Dialogo familiare

Figlio: «Avete sentito quello che è successo in Ucraina?».
Padre: «Bah!».
Madre: «È abbastanza salata la minestra?».
Figlio: «È un problema, no?».
Padre: «Sì».
Figlio: «Allora che ne pensi?».
Padre: «Hai ragione, manca un po’ di sale».
Madre: «Eccolo, tieni».
Figlio: «È strano come si sia potuti arrivare a tanto».
Madre: «Quanto hai preso di matematica?».
Padre: «Io non ho mai capito niente di matematica».
Madre: «Fa freddo, stasera…».

Un marito ascolta la moglie al massimo per 17 secondi e poi incomincia a parlare lui.
Una moglie ascolta il marito al massimo per 17 secondi e poi incomincia a parlare lei.
Marito e moglie ascoltano i figli per…




L’albero

Un uomo aveva quattro figli. Egli desiderava che i suoi figli imparassero a non giudicare le cose in fretta. Per questo, invitò ognuno di loro a fare un viaggio per osservare un albero che era piantato in un luogo lontano. Li mandò uno alla volta, a distanza di tre mesi uno dall’altro. I figli ubbidirono.
Quando l’ultimo rientrò, li riunì, e chiese loro di descrivere quello che avevano visto.
Il primo figlio disse che l’albero era brutto, torto e piegato.
Il secondo figlio disse, invece, che l’albero era ricoperto di gemme verdi e promesse di vita.
Il terzo figlio era in disaccordo; disse che era coperto di fiori, che avevano un profumo tanto dolce, ed erano tanto belli da fargli dire che erano la cosa più bella che avesse mai visto.
L’ultimo figlio era in disaccordo con tutti gli altri; disse che l’albero era carico di frutta, vita e generosità.
L’uomo allora spiegò ai suoi figli che tutte le risposte erano esatte poiché ognuno aveva visto solo una stagione della vita dell’albero.
Egli disse che non si può giudicare un albero, o una persona, da una sola stagione, e che la loro essenza, il piacere, l’allegria e l’amore che vengono da quelle vite possono essere misurati solo alla fine, quando tutte le stagioni sono complete.

Quando la primavera se ne parte tutti i fiori muoiono, ma quando ritorna sorridono lieti. Nei miei occhi tutto passa, sulla mia testa tutto imbianchisce.
Ma non bisogna mai credere che all’agonia della primavera tutti i fiori muoiano perché, proprio la scorsa notte, un ramo di pesco fioriva.
(anonimo del Vietnam)

Non lasciare che il dolore di una stagione distrugga la gioia di ciò che verrà dopo.
Non giudicare la tua vita in una stagione difficile. Persevera attraverso le difficoltà, e sicuramente tempi migliori verranno quando meno te lo aspetti! Vivi ogni tua stagione con gioia e con la forza della speranza.




Il profumo

Una fredda mattina di marzo, in un ospedale, per colpa di complicazioni gravi, una bambina nacque molto prima del previsto, dopo solo sei mesi di gravidanza.
Era un esserino minuscolo e i neo genitori furono colpiti dolorosamente dalle parole del medico: «Non credo che la bambina abbia molte probabilità di sopravvivere. C’è solo il 10 per cento di possibilità che sopravviva alla notte, ed anche se ciò accadesse per qualche miracolo, la probabilità che abbia complicazioni future è molto alta». Paralizzati dalla paura, la mamma e il papà ascoltavano le parole del dottore che descriveva loro tutti i problemi che avrebbe dovuto affrontare la bambina. Non sarebbe mai stata in grado di camminare, parlare, vedere, sarebbe stata ritardata mentalmente e molto altro ancora.
Mamma, papà e il loro bambino di cinque anni avevano tanto atteso quella bambina. Nel giro di poche ore, vedevano tutti i loro sogni e desideri spezzati per sempre.
Ma i loro problemi non erano finiti, il sistema nervoso della piccola non era ancora sviluppato. Quindi qualunque carezza, bacio o abbraccio era pericoloso, i familiari sconsolati non potevano neanche trasmetterle il loro amore, dovevano evitare di toccarla.
Si presero per mano tutti e tre e pregarono, formando un piccolo cuore pulsante nell’immenso ospedale:
«Dio onnipotente, Signore della vita, fai tu quello che noi non possiamo fare: prenditi cura della piccola Diana, stringila al tuo petto, cullala tu e falle sentire tutto il nostro amore».
Diana era un batuffolo palpitante e lentamente cominciò a migliorare. Passavano le settimane e la piccola continuava a prendere peso e diventare più forte. Finalmente, quando Diana compì due mesi i suoi genitori poterono abbracciarla per la prima volta.
Cinque anni dopo, Diana era diventata una bambina serena che guardava verso il futuro con fiducia e con tanta voglia di vivere. Non c’erano segni di deficienza fisica o mentale, era una bambina normale vispa e piena di curiosità.
Ma non è questa la fine della storia.
Un caldo pomeriggio, in un parco non lontano da casa, mentre suo fratello giocava a calcio con gli amici, Diana era seduta in braccio della mamma. Come sempre chiacchierava felice, quando all’improvviso si zittì. Strinse le braccia come abbracciasse qualcuno e chiese alla mamma: «Lo senti?».
Sentendo nell’aria che si avvicinava la pioggia, la mamma rispose: «Sì. Profuma come quando sta per piovere».
Dopo un po’, Diana, alzò la testa e accarezzandosi le braccia esclamò: «No, profuma come Lui. Profuma come quando Dio ti abbraccia forte».
La mamma cominciò a piangere calde lacrime, mentre la bambina sgattaiolava verso le sue piccole amiche per giocare con loro.
Le parole della figlia avevano confermato ciò che la donna sapeva in cuor suo, da tanto tempo ormai. Durante tutto il periodo in ospedale, mentre lottava per la vita, Dio si era preso cura della piccola, abbracciandola così spesso che il suo profumo era rimasto impresso nella memoria di Diana.

In ogni bambino rimane il profumo di Dio. Perché abbiamo tutti tanta fretta di cancellarlo?




Un milione di bambini pregano il Rosario

“Se un milione di bambini pregherà il Rosario, il mondo cambierà” (San Pio da Pietrelcina – Padre Pio)

            Ogni anno, nel mese di ottobre, un’onda di preghiera si diffonde in tutto il mondo, unendo bambini di diverse nazionalità, culture e background in un unico, potente gesto di fede. Questa straordinaria iniziativa, intitolata “Un milione di bambini pregano il Rosario”, è diventata un appuntamento annuale atteso da molti, che incarna la speranza di un futuro migliore attraverso la preghiera e la devozione dei più giovani.

Origini e significato dell’iniziativa
           
L’idea di questa iniziativa è nata nel 2005 a Caracas, capitale del Venezuela, quando un gruppo di bambini si era riunito per pregare il Rosario di fronte a un’immagine della Santissima Vergine Maria. Molte delle donne ivi presenti hanno percepito fortemente la presenza della Vergine Maria, e si ricordarono della profezia di san Pio da Pietrelcina(Padre Pio): «Quando un milione di bambini pregherà il Rosario, il mondo cambierà». Quella frase, apparentemente semplice, esprimeva la profonda convinzione che la preghiera dei più piccoli ha una speciale capacità di toccare il cuore di Dio e influenzare positivamente il mondo.
Ispirate da questa esperienza e dalle parole di Padre Pio, queste donne decisero di trasformare quell’immagine in realtà. Iniziarono organizzando eventi di preghiera locali, invitando i bambini a recitare il Rosario. L’iniziativa crebbe rapidamente, superando i confini del Venezuela e diffondendosi in altri paesi dell’America Latina.
            Nel 2008, l’iniziativa attirò l’attenzione della Fondazione Pontificia “Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACS), un’organizzazione cattolica internazionale che sostiene la Chiesa in difficoltà in tutto il mondo. Riconoscendo il potenziale di questa campagna di preghiera, l’ACS decise di adottarla e promuoverla a livello globale, con l’intento di coinvolgere un milione di bambini nel recitare il Rosario, una delle preghiere più antiche e amate della tradizione cristiana cattolica.
            Sotto la guida dell’ACS, “Un milione di bambini pregano il Rosario” si è trasformata in un evento mondiale. Ogni anno, il 18 ottobre, bambini di tutti i continenti si uniscono in preghiera, recitando il Rosario per la pace e l’unità nel mondo. La data del 18 ottobre non è casuale: è il giorno in cui la Chiesa cattolica celebra la festa di San Luca evangelista, noto per la sua particolare attenzione alla Vergine Maria nei suoi scritti.

Il Rosario: preghiera mariana e simbolo di pace
           
Il Rosario è una preghiera molto antica, incentrata sulla riflessione sui misteri della vita di Gesù e di Maria, sua madre. Si compone di ripetizioni di preghiere come l’Ave Maria, il Padre Nostro e il Gloria al Padre, e permette ai fedeli di meditare sui momenti centrali del cammino di Cristo sulla terra. Questa pratica non è solo una forma di devozione individuale, ma ha una forte dimensione comunitaria e di intercessione, tanto che in molte apparizioni mariane, come quelle di Fatima e Lourdes, la Madonna ha espressamente chiesto ai bambini la recita del Rosario come mezzo per ottenere la pace nel mondo e la conversione dei peccatori.
            Il Rosario, essendo ripetitivo, permette anche a bambini piccoli, spesso incapaci di seguire preghiere complesse o letture lunghe, di partecipare attivamente e di comprendere il significato della preghiera. Attraverso il semplice atto di ripetere le parole dell’Ave Maria, i bambini si uniscono spiritualmente alla comunità globale dei fedeli, intercedendo per la pace e la giustizia nel mondo.

La dimensione spirituale e educativa
           
L’iniziativa si svolge ogni anno il 18 ottobre, anche se molti gruppi, parrocchie e scuole scelgono di prolungarla per tutto il mese, dedicato tradizionalmente alla Madonna del Rosario.
            Nel giorno dell’evento, i bambini si riuniscono in vari luoghi: scuole, chiese, case private o spazi pubblici. Spesso, i bambini vengono istruiti su come si recita il Rosario e sui significati spirituali dei vari misteri, in modo che possano partecipare con consapevolezza e fede. Sotto la guida di adulti – genitori, insegnanti o leader religiosi – i bambini recitano insieme il Rosario. Molte comunità organizzano eventi speciali intorno a questa preghiera, come canti, letture bibliche o brevi riflessioni adatte ai più giovani.
            Alcune parrocchie organizzano vere e proprie celebrazioni, durante le quali i bambini portano corone del Rosario fatte a mano o realizzate con materiali creativi, per esprimere la loro partecipazione in maniera attiva e coinvolgente. L’iniziativa si conclude con la celebrazione di una Santa Messa speciale dedicata alla Madonna del Rosario e alla pace nel mondo.
            “Un Milione di bambini pregano il Rosario” non è solo un momento di preghiera, ma anche un’opportunità educativa. Molte scuole e gruppi pastorali utilizzano questo evento per insegnare ai bambini i valori della pace, della solidarietà e della giustizia sociale. Attraverso il Rosario, i piccoli imparano l’importanza di affidare le loro preoccupazioni e le sofferenze del mondo a Dio, e comprendono che la pace comincia nei loro cuori e nelle loro famiglie.
            Inoltre, l’iniziativa cerca di far comprendere ai bambini l’universalità della Chiesa e della fede cristiana. Sapere che, contemporaneamente, migliaia di altri bambini in ogni parte del mondo stanno pregando la stessa preghiera crea un senso di comunità globale e di fraternità, che va oltre le barriere linguistiche, culturali e geografiche.

Il valore della preghiera dei bambini
           
La preghiera dei bambini è spesso vista come particolarmente potente nella tradizione cristiana, per la loro innocenza e purezza di cuore. Nella Bibbia, Gesù stesso invita i suoi discepoli a guardare ai bambini come esempio di fede: “In verità vi dico, se non cambierete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt. 18,3).
            I bambini, con il loro cuore aperto e sincero, sono capaci di pregare con una fiducia totale in Dio, senza dubbi o riserve. Questa fiducia e semplicità rendono la loro preghiera particolarmente efficace agli occhi di Dio. Inoltre, la preghiera dei bambini può avere un forte impatto anche sugli adulti, richiamandoli a una fede più pura e profonda.

L’impatto globale
           
Negli anni, “Un milione di bambini pregano il Rosario” ha visto una partecipazione crescente, coinvolgendo milioni di bambini in oltre 140 paesi. Nel 2023, oltre un milione di bambini si sono uniti in preghiera, pregando in particolare per la pace in Terra Santa e per altre intenzioni urgenti.
            L’evento ha anche attirato l’attenzione dei media in vari paesi, contribuendo a diffondere un messaggio di speranza e unità in un mondo spesso dominato da notizie negative. I social media sono diventati uno strumento importante per promuovere l’iniziativa e condividere esperienze. Hashtag come #MillionChildrenPraying e #ChildrenPrayingTheRosary sono diventati virali in molti paesi, creando un senso di comunità globale tra i partecipanti.
            L’iniziativa “Un milione di bambini pregano il Rosario” ha ricevuto il sostegno di molti leader della Chiesa cattolica, inclusi i Papi. Papa Francesco, in particolare, ha espresso più volte il suo apprezzamento per questa campagna, sottolineando l’importanza della preghiera dei bambini per la pace nel mondo.
            Al di là dell’ambito religioso, l’iniziativa ha attirato l’attenzione di educatori e psicologi, che hanno sottolineato i benefici di coinvolgere i bambini in attività che promuovono la riflessione, la compassione e un senso di connessione globale.

Obiettivi della Campagna
La campagna “Un milione di bambini pregano il Rosario” ha diversi obiettivi chiave:
Educazione Spirituale: Insegnare ai bambini l’importanza della preghiera e del Rosario come parte integrante della loro vita spirituale, per crescere nella fede.
Onorare la Vergine Maria: L’iniziativa rafforza la devozione mariana, elemento centrale della fede cattolica.
Imparare a pregare insieme: L’evento crea un senso di unità e solidarietà tra i partecipanti, superando barriere geografiche e culturali.
Promuovere la pace nel mondo: La preghiera dei bambini è vista come un potente strumento per invocare la pace in un mondo spesso afflitto da conflitti e divisioni.
Sensibilizzare sulle sfide globali: Attraverso la preghiera, i bambini vengono incoraggiati a riflettere sulle problematiche mondiali e sul loro ruolo nel creare un futuro migliore.

Come partecipare
Partecipare all’iniziativa è molto semplice. Basta:
Informarsi: Visitare il sito ufficiale di ACS per scaricare i materiali gratuiti, come locandine, storie illustrate e guide per la preghiera.
Organizzare un momento di preghiera: Scegliere un’ora per pregare il Rosario, il 18 di ottobre (o un altro giorno più vicino se non fosse possibile proprio il 18). Può essere fatto in gruppo o individualmente.
Coinvolgere i bambini: della propria famiglia, della scuola o della parrocchia in un momento di preghiera comune. Spiegare ai bambini l’importanza della preghiera e il significato del Rosario. Incoraggiarli a partecipare attivamente.
Iscriversi online: Registrare la propria partecipazione sul sito di ACS per far sentire la propria voce e contribuire a raggiungere l’obiettivo di un milione di bambini.
Condividere l’esperienza: Condividere foto, video e testimonianze sui social media utilizzando l’hashtag #MillionChildrenPraying. Questo aiuta a creare una comunità globale di preghiera.

“Un Milione di bambini pregano il Rosario” è un’iniziativa straordinaria che dimostra il potere della preghiera e l’importanza della fede. Attraverso la preghiera del Rosario, i bambini di tutto il mondo possono unirsi in una comunità globale di fede, portando speranza e pace. Uniamoci a loro in questa grande catena di preghiera e contribuiamo a costruire un mondo più bello.




Un sorriso all’aurora

Una toccante testimonianza di Raoul Follereau. Si trovava in un lebbrosario in un’isola del Pacifico. Un incubo di orrore. Solo cadaveri ambulanti, disperazione, rabbia, piaghe e mutilazioni orrende.
Eppure, in mezzo a tanta devastazione, un anziano malato conservava occhi sorprendentemente luminosi e sorridenti. Soffriva nel corpo, come i suoi infelici compagni, ma dimostrava attaccamento alla vita, non disperazione, e dolcezza nel trattare gli altri.
Incuriosito da quel vero miracolo di vita, nell’inferno del lebbrosario, Follereau volle cercarne la spiegazione: che cosa mai poteva dare tanta forza di vivere a quel vecchio così colpito dal male?
Lo pedinò, discretamente. Scoprì che, immancabilmente, allo spuntar dell’alba, il vecchietto si trascinava al recinto che circondava il lebbrosario, e raggiungeva un posto ben preciso.
Si metteva a sedere e aspettava.
Non era il sorgere del sole che aspettava. Né lo spettacolo dell’aurora del Pacifico.
Aspettava fino a quando, dall’altra parte del recinto, spuntava una donna, anziana anche lei, con il volto coperto di rughe finissime, gli occhi pieni di dolcezza.
La donna non parlava. Lanciava solo un messaggio silenzioso e discreto: un sorriso. Ma l’uomo si illuminava a quel sorriso e rispondeva con un altro sorriso.
Il muto colloquio durava pochi istanti, poi il vecchio si rialzava e trotterellava verso le baracche. Tutte le mattine. Una specie di comunione quotidiana. Il lebbroso, alimentato e fortificato da quel sorriso, poteva sopportare una nuova giornata e resistere fino al nuovo appuntamento con il sorriso di quel volto femminile.
Quando Follereau glielo chiese, il lebbroso gli disse: «è mia moglie!».
E dopo un attimo di silenzio: «Prima che venissi qui, mi ha curato in segreto, con tutto ciò che riusciva a trovare. Uno stregone le aveva dato una pomata. Lei tutti i giorni me ne spalmava la faccia, salvo una piccola parte, sufficiente per apporvi le sue labbra per un bacio… Ma tutto è stato inutile. Allora mi hanno preso, mi hanno portato qui. Ma lei mi ha seguito. E quando ogni giorno la rivedo, solo da lei so che sono ancora vivo, solo per lei mi piace ancora vivere».

Certamente qualcuno ti ha sorriso stamattina, anche se tu non te ne sei accorto. Certamente qualcuno aspetta il tuo sorriso oggi. Se entri in una chiesa e spalanchi la tua anima al silenzio, ti accorgerai che Dio, per primo, ti accoglie con un sorriso.




Dov’è nato don Bosco?

            Nel primo anniversario della morte di don Bosco i suoi Antichi Alunni vollero continuare a celebrare la Festa della Riconoscenza, come avevano fatto ogni anno al 24 giugno, organizzandola per il nuovo Rettor Maggiore, don Rua.
            Il 23 giugno del 1889, dopo aver posto una lapide-ricordo nella Cripta di Valsalice dove don Bosco era sepolto, il giorno 24 festeggiarono don Rua a Valdocco.
            Il prof. Alessandro Fabre, exallievo degli anni 1858-66, presa la parola, disse fra l’altro:
            «Non le sarà discaro di sapere, ottimo sig. don Rua, che abbiamo deciso di aggiungere come appendice l’inaugurazione pel 15 agosto prossimo venturo di un’altra lapide, di cui è già data la commissione e qui riprodotto il disegno, e che porremo sulla casa ove nacque e molti anni abitò il nostro caro don Bosco, perché rimanga segnalato ai contemporanei ed ai posteri il luogo dove prima palpitò per Dio e per gli uomini il cuore di quel Grande che del suo nome, delle sue virtù, delle sue istituzioni ammirabili doveva riempire più tardi l’Europa e il mondo».
            Come si vede, l’intenzione degli Antichi Alunni era di porre una lapide sulla Casetta dei Becchi, da tutti creduta la casa natia di don Bosco, perché egli l’aveva sempre indicata come la sua casa. Ma poi, trovando la Casetta in rovina, furono indotti a ritoccare la bozza dell’iscrizione e a collocare la lapide sulla vicina casa di Giuseppe con la seguente dicitura dettata dal Prof. Fabre stesso:
            L’11 agosto, pochi giorni prima del compleanno di don Bosco, gli Antichi Alunni si recarono ai Becchi per scoprire la lapide. Tenne il discorso d’occasione il Teol. Felice Reviglio, Curato di S. Agostino, uno dei primissimi allievi di don Bosco. Parlando della Casetta egli disse: «La casa stessa qui presso ove nacque, che è quasi del tutto rovinata…» è «un vero monumento dell’evangelica povertà di don Bosco».
            Della «completa rovina» della Casetta aveva già fatto cenno il Bollettino Salesiano nel marzo del 1887 (BS 1887, marzo, p. 31), e di tale situazione parlavano, evidentemente, don Reviglio e l’iscrizione sulla lapide («una casa ora demolita»). L’iscrizione copriva pietosamente il fatto increscioso che la Casetta, non ancora di proprietà salesiana, pareva ormai inesorabilmente perduta.
            Ma don Rua non si diede per vinto e nel 1901 si offerse di restaurarla a spese dei salesiani nella speranza di poterla poi ottenere dagli eredi di Antonio e Giuseppe Bosco, come avvenne nel 1919 e 1926 rispettivamente.
            A lavori ultimati una lapide fu posta sulla «Casetta» con l’iscrizione seguente: IN QUEST’UMILE CASETTA ORA PIAMENTE restaurata nacque don giovanni bosco il dì 16 agosto 1815
            Poi anche l’iscrizione sulla casa di Giuseppe venne così corretta: «Nato qui presso in una casa ora ristorata… ecc.», con relativa sostituzione della lapide.
            Quando poi, nel 1915 si celebrò il centenario della nascita di don Bosco, il Bollettino pubblicò la foto della Casetta, precisando: «E quella ove il 16 agosto 1815 nacque il Venerabile Giovanni Bosco. Essa fu salvata dalla rovina alla quale l’edacità del tempo l’aveva condannata, con una provvida riparazione generale, l’anno 1901».
            Negli anni ’70 le ricerche d’archivio compiute dal Comm. Secondo Caselle, convinsero i Salesiani che don Bosco era, sì, vissuto dal 1817 al 1831 alla Casetta acquistata da suo padre, casa sua quindi, come egli aveva sempre detto, ma era nato alla cascina Biglione, di cui il padre era massaro abitandovi con la famiglia, fino alla sua morte avvenuta l’11 maggio 1817, sul sommo del Colle ove ora sorge il Tempio a San Giovanni Bosco.
            La lapide sulla casa di Giuseppe era stata cambiata, mentre quella sulla Casetta venne sostituita dall’attuale iscrizione marmorea: questa è la mia casa Don Bosco
            Rimane così sfatata l’opinione recentemente espressa, secondo la quale gli Antichi Alunni, nel 1889, con le parole: «Nato qui presso in una casa ora demolita» non intendevano parlare della Casetta dei Becchi.

I toponimi dei Becchi
            Abitavano i Bosco alla Cascina Biglione quando nacque Giovanni?
            Qualcuno ha affermato che è permesso dubitarne, perché, quasi certamente abitavano, invece, in un’altra casa di proprietà Biglione al «Meinito». Prova ne sarebbe il Testamento di Francesco Bosco, stilato dal notaio C. G. Montalenti l’8 maggio del 1817, dove si legge: «…in casa del signor Biglione abitata dall’infrascritto testatore nella regione del Monastero borgata di Meinito…» (S. CASELLE, Cascinali e Contadini del Monferrato: i Bosco di Chieri nel secolo XVIII, Roma, LAS, 1975, p. 94).
            Che dire di questa opinione?
            Oggi «Meinito» (o «Mainito») è solo più il sito di una cascina posta a sud del Colle Don Bosco, al di là della strada provinciale che da Castelnuovo va in direzione di Capriglio, ma un tempo indicava un territorio più esteso, contiguo a quello chiamato Sbaraneo (o Sbaruau). E Sbaraneo non era altro che il vallone ad est del Colle.
«Monastero», poi, non corrispondeva solo all’attuale zona boschiva a ridosso del Mainito, ma copriva un’area molto vasta, dal Mainito alla Barosca, tanto è vero che la stessa «Casetta» dei Becchi venne registrata nel 1817 in «regione di Cavallo, Monastero» (S. CASELLE, o. c., p. 96).
            Quando non c’erano ancora mappe con lotti numerati, cascine e poderi venivano individuati a base di toponimi o nomi di luogo, derivati da cognomi di antiche famiglie o da caratteristiche geografiche e storiche.
            Essi servivano da punti di riferimento, ma non corrispondevano all’attuale significato di «regione» o «borgata» se non molto approssimativamente, e venivano usati con molta libertà di scelta da parte dei notai.
            La più antica Carta del Castelnovese, conservata nell’archivio comunale e gentilmente postaci a disposizione, risale al 1742 e viene chiamata «Carta napoleonica» probabilmente per il maggior uso fattone durante l’occupazione francese. Un estratto di questa mappa, curato nel 1978 con elaborazione fotografica del testo originale dai Sigg. Polato e Occhiena, che confrontarono i documenti d’archivio con i lotti numerati sulla Carta napoleonica, dà l’indicazione di tutti i terreni di proprietà dei Biglione sin dal 1773 e lavorati dai Bosco dal 1793 al 1817. Da questo «Estratto» risulta che i Biglione non possedevano alcun terreno o casa al Mainito. E d’altra parte non è sinora reperibile altro documento che provi il contrario.
            E allora che significato possono avere quelle parole «in casa del Signor Biglione… in regione Monastero borgata di Meinito»?
            Anzitutto è bene sapere che solo nove giorni dopo, lo stesso notaio che redasse il testamento di Francesco Bosco, scriveva nell’inventario della sua eredità: «…in casa del Signor Giacinto Biglione abitata degli infranominati pupilli [i figli di Francesco] regione di Meinito…» (S. CASELLE, o. c., p. 96), promuovendo così in pochi giorni Mainito da «borgata» a «regione». E poi è curioso constatare che anche la Cascina Biglione propriamente detta, in documenti diversi risulta a Sbaconatto, a Sbaraneo o Monastero, al Castellero, e chi più ne ha più ne metta.
            E allora come la mettiamo? Tenuto conto di tutto, non è difficile accorgersi che si tratta sempre della stessa zona, il Monastero, che al suo centro aveva come punti di riferimento Sbaconatto e Castellerò, ad est lo Sbaraneo, a sud il Mainito. Il notaio Montalenti scelse «Meinito» come altri scelsero «Sbaraneo» o «Sbaconatto» o «Castellero». Ma il sito e la casa erano sempre gli stessi!
            Sappiamo, inoltre, che i Sigg. Damevino, proprietari della Cascina Biglione dal 1845 al 1929, possedevano anche altre cascine, alla Scajota e alla Barosca; ma, come assicurano gli anziani del luogo, non possedettero mai case al Mainito. Eppure avevano acquistato le proprietà che i Biglione avevano venduto al Sig. Giuseppe Chiardi nel 1818.
            Non resta che concludere che il documento stilato dal notaio Montalenti l’8 maggio 1817, se pur non contiene errori, si riferisce alla Cascina Biglione propriamente detta, ove il 16 agosto 1815 nacque don Bosco, l’11 maggio 1817 morì suo padre e, ai giorni nostri, fu costruito il grandioso Tempio a san Giovanni Bosco.
            L’esistenza, infine, di una fantomatica casa dei Biglione abitata dai Bosco al Mainito e poi demolita non si sa quando né da chi né perché prima del 1889, come da qualcuno si è ipotizzato, non ha (almeno sinora) alcuna vera prova in suo favore. Gli stessi Antichi Alunni quando posero sulla lapide dei Becchi le parole «Nato qui presso…» (si veda il nostro articolo di gennaio) non potevano certo riferirsi al Mainito che dista oltre un chilometro dalla Casa di Giuseppe!

Cascine, massari e mezzadri
            Francesco Bosco, massaro della Cascina Biglione, desiderando mettersi in proprio, acquistò terreni e la casetta dei Becchi, ma la morte lo colse all’improvviso l’11 maggio 1817 prima di aver potuto pagare tutti i relativi debiti contratti. Nel novembre la vedova, Margherita Occhiena, si trasferì con i figli e la suocera nella «Casetta» fatta ristrutturare allo scopo. Prima di allora quella Casetta, già contrattata dal marito sin dal 1815 ma non ancora pagata, consisteva solo di «una crotta e stalla accanto, coperta a coppi, in cattivo stato» (S. CASELLE, Cascinali e contadini […], p. 96-97), e quindi inabitabile da una famiglia di cinque persone, con animali ed attrezzi da lavoro. Nel febbraio del 1817 era stato stilato l’atto notarile di vendita, ma il debito rimaneva ancora aperto. Margherita dovette risolvere la situazione come tutrice di Antonio, Giuseppe e Giovanni Bosco, ormai piccoli proprietari ai Becchi.
            Non era la prima volta che i Bosco passavano dalla condizione di massari a quella di piccoli proprietari e viceversa. Ce ne ha data ampia documentazione il compianto Comm. Secondo Caselle.
            Il trisavolo di don Bosco, Giovanni Pietro, già massaro alla Cascina Croce di Pane, tra Chieri e Andezeno, proprietà dei Padri Barnabiti, nel 1724 andò massaro alla Cascina di San Silvestro presso Chieri, appartenente alla Prevostura di San Giorgio. E che egli abitasse proprio nella Cascina di San Silvestro con i familiari risulta dai «Registri del Sale» del 1724. Suo nipote, Filippo Antonio, orfano di padre e preso in casa dal figlio maggiore di Giovanni Pietro, Giovanni Francesco Bosco, fu adottato da un pro-zio, da cui ereditò casa, giardino e 2 ettari di terreno a Castelnuovo. Ma, per la critica situazione economica in cui venne a trovarsi, dovette vendere la casa e gran parte delle sue terre e trasferirsi con la famiglia nella frazione Morialdo, come massaro della Cascina Biglione, ove morì nel 1802.
            Paolo, suo figlio di primo letto, divenne così il capo-famiglia e il massaro, come risulta dal censimento del 1804. Ma qualche anno dopo lasciò la cascina al fratellastro Francesco e andò a stabilirsi a Castelnuovo dopo essersi presa la sua parte di eredità e aver operato delle compra-vendite. Fu allora che Francesco Bosco, figlio di Filippo Antonio e di Margherita Zucca, divenne massaro della Cascina Biglione.
            Che cosa s’intendeva in quei luoghi per «cascina», per «massaro» e per «mezzadro»?
            La parola «cascina» (in piemontese: cassin-a) indica in sé una casa colonica o l’insieme di un’azienda agricola; ma nei luoghi di cui parliamo, l’accento era posto sulla casa, cioè sul caseggiato agricolo adibito in parte ad abitazione e in parte a rustico per l’allevamento del bestiame, ecc. Il «massaro» (in piemontese: massé) in sé è il conduttore della cascina e dei poderi, mentre il «mezzadro» (in piemontese: masoé) è solo il coltivatore di terre di un padrone con cui divide i raccolti. Ma in pratica in quei luoghi il massaro era anche mezzadro e viceversa, tanto che la parola massé non era gran ché usata, mentre masoé indicava generalmente anche il massaro.
            I Sigg. Damevino, proprietari della Cascina «Bion» o Biglione al Castellero dal 1845 al 1929, possedevano anche altre cascine, alla Scajota e alla Barosca e, come ci assicurò il sig. Angelo Agagliate, avevano 5 massari o mezzadri, uno alla Cascina Biglione, due alla Scajota e due alla Barosca. Naturalmente i vari massari abitavano nella cascina loro propria.
            Ora, se un contadino era massaro, ad es., della Cascina Scajota, proprietà dei Damevino, non lo si diceva «abitante in casa Damevino», ma semplicemente «alla Scajota». Se Francesco Bosco avesse abitato nella supposta casa dei Biglione al Mainito, non lo si sarebbe, quindi, detto, abitante «in casa del signor Biglione» anche se questa casa fosse ai Biglione appartenuta. Se il notaio scrisse: «In casa del signor Biglione abitata dall’infrascritto testatore» era segno che Francesco abitava con la famiglia alla Cascina Biglione propriamente detta.
            E questa è un’ulteriore conferma ai precedenti articoli che smentiscono l’ipotesi dalla nascita di don Bosco al Mainito «in una casa ora demolita».
            Concludendo, non si può dare esclusiva importanza al significato letterale di certe espressioni, ma occorre vagliarne il vero senso nell’uso locale del tempo. In studi di questo genere il lavoro del ricercatore locale è complementare a quello dello storico accademico, e particolarmente importante, perché il primo, favorito dalla conoscenza dettagliata del territorio, può fornire al secondo, il materiale occorrente per le sue conclusioni generali, ed evitargli erronee interpretazioni.




Figli di famiglia

Riscoprire il grande valore della vicinanza, dell’amicizia, della gioia semplice nella vita di tutti i giorni, il valore della condivisione, del parlare e del comunicare.

Scrivo queste righe, cari amici di Don Bosco e del suo prezioso carisma, guardando la bozza del Bollettino Salesiano del mese di settembre. Il mio saluto è l’ultima cosa che viene inserita: sono l’ultimo a scrivere, in funzione del contenuto del mese. Proprio come faceva don Bosco.
In questo mese, in occasione dell’inizio dell’anno accademico nelle scuole, negli oratori, mi fa piacere vedere che i messaggi hanno un sapore così missionario (e per questo si parla di Filippine e Papua Nuova Guinea), e anche la semplicità di una “missione salesiana” con il sapore locale della casa di Saluzzo.
La lettura del bollettino mi fa apprezzare qualcosa che è molto nostro, molto salesiano, e che sono certo fa piacere a tanti di voi: mi riferisco al grande valore della vicinanza, dell’amicizia, della gioia semplice nella vita di tutti i giorni, il valore della condivisione, del parlare e del comunicare. Il grande dono di avere amici, di sapere che non si è soli. Il sentirsi amati da tante brave persone nella nostra vita.
E pensando a tutto questo, mi è venuta in mente una testimonianza sincera e molto onesta di una giovane donna che ha scritto a padre Luigi Maria Epicoco e che lui ha pubblicato nel suo libro La luce in fondo. È una testimonianza che vorrei farvi conoscere perché la considero l’antitesi di ciò che cerchiamo di costruire ogni giorno in ogni casa salesiana. Questa giovane donna sente, in un certo senso, che non c’è successo o realizzazione se manca il più umano degli incontri, delle belle relazioni umane, e questo anno scolastico che stiamo iniziando ci riporta a tutto questo.
Questa giovane donna scrive di sé: «Caro Padre, ti scrivo perché vorrei che tu mi aiutassi a capire se la nostalgia che provo in questi mesi dice che sono strana o che è cambiato qualcosa di importante per me. Ti sarà utile forse che ti racconti un po’ di me. Ho deciso di andare via da casa che avevo appena diciott’anni. Era un modo per evadere da un ambiente che mi sembrava così stretto, così soffocante per i miei sogni. E così sono arrivata a Milano in cerca di lavoro. La mia famiglia non poteva mantenermi agli studi. Anche per questo ero arrabbiata con loro. Tutte le mie amiche erano prese dalla foga di scegliere una facoltà. Io non avevo nessuna scelta perché nessuno mi avrebbe potuto mantenere. Ho cercato un lavoro per vivere e ho sognato per anni la possibilità di studiare. Ci sono riuscita e con immensi sacrifici mi sono laureata. Il giorno della mia laurea non volli che la mia famiglia partecipasse. Pensavo che dei contadini con la sola scuola media non avrebbero capito un bel nulla dei miei studi. Comunicai solo a mia madre che era andato tutto bene, e sentii le sue lacrime che per un istante mi svegliarono a un senso di colpa che non avevo mai provato. Ma fu questione di poco. Io mi sono realizzata con le mie sole forze e non ho mai potuto e voluto fare affidamento su nessuno. Anche al lavoro ho fatto carriera perché ho scelto di allearmi con me stessa.
Ho passato anni così. E non capisco perché solo adesso, nel cuore del lockdown di questa pandemia, mi è scoppiata dentro una nostalgia della mia famiglia. Sogno di raccontare loro tutto quello che non gli ho mai detto. Sogno di abbracciare mio padre. Di notte mi sveglio e mi domando se si può vivere una vita emancipandosi da alcune relazioni così significative. Anche le storie che ho avuto in questi anni, non ho mai permesso che varcassero il confine della vera intimità. Ma ora mi sembra tutto così diverso. Ora che non posso scegliere di uscire da casa, o andare da chi reputo importante, mi sono ridestata alla consapevolezza della grande menzogna dentro cui ho vissuto tutto questo tempo.
Chi siamo noi senza relazioni? Forse solo degli infelici in cerca di affermazioni. Ora ho capito che tutto quello che ho fatto, in realtà, l’ho fatto perché speravo che qualcuno mi dicesse chi ero davvero. Ma gli unici che potevano aiutarmi a rispondere a questa domanda li ho tagliati fuori chiudendo le relazioni. E ora loro rischiano la vita, a centinaia di chilometri da me. Se dovessi morire vorrei essere con loro e non con i miei successi».

Una gioia condivisa
Apprezzo l’onestà e il coraggio di questa giovane donna che mi ha fatto riflettere molto sulla nostra realtà odierna. Mi ha fatto riflettere sullo stile di vita che si stanno vivendo in tante famiglie in cui l’importante è avere dei buoni risultati, raggiungere una buona situazione economica, riempire le nostre giornate di cose da fare in modo che tutto sia redditizio, ecc.… ma paghiamo prezzi molto alti per vivere sempre, e sempre di più, non fuori casa ma fuori da noi stessi. C’è il pericolo di vivere senza centro, cioè “fuori centro”. E credetemi, cari amici, non potete immaginare quanto questo si noti soprattutto nei ragazzi e nelle ragazze delle nostre case, dei nostri cortili e dei nostri oratori.
Il secondo successore di don Bosco, don Paolo Albera ricorda: «Don Bosco educava amando, attirando, conquistando e trasformando.  Ci avvolgeva tutti e interamente quasi in un’atmosfera di contentezza e di felicità, da cui erano bandite pene, tristezze, malinconie… Ascoltava i ragazzi colla maggior attenzione come se le cose da loro esposte fossero tutte molto importanti».
Il primo piacere della vita è essere felici insieme: «Una gioia condivisa è doppia». La parola d’ordine dell’educatore è «Io sto bene con voi». Una presenza che è intensità di vita.
Racconta un biografo di don Bosco, don Ceria, che un alto prelato dopo una visita a Valdocco dichiarò: «Voi avete una gran fortuna in casa vostra, che nessun altro ha in Torino e che neppure hanno altre comunità religiose. Avete una camera, nella quale chiunque entri pieno di afflizione, se ne esce raggiante di gioia».  Don Lemoyne annotò a matita: «E mille di noi han fatto la prova».
Un giorno don Bosco disse: «Fra noi i giovani adesso sembrano altrettanti figli di famiglia, tutti padroncini di casa; fanno propri gl’interessi della Congregazione. Dicono la nostra chiesa, il nostro collegio qualunque cosa riguardi i Salesiani, la chiamano nostra».
Ecco perché questo nuovo anno è un’occasione per prendersi cura e per prendersi cura di noi stessi in ciò che è più essenziale e più importante. Per la nostra famiglia.




Il miracolo

Questa è la storia vera di una bambina di otto anni che sapeva che l’amore può fare meraviglie. Il suo fratellino era destinato a morire per un tumore al cervello. I suoi genitori erano poveri, ma avevano fatto di tutto per salvarlo, spendendo tutti i loro risparmi.

Una sera, il papà disse alla mamma in lacrime: “Non ce la facciamo più, cara. Credo sia finita. Solo un miracolo potrebbe salvarlo”.
La piccola, con il fiato sospeso, in un angolo della stanza aveva sentito.
Corse nella sua stanza, ruppe il salvadanaio e, senza far rumore, si diresse alla farmacia più vicina. Attese pazientemente il suo turno. Si avvicinò al bancone, si alzò sulla punta dei piedi e, davanti al farmacista meravigliato, posò sul banco tutte le monete.
“Per cos’è? Che cosa vuoi piccola?”.
“È per il mio fratellino, signor farmacista. È molto malato e io sono venuta a comprare un miracolo”.
“Che cosa dici?” borbottò il farmacista.
“Si chiama Andrea, e ha una cosa che gli cresce dentro la testa, e papà ha detto alla mamma che è finita, non c’è più niente da fare e che ci vorrebbe un miracolo per salvarlo. Vede, io voglio tanto bene al mio fratellino, per questo ho preso tutti i miei soldi e sono venuta a comperare un miracolo”.
Il farmacista accennò un sorriso triste.
“Piccola mia, noi qui non vendiamo miracoli”.
“Ma se non bastano questi soldi posso darmi da fare per trovarne ancora. Quanto costa un miracolo?”.

C’era nella farmacia un uomo alto ed elegante, dall’aria molto seria, che sembrava interessato alla strana conversazione.
Il farmacista allargò le braccia mortificato. La bambina, con le lacrime agli occhi, cominciò a recuperare le sue monetine. L’uomo si avvicinò a lei.
“Perché piangi, piccola? Che cosa ti succede?”.
“Il signor farmacista non vuole vendermi un miracolo e neanche dirmi quanto costa… È per il mio fratellino Andrea che è molto malato. Mamma dice che ci vorrebbe un’operazione, ma papà dice che costa troppo e non possiamo pagare e che ci vorrebbe un miracolo per salvarlo. Per questo ho portato tutto quello che ho”.
“Quanto hai?”.
“Un dollaro e undici centesimi… Ma, sapete…” Aggiunse con un filo di voce, “posso trovare ancora qualcosa…”.
L’uomo sorrise “Guarda, non credo sia necessario. Un dollaro e undici centesimi è esattamente il prezzo di un miracolo per il tuo fratellino!”. Con una mano raccolse la piccola somma e con l’altra prese dolcemente la manina della bambina.
“Portami a casa tua, piccola. Voglio vedere il tuo fratellino e anche il tuo papà e la tua mamma e vedere con loro se possiamo trovare il piccolo miracolo di cui avete bisogno”.
Il signore alto ed elegante e la bambina uscirono tenendosi per mano.

Quell’uomo era il professor Carlton Armstrong, uno dei più grandi neurochirurghi del mondo. Operò il piccolo Andrea, che poté tornare a casa qualche settimana dopo completamente guarito.

“Questa operazione” mormorò la mamma “è un vero miracolo. Mi chiedo quanto sia costata…”.
La sorellina sorrise senza dire niente. Lei sapeva quanto era costato il miracolo: un dollaro e undici centesimi…. più, naturalmente l’amore e la fede di una bambina.

Se aveste almeno una fede piccola come un granello di senape, potreste dire a questo monte: “Spostati da qui a là e il monte si sposterà”. Niente sarà impossibile per voi (Vangelo di Matteo 17,20).




La cicogna e i suoi doveri

La cicogna bianca (Ciconia ciconia) è un uccello grande, inconfondibile per il suo becco affusolato rosso, per il lungo collo, per le zampe lunghissime, per il candido piumaggio prevalentemente bianco, con penne nere sulle ali. È migratorio per natura, e il suo arrivo in primavera in molti paesi d’Europa è considerato di buon augurio.

Sin dall’arrivo, questi uccelli iniziano a farsi o rifarsi il nido, in posti alti, tantissime volte nello stesso posto.

Nel passato, quando non esistevano i pali di sostegno della rete elettrica, i posti più alti erano i camini coperti delle case, ed erano preferiti dalle cicogne quelli più caldi. E le case che si riscaldavano anche nella primavera erano quelle dove un neonato era bisognoso di un ambiente propizio. Di qui la leggenda della cicogna che porta i bambini, leggenda che è diventata un simbolo. Infatti anche oggi, sui biglietti di auguri alle neomamme, è presente una cicogna in volo, con un fagottino legato al becco.

Il Creatore ha dotato le cicogne di istinti superiori, facendo di loro nobili volatili. E sono così fedeli al compito assegnato loro per natura che meritano di essere messe tra le prime nel “libro della creazione”.

La prima cosa che colpisce è che sono tendenzialmente monogame: una volta formata la coppia, restano assieme per tutta la vita. Sicuramente ci saranno nella loro esistenza anche i battibecchi, però questi non portano mai alla separazione.

Quasi sempre tornano allo stesso nido, rifacendolo e arricchendolo. Non si stancano mai di ripararlo ogni anno e di migliorarlo, anche se questo richiede impegno e fatica. E il nido è sempre in alto, sui camini, sui pali elettrici o i campanili, perché vogliono proteggere la loro prole dagli animali selvatici.

Anche se nessuno ha insegnato loro, riescono a costruire stupendi nidi che possono superare due metri di diametro con rametti e anche con altri materiali che trovano alla loro portata di volo, perfino con materiali tessili e plastiche; non distruggono la natura, ma riciclano.

La femmina depone da tre fino a sei uova, non preoccupandosi di come potrà sostenere i suoi piccoli. Una volta deposte le uova, non trascura mai il suo dovere di covarle, anche se deve affrontare brutti periodi. Se i nidi sono vicini alle strade, il rumore continuo delle macchine, le vibrazioni provocate dai mezzi pesanti o le loro luci abbaglianti nella notte non le fa andare via. Quando fa un caldo torrido, quando il sole diventa scottante, la cicogna apre un po’ le sue ali o si muove ogni tanto per rinfrescarsi, ma non cerca di mettersi all’ombra. Quando fa freddo, specialmente di notte, fa di tutto per non lasciare troppo all’esterno le sue uova. Quando viene un forte vento non si lascia trascinare e fa di tutto per restare ferma. Quando piove, non si mette al riparo per difendersi dall’acqua. E quando viene anche una grandinata, resiste stoicamente correndo il rischio di perdere la vita, ma non smette di fare il suo dovere.

Ed è meraviglioso questo comportamento se ci ricordiamo gli istinti basici che il Creatore ha lasciato ad ogni essere vivente. Anche negli organismi più elementari, quelli unicellulari, troviamo quattro istinti fondamentali: nutrizione, escrezione, conservazione dell’individuo (autodifesa) e conservazione della specie (la riproduzione). E quando un organismo deve scegliere se dare priorità a uno di questi istinti, prevale sempre quello della conservazione dell’individuo, dell’autodifesa.

Nel caso della cicogna, il fatto che resti ferma a proteggere le uova anche nelle tempeste, anche quando si abbatte una grandinata che mette in pericolo la sua vita, mostra che l’istinto della conservazione della specie diventa più forte di quello della conservazione dell’individuo. È come se questo uccello avesse coscienza che il liquido di quelle uova non è un prodotto generato dal quale si può separare, ma che dentro l’uovo ci sia una vita che lei deve ad ogni costo proteggere.

La covata la porta avanti alternandosi con il maschio, che non disdegna di dare un cambio alla sua consorte per permetterle di procurarsi il cibo e fare un po’ di movimento. E questo per tutto il tempo, poco più di un mese, fino quando si schiudono le uova e le nuove creature vengono alla luce. Dopo questo periodo, i genitori continuano a darsi il cambio per assicurare ai piccoli un posto caldo, per nutrirli per altri due mesi fino a quando cominciano a lasciare il nido. E fino a tre settimane li nutrono con cibo rigurgitato perché i loro piccoli non sono in grado di nutrirsi diversamente. Si accontentano di quello che trovano: insetti, rane, pesci, roditori, lucertole, serpenti, crostacei, vermi ecc.; non hanno pretese per nutrirsi. E riuscendo a soddisfare questa necessità di alimentarsi, partecipano all’equilibrio naturale, riducendo i parassiti agricoli, come le cavallette.

Assicurano la sopravvivenza dei loro pulcini difendendoli dai passeri rapaci, come i falchi e le aquile, perché sanno che non sono capaci di riconoscere gli aggressori e neanche di difendere sé stessi, e lo fanno al loro posto.

I piccoli, una volta cresciute le ali, imparano a volare e a cercarsi il nutrimento, e a poco a poco abbandonano il loro nido, come se avessero consapevolezza che non c’è neanche spazio fisico per loro, avendo il nido dimensioni limitate. Non vivono pesando sui loro genitori, ma si danno da fare. Sono uccelli non possessivi; non marcano il loro territorio, ma convivono tranquillamente con gli altri.

In questo modo, le giovani cicogne cominciano a vivere come adulte, anche se non lo sono ancora, e non a fare le adulte. Infatti, per cominciare a riprodursi devono aspettare il loro tempo, fino ai 4 anni di età, quando unendosi in coppia con un altro uccello della stessa indole, ma dell’altro sesso, cominciano l’avventura della loro vita. Per questo dovranno imparare che per sopravvivere devono migrare anche per lunghissime distanze, facendo fatica, cercando le loro opportunità di vita in un luogo durante l’estate e in un altro durante l’inverno. E per farlo in sicurezza dovranno associarsi alle altre cicogne, che hanno la stessa natura e interesse.

Gli istinti di queste creature non sono sfuggiti all’osservazione umana. Fin dai tempi antichi la cicogna è stata il simbolo dell’amore tra i genitori e i figli. Ed è l’uccello che meglio rappresenta il legame antico tra l’uomo e la natura.

La cicogna bianca ha un carattere mite e per questo è amata dall’uomo ed è ben vista ovunque; l’Abbazia di Chiaravalle l’ha voluta perfino nel suo stemma accanto al baculo pastorale e la mitra.

Oggi è difficile vederla nella natura. Non capita spesso di vedere un nido di cicogne e ancor meno da vicino. Ma qualcuno ha avuto l’idea di usare la tecnologia per mostrare la vita di questi uccelli, posizionando una videocamera con trasmissione live accanto a un nido su una strada. Guardare per imparare. Il “libro della natura” ha tante cose da insegnarci…


cicogna




Il figlio più intelligente

Molto tempo fa c’era un uomo che aveva tre figli ai quali voleva molto bene. Non era nato ricco, ma con la sua saggezza e il duro lavoro era riuscito a risparmiare un bel po’ di soldi e a comprare un fertile podere.
Quando divenne vecchio, cominciò a pensare a come dividere tra i suoi figli ciò che possedeva. Un giorno, quando ormai era molto vecchio e malato, decise di fare una prova per capire quale dei suoi figli fosse il più intelligente.
Chiamò allora i tre figli al suo capezzale.
Diede a ciascuno cinque soldi e chiese loro di comprare qualcosa che riempisse la sua stanza, che era vuota e spoglia.
Ciascuno dei figli prese i soldi e uscì per esaudire il desiderio del padre.
Il figlio più grande pensò che fosse un lavoro facile. Andò al mercato e comprò un fascio di paglia, ossia la prima cosa che gli capitò sotto gli occhi. Il secondo figlio, invece, rifletté per qualche minuto. Dopo aver girato tutto il mercato e aver cercato in tutti i negozi, comprò delle bellissime piume.
Il figlio più piccolo considerò per un lungo tempo il problema. «Cosa c’è che costa solo cinque soldi e può riempire una stanza?» si chiedeva. Solo dopo molte ore passate a pensare e ripensare, trovò qualcosa che faceva al suo caso, e il suo volto si illuminò. Andò in un piccolo negozio nascosto in una stradina laterale e comprò, con i suoi cinque soldi, una candela e un fiammifero. Tornando a casa era felice e si domandava cosa avessero comprato i suoi fratelli.
Il giorno seguente, i tre figli si riunirono nella stanza del padre. Ognuno portò il suo regalo, l’oggetto che doveva riempire una stanza. Per primo il figlio grande sparse la sua paglia sul pavimento, ma purtroppo questa riempì solo un piccolo angolo. Il secondo figlio mostrò le sue piume: erano molto graziose, ma riempirono appena due angoli.
Il padre era molto deluso degli sforzi dei suoi due figli maggiori.
Allora il figlio più piccolo si mise al centro della stanza: tutti gli altri lo guardavano incuriositi chiedendosi: «Cosa può aver comprato?».
Il ragazzo accese la candela con il fiammifero e la luce di quel l’unica fiamma si diffuse per la stanza e la riempì.
Tutti sorrisero.
Il vecchio padre fu felice del regalo del figlio più piccolo. Gli diede tutta la sua terra e i suoi soldi, perché aveva capito che quel ragazzo era abbastanza intelligente da farne buon uso e si sarebbe preso saggiamente cura dei suoi fratelli.

Con un sorriso puoi illuminare il mondo, oggi. E non costa nulla.