la sua intercessione per questa intenzione. Come salesiano laico, riuscì a dare buon esempio persino ai preti, con la sua attività in mezzo ai giovani e con la sua esemplare vita religiosa. È un modello per i giovani consacrati, per il modo con il quale affrontò le prove e le persecuzioni senza accettare compromessi. Le cause a cui si dedicò, la santificazione del lavoro cristiano, l’amore per la casa di Dio e l’educazione della gioventù, sono tuttora missione fondamentale della Chiesa e della nostra Congregazione.
Come educatore esemplare dei giovani, in particolare degli apprendisti e dei giovani lavoratori, e come animatore dell’oratorio e dei gruppi giovanili, ci è di esempio e di stimolo nel nostro impegno di annunciare ai giovani il Vangelo della gioia attraverso la pedagogia della bontà.