Le lotterie: autentiche imprese

Don Bosco non fu soltanto un instancabile educatore e pastore di anime, ma anche un uomo di straordinaria intraprendenza, capace di inventare soluzioni nuove e coraggiose per sostenere le sue opere. Le necessità economiche dell’Oratorio di Valdocco, in continua espansione, lo spinsero a cercare mezzi sempre più efficaci per garantire vitto, alloggio, scuola e lavoro a migliaia di ragazzi. Tra questi, le lotterie rappresentarono una delle intuizioni più ingegnose: vere imprese collettive, che coinvolgevano nobili, sacerdoti, benefattori e semplici cittadini.Non era semplice, poiché la legislazione piemontese regolava con rigore le lotterie, consentendone l’organizzazione ai privati solo in casi ben definiti. E non si trattava soltanto di raccogliere fondi, ma di creare una rete di solidarietà che univa la società torinese intorno al progetto educativo e spirituale dell’Oratorio. La prima, nel 1851, fu un’avventura memorabile, ricca di imprevisti e successi.

            Il tanto denaro che è giunto nelle mani di don Bosco vi è rimasto per poco, perché subito impiegato nel dare vitto, alloggio, scuola e lavoro a decine di migliaia di ragazzi o nel costruire collegi, orfanotrofi e chiese o nel sostenere le missioni sudamericane. I suoi conti, si sa, erano sempre in rosso; i debiti lo hanno accompagnato tutta la vita.
            Ora fra i mezzi intelligentemente adottati da don Bosco per finanziare le sue opere si possono di certo collocare le lotterie: una quindicina quelle da lui organizzate, fra piccole e grandi. La prima, modesta, fu quella di Torino nel 1851 a favore della chiesa di san Francesco di Sales in Valdocco e l’ultima, grandiosa, a metà degli anni ottanta, fu quella per sopperire alle immense spese della chiesa e dell’ospizio del S. Cuore presso la stazione Termini di Roma.
            Una vera storia di tali lotterie non è ancora stata scritta, benché al riguardo non manchino le fonti. Solo in riferimento alla prima, quella del 1851, ne abbiamo recuperato noi stessi una dozzina di inedite. Con esse ne ricostruiamo la tormentata storia in due puntate.

Domanda di autorizzazione
            A norma di legge del 24 febbraio 1820 – modificata da Regie Patenti del gennaio 1835 e da Istruzioni dell’Azienda Generale delle Regie Finanze in data 24 agosto 1835 e successivamente da Regie Patenti del 17 luglio 1845 – per qualunque lotteria nazionale (Regno di Sardegna) si richiedeva la preventiva autorizzazione governativa.
            Per don Bosco si trattò anzitutto di avere la morale certezza di riuscire nel progetto. La ebbe dall’appoggio economico e morale dei primissimi benefattori: le nobili famiglie Callori e Fassati ed il canonico Anglesio del Cottolengo. Si lanciò dunque in quella che sarebbe risultata un’autentica impresa. In tempi brevi riuscì a costituire una Commissione organizzatrice, composta inizialmente da sedici note personalità, poi accresciuta fino a venti. Fra loro numerose autorità civili ufficialmente riconosciute, come un senatore (nominato tesoriere), due vicesindaci, tre consiglieri comunali; poi sacerdoti di prestigio come i teologi Pietro Baricco, vicesindaco e segretario della Commissione, Giovanni Borel cappellano di corte, Giuseppe Ortalda, direttore di Opera Pia di Propaganda Fide, Roberto Murialdo, cofondatore del collegio degli Artigianelli e dell’Associazione di carità; infine uomini esperti come un ingegnere, un orefice stimatore, un negoziante all’ingrosso ecc. Tutte persone, per lo più possidenti, conosciute da don Bosco e “vicine” all’opera di Valdocco.
            Completata la Commissione, ad inizio dicembre 1851 don Bosco inoltrò la domanda formale all’Intendente generale di Finanza, cavalier Alessandro Pernati di Momo (futuro senatore e ministro dell’Interno del Regno) nonché “amico” dell’opera di Valdocco.

L’appello per i doni
            Alla richiesta di autorizzazione allegò un’interessantissima circolare, in cui, dopo aver tracciato una commovente storia dell’Oratorio – apprezzato dalla famiglia reale, dalle autorità di governo, dalle autorità municipali – indicava che le continue necessità di ampiamento dell’Opera di Valdocco per accogliere sempre più giovani consumavano le risorse economiche della beneficenza privata. Perciò al fine di pagare le spese del completamento della nuova cappella in costruzione, si era presa la decisione di far appello alla pubblica carità mediante una lotteria di doni da offrire spontaneamente: “Consiste questo mezzo in una lotteria d’oggetti, che i sottoscritti vennero in pensiero d’intraprendere per sopperire alle spese di ultimazione della nuova cappella, ed a cui la signoria vostra vorrà, non vi ha dubbio, prestare il suo concorso, riflettendo all’eccellenza dell’opera cui è diretta. Qualunque oggetto piaccia alla signoria vostra offrire o di seta, o di lana, o di metallo, o di legno, ossia lavoro di riputato artista, o di modesto operaio, o di laborioso artigiano, o di caritatevole gentildonna, tutto sarà accettato con gratitudine, perché in fatto di beneficenza ogni piccolo aiuto è gran cosa, e perché le offerte anche tenui di molti insieme riunite possono bastare a compir l’opera desiderata”.
            Nella circolare indicò pure i nomi dei promotori e promotrici, cui si potevano consegnare i doni e delle persone di fiducia che li avrebbero poi raccolti e custoditi. Fra i 46 promotori figuravano varie categorie di persone: professionisti, professori, impresari, studenti, chierici, negozianti, mercanti, sacerdoti; diversamente fra la novantina di promotrici sembra prevalessero le nobildonne (baronessa, marchesa, contessa e relative damigelle).
            Non mancò di allegare alla domanda pure il “piano della lotteria” in tutti i suoi molteplici aspetti formali: raccolta degli oggetti, ricevuta di consegna degli stessi, loro valutazione, biglietti autenticati da smerciare in numero proporzionato al numero e valore degli oggetti, loro esposizione al pubblico, estrazione dei vincitori, pubblicazione dei numeri estratti, tempi di ritiro dei premi ecc. Una serie di impegnativi adempimenti cui don Bosco non si sottrasse. Per i suoi giovani non bastava più la cappella Pinardi: ci voleva una chiesa più grande, quella, progettata, di san Francesco di Sales (una dozzina di anni dopo ce ne sarebbe voluta un’altra ancora più grande, quella di Maria Ausiliatrice!).

Risposta positiva
            Vista la serietà dell’iniziativa e l’alta “qualità” dei membri della Commissione proponente, la risposta dell’Intendenza non poté che essere positiva ed immediata. Il 17 dicembre il suddetto vicesindaco Pietro Baricco trasmise a don Bosco il relativo decreto, con l’invito a trasmettere sempre in copia i futuri atti formali della lotteria all’Amministrazione comunale, responsabile delle regolarità di tutti gli adempimenti di legge. A questo punto prima di Natale don Bosco mandò alle stampe la suddetta circolare, la diffuse ed incominciò a raccogliere doni.
            Gli erano stati concessi due mesi di tempo al riguardo, in quanto durante l’anno avevano luogo anche altre lotterie. I doni arrivavano però lentamente, per cui a metà gennaio don Bosco si vide costretto a ristampare la predetta circolare e chiese la collaborazione a tutti i giovani di Valdocco ed agli amici per scrivere indirizzi, fare visita a benefattori conosciuti, propagandare l’iniziativa, raccogliere i doni.
            Ma “il bello” doveva ancora venire.

Il salone espositivo
            Valdocco non aveva spazi per l’esposizione dei doni, per cui don Bosco domandò al vicesindaco Baricco, tesoriere della commissione per la lotteria, di chiedere al Ministero della guerra, tre stanze di quella parte del Convento di san Domenico che era a disposizione dell’esercito. I padri domenicani erano d’accordo. Il ministro Alfonso Lamarmora in data 16 gennaio le concesse. Ma ben presto don Bosco si rese conto che non sarebbero state sufficientemente ampie, per cui fece chiedere al re, tramite l’elemosiniere, abate Stanislao Gazzelli, un locale più grande. Dal sovraintendente reale Pamparà gli venne risposto che il re non disponeva di locale adatto e proponeva di affittare a sue spese il locale del gioco del Trincotto (o pallacorda: una sorta di tennis a mano ante litteram). Questo locale però sarebbe stato disponibile per il solo mese di marzo e a certe condizioni. Don Bosco rifiutò la proposta ma accettò le 200 lire offerte dal re per il fitto del locale. Messosi allora alla ricerca di altro salone, ne trovò uno adatto su indicazione del municipio cittadino, dietro la chiesa di S. Domenico, a poche centinaia di metri da Valdocco.

Arrivo dei doni
            Nel frattempo don Bosco aveva chiesto al ministro delle Finanze, il famoso conte Camillo Cavour, una riduzione o l’esenzione delle spese di spedizione delle lettere circolari, dei biglietti e degli stessi doni. Tramite il fratello del conte, il religiosissimo marchese Gustavo di Cavour, ricevette il consenso per varie riduzioni postali.
            Si trattava ora di trovare un perito per la valutazione dell’ammontare dei doni e il conseguente numero dei biglietti da smerciare. Don Bosco lo chiese all’Intendente suggerendone anche il nome: un orefice membro della Commissione. L’Intendente, invece, tramite il sindaco gli rispose chiedendogli una doppia copia descrittiva dei doni arrivati onde nominare un proprio perito. Don Bosco eseguì subito la richiesta e così il 19 febbraio il perito valutò in 4124,20 lire i 700 oggetti raccolti. Dopo tre mesi si arrivò a 1000 doni, dopo quattro a 2000, sino alla conclusione di 3251 doni, grazie al continuo “questuare di don Bosco” presso singoli, sacerdoti e vescovi e alle sue ripetute richieste formali al Comune di proroga del tempo per l’estrazione. Don Bosco non mancò neppure di criticare la stima fatta dal perito comunale dei doni che continuamente arrivavano, a suo dire, inferiore all’effettivo loro valore; ed in effetti vennero aggiunti altri estimatori, soprattutto un pittore per le opere d’arte.
            La cifra finale fu tale che don Bosco fu autorizzato ad emettere 99 999 biglietti al prezzo di 50 centesimi l’uno. Al catalogo già stampato con i doni numerati con nome del donatore e dei promotori e promotrici si aggiunse un supplemento con gli ultimi doni arrivati. Fra loro quelli del papa, del re, della regina madre, della regina consorte, deputati, senatori, autorità municipali ma anche tantissime persone umili, soprattutto donne che offrirono oggetti e suppellettili per la casa, anche di poco valore (bicchiere, calamaio, candela, caraffa, cavatappi, cuffia, ditale, forbici, lampada, metro, pipa, portachiavi, saponetta, temperino, zuccheriera). Il dono più offerto furono i libri, ben 629 e i quadri-quadretti, 265. Pure i ragazzi di Valdocco andarono a gara ad offrire il loro piccolo dono, magari un libretto regalato loro da don Bosco stesso.

Un lavoro immane fino all’estrazione dei numeri
            A questo punto bisognava stampare i biglietti in serie progressiva in duplice forma (piccola matrice e biglietto), farli firmare entrambi da due membri della commissione, spedire il biglietto tenendone nota, documentare il denaro incassato… A molti benefattori si inviavano decine di biglietti, con l’invito a tenerli o a smerciarli presso amici e conoscenti.
            La data dell’estrazione, inizialmente fissata per il 30 aprile, fu rinviata al 31 maggio e quindi al 30 giugno, per effettuarlo poi a metà luglio. Quest’ultima proroga fu dovuta allo scoppio della polveriera di Borgo Dora che devastò l’area di Valdocco.
            Per due pomeriggi, 12-13 luglio 1852, sul balcone del palazzo municipale si procedette all’estrazione dei biglietti. Quattro urne a ruota di diverso colore contenevano 10 pallottole (da 0 a 9) identiche e dello stesso colore della ruota. Inserite ad una ad una dal vicesindaco nelle urne, e fatte girare, otto giovani dell’Oratorio compivano l’operazione ed il numero estratto veniva proclamato ad alta voce e poi pubblicato sulla stampa. Molti doni furono lasciati all’Oratorio, dove furono successivamente riutilizzati.

Valeva la pena?
            Per i circa 74 mila biglietti venduti, tolte le spese, a don Bosco restarono circa 26.000 lire, che poi provvide a suddividere equamente con l’attigua opera Cottolengo. Un piccolo capitale certo (la metà del prezzo di acquisto della casetta Pinardi l’anno precedente), ma il risultato più grande del lavoro massacrante cui si sottopose per effettuare la lotteria – documentata da decine di lettere spesso inedite – è stato il diretto e sentito coinvolgimento di migliaia di persone di ogni classe sociale nel suo “incipiente progetto Valdocco”: nel farlo conoscere, apprezzare e poi sostenere economicamente, socialmente, politicamente.
            Don Bosco ricorrerà molte volte alle lotterie e sempre con il duplice scopo: raccogliere fondi per le sue opere per i ragazzi poveri, per le missioni e offrire modalità a credenti (e non credenti) di praticare la carità, il mezzo più efficace, come ripeteva continuamente, per “ottenere il perdono dei peccati e assicurarsi la vita eterna”.

«Ho sempre avuto bisogno di tutti» Don Bosco

Al senatore Giuseppe Cotta

Giuseppe Cotta, banchiere, fu grande benefattore di don Bosco. In archivio si conserva la seguente dichiarazione su carta da bollo in data 5 Febbraio 1849: “I sottoscritti sacerdoti T. Borrelli Gioanni di Torino e D. Bosco Gio’ di Castelnuovo d’Asti si dichiarano debitori di franchi tre mila verso l’ill.mo Cavaliere Cotta che ne fece imprestito ai medesimi per un’opera pia. Questa somma dovrà essere dai medesimi sottoscritti restituita fra un anno cogli interessi legali”. Firmato Sacerdote Giovanni Borel, D. Bosco Gio.

In calce allo stesso foglio e nella stessa data p. Cafasso Giuseppe scrive: “Il sottoscritto rende distinte grazie all’Ill. mo Sig. Cav. Cotta per quanto sopra e nello stesso tempo si rende fideiussore verso il medesimo della somma nominata”. A fondo pagina il Cotta sottoscrive di aver ricevuto lire 2.000 il 10 aprile 1849, altre 500 lire il 21 luglio 1849 e il saldo il 4 gennaio 1851.




Verso l’alto! San Pier Giorgio Frassati

“Carissimi giovani, la nostra speranza è Gesù. È Lui, come diceva San Giovanni Paolo II, «che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande […], per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna» (XV Giornata Mondiale della Gioventù, Veglia Di Preghiera, 19 agosto 2000). Teniamoci uniti a Lui, rimaniamo nella sua amicizia, sempre, coltivandola con la preghiera, l’adorazione, la Comunione eucaristica, la Confessione frequente, la carità generosa, come ci hanno insegnato i beati Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, che presto saranno proclamati Santi. Aspirate a cose grandi, alla santità, ovunque siate. Non accontentatevi di meno. Allora vedrete crescere ogni giorno, in voi e attorno a voi, la luce del Vangelo” (Papa Leone XIV – omelia Giubileo dei giovani – 3 agosto 2025).

Pier Giorgio e don Cojazzi
Il senatore Alfredo Frassati, ambasciatore del Regno d’Italia a Berlino, era il proprietario e direttore del quotidiano La Stampa di Torino. I Salesiani avevano un grosso debito di riconoscenza verso di lui. In occasione della grande montatura scandalistica nota come “I fatti di Varazze”, in cui si era cercato di gettare fango sulla onorabilità dei Salesiani, Frassati ne aveva preso le difese. Mentre persino alcuni giornali cattolici sembravano smarriti e disorientati di fronte alle pesanti e penose accuse, La Stampa, condotta una rapida inchiesta, aveva precorso le conclusioni della magistratura proclamando l’innocenza dei Salesiani. Così, quando da casa Frassati giunse la richiesta di un salesiano che si occupasse di seguire negli studi i due figli del senatore, Pier Giorgio e Luciana, don Paolo Albera, Rettor Maggiore, si sentì in obbligo di accettare. Inviò don Antonio Cojazzi (1880-1953). Era l’uomo adatto: buona cultura, temperamento giovanile di un’eccezionale capacità comunicativa. Don Cojazzi si era laureato in lettere nel 1905, in filosofia nel 1906, e aveva conseguito il diploma di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese dopo un serio perfezionamento in Inghilterra.
In casa Frassati don Cojazzi diventò qualcosa di più del ‘precettore’ che segue i ragazzi. Diventò un amico, specialmente di Pier Giorgio, di cui dirà: “Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e il liceo con lezioni che nei primi anni erano quotidiane; lo seguii con crescente interesse e affetto”. Pier Giorgio, diventato uno dei giovani di punta dell’Azione Cattolica torinese, ascoltava le conferenze e le lezioni che don Cojazzi teneva ai soci del Circolo C. Balbo, seguiva con interesse la Rivista dei Giovani, saliva talvolta a Valsalice in cerca di luce e di consiglio nei momenti decisivi.

Un momento di notorietà
Pier Giorgio lo ebbe durante il Congresso Nazionale della Gioventù Cattolica italiana, nel 1921: cinquantamila giovani che sfilavano per Roma, cantando e pregando. Pier Giorgio, studente del politecnico, reggeva la bandiera tricolore del circolo torinese C. Balbo. Le truppe regie, ad un tratto, circondarono l’enorme corteo e lo presero d’assalto per strappare le bandiere. Si volevano impedire disordini. Un testimone raccontò: “Picchiano con i calci dei moschetti, afferrano, spezzano, strappano le nostre bandiere. Vedo Pier Giorgio alle prese con due guardie. Accorriamo in suo aiuto, e la bandiera, con l’asta spezzata, resta nelle sue mani. Imprigionati a forza in un cortile, i giovani cattolici vengono interrogati dalla polizia. Il testimone ricorda il dialogo condotto con i modi e le cortesie che usano in simili contingenze:
– E tu, come ti chiami?
– Pier Giorgio Frassati di Alfredo.
– Che cosa fa tuo padre?
– Ambasciatore d’Italia a Berlino.
Stupore, cambiamento di tono, scuse, offerta di immediata libertà.
– Uscirò quando usciranno gli altri.
Intanto lo spettacolo bestiale continua. Un sacerdote è buttato, letteralmente buttato nel cortile con l’abito talare strappato e una guancia sanguinante… Insieme ci inginocchiammo per terra, nel cortile, quando quel prete lacero alzò il rosario e disse: Ragazzi, per noi e per quelli che ci hanno percosso, preghiamo!”.

Amava i poveri
Pier Giorgio amava i poveri, li andava a cercare nei quartieri più lontani della città; saliva le scale strette e oscure; entrava nelle soffitte dove soltanto abitano la miseria e il dolore. Tutto quello che aveva in tasca era per gli altri, come tutto quello che teneva nel cuore. Arrivava a passare le notti al capezzale di ammalati sconosciuti. Una notte che non rincasava, il padre sempre più ansioso telefonò alla questura, agli ospedali. Alle due si sentì girare la chiave nella porta e Pier Giorgio entrò. Papà esplose:
– Senti, puoi stare fuori di giorno, di notte, nessuno ti dice niente. Ma quando fai così tardi, avverti, telefona!
Pier Giorgio lo guardò, e con la solita semplicità rispose:
– Babbo, dov’ero io, non c’era telefono.
Le Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli lo videro assiduo cooperatore; i poveri lo conobbero consolatore e soccorritore; le misere soffitte lo accolsero sovente fra le loro squallide mura come un raggio di sole per i suoi derelitti abitanti. Dominato da una profonda umiltà, quello che faceva non voleva che fosse conosciuto da alcuno.

Giorgetto bello e santo
Nei primi giorni del luglio 1925 Pier Giorgio fu assalito e stroncato da un violento attacco di poliomielite. Aveva 24 anni. Sul letto di morte, mentre un male terribile gli devastava la schiena, pensò ancora ai suoi poveri. Su un biglietto, con grafia ormai quasi indecifrabile, scrisse per l’ingegnere Grimaldi, suo amico: Ecco le iniezioni di Converso, la polizza è di Sappa. L’ho dimenticata, rinnovala tu.
Di ritorno dal funerale di Pier Giorgio, don Cojazzi scrive di getto un articolo per la Rivista dei Giovani: “Ripeterò la vecchia frase, ma sincerissima: non credevo di amarlo tanto. Giorgetto bello e santo! Perché mi cantano in cuore insistenti queste parole? Perché le udii ripetere, le udii pronunciare per quasi due giorni, dal padre, dalla madre, dalla sorella, con voce che diceva sempre e non ripeteva mai. E perché affiorano certi versi d’una ballata del Deroulède: «Si parlerà di lui a lungo, nei palazzi dorati e nei casolari sperduti! Perché di lui parleranno anche i tuguri e le soffitte, dove passò tante volte angelo consolatore». Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e parte del liceo… lo seguii con crescente interesse e affetto fino alla sua odierna trasfigurazione… Scriverò la sua vita. Si tratta della raccolta di testimonianze che presentano la figura di questo giovane nella pienezza della sua luce, nella verità spirituale e morale, nella testimonianza luminosa e contagiosa di bontà e di generosità”.

Il best-seller dell’editoria cattolica
Incoraggiato e spinto anche dall’arcivescovo di Torino, Mons. Giuseppe Gamba, don Cojazzi si mise al lavoro di buona lena. Le testimonianze arrivarono numerose e qualificate, furono ordinate e vagliate con cura. La mamma di Pier Giorgio seguiva il lavoro, dava suggerimenti, forniva materiale. Nel marzo del 1928 esce la vita di Pier Giorgio. Scrive Luigi Gedda: “Fu un successo strepitoso. In soli nove mesi vennero esaurite 30 mila copie del libro. Nel 1932 erano già state diffuse 70 mila copie. Nel giro di 15 anni il libro su Pier Giorgio raggiunse 11 edizioni, e forse fu il best-seller dell’editoria cattolica in quel periodo”.
La figura illuminata da don Cojazzi fu una bandiera per l’Azione Cattolica durante il difficile tempo del fascismo. Nel 1942 avevano preso il nome di Pier Giorgio Frassati: 771 associazioni giovanili di Azione Cattolica, 178 sezioni aspiranti, 21 associazioni universitarie, 6o gruppi di studenti medi, 29 conferenze di S. Vincenzo, 23 gruppi del Vangelo… Il libro fu tradotto almeno in 19 lingue.
Il libro di don Cojazzi segnò una svolta nella storia della gioventù italiana. Pier Giorgio, fu l’ideale additato senza alcuna riserva: uno che ha saputo dimostrare che essere cristiano fino in fondo non è affatto utopistico, né fantastico.
Pier Giorgio Frassati segnò una svolta anche nella storia di don Cojazzi. Quel biglietto scritto da Pier Giorgio sul letto di morte gli rivelò in maniera concreta, quasi brutale, il mondo dei poveri. Scrive lo stesso don Cojazzi: “Il Venerdì Santo di quest’anno (1928) con due universitari visitai per quattro ore i poveri fuori Porta Metronia. Quella visita mi procurò una salutarissima lezione e umiliazione. Io avevo scritto e parlato moltissimo sulle Conferenze di S. Vincenzo… eppure non ero mai andato una sola volta a visitare i poveri. In quei luridi capannoni mi vennero spesso le lacrime agli occhi… La conclusione? Eccola chiara e cruda per me e per voi: meno parole belle e più opere buone”.
Il contatto vivo con i poveri non solo un’attuazione immediata del Vangelo, ma una scuola di vita per i giovani. Sono la migliore scuola per i giovani, per educarli e tenerli nella serietà della vita. Chi si reca a visitare i poveri e ne tocca con mano le piaghe materiali e morali, come può sprecare il suo denaro, il suo tempo, la sua giovinezza? Come può lamentarsi dei propri lavori e dolori, quando ha conosciuto, per diretta esperienza, che altri soffrono più di lui?

Non vivacchiare, ma vivere!
Pier Giorgio Frassati è un esempio luminoso di santità giovanile, attuale, «inquadrato» nel nostro tempo. Egli attesta ancora una volta che la fede in Gesù Cristo è la religione dei forti e dei veramente giovani, che sola può illuminare tutte le verità con la luce del «mistero» e che soltanto essa può regalare la perfetta letizia. La sua esistenza è il perfetto modello della vita normale alla portata di tutti. Egli, come tutti i seguaci di Gesù e del Vangelo, incominciò dalle piccole cose; giunse alle altezze più sublimi a forza di sottrarsi ai compromessi di una vita mediocre e senza senso e impiegando la naturale testardaggine nei suoi fermi propositi. Tutto, nella sua vita, gli fu gradino per salire; anche ciò che gli avrebbe dovuto essere di inciampo. Fra i compagni era l’intrepido ed esuberante animatore di ogni impresa facendo convergere intorno a sé tanta simpatia e tanta ammirazione. La natura gli era stata larga di favori: di famiglia rinomata, ricco, d’ingegno sodo e pratico, fisico prestante e robusto, educazione completa, nulla gli mancava per farsi largo nella vita. Ma egli non intendeva vivacchiare, bensì conquistarsi il suo posto al sole, lottando. Era una tempra di uomo ed un’anima di cristiano.
La sua vita aveva in sé stessa una coerenza che riposava nell’unità dello spirito e della esistenza, della fede e delle opere. La sorgente di questa personalità così luminosa era nella profonda vita interiore. Frassati pregava. La sua sete della Grazia gli faceva amare tutto ciò che riempie e arricchisce lo spirito. S’accostava ogni giorno alla Santa Comunione, poi restava ai piedi dell’altare, a lungo, senza che nulla valesse a distrarlo. Pregava sui monti e per la via. Non era però, la sua, una fede ostentata, anche se i segni di croce fatti sulla pubblica strada passando davanti alle chiese erano grandi e sicuri, anche se il Rosario era detto ad alta voce, in una carrozza ferroviaria o nella camera di un albergo. Ma era piuttosto una fede vissuta così intensamente e schiettamente che erompeva dalla sua anima generosa e franca con una semplicità di atteggiamento che convinceva e commoveva. La sua formazione spirituale si irrobustì nelle adorazioni notturne di cui fu fervido propugnatore ed immancabile partecipante. Fece più di una volta gli esercizi spirituali traendone serenità e vigoria spirituale.
Il libro di don Cojazzi si chiude con la frase: «Averlo conosciuto o averne udito parlare significa amarlo, ed amarlo significa seguirlo». L’augurio che la testimonianza di Piergiorgio Frassati sia “sale e luce” per tutti, soprattutto per i giovani di oggi.




Visitare Roma con don Bosco. Cronaca del suo primo viaggio a Roma

La prima volta che Don Bosco si recò a Roma fu nel 1858, dal 18 febbraio al 16 aprile, accompagnato dal ventunenne chierico Michele Rua. Quattro anni prima, la Chiesa aveva celebrato un Giubileo straordinario di sei mesi, indetto in occasione della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione (8 dicembre 1854). Don Bosco colse l’opportunità di questa grande festa spirituale per pubblicare il volume “Il Giubileo e Pratiche divote per la visita delle chiese”.
Durante quella che sarebbe stata la sua prima di ben venti visite alla Città Eterna, Don Bosco si comportò come un vero pellegrino giubilare, dedicandosi con fervore alle visite e alle devozioni previste, fino a partecipare ai solenni riti pasquali officiati dal Pontefice. Fu un’esperienza intensa, che lui stesso non tenne per sé, ma condivise con i suoi giovani con l’entusiasmo e la passione educativa che lo contraddistinguevano.
Nel descrivere minuziosamente il viaggio, le tappe e i luoghi sacri, Don Bosco aveva un chiaro intento apostolico ed educativo: far rivivere a chi lo ascoltava o leggeva la stessa profonda esperienza di fede, trasmettendo loro l’amore per la Chiesa e per la tradizione cristiana.
Invitiamo ora anche voi lettori a unirvi spiritualmente a Don Bosco, ripercorrendo idealmente le strade della Roma cristiana, per lasciarvi affascinare dal suo slancio e dal suo zelo e, insieme, rinnovare la vostra fede.

A Genova in ferrovia
La partenza per Roma era fissata per il giorno 18 del mese di febbraio 1858. In quella notte cadde quasi un palmo di neve sopra i due che coprivano già il terreno. Alle 8 e mezzo, mentre ancora nevicava, con la commozione che prova un padre che lascia i suoi figli, salutavo i giovani per iniziare il viaggio verso Roma. Benché avessimo una certa fretta per poter arrivare in tempo al treno, ci trattenemmo ancora un po’ per fare testamento: non volevo infatti lasciare pendenze di nessun genere all’Oratorio qualora la Provvidenza avesse voluto darci in pasto ai pesci del mediterraneo […] Poi di corsa ci recammo allo scalo ferroviario e, assieme a don Mentasti […], partimmo col treno alle dieci del mattino.
Avvenne qui uno spiacevole incidente: le carrozze erano quasi complete per cui dovetti lasciare Rua e don Mentasti in uno scompartimento e trovare posto in un altro […]

Il fanciullo ebreo
Capitai per caso vicino a un ragazzino di dieci anni. Notandone l’aspetto semplice e il viso buono, mi misi a conversare con lui e […] mi accorsi che era ebreo. Il padre, che gli sedeva accanto, mi assicurava che il figlio frequentava la quarta elementare, ma la sua istruzione mi pareva non arrivasse alla seconda. Però era d’ingegno pronto. Il padre aveva piacere che lo interrogassi anzi, m’invitò a farlo parlare della Bibbia. Così cominciai a interrogarlo sulla creazione del mondo e dell’uomo, sul Paradiso terrestre, sulla caduta dei progenitori. Rispondeva abbastanza bene, ma rimasi meravigliato quando capii che non aveva alcuna idea del peccato originale e della promessa di un Redentore.
– Non c’è nella tua Bibbia la promessa di Dio ad Adamo quando lo cacciò dal Paradiso?
– No, me lo dica lei, rispose.
– Subito. Dio disse al serpente: poiché hai ingannato la donna, sarai maledetto fra tutti gli animali, e Uno che nascerà da una donna ti schiaccerà il capo.
– Chi è quest’Uno di cui si parla?
– È il Salvatore che avrebbe liberato il genere umano dalla schiavitù del demonio.
– Quando verrà?
– È già venuto ed è quello che noi chiamiamo…
Qui il padre ci interruppe dicendo:
– Queste cose noi non le studiamo perché non riguardano la nostra legge.
– Fareste bene a studiarle, perché sono nei libri di Mosè e dei profeti cui voi credete.
– Va bene, disse l’altro, ci penserò. Ora gli chieda qualcosa di aritmetica.
Vedendo che non desiderava che gli parlassi di religione, conversammo di cose piacevoli, cosicché il padre, il figlio e anche gli altri viaggiatori cominciarono a divertirsi e a ridere di gusto. Alla stazione di Asti il ragazzino doveva scendere, ma non si decideva a lasciarmi. Aveva le lacrime agli occhi, mi teneva la mano e commosso riuscì solo a dirmi:
– Mi chiamo Sacerdote Leone di Moncalvo; si ricordi di me. Venendo a Torino spero di poterle far visita. Il padre per allentare la commozione disse che aveva cercato a Torino la “Storia d’Italia” [da me scritta]. Non avendola trovata mi pregava di mandargliene copia. Promisi di inviare quella stampata appositamente per la gioventù, poi scesi anch’io per cercare i miei compagni per vedere se c’era posto nel loro scompartimento. Trovai Rua che aveva le mandibole stanche a forza di sbadigliare, giacché da Torino ad Asti si era annoiato molto, non sapendo con chi attaccare discorso: i suoi compagni di viaggio non parlavano che di balli, teatro e altre cose di poco gusto […]

Verso Genova
Giungemmo agli Appennini. Si alzavano davanti a noi altissimi e ripidissimi. Poiché il treno viaggiava a gran velocità, avevamo l’impressione di andare a urtare contro le rocce, finché sul treno si fece improvvisamente buio. Eravamo entrati nelle gallerie. Queste sono “fori” che passando sotto le montagne fanno risparmiare parecchie decine di miglia […] Senza gallerie sarebbe impossibile valicarle, e siccome ci sono molte montagne, esistono parecchi trafori. Uno di essi è lungo quanto la distanza tra Torino e Moncalieri; qui il convoglio rimase al buio per otto minuti, tempo necessario a percorrere il tratto di galleria.

Ci stupì constatare che la neve diminuiva man mano che ci avvicinavamo alla riviera di Genova. Ma quale non fu la nostra meraviglia quando scorgemmo le campagne senza un filo di bianco, le rive verdeggianti, i giardini pieni di colori, le piante di mandorlo fiorite e gli alberi di pesco coi boccioli in procinto di schiudersi al sole! Allora, facendo un confronto tra Torino e Genova, ci siamo detti che in questa stagione Genova è la primavera e Torino il più crudo inverno.

I due montanari
Mi dimenticavo di parlare di due montanari che salirono nel nostro scompartimento alla stazione di Busalla. Uno era pallido e infermiccio da far compassione, l’altro invece aveva un’aria sana e vivace, e, sebbene toccasse i settant’anni, mostrava la vigoria di un venticinquenne. Aveva le brache corte e le ghette quasi sbottonate, tanto che mostrava le gambe nude fino al ginocchio sferzate dal freddo. Era in maniche di camicia con la sola maglia e una giubba di panno grossolano buttata sulle spalle. Dopo averlo fatto parlare di vari argomenti, gli dissi:
– Perché non vi aggiustate questi abiti in modo da difendervi dal freddo? Rispose:
– Vede, caro signore, noi siamo montanari, e siamo abituati al vento, alla pioggia, alla neve e al ghiaccio. Quasi nemmeno ci accorgiamo della stagione invernale. I nostri ragazzi camminano a piedi nudi in mezzo alla neve, anzi ci si divertono senza badare al freddo. Da ciò ho potuto capire che l’uomo vive di abitudini, e il corpo è capace di sopportare a seconda dei casi il freddo o il caldo, e quelli che vorrebbero porre riparo a ogni piccolo incomodo rischiano di indebolire la loro condizione invece di rafforzarla.

La sosta genovese
Ma ecco Genova, ecco il mare! Rua si agita per vederlo, allunga il collo: qua nota un bastimento, là alcune navi, più in giù la lanterna che è un altissimo fanale. Giungiamo intanto alla stazione e scendiamo dal treno. Il cognato dell’abate Montebruno ci attendeva con alcuni giovani, e appena a terra ci accolsero con gioia, e portando i nostri bagagli ci condussero presso l’opera degli artigianelli che è una casa simile al nostro Oratorio. I complimenti furono brevi giacché tutti avevamo una gran fame: erano le tre e mezza del pomeriggio e io avevo preso solo una tazza di caffè. A tavola sembrava che nulla ci potesse saziare, tuttavia a forza di mandar giù il sacco si riempì.
Subito dopo abbiamo visitato la casa: scuole, dormitori, laboratori: mi sembrava di vedere l’Oratorio di dieci anni fa. I convittori erano venti; altri venti, pur mangiando e lavorando qui, dormivano altrove. Qual è il loro vitto? A pranzo un buon piatto di minestra, poi… niente altro. A cena una pagnottella che si mangia in piedi quindi a letto!
Al termine siamo usciti per un giro in città che a dire il vero è poco attraente, sebbene abbia magnifici palazzi e grandi negozi. Le vie sono strette, tortuose e ripide. Ma la cosa più seccante era un vento molesto che, spirando quasi senza interruzione, toglieva il piacere di ammirare qualsiasi cosa anche la più bella […]

A Genova insomma andarono deluse le nostre aspettative. Come se non bastasse il vento contrario impedì l’attracco del bastimento su cui dovevamo imbarcarci, perciò, nostro malgrado, dovemmo attendere fino al giorno seguente […] Al mattino ho detto messa nella chiesa dei Padri Predicatori sull’altare del Beato Sebastiano Maggi, un frate vissuto circa trecento anni fa. Il suo corpo è un prodigio continuato, perché si conserva intero, flessibile e con un colore che lo diresti morto da pochi giorni […] Poi andammo a vidimare, cioè firmare il passaporto. Il console pontificio ci accolse con molta cortesia […] Cercò anche di farci avere qualche sconto sul battello, ma non fu possibile.

A Civitavecchia via mare. L’imbarco
Alle sei e mezza di sera, prima di avviarci verso il battello a vapore chiamato Aventino, salutammo parecchi ecclesiastici venuti dagli Artigianelli per augurarci buon viaggio. Anche i ragazzi, attratti dalle buone parole, ma soprattutto da alcune portate in più nel pranzo di quel giorno, ci erano divenuti amici e sembrava provassero dispiacere a vederci partire. Parecchi di loro ci accompagnarono fino al mare, quindi saltando agilmente su una barchetta, vollero scortarci fino al battello. Il vento era assai forte: non avvezzo a viaggiare per mare, ad ogni agitarsi della barca temevamo di capovolgerci e affondare e i nostri accompagnatori ridevano di gusto. Dopo venti minuti giungemmo finalmente alla nave.

A prima vista ci sembrava un palazzo circondato dalle onde. Salimmo a bordo, e portato il nostro bagaglio in un alloggiamento alquanto spazioso, ci sedemmo per riposarci e pensare: ciascuno provava particolari sensazioni che non sapeva come esprimere. Rua osservava tutto e tutti in silenzio. Ed ecco il primo intoppo: essendo arrivati all’ora di pranzo, non siamo andati subito a mangiare; quando l’abbiamo richiesto, era tutto finito. Rua dovette cenare con una mela, una pagnottella e un bicchiere di vino Bordò, io mi accontentai di un pezzetto di pane e un po’ di quell’eccellente vino. Da notare che quando si viaggia in nave, nel biglietto sono compresi anche i pasti, per cui che si mangi o no si paga ugualmente.

Dopo siamo saliti in coperta per renderci conto di come fosse questo “Aventino”. Abbiamo così saputo che i bastimenti prendono nome dai luoghi più famosi delle zone verso cui sono diretti. Uno si chiama Vaticano, un altro Quirinale, un altro Aventino, come il nostro, per ricordare i sette famosi colli di Roma. Questa nostra nave parte da Marsiglia, tocca Genova, Livorno, Civitavecchia, poi continua per Napoli, Messina e Malta. Al ritorno ripete lo stesso percorso fino a Marsiglia. Si chiama anche battello postale perché porta lettere, pieghi, ecc. Che faccia bello o brutto tempo parte comunque.

Il mal di mare
Ci avevano assegnato la cuccetta che è una specie di armadio a ripiani dove i passeggeri si coricano sopra un materasso in ciascun ripiano. Alle dieci salparono le ancore e il battello, spinto dal vapore e da un vento favorevole, cominciò a correre a gran velocità alla volta di Livorno. Quando fummo al largo fui assalito dal mal di mare che mi tormentò per due giorni. Questo fastidio consiste in un vomito frequente, e quando non si ha più nulla da rigettare gli sforzi diventano più violenti, sicché la persona diviene così sfinita che rifiuta qualsiasi alimento. L’unica cosa che può recare qualche sollievo è il mettersi a letto e stare, quando il vomito lo permette, col corpo interamente disteso.

Livorno
Quella del 20 febbraio fu una brutta notte. Non correvamo pericolo per il mare agitato, ma il mal di mare mi aveva talmente prostrato che non riuscivo a stare né coricato, né in piedi. Mi gettai giù dalla cuccetta e andai a vedere se Rua fosse vivo o morto. Egli però non aveva che un po’ di spossatezza, nient’altro. Si alzò subito mettendosi a mia disposizione per alleviarmi i disagi della traversata. Quando Dio volle giungemmo al porto di Livorno. Per porto s’intende un seno del mare riparato dalla furia dei venti da barriere naturali o da bastioni costruiti dall’uomo. Qui le navi sono al riparo da ogni pericolo, qui scaricano le loro merci e ne caricano altre per altre destinazioni, qui si fanno i rifornimenti. I passeggeri che lo desiderano possono anche scendere a terra per qualche giro in città purché tornino in orario […]

Sebbene io desiderassi scendere per visitare la città, dire messa e salutare qualche amico, non potei farlo, anzi fui costretto a tornare nella mia cuccetta e starmene lì buono buono a digiuno. Un cameriere di nome Charles mi guardava con occhio di compassione e ogni tanto mi veniva vicino offrendomi i suoi servizi. Vedendolo così buono e cortese cominciai a conversare con lui, e fra le altre cose gli domandai se non temesse di essere deriso assistendo un prete sotto l’occhio di tante persone.
No, mi disse in francese, come vede nessuno fa le meraviglie, anzi tutti la guardano con bontà, mostrando desiderio di aiutarla. D’altronde mia madre mi ha insegnato ad avere grande rispetto per i sacerdoti per guadagnare la benedizione del Signore. Charles, andò poi a chiamare un dottore: ogni bastimento ha il suo medico e i principali rimedi per qualsiasi bisogno. Il medico venne e le sue maniere affabili mi sollevarono alquanto.
Comprendete il francese? Mi disse. Risposi:
– Comprendo tutti i linguaggi del mondo, anche quelli che non sono scritti, perfino il linguaggio dei sordomuti. Scherzavo per svegliarmi dalla sonnolenza che mi aveva preso. L’altro comprese e si mise a ridere.
Peut être, può darsi! Diceva mentre mi visitava. Alla fine mi annunciò che al mal di mare si era aggiunta la febbre e che una bibita di tè mi avrebbe fatto bene. Lo ringraziai e gli chiesi il suo nome.
Il mio nome, disse, è Jobert di Marsiglia, dottore in medicina e chirurgia. Charles attento agli ordini del dottore in breve tempo mi preparò una tazza di tè, di lì a poco un’altra, poi un’altra ancora. E mi fece bene, tanto che riuscii a prendere sonno.
Alle cinque [pomeridiane] il battello levò le ancore. Quando fummo in alto mare di nuovo ebbi conati di vomito ancor più violenti, rimanendo agitato per circa quattro ore, poi per lo sfinimento – non avevo ormai più nulla nello stomaco – coadiuvato dal rollio della nave mi addormentai e riposai di un sonno tranquillo fino all’arrivo a Civitavecchia.

Pagare, pagare, pagare
Il riposo della notte mi aveva fatto tornare le forze. Sebbene sfinito per il lungo digiuno, mi alzai e preparai i bagagli. Stavamo per scendere quando ci avvisarono di un debito che non sapevamo di aver contratto. Il caffè non era compreso col vitto ma si doveva pagare a parte, e noi che ne avevamo prese quattro tazze pagammo un supplemento di due franchi, vale a dire cinquanta centesimi a tazza.
Il capitano, fatti vidimare i passaporti, ci consegnò il permesso di sbarco; e qui cominciò la teoria delle mance: un franco ciascuno ai barcaioli, mezzo franco per il bagaglio (che portavamo noi), mezzo franco alla dogana, mezzo franco a chi ci invitava in vettura, mezzo al facchino che sistemava i bagagli, due franchi per il visto sul passaporto, un franco e mezzo al console pontificio. Non si faceva in tempo ad aprire bocca che subito bisognava pagare. Con l’aggiunta che, variando le monete di nome e di valore, dovevamo fidarci di chi ci faceva il cambio […] Alla Dogana rispettarono un pacco indirizzato al cardinale Antonelli col bollo pontificio, entro cui avevamo messo le cose più importanti […]

Terminate le operazioni mi recai dal barbiere a farmi radere una barba di dieci giorni. Tutto andò bene, ma in bottega non riuscii a distogliere lo sguardo da due corna su un tavolino. Erano lunghe circa un metro e ornate di anelli luccicanti e nastri. Pensavo fossero destinate a qualche uso particolare, ma mi dissero che erano di giovenca, che noi chiamiamo bue, poste là solo per ornamento […]

Verso Roma in carrozza
Intanto don Mentasti era su tutte le furie perché non ci vedeva arrivare, mentre la vettura già ci attendeva. Noi ci eravamo messi a correre per arrivare in tempo. Saliti in vettura partimmo per Roma. La distanza da percorrere era di 47 miglia italiane che corrispondono a 36 miglia piemontesi; la strada era molto bella. Avevamo preso posto sul coupé da dove potevamo contemplare i prati verdeggianti e le siepi fiorite. Una curiosità ci divertì non poco. Ci accorgemmo che tutto andava a tre a tre: i cavalli della nostra vettura erano aggiogati a tre a tre; incontrammo pattuglie di soldati che andavano a tre a tre; perfino alcuni contadini camminavano a tre a tre, come pure alcune vacche e alcuni asini pascolavano a tre a tre. Noi ridevamo su queste strane coincidenze […]

Una tappa per i cavalli
A Palo il vetturino concesse ai viaggiatori un’ora di libertà per avere il tempo di ristorare i cavalli. Noi ce ne servimmo per correre nella vicina locanda a levarci la fame. Le faccende ci avevano quasi fatto dimenticare il mangiare; da mezzogiorno del venerdì non avevo preso che una tazza di caffelatte. Ci siamo messi intorno alle pagnottelle e abbiamo mangiato, o meglio, divorato tutto. Nel vedere poi il cameriere tutto sfinito e pallido gli chiesi che cosa avesse.
– Ho le febbri che da molti mesi mi affliggono, rispose. Io allora feci il buon medico:
– Lasciate fare a me, vi prescrivo una ricetta che caccerà per sempre la febbre. Abbiate solo fiducia in Dio e in san Luigi. Preso quindi un pezzo di carta con la matita scrissi la mia ricetta, raccomandandogli di portarla da qualche farmacista. Era fuori di sé dalla gioia, e, non sapendo come meglio dimostrare la sua gratitudine, baciava e ribaciava la mia mano, e voleva baciarla anche a Rua, che per modestia non glielo permise.

Fu pure simpatico l’incontro con un carabiniere pontificio. Egli pensava di conoscermi, ed io credevo di conoscere lui, così ci siamo salutati tutti e due con gran festa. E quando ci siamo accorti dell’equivoco, l’amicizia e le espressioni di benevolenza e di rispetto continuarono: per fargli piacere ho dovuto permettere che mi pagasse una tazza di caffè, da parte mia gli offrii un bicchierino di rhum. Avendomi poi chiesto di lasciargli qualche ricordo, gli regalai la medaglia di san Luigi Gonzaga. Il nome di quel buon carabiniere era Pedrocchi.

Nella città dei papi
Montati nuovamente in vettura e volando più veloci col desiderio che con le zampe dei cavalli, ci sembrava ogni momento di essere a Roma. Calata la notte, ogni volta che si scorgeva lontano un arbusto od una pianta Rua subito esclamava:
– Ecco la cupola di S. Pietro. Ma prima di arrivare abbiamo dovuto procedere fino alle dieci e mezza della sera, ed essendo ormai notte fonda, non riuscivamo a scorgere più nessun particolare. Un certo brivido tuttavia ci prese al pensiero che stavamo entrando nella città santa. […] Arrivati finalmente al punto di fermata, non avendo alcuna conoscenza del luogo, abbiamo cercato una guida che per dodici baiocchi ci accompagnò a casa De Maistre, in via del Quirinale 49, alle Quattro Fontane. Erano già le undici. Fummo accolti con bontà dal conte e dalla contessa; gli altri erano già a letto. Preso un po’ di ristoro ci siamo dati la buona notte e siamo andati a dormire.

San Carlino
La parte del Quirinale da noi abitata viene chiamata Quattro Fontane perché zampillano quattro fonti perenni da quattro angoli di quattro contrade che qui si uniscono. Di fronte alla casa dove avevamo preso dimora vi era la chiesa dei carmelitani. Costoro, tutti spagnoli, appartenevano all’ordine detto della Redenzione degli Schiavi. La chiesa fu costruita nel 1640 e intitolata a san Carlo; ma per distinguerla da altre dedicate al medesimo santo fu chiamata S. Carlino. Recatici in sacrestia, abbiamo mostrato il Celebret, (il documento per celebrare n.d.r.) e così abbiamo potuto dire messa. […] Il giorno lo passammo quasi interamente ad ordinare le nostre carte, fare commissioni, portar lettere […]

Il Pantheon
Approfittando di un’ora che rimaneva ancora prima di notte, ci recammo al Pantheon che è uno dei più antichi e celebri monumenti di Roma. Venne fatto costruire da Marco Agrippa, genero di Cesare Augusto, venticinque anni prima dell’era volgare (della nascita di Cristo n.d.r.). Si crede che questo edificio sia stato chiamato Pantheon, che vuol dire tutti gli dei, perché di fatto era dedicato a tutte le divinità. La facciata è veramente superba. Otto grosse colonne reggono un elegante cornicione. Subito dopo ecco un porticato formato da sedici colonne fatte di un sol blocco di granito, poi il pronao, o avantempio, costituito da quattro pilastri scanalati, entro cui sono ricavate nicchie anticamente occupate dalle statue di Augusto e di Agrippa.
All’interno si presenta un’alta cupola aperta in mezzo, dalla quale penetra la luce, ma anche il vento, la pioggia, e la neve, quando ne cade da queste parti. Qui i più preziosi marmi servono da pavimento o da ornamento tutto intorno. Il diametro è di centotrentatre piedi, corrispondenti a diciotto trabucchi (c.ca 55 mt.). Questo tempio servì al culto degli dei fino al 608 dopo Cristo, quando papa Bonifacio IV, per impedire i disordini che si commettevano durante i sacrifici, lo dedicò al culto del vero Dio, cioè a tutti i santi.

Questa chiesa andò soggetta a molte vicende. Quando Bonifacio IV ottenne questo luogo dall’imperatore Foca e lo dedicò al culto di Dio e della Madonna, fece trasportare da vari cimiteri ventotto carri di reliquie che collocò sotto l’altare maggiore. Da allora cominciò ad essere chiamato Santa Maria ad Martyres. Fra le cose che gradimmo molto fu visitare la tomba del grande Raffaello […] Ora questa chiesa porta anche il nome di Rotonda, dalla forma della sua costruzione. Davanti si estende una piazza il cui centro è occupato da una grande fontana di marmo, sormontata da quattro delfini che gettano continuamente acqua.

San Pietro in Vincoli
Il 23 febbraio […] siamo rimasti molto contenti della visita a S. Pietro in Vincoli, chiesa a sud di Roma sul confine della città. Fu una giornata memorabile perché coincideva con una delle rare volte in cui venivano messe in mostra le catene di san Pietro, le cui chiavi sono custodite dallo stesso Santo Padre.
Una tradizione ritiene che fu lo stesso Pietro a erigere qui la prima chiesa, dedicandola al Salvatore. Distrutta dall’incendio di Nerone, venne da san Leone Magno ricostruita nel 442 e dedicata al primo Papa. Fu chiamata S. Pietro in Vincoli, perché il Pontefice vi collocò la catena con cui il Principe degli Apostoli a Gerusalemme era stato, per ordine di Erode, incatenato. Il patriarca Giovenale l’aveva regalata all’imperatrice Eudossia, che a sua volta l’inviò a Roma alla figlia Eudossia junior, moglie di Valentiniano III. A Roma si conservava anche la catena cui era incatenato san Pietro nel carcere Mamertino. Quando san Leone volle fare il confronto di questa con quella di Gerusalemme, in modo prodigioso le due catene si unirono, cosicché oggi ne formano una sola, che si conserva in un altare apposito a lato della sacrestia. Noi abbiamo avuto la consolazione di toccare quelle catene colle nostre mani, baciarle, mettercele al collo e accostarle alla fronte. Abbiamo anche attentamente controllato per riuscire a scorgere il punto di unione delle due, ma non ci fu possibile. Abbiamo solo potuto constatare che la catena di Roma è più piccola di quella di Gerusalemme.

A S. Pietro in Vincoli si trova il magnifico sepolcro di Giulio II […] È uno dei capolavori del celebre Michelangelo Buonarroti, che è ritenuto uno dei massimi artisti del marmo, specialmente per la statua del Mosè posta vicino all’urna. Il patriarca è rappresentato con le tavole della legge piegate sotto al braccio destro, in atto di parlare al popolo che egli guarda fieramente, perché si era ribellato. La chiesa è a tre navate, separate da venti colonne di marmo pario, e due di granito ben conservato.

S. Luigi dei Francesi
Verso le nove ci portammo a Santa Maria sopra Minerva, ove fummo ricevuti in udienza privata dal cardinale Gaude per circa un’ora e mezza. Egli parlò con noi in dialetto piemontese, interessandosi ai nostri oratori […] Dopo mezzogiorno ci recammo a fare visita al marchese Giovanni Patrizi […] In faccia al suo palazzo c’è la chiesa di S. Luigi dei Francesi che dà il nome alla piazza e alla contrada vicina. È una chiesa ben tenuta e arricchita di molti marmi preziosi. La sua singolarità consiste nei sepolcri degli uomini illustri francesi morti a Roma. Infatti il pavimento e le mura sono coperte di epitaffi e lapidi. […]

S. Maria Maggiore all’Esquilino
Dal Quirinale si apre una via che porta all’Esquilino, così detto per i molti elci di cui era ammantato. Nella parte più elevata s’innalza S. Maria Maggiore, la cui origine è narrata così da tutti gli storici sacri. Un certo Giovanni, patrizio romano, non avendo figli, desiderava impiegare le sue sostanze in qualche opera di pietà […] La notte del 4 agosto del 352 gli apparve in sogno la Madonna che gli comandò di innalzarle un tempio nel luogo dove la mattina dopo avrebbe trovato neve fresca. La stessa visione ebbe il papa di allora Liberio. Il giorno seguente si sparse voce che sul colle Esquilino era caduta abbondante neve, perciò Liberio e Giovanni vi si recarono, e, constatato il prodigio, si attivarono per mettere in pratica il comando avuto nella visione. Il Papa segnò il tracciato del nuovo tempio, che in breve fu portato a termine con i denari di Giovanni: pochi anni dopo Liberio poté procedere alla consacrazione […]

Davanti alla chiesa si estende una vasta piazza al centro della quale è posta l’antica colonna di marmo bianco, tolta dal tempio della pace. Il pontefice Paolo V l’anno 1614 la dotò di una base e un capitello, sopra cui collocò la statua della Madonna col Bambino. L’architettura della facciata è maestosa ed è sostenuta da grosse colonne di marmo che formano uno spazioso vestibolo. In fondo ad esso è stata posta la statua di Filippo IV, re di Spagna, che fece molte donazioni a favore di questa chiesa e volle egli stesso essere iscritto fra i canonici. Il pavimento è in mosaico prezioso lavorato con marmi di vario genere, tutti di incalcolabile valore.

La cappella a destra dell’altare maggiore conserva la tomba di san Girolamo, la culla del Salvatore e l’altare di papa Liberio. L’altare papale è ricoperto da preziosi marmi di porfido, e sostenuto da quattro putti di bronzo dorato. Sotto di esso si apre la Confessione, che è una cappella dedicata a san Mattia. Siamo andati a visitarla nel giorno della stazione quaresimale, così abbiamo avuto la fortuna di trovare esposto sopra un ricco altare il capo di san Mattia. L’abbiamo osservato attentamente, e abbiamo notato la pelle attaccata alla testa, anzi, appaiono ancora alcuni capelli attaccati al venerato teschio.

La Vergine e la peste
Nella cappella a sinistra dell’altare si può osservare un dipinto della Vergine attribuito a san Luca, molto venerato dal popolo. L’immagine fu tenuta in grande considerazione dai papi. San Gregorio Magno nella terribile pestilenza del 590 la portò in processione fino al Vaticano. Era il 25 aprile. Giunto il corteo nei pressi della mole Adriana, fu visto un angelo che riponeva la spada nel fodero, indicando così la cessazione della peste. In memoria di questo prodigio la Mole Adriana fu denominata Castel Sant’Angelo, e da allora la processione si ripete ogni anno nel giorno di san Marco Evangelista. In S. Maria Maggiore tutto è maestoso e grande; ma il parlarne o scriverne sono insufficienti per arrivare a descriverla con verità. Chi la vede coi propri occhi ferma lo sguardo meravigliato in ogni angolo.

Oggi mercoledì di quaresima qui a Roma si digiuna e questo vuol dire che sono proibiti non solo i cibi di carne, ma anche ogni minestra o pietanza a base di uova, burro o latte. Olio, acqua e sale sono i condimenti che si usano in questi mercoledì. La pratica è rigorosamente osservata da ogni classe di persone tanto che nei mercati e nelle botteghe quel giorno non si trova né carne, né uova, né burro.

La leggenda di san Galgano
A sera la signora De Maistre ci raccontò una storia degna di essere ricordata. Disse:
L’anno scorso venne a trovarci il vicario generale di Siena. Fra le tante cose di cui era solito parlarci, ci narrò la storia di san Galgano soldato. Questo santo è morto da secoli, e il suo capo si conserva intatto; ma la meraviglia più grande è che ogni anno gli tagliano i capelli, che crescono insensibilmente e tornano della medesima lunghezza l’anno seguente. Un protestante dopo che ebbe ascoltato questo prodigio si mise a ridere dicendo: lascino sigillare da me l’urna dove è conservato il capo, e se i capelli cresceranno ugualmente riconoscerò il miracolo e diventerò cattolico. La cosa fu riferita al vescovo che rispose: io metterò i sigilli vescovili per l’autenticità della reliquia, egli metta i suoi per assicurarsi del fatto. Così fu fatto; ma quel signore, impaziente di vedere se il prodigio cominciava ad operarsi, dopo alcuni mesi chiese di aprire l’urna. Immaginate la sua meraviglia quando vide che i capelli di san Galgano erano già cresciuti come avrebbero fatto se fosse stato vivo! Allora è vero! Esclamò. Diventerò cattolico. Infatti l’anno seguente nel giorno della festa del Santo egli con la sua famiglia rinunziò al luteranesimo e abbracciò la religione cattolica, che oggi professa con esemplarità.

S. Pudenziana al Viminale
Dalle Quattro Fontane si sale al Viminale, chiamato così per i molti vimini, cioè i giunchi, che un tempo lo ricoprivano. Ai piedi di questo colle nella casa di Pudente, senatore romano, alloggiò san Pietro quando venne a Roma. Il santo apostolo convertì alla fede il suo ospite e trasformò la sua casa in chiesa. San Pio I verso il 160, su istanza delle vergini Pudenziana e Prassede, figlie del nipote del senatore Pudente, consacrò questa chiesa, che […] in seguito venne dedicata a S. Pudenziana perché vi aveva abitato e vi era morta. Molti pontefici misero mano alla ristrutturazione di questo luogo che contiene preziose testimonianze cristiane. Merita speciale attenzione il pozzo di santa Pudenziana. Si crede che in esso ella seppellisse i corpi dei martiri. Sul fondo si possono notare una grande quantità di reliquie: la storia dice che contiene le reliquie di tremila martiri.

Accanto all’altare maggiore c’è una cappella di forma oblunga sul cui altare si ammira un gruppo marmoreo di Gesù nell’atto di consegnare le chiavi a san Pietro. Si crede che l’altare sia quello stesso su cui ha celebrato messa san Pietro, e sul quale con grande consolazione ho potuto celebrare io stesso. Vi sono conservati vari pezzi di spugna, gli stessi di cui si serviva Pudenziana per raccogliere il sangue dalle piaghe dei martiri, oppure dalla terra che ne era impregnata.
Continuando verso sinistra si giunge a una cappella dove si conserva la testimonianza di un grande miracolo. Mentre celebrava messa un sacerdote cadde in dubbio sulla possibilità della presenza reale di Gesù nell’ostia santa. Dopo la consacrazione l’ostia gli sfuggì dalle mani e cadendo sul pavimento rimbalzò prima su un gradino poi su un altro. Là dove batté la prima volta il marmo rimase quasi forato, anche nel secondo scalino si formò una cavità assai profonda a forma di ostia. Questi due gradini di marmo sono conservati in quello stesso luogo, custoditi da appositi cancelli.

Santa Prassede
Da S. Pudenziana salendo verso l’Esquilino, a poca distanza da S. Maria Maggiore s’incontra la chiesa di S. Prassede. Verso l’anno 162 d. C., sopra il luogo dove erano le terme, ossia i bagni di Novato, san Pio I eresse una chiesa in onore di questa vergine, sorella di Novato, Pudenziana e Teotilo. Il luogo servì di rifugio agli antichi cristiani in tempo di persecuzione. La Santa, che si adoperava per fornire quanto occorreva ai cristiani perseguitati, provvedeva anche a raccogliere i corpi dei martiri che poi seppelliva, versando il loro sangue nel pozzo che sta in mezzo alla chiesa. Essa è ricchissima di ornamenti e marmi preziosi, come lo sono quasi tutte le chiese di Roma.

C’è anche la cappella dei martiri Zenone e Valentino, i cui corpi, fatti trasportare da san Pasquale I l’anno 899, riposano sotto l’altare. Qui si conserva anche una colonna di diaspro, alta circa tre palmi, che un cardinale di nome Colonna l’anno 1223 fece trasportare dalla Terrasanta. Si ritiene che sia quella a cui fu legato il Salvatore durante la flagellazione.

Il Celio
Dall’Esquilino guardando a ovest si vede il colle Celio. Anticamente veniva chiamato Querchetulano dalle querce che lo ricoprivano. Più tardi fu denominato Celio da Cele Vilenna, capitano degli Etruschi venuti in soccorso di Roma, e che Tarquinio Prisco fece alloggiare su detto colle. La prima cosa che si nota è l’obelisco più grande che si conosca. Ramsete, faraone d’Egitto, lo fece innalzare a Tebe dedicandolo al sole. Costantino il Grande lo fece trasportare attraverso il Nilo fino ad Alessandria, ma, colto dalla morte, toccò al figlio Costanzo trasportarlo a Roma. Per il viaggio si usò un vascello di trecento remi, e attraverso il Tevere fu condotto nell’Urbe e posto in un luogo detto Circo Massimo. Qui cadde spezzandosi in tre parti. Papa Sisto V lo fece restaurare e innalzare nella piazza del Laterano l’anno 1588. L’obelisco giunge all’altezza di 153 piedi romani. È tutto ornato di geroglifici e sormontato da un’alta croce.

A destra della piazza c’è il battistero di Costantino con la chiesa di S. Giovanni in Fonte. Si dice sia stata costruita da Costantino in occasione del battesimo che ricevette dal pontefice san Silvestro l’anno 324. Dalle due cappelle annesse dedicate una a san Giovanni Battista, l’altra a san Giovanni Evangelista ha preso il nome di chiesa di S. Giovanni in Fonte. Il battistero, che è una vasca di grande larghezza rivestita di marmi preziosi, è nel mezzo. La cappelletta annessa dedicata a san Giovanni Battista si crede sia una camera di Costantino, cambiata in oratorio e dedicata al santo Precursore dal papa sant’Ilario.

S. Giovanni in Laterano
Uscendo dal battistero e attraversando la vasta piazza, s’incontra la basilica di S. Giovanni in Laterano. Questa celeberrima costruzione è la prima e principale chiesa del mondo cattolico. Sulla facciata è scritto: Ecclesiarum Urbis et Orbis Mater et Caput (madre e capo di tutte le chiese di Roma e del mondo). È la sede del Sommo Pontefice come vescovo di Roma; dopo la sua incoronazione egli va a prenderne solennemente possesso. Fu chiamata anche Basilica Costantiniana, perché fondata da Costantino il Grande. Fu detta poi Basilica Lateranense perché innalzata dove era il palazzo di un certo Plauzio Laterano, fatto uccidere da Nerone; e anche Basilica del Salvatore a seguito di una apparizione del Salvatore avvenuta durante la costruzione. La chiamano ancora Basilica Aurea per i preziosi doni di cui fu arricchita, e Basilica di S. Giovanni perché dedicata ai santi Giovanni Battista ed Evangelista.

Fu Costantino il Grande a farla costruire presso il suo palazzo, attorno all’anno 324. Ampliata poi con nuovi corpi di fabbrica, fu ceduta al santo Pontefice. Qui abitarono i Papi fino al tempo di Gregorio XI. Quando costui riportò la Santa Sede da Avignone a Roma trasferì la sua abitazione in Vaticano.
L’anno 1308 scoppiò un terribile incendio che la distrusse, ma Clemente V, che allora era in Avignone, mandò subito i suoi agenti con grandi somme di danaro, e in breve fu ricostruita. Il portico è retto da ventiquattro grossi pilastri; in fondo vi è la statua di Costantino trovata nelle sue terme al Quirinale. La porta grande di bronzo è di straordinaria altezza. Essa fu tolta dalla chiesa di S. Adriano in Campo Vaccino e fatta trasportare qui. Costituisce un raro esempio di porte antiche dette Quadrifores, cioè costruite in modo che si potessero aprire in quattro parti, una per volta senza che alcuna mettesse in pericolo la stabilità dell’altra. Sulla destra c’è una porta murata che si apre solo nell’anno del giubileo e perciò è detta Porta Santa.

L’interno è a cinque navate. La lunghezza, l’altezza, la preziosità dei pavimenti, delle sculture e delle pitture sono cose che incantano a vederle. Bisognerebbe farne grossi volumi a parlarne degnamente. Le reliquie più insigni di questa chiesa sono il capo dei due principi degli Apostoli Pietro e Paolo. Essi sono custoditi sotto l’altare maggiore e incassati in un altro capo d’oro. Vi è pure una reliquia insigne di san Pancrazio martire, e vi si custodisce una tavola che si pensa sia quella medesima sopra la quale Gesù celebrò la sacra cena coi suoi Apostoli.

Uscendo dalla chiesa per la porta principale e attraversando la piazza si trova la Scala Santa, un edificio che papa Sisto V fece innalzare per custodirvi la scala, che prima si trovava a pezzi nel vecchio palazzo papale del Laterano. Essa è formata da ventotto gradini di marmo bianco del pretorio di Pilato a Gerusalemme che Gesù salì e discese più volte durante la sua passione. Sant’Elena, madre di Costantino, li inviò a Roma insieme con molte altre cose santificate dal sangue di Gesù Cristo. Questa celebre scalinata è tenuta in grande venerazione e perciò si sale in ginocchio; e si ridiscende per una delle quattro scale laterali. Questi gradini si sono incavati per il grande afflusso di cristiani che li hanno saliti, per cui sono stati coperti con tavoloni di legno. Lo stesso Sisto V fece collocare nell’alto della scala la celebre cappella domestica dei papi, che è piena delle più insigni reliquie, e che perciò viene chiamata Sancta Sanctorum.

Città del Vaticano. La costruzione
Il colle Vaticano contiene quanto esiste di più eccellente nelle arti, e di memorabile nella religione; perciò ne daremo un ragguaglio un po’ più preciso. Fu chiamato Vaticano da Vagitanus, una divinità che pensavano sovrintendesse al vagito dei fanciulli. Infatti la prima sillaba Uà (va n.d.r.) di cui è composta la parola è anche il primo grido dei bambini. Il colle acquistò rinomanza quando Caligola vi costruì il circo che fu poi detto di Nerone. Caligola per passare dalla sinistra alla sponda destra del Tevere costruì il ponte Vaticano, detto anche Trionfale che ora però non esiste più. Il circo di Nerone incominciava dov’è oggi la chiesa di S. Marta e si estendeva fino alle scale dell’antica basilica Vaticana. In questo circo fu seppellito il corpo del Principe degli Apostoli […]

Lì vennero anche sotterrate le ossa di altri papi tra cui Lino, Cleto, Anacleto, Evaristo ed altri ancora. La Memoria di S. Pietro, ossia il tempietto costruito sulla sua tomba, durò fino ai tempi di Costantino che, per desiderio di san Silvestro, verso il 319 mise mano alla costruzione di una chiesa in onore dell’Apostolo. Essa fu eretta proprio intorno a quel tempietto, servendosi di materiale tolto da edifici pubblici. La costruzione fu chiamata Basilica Costantiniana, e a quei tempi era reputata fra le più celebri della cristianità. Nel mezzo di quella chiesa, fatta a forma di croce latina, vi era l’altare dedicato a san Pietro sotto il quale era sepolto, protetto da cancelli, il suo corpo; quel vano fin da allora si usava chiamare Confessione di san Pietro. Terminato il tempio e dotatolo di ricchi arredi papa Silvestro lo consacrò il 18 novembre del 324 […] I pontefici che vennero in seguito lo abbellirono e ampliarono. Per undici secoli fu l’oggetto della devozione e dell’ammirazione dei cristiani che si recavano a Roma.

Nel secolo XV cominciava ad andare in rovina, perciò Nicolò V pensò di rinnovarlo, ma ebbe solo il merito di iniziare i lavori, perché la morte gli fece sospendere ogni cosa. Giulio II riprese la costruzione alla quale cambiò nome, da Basilica Costantiniana a S. Pietro in Vaticano, e pose la prima pietra il 18 aprile 1506. Gli architetti furono Bramante, in seguito fra Giocondo Domenico e Raffaello Sanzio. Dopo costoro lavorarono i più celebri architetti, e i più sublimi ingegni del tempo.

La grande piazza
 […] Dinanzi alla basilica si apre una vasta piazza la cui lunghezza supera il mezzo chilometro. Essa è formata da 284 colonne e da 64 pilastri che, disposti in semicerchio da ambo i lati in quattro file, formano tre vie di cui la più ampia quella centrale può permettere il transito di due carrozze. Sopra al colonnato sono poste 96 statue di santi, in marmo, dell’altezza di circa 10 piedi. Al centro invece s’innalza l’obelisco egizio. Esso è formato da un sol pezzo, ed è il solo che sia restato intero. Misura 126 piedi di altezza compresa la croce e il piedistallo. Non ha geroglifici. Nuccoreo re d’Egitto l’aveva innalzato a Eliopoli, da dove venne prelevato e fatto trasportare a Roma da Caligola l’anno 3° del suo impero. Fu collocato nel circo costruito ai piedi del colle Vaticano, come dimostrano le iscrizioni che vi si leggono. Questo circo fu chiamato di Nerone perché da lui molto frequentato; qui quel crudele imperatore fece strage di cristiani, calunniandoli di essere autori dell’incendio di Roma che lui stesso aveva appiccato.

Nel 1818 sulla piazza venne costruita una meridiana. Per terra si disegnarono i dodici segni dello zodiaco. L’obelisco faceva da gnomone (asta), e con la sua ombra indicava le stazioni del sole. Tutto intorno furono scritti i nomi dei venti nella direzione in cui spira ciascuno di essi. Ai lati due fontane uguali gettano perennemente acqua da un gruppo di zampilli che s’innalzano anche fino a sessanta piedi. La regina di Scozia accolta con pompa in questo luogo guardò con meraviglia le due fontane pensando che fossero state fatte apposta per la sua accoglienza. No, disse un signore che le stava a fianco, questi zampilli sono perenni.

Visita a San Pietro
Camminando verso la facciata della basilica si arriva a una magnifica gradinata fiancheggiata da due statue una di san Pietro l’altra di san Paolo, fatte collocare dal regnante Pio IX. Salite le scale si è davanti alla facciata che ha questa iscrizione: In onore del Principe degli Apostoli Paolo V Pontefice Massimo l’anno 1612 7° del suo pontificato. Sopra al porticato si estende la grande Loggia delle benedizioni. La facciata è maestosa e imponente. Il porticato è tutto adorno di marmi, pitture in mosaico e altri eleganti lavori. In fondo al vestibolo a destra si può osservare la bellissima statua equestre di Costantino in atto di mirare la prodigiosa croce apparsagli in cielo prima della battaglia finale con Massenzio.

Dal portico si entra in basilica attraverso quattro porte, di cui l’ultima a destra non si apre che per l’anno santo. La porta maggiore è in bronzo, di grande altezza, e occorrono molte e forti braccia per aprirla. L’interno si presenta a cinque navate oltre la crociera che termina con la tribuna. La curiosità e la sorpresa ci portò nel mezzo della navata maggiore. Qui ci siamo fermati ad ammirare e riflettere senza dire parola. Ci parve di vedere la celeste Gerusalemme. La lunghezza della basilica è di palmi 837, la sua larghezza di 607. È il maggior tempio di tutta la cristianità. Dopo S. Pietro il più vasto è quello di S. Paolo a Londra. Se alla chiesa di S. Paolo aggiungiamo quella del nostro Oratorio si forma la precisa lunghezza di S. Pietro.

Dopo di essere stati per qualche tempo immobili abbiamo cercato il catino dell’acqua santa. Abbiamo scorto due putti, a prima vista molto piccoli, che reggevano una specie di conchiglia nel primo pilastro della basilica. Ci recò meraviglia che una chiesa tanto vasta avesse un’acquasantiera così piccola. Ma la meraviglia si cambiò in sorpresa quando vedemmo i putti farsi sempre più grandi man mano che ci avvicinavamo. La conchiglia divenne un vaso di circa sei piedi di circonferenza, e i putti ai lati ci facevano vedere le loro mani con le dita grandi come un nostro braccio. Ciò dimostra che le proporzioni di questo meraviglioso edificio sono così ben regolate da renderne meno sensibile l’ampiezza, la quale però si nota sempre meglio esaminando ciascun dettaglio. Intorno ai pilastri della navata maggiore si vedono scolpite in marmo le statue dei fondatori degli ordini religiosi.

Nell’ultimo pilone a destra è collocata la statua in bronzo di san Pietro tenuta in grande venerazione. Fu fatta fondere da san Leone Magno col bronzo di quella di Giove Capitolino. Essa ricorda la pace che quel Pontefice ottenne da Attila che infuriava contro l’Italia. Il piede destro che sporge fuori del piedistallo è consumato dalle labbra dei fedeli che non passano mai davanti senza baciarlo con rispetto. Mentre stavamo rimirando la statua, passò l’ambasciatore austriaco a Roma che s’inchinò dinanzi al principe degli Apostoli e gli baciò il piede.

Navate e cappelle
Passiamo ora a dire qualche cosa delle navate minori e delle cappelle che vi si trovano. In quella di destra si incontra per prima la cappella della Pietà. Oltre a magnifici mosaici e alle statue che la adornano, si ammira sopra l’altare il celebrato gruppo scolpito da Michelangelo Buonarroti in marmo bianco, quando non aveva che ventiquattro anni di età. È forse la più bella scultura del mondo. Il medesimo Buonarroti se ne compiacque, tanto che lo firmò sulla cintola del petto di Maria.

A sinistra della cappella della Pietà c’è quella interna dedicata al Crocifisso e a S. Nicola. Da qui si entra nella così detta Cappellina della Colonna Santa, dove si conserva, protetta da una cancellata in ferro, una delle colonne a vite che stavano anticamente davanti all’altare della Confessione di san Pietro. È questa la colonna a cui si appoggiò Gesù Cristo allorché predicò nel tempio di Salomone. Si ammira con meraviglia in questa colonna che la parte toccata dalle sacre spalle del Salvatore non è mai imbrattata di polvere, e perciò non occorre che sia spolverata come il resto.

Dopo la cappella della Pietà s’incontra il monumento sepolcrale di Leone XII, fatto erigere da Gregorio XVI. Il Pontefice è ritratto mentre benedice il popolo dalla Loggia sopra il portico; attorno si vedono le teste dei cardinali assistenti alla cerimonia. Di fronte a questo sepolcro è il cenotafio di Cristina Alessandra, regina di Svezia, morta a Roma il 19 aprile 1689. Costei, protestante, convintasi della poca consistenza della sua religione, si fece istruire nel cattolicesimo e fece la solenne abiura a Ispruch il 3 novembre 1655. Vari bassorilievi che adornano il sepolcro rappresentano l’avvenimento.

Segue la cappella di san Sebastiano anch’essa ricca di pitture e marmi. Uscendo a destra si trova il deposito sepolcrale di Innocenzo XII dei Pignatelli di Napoli. Di fronte c’è il sepolcro della famosa contessa Matilde, insigne benefattrice della Chiesa, e sostenitrice della autorità pontificia. Urbano VIII fece trasferire qui le sue ceneri togliendole dal monastero di san Benedetto a Mantova. Essa fu la prima delle illustri donne che meritarono un sepolcro nella basilica Vaticana. La contessa è rappresentata in piedi; il sepolcro è ornato da un bassorilievo che raffigura l’assoluzione impartita da Gregorio VII ad Enrico IV imperatore di Germania, su istanza di Matilde e di altri personaggi, il 25 gennaio 1077 nella fortezza di Canossa.

Si giunge così alla cappella del Sacramento, ricca di marmi e mosaici. Accanto all’altare una scala porta al palazzo pontificio. Questo altare è dedicato a san Maurizio e compagni martiri, patroni principali del Piemonte. Le due colonne a vite di un sol pezzo che ornano l’altare sono due delle dodici che si credono portate a Roma dall’antico tempio di Salomone. Sul pavimento davanti all’altare si ammira il sepolcro in bronzo di Sisto IV Della Rovere. Esso fu eseguito per ordine di Giulio II suo nipote, e rappresenta le virtù e la scienza proprie del defunto. In esso sono contenute le ceneri dei due papi.

All’uscire dalla cappella ecco a destra il sepolcro di Gregorio XIII Buoncompagni. Lo ornano due statue: la Religione e la Fortezza, al centro un grande bassorilievo rappresenta la riforma del calendario, detta perciò Gregoriana. Qui sono ritratti una quantità di personaggi illustri che ebbero parte in quell’opera, tutti in atto di venerare il Pontefice. Di fronte, entro un’urna di stucco, riposano le ossa di Gregorio XIV della famiglia Sfrondato. Qui termina la navata minore e si entra nella croce greca secondo il disegno del Buonarroti.

Uscendo dalla navata, a destra si trova la Cappella Gregoriana. Sopra l’altare è venerata un’antica immagine della Madonna dei tempi di Pasquale II. Sotto riposa il corpo di san Gregorio Nazianzeno, fatto trasferire per ordine di Gregorio XIII dalla chiesa delle monache di campo Marzio. Proseguendo il cammino si giunge al monumento sepolcrale di Benedetto XIV Lambertini, fatto erigere dai cardinali da lui creati. Ai due lati del sepolcro s’innalzano due magnifiche statue che rappresentano il Disinteresse e la Sapienza, le due virtù maggiormente luminose di questo papa. La statua del Pontefice, in piedi, benedice il popolo con gesto maestoso. Questo lavoro è tanto ben eseguito che il semplice rimirare il Papa ci fa riconoscere in lui la grandezza e la elevatezza del suo animo. Di fronte si riconosce l’altare di san Basilio Magno con sopra un prezioso quadro in mosaico dell’imperatore Valente svenuto alla presenza del Santo, mentre lo guardava celebrare la messa.

Si giunge quindi alla tribuna. Il primo altare a destra è dedicato a san Venceslao martire, re di Boemia; quello di mezzo è consacrato ai santi Processo e Martiniano, guardie del carcere Mamertino, convertite alla fede da san Pietro, quando l’Apostolo vi era rinchiuso. Da questi santi prende nome il complesso; i loro corpi riposano sotto l’altare. Tre preziosi bassorilievi rappresentano san Pietro in prigione liberato dall’Angelo (quello di mezzo), san Paolo che predica nell’Areopago (quello a destra), il terzo i santi Paolo e Barnaba, presi per divinità dagli abitanti di Listri.
S’incontra poi il sepolcro di Clemente XIII Rezzonico, scultura di Antonio Canova. È un capolavoro. Il quadro dell’altare che rimane in faccia al monumento, raffigura san Pietro in pericolo di annegare, sostenuto dal Redentore. Più avanti ecco l’altare di san Michele, poi quello di santa Petronilla, figlia di san Pietro. Questa santa è rappresentata in un mosaico che narra il dissotterramento del cadavere di lei per mostrarlo a Flacco, nobile Romano, che l’aveva chiesta in sposa. Nella parte superiore è raffigurata l’anima di lei che con preghiere ottenne di morire vergine ed è accolta da Gesù Cristo. Più avanti si vede il sarcofago di Clemente X, Altieri: il bassorilievo rappresenta l’apertura della porta santa per il Giubileo del 1675. L’altare è sormontato dal quadro di san Pietro che alle preghiere di una turba di mendicanti risuscita la vedova Tabita.

Attraverso due gradini di porfido che facevano parte dell’altare maggiore dell’antica basilica si ascende all’Altare della Cattedra. Un sorprendente gruppo di quattro statue di metallo reggono la sede pontificale. Le due davanti rappresentano due padri latini Ambrogio e Agostino; le due di dietro i padri Greci, Atanasio e Giovanni Crisostomo. Il peso di questi gruppi ammonta a 219.161 libbre di metallo. La sedia in bronzo riveste, come preziosa reliquia, quella di legno intarsiata con vari bassorilievi d’avorio. Questa sedia è quella del senatore Pudente che servì l’Apostolo Pietro e molti altri papi dopo di lui.

Sopra l’altare della Cattedra come sfondo è effigiato su tela lo Spirito Santo tra vetri colorati e raggianti di modo che, a chi lo guarda, sembra di vedere una stella d’oro risplendente. Sotto invece, a sinistra di chi guarda, c’è il magnifico sepolcro di Paolo III Farnese, monumento molto pregiato per le sue sculture. La statua del Pontefice assiso sull’urna è di bronzo, le altre due statue, di marmo, rappresentano la Prudenza e la Giustizia. Di fronte è posto il sepolcro di papa Urbano VIII la cui statua è di bronzo. La Giustizia e la Carità sono ai suoi lati, scolpite in marmo bianco. Sull’urna si scorge l’immagine della morte in atto di scrivere in un libro il nome del Pontefice. Qui interrompemmo la visita: eravamo stanchi, la visita era durata dalle undici del mattino alle cinque pomeridiane.

Roma. S. Maria della Vittoria
Dal Quirinale guardando verso mezzogiorno si vede la via di Porta Pia, così chiamata dal pontefice Pio IV che per abbellirla eseguì non pochi lavori. Lungo questa strada, presso la fontana dell’Acqua Felice, s’innalza a sinistra la chiesa di S. Maria della Vittoria, edificata da Paolo V nel 1605, e chiamata così per una immagine miracolosa della Madonna trasportatavi dal padre Domenico dei Carmelitani Scalzi. A questa immagine, o meglio alla protezione di Maria, Massimiliano duca di Baviera dovette la grande vittoria riportata in pochi giorni contro i protestanti, che con un esercito numerosissimo avevano messo sottosopra il regno d’Austria. La prodigiosa immagine si conserva sull’altare maggiore. Ai cornicioni sono appese le bandiere tolte ai nemici: glorioso monumento alla protezione di Maria.

In memoria della liberazione di Vienna fu istituita la festa del Nome di Maria che si celebra da tutta la cristianità la domenica tra l’ottava della nascita di Maria. La cosa accadde il 12 settembre 1683 sotto il pontificato di Innocenzo XI. In questa stessa chiesa si celebra una speciale solennità nella seconda domenica di novembre in ricordo della famosa vittoria riportata dai cristiani contro i Turchi a Lepanto il 7 ottobre 1571, sotto Pio V. Anche alcune bandiere tolte ai Turchi sono appese come trofei al cornicione di questa chiesa.
Davanti a S. Maria della Vittoria si trova la fontana di Termini, chiamata fontana del Mosè, perché in una nicchia vi è scolpita la statua di Mosè che con la verga in mano fa scaturire l’acqua dalla pietra. È anche chiamata Acqua Felice da fra’ Felice, che è il nome di Sisto V quando era in convento.

L’isola Tiberina
Nel pomeriggio abbiamo deciso di andare col conte De Maistre a visitare la grande opera di San Michele al di là del Tevere. Dovemmo perciò attraversare il fiume all’altezza di un’isoletta detta Tìberina o anche Lycaonia, da un tempio dedicato a Giove Lycaonio. Quest’isola ebbe origine così. Quando fu espulso Tarquinio da Roma il Tevere era quasi privo d’acqua, e lasciava scoperti alcuni banchi di sabbia. I Romani, mossi da odio contro questo re, andarono nei suoi campi, tagliarono le biade e il farro che era vicino a maturare e gettarono tutto nel Tevere. La paglia andò ad arrestarsi sopra quella sabbia, e depositandosi la fanghiglia di arena che l’acqua faceva scorrere, giunse a consolidarsi a tal punto da potersi coltivare e abitare. In quest’isola i pagani innalzarono un tempio in onore di Esculapio; ma nel 973 vi fu trasferito il corpo di san Bartolomeo che riposa nell’urna sotto l’altare maggiore.

Passato il Tevere e continuando verso il S. Michele s’incontra a destra la chiesa di S. Cecilia, edificata nel luogo dov’era la sua casa. Urbano I, verso la metà del terzo secolo, la consacrò, e san Gregorio Magno la arricchì di molti oggetti preziosi. Entrando a destra c’è la cappella ove era il bagno di santa Cecilia, in cui si dice abbia ricevuto il colpo mortale. L’altare maggiore protetto da una cancellata di ferro, custodisce il corpo della santa. Sopra l’urna è scolpito un commovente lavoro in marmo che la rappresenta distesa e vestita come fu rinvenuta nel sepolcro.

Giunti all’ospizio S. Michele abbiamo avuto udienza dal Cardinale Tosti che ci raccontò vari episodi a lui accaduti al tempo della repubblica. Anch’egli fu costretto a vivere per un po’ lontano dall’ospizio per non rimanere vittima di qualche attentato. Fra le varie cose derubate in quella triste circostanza a questo pio porporato vi furono tre tabacchiere assai preziose specialmente per l’antichità e la provenienza. Portate ai componenti del triumvirato, Mazzini pensò di trattenerne una per sé e regalare le altre due a suoi compagni. Ma essi non osarono prenderle. Mazzini aggiustò tutto, e graziosamente se le pose tutte tre in tasca!

Il Campidoglio
Lungo il tragitto di ritorno, a metà strada si alza il colle più alto di Roma, il Campidoglio così chiamato da caput Toli, capo di Tolo, che fu ritrovato mentre Tarquinio il Superbo ne faceva appianare la sommità per erigerlo in fortezza. Noi salimmo una lunga gradinata alla cui estremità si alzano due statue colossali rappresentanti Castore e Polluce. Il piano che forma la piazza si chiamava anticamente inter duos lucos, perché restava tra i boschetti che ricoprivano le due cime. Qui Romolo aveva creato un riparo per i popoli vicini che avessero voluto rifugiarvisi. Il Campidoglio d’oggi non ha più imponenza guerresca, ma è una piazza maestosa contornata da palazzi che ospitano musei, e dove si trattano gli affari municipali. In una parte di questa piazza esisteva il tempio di Giove Feretrio, così detto dalle armi dei vinti che i vincitori andavano ad appendere all’altare di quel tempio.

In mezzo alla piazza s’innalza la famosa statua equestre di Marco Aurelio in atto di pacificatore. Essa è la più bella fra le più antiche statue di bronzo che si siano conservate intatte. Una parte dei grandi edifici che circondano la piazza costituiscono il palazzo senatorio, fondato da Bonifacio IX nel 1390 sopra il medesimo terreno ove era l’antico senato dei Romani. A lato si trova la fonte dell’Acqua Felice, cui fanno ornamento due statue giacenti del Nilo e del Tevere. Da qui, attraverso una piccola scala, si arriva alla torre del Campidoglio, eretta in forma di campanile sul medesimo luogo ove anticamente montavano gli osservatori per ammirare Roma e controllare i nemici che tentassero di avvicinarsi alla città […]
Nella parte più elevata verso oriente vi era il tempio di Giove Capitolino che veniva chiamato di Giove Ottimo, Massimo, ed era stato eretto da Tarquinio il Superbo sopra le fondamenta preparate da Tarquinio Prisco che ne aveva fatto voto durante la guerra contro i Sabini. Proprio mentre si faceva lo scavo fu rinvenuto il caput Toli.

S. Maria in Aracoeli
Dove era il tempio di Giove Capitolino, ora c’è la maestosa chiesa di Santa Maria in Aracoeli, edificata nel VI secolo dell’era volgare. Per qualche tempo si chiamò Santa Maria in Campidoglio, dal luogo dove sorgeva. Fu poi detta Aracoeli dal fatto seguente. Avendo un fulmine colpito il Campidoglio, Ottaviano Augusto per timore di qualche sventura mandò ad interrogare l’oracolo di Delfi […] Per questo fatto, e per alcuni detti delle Sibille che riguardavano la nascita del Salvatore, Augusto fece innalzare un’ara intitolata: Ara primogeniti Dei, altare del primogenito di Dio. Donde ne derivò il nome di Santa Maria in Aracoeli, dopo che sul posto fu innalzata una chiesa in onore della Madre di Dio. L’interno è a tre navate divise da 22 colonne di marmo già appartenenti al tempio di Giove Feretrio. L’altare maggiore è degno di speciale osservazione, perché sopra di esso si venera un’immagine di Maria, che si pensa sia di san Luca. Questa ai tempi di san Gregorio Magno venne portata processionalmente per Roma per ottenere la liberazione dalla peste. Il fatto è rappresentato in un dipinto sul pilastro a lato dell’altare. Nel mezzo della crociera è collocata la cappella di sant’Elena, dove venne innalzata l’Ara Primogeniti. La mensa dell’altare è una grande urna di porfido, entro cui sono stati riposti i corpi di sant’Elena madre di Costantino, e dei santi Abbondio e Abbondanzio.

In una stanza vicina alla sacrestia si conserva un’effigie miracolosa di Gesù Bambino. Le fasce che lo rivestono sono arricchite di pietre preziose. Essa viene esposta in venerazione durante le feste di Natale, in un bel presepio che si rappresenta in chiesa dentro una cappella. Insieme col Bambino si pongono anche le figure di Augusto e della Sibilla a ricordo di una tradizione che afferma che la Sibilla Cumana predicesse la nascita del Salvatore e perciò Augusto vi eresse un’ara.

Uscendo da Aracoeli e andando verso la parte occidentale del Campidoglio s’incontra la rupe Tarpea che occupava la parte verso il Tevere, e si chiamava così dalla Vergine Tarpea, che vi fu uccisa a tradimento nella guerra dei Sabini. Dall’alto di questa rupe venivano precipitati i traditori della patria. Qui furono martirizzati molti cristiani che, in odio alla fede, furono gettati in basso. Là vicino si trovava la Curia, e la capanna di Romolo, dove, si dice, abbia atteso il responso degli avvoltoi […]

Scendendo verso il basso ecco il tempio della Concordia, fatto costruire da Camillo l’anno 387 di Roma. […] Presso questo tempio nella parte sinistra di chi scende era situato quello di Giove Tonante di cui restano tre colonne di marmo. Fu eretto da Augusto sul clivo capitolino e dedicato a Giove in ringraziamento di essere scampato al fulmine che uccise il servo che lo precedeva.

Il Carcere Mamertino
Il mattino del 2 marzo insieme con la famiglia De Maistre siamo andati a visitare il carcere Mamertino, che è ai piedi del Campidoglio nella parte occidentale. Questo carcere è chiamato così da Mamerto, o Anco Marzio, 4° re di Roma che lo fece costruire per spargere terrore nella plebe, e così impedire i furti e gli assassini. Servio Tullio 6° Re di Roma aggiunse sotto a questo un altro carcere che fu chiamato Tulliano. Esso ha due sotterranei, che nella volta presentano un’apertura capace di far passare un uomo. Attraverso questa si calavano con una corda i condannati […]

Qui sgorga una sorgente d’acqua che si dice sia stata fatta miracolosamente scaturire da san Pietro quando con san Paolo vi era tenuto in prigione. Il principe degli Apostoli si servì di quest’acqua per battezzare i santi Processo e Martiniano, custodi del carcere, assieme ad altri 47 compagni morti tutti martiri. Quest’acqua presenta aspetti miracolosi. Il suo gusto è naturale. Non cresce mai, né mai diminuisce di volume qualsiasi quantità se ne attinga. Due signori inglesi quasi per burlare i cattolici vollero provare a svuotare la piccola fossa dell’acqua che assomiglia a un vaso di piccole dimensioni. Si stancarono essi e i loro amici, ma l’acqua rimase sempre allo stesso livello. Si raccontano molte guarigioni miracolose ottenute dal suo uso. Accanto alla fonte è posta una colonna di pietra a cui furono legati i due principi degli Apostoli. A fianco della colonna è ubicato un piccolo e basso altare ove con grande consolazione ho celebrato la messa, cui hanno partecipato la famiglia De Maistre e altre pie persone. Sopra l’altare un bassorilievo rappresenta Paolo che predica e Pietro che battezza le guardie […]

In un angolo del 1° piano del carcere si nota sul muro l’impronta di un volto umano. Si dice che san Pietro abbia ricevuto un forte schiaffo da uno sgherro, sicché battendo con la faccia nel muro vi abbia lasciato impresso il suo volto che in modo miracoloso si è conservato. Al disopra di questa figura è scolpita questa antica iscrizione: “In questo sasso Pietro batté la testa spinto da sgherro ed il prodigio resta”. Sopra questo carcere venne edificata una chiesa, e sopra questa un’altra ancora dedicata a san Giuseppe. Ha sede qui la confraternita dei falegnami. I membri si radunano nei giorni festivi, assistono alle funzioni sacre e provvedono a quanto è necessario per la manutenzione della chiesa e a quanto occorre per la pulizia del carcere. Anticamente per arrivare all’ingresso della prigione si scendeva attraverso una scala in fondo alla quale era l’apertura da cui venivano precipitati i condannati. Quelle scale furono chiamate Gemonie, dai gemiti dei condannati […]

Città del Vaticano. Devozioni giubilari
Il 3 marzo era destinato alla visita a san Pietro. Partiti alle sei e mezzo da casa con un fresco che allietava la vita e rendeva celeri i nostri passi, prendemmo la direzione del colle Vaticano. Giunti al Ponte Elio, o Ponte Sant’Angelo, sopra cui si passa traversando il Tevere, recitammo il credo. I Pontefici concedono cinquanta giorni d’indulgenza a quelli che recitano il simbolo degli Apostoli mentre passano sopra questo ponte. Viene chiamato Elio da Elio Adriano che lo ha costruito. Ma si chiama anche ponte Sant’Angelo da Castel Sant’Angelo, che è il primo edificio che s’incontra sulla sponda opposta.

Diremo qualche cosa di questo castello. L’imperatore Adriano volle erigere un grande sepolcro sulla riva destra del Tevere. Per la sua larghezza, lunghezza e altezza lo chiamarono Mole Adriana. Allorché Teodosio imperatore fece prelevare le colonne dal mausoleo di Adriano per dotarne la basilica di san Paolo, questa costruzione restò priva della metà superiore e senza colonne. L’anno 537 le truppe di Belisario diedero l’assalto ai Goti per allontanarli da Roma, e allora quasi tutti gli avanzi di quel mausoleo vennero ridotti in pezzi. Nel secolo X fu chiamato Castro e Torre di Crescenzio da un certo Cescenzo Nomentano che se ne impadronì e lo fortificò. Poco dopo la storia gli diede il nome di Castel Sant’Angelo, derivandolo forse da una chiesa dedicata all’angelo Michele […] Ma l’opinione più probabile resta quella che narra di una processione di san Gregorio Magno per ottenere dalla Vergine la liberazione dalla peste: in quell’occasione apparve sull’alta cima della Mole un angelo che rimetteva nel fodero la spada, segno che il flagello stava per cessare. Ora Castel Sant’Angelo è ridotto ad una fortezza ed è l’unica di Roma.

Continuando il nostro cammino siamo arrivati nella grande piazza S. Pietro. Passando davanti all’obelisco, ci siamo tolti il cappello, perché i papi hanno concesso cinquanta giorni d’indulgenza a chi fa riverenza o si scopre il capo passando vicino a quell’obelisco, sopra cui è stata applicata una croce che contiene un pezzo del Santo Legno della croce di Gesù.
Eccoci dunque di nuovo nella Basilica Vaticana. Ne avevamo già visitata la metà più la tribuna, che forma come il coro dell’altare papale, ubicata in mezzo alla crociera, dirimpetto alla cattedra di Pietro. Detto coro fu fatto erigere da Clemente VIII e da lui consacrato l’anno 1594: racchiude l’altare già edificato da san Silvestro. Essendo l’altare papale, vi celebra solo il Papa, e quando qualche altro vuole usarlo occorre un “Breve” apostolico. Ai quattro lati s’innalzano quattro grandi colonne a vite che sorreggono un baldacchino ornato di fregi tutto di bronzo. L’altezza di questo baldacchino dal piano del pavimento eguaglia quella dei più alti palazzi di Torino.

La tomba di Pietro: curiosità di un santo
Davanti all’altare papale attraverso una doppia scala di marmo si discende nel piano della Confessione. All’estremità delle scale sono poste due colonne di alabastro d’Orte, materiale assai raro, trasparente come diamante. Centododici lampade ardono continuamente intorno al venerando luogo. Nel fondo si apre una nicchia formata sull’antico oratorio eretto da san Silvestro, dove sant’Anacleto “eresse una memoria a san Pietro”. Qui riposa il corpo del Principe degli Apostoli. Nelle pareti laterali si aprono due porte munite di un cancello di ferro da dove si passa alle sacre grotte. Proprio di fronte alla nicchia il 28 Novembre 1822 venne collocata la statua in marmo di Pio VI che, in ginocchio, sta in fervorosa preghiera. È questa una delle più belle opere di Antonio Canova. Pio VI era solito di giorno e talvolta anche di notte recarsi presso la tomba di san Pietro per pregare. In vita mostrò il vivo desiderio di essere sepolto lì e alla sua morte si volle esaudirlo. Ma fatto uno scavo di poca profondità fu scoperta una tomba sopra cui era scritto: Linus episcopus. Immediatamente fu rimessa ogni cosa a posto, e il Pontefice fu sepolto in altro angolo della chiesa. In quello prescelto invece del corpo fu collocata la statua di cui abbiamo parlato. Noi abbiamo visto e toccato con mano quanto c’è qui di prezioso, ma non abbiamo potuto vedere il corpo del primo papa, perché da secoli il sepolcro non è stato più aperto per timore che qualcuno tenti di spezzarne qualche reliquia.

Sopra questa tomba è stato innalzato un ricco altare: qui ho avuto la consolazione di celebrare la santa messa. Questo altare con una cappelletta annessa riceve luce da alcuni oblò ricoperti di grate di metallo. Durante la costruzione della basilica, avvenne un fatto prodigioso, riferito da un testimone oculare. Prima che il tetto fosse terminato, caddero piogge così impetuose che le acque inondarono il pavimento della basilica fino a un palmo di altezza. Malgrado tanta abbondanza, l’acqua non osò accostarsi all’altare della Confessione, e neppure discese nell’oratorio inferiore attraverso i tre oblò suddetti, perché, giunta nelle vicinanze, si fermò rimanendo sospesa di modo che neppure una goccia giunse a bagnare quel santuario. Dopo aver osservato ogni oggetto, guardato ogni angolo, le mura, le volte, il pavimento, chiedemmo se non ci fosse più nulla da vedere.
Più nulla, ci fu risposto.
– Ma la tomba del santo apostolo, dov’è?
– Qui sotto. È situata nello stesso luogo che occupava quando era in piedi l’antica basilica
[…]
– Ma noi vorremmo vedere fin là.
– Non è possibile […]
– Ma il papa ha detto che avremmo potuto vedere tutto. Se tornando da lui ci dicesse se abbiamo visto tutto, mi rincrescerebbe di non poter rispondere affermativamente.
Il monsignore [che ci accompagnava] mandò a prendere alcune chiavi e aprì una specie di armadio. Qui si apriva una cavità che scendeva sotterra. Era tutto buio.
È soddisfatto? Mi disse il monsignore.
– Non ancora, vorrei vedere.
– E come vuol fare?
Mandi a prendere una canna e un cerino. Portarono canna e cerino che applicato sulla punta di quella venne calato giù, ma si spense subito nell’aria senza ossigeno. La canna non giungeva fino in fondo. Allora fu fatta venire un’altra canna che aveva all’estremità un uncino di ferro. Così si giunse a toccare il coperchio della tomba di san Pietro. Era a sette/otto metri di profondità. Battendo leggermente, il suono che veniva su indicava che l’uncino stava urtando ora nel ferro ora nel marmo. Ciò confermava quello che avevano scritto gli storici antichi.

Ci vorrebbe un volume per descrivere le cose viste. Quanto esisteva nella basilica costantiniana si conserva in lapidi laterali, o sui pavimenti o nelle volte dei sotterranei. Metto in risalto solo una cosa, l’immagine di Santa Maria della Bocciata, molto antica, posta in un altare sotterraneo. Il nome deriva dal fatto seguente. Un giovane per disprezzo o, forse, inavvertitamente con una boccia colpì in un occhio la figura di Maria. Avvenne un gran prodigio. Grondò sangue dalla fronte e dall’occhio che ancora rosso si vede sopra le gote dell’immagine. Due gocce schizzarono lateralmente sopra il sasso che si conserva gelosamente riparato dietro due cancelli di ferro.

Altari, cappelle, sepolcri
Sopra l’altare papale e la tomba di san Pietro si alza la sterminata cupola che fa restare incantato chi la osserva. Quattro grandi piloni la sostengono: ciascuno di essi ha cento cinquanta passi, circa venticinque trabucchi, di circuito. Tutto intorno a quell’alta cupola ci sono eleganti lavori in mosaico eseguiti dai più celebri autori. Sui pilastri sono incavate quattro nicchie dette Logge delle Reliquie, che sono il Volto Santo della Veronica, la Santa Croce, la Sacra Lancia, e Sant’Andrea. Tra esse è celebre quella del Sacro Volto che si crede essere quel pannolino di cui si servì il Salvatore per asciugarsi la faccia grondante di sangue. Egli vi lasciò impressa la sua effigie che regalò a Veronica che piangente l’accompagnava al Calvario. Persone degne di fede raccontano che questo Sacro Volto l’anno 1849 trasudò sangue più volte, anzi cambiò colore tanto da variarne i lineamenti. Queste cose furono scritte, e i canonici di S. Pietro ne danno testimonianza.

Partendo dall’altare papale e proseguendo verso la parte meridionale si incontra il sepolcro di Alessandro VIII degli Ottobuoni. Fu fatto erigere dal nipote cardinale Pietro Ottobuoni. La statua del Papa assiso in trono è di metallo. Due statue in marmo sono ai due lati, e rappresentano la Religione e la Prudenza. L’urna è coperta dal bassorilievo della canonizzazione di Lorenzo Giustiniani, Giovanni da Capistrano, Giovanni da san Facondo, Giovanni di Dio e Pasquale Bajlon, fatta da Alessandro VIII nel 1690. A fianco si erge l’altare di san Leone Magno su cui si ammira il sorprendente bassorilievo del Pontefice che va incontro al feroce Attila. In alto sono effigiati Pietro e Paolo, accanto al Papa Attila, spaventato dalla comparsa dei due e in atto di ossequiare il Pontefice. In un’urna sotto l’altare riposa il corpo del santo papa e dottore della Chiesa. Davanti è posta la tomba di Leone XII, morto nel 1829, il quale aveva tanta venerazione per questo suo glorioso antecessore, da voler essere sepolto accanto a lui. […]

L’altare che segue è dedicato alla Vergine della Colonna, così detta perché vi si venera l’immagine di Maria dipinta sopra una colonna dell’antica basilica costantiniana. Vi fu collocata nel 1607. L’altare custodisce i corpi di Leone II, III e IV. Continuando il giro sulla linea meridionale incontriamo a destra il sepolcro di Alessandro VII Ghigi con quattro statue: Giustizia, Prudenza, Carità e Verità. Siccome questo pontefice aveva sempre presente il pensiero della morte, lo scultore ha steso una coltre in rilievo, sotto a cui la figura della morte mostra una clessidra, cioè un orologio a polvere, che sta per terminare la sua carica. Il Papa sta pregando a mani giunte in ginocchio. L’altare sulla sinistra è dedicato agli apostoli Pietro e Paolo. Vi è rappresentata la caduta di Simon Mago. Di fronte è collocato l’altare dei santi Simone e Giuda che qui riposano. L’altare a destra invece è dedicato a san Tommaso e custodisce il corpo di Bonifacio IV, mentre quello a sinistra conserva le spoglie di Leone IX. Di fronte alla porta della sacrestia l’altare dei santi Pietro e Andrea rappresenta in prezioso mosaico la morte di Anania e Saffira.

Si giunge così alla cappella Clementina, il cui altare, dedicato a san Gregorio Magno, è sormontato da un bel mosaico del santo in atto di convincere gli increduli. Sotto l’altare se ne venera il corpo. Sopra la porta che conduce all’organo è posto il monumento sepolcrale di Pio VII. Il Pontefice, seduto sopra una ricca sedia e vestito degli abiti pontificali, è in atto di benedire. Le statue poste ai lati rappresentano la Sapienza e la Fortezza. Prima di arrivare alla navata laterale si incontra l’altare della Trasfigurazione il cui mosaico presenta la trasfigurazione del Salvatore sul monte Tabor.

La navata minore sinistra
Entrati nella navata minore si incontrano ai due lati due sepolcri, a destra quello di Leone XI dei Medici. Un bassorilievo descrive il Pontefice che assolve Enrico IV re di Francia […] Più in basso vi sono rose scolpite col motto: Sic floruit, per indicare la caducità della vita e simboleggiare la brevità del pontificato di Leone XI, che fu di soli 21 giorni.
Il sarcofago di sinistra è di Innocenzo XI Odescalchi. Il bassorilievo sovrapposto ritrae la liberazione di Vienna dai Turchi, avvenuta sotto il suo pontificato. Inoltrandosi lungo la navata, si giunge alla cappella del coro, arricchita di mosaici e dipinti. Sotto l’altare riposa il corpo di san Giovanni Crisostomo. Questa cappella ha un sotterraneo ove si conservano le ceneri di Clemente XI. Viene chiamata Cappella Sistina da Sisto IV che ne aveva eretta un’altra nel luogo medesimo dell’antica basilica. A destra si accede alla cantoria del coro, e alla Cappella Giulia, così detta da Giulio II che ne fu l’istitutore. Sopra questa porta esiste un’urna di stucco che racchiude le ceneri di Gregorio XVI, morto nel 1846. Quest’urna viene riservata per accogliere il cadavere dell’ultimo pontefice sino a che gli venga eretta una sepoltura.

Il sepolcro d’Innocenzo VIII della famiglia Cibo è di fronte. Due sono le figure di quel Papa: una seduta col ferro della lancia in mano, per alludere a quella con cui venne trafitto Gesù, mandatagli in dono da Bajasetto II, imperatore dei Turchi; l’altra distesa, sotto la prima […] Prospiciente alla porticina che immette alla scala della cupola c’è il cenotafio di Giacomo III, re d’Inghilterra, della famiglia Stuart, morto a Roma il 1° di gennaio 1766, e dei due suoi figli Carlo III ed Enrico IX, cardinale, duca di York. I tre busti in bassorilievo, sono di Antonio Canova.
L’ultima cappella è quella del Battistero. La conca battesimale è di porfido e formava il coperchio dell’urna di Ottone II imperatore che fu qui trasportata quando le sue ceneri vennero poste nelle grotte Vaticane […]

Roma. S. Andrea al Quirinale
Il permesso di visita terminava a mezzogiorno e mezzo, sicché il signor Carlo, che ci guidava e noi pure guidati da buon appetito, abbiamo rimandato ad altra volta la salita sulla cupola e la visita al palazzo Vaticano. Dopo il pranzo, e qualche ora di riposo abbiamo dato un’occhiata al Quirinale e alle cose più importanti vicine alla nostra dimora. Il Quirinale è uno dei sette colli di Roma antica, così chiamato dai Quiriti che vennero qui ad abitare, e da un tempio dedicato a Romolo, venerato sotto il nome di Quirino. Alla nostra sinistra procedendo verso piazza Monte Cavallo, s’incontra la chiesa di Sant’Andrea, dov’è oggi il noviziato dei Gesuiti. Essa custodisce, in una cappella dedicata a san Stanislao Kostka, dentro un’urna di lapislazzuli ornata di marmi preziosi, il corpo del santo. Accanto a questa chiesa c’è il monastero delle Domenicane. Si vuole che queste due costruzioni siano sorte sulle rovine del tempio di Quirino. A destra della via s’innalza il maestoso palazzo del Quirinale, iniziato da Paolo III circa 300 anni or sono, e terminato dai suoi successori. Lo ornano architetture, sculture, pitture e mosaici di gran pregio. Il Papa vi abita per una parte dell’anno. Il palazzo ha uno spazioso giardino di un miglio circa di perimetro. Fra le altre meraviglie vi si ammira un organo che suona alimentato dalla forza dell’acqua che qui scorre.

Davanti al Quirinale si apre la piazza di Monte Cavallo, così chiamata per via di due cavalli colossali in bronzo che rappresentano Castore e Polluce. Pio VI fece innalzare un obelisco in mezzo a questa piazza. Esso è lavoro eseguito per ordine di Smarre ed Efre, principi dell’Egitto, e trasportato a Roma dall’imperatore Claudio. Non ha geroglifici. A sud domina il magnifico palazzo Rospigliosi, innalzato dove anticamente erano le terme di Costantino. Gli amanti delle belle arti possono qui visitare molti capolavori di pittura e scultura.

Santa Croce in Gerusalemme
Il 4 marzo era dedicato alla basilica di S. Croce in Gerusalemme. Il tempo era nuvoloso, e fatta appena un po’ di strada fummo sorpresi dalla pioggia. Non essendo provvisti di ombrella giungemmo bagnati come due sorci; ma la consolazione provata nella visita ci compensò sia dell’acqua che del disagio patito. È questa una delle sette basiliche che si visitano per guadagnare le indulgenze. Fondata da Costantino il Grande, dove sorgeva il palazzo detto Sassorio, fu chiamata Basilica Sassoriana e venne eretta in memoria del ritrovamento della santa Croce fatto da sant’Elena, madre dell’imperatore, a Gerusalemme. Quella principessa vi fece trasportare molta terra del Calvario, prelevata dal luogo dove fu rinvenuta la Croce di Cristo. L’edificio prese il nome Santa Croce dalla parte considerevole del santo Legno che vi si conserva, e fu aggiunto in Gerusalemme perché questa santa reliquia, assieme a molte altre, fu qui trasportata da quella città. La chiesa venne consacrata da san Silvestro papa. Sotto l’altare maggiore riposano i corpi di san Cesario e sant’Anastasio martiri […]

Di fronte all’altare vi è la cappella Gregoriana, privilegiata perché si può lucrare l’indulgenza plenaria applicabile alle anime del purgatorio, sia per quelli che celebrano la messa, che per quelli che l’ascoltano. A questo altare con gran consolazione ho celebrato anch’io. Accanto alla chiesa sorge il convento dei Cistercensi. Il padre Abbate è un certo Marchini, piemontese, il quale ci usò molta cortesia. Fra le altre cose ci ha fatto visitare la biblioteca, ricca di pergamene antiche e di altre opere […]

Un giorno di pioggia
Il 5 marzo fu un giorno piovoso, perciò l’abbiamo impiegato quasi interamente a scrivere. C’è questo di singolare a Roma, che piove e c’è sole contemporaneamente, sicché in certe epoche dell’anno bisogna essere continuamente muniti di ombrello per difendersi o dal sole o dalla pioggia. Alle dieci di questo giorno passava a miglior vita il padre Lolli, rettore del noviziato dei Gesuiti, nella chiesa di Sant’Andrea a Monte Cavallo, un piemontese che dimorò per lungo tempo a Torino ove si rese celebre per la predicazione e la sollecitudine nell’apostolato del confessionale. La regina di Sardegna Maria Teresa lo aveva scelto come suo confessore […]

In questo giorno siamo venuti a sapere che le malattie a Roma si erano moltiplicate, e che la mortalità attuale è quattro volte superiore alla media. Nei soli mesi di gennaio e febbraio morirono circa 6600 persone; un numero assai grande, tenuto conto della popolazione che ammonta a circa 130 mila abitanti. Verso sera sono uscito per farmi radere la barba. Andai in una bottega e fui servito abbastanza bene; ma feci il proposito di non andarci mai più, perché tanti furono gli urti e gli scrolloni che mi diede colle sue manacce il barbiere che mi avrebbe spostato denti e mandibole, se non avessero avuto radici ben salde.

L’Ospizo s. Michele
Secondo l’invito fattoci dal cardinale Tosti, il 6 marzo siamo andati colla famiglia De Maistre a visitare l’Ospizio S. Michele. Oltre a quanto dissi la volta scorsa, posso aggiungere quanto segue. Il primo tratto di cortesia usatoci fu una sontuosa colazione, cui però non abbiamo potuto partecipare, perché l’avevamo fatta prima di partire, ed essendo giorno di digiuno non potevamo più mangiare fino al pranzo. Così ci siamo limitati ad una piccola tazza di cioccolata, che sua Eminenza ci disse essere compatibile col digiuno. Ci fu data anche una bibita di ottimo sapore al mandarino, una specie di vino fatto con frutti disseccati e posti in fusione con acqua e zucchero. Soltanto Rua non essendo obbligato al digiuno mangiò qualche cosa di più solido.

Poi abbiamo iniziato la visita di quello spazioso ospizio dove sono ricoverate oltre ottocento persone. Il cardinale Tosti ci accompagnò ovunque. Ci siamo fermati specialmente a considerare il lavoro dei giovani. Qui imparano gli stessi mestieri che imparano da noi: la maggior parte si occupa nel disegno, nella pittura, nella scultura; e molti lavorano in una tipografia interna. Il Santo Padre per aiutare l’Ospizio gli ha concesso il privilegio di stampare in esclusiva i libri di scuola che si usano negli Stati Pontifici. Sopra l’edificio vi è un terrazzo con una magnifica vista: guardando a ponente si scorge l’accampamento dei francesi venuti a liberare Roma […] Alle dodici e mezzo, quando ormai i ragazzi erano a pranzo, essendo anche il cardinale molto stanco, abbiamo preso congedo […]

S. Maria in Cosmedin e la Bocca della Verità
Secondo il solito pioveva a meraviglia, e tra me e Rua, avendo una sola ombrella assai piccola, abbiamo trovato il modo di bagnarci tutti e due. Abbiamo passato il Tevere sopra un ponte chiamato Ponte Rotto perché, si era rovinato, e fu sostituito con un ponte di ferro molto simile a quello che abbiamo sul Po a Torino. Anticamente si chiamava ponte Coclite, perché è quello stesso, in cui Orazio Coclite oppose un’eroica resistenza all’esercito di Porsenna, finché il ponte fu tagliato, ed egli si gettò nel Tevere passando a nuoto all’altra sponda fra i dardi dei nemici meravigliati.

S’incontra qui una via detta Bocca della Verità, perché in fondo alla medesima c’era il luogo dove si conducevano coloro che dovevano fare un giuramento. Adesso c’è una chiesa chiamata S. Maria in Cosmedin, parola che vuol dire ornamento, perché fu con magnificenza ornata dal pontefice Adriano I. Al suo interno si conserva la cattedra di cui si servì Sant’Agostino quando insegnava Retorica. Sotto al vestibolo ci siamo ritirati per attendere che smettesse l’acquazzone che stava inondando tutte le vie. Mentre stavamo là abbiamo dato uno sguardo alla piazza chiamata anch’essa Bocca della Verità.

I vaccari
Vi erano molti buoi aggiogati che bivaccavano, esposti alla pioggia al fango e al vento. I bovari si erano riparati sotto il medesimo vestibolo mettendosi a pranzare con invidiabile appetito. Al posto della minestra e della pietanza avevano un pezzo di merluzzo crudo, da cui ciascuno strappava un pezzo. Alcune pagnottelle di meliga e segala era il loro pane. Acqua la bevanda. Scorgendo in loro un’aria di semplicità e di bontà mi avvicinai e feci questa conversazione.
– Avete buon appetito?
Molto, rispose uno di essi.
– Vi basta quel cibo a togliervi la fame e sostentarvi?
– Ci basta, grazie a Dio, quando possiamo averne, giacché, essendo poveri, non possiamo pretendere di più.
– Perché non conducete quei buoi nelle stalle?
– Perché non ne abbiamo.
– Li lasciate sempre esposti al vento, alla pioggia, alla grandine giorno e notte?
– Sempre, sempre.
– Fate lo stesso ai vostri paesi?
– Si, facciamo lo stesso, perché nemmeno là abbiamo stalla, perciò o piova, o faccia vento, o nevichi, giorno e notte stanno sempre all’aperto.
– E le vacche e i vitelli piccoli sono anch’essi esposti a tali intemperie?
– Certamente. Tra di noi si usa che gli animali, quelli di stalla stanno sempre in stalla e quelli che cominciano a stare fuori se ne stanno sempre fuori.
– Abitate molto lontano di qui?
– Quaranta miglia.
– Nei giorni festivi potete assistere alle sacre funzioni?
– Oh! chi ne dubita? Abbiamo la nostra cappella, il prete che ci dice messa, fa la predica ed il catechismo, e tutti, comunque lontani, si danno premura d’intervenire.
– Andate anche qualche volta a confessarvi?
– Oh! Senza dubbio. Ci sono forse cristiani che non adempiono questi santi doveri? Adesso ci è il giubileo e noi tutti ci daremo sollecitudine di farlo bene.
Da questo ragionamento appare la buona indole di questi paesani, i quali nella loro semplicità vivono contenti della loro povertà e lieti del loro stato, purché possano adempiere i doveri di buon cristiano e disimpegnare ciò che riguarda al basso loro commercio.

S. Maria del Popolo
Domenica 7 marzo era destinata alla visita di S. Maria del Popolo. Alcune pie e nobili persone desideravano che andassimo là a celebrare la messa, per poter fare la comunione. Era questa una pia devozione. Alle nove il signor Foccardi, persona servizievole e piena di fede, ci venne a prendere con la propria vettura per trasportarci al luogo indicato. Questa chiesa fu costruita sul luogo dove erano stati sepolti Nerone e la famiglia Domizia. La tradizione dice che vi apparissero continuamente spettri che atterrivano i cittadini tanto che nessuno voleva abitare nei dintorni. Il pontefice Pasquale II l’anno 1099 vi fece innalzare una chiesa, e per allontanare l’infestazione diabolica la dedicò a Maria Santissima. L’anno 1227 l’antica chiesa minacciava di cadere e il popolo romano concorse con generosità alle spese di ricostruzione. Proprio per questo fu chiamata S. Maria del Popolo. Una chiesa grandiosa, ricca di marmi e pitture. Nell’altare maggiore si venera un’immagine miracolosa della Madonna fatta prelevare per ordine di Gregorio IX dalla cappella del Salvatore in Laterano. Vicino c’è il convento dei padri Agostiniani.

Porta del Popolo anticamente si chiamava Porta Flaminia, perché era all’inizio della via Flaminia […]. Fuori di questa porta, voltando a destra, si trova Villa Borghese, un maestoso edificio degno di essere visitato dai turisti a motivo dei molti oggetti d’arte che vi sono conservati. Porta del Popolo delimita una gran piazza chiamata Piazza del Popolo, e abbellita da copiose fontane, e da obelischi, i quali come ognuno sa, sono monumenti di una remota antichità fatti innalzare dai re dell’Egitto per rendere immortale la memoria delle loro azioni. Il superbo obelisco che si eleva in mezzo alla piazza fu costruito a Eliopoli per ordine di Ramesse, re di Egitto, che regnò nel 522 a. C. L’imperatore Augusto lo fece trasportare a Roma; ma per sventura si rovesciò, spezzandosi e fu coperto di terra. Papa Sisto V nel 1589 lo fece dissotterrare innalzandolo nella piazza, dopo averne dotato il culmine di un’alta croce di metallo. Le sue quattro facce sono coperte di geroglifici, cioè di simboli misteriosi dei quali si servivano gli Egiziani per esprimere le cose sacre ed i misteri della loro teologia.

Nel fondo della piazza s’innalza la chiesa di S. Maria dei Miracoli, costruita da Alessandro VII, e chiamata così a causa di un’immagine miracolosa della Madonna che prima era dipinta sotto un arco nei pressi del Tevere. A sinistra c’è un’altra chiesa, S. Maria di Monte Santo, perché edificata sopra un’altra chiesa che apparteneva ai carmelitani della provincia di Monte Santo. Fu inaugurata nel 1662. Appagata così devozione e curiosità, siamo di nuovo saliti in vettura che ci portò a casa della principessa Potosca, dei conti e principi Sobieschi, antichi sovrani di Polonia. La colazione apparecchiata per noi era sontuosa, ma troppo signorile, quindi poco adatta al nostro appetito. Ci siamo aggiustati alla meglio. Siamo tuttavia rimasti molto soddisfatti dalla conversazione veramente cristiana, che quelle signore tennero per il tempo che ci trattenemmo a casa loro.
Una cosa suscitò la nostra meraviglia. Terminato di mangiare, la padrona di casa si fece portare un mazzetto di sigari e si mise a fumare. Malgrado una conversazione assai animata ella continuò con grande avidità a fumare un sigaro dopo l’altro, e questo mi mise a disagio, essendo costretto a sopportare l’odore di fumo che impregnava tutta la casa. Mi provocava la nausea risultandomi insopportabile […]

Città del Vaticano. La salita al Cupolone
Riservammo l’8 marzo per visitare la famosa cupola di S. Pietro. Il canonico Lantieri ci aveva procurato il biglietto necessario per appagare questa curiosità. L’orario in cui è permessa la salita va dalle 7 alle 11 ½ del mattino. Il tempo era sereno e perciò propizio. Dopo aver celebrato l’eucarestia nella Chiesa del Gesù, dove stanno i Gesuiti, sull’altare di san Francesco Saverio, giungemmo in Vaticano alle 9 in compagnia del signor Carlo De Maistre. Consegnato il biglietto, ci fu aperta la porticina e cominciammo a salire su per una scala assai comoda fatta come un ripido terrazzo. Salendo s’incontrano varie iscrizioni che ricordano il nome e l’anno di tutti i pontefici che aprirono e chiusero gli anni giubilari. Vicino al ripiano del terrazzo sono scritti i più celebri personaggi, re o principi, che salirono fino alla palla della cupola. Abbiamo letto con piacere anche il nome di vari dei nostri sovrani e della famiglia reale.

Abbiamo dato un’occhiata al terrazzo della basilica. Si presenta come una vasta piazza selciata dove si può giocare a palla, a bocce, e simili. Qui abitano alcune persone cui è affidata la cura della parte superiore del tempio: falegnami, ferrai, lavoratori dell’asfalto. Quasi nel mezzo del terrazzo è posta una fontana sempre aperta, dove Rua andò a bere.
Dalla piazza sottostante avevamo osservato le statue dei dodici apostoli che ornano l’alto cornicione della basilica. Da laggiù apparivano piccole, ma da vicino ci accorgemmo che il solo dito pollice del piede aveva la grossezza del corpo d’un uomo. Da ciò si può capire a quale altezza eravamo. Abbiamo anche visitato la campana maggiore che ha un diametro di oltre tre metri che significano tre trabucchi di circonferenza (c.ca 9 metri n.d.r.).

Una veduta per noi assai curiosa fu il giardino vaticano dove il papa suole andare a passeggiare a piedi. Si calcola che esso abbia la lunghezza che vi è da Porta Susa al principio di Via Po. A Sud si scorgevano vaste campagne. La nostra guida ci disse:
Tutto quel piano era coperto di soldati francesi quando vennero a liberare la nostra città dai ribelli. E ci indicava la basilica di S. Sebastiano, S. Pietro in Montorio, Villa Panfili, Villa Corsini, tutti edifici che soffrirono gravissimi danni per essere stati fatti campi di battaglia.
Una scaletta a chiocciola ai fianchi della cupola ci condusse su fino alla prima ringhiera. Da questo ripiano ci pareva di volare in alto e allontanarci da terra. La guida ci aprì una porticina la quale immetteva su una ringhiera interna che faceva il giro della cupola. L’ho voluta misurare, e camminando da buon viaggiatore ho contato 230 passi prima di completare il giro. Una curiosità: in qualsiasi punto della ringhiera ti trovi, parlando anche sottovoce con la faccia rivolta al muro, il più piccolo suono si comunica nitidamente da una parete all’altra. Abbiamo anche notato che i mosaici della chiesa che da sotto apparivano molto piccoli, da lì prendevano una forma gigantesca.
Coraggio, ci esortò la guida, se vogliamo vedere altre cose. Così infilammo un’altra scala a chiocciola e arrivammo alla seconda ringhiera. Qui ci pareva di esserci innalzati verso il Paradiso, e quando entrammo nella ringhiera interna e lasciammo cadere lo sguardo sul pavimento della basilica, ci rendemmo conto della straordinaria altezza cui eravamo giunti. Le persone che lavoravano o camminavano laggiù sembravano bambini. L’altare papale che è sormontato da un baldacchino di bronzo che in altezza sorpassa le più alte case di Torino, da lì pareva un semplice seggiolone.

L’ultimo piano sopra cui siamo saliti è quello che posa sopra la punta della cupola, da dove si gode forse la veduta più maestosa del mondo. Tutto intorno lo sguardo va a perdersi in un orizzonte formato dai limiti della vista umana. Dicono che guardando verso levante si può vedere il mare Adriatico, a ponente il Mediterraneo. Noi però abbiamo soltanto potuto scorgere la nebbia che il tempo piovoso dei giorni passati aveva sparso un po’ dovunque.

C’era rimasta la palla, un globo che da terra pare una delle bocce di cui ci serviamo per passare un po’ di tempo; da lì appariva grandissima. I più coraggiosi, passando per una scaletta perpendicolare e camminando come dentro a un sacco, si arrampicarono come gatti per l’altezza di due trabucchi, ossia sei metri. Alcuni non ebbero abbastanza coraggio. Noi, che eravamo un po’ più temerari, ci siamo riusciti. Dalla palla tutto appare meraviglioso. Mi avevano detto che avrebbe potuto contenere sedici persone; a me pareva però che ce ne potessero stare comodamente trenta. Alcuni buchi, quasi piccole finestre, permettono di osservare la città e le campagne. Ma la grande altezza dà una certa sensazione e non rende del tutto gradevole la visione. Pensavamo che lassù facesse freddo. Tutto il contrario: il sole battendo sul bronzo della palla la riscaldava a tal punto che ci sembrava essere in piena estate. Credo che questa sia una delle ragioni per cui dopo pranzo non è permesso salire fin lassù: per il caldo insopportabile. Qui dopo aver parlato di varie cose riguardanti i giovani dell’oratorio, soddisfatti della nostra impresa, quasi avessimo riportata una grande vittoria, abbiamo cominciato la discesa con passo lento e grave, per non romperci l’osso del collo, e senza più fermarci siamo arrivati a terra.

Per riposarci un po’ siamo andati ad ascoltare la predica che era iniziata proprio allora nella basilica. Il predicatore ci piacque. Buona lingua, bel gesto, ma il tema non ci interessò molto perché trattava dell’osservanza delle leggi civili. Quello però che non servì a nutrire lo spirito servì assai bene a dar riposo al corpo. Restandoci ancora un briciolo di tempo l’abbiamo impiegato a visitare la sacrestia che è una vera magnificenza degna di S. Pietro.
Intanto erano arrivate le undici e mezzo, e a causa del digiuno e del tanto camminare avevamo un grande appetito; perciò siamo andati a fare una piccola refezione. Rua non soddisfatto giudicò bene di andarsene a pranzo, così io rimasi solo col signor Carlo De Maistre, indivisibile compagno di quella giornata. Ristorati alquanto siamo andati a fare visita a monsignor Borromeo, maggiordomo di Sua Santità che ci accolse benissimo, e, dopo aver parlato del Piemonte e di Milano sua patria, si annotò i nostri nomi per inserirci sul catalogo delle persone che desiderano ricevere la palma dal Santo Padre nella funzione della Domenica delle Palme.

Ai famosi musei
Accanto alla loggia di questo prelato, intorno al cortile del palazzo pontificio ci sono i Musei Vaticani. Ci siamo entrati e abbiamo visto cose davvero eccezionali. Ne descrivo solo alcune. C’è una sala di lunghezza straordinaria arricchita di marmi e preziosissimi dipinti. In mezzo alla seconda arcata campeggia una acquasantiera di circa un metro e mezzo, formata di malachite, uno dei marmi più preziosi del mondo. È un dono fatto dall’imperatore di Russia al Sommo Pontefice. Ci sono vari altri oggetti di simile genere. In fondo a quella grande sala a sinistra si apre una specie di lungo corridoio che ospita il museo cristiano […] Nel medesimo si estende la Biblioteca Vaticana, dove si conservano i manoscritti più celebri dell’antichità […]

In giro per Roma
Dal Vaticano andando verso il centro di Roma siamo arrivati a piazza Scossacavalli ove lavorano gli scrittori del celebre periodico La Civiltà Cattolica. Ci siamo fermati a far loro una visita e abbiamo provato un vero piacere nell’osservare che i principali sostenitori di questa pubblicazione sono piemontesi. Sentivo ormai un vivo desiderio di tornare a casa, superando ogni indugio, ed eravamo quasi giunti al Quirinale, quando il signor Foccardi ci vide passare davanti la sua bottega e ci chiamò dentro. A forza di inviti e cortesia ci trattenne alquanto, e nel momento in cui chiedemmo di partire ci disse:
Ecco la vettura, vi accompagno fino a casa. Sebbene mi mettessi di mala voglia in vettura, tuttavia per compiacerlo accondiscesi. Ma il Foccardi desiderando trattenersi più a lungo con noi ci fece fare un lungo giro tanto che siamo arrivati a casa a notte inoltrata.

Qui mi venne consegnata una lettera. L’apro e la leggo. Si notifica al signor Abate Bosco che Sua Santità si è degnata di ammetterlo all’udienza domani, nove di marzo, dalle ore undici e tre quarti ad un’ora. Questa notizia, attesa e molto desiderata, mi procurò una rivoluzione interiore e per tutta la serata non riuscii a parlare d’altro se non del Papa e dell’udienza.

L’udienza papale. S. Maria sopra Minerva
Era arrivato il 9 marzo, il grande giorno dell’udienza papale. Prima però avevo bisogno di parlare col cardinale Gaude; perciò mi recai a dire messa nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, dove il porporato aveva la sua dimora. Anticamente era un tempio che Pompeo il Grande aveva fatto edificare alla dea Minerva; fu chiamata S. Maria sopra Minerva perché fu fabbricata precisamente sopra le rovine di questo tempio. L’anno 750 papa Zaccaria la donò ad un convento di monache greche. L’anno 1370 passò ai padri predicatori che tuttora la officiano. Dinanzi a questa chiesa si apre una piazza ove abbiamo ammirato un obelisco egizio con geroglifici, la cui base poggia sul dorso di un elefante di marmo. Entrati abbiamo potuto ammirare uno degli edifici sacri più belli di Roma. Sotto l’altare maggiore riposa il corpo di S. Caterina da Siena. Celebrata la messa e recatomi con tutta fretta dal cardinale Gaude, gli parlai, quindi partimmo alla volta del Quirinale.

Il piccolo bugiardo
Lungo la via abbiamo incontrato un ragazzo che con buona grazia ci chiese l’elemosina e per farci conoscere la sua condizione ci disse che suo padre era morto, sua madre aveva cinque figlie e che egli sapeva parlare italiano, francese e latino. Meravigliato, gli indirizzai un discorso in francese a cui diede per risposta un solo oui senza né intendere quel che dicevo, né articolare altre espressioni; lo invitai allora a parlare latino, ed egli senza badare alle mie parole si mise a recitare a memoria le seguenti parole: ego stabam bene, pater meus mortuus est l’annus passatus et ego sum rimastus poverus. Mater mea etc. Qui non abbiamo più potuto trattenere le risa. Però l’abbiamo poi avvertito di non dire bugie e gli abbiamo regalato un baiocco.

L’anticamera
Intanto l’ora dell’udienza si avvicinava […] Giunti in Vaticano, salimmo le scale macchinalmente. Ovunque c’erano le guardie nobili, vestite da sembrare tanti principi. Al piano nobile ci aprirono la porta che introduceva nelle sale pontificie. Guardie e camerieri, abbigliati con gran lusso, ci salutavano con profondi inchini. Consegnato il biglietto per l’udienza, fummo condotti di sala in sala fino all’anticamera papale. Siccome vi erano parecchi altri che attendevano, abbiamo aspettato circa un’ora e mezzo prima di essere ricevuti.

Quel tempo l’abbiamo impiegato a osservare le persone e il posto dove ci trovavamo. I domestici del Papa erano vestiti quasi come i vescovi dei nostri paesi. Un monsignore, cui si dà il titolo di prelato domestico introduceva a turno le persone per l’udienza man mano che finiva quella precedente. Abbiamo ammirato grandi sale ben tappezzate, maestose, ma senza lusso. Un semplice tappeto di panno verde copriva il pavimento. Le tappezzerie erano di seta rossa ma senza ornati. Le sedie di legno duro. Un seggiolone posto sopra un palchetto alquanto elegante indicava che quella era la sala pontificia. Tutto questo ci ha fatto piacere, perché coi nostri occhi abbiamo potuto renderci conto della falsità delle dicerie che taluni vanno spargendo contro lo spazio e il lusso della corte pontificia. Mentre eravamo immersi in vari pensieri, suonò il campanello, e il prelato ci fece cenno di avanzare per presentarci a Pio IX. In quel momento io rimasi veramente confuso e dovetti farmi violenza per rimanere calmo.

Pio IX
Rua mi seguì recando una copia delle Letture Cattoliche. Entrati, facemmo la genuflessione all’inizio, poi a metà della sala, infine, la terza, ai piedi del Papa. Cessò ogni apprensione quando scorgemmo nel Pontefice l’aspetto di un uomo affabile, venerando, e al tempo stesso il più bello che potesse dipingere un pittore. Non gli potemmo baciare il piede, perché era seduto al tavolino; gli baciammo però la mano, e Rua, memore della promessa fatta ai chierici, la baciò una volta per sé e una volta per suoi compagni. Allora il Santo Padre fece segno di alzarci e metterci davanti a lui. Io, secondo l’etichetta, avrei voluto parlare restando in ginocchio.
No, egli disse, alzatevi pure. Conviene qui notare che nell’annunziarci al Papa fu letto male il nostro nome. Infatti invece di scrivere Bosco era stato scritto Bosser, perciò il Papa cominciò ad interrogarmi:
– Voi siete piemontese?
– Sì, Santità, sono piemontese, e in questo momento provo la più grande consolazione della mia vita, trovandomi ai piedi del Vicario di Cristo.
– Di che cosa vi occupate?
– Santità, io mi occupo dell’istruzione della gioventù e delle Letture Cattoliche.
– L’istruzione della gioventù è stato un apostolato utile in tutti i tempi, ma oggi lo è molto di più.
C’è anche un altro a Torino che si occupa di giovani. Allora mi accorsi che il Papa aveva sottomano un nome sbagliato, ma, senza saper come, anche lui si rese conto che io non ero Bosser, ma Bosco; così assunse un aspetto molto più festoso, e chiese tante cose riguardanti i giovani, i chierici, gli oratori […] Quindi con volto ridente mi disse:
– Mi ricordo dell’offerta mandatami a Gaeta e dei teneri sentimenti con cui quei giovani l’accompagnarono. Approfittai per esprimergli l’attaccamento dei nostri giovani alla sua persona e lo pregai di gradire una copia delle Letture Cattoliche:
– Santità, gli dissi, le offro una copia dei volumetti finora stampati a nome della direzione; la legatura è opera dei giovani della nostra scuola.
– Quanti sono questi giovani?
– Santità, i giovani della casa sono circa duecento, i legatori sono quindici.
Bene, egli rispose, voglio mandare una medaglia a ciascuno. Quindi andato in un’altra stanza, dopo brevi istanti tornò portando quindici piccole medaglie della Concezione:
Queste saranno per i giovani legatori, disse mentre me le porgeva. Rivoltosi poi a Rua, gliene diede una più grande dicendo:
Questa è per il suo compagno. Quindi rivoltosi nuovamente a me, mi porse una piccola scatola che ne rinchiudeva un’altra più grande:
E questa è per voi. Essendoci inginocchiati per ricevere i regali, il Santo Padre ci invitò ad alzarci, e credendo poi che volessimo partire, stava per congedarci, quando io presi a parlargli così:
– Santità, avrei qualche cosa di particolare da comunicarle.
Va bene, rispose […].
Il Santo Padre è speditissimo nel capire le domande e prontissimo nel dare le risposte, perciò con lui si tratta in cinque minuti quello che con altri richiederebbe oltre un’ora. Tuttavia la bontà del Papa e il mio vivo desiderio di trattenermi con lui prolungarono l’udienza di oltre mezz’ora, tempo assai considerevole sia riguardo alla sua persona sia riguardo all’ora del pranzo che per nostra cagione le era ritardato […].

Il Gianicolo
Alle 13,30 del 10 marzo il padre Giacinto dei Carmelitani Scalzi passava a prenderci con un calesse per trasportarci alla basilica di S. Pancrazio e di S. Pietro in Montorio. Sono due chiese situate sul Gianicolo, chiamato così a causa di Giano che dicono vi abitasse. Sulla sommità di questo colle al di là del Tevere, è situata la basilica di S. Pancrazio, costruita da papa Felice II nel 485, circa 100 anni dopo il martirio di Pancrazio. Il generale Narsete, vinti i Goti, fece una solenne processione insieme con papa Pelagio da S. Pancrazio a S. Pietro. San Gregorio Magno che aveva grande venerazione per questa chiesa vi celebrò più volte la messa e vi tenne alcune omelie, infine la donò ai monaci benedettini. Nel 1673 venne affidata ai Carmelitani Scalzi col convento annesso e un seminario per le missioni delle Indie […]

Sotto l’altare maggiore, vi è un altro altare sotterraneo dove anticamente veniva conservato il corpo del Santo, protetto da una cancellata di ferro. C’era l’usanza di condurre quelli che erano sospettati di spergiuro davanti a questa cancellata, perché se erano colpevoli venivano presi da un vistoso tremolio o da altro accidente.

Le Catacombe
Venite con me, ci disse il padre Giacinto, andremo nelle catacombe. Aveva approntato un lume per ciascuno. Noi ci siamo messi a seguirlo. A metà chiesa sul pavimento ci indicò una botola. Alzato il coperchio apparve una cavità oscura e profonda: cominciavano le catacombe. All’entrata era scritto in latino: “In questo luogo è stato decollato il martire di Cristo Pancrazio”. Eccoci nelle catacombe. Immaginatevi lunghi corridoi ora più stretti e più bassi, ora più alti e spaziosi, ora tagliati da altri corridoi, ora in discesa, ora in salita, e avrete la prima idea di questi sotterranei. A destra e a sinistra vi sono piccole tombe scavate parallelamente nel tufo. Qui anticamente venivano seppelliti i cristiani, soprattutto i martiri. Quelli che avevano dato la vita per la fede erano designati con emblemi particolari. La palma era segno della vittoria riportata contro i tiranni; l’ampolla indicava che aveva sparso il sangue per la fede; il “” significava che era morto nella pace del Signore oppure che aveva patito per Cristo. In altri comparivano gli strumenti con cui erano stati martirizzati. Talvolta questi emblemi erano chiusi nella piccola tomba del santo. Quando non infierivano molto le persecuzioni si scriveva nome e cognome del martire e qualche riga che sottolineava qualche importante circostanza della sua vita. […]
Ecco, ci disse la guida, questo è il luogo dov’era sepolto san Pancrazio, accanto a lui san Dionigi suo zio e qui vicino un altro suo parente. Poi abbiamo visitato alcune tombe riunite in una cameretta sulle cui pareti si vedevano iscrizioni antiche che non abbiamo saputo leggere. In mezzo alla volta era dipinto un giovane che ci parve rappresentasse san Pancrazio […]

Stavolta la guida ci indicò una cripta. Cripta, parola greca, vuol dire profondità. È uno spazio più grande dell’ordinario dove i cristiani solevano radunarsi, in tempo di persecuzione, per ascoltare la Parola, assistere alla messa, e alle funzioni sacre. In un lato c’è ancora un altare antico dove è possibile celebrare. Per lo più era la tomba di qualche martire a servire da altare. Fatto un po’ di cammino ci fu mostrata la cappella dove san Felice papa era solito riposarsi e celebrare l’Eucarestia. Il suo sepolcro è a poca distanza. Ovunque si vedevano scheletri umani ridotti in pezzi dal tempo. La nostra guida ci assicurò che di lì a poco saremmo arrivati a un luogo dove si conservavano lapidi con le iscrizioni intatte.

Ma eravamo molto stanchi, anche perché l’aria sotterranea, e le difficoltà del cammino – ognuno doveva badare a non sbattere il capo, non urtare con le spalle e non scivolare coi piedi – ci avevano affaticano non poco. La guida ci avvertiva che i sotterranei sono moltissimi e alcuni giungono fino alla lunghezza di quindici/venti miglia. Se fossimo andati da soli avremmo potuto cantare il requiescant in pace, perché sarebbe stato assai difficile ritrovare la strada per tornare all’aperto. La nostra guida però era molto pratica e in breve ci ricondusse al punto da dove eravamo partiti […]

San Pietro in Montorio
Saliti di nuovo in vettura col padre Giacinto ci avviammo giù dal Gianicolo per andare a S. Pietro in Montorio. La parola è una corruzione di “monte d’oro”, perché qui il terreno e la ghiaia assumono un colore giallo simile all’oro. Fu anche chiamato Castro Aureo, fortezza d’oro, per gli avanzi della rocca di Anco Marzio ancora esistenti sulla vetta. È una delle chiese fondate da Costantino il Grande, ricca di statue, dipinti e marmi. Tra la chiesa e il convento annesso si staglia un edificio chiamato Tempietto di Bramante di forma rotonda. Si tratta di uno dei più insigni lavori del Bramante. Esso venne edificato sul luogo dove fu martirizzato san Pietro. Sul retro una scaletta conduce in una cappella sotterranea circolare, in mezzo alla quale c’è un foro ove arde continuamente un lume. È il posto dove fu incastrata la cima della croce su cui san Pietro fu inchiodato a testa in giù. La chiesa è situata dove ha termine il Gianicolo e comincia il Vaticano.

Vicino a S. Pietro in Montorio è ubicata la magnifica Fontana Paolina, da Paolo V che l’ha fatta costruire nel 1612. L’acqua sgorga da tre colonne che sembrano un fiume. Arriva fin lì da Bramario, un luogo a 35 miglia da Roma. Queste acque, precipitando, servono a far girare macine da molino ed altre macchine e si diramano con gran vantaggio in vari punti della città […].

Una disavventura
L’11 marzo, siamo stati occupati a scrivere e fare commissioni. Merita un ricordo l’episodio dello smarrimento per Roma. Andai a fare una visita a monsignor Pacca, prelato domestico di Sua Santità. Al ritorno ero accompagnato da padre Bresciani avendo mandato Rua a cercare padre Botandi a Ponte Sisto. Il buon Bresciani mi condusse fino all’accademia della Sapienza quindi mi indicò dove passare per arrivare al Quirinale:
Attraversi questa contrada, poi si tenga sempre a destra. Io invece di prendere a destra presi a sinistra, sicché dopo un’ora di cammino mi sono ritrovato in Piazza del Popolo, distante quasi un miglio da casa. Povero me! Almeno avessi avuto Rua insieme, ci saremmo potuti consolare a vicenda, ma ero solo. Il tempo era nuvoloso, soffiava un vento gagliardo e cominciava a piovere. Che fare? Dormire in mezzo a quella piazza mi rincresceva, perciò con tutta pazienza salii sul Pincio, chiamato così dal palazzo di un signore detto Pincio […]. Questo monte non è molto abitato e non è uno dei sette colli di Roma […]

S. Andrea della Valle
Venerdì 12 sono andato a celebrare la messa a S. Andrea della Valle per distinguerlo da altre chiese consacrate al medesimo Apostolo. Valle gli fu aggiunto sia perché la basilica si trova nel punto più basso di Roma sia anche a causa di un palazzo appartenente alla famiglia Valle. Anticamente la chiesa era dedicata a san Sebastiano che aveva qui sofferto il martirio. Vicino ne fu costruita un’altra dedicata a san Luigi re di Francia. Ma l’anno 1591 un ricco signore di nome Gesualdo la fece ristrutturare rinnovandone interamente il disegno. Essa è una delle prime chiese di Roma. La sua cupola misura 64 palmi di diametro, e perciò dopo S. Pietro in Vaticano è la cupola più ampia di tutte le altre della città.
La prima cappella entrando a sinistra ha un cancello di ferro che indica il punto della cloaca in cui si crede sia stato gettato il corpo di san Sebastiano martire. Quasi in faccia a questa chiesa vi è il palazzo Stoppani che servì di abitazione all’imperatore Carlo V quando venne a Roma, come appare da un’iscrizione sul muro ai piedi della scala.

S. Gregorio Magno
Un’ora e mezza dopo mezzogiorno col signor Francesco De Maistre, nostra guida, siamo partiti per visitare la chiesa di S. Gregorio Magno. Essa è edificata sopra una parte del monte Celio detto anticamente clivus Scauri, cioè discesa di Scauro, ed era la casa abitata da san Gregorio e dai suoi. Fu proprio lui a convertirla in monastero, dove poi dimorò fino all’anno 590, all’inizio come semplice monaco, quindi come Abate. Quando fu eletto pontefice (nel 590) dedicò quell’edificio all’apostolo sant’Andrea, trasformando una parte dei locali ad uso di chiesa. Dopo la sua morte essa venne dedicata a lui medesimo.

È certamente una delle più belle chiese di Roma. La prima cappella entrando a sinistra è dedicata a santa Silvia, madre di san Gregorio. L’ultima a destra è quella del Sacramento, sul cui altare celebrava lo stesso san Gregorio. […]. Questo altare, venerabile per il titolo e il patrocinio del santo Papa, fu reso celebre in tutto il mondo dai privilegi concessi da molti pontefici. Capitò che un monaco del monastero avendo per comando del santo offerto la messa per trenta giorni continui in suffragio dell’anima di un suo fratello defunto, un altro monaco la vide liberata dalle pene del purgatorio.

Accanto a questa cappella ne esiste un’altra più piccola, dove san Gregorio si ritirava per riposarsi. Si fa vedere ancora con precisione il luogo dove era il suo letto. Lì accanto c’è la sedia di marmo sopra cui sedeva sia quando scriveva che quando annunziava la parola di Dio al popolo.
Passato l’altare maggiore s’incontra la cappella che custodisce un’immagine della Madonna molto antica e prodigiosa. Si crede che sia quella che il Santo teneva in casa e ogni volta che le passava davanti la salutasse dicendo “Ave, Maria”. Un giorno però il buon Pontefice per la fretta che aveva a causa di alcuni affari urgenti, uscendo non indirizzò alla Vergine il consueto saluto. Ed Ella gli fece questo dolce rimprovero: “Ave, Gregori”, con le quali parole lo invitava a non dimenticare quel saluto che a lei tornava tanto gradito.

In un’altra cappella troneggia la statua di san Gregorio, un lavoro progettato e diretto da Michelangelo Buonarroti. Il Santo è seduto sul trono con una colomba vicino all’orecchio, che ricorda quanto asserisce Pietro Diacono, famigliare del Santo, cioè che ogni qualvolta che Gregorio predicava o scriveva, sempre una colomba gli parlava all’orecchio. Al centro della cappella è collocata una grande tavola di marmo sopra la quale il Pontefice ogni giorno offriva da mangiare a dodici poveri servendoli di propria mano. Un giorno sedette a mensa con gli altri un angelo sotto forma di giovanetto, che poi ad un tratto disparve. Da allora il Santo aumentò a tredici il numero dei poveri da lui sfamati. Così ebbe origine l’usanza di porre tredici pellegrini alla tavola che nel giovedì santo il Papa ogni anno serve di sua mano. Sopra la tavola è inciso il distico seguente: “Qui Gregorio sfamava dodici poveri; un angelo sedette a mensa e compì il numero di tredici”.

Santi Giovanni e Paolo
Uscendo da questa chiesa e voltando a destra s’incontra quella dei Santi Giovanni e Paolo. L’imperatore Gioviano permise al monaco san Pammacchio di costruirla nel 400 in onore di questi due fratelli martiri. Essa fu edificata sopra la loro abitazione proprio dove subirono il martirio. Venne poi restaurata da san Simmaco Papa verso il 444 […] Entrando si presenta allo sguardo un maestoso edificio. Nel mezzo una cancellata di ferro delimita il luogo dove i santi furono uccisi. I loro corpi, chiusi in un’urna preziosa, riposano sotto l’altare maggiore. Nella cappella accanto, sotto l’altare, viene custodito il corpo del beato Paolo della Croce, fondatore dei passionisti, ai quali è affidata la chiesa. Questo servo di Dio è un piemontese, nato a Castellazzo nella diocesi di Alessandria. Morì nel 1775 all’età di 82 anni. I molti miracoli che a Roma e altrove accadono per sua intercessione, hanno fatto crescere la congregazione dei passionisti, così chiamati a motivo del quarto voto che essi fanno, cioè promuovere la venerazione verso la passione del Signore.

Uno di quei religiosi, un genovese, fra Andrea, dopo averci accompagnati a vedere le cose più importanti della chiesa ci portò in convento, un bell’edificio che ospita una ottantina di padri in gran parte piemontesi.
Questa, ci disse fra Andrea, è la camera in cui morì il nostro santo Fondatore. Ci siamo entrati ed abbiamo in devoto raccoglimento ammirato il luogo d’onde partì l’anima sua per volare al cielo.
Là c’è la sedia, gli abiti, i libri ed altri oggetti che servirono ad uso del Beato. Ogni cosa è posta sotto sigillo e si distribuiscono come reliquie ai fedeli cristiani. Quella camera oggi è una cappella dove si celebra la messa.

Archi di Costantino e Tito
Dato un saluto al cortese fra Andrea, ci siamo avviati verso S. Lorenzo in Lucina. Ma fatta un po’ di strada ci siamo ritrovati sotto all’Arco di Costantino. Esso si è conservato quasi integro. Un’iscrizione del senato e del popolo romano indica che fu dedicato all’imperatore Costantino in occasione della vittoria riportata sopra il tiranno Massenzio. Questo imperatore, divenuto cristiano, fece collocare sopra l’arco una statua con una croce in mano in memoria della croce apparsagli davanti all’esercito, per ricordare a tutto il mondo che egli professava la religione di Gesù crocifisso.
Fatto un altro tratto di strada ecco un altro arco, quello Arco di Tito. Esistono tre archi a Roma e quello di Tito è il più antico ed elegante. È arricchito da bassorilievi che commemorano le varie vittorie riportate da quel prode guerriero: tra essi è scolpito il candelabro del tempio di Gerusalemme in memoria della caduta di quella città e del suo tempio. Sotto quest’arco passava la celebre Via Sacra, una delle più antiche di Roma, così chiamata perché attraverso questa si portavano ogni mese le cose sacre sulla Rocca, e veniva percorsa dagli àuguri per recarsi a prendere i loro responsi.

Giunti a S. Lorenzo in Lucina non riuscimmo a entrare a motivo dei lavori che vi si eseguivano […] Questa chiesa è una delle più vaste parrocchie di Roma, e fu eretta da Sisto III col consenso dell’imperatore Valentiniano in onore di san Lorenzo martire. Per distinguerlo dalle altre chiese innalzate a questo levita, fu denominata in Lucina o dalla santa martire di tal nome, o forse dal luogo che così si chiamava. Annesso a questa chiesa verso il corso è il palazzo Ottobuoni, fabbricato verso l’anno 1300 sopra le rovine di un grande edificio antico chiamato Palazzo di Domiziano. Essendo ormai stanchi e avvicinandosi l’ora del pranzo siamo tornati a casa […].

Santa Maria degli Angeli
 […] Il 13 marzo la stazione quaresimale era a S. Maria degli Angeli, e noi ci siamo andati sia per guadagnare l’indulgenza plenaria, sia anche per pregare Dio a favore della nostra casa. Questa chiesa è distinta da un’altra del medesimo nome con l’aggiunta alle Terme di Diocleziano, perché è costruita sul luogo dove anticamente s’innalzavano le famose terme ossia i bagni dell’imperatore Diocleziano. Il sommo pontefice Pio IV diede incarico a Michelangelo Buonarroti che col vasto suo ingegno seppe trasformare in chiesa una parte di quei superbi edifici. In un salone delle terme esisteva già una chiesetta dedicata a san Cirillo martire. Questa fu rinchiusa nella nuova chiesa, che il Pontefice dedicò a santa Maria degli Angeli, per compiacere il duca e re di Sicilia devotissimo degli Angeli, che cooperò assai alla sua edificazione.

Nel giorno della stazione quaresimale la chiesa è ornata con speciale eleganza, e si espongono alla pubblica venerazione le reliquie più insigni. In una cappella accanto all’altare maggiore era posto il reliquiario con moltissime reliquie tra le quali abbiamo notato i corpi di san Prospero, san Fortunato, san Cirillo, inoltre la testa di san Giustino e di san Massimo martiri e di moltissimi altri. Appagata così la nostra devozione siamo giunti a casa verso le sei assai stanchi e con buon appetito.

Santa Maria della Quercia
Domenica 14 marzo abbiamo celebrato in casa, poi siamo andati a visitare un oratorio, secondo le indicazioni avute dal marchese Patrizi. La chiesa dove si radunano i giovani si chiama S. Maria della Quercia. Eccone l’origine, che risale ai tempi di Giulio II. Un’immagine di Maria era stata dipinta su una tegola da un certo Battista Calvaro, che la pose sopra una quercia entro una sua vigna a Viterbo. Questa immagine rimase nascosta sessant’anni, fino a quando nel 1467 cominciò a manifestarsi con tante grazie e miracoli che i fedeli che l’andavano a visitare, con le loro offerte innalzarono una chiesa e un monastero. Papa Giulio II desiderò che anche a Roma ci fosse un tempio dedicato a Maria della Quercia, che è quello di cui parliamo.
Entrati in chiesa, e arrivati nella spaziosa sacrestia, fummo rallegrati dalla vista di una quarantina di giovanetti. Per la vivacità del comportamento assomigliano molto ai birichini del nostro oratorio. Le loro sacre funzioni si compiono tutte al mattino. Messa, confessione, catechismo e una breve istruzione è quanto si fa per loro […]

Dopo mezzogiorno i giovani vanno a S. Giovanni dei Fiorentini, un altro oratorio dove c’è solo ricreazione senza funzioni di chiesa. Ci siamo andati ed abbiamo visto circa un centinaio di giovani che si divertivano a più non posso. I loro giuochi erano la tombola e la campana, conosciute anche da noi. Praticano pure il giuoco del buco che consiste in cinque buchi alquanto capaci entro cui si mettono due castagne o altra cosa. Da una distanza di sei passi si fa rotolare una boccia. Chi riesce a farla entrare in uno dei buchi guadagna quello che c’è dentro. Ci dispiacque molto che essi non avessero altro che la ricreazione. Se ci fosse qualche prete in mezzo a loro, costui potrebbe fare del bene alle loro anime, perché ce n’è grande bisogno. Tanto più ci rincrebbe in quanto abbiamo trovato in costoro buone disposizioni. Parecchi provavano piacere a dialogare con noi, baciando più volte la mano tanto a me che a Rua, il quale suo malgrado era costretto ad acconsentire […]

Tornati a casa ricevemmo la visita di monsignor Merode, maestro di camera di Sua Santità. Dopo alcuni convenevoli, costui mi annunciò che il Santo Padre mi invitava a predicare gli esercizi spirituali alle detenute nelle carceri presso S. Maria degli Angeli alle terme di Diocleziano. Ogni desiderio del Papa è per me un comando e quindi accettai con vero piacere […]

Al carcere femminile
Alle due pomeridiane mi recai dalla superiora del carcere per combinare il giorno e l’ora in cui iniziare la predicazione. Ella mi disse:
Se per lei va bene può cominciare subito, poiché le donne sono in chiesa e non c’è nessuno che predichi. Così ho cominciato subito e la settimana fu quasi interamente dedicata a questo ministero. La casa correzionale si chiama Alle Terme di Diocleziano perché è situata nel medesimo luogo dove erano le terme di quel famoso imperatore. Vi erano ospitate 260 detenute colpevoli di gravi delitti e condannate alla galera […]. Gli esercizi andarono con soddisfazione. La predicazione semplice e popolare che usiamo tra noi riuscì fruttuosa in questo carcere. Al sabato, dopo l’ultima predica, la madre superiora mi annunziò con gran piacere che nessuna delle condannate aveva omesso di accostarsi ai Sacramenti.

Due episodi
Un piacevole episodio accadde al Santo Padre in questa settimana. Il conte Spada, andò a fargli visita, e s’intavolò questa conversazione:
– Santità, io vorrei chiederle un ricordo di questa visita.
– Chiedete quel che volete e cercherò di accontentarvi.
– Vorrei qualcosa di straordinario.
– Bene, domandate pure.
– Santità, desidererei per ricordo la vostra tabacchiera.
– Ma è piena di un tabacco di qualità infima.
– Non importa; la terrò molto cara.
– Prendetela pure, ve ne faccio un dono con piacere
. Il conte Spada partì più contento di quella tabacchiera che di un gran tesoro. Essa è semplice, di corno di bufalo, unita con due anelli di ottone e non vale quattro soldi, ma è preziosissima per la provenienza. Il buon conte la mostra ai suoi amici come un oggetto degno di venerazione […]

Un altro aneddoto mi fu raccontato di questo venerando Pontefice. L’anno scorso mentre il Santo Padre viaggiava attraverso i suoi stati si trovò nelle vicinanze di Viterbo. Una ragazzina con un fascio di legna, vedendo che la vettura pontificia s’era fermata, pensò che quei signori volessero comperare la sua fascina. Corse verso di loro:
Signore, disse al Santo Padre, compratela, il legno è molto secco.
Non ne abbiamo bisogno, rispose il Papa.
– Comperatela ve la do per tre baiocchi.
Prendi i tre baiocchi e tieni pure la tua fascina. Il Santo Padre le diede tre scudi, quindi si apprestò a risalire in vettura. Ma la ragazzina voleva che il Santo Padre prendesse la sua fascina.
Prendetela, sarete contenti; nella vostra vettura c’è posto abbondante. Mentre il Papa e la sua corte ridevano di un tale affare, la madre della ragazza, che lavorava in un campo vicino, accorse gridando:
Santo Padre, Santo Padre, perdonate; questa povera ragazza è mia figlia. Essa non vi conosce. Abbiate pietà di noi che siamo in grande miseria. Il Papa aggiunse ancora sei scudi e continuò il cammino […]

San Paolo fuori le Mura
Il giorno 22 marzo domenica Don Bosco andò dal cardinale vicario, l’eminentissimo Costantino Patrizi […] Uscito dal Vicariato, peregrinò fino a S. Paolo fuori le Mura per venerare il sepolcro del grande Apostolo delle Genti e ammirare le meraviglie di quel tempio immenso. Dopo un miglio di strada, arrivò al celebre luogo denominato Ad Aquas Salvias, dove san Paolo diede il sangue per Gesù Cristo. Proprio in questo punto, in cui sono tre miracolose sorgenti d’acqua, sgorgate nelle zolle sulle quali fece tre balzi il capo troncato del santo Apostolo, è stata costruita una chiesa. Don Bosco pregò anche nella chiesa vicina di Sancta Maria Scala Coeli, di forma ottagonale, edificata sul cimitero di san Zenone, un tribuno che subì il martirio sotto Diocleziano, assieme a 10.203 suoi commilitoni […]

Il Colosseo
Il 23 marzo il suo sguardo sbalordito contemplò le gigantesche rovine dell’anfiteatro Flavio o Colosseo, di forma ovale con 527 metri di circonferenza esterna, e alto ancora in alcuni tratti cinquanta metri. Nei tempi del suo splendore era coperto di marmi, ornato di colonnati, di centinaia di statue, di obelischi, di quadrighe di bronzo; e nell’interno sosteneva tutto all’intorno immense gradinate, che potevano contenere circa 200.000 persone, per assistere ai combattimenti delle bestie feroci e dei gladiatori, e alle stragi di migliaia e migliaia di martiri. Don Bosco entrò nell’arena degli spettacoli che misura 241 metri di circonferenza […]

San Clemente
Il 24 Don Bosco si recò alla basilica di S. Clemente per venerare le reliquie del quarto papa dopo san Pietro, e quelle di sant’Ignazio martire, vescovo di Antiochia; come anche per ammirare l’architettura dell’antichissima chiesa a tre navate. In quella di mezzo, davanti all’altare della Confessione, un recinto di marmo bianco delimita il coro per il clero minore. È dotato di due pulpiti, uno per il canto del vangelo, presso il quale si alza la colonnina del cero pasquale, e l’altro per la lettura dell’epistola. A fianco di quest’ultimo era posto il leggio per i cantori e lettori delle profezie e degli altri libri delle scritture; intorno all’abside le sedi dei sacerdoti, e, in fondo al centro su tre gradini, la cattedra episcopale […].

Da qui Don Bosco procedette verso la chiesa dei Quattro Coronati, per visitare i sepolcri dei martiri Severo, Severino, Carpoforo e Vittorino, uccisi sotto Diocleziano. Passò poi a S. Giovanni davanti alla Porta Latina, presso la quale sorge una cappella sul luogo dove san Giovanni Evangelista fu immerso nella caldaia d’olio bollente; da lì s’inoltrò fino alla chiesina del Quo Vadis, così chiamata perché in quel punto il Signore apparve a san Pietro che usciva da Roma per sottrarsi alla persecuzione:
Signore, dove vai? gridò l’Apostolo stupito. E Gesù gli rispose:
Vengo per essere crocifisso un’altra volta. San Pietro comprese, e ritornò a Roma dove lo aspettava il martirio. Da questo tempietto Don Bosco rifece la strada, dopo aver dato uno sguardo alla via Appia, lungo la quale si contano moltissimi mausolei dei tempi del paganesimo, che ricordano la fine di ogni grandezza umana.

Don Bosco… salesiano!
Una scena graziosa accadde la mattina del 25 marzo. Don Bosco, passato il Tevere, vide in una piccola piazza una trentina di ragazzi che si divertivano. Senz’altro si portò in mezzo a loro, che, sospesi i giochi, lo guardavano meravigliati. Egli alzò allora la mano tenendo fra le dita una medaglia, poi esclamò:
Siete troppi e mi rincresce di non aver tante medaglie per regalarne una a ciascuno di voi. Quelli, fattosi coraggio, protendendo le mani gridavano a gran voce:
Non importa, non importa… a me, a me! Don Bosco soggiunse:
– Ebbene, non avendone per tutti, questa medaglia voglio regalarla al più buono. Chi è di voi il più buono?
– Sono io, sono io! schiamazzarono tutti insieme
. Egli continuò:
– Come posso fare io, se siete tutti ugualmente buoni? Allora la darò al più discolo! Chi fra di voi è il più discolo?
– Sono io, sono io!
risposero con grida assordanti.
Il marchese Patrizi e i suoi amici, ad una certa distanza, sorridevano commossi e stupiti nel vedere Don Bosco trattare così famigliarmente con quei ragazzi, che per la prima volta aveva incontrati; ed esclamavano:
– Ecco un altro san Filippo Neri, amico della gioventù. Don Bosco infatti, come se fosse stato un amico già conosciuto da quei fanciulli, continuò ad interrogarli, se avessero già ascoltata la Messa, in quale chiesa solessero andare, se frequentassero gli oratori che erano in quelle parti […] Il dialogo era animato. Don Bosco, dopo averli esortati ad essere sempre buoni cristiani, promise che sarebbe passato altra volta per quella piazza e avrebbe regalato una medaglia ciascuno; poi, salutatili affettuosamente, tornò dai suoi accompagnatori mostrando la medaglia. Non aveva dato nulla ai ragazzi, eppure li aveva lasciati contenti.

Santo Stefano Rotondo
Il 26 marzo Don Bosco ritornò al Celio nella spaziosa chiesa di S. Stefano Rotondo, chiamata così per la sua forma. Il cornicione circolare è sostenuto da 56 colonne. Tutt’intorno alle pareti sono dipinte le scene degli atroci supplizi coi quali furono straziati i martiri. È ornata da mosaici del secolo VII, che rappresentano Gesù crocifisso, con alcuni santi, e conserva i corpi di due confessori della fede: san Primo e san Feliciano. Da lì D. Bosco passò a S. Maria in Dominica, o della Navicella, per una barca di marmo che sta sulla piazza antistante. Ha tre navate spartite da 18 colonne e contiene mosaici del secolo IX. Fra questi la Vergine è al posto d’onore fra molti angeli e ai suoi piedi è inginocchiato papa Pasquale […]

Intanto il Santo Padre aveva espresso il desiderio che Don Bosco assistesse in Vaticano al devoto e magnifico spettacolo delle funzioni della Settimana Santa. Quindi aveva dato incarico a monsignor Borromeo di invitarlo a nome suo, e di procurargli un posto dal quale potesse assistere comodamente ai sacri riti. Il monsignore lo fece ricercare tutto il giorno senza esito. Finalmente, a ora tardissima, il messo lo trovò a casa De Maistre dov’era tornato dopo una giornata di visite. Dicendo che veniva per ordine del Papa, fu introdotto e presentò a Don Bosco la lettera d’invito, con la quale era ammesso a ricevere la palma benedetta dalle mani stesse del Papa. Don Bosco la lesse subito ed esclamò che sarebbe andato con gran piacere.

Pasqua Romana di don Bosco. La Domenica delle Palme
Domenica 28 marzo, col chierico Rua, entrò nella basilica di San Pietro molto prima che incominciassero le funzioni. Il conte Carlo De Maistre lo accompagnò al suo posto, nella tribuna dei diplomatici. Egli era attentissimo poiché conosceva l’importanza delle cerimonie della Chiesa. Al suo fianco stava un milord inglese protestante, meravigliato di tanta solennità. A un certo punto un cantore della cappella Sistina eseguì un assolo così bene che Don Bosco ne restò commosso fino alle lacrime e quel milord volgendosi a lui esclamò in latino, perché in altra lingua non sapeva come farsi intendere:
Post hoc paradisus! Quel signore dopo qualche tempo si convertì al cattolicesimo non solo, ma divenne prete e vescovo. Benedette le palme, a turno il corpo diplomatico sfilò davanti al Pontefice, e ogni ambasciatore e ministro ricevette la palma dalle sue mani. Anche Don Bosco e il chierico Rua s’inginocchiarono ai piedi del Papa e ricevettero la palma. Così volle Pio IX: non era forse Don Bosco ambasciatore di Dio? Il chierico Rua, ritornato presso i Rosminiani, regalò la sua al padre Pagani, che la gradì molto […]

Don Bosco caudatario
Il cardinale Marini, uno dei due assistenti al trono, perché Don Bosco potesse assistere a tutte le funzioni della settimana santa, lo prese come caudatario. Così egli in veste violacea stette quasi a fianco del Papa per tutto il tempo, e poté gustare i canti gregoriani e le musiche dell’Allegri e del Palestrina.
Il giovedì santo pontificò il cardinale Mario Mattei, essendo il più anziano dei vescovi suburbicari, invece del cardinale decano che era impedito. D. Bosco seguì il Pontefice che processionalmente portava il SS. Sacramento nella cappella Paolina per riporlo dentro l’urna appositamente preparata; lo accompagnò fin sulla loggia vaticana dalla quale il Papa benedice Roma e il mondo; assistette alla lavanda dei piedi fatta dal Pontefice a tredici sacerdoti, e partecipò alla loro cena commemorativa, servita dallo stesso Vicario di Gesù Cristo.

La benedizione Urbi et Orbi
[…] Il 4 aprile le salve d’artiglieria di Castel S. Angelo annunciavano il giorno di Pasqua. Pio IX scese in basilica verso le dieci per il pontificale. Subito dopo, preceduto dal corteo di vescovi e cardinali, si recò alla Loggia per la benedizione Urbi et Orbi. Don Bosco col cardinale Marini ed un vescovo restò per un istante vicino al davanzale ricoperto da un magnifico drappo, sul quale erano stati deposti tre Triregni d’oro. Il cardinale disse a Don Bosco:
Osservate quale spettacolo! Don Bosco girava sulla piazza gli occhi attoniti. Una folla di 200.000 persone stava accalcata colla faccia rivolta alla Loggia. I tetti, le finestre, i terrazzi di tutte le case erano occupati. L’esercito francese riempiva una parte dello spazio compreso tra l’obelisco e la scalinata di San Pietro. I battaglioni della fanteria pontificia stavano schierati a destra e a sinistra. Indietro, la cavalleria e l’artiglieria. Migliaia di carrozze erano ferme alle due ali della piazza, vicino ai portici del Bernini, e nel fondo presso le case. Specialmente su quelle a nolo stavano in piedi gruppi di persone che parevano dominare la piazza. Era un vociare clamoroso, un calpestio di cavalli, una confusione incredibile. Nessuno può farsi un’idea di tale spettacolo.

Intrappolato
Don Bosco, che aveva lasciato il Papa in basilica mentre era in venerazione delle reliquie insigni, credeva che avrebbe tardato a comparire. Assorto nel contemplare tanta gente di ogni nazione, non s’accorse del sopraggiungere della sedia gestatoria su cui sedeva il Papa. Si venne a trovare in una posizione difficile; stretto fra la sedia e la balaustra, poteva muoversi appena; tutto intorno stavano pigiati cardinali, vescovi, cerimonieri e sediari, sicché non scorgeva alcun varco per uscirne. Rivolgere il viso al Papa era sconvenienza; voltargli le spalle inciviltà; rimanere nel centro del balcone una ridicolaggine. Non potendo far di meglio, si volse di fianco; allora la punta di un piede del Papa arrivò a posarsi sulla sua spalla.

In quel mentre un silenzio solenne regnava sulla grande piazza tanto che si sarebbe potuto udire il ronzio di una mosca. Gli stessi cavalli stavano immobili. Don Bosco, per nulla turbato, attento ad ogni minimo particolare, osservò che un solo nitrito, e il suono di un orologio che batteva le ore, si fece udire mentre il Papa recitava le preghiere di rito. Egli intanto, visto che il pavimento della Loggia era sparso di fronde e fiori, si curvò, e raccogliendo alcuni fiori li mise tra le pagine del libro che aveva in mano. Finalmente Pio IX si alzò in piedi per benedire: aperse le braccia, sollevò al cielo le mani, le stese sulla moltitudine che curvò la fronte, e la sua voce nel cantare la formula della benedizione, sonora, potente, solenne si udiva al di là di piazza Rusticucci e dalla soffitta del palazzo degli scrittori della Civiltà Cattolica.

La folla rispose con una immensa ovazione. Allora il cardinale Ugolini lesse in latino il Breve dell’indulgenza plenaria e subito dopo il cardinale Marini lo ripeté in lingua italiana. Don Bosco si era inginocchiato, e quando si rialzò il corteo papale era ormai scomparso. Tutte le campane suonavano a festa, tuonava il cannone da Castel Sant’Angelo, le musiche militari facevano risuonare le loro trombe. Il cardinale Marini, accompagnato dal caudatario, discese e andò verso la sua carrozza. Appena questa si mosse, Don Bosco si sentì preso dal male prodotto da quel moto che gli rivoltava lo stomaco; non potendo più resistere, manifestò al cardinale quel suo incomodo. Per suo consiglio salì in cassetta col cocchiere, ma il malessere non diminuì, allora scese per camminare a piedi. Essendo in veste violacea, sarebbe stato oggetto di meraviglia o di scherno, se avesse attraversato Roma così; perciò il segretario gentilmente scese dalla carrozza e lo accompagnò a palazzo […].

Il ricordo del Papa
Don Bosco il 6 aprile ritornò a un’udienza particolare di Pio IX col chierico Rua e il teologo Murialdo, ammesso in Vaticano per interposizione dello stesso Don Bosco. Entrarono nell’anticamera alle nove di sera, e subito Don Bosco venne introdotto. Il Papa appena lo ebbe innanzi gli disse con viso serio:
– Abate Bosco, dove vi siete andato a ficcare il giorno di Pasqua durante la benedizione papale? Lì, davanti al Papa, e tenendo la spalla sotto il suo piede come se il Pontefice avesse bisogno di essere sostenuto da Don Bosco.
– Santo Padre
, rispose tranquillo ed umile, sono stato colto di sorpresa e chiedo perdono se l’ho in qualche modo offesa!
– E aggiungete ancora l’affronto di chiedermi se mi avete offeso? Don Bosco guardò il Papa e gli parve che fingesse: un sorriso accennava a comparirgli sulle labbra. Ma che cosa vi è saltato in testa di raccogliere fiori in quel momento? C’è voluta tutta la serietà di Pio IX per non scoppiare dalle risa. […]
Ora, Beatissimo Padre, supplicò Don Bosco, abbiate la bontà di suggerirmi una massima che io possa ripetere ai miei giovani, come ricordo del Vicario di Cristo.
– La presenza di Dio! rispose il Papa. Dite ai vostri giovani che si regolino sempre con questo pensiero!… E voi non avete nulla da domandarmi? Certamente desiderate qualche cosa anche voi.
– Santo Padre, Vostra Santità si è degnata di concedermi quanto ho domandato, ora non mi resta che ringraziarla dal più intimo del cuore.
– Eppure, eppure, voi desiderate ancora qualche cosa.
Al che Don Bosco stava là come sospeso senza proferire parola. Il Pontefice soggiunse:
– Ma come? Non desiderate di fare stare allegri i vostri giovani, quando sarete ritornato tra loro?
– Santità, questo sì.
– Allora aspettate.
Pochi istanti prima erano entrati in quella stanza il teologo Murialdo, il chierico Rua e don Cerutti di Varazze, cancelliere nella Curia Arcivescovile di Genova. Essi rimasero stupiti della famigliarità con la quale il Papa trattava Don Bosco e di ciò che videro in quel momento. Il Papa aveva aperto lo scrigno, ne aveva tirato fuori una manciata di monete d’oro e senza contarle le aveva porte a Don Bosco dicendo:
– Prendete e date poi una buona merenda ai vostri ragazzi. Ognuno può immaginare l’impressione che fece su Don Bosco quest’atto di bontà di Pio IX, il quale con grande amorevolezza si rivolgeva anche agli ecclesiastici sopravvenuti, benediceva le corone, i crocifissi ed altri oggetti di devozione che gli presentavano, e dava a tutti una medaglia ricordo.

La sfida educativa di don Bosco
Fra i cardinali che passò ad ossequiare vi fu l’Eminentissimo Tosti, per invito del quale aveva parlato ai giovani dell’Ospizio San Michele. Costui, soddisfatto della cortesia di Don Bosco, essendo l’ora della sua passeggiata, volle averlo per compagno, così tutti e due salirono in carrozza. Si incominciò a parlare del sistema più adatto all’educazione dei giovani. Don Bosco si era andato persuadendo che gli alunni di quell’ospizio non avevano famigliarità coi superiori, anzi li temevano: cosa poco piacevole, poiché gli educatori erano sacerdoti. Perciò diceva:
– Vede, Eminenza, è impossibile educare bene i giovani se questi non hanno confidenza nei superiori.
– Ma come, replicava il cardinale, si può guadagnare questa confidenza?
– Facendo in modo che essi si avvicinino a noi, togliendo ogni causa che li allontani.
– E come si può fare per avvicinarli a noi?
– Avvicinandoci noi ad essi, cercando di adattarci ai loro gusti, facendoci simili a loro. Vuole che facciamo una prova? Mi dica: in qual punto di Roma si può trovare un bel numero di ragazzi?
– In Piazza Termini e in Piazza del Popolo, rispose il cardinale.
– Ebbene, andiamo in Piazza del Popolo.

Il cardinale passò l’ordine al carrozziere. Appena arrivati, Don Bosco scese di carrozza, e il prelato rimase ad osservarlo. Visto un crocchio di giovanetti che giocavano, si avvicinò, ma i birichini fuggirono. Allora li chiamò con le buone maniere e quelli dopo qualche esitazione si avvicinarono. Don Bosco regalò qualche cosuccia, domandò notizie delle loro famiglie, chiese che gioco stavano facendo e li invitò a continuare, fermandosi prima a guardarli, poi cominciando a prendervi parte. Allora anche altri che stavano osservando da lontano accorsero numerosissimi dai quattro angoli della piazza intorno al prete, che tutti accoglieva amorevolmente ed aveva per tutti una buona parola e un regaluccio. Chiedeva se fossero buoni, se dicessero le orazioni, se andassero a confessarsi. Quando volle allontanarsi, lo seguirono per un buon tratto, lasciandolo solo quando egli risalì in carrozza. Il cardinale era meravigliato.
– Ha visto?
– Avevate ragione!
esclamò il cardinale […]

Le ultime visite
Le ultime visite di D. Bosco furono riservate alla Confessione di San Pietro ed alle Catacombe. Dopo aver pregato nella basilica di S. Sebastiano, viste due delle frecce che ferirono il santo tribuno e la colonna a cui fu legato, scese nelle gallerie sotterranee che custodirono le ossa di migliaia e migliaia di martiri, e dove san Filippo Neri tante notti vegliò in preghiera. Passò poi alle vicine Catacombe di san Callisto. Qui lo attendeva il cavaliere G. B. De Rossi, che le aveva scoperte, al quale lo aveva presentato monsignor di San Marzano.
Chi entra in quei luoghi prova una tale commozione, che gli resta per tutta la vita. Don Bosco era assorto in santi pensieri nel percorrere quei sotterranei, ove i primi cristiani, attraverso la messa, le preghiere in comune, il canto dei salmi e delle profezie, la comunione eucaristica, l’ascolto dei vescovi e dei papi, avevano trovato la forza necessaria per affrontare il martirio. È impossibile contemplare ad occhi asciutti quei loculi che avevano rinchiuso i corpi insanguinati o bruciati di tanti eroi della fede, le tombe di ben quattordici papi che avevano data la vita per testimoniare ciò che insegnavano, e la cripta di santa Cecilia.

Don Bosco osservava gli antichissimi affreschi che ritraevano Gesù Cristo e l’Eucarestia; e le immagini che rappresentavano lo sposalizio di Maria SS. con san Giuseppe, l’Assunzione di Maria in cielo, la Madre di Dio col bambino in braccio o sulle ginocchia. Era incantato dal sentimento di modestia che splendeva in queste immagini, nelle quali l’arte cristiana primitiva aveva saputo riprodurre la bellezza incomparabile dell’anima e dell’ideale altissimo della perfezione morale che si deve attribuire alla Vergine. Non mancavano altre figure di santi e di martiri. Don Bosco uscì dalle catacombe alle 6 della sera. Vi era entrato alle 8 del mattino […]

Verso casa
Don Bosco il 14 aprile partì da Roma col chierico Rua, lieto che fossero state gettate le basi della Società di San Francesco di Sales […] Prese dunque una carrozza a nolo, fece una breve fermata nel paese di Palo dove trovò l’albergatore perfettamente libero dalle febbri: la sua guarigione era stata istantanea. Questi non dimenticherà più l’accaduto, e verso il 1875 o 76, capitato a Genova per ragioni di commercio, volle continuare il suo viaggio fino a Torino. Chiesto e saputo per telegrafo che Don Bosco era all’Oratorio, ci andò; ma egli in quel giorno era a pranzo dal signor Occelletti Carlo. Allora si recò là a trovarlo, facendogli feste senza fine. Il signor Occelletti ricordò sempre con grande piacere il racconto da lui udito di quella guarigione. Arrivato a Civitavecchia e fatta una visita al delegato pontificio, Don Bosco andò al porto per imbarcarsi.

Le onde questa volta furono calme e bello il tempo, sicché egli poté scendere a Livorno, intrattenersi con qualche amico e visitare alcune chiese. Ripreso il mare sul far della sera, don Rua ricorda come la nave giungesse nel porto di Genova al sorgere di una splendida aurora che illuminava il magnifico panorama della superba città. Don Bosco, appena messo piede in terra, si recò al collegio degli Artigianelli, dove lo aspettava don Montebruno e il signor Giuseppe Canale. Dopo mezzogiorno salì in treno. Nell’attraversare la città aveva provato una gradita sorpresa: quando le campane suonarono l’Angelus, molte persone per le vie e le piazze si scoprivano il capo, e gli stessi facchini si erano alzati dalle loro panche per recitare la preghiera. Più volte egli raccontò questo per edificazione dei suoi alunni. Giunse a Torino il 16 di aprile, accolto dai giovani con tanta festa ed affetto, che nessun padre potrebbe augurarsene di più dai propri figli.




Beatificazione di Camille Costa de Beauregard. E dopo…?

            La diocesi di Savoia e la città di Chambéry hanno vissuto tre giornate storiche, il 16, 17 e 18 maggio 2025. Un resoconto dei fatti e delle prospettive future.

            Le reliquie di Camille Costa de Beauregard sono state trasferite dal Bocage alla chiesa di Notre-Dame (luogo del battesimo di Camille), venerdì 16 maggio. Un magnifico corteo ha quindi percorso le vie della città a partire dalle ore venti. Dopo i corni delle Alpi, le cornamuse hanno preso il testimone per aprire la marcia, seguite da una carrozza fiorita che trasportava un ritratto gigante del “padre degli orfani”. Seguivano poi le reliquie, su una barella portata da giovani studenti del liceo del Bocage, vestiti con magnifiche felpe rosse su cui si poteva leggere questa frase di Camille: “Più la montagna è alta, meglio vediamo lontano“. Diverse centinaia di persone di tutte le età sfilavano poi, in un’atmosfera “bon enfant”. Lungo il percorso, i curiosi, rispettosi, si fermavano, sbalorditi, a vedere passare questo corteo insolito.
            All’arrivo alla chiesa di Notre-Dame, un sacerdote era lì per animare una veglia di preghiera sostenuta dai canti di un bel coro di giovani. La cerimonia si svolgeva quindi in un clima rilassato, ma raccolto. Tutti sfilavano, alla fine della veglia, per venerare le reliquie e affidare a Camille un’intenzione personale. Un momento molto bello!
            Sabato 17 maggio. Gran giorno! Da Pauline Marie Jaricot (beatificata nel maggio del 2022), la Francia non aveva conosciuto un nuovo “Beato”. Così tutta la Regione Apostolica si trovava rappresentata dai suoi vescovi: Lione, Annecy, Saint-Étienne, Valence ecc… A questi si erano aggiunti due ex arcivescovi di Chambéry: monsignor Laurent Ulrich, attualmente arcivescovo di Parigi e monsignor Philippe Ballot, vescovo di Metz. Due vescovi del Burkina Faso avevano fatto il viaggio per partecipare a questa festa. Numerosi sacerdoti diocesani erano venuti a concelebrare, così come diversi religiosi tra cui sette Salesiani di Don Bosco. Il nunzio apostolico in Francia, monsignor Celestino Migliore, aveva la missione di rappresentare il cardinale Semeraro (Prefetto del Dicastero per le cause dei santi) trattenuto a Roma per l’intronizzazione di papa Leone XIV. Inutile dire che la cattedrale era gremita, così come i capitelli e il sagrato e il Bocage: più di tremila persone in tutto.
            Che emozione, quando dopo la lettura del decreto pontificio (firmato solo il giorno prima da papa Leone XIV) letto da don Pierluigi Cameroni, postulatore della causa, il ritratto di Camille è stato svelato nella cattedrale! Che fervore in questo grande vascello! Che solennità sostenuta dai canti di un magnifico coro interdiocesano e dal grande organo meravigliosamente servito dal maestro Thibaut Duré! Insomma, una cerimonia grandiosa per questo umile sacerdote che diede tutta la sua vita al servizio dei più piccoli!
            Un reportage è stato assicurato da RCF Savoie (una stazione radio regionale francese che fa parte del network RCF, Radios Chrétiennes Francophones) con interviste a diverse personalità coinvolte nella difesa della causa di Camille, e d’altra parte, dal canale KTO (il canale televisivo cattolico di lingua francese) che trasmetteva in diretta questa magnifica celebrazione.
            Una terza giornata, Domenica 18 maggio, veniva a coronare questa festa. Si svolgeva al Bocage, sotto un grande tendone; era una messa di ringraziamento presieduta da monsignor Thibault Verny, arcivescovo di Chambéry, circondato dai due vescovi africani, il Provinciale dei Salesiani e alcuni sacerdoti, tra cui padre Jean François Chiron, (presidente, da tredici anni, del Comitato Camille creato da monsignor Philippe Ballot) che pronunciava un’omelia notevole. Una folla considerevole era venuta a partecipare e pregare. Alla fine della messa, una rosa “Camille Costa de Beauregard fondatore del Bocage” è stata benedetta da padre Daniel Féderspiel, Ispettore dei Salesiani della Francia (questa rosa, scelta dagli ex allievi, offerta alle personalità presenti, è in vendita nelle serre del Bocage).
            Dopo la cerimonia, i corni delle Alpi hanno dato un concerto fino al momento in cui papa Leone, durante il suo discorso, al momento del Regina Coeli, ha dichiarato di essere molto gioioso della prima beatificazione del suo pontificato, il sacerdote di Chambéry Camille Costa de Beauregard. Tuono di applausi sotto il tendone!
            Nel pomeriggio, diversi gruppi di giovani del Bocage, liceo e casa dei bambini, o scout, si sono succeduti sul podio per animare un momento ricreativo. Sì! Che festa!

            E adesso? Tutto è finito? O c’è un dopo, un seguito?
            La beatificazione di Camille è solo una tappa nel processo di canonizzazione. Il lavoro continua e siete chiamati a contribuire. Cosa resta da fare? Far conoscere sempre meglio la figura del nuovo beato intorno a noi, con molteplici mezzi, perché è necessario che molti lo preghino affinché la sua intercessione ci ottenga una nuova guarigione inspiegabile dalla scienza, il che permetterebbe di considerare un nuovo processo e una rapida canonizzazione. La santità di Camille sarebbe allora presentata al mondo intero. È possibile, bisogna crederci! Non fermiamoci a metà strada!

            Disponiamo di diversi mezzi, come:
            – il libro Il beato Camille Costa de Beauregard La nobiltà del cuore, di Françoise Bouchard, Edizioni Salvator;
            – il libro Pregare quindici giorni con Camille Costa de Beauregard, di padre Paul Ripaud, Edizioni Nouvelle Cité;
            – un fumetto: Beato Camille Costa de Beauregard, di Gaëtan Evrard, Edizioni Triomphe;
            – i video da scoprire sul sito di “Amis de Costa“, e quello della beatificazione;
            – le visite ai luoghi della memoria, al Bocage a Chambéry; sono possibili contattando sia l’accoglienza del Bocage, sia direttamente il signor Gabriel Tardy, direttore de la Maison des Enfants.

            A tutti, grazie per sostenere la causa del beato Camille, se lo merita!

don Paul Ripaud, sdb




Intervista al Rettor Maggiore, don Fabio Attard

Abbiamo preso un’intervista in esclusiva al Rettor Maggiore dei Salesiani, don Fabio Attard, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua vocazione e del suo percorso umano e spirituale. La sua vocazione è nata nell’oratorio e si è consolidata attraverso un percorso formativo ricco che lo ha portato dall’Irlanda alla Tunisia, da Malta a Roma. Dal 2008 al 2020 è stato Consigliere Generale per la Pastorale Giovanile, ruolo che ha svolto con una visione multiculturale acquisita attraverso esperienze in diversi contesti. Il suo messaggio centrale è la santità come fondamento dell’azione educativa salesiana: “Vorrei vedere una Congregazione più santa”, afferma, sottolineando che l’efficienza professionale deve radicarsi nell’identità consacrata.

Qual è la tua storia della vocazione?

Sono nato a Gozo, Malta, il 23 marzo 1959, quinto di sette figli. Al tempo della mia nascita, mio padre aveva il compito di farmacista in ospedale, mentre mia madre aveva avviato un piccolo negozio di tessuti e sartoria, che con il tempo è cresciuto fino a diventare una piccola catena di cinque negozi. Era una donna molto laboriosa, ma l’attività restava sempre a conduzione familiare.

Ho frequentato le scuole primarie e secondarie locali. Un elemento molto bello e particolare della mia infanzia è che mio padre era catechista laico presso l’oratorio, che fino al 1965 era stato diretto dai salesiani. Lui, da giovane, aveva frequentato quell’oratorio e vi era poi rimasto come unico catechista laico. Quando io iniziai a frequentarlo, a sei anni, i salesiani avevano appena lasciato l’opera. Subentrò un giovane sacerdote (che è ancora in vita) che proseguì le attività dell’oratorio nello stesso spirito salesiano, avendovi lui stesso vissuto da seminarista.
Si continuava con il catechismo, la benedizione eucaristica quotidiana, il calcio, il teatro, il coro, le gite, le feste… tutto quello che normalmente si vive in un oratorio. C’erano tanti bambini e ragazzi, ed io sono cresciuto in quell’ambiente. In pratica, la mia vita si svolgeva tra la famiglia e l’oratorio. Ero anche chierichetto nella mia parrocchia. Così, finita la scuola superiore, mi sono orientato verso il sacerdozio, perché fin da bambino avevo questo desiderio nel cuore.

Oggi mi rendo conto di quanto fossi stato influenzato da quel giovane sacerdote, che guardavo con ammirazione: era sempre presente con noi nel cortile, nelle attività dell’oratorio. Tuttavia, in quel tempo i salesiani non erano più presenti lì. Sono così entrato in seminario, dove all’epoca si facevano due anni di propedeutica come interni. Durante il terzo anno – che corrispondeva al primo anno di filosofia – conobbi un amico di famiglia di circa 35 anni, una vocazione adulta, che era entrato come salesiano aspirante (oggi è ancora in vita, ed è coadiutore). Quando fece questo passo, dentro di me si accese un fuoco. E con l’aiuto del mio direttore spirituale iniziai un discernimento vocazionale.
Fu un cammino importante ma anche impegnativo: avevo 19 anni, ma quella guida spirituale mi aiutò a cercare la volontà di Dio, e non semplicemente la mia. Così, l’ultimo anno – il quarto di filosofia – invece di seguirlo in seminario, lo vissi come aspirante salesiano, completando i due anni di filosofia richiesti.

In famiglia, l’ambiente era fortemente segnato dalla fede. Partecipavamo ogni giorno alla Messa, recitavamo il Rosario in casa, eravamo molto uniti. Anche oggi, benché i nostri genitori siano in Paradiso, manteniamo quella stessa unità tra fratelli e sorelle.

Un’altra esperienza familiare mi ha segnato profondamente, anche se me ne sono accorto solo col tempo. Mio fratello, il secondo della famiglia, è morto a 25 anni per insufficienza renale. Oggi, con i progressi della medicina, sarebbe ancora vivo grazie alla dialisi e ai trapianti, ma allora non c’erano tante possibilità. Gli sono stato accanto negli ultimi tre anni della sua vita: condividevamo la stessa stanza e spesso lo aiutavo di notte. Lui era un giovane sereno, allegro, che ha vissuto la sua fragilità con una gioia straordinaria.
Avevo 16 anni quando è morto. Sono passati cinquant’anni, ma quando ripenso a quel tempo a quell’esperienza quotidiana di vicinanza, fatta di piccoli gesti, riconosco quanto abbia segnato la mia vita.

Sono nato in una famiglia dove c’era fede, senso del lavoro, responsabilità condivisa. I miei genitori sono per me due esempi straordinari: hanno vissuto con grande fede e serenità la croce, senza mai far pesare nulla su nessuno, e al tempo stesso hanno saputo trasmettere la gioia della vita familiare. Posso dire di aver vissuto un’infanzia molto bella. Non eravamo ricchi, né poveri, ma sempre sobri, discreti. Ci hanno insegnato a lavorare, a gestire bene le risorse, a non sprecare, a vivere con dignità, con eleganza e, soprattutto, con attenzione verso i poveri e gli ammalati.

Come ha reagito la tua famiglia quando hai preso la decisione di seguire la vocazione consacrata?

Era arrivato il momento in cui, insieme al mio direttore spirituale, avevamo chiarito che la mia strada era quella dei salesiani. Dovevo anche comunicarlo ai miei genitori. Ricordo che era una sera tranquilla, stavamo mangiando insieme, solo noi tre. A un certo punto dissi: “Voglio dirvi qualcosa: ho fatto il mio discernimento e ho deciso di entrare tra i salesiani.”
Mio padre fu felicissimo. Mi rispose subito: “Che il Signore ti benedica.”. Mia madre invece iniziò a piangere, un po’ come fanno tutte le mamme. Mi chiese: “Allora ti allontani?” Ma mio padre intervenne con dolcezza e fermezza: “Che si allontani o no, questa è la sua strada.”
Mi benedirono e mi incoraggiarono. Sono momenti che restano impressi per sempre.

Ricordo in particolare quello che accadde verso la fine della vita dei miei genitori. Mio padre morì nel 1997, e sei mesi dopo a mia madre hanno scoperto un tumore inguaribile.
In quel periodo, i superiori mi avevano chiesto di andare come docente all’Università Pontificia Salesiana (UPS), ma non sapevo che decisione prendere. Mia madre non stava bene, era ormai prossima alla morte. Parlando con i miei fratelli, mi dissero: “Tu fai quello che ti chiedono i superiori.”
Mi trovavo a casa e ne parlai con lei: “Mamma, i superiori mi chiedono di andare a Roma.”
Lei, con la lucidità di una vera madre, mi rispose: “Senti figlio mio, se dipendesse da me, ti chiederei di restare qui, perché non ho nessun altro e non vorrei pesare sui tuoi fratelli. Ma…” – e qui disse una frase che mi porto nel cuore – “Tu non sei mio, tu appartieni a Dio. Fai quello che ti dicono i superiori.”
Quella frase, pronunciata un anno prima della sua morte, per me è un tesoro, un’eredità preziosa. Mia madre era una donna intelligente, sapiente, perspicace: sapeva che la malattia l’avrebbe portata alla fine, ma in quel momento seppe essere libera interiormente. Libera di dire parole che confermavano ancora una volta il dono che lei stessa aveva fatto a Dio: offrire un figlio alla vita consacrata.

La reazione della mia famiglia, all’inizio e fino alla fine, è stata sempre segnata da un profondo rispetto e da un grande sostegno. E anche oggi, i miei fratelli e sorelle continuano a portare avanti questo spirito.

Qual è stato il tuo percorso formativo dal noviziato fino ad oggi?

È stato un percorso molto ricco e variegato. Ho iniziato il prenoviziato a Malta, poi ho fatto il noviziato a Dublino, in Irlanda. Un’esperienza davvero bella.

Dopo il noviziato, i miei compagni si sono trasferiti a Maynooth per studiare filosofia all’università, ma io l’avevo già completata in precedenza. Per questo i superiori mi hanno chiesto di rimanere ancora al noviziato per un anno, dove ho insegnato italiano e latino. In seguito, sono tornato a Malta per svolgere due anni di tirocinio, che sono stati molto belli e arricchenti.

Successivamente, sono stato inviato a Roma per studiare teologia all’Università Pontificia Salesiana, dove ho trascorso tre anni straordinari. Quegli anni mi hanno dato una grande apertura mentale. Vivevamo nello studentato con quaranta confratelli provenienti da venti nazioni diverse: Asia, Europa, America Latina… anche il corpo docente era internazionale. Era la metà degli anni ’80, circa vent’anni dopo il Concilio Vaticano II, e si respirava ancora molto entusiasmo: c’erano vivaci confronti teologici, la teologia della liberazione, l’interesse per il metodo e la prassi. Quegli studi mi hanno insegnato a leggere la fede non solo come contenuto intellettuale, ma come una scelta di vita.

Dopo quei tre anni, ho proseguito con altri due di specializzazione in teologia morale presso l’Accademia Alfonsiana, con i padri redentoristi. Anche lì ho incontrato figure significative, come il celebre Bernhard Häring, con cui ho stretto un’amicizia personale e andavo regolarmente ogni mese a dialogare con lui. Sono stati cinque anni complessivi – tra baccalaureato e licenza – che mi hanno formato profondamente dal punto di vista teologico.

In seguito, mi sono offerto per le missioni, e i superiori mi hanno inviato in Tunisia, insieme a un altro salesiano, per ristabilire la presenza salesiana nel paese. Abbiamo rilevato una scuola gestita da una congregazione femminile che, non avendo più vocazioni, stava per chiudere. Era una scuola con 700 studenti, per cui abbiamo dovuto imparare il francese e anche l’arabo. Per prepararci, abbiamo trascorso alcuni mesi a Lione, in Francia, e poi ci siamo dedicati allo studio dell’arabo.
Sono rimasto lì tre anni. È stata un’altra grande esperienza, perché ci siamo trovati a vivere la fede e il carisma salesiano in un contesto dove non si poteva parlare esplicitamente di Gesù. Tuttavia, era possibile costruire percorsi educativi fondati sui valori umani: rispetto, disponibilità, verità. La nostra testimonianza era silenziosa ma eloquente. In quell’ambiente ho imparato a conoscere e ad amare il mondo musulmano. Tutti – studenti, docenti e famiglie – erano musulmani, e ci hanno accolti con grande calore. Ci hanno fatto sentire parte della loro famiglia. Sono tornato più volte in Tunisia e ho sempre riscontrato lo stesso rispetto e apprezzamento, al di là della nostra appartenenza religiosa.

Dopo quell’esperienza, sono rientrato a Malta e ho lavorato per cinque anni nel campo sociale. In particolare, in una casa salesiana che accoglie ragazzi bisognosi di un accompagnamento educativo più attento, anche in forma residenziale.

Dopo questi otto anni complessivi di pastorale (tra Tunisia e Malta), mi è stata offerta la possibilità di completare il dottorato. Ho scelto di tornare in Irlanda, perché il tema era legato alla coscienza secondo il pensiero del cardinale John Henry Newman, oggi santo. Completato il dottorato, il Rettor Maggiore dell’epoca, don Juan Edmundo Vecchi – di grata memoria – mi chiese di entrare come docente di teologia morale all’Università Pontificia Salesiana.

Guardando a tutto il mio cammino, dall’aspirantato fino al dottorato, posso dire che è stato un insieme di esperienze non solo di contenuti, ma anche di contesti culturali molto diversi. Ringrazio il Signore e la Congregazione, perché mi hanno offerto la possibilità di vivere una formazione così varia e ricca.

Allora conosci il maltese perché è la tua lingua madre, l’inglese perché è la seconda idioma a Malta, il latino perché lo hai insegnato, l’italiano perché hai studiato in Italia, il francese e l’arabo perché sei stato a Manouba, in Tunisia… Quante lingue conosci?

Cinque, sei lingue, più o meno. Però, quando mi chiedono delle lingue, io dico sempre che sono un po’ coincidenze storiche.
A Malta cresciamo già con due idiomi: il maltese e l’inglese, e a scuola si studia una terza lingua. Ai miei tempi si insegnava anche l’italiano. Poi, io ero naturalmente portato per le lingue, e scelsi anche il latino. In seguito, andando in Tunisia, è stato necessario imparare il francese e anche l’arabo.
A Roma, vivendo con tanti studenti di lingua spagnola, l’orecchio si abitua, e quando sono stato eletto come Consigliere per la Pastorale Giovanile, ho approfondito un po’ anche lo spagnolo, che è una lingua molto bella.

Tutte le lingue sono belle. Certo, impararle richiede impegno, studio, esercizio. C’è chi è più portato, chi meno: fa parte della disposizione personale. Ma non è un merito, né una colpa. È semplicemente un dono, una predisposizione naturale.

Dal 2008- al 2020 sei stato per due mandati Consigliere Generale della Pastorale Giovanile. Come ti ha aiutato la tua esperienza in questa missione?

Quando il Signore ci affida una missione, portiamo con noi tutto il bagaglio di esperienze che abbiamo accumulato nel tempo.
Avendo vissuto in contesti culturali diversi, non correvo il rischio di vedere tutto attraverso il filtro di una sola cultura. Sono europeo, vengo dal Mediterraneo, da un paese che è stato colonia inglese, ma ho avuto la grazia di vivere in comunità internazionali, multiculturali.

Mi hanno aiutato molto anche gli anni di studio all’UPS. Avevamo professori che non si limitavano a trasmettere contenuti, ma ci educavano a fare sintesi, a costruire un metodo. Per esempio, se si studiava storia della Chiesa, si capiva quanto fosse essenziale per comprendere la patristica. Se si affrontava la teologia biblica, si imparava a collegarla con la teologia sacramentale, con la morale, con la storia della spiritualità. Insomma, ci insegnavano a pensare in modo organico.
Questa capacità di sintesi, questa architettura del pensiero, diventa poi parte della tua formazione personale. Quando fai teologia, impari a individuare punti fermi e a collegarli. E lo stesso vale per una proposta pastorale, pedagogica o filosofica. Quando incontri persone con grande spessore, assorbi non solo quello che dicono, ma anche come lo dicono, e questo forma il tuo stile.

Un altro elemento importante è che, al momento della mia elezione, avevo già vissuto esperienze in ambienti missionari, dove la religione cattolica era praticamente assente, e avevo lavorato con persone emarginate e vulnerabili. Avevo anche maturato una certa esperienza nel mondo universitario, e, parallelamente, mi ero molto dedicato all’accompagnamento spirituale.

Inoltre, tra il 2005 e il 2008 – proprio dopo l’esperienza all’UPS – l’Arcidiocesi di Malta mi aveva chiesto di fondare un Istituto di Formazione Pastorale, a seguito di un Sinodo diocesano che ne aveva riconosciuto la necessità. L’arcivescovo mi affidò il compito di avviarlo da zero. La prima cosa che feci fu costruire un’équipe con sacerdoti, religiosi, laici – uomini e donne. Abbiamo dato vita a un nuovo metodo formativo, che viene ancora utilizzato oggi. L’istituto continua a funzionare molto bene, e in qualche modo quell’esperienza ha rappresentato una preparazione preziosa per il lavoro che ho svolto successivamente nella pastorale giovanile.
Fin dall’inizio ho sempre creduto nel lavoro di équipe e nella collaborazione con i laici. La mia prima esperienza come direttore fu proprio in questo stile: un’équipe educativa stabile, oggi diremmo una CEP (Comunità Educativo-Pastorale), con incontri sistematici, non occasionali. Ci vedevamo ogni settimana con gli educatori e i professionisti. E questo approccio, che nel tempo è diventato un metodo, è rimasto per me un riferimento.

A tutto questo si aggiunge anche l’esperienza accademica: sei anni come docente all’Università Pontificia Salesiana, dove arrivavano studenti da oltre cento nazioni, e poi come esaminatore e direttore di tesi di dottorato all’Accademia Alfonsiana.

Credo che tutto ciò mi abbia preparato a vivere quella responsabilità con lucidità e visione.

Così, quando la Congregazione, durante il Capitolo Generale del 2008, mi ha chiesto di assumere questo incarico, portavo già con me una visione ampia, multiculturale. E questo mi ha aiutato, perché mettere insieme diversità non mi risultava faticoso: era parte della normalità. Certo, non si trattava semplicemente di fare una “macedonia” di esperienze: bisognava trovare i fili portanti, dare coerenza e unità.

Quello che ho potuto vivere come Consigliere Generale non è stato un merito personale. Credo che qualsiasi salesiano, se avesse avuto le stesse opportunità e il sostegno della Congregazione, avrebbe potuto vivere esperienze analoghe e dare il proprio contributo con generosità.

C’è una preghiera, una buonanotte salesiana, un’abitudine che non manchi mai da fare?

La devozione a Maria. In casa siamo cresciuti con il Rosario quotidiano, recitato in famiglia. Non era un obbligo, era qualcosa di naturale: lo facevamo prima di mangiare, perché mangiavamo sempre insieme. Allora era possibile. Oggi forse lo è meno, ma allora si viveva così: la famiglia riunita, la preghiera condivisa, la mensa comune.

All’inizio forse non mi rendevo conto di quanto fosse profonda quella devozione mariana. Ma col passare degli anni, quando si comincia a distinguere ciò che è essenziale da ciò che è secondario, ho capito quanto quella presenza materna abbia accompagnato la mia vita.
La devozione a Maria si esprime in forme diverse: il Rosario quotidiano, quando possibile; un momento di sosta davanti a un’immagine o a una statua della Madonna; una preghiera semplice, ma fatta con il cuore. Sono gesti che accompagnano il cammino di fede.

Naturalmente ci sono alcuni punti fermi: l’Eucaristia quotidiana e la meditazione quotidiana. Sono pilastri che non si discutono, si vivono. Non solo perché siamo consacrati, ma perché siamo credenti. E la fede la si vive solo nutrendola.
Quando la nutriamo, cresce in noi. E solo se cresce in noi, possiamo aiutare perché cresca anche negli altri. Per noi, che siamo educatori, è evidente: se la nostra fede non si traduce in vita concreta, tutto il resto diventa facciata.

Queste pratiche – la preghiera, la meditazione, la devozione – non sono riservate ai santi. Sono espressione di onestà. Se ho fatto una scelta di fede, ho anche la responsabilità di coltivarla. Altrimenti, tutto si riduce a qualcosa di esteriore, di apparente. E questo, nel tempo, non regge.

Se potessi tornare indietro, faresti le stesse scelte?

Assolutamente sì. Nella mia vita ci sono stati momenti molto difficili, come succede a tutti. Non voglio passare per la “vittima di turno”. Credo che ogni persona, per crescere, debba attraversare fasi di oscurità, momenti di desolazione, di solitudine, di sentirsi tradita o accusata ingiustamente. E io questi momenti li ho vissuti. Ma ho avuto la grazia di avere accanto un direttore spirituale.

Quando si vivono certe fatiche accompagnati da qualcuno, si riesce a intuire che tutto ciò che Dio permette ha un senso, ha uno scopo. E quando si esce da quel “tunnel”, si scopre di essere una persona diversa, più matura. È come se, attraverso quella prova, siamo trasformati.

Se fossi rimasto solo, avrei rischiato di prendere decisioni sbagliate, senza visione, accecato dalla fatica del momento. Quando si è arrabbiati, quando ci si sente soli, non è il momento di decidere. È il momento di camminare, di chiedere aiuto, di farsi accompagnare.

Vivere certi passaggi con l’aiuto di qualcuno è come essere una pasta messa nel forno: il fuoco la cuoce, la rende matura. Perciò, alla domanda se cambierei qualcosa, la mia risposta è: no. Perché anche i momenti più difficili, anche quelli che non capivo, mi hanno aiutato a diventare la persona che sono oggi.

Mi sento una persona perfetta? No. Ma sento di essere in cammino, ogni giorno, cercando di vivere davanti alla misericordia e alla bontà di Dio.

E oggi, mentre rilascio questa intervista, posso dire con sincerità che mi sento felice. Forse non ho ancora compreso pienamente cosa significhi essere Rettor Maggiore – ci vuole del tempo – ma so che è una missione, non una passeggiata. Porta con sé le sue difficoltà. Tuttavia, mi sento amato, stimato dai miei collaboratori e da tutta la Congregazione.

E tutto quello che sono oggi, lo sono grazie a ciò che ho vissuto, anche nei passaggi più faticosi. Non li cambierei. Mi hanno reso ciò che sono.

Hai qualche progetto che ti sta particolarmente a cuore?

Sì. Se chiudo gli occhi e immagino qualcosa che davvero desidero, vorrei vedere una Congregazione più santa. Più santa. Più santa.

Mi ha ispirato profondamente la prima lettera di don Pascual Chávez del 2002, intitolata “Siate santi”. Quella lettera mi ha toccato dentro, mi ha lasciato un segno.
I progetti sono molti, e tutti validi, ben strutturati, con visioni ampie e profonde. Ma che valore hanno, se vengono portati avanti da persone che non sono sante? Possiamo fare un lavoro eccellente, possiamo anche essere apprezzati – e questo, di per sé, non è negativo –, ma noi non lavoriamo per ottenere successo. Il nostro punto di partenza è un’identità: siamo persone consacrate.

Ciò che proponiamo ha senso solo se nasce da lì. È chiaro che desideriamo che i nostri progetti abbiano successo, ma ancora di più desideriamo che portino grazia, che tocchino le persone nel profondo. Non basta essere efficienti. Dobbiamo essere efficaci, nel senso più profondo: efficaci nella testimonianza, nell’identità, nella fede.
L’efficienza può esistere anche senza alcun riferimento religioso. Possiamo essere ottimi professionisti, ma non basta. La nostra consacrazione non è un dettaglio: è il fondamento. Se diventa marginale, se la mettiamo da parte per fare spazio all’efficienza, allora perdiamo la nostra identità.

E la gente ci osserva. Nelle scuole salesiane, si riconosce che i risultati sono buoni – ed è un bene. Ma ci riconoscono anche come uomini di Dio? Questa è la domanda.
Se ci vedono solo come bravi professionisti, allora siamo solo efficienti. Ma la nostra vita deve nutrirsi di Lui – Via, Verità e Vita – non di ciò che “io penso” o che “io voglio” o di “quello che mi sembra”.

Quindi, più che parlare di un progetto mio personale, preferisco parlare di un desiderio profondo: diventare santi. E parlarne in modo concreto, non idealizzato.
Quando don Bosco parlava ai suoi ragazzi di studio, sanità e santità, non si riferiva a una santità fatta solo di preghiera in cappella. Pensava a una santità vissuta nella relazione con Dio e alimentata dalla relazione con Dio. La santità cristiana è il riflesso di questa relazione viva e quotidiana.

Che consigli daresti a un giovane che si interroga sulla vocazione?

Gli direi di scoprire, passo dopo passo, qual è il progetto di Dio per lui.
Il cammino vocazionale non è una domanda che si fa, aspettando poi una risposta pronta da parte della Chiesa. È un pellegrinaggio. Quando un ragazzo mi dice: “Non so se farmi salesiano o no”, cerco di allontanarlo da quella formulazione. Perché non si tratta semplicemente di decidere: “Mi faccio salesiano”. La vocazione non è un’opzione in relazione a ina “cosa”.

Anche nella mia propria esperienza, quando dissi al mio direttore spirituale: “Voglio diventare salesiano, devo esserlo”, lui, con molta calma, mi fece riflettere: “È davvero la volontà di Dio? Oppure è solo un tuo desiderio?”

Ed è giusto che un giovane cerchi ciò che desidera, è una cosa sana. Ma chi accompagna ha il compito di educare quella ricerca, di trasformarla da entusiasmo iniziale in cammino di maturazione interiore.
“Vuoi fare del bene? Bene. Allora conosci te stesso, riconosci di essere amato da Dio.”
È solo a partire da quella relazione profonda con Dio che può emergere la vera domanda: “Qual è il progetto di Dio per me?”
Perché ciò che oggi desidero, domani potrebbe non bastarmi più. Se la vocazione si riduce a ciò che “mi piace”, allora sarà qualcosa di fragile. La vocazione è invece una voce interiore che interpella, che chiede di entrare in dialogo con Dio, e di rispondere.

Quando un giovane arriva a questo punto, quando viene accompagnato a scoprire quello spazio interiore dove abita Dio, allora inizia davvero a camminare.
E per questo, chi accompagna deve essere molto attento, profondo, paziente. Mai superficiale.

Il Vangelo di Emmaus è un’immagine perfetta: Gesù si avvicina ai due discepoli, li ascolta anche se sa che stanno parlando con confusione. Poi, dopo averli ascoltati, comincia a parlare. E loro, alla fine, lo invitano: “Resta con noi, perché si fa sera.”
E lo riconoscono nel gesto di spezzare il pane. Poi si dicono: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli parlava lungo la via?”

Oggi molti giovani sono in ricerca. Il nostro compito, come educatori, è non essere frettolosi. Ma aiutarli, con calma e gradualità, a scoprire la grandezza che è già nel loro cuore. Perché lì, in quella profondità, incontrano Cristo. Come dice sant’Agostino: “Tu eri dentro di me, e io fuori. E lì ti cercavo.”


Avresti un messaggio da trasmettere oggi alla Famiglia Salesiana?

È lo stesso messaggio che ho condiviso anche in questi giorni, durante l’incontro della Consulta della Famiglia Salesiana: La fede. Radicarci sempre di più nella persona di Cristo.

È da questo radicamento che nasce una conoscenza autentica di don Bosco. I primi salesiani, quando vollero scrivere un libro sul vero don Bosco, non lo intitolarono “Don Bosco apostolo dei giovani”, ma “Don Bosco con Dio” – un testo scritto da don Eugenio Ceria nel 1929.
E questo ci fa riflettere. Perché loro, che lo avevano visto in azione ogni giorno, non scelsero di sottolineare il don Bosco instancabile, organizzatore, educatore. No, vollero raccontare il don Bosco profondamente unito a Dio.
Chi lo ha conosciuto bene non si è fermato alle apparenze, ma è andato alla radice: don Bosco era un uomo immerso in Dio.

Alla Famiglia Salesiana dico: abbiamo ricevuto un tesoro. Un dono immenso. Ma ogni dono comporta una responsabilità.
Nel mio discorso finale ho detto: “Non basta amare don Bosco, bisogna conoscerlo.”
E possiamo conoscerlo davvero solo se siamo persone di fede.

Dobbiamo guardarlo con lo sguardo della fede. Solo così possiamo incontrare il credente che fu don Bosco, in cui lo Spirito Santo ha agito con forza: con dýnamis, con cháris, con carisma, con grazia.
Non possiamo limitarci a ripetere certe sue massime o a raccontare i suoi miracoli. Perché corriamo il rischio di fermarci sulle storielle di Don Bosco, invece di fermarci sulla storia di Don Bosco, perché Don Bosco è più grande di Don Bosco.
Questo significa studio, riflessione, profondità. Significa evitare ogni superficialità.

E allora potremo dire con verità: “Questa è la mia fede, questo è il mio carisma: radicati in Cristo, sui passi di Don Bosco.”




Il titolo di Basilica al tempio del Sacro Cuore di Roma

Nel centenario della morte di don Paolo Albera si è messo in luce come il secondo successore di don Bosco abbia realizzato quello che si potrebbe definire un sogno di don Bosco. Difatti trentaquattro anni dopo la consacrazione del tempio del S. Cuore di Roma, avvenuta presente l’ormai esausto don Bosco (maggio 1887), papa Benedetto XVI – il papa della famosa ed inascoltata definizione della prima guerra mondiale come “inutile strage” – conferì alla chiesa il titolo di Basilica Minore (11 febbraio 1921). Per la sua costruzione don Bosco aveva “dato l’anima” (e anche il corpo!) negli ultimi sette anni di vita. Aveva per altro fatto lo stesso un ventennio precedente (1865-1868) con la costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice a Torino-Valdocco, prima chiesa salesiana elevata alla dignità di basilica minore il 28 giugno 1911, presente il neo rettor Maggiore don Paolo Albera.

Il ritrovamento della supplica
Ma come si è arrivati a questo risultato? Chi ne è stato all’origine? Ora lo sappiamo con certezza grazie al recente ritrovamento della minuta dattiloscritta della richiesta di tale titolo da parte del Rettor Maggiore don Paolo Albera. È inserita in un fascicoletto commemorativo del 25° del Sacro Cuore curato nel 1905 dall’allora direttore don Francesco Tomasetti (1868-1953). Il dattiloscritto, datato 17 gennaio 1921, ha minime correzioni del Rettor Maggiore ma, ciò che è importante, porta la sua firma autografa.
Dopo aver descritto l’operato di don Bosco e l’attività incessante della parrocchia, desunte probabilmente dal vecchio fascicolo, don Albera si rivolge al Papa in questi termini:

Mentre la divozione al Sacro Cuore di Gesù va ognor più crescendo ed estendendosi in tutto il mondo, e sempre nuovi Templi vanno dedicandosi al Divin Cuore, anche per nobile iniziativa dei Salesiani, come a S. Paolo nel Brasile, a La Plata nell’Argentina, a Londra, a Barcellona e altrove, pare che il primario Tempio-Santuario dedicato al S. Cuore di Gesù in Roma, ove così importante divozione ha un’affermazione tanto degna dell’Eterna Città, meriti una speciale distinzione. Il sottoscritto pertanto, udito il parere del Consiglio Superiore della Pia Società Salesiana, supplica umilmente la Santità Vostra a volersi degnare di accordare al Tempio Santuario del Sacro Cuore di Gesù al Castro Pretorio in Roma il Titolo e i Privilegi di Basilica Minore, ripromettendosi da tale onorifica elevazione accrescimento di devozione, di pietà e di ogni attività cattolicamente benefica”.

La supplica, in bella copia, a firma di don Albera, venne inviata con ogni probabilità dal procuratore don Francesco Tomasetti alla Sacra Congregazione dei Brevi, che la accolse con favore. Stese in tempi rapidi la minuta del Breve Apostolico da conservare negli Archivi vaticani, la fece trascrivere dagli esperti calligrafi su ricca pergamena e la passò alla Segreteria di Stato per la firma del titolare del momento, cardinal Pietro Gasparri.
Oggi i fedeli possono ammirare ben incorniciato nella sacrestia della Basilica tale originale della concessione del titolo richiesto (v. foto).
Non si può che essere riconoscenti alla dott.ssa Patrizia Buccino, cultrice di archeologia e storia, e allo storico salesiano don Giorgio Rossi, che ne hanno divulgato la notizia. A loro il compito di portare a termine l’indagine avviata ricercando negli Archivi Vaticani l’intero carteggio, da far conoscere anche al mondo scientifico attraverso la nota rivista di storia salesiana “Ricerche Storiche Salesiane”.

Sacro Cuore: una basilica nazionale a raggio internazionale
Ventisei anni prima, il 16 luglio 1885, su richiesta di don Bosco e con il consenso esplicito di papa Leone XIII, monsignor Gaetano Alimonda, arcivescovo di Torino, aveva calorosamente sollecitato gli Italiani a partecipare alla riuscita della “nobile e santa proposta [del nuovo tempio] chiamandola voto nazionale degli Italiani”.
Ebbene, don Albera nella sua richiesta al pontefice, dopo aver ricordato il pressante appello del cardinal Alimonda, ricordava che a tutte le nazioni del mondo era stato chiesto di contribuire economicamente alla costruzione, decorazione del tempio e opere annesse (compreso l’immancabile oratorio salesiano con tanto di ospizio!) cosicché il Tempio-Santuario, oltreché voto nazionale, era divenuto “manifestazione mondiale o internazionale della devozione al S. Cuore”.
Al proposito, in uno scritto storico-ascetico edito in occasione del 1° Centenario della Consacrazione della Basilica (1987) lo studioso Armando Pedrini lo definiva: “Tempio dunque internazionale per la cattolicità e universalità del suo messaggio a tutte le genti”, anche in considerazione della “posizione di primissimo piano” della Basilica attigua alla riconosciuta internazionalità della stazione ferroviaria.
Roma-Termini non è dunque solo una grande stazione ferroviaria con problemi di ordine pubblico e un territorio difficile da gestire, di cui sovente si parla sui giornali e come per altro le stazioni ferroviarie di moltissime capitali europee. Ma è anche la sede della Basilica del Sacro Cuore di Gesù. E se alla sera e alla notte la zona non trasmette sicurezza ai turisti, di giorno la Basilica distribuisce pace e serenità ai fedeli che vi entrano, vi sostano in preghiera, vi ricevono i sacramenti.
Se lo ricorderanno i pellegrini che passeranno dallo scalo ferroviario di Termini nell’ormai non lontano anno santo (2025)? Basta che attraversino una strada… e il Sacro Cuore di Gesù li aspetta.

PS. In Roma esiste una seconda basilica parrocchiale salesiana, più grande e artisticamente più ricca di quella del Sacro Cuore: è quella di San Giovanni Bosco al Tuscolano, diventata tale nel 1965, a pochi anni della sua inaugurazione (1959). Dove si trova? “Ovviamente” nel Quartiere Don Bosco (a due passi dai celebri studi di Cinecittà). Se la statua sul campanile della basilica del Sacro Cuore domina la piazza della stazione Termini, la cupola della basilica di don Bosco, di poco inferiore a quella di San Pietro, la guarda però frontalmente, sia pure da due punti estremi della capitale. E siccome non c’è il due senza il tre, a Roma vi una terza splendida basilica parrocchiale salesiana: quella di Santa Maria Ausiliatrice, al quartiere Appio-Tuscolano, accanto al grande Istituto Pio XI.

Lettera apostolica intitolata Pia Societas, datata 11 febbraio 2021, con la quale, Sua Santità Benedetto XV ha elevato la chiesa del Sacro Cuore di Gesù al rango di Basilica.

Ecclesia parochialis SS.mi Cordis Iesu ad Castrum Praetorium in urbe titulo et privilegiis Basilicae Minoris decoratur.
Benedictus pp. XV

            Ad perpetuam rei memoriam.
            Pia Societas sancti Francisci Salesii, a venerabili Servo Dei Ioanne Bosco iam Augustae Taurinorum condita atque hodie per dissitas quoque orbis regiones diffusa, omnibus plane cognitum est quanta sibi merita comparaverit non modo incumbendo actuose sollerterque in puerorum, orbitate laborantium, religiosam honestamque institutionem, verum etiam in rei catholicae profectum tum apud christianum populum, tum apud infideles in longinquis et asperrimis Missionibus. Eiusdem Societatis sodalibus est quoque in hac Alma Urbe Nostra ecclesia paroecialis Sacratissimo Cordi Iesu dicata, in qua, etsi non abhinc multos annos condita, eximii praesertim Praedecessoris Nostri Leonis PP. XIII iussu atque auspiciis, christifideles urbani, eorumdem Sodalium opera, adeo ad Dei cultum et virtutum laudem exercentur, ut ea vel cum antiquioribus paroeciis in honoris ac meritorum contentionem veniat. Ipsemet Salesianorum Sodalium fundator, venerabilis Ioannes Bosco, in nova Urbis regione, aere saluberrimo populoque confertissima, quae ad Gastrum Praetorium exstat, exaedificationem inchoavit istius templi, et, quasi illud erigeret ex gentis italicae voto et pietatis testimonio erga Sacratissimum Cor Iesu, stipem praecipue ex Italiae christifidelibus studiose conlegit; verumtamen pii homines ex ceteris nationibus non defuerunt, qui, in exstruendum perficiendumque templum istud, erga Ssmum Cor Iesu amore incensi, largam pecuniae vim contulerint. Anno autem MDCCCLXXXVII sacra ipsa aedes, secundum speciosam formam a Virginio Vespignani architecto delineatam, tandem perfecta ac sollemniter consecrata dedicataque est. Eamdem vero postea, magna cum sollertia, Sodales Salesianos non modo variis altaribus, imaginibus affabre depictis et statuis, omnique sacro cultui necessaria supellectili exornasse, verum etiam continentibus aedificiis iuventuti, ut tempora nostra postulant, rite instituendae ditasse, iure ac merito Praedecessores Nostri sunt” laetati, et Nos haud minore animi voluptate probamus. Quapropter cum dilectus filius Paulus Albera, hodiernus Piae Societatis sancti Francisci Salesii rector maior, nomine proprio ac religiosorum virorum quibus praeest, quo memorati templi Ssmi Cordi Iesu dicati maxime augeatur decus, eiusdem urbanae paroeciae fidelium fides et pietas foveatur, Nos supplex rogaverit, ut eidem templo dignitatem, titulum et privilegia Basilicae Minoris pro Nostra benignitate impertiri dignemur; Nos, ut magis magisque stimulos fidelibus ipsius paroeciae atque Urbis totius Nostrae ad Sacratissimum Cor Iesu impensius colendum atque adamandum addamus, nec non benevolentiam, qua Sodales Salesianos ob merita sua prosequimur, publice significemus, votis hisce piis annuendum ultro libenterque censemus. Quam ob rem, conlatis consiliis cum VV. FF. NN. S. R. E. Cardinalibus Congregationi Ss. Rituum praepositis, Motu proprio ac de certa scientia et matura deliberatione Nostris, deque apostolicae potestatis plenitudine, praesentium Litterarum tenore perpetuumque in modum, enunciatum templum Sacratissimo Cordi Iesu dicatum, in hac alma Urbe Nostra atque ad Castrum Praetorium situm, dignitate ac titulo Basilicae Minoris honestamus, cum omnibus et singulis honoribus, praerogativis, privilegiis, indultis quae aliis Minoribus Almae huius Urbis Basilicis de iure competunt. Decernentes praesentes Litteras firmas, validas atque efficaces semper exstare ac permanere, suosque integros effectus sortiri iugiter et obtinere, illisque ad quos pertinent nunc et in posterum plenissime suffragari; sicque rite iudicandum esse ac definiendum, irritumque ex nunc et inane fieri, si quidquam secus super his, a quovis, auctoritate qualibet, scienter sive ignoranter attentari contigerit. Non obstantibus contrariis quibuslibet.

            Datum Romae apud sanctum Petrum sub annulo Piscatoris, die XI februarii MCMXXI, Pontificatus Nostri anno septimo.
P. CARD. GASPARRI, a Secretis Status.

***

La chiesa parrocchiale del Santissimo Cuore di Gesù a Castro Pretorio in città è insignita del titolo e dei privilegi di Basilica Minore.
Benedetto PP. XV

A perpetua memoria.
La Pia Società di San Francesco di Sales, già fondata a Torino dal venerabile Servo di Dio Giovanni Bosco e oggi diffusa anche in regioni lontane del mondo, ha acquisito meriti notevoli non solo dedicandosi attivamente e diligentemente all’educazione religiosa e onesta dei fanciulli orfani, ma anche al progresso della causa cattolica sia tra il popolo cristiano, sia tra gli infedeli nelle Missioni lontane e difficilissime. I membri della stessa Società hanno anche in questa Nostra Alma Urbe una chiesa parrocchiale dedicata al Sacratissimo Cuore di Gesù, nella quale, sebbene fondata non molti anni fa, per ordine e sotto gli auspici soprattutto del Nostro esimio Predecessore Leone PP. XIII, i fedeli urbani, con l’opera degli stessi Salesiani, sono così esercitati al culto di Dio e alla lode delle virtù, che essa gareggia in onore e meriti anche con le parrocchie più antiche. Lo stesso fondatore dei Salesiani, il venerabile Giovanni Bosco, in una nuova regione dell’Urbe, con aria saluberrima e popolosissima, che si trova a Castro Pretorio, iniziò la costruzione di quel tempio, e, quasi volesse erigerlo per voto della nazione italiana e testimonianza di pietà verso il Sacratissimo Cuore di Gesù, raccolse con zelo elemosine soprattutto dai fedeli d’Italia; tuttavia non mancarono uomini pii di altre nazioni che, spinti dall’amore verso il Sacratissimo Cuore di Gesù, contribuirono con ingenti somme di denaro alla costruzione e al completamento di quel tempio. Nell’anno 1887, la stessa sacra costruzione, secondo la splendida forma disegnata dall’architetto Virginio Vespignani, fu finalmente completata e solennemente consacrata e dedicata. I Salesiani, con grande diligenza, non solo l’hanno poi adornata con vari altari, immagini finemente dipinte e statue, e con tutti gli arredi necessari al sacro culto, ma l’hanno anche arricchita con edifici contigui per l’istruzione della gioventù, come richiedono i nostri tempi, e a buon diritto i Nostri Predecessori si sono rallegrati, e Noi non con minore piacere approviamo. Perciò, poiché il diletto figlio Paolo Albera, attuale rettore maggiore della Pia Società di San Francesco di Sales, a nome proprio e dei religiosi che presiede, affinché sia massimamente accresciuto il decoro del menzionato tempio dedicato al Santissimo Cuore di Gesù, e sia favorita la fede e la pietà dei fedeli di quella parrocchia urbana, Ci ha supplicato di degnarci di impartire a quel tempio la dignità, il titolo e i privilegi di Basilica Minore per Nostra benignità; Noi, per aggiungere sempre più stimoli ai fedeli di quella parrocchia e di tutta la Nostra Urbe a coltivare e amare più intensamente il Sacratissimo Cuore di Gesù, e per manifestare pubblicamente la benevolenza con cui seguiamo i Salesiani per i loro meriti, riteniamo di dover accogliere volentieri e spontaneamente questi pii voti. Per tale motivo, consultati i Venerabili Fratelli Nostri Cardinali di Santa Romana Chiesa preposti alla Congregazione dei Sacri Riti, di Nostro Motu proprio e con certa scienza e matura deliberazione Nostra, e dalla pienezza della potestà apostolica, con il tenore delle presenti Lettere e in perpetuo, onoriamo il suddetto tempio dedicato al Sacratissimo Cuore di Gesù, situato in questa Nostra Alma Urbe e a Castro Pretorio, con la dignità e il titolo di Basilica Minore, con tutti e singoli gli onori, le prerogative, i privilegi, gli indulti che spettano di diritto alle altre Basiliche Minori di questa Alma Urbe. Decretando che le presenti Lettere siano e rimangano sempre ferme, valide ed efficaci, e che ottengano e conservino sempre i loro pieni effetti, e che siano pienamente a favore di coloro a cui si riferiscono ora e in futuro; e che così si debba giustamente giudicare e definire, e che sia nullo e invalido fin d’ora, se qualcosa di diverso su queste cose, da chiunque, con qualsiasi autorità, scientemente o ignorantemente, dovesse essere tentato. Nonostante qualsiasi cosa contraria.

Dato a Roma presso San Pietro sotto l’anello del Pescatore, l’11 febbraio 1921, settimo anno del Nostro Pontificato.
P. CARD. GASPARRI, Segretario di Stato.




Messaggio di don Fabio Attard nella festa del Rettor Maggiore

Carissimi confratelli, carissimi collaboratori e collaboratrici delle nostre Comunità Educative Pastorali, carissimi giovani,

            Permettetemi di condividere con voi questo messaggio che viene dal profondo del mio cuore. Lo comunico con tutto l’affetto, l’apprezzamento e la stima che nutro per ognuno e ognuna di voi mentre siete impegnati nella missione di essere educatori, pastori e animatori dei giovani in tutti i continenti.
            Siamo tutti consapevoli che l’educazione dei giovani chiede sempre di più persone adulte significative, persone che hanno una spina dorsale moralmente solida, capace di trasmettere speranza e visione per il loro futuro.
            Mentre tutti ci troviamo impegnati a camminare con i giovani, accogliendoli nelle nostre case, offrendo loro opportunità educative di ogni tipo e di ogni genere, nella varietà degli ambienti che noi portiamo avanti, siamo anche consapevoli delle sfide culturali, sociali ed economici che dobbiamo affrontare.
            Accanto a queste sfide che fanno parte di ogni processo educativo pastorale, in quanto si tratta sempre di un dialogo continuo con le realtà terrene, riconosciamo che, come conseguenza delle situazioni di guerre e conflitti armati in varie parti del mondo, la chiamata che viviamo sta diventando più complessa e difficile. Tutto questo ha il suo effetto sull’impegno che noi stiamo portando avanti. È incoraggiante vedere che malgrado le difficoltà che dobbiamo affrontare, siamo determinati a continuare a vivere con convinzione la nostra missione.
            In questi ultimi mesi, il messaggio di Papa Francesco e adesso la parola di Papa Leone XIV continuamente stanno invitando il mondo a guardare in faccia questa dolorosa situazione che sembra come uno spirale che cresce in maniera spaventosa. Sappiamo che le guerre non producono mai pace. Siamo consapevoli, e alcuni di noi lo stanno vivendo in prima fila, che ogni conflitto armato e ogni guerra porta con sé sofferenza, dolore e aumenta ogni tipo povertà. Tutti conosciamo che coloro che alla fine pagano il prezzo di tali situazioni sono gli sfollati, gli anziani, i bambini e i giovani che si trovano senza presente e senza futuro.
            Per questo motivo carissimi confratelli e carissimi nostri collaboratori e giovani di tutto il mondo, vorrei gentilmente chiedervi che per la festa del Rettor Maggiore, che è una tradizione che risale al tempo di Don Bosco, ogni comunità attorno al giorno della festa del Rettor Maggiore celebri la santa Eucaristia per la pace.
            È un invito alla preghiera che trova la sua fonte nel sacrificio di Cristo, crocifisso e risorto. Una preghiera come testimonianza perché nessuno rimanga indifferente in una situazione mondiale scossa da un crescente numero di conflitti.
            Questo nostro è un gesto di solidarietà con tutti coloro, specialmente salesiani, laici e giovani, che in questo momento particolare, con grande coraggio e determinazione continuano a vivere la missione salesiana in mezzo a situazioni segnate da guerre. Sono salesiani, laici e giovani che chiedono e apprezzano la solidarietà di tutta la Congregazione, solidarietà umana, solidarietà spirituale, solidarietà carismatica.
            Mentre da parte mia e da parte di tutto il Consiglio Generale stiamo facendo tutto il possibile a essere molto vicini in maniera concreta a tutti, credo che in questo momento particolare vada dato tale segno di vicinanza e di incoraggiamento da parte di tutta la Congregazione.
            A voi carissimi nostri fratelli e carissime nostre sorelle in Myanmar, Ucraina, Medio Oriente, Etiopia, Est della Repubblica Democratica del Congo, Nigeria, Haiti e Centro America, vogliamo dirvi ad alta voce che siamo con voi. Vi ringraziamo per la vostra testimonianza. Vi assicuriamo la nostra vicinanza umana e spirituale.
            Continuiamo a pregare per il dono della pace. Continuiamo a pregare per questi nostri confratelli, laici e giovani che, vivendo in situazioni molto difficili, continuano a sperare e a pregare affinché la pace emerga. Il loro esempio, la donazione di sé stessi e la loro appartenenza al carisma di Don Bosco, è per noi una testimonianza forte. Essi, insieme a tante persone consacrate, sacerdoti e laici impegnati, sono i martiri moderni, cioè testimoni dell’educazione e dell’evangelizzazione, che malgrado tutto, come veri pastori e ministri della carità evangelica, continuano ad amare, credere e sperare per un futuro migliore.
            Tutti noi, questa chiamata alla solidarietà, la assumiamo con tutto il nostro cuore. Grazie.

Prot. 25/0243 Roma, 24 giugno 2025
don Fabio ATTARD,
Rettor Maggiore

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Don Bosco e le processioni eucaristiche

Un aspetto poco conosciuto ma importante del carisma di san Giovanni Bosco sono le processioni eucaristiche. Per il santo dei giovani, l’Eucaristia non era solo devozione personale, ma strumento pedagogico e testimonianza pubblica. In una Torino in trasformazione, don Bosco vide nelle processioni un’occasione per rafforzare la fede dei ragazzi e annunciare Cristo nelle strade. L’esperienza salesiana, proseguita in tutto il mondo, mostra come la fede possa incarnarsi nella cultura e rispondere alle sfide sociali. Ancora oggi, vissute con autenticità e apertura, queste processioni possono diventare segni profetici di fede.

Quando si parla di san Giovanni Bosco (1815-1888) si pensa immediatamente ai suoi oratori popolari, alla passione educativa per i giovani e alla famiglia salesiana nata dal suo carisma. Meno noto, ma non per questo meno decisivo, è il ruolo che la devozione eucaristica — e in particolare le processioni eucaristiche — ebbe nella sua opera. Per Don Bosco l’Eucaristia non era soltanto il cuore della vita interiore; costituiva anche un potente strumento pedagogico e un segno pubblico di rinnovamento sociale in una Torino in rapida trasformazione industriale. Ripercorrere il legame fra il santo dei giovani e le processioni con il Santissimo significa entrare in un laboratorio di pastorale in cui liturgia, catechesi, educazione civica e promozione umana si intrecciano in modo originale e, a tratti, sorprendente.

Le processioni eucaristiche nel contesto del XIX secolo
Per comprendere Don Bosco occorre ricordare che l’Ottocento italiano visse un intenso dibattito sul ruolo pubblico della religione. Dopo l’epoca napoleonica e il moto risorgimentale, le manifestazioni religiose nelle vie cittadine non erano più scontate: in molte regioni si andava delineando uno stato liberale che guardava con sospetto qualsiasi espressione pubblica del cattolicesimo, temendo raduni di massa o rigurgiti “reazionari”. Le processioni eucaristiche, tuttavia, mantenevano una forza simbolica potentissima: ricordavano la signoria di Cristo su tutta la realtà e, allo stesso tempo, facevano emergere una Chiesa popolare, visibile e incarnata nei rioni. Contro questo sfondo si staglia l’ostinazione di Don Bosco, che non rinunciò mai ad accompagnare i suoi ragazzi nel testimoniare la fede fuori dalle mura dell’oratorio, fossero i viali di Valdocco o le campagne circostanti.

Fin dagli anni di formazione al seminario di Chieri, Giovanni Bosco maturò una sensibilità eucaristica di sapore “missionario”. Le cronache raccontano che spesso si fermava in cappella, dopo le lezioni, a lungo in preghiera davanti al tabernacolo. Nelle “Memorie dell’Oratorio” egli stesso riconosce di aver imparato dal suo direttore spirituale, don Cafasso, il valore di “farsi pane” per gli altri: contemplare Gesù che si dona nell’Ostia significava, per lui, apprendere la logica dell’amore gratuito. Questa linea attraversa l’intera sua vicenda: “Tenetevi amici Gesù sacramentato e Maria Ausiliatrice” ripeterà ai giovani, indicando la comunione frequente e l’adorazione silenziosa come pilastri di un cammino di santità laicale e quotidiana.

L’oratorio di Valdocco e le prime processioni interne
Nei primi anni Quaranta dell’Ottocento, l’oratorio torinese non possedeva ancora una chiesa vera e propria. Le celebrazioni avvenivano in baracche di legno o in cortili adattati. Don Bosco, tuttavia, non rinunciò a organizzare piccole processioni interne, quasi “prove generali” di quella che sarebbe diventata una pratica stabile. I ragazzi portavano ceri e stendardi, cantavano lodi mariane e, al termine, si fermavano attorno ad un improvvisato altare per la benedizione eucaristica. Questi primi tentativi avevano una funzione eminentemente pedagogica: abituare i giovani a una partecipazione devota ma gioiosa, unendo disciplina e spontaneità. Nella Torino operaia, dove spesso la miseria sfociava in violenza, sfilare ordinati con il fazzoletto rosso al collo era già un segnale controcorrente: mostrava che la fede poteva educare al rispetto di sé e degli altri.

Don Bosco sapeva bene che una processione non si improvvisa: occorrono segni, canti, gesti che parlino al cuore ancor prima che alla mente. Per questo curava personalmente la spiegazione dei simboli. Il baldacchino diventava l’immagine della tenda del convegno, segno della presenza divina che accompagna il popolo in cammino. I fiori sparsi lungo il percorso ricordavano la bellezza delle virtù cristiane che devono adornare l’anima. I lampioni, indispensabili nelle uscite serali, alludevano alla luce della fede che rischiara le tenebre del peccato. Ogni elemento era oggetto di una piccola “predica” conviviale in refettorio o nella ricreazione, così che la preparazione logistica si intrecciasse alla catechesi sistematica. Il risultato? Per i ragazzi la processione non era un dovere rituale ma un’occasione di festa carica di significato.

Uno degli aspetti più caratteristici delle processioni salesiane era la presenza della banda formata dagli stessi allievi. Don Bosco considerava la musica un antidoto contro l’ozio e, al contempo, un potente strumento di evangelizzazione: “Un’allegra marcia eseguita bene — scriveva — attira la gente come la calamita il ferro”. La banda precedeva il Santissimo, alternando brani sacri ad arie popolari adattate con testi religiosi. Questo “dialogo” tra fede e cultura popolare riduceva le distanze con i passanti e creava attorno alla processione un’aura di festa condivisa. Non pochi cronisti laici testimonieranno di essere stati “intrigati” da quel drappello di giovanissimi suonatori disciplinati, così diverso dalle bande militari o filarmoniche dell’epoca.

Processioni come risposta alle crisi sociali
La Torino dell’Ottocento conobbe epidemie di colera (1854 e 1865), scioperi, carestie e tensioni anticlericali. Don Bosco reagì spesso proponendo processioni straordinarie di riparazione o di supplica. Durante il colera del ’54 portò i giovani per le vie più colpite, recitando ad alta voce le litanie per gli infermi e distribuendo pane e medicine. In quel frangente nacque la promessa — poi mantenuta — di costruire la chiesa di Maria Ausiliatrice: “Se la Madonna salva i miei ragazzi, le innalzerò un tempio”. Le autorità civili, inizialmente contrarie a cortei religiosi per timore di contagio, dovettero riconoscere l’efficacia della rete di assistenza salesiana, alimentata spiritualmente proprio dalle processioni. L’Eucaristia, portata fra i malati, diventava così segno tangibile della compassione cristiana.

Contrariamente a certi modelli devozionali chiusi entro le sacrestie, le processioni di Don Bosco rivendicavano un diritto di cittadinanza della fede nello spazio pubblico. Non si trattava di “occupare” le strade, ma di restituirle alla loro vocazione comunitaria. Passare sotto i balconi, attraversare piazze e portici voleva dire ricordare che la città non è solo luogo di scambio economico o di scontro politico, bensì di incontro fraterno. Per questo Don Bosco insisteva su un ordine impeccabile: mantelli spazzolati, scarpe pulite, file regolari. Voleva che l’immagine della processione comunicasse bellezza e dignità, persuadendo anche gli osservatori più scettici che la proposta cristiana elevava la persona.

L’eredità salesiana delle processioni
Dopo la morte di Don Bosco, i suoi figli spirituali diffusero la prassi delle processioni eucaristiche in tutto il mondo: dalle scuole agricole dell’Emilia alle missioni della Patagonia, dai collegi asiatici ai quartieri operai di Bruxelles. Ciò che contava non era duplicare pedissequamente un rito piemontese, ma trasmettere il nucleo pedagogico: protagonismo giovanile, catechesi simbolica, apertura alla società circostante. Così, in America Latina, i salesiani inserirono danze tradizionali all’inizio del corteo; in India adottarono tappeti di fiori secondo l’arte locale; in Africa subsahariana alternarono canti gregoriani a ritmi polifonici tribali. L’Eucaristia diventava ponte fra culture, realizzando il sogno di Don Bosco di “fare di tutti i popoli un’unica famiglia”.

Sotto il profilo teologico, le processioni di Don Bosco incarnano una forte visione della presenza reale di Cristo. Portare il Santissimo “fuori” significa proclamare che il Verbo non si è fatto carne per restare rinchiuso, ma per “piantare la sua tenda in mezzo a noi” (cfr. Gv 1,14). Tale presenza chiede di essere annunciata in forme comprensibili, senza ridursi a gesto intimista. In Don Bosco la dinamica centripeta dell’adorazione (raccogliere i cuori attorno all’Ostia) genera una dinamica centrifuga: i giovani, nutriti all’altare, si sentono inviati a servire. Dalla processione scaturiscono micro-impegni: assistere un compagno ammalato, pacificare un litigio, studiare con maggiore diligenza. L’Eucaristia si prolunga nelle “processioni invisibili” della carità quotidiana.

Oggi, in contesti secolarizzati o multireligiosi, le processioni eucaristiche possono sollevare interrogativi: sono ancora comunicative? Non rischiano di apparire folclore nostalgico? L’esperienza di Don Bosco suggerisce che la chiave sta nella qualità relazionale più che nella quantità di incenso o di paramenti. Una processione che coinvolge famiglie, spiega i simboli, integra linguaggi artistici contemporanei, e soprattutto si collega a gesti concreti di solidarietà, mantiene una sorprendente forza profetica. Il recente Sinodo sui giovani (2018) ha richiamato più volte l’importanza di “uscire” e di “mostrare la fede con la carne”. La tradizione salesiana, con la sua liturgia itinerante, offre un paradigma già collaudato di “Chiesa in uscita”.

Le processioni eucaristiche non erano per Don Bosco semplici tradizioni liturgiche, ma veri e propri atti educativi, spirituali e sociali. Esse rappresentavano una sintesi tra fede vissuta, comunità educante e testimonianza pubblica. Attraverso di esse, Don Bosco formava giovani capaci di adorare, di rispettare, di servire e di testimoniare.
Oggi, in un mondo frammentato e distratto, riproporre il valore delle processioni eucaristiche alla luce del carisma salesiano può essere un modo efficace per ritrovare il senso dell’essenziale: Cristo presente in mezzo al suo popolo, che cammina con lui, lo adora, lo serve e lo annuncia.
In un’epoca che cerca autenticità, visibilità e relazioni, la processione eucaristica – se vissuta secondo lo spirito di Don Bosco – può essere un segno potente di speranza e di rinnovamento.

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Don Pietro Ricaldone rinasce a Mirabello Monferrato

Don Pietro Ricaldone (Mirabello Monferrato, 27 aprile 1870 – Roma, 25 novembre 1951) fu il quarto successore di don Bosco alla guida dei Salesiani, uomo di vasta cultura, profonda spiritualità e grande amore per i giovani. Nato e cresciuto tra le colline monferrine, portò sempre con sé lo spirito di quella terra, traducendolo in un impegno pastorale e formativo che lo avrebbe reso figura di rilievo internazionale. Oggi, gli abitanti di Mirabello Monferrato vogliono farlo tornare nelle loro terre.

Il Comitato Don Pietro Ricaldone: rinascita di un’eredità (2019)
Nel 2019, un gruppo di ex allievi e ex allieve, storici e appassionati di tradizioni locali ha dato vita al Comitato Don Pietro Ricaldone a Mirabello Monferrato. L’obiettivo – semplice e ambizioso allo stesso tempo – è stato fin dall’inizio quello di riportare la figura di don Pietro nel cuore del paese e dei giovani, perché la sua storia e la sua eredità spirituale non vadano perdute.

Per preparare il 150° anniversario della nascita (1870–2020), il Comitato ha scandagliato l’Archivio Storico Comunale di Mirabello e l’Archivio Storico Salesiano, rinvenendo lettere, appunti e antichi volumi. Da questo lavoro è nata una biografia illustrata, pensata per lettori di ogni età, in cui la personalità di Ricaldone emerge in forma chiara e avvincente. Fondamentale, in questa fase, è stata la collaborazione con don Egidio Deiana, studioso di storia salesiana.

Nel 2020 era prevista una serie di eventi – mostre fotografiche, concerti, spettacoli teatrali e circensi – tutti incentrati sul ricordo di don Pietro. Sebbene la pandemia abbia costretto a riprogrammare gran parte dei festeggiamenti, nel luglio dello stesso anno si è svolto un evento commemorativo con una mostra fotografica sulle tappe della vita di Ricaldone, una animazione per bambini con laboratori creativi e una celebrazione solenne, alla presenza di alcuni Superiori Salesiani.
Quell’incontro ha segnato l’inizio di una nuova stagione di attenzione al territorio mirabellese.

Oltre il 150°: il concerto per il 70° anniversario della morte
L’entusiasmo per il recupero della figura di don Pietro Ricaldone ha portato il Comitato a prolungare la propria attività anche dopo il 150° anniversario.
In vista del 70° anniversario della morte (25 novembre 1951), il Comitato ha organizzato un concerto dal titolo “Affrettare l’alba radiosa del giorno sospirato”, frase tratta dalla circolare di don Pietro sul Canto Gregoriano del 1942.
In piena Seconda Guerra Mondiale, don Pietro – allora Rettore Maggiore – scrisse una celebre circolare sul Canto Gregoriano in cui sottolineava l’importanza della musica come via privilegiata per ricondurre i cuori degli uomini alla carità, alla mitezza e soprattutto a Dio: “A taluno potrà causare meraviglia che, in tanto fragore di armi, io v’inviti ad occuparvi di musica. Eppure penso, anche prescindendo da allusioni mitologiche, che questo tema risponda pienamente alle esigenze dell’ora che volge. Tutto ciò che possa esercitare efficacia educativa e ricondurre gli uomini a sensi di carità e mitezza e soprattutto a Dio, dev’essere da noi praticato, diligentemente e senza indugio, per affrettare l’alba radiosa del giorno sospirato”.

Passeggiate e radici salesiane: la “Passeggiata di don Bosco”
Pur essendo nato come omaggio a don Ricaldone, il Comitato ha finito per diffondere nuovamente anche la figura di don Bosco e di tutta la tradizione salesiana, di cui don Pietro è stato erede e protagonista.
A partire dal 2021, ogni seconda domenica di ottobre, il Comitato promuove la “Passeggiata di Don Bosco”, riproponendo il pellegrinaggio che don Bosco compì con i ragazzi da Mirabello a Lu Monferrato nel 12–17 ottobre 1861. In quei cinque giorni si progettarono i dettagli del primo collegio salesiano fuori Torino, affidato al Beato Michele Rua con don Albera tra gli insegnanti. Anche se l’iniziativa non riguarda direttamente don Pietro, ne sottolinea le radici e il legame con la tradizione salesiana locale che egli stesso ha portato avanti.

Ospitalità e scambi culturali
Il Comitato ha favorito l’accoglienza di gruppi di giovani, scuole professionali e chierici salesiani da tutto il mondo. Alcune famiglie offrono ospitalità gratuita, rinnovando la fraternità tipica di don Bosco e di don Pietro. Nel 2023 ha toccato Mirabello un numeroso gruppo della Crocetta, mentre ogni estate arrivano gruppi internazionali accompagnati da don Egidio Deiana. Ogni visita è un dialogo tra memoria storica e gioia dei giovani.

Il 30 marzo 2025, quasi cento capitolari salesiani hanno fatto tappa a Mirabello, sui luoghi in cui don Bosco aprì il suo primo collegio fuori Torino e dove don Pietro visse i suoi anni formativi. Il Comitato, insieme alla Parrocchia e alla Pro Loco, ha organizzato l’accoglienza e realizzato un video divulgativo sulla storia salesiana locale, apprezzato da tutti i partecipanti.

Le iniziative continuano e oggi il Comitato, guidato dal suo presidente, collabora alla creazione del Cammino Monferrino di Don Bosco, un itinerario spirituale di circa 200 km attraverso le vie autunnali percorse dal Santo. L’obiettivo è ottenere il riconoscimento ufficiale a livello regionale, ma anche offrire ai pellegrini un’esperienza formativa e di evangelizzazione. Le passeggiate giovanili di don Bosco, infatti, erano esperienze di formazione ed evangelizzazione: lo stesso spirito che don Pietro Ricaldone avrebbe poi difeso e promosso durante tutto il suo rettorato.

La missione del Comitato: tenere viva la memoria di don Pietro
Dietro a ogni iniziativa c’è la volontà di far emergere l’opera educativa, pastorale e culturale di don Pietro Ricaldone. I fondatori del Comitato custodiscono ricordi personali di infanzia e desiderano trasmettere alle nuove generazioni i valori di fede, cultura e solidarietà che animarono il sacerdote mirabellese. In un’epoca in cui tanti punti di riferimento vacillano, riscoprire il cammino di don Pietro significa offrire un modello di vita capace di illuminare il presente: “Là dove passano i Santi, Dio cammina con loro e niente è più come prima” (San Giovanni Paolo II).
Il Comitato Don Pietro Ricaldone si fa portavoce di questa eredità, confidando che la memoria di un grande figlio di Mirabello continui a illuminare la via per le generazioni che verranno, tracciando un sentiero saldo fatto di fede, cultura e solidarietà.




Novena a Maria Ausiliatrice 2025

Questa novena a Maria Ausiliatrice 2025 invita a riscoprirci figli sotto lo sguardo materno di Maria. Ogni giorno, attraverso le grandi apparizioni – da Lourdes a Fatima, da Guadalupe a Banneaux – contempliamo un tratto del suo amore: umiltà, speranza, obbedienza, stupore, fiducia, consolazione, giustizia, dolcezza, sogno. Le meditazioni del Rettor Maggiore e le preghiere dei “figli” ci accompagnano in un cammino di nove giorni che apre il cuore alla fede semplice dei piccoli, alimenta la preghiera e incoraggia a costruire, con Maria, un mondo guarito e pieno di luce, per noi e per tutti coloro che cercano speranza e pace.

Giorno 1
Essere Figli – Umiltà e fede

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Nostra Signora di Lourdes
La piccola Bernadette Soubirous
11 febbraio 1858. Avevo appena compiuto 14 anni. Era un mattino come gli altri, un giorno d’inverno. Avevamo fame, come sempre. C’era questa grotta, con la bocca nera, Nel silenzio sentii come un gran soffio. Il cespuglio si mosse, una forza lo scuoteva. E allora io vidi una giovane, bianca, non più alta di me che mi salutò con un leggero inchino del capo; nello stesso tempo ella allontanò un po’ dal corpo le braccia tese, aprendo le mani, come le statue della Madonna; Io ebbi paura. Poi mi venne in mente di pregare: presi la corona che porto sempre con me e inizia a recitare il rosario.

Maria si mostra a sua figlia Bernadette Soubirous. A lei che non sapeva né leggere né scrivere, a lei che parlava in dialetto e non andava al catechismo. Una ragazzina povera, bullizzata da tutti nel paese, eppure pronta a fidarsi e ad affidarsi, come chi non ha niente. E niente da perdere. Maria le affida i suoi segreti e lo fa perché si fida di lei. La tratta con amorevolezza, si rivolge a lei con gentilezza, le dice “per favore”. E Bernadette si abbandona e le crede, proprio come un bimbo fa con sua madre. Crede alla sua promessa che la Madonna le fa di non farla felice in questo mondo, ma nell’altro. E la ricorda per tutta la vita, questa promessa. Una promessa che le permetterà di affrontare tutte le difficoltà a testa alta, con forza e determinazione, facendo quanto la Madonna le ha chiesto: pregare, pregare sempre per tutti noi peccatori. Anche lei promette: custodisce i segreti di Maria e dà voce alla sua richiesta di un Santuario nel luogo dell’apparizione. E in punto di morte Bernadette sorride, ripensando al volto di Maria, al suo sguardo amorevole, ai suoi silenzi, alle sue poche ma intense parole e soprattutto a quella promessa. E si sente ancora figlia, figlia di una Madre che mantiene le sue promesse.

Maria, Madre che promette
Tu, che hai promesso di diventare madre dell’umanità, sei rimasta accanto ai tuoi figli, iniziando dai più piccoli e dai più poveri. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Abbi fede: Maria si mostra anche a noi se sappiamo spogliarci di tutto.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, umiltà e fede

Possiamo dire che Maria Santissima per noi è un faro di umiltà e di fede che accompagna i secoli, accompagna la nostra vita, accompagna l’esperienza di ognuna e di ognuno di noi. Non dimentichiamo però che l’umiltà di Maria prima di tutto non è una semplice modestia esteriore, non è una facciata, piuttosto è una profonda consapevolezza della sua piccolezza di fronte alla grandezza di Dio.

Il suo sì, eccomi la serva del Signore che pronuncia davanti all’angelo, è un atto di umiltà, non di presunzione, è un abbandono fiducioso di chi si riconosce strumento nelle mani di Dio. Maria non cerca riconoscimenti, Maria cerca semplicemente di essere serva, ponendosi all’ultimo posto con silenzio, con umiltà, con semplicità che per noi è disarmante. Ecco, questa umiltà, questa umiltà radicale che è la chiave che ha aperto il cuore di Maria alla grazia divina, permettendo al Verbo di Dio con la sua grandezza, con la sua immensità, di incarnarsi nel suo grembo umano.

Ecco, Maria, Maria ci insegna a metterci così come siamo, con la nostra umiltà, senza orgoglio, non c’è bisogno di dipendere sulla nostra autorevolezza, sulla nostra autoreferenzialità, ponendoci liberamente davanti a Dio affinché possiamo cogliere pienamente con libertà e con disponibilità, come Maria, affinché con amore viviamo la sua volontà. Ecco il secondo punto, ecco allora la fede di Maria. L’umiltà della serva la pone in un cammino costante di un’adesione incondizionata al progetto di Dio, anche nei momenti più oscuri, incomprensibili, che vuol dire affrontare con coraggio la povertà della sua esperienza della grotta di Betlemme, la fuga in Egitto, la vita nascosta a Nazareth, però soprattutto ai piedi della croce, dove la fede di Maria raggiunge il suo apice.

Ecco, lì sotto la croce, un cuore trafitto dal dolore, Maria non vacilla, Maria non cade, Maria crede nella promessa. La sua fede allora non è un sentimento passeggero, ma è una roccia salda su cui si fonda la speranza della umanità, la nostra speranza. Umiltà e fede in Maria sono indissolubilmente legati.

Ecco, lasciamo che questa umiltà di Maria illumini il nostro terreno umano, affinché anche in noi la fede possa germogliare, che riconoscendo la nostra piccolezza davanti a Dio non ci lasciamo abbandonare per il fatto che siamo piccoli, non ci lasciamo conquistare dalle presunzioni, ma ci mettiamo lì, come Maria, con un atteggiamento di grande libertà, con un atteggiamento di grande disponibilità, riconoscendo la nostra dipendenza da Dio, viviamo con Dio nella semplicità ma allo stesso tempo nella grandezza. Ecco allora Maria ci esorta a coltivare una fede serena, salda, capace di superare le prove e di confidare nella promessa di Dio. Contempliamo la figura di Maria, umile e credente, perché anche noi possiamo dire con generosità il nostro sì, come ha fatto lei.

E noi, siamo capaci di cogliere le sue promesse d’amore con gli occhi di un bambino?

La preghiera di un figlio infedele
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi limpido il mio cuore.
Rendimi umile, piccolo, capace di perdermi nel tuo abbraccio di madre.
Aiutami a riscoprire quanto sia importante il ruolo di un figlio e segna i miei passi.
Tu prometti, io prometto in un patto che solo madre e figlio possono fare.
Io cadrò, madre, tu lo sai.
Non sempre manterrò le mie promesse.
Non sempre mi fiderò.
Non sempre riuscirò a vederti.
Ma tu resta lì, in silenzio, col sorriso, le braccia tese e le mani aperte.
E io prenderò il rosario e pregherò con te per tutti i figli come me.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 2
Essere Figli – Semplicità e speranza

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Nostra Signora di Fatima
I piccoli pastorelli in Cova di Iria
In Cova di Iria verso le 13, il cielo si apre e appare il sole. All’improvviso, alle 13,30 circa accade l’improbabile: davanti a una folla stupefatta avviene il miracolo più spettacolare, più grandioso e più incredibile mai avvenuto dai tempi biblici. Il sole inizia una danza frenetica e spaventosa che durerà più di dieci minuti. Un tempo lunghissimo.

Tre piccoli pastorelli, semplici e felici, assistono e diffondono il miracolo che sconvolge milioni di persone. Nessuno se lo spiega, dagli scienziati agli uomini di fede. Eppure, tre bambini hanno visto Maria, hanno ascoltato il suo messaggio. E loro ci credono, credono alle parole di quella donna che si è mostrata e ha chiesto loro di tornare in Cova di Iria ogni 13 del mese. Non hanno bisogno di spiegazioni perché nelle ripetute parole di Maria ripongono tutta la loro speranza. Una speranza difficile da tenere viva, che avrebbe spaventato qualunque bambino: la Madonna rivela a Lucia, Giacinta e Francesco sofferenze e conflitti mondiali. Eppure loro non hanno dubbi: chi confida nella protezione di Maria, madre che protegge, può affrontare tutto. E lo sanno bene, l’hanno provato sulla loro pelle rischiando di essere uccisi per non tradire la parola data alla loro mamma celeste. I tre pastorelli erano pronti al martirio, imprigionati e minacciati di fronte a un pentolone di olio bollente.
Avevano paura:
«Perché dobbiamo morire senza abbracciare i genitori? Io vorrei vedere la mamma».
Eppure decisero di sperare ancora, credendo in un amore più grande di loro:
«Non avere paura. Offriamo questo sacrificio per la conversione dei peccatori. Sarebbe peggio se la Madonna non tornasse più».
«Perché non recitiamo il Rosario?».
Una madre non è mai sorda al grido dei figli. E in lei i figli ripongono speranza.
Maria, Madre che protegge, è rimasta accanto ai suoi tre figli di Fatima e li ha salvati facendoli rimanere vivi.
E oggi protegge ancora tutti i suoi figli nel mondo che vanno in pellegrinaggio al santuario di Nostra Signora di Fatima.

Maria, Madre che protegge
Tu, che ti prendi cura dell’umanità dal momento dell’annunciazione, sei rimasta accanto ai tuoi figli più semplici e pieni di speranza. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Poni la tua speranza in Maria: lei saprà proteggerti.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, speranza e rinnovamento

Maria Santissima è aurora di speranza, fonte inesauribile di rinnovamento.
Contemplando la figura di Maria è come volgere lo sguardo verso un orizzonte luminoso, un invito costante a credere in un futuro pieno di grazia. E questa grazia è trasformatrice. Ecco, Maria è la personificazione della speranza cristiana in atto. La sua fede incrollabile di fronte alle prove, la sua perseveranza nel seguire Gesù fino alla croce, la sua attesa fiduciosa nella risurrezione sono per me le cose più importanti. Sono per noi un faro di speranza per l’umanità intera.

In Maria vediamo come la certezza è, per così dire, la conferma della promessa di un Dio che non viene mai meno alla sua parola. Che il dolore, la sofferenza, il buio non hanno l’ultima parola. Che la morte è vinta dalla vita.

Ecco, Maria allora è la speranza. È la stella del mattino che annuncia la venuta del sole di giustizia. Rivolgerci a lei significa affidare le nostre attese, le nostre aspirazioni a un cuore materno che le presenta con amore al suo figlio risorto. In qualche modo la nostra speranza è sostenuta dalla speranza di Maria. E se c’è la speranza allora le cose non rimangono come prima. C’è rinnovamento. Il rinnovamento della vita. Accogliendo il verbo incarnato, Maria ha reso possibile credere nella speranza e nella promessa di Dio. Ha reso possibile una nuova creazione, un nuovo inizio.
La maternità spirituale di Maria continua a generare noi nella fede, accompagnandoci nel nostro cammino di crescita e di trasformazione interiore.

Chiediamo a Maria Santissima la grazia necessaria perché questa speranza che noi vediamo compiuta in lei possa rinnovare il nostro cuore, guarire le nostre ferite, farci passare al di là del velo della negatività per intraprendere un cammino di santità, un cammino di vicinanza a Dio. Chiediamo a Maria, lei, la donna che sta con gli apostoli in preghiera, affinché ci aiuti oggi, credenti, comunità cristiane, perché siamo sostenuti nella fede e aperti ai doni dello Spirito, perché sia rinnovata la faccia della terra.
Maria ci esorta a non rassegnarci mai al peccato e alla mediocrità, ma pieni di speranza compiuta in lei, desideriamo ardentemente una vita nuova in Cristo. Che Maria continui a essere per noi modello e sostegno per continuare a credere sempre nella possibilità di un nuovo inizio, di una rinascita interiore che ci conformi sempre di più all’immagine del suo figlio Gesù.

E noi, siamo capaci di sperare in lei e farci proteggere con gli occhi di un bambino?

La preghiera di un figlio scoraggiato
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore semplice e pieno di speranza.
Io confido in te: tu in ogni situazione proteggimi.
Io mi affido a te: tu in ogni situazione proteggimi.
Io ascolto la tua parola: tu in ogni situazione proteggimi.
Donami la capacità di credere all’impossibile e di fare tutto quello che è nelle mie possibilità
per portare il tuo amore, il tuo messaggio di speranza e la tua protezione al mondo intero.
E ti prego, Madre mia, proteggi tutta l’umanità, anche quella che ancora non ti riconosce.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 3
Essere Figli – Obbedienza e dedizione

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Nostra Signora di Guadalupe
Il giovane Juan Diego
Juan Diego», disse la Signora, «piccolo e preferito tra i miei figli…». Juan scattò in piedi.
«Dove stai andando, Juanito?», chiese la Signora.
Juan Diego rispose più educatamente che poteva. Disse alla Signora che era diretto alla chiesa di Santiago per ascoltare la Messa in onore della Madre di Dio.
«Figlio mio diletto», disse la Signora, «sono io la Madre di Dio, e voglio che tu mi ascolti attentamente. Ho un messaggio molto importante da darti. Desidero che mi sia costruita una chiesa in questo luogo, da dove potrò mostrare il mio amore alla tua gente.

Un dialogo dolce, semplice e tenero come quello di una mamma con un figlio. E Juan Diego obbedì: andò dal vescovo a riferire quanto aveva visto ma lui non gli credette. Allora il giovane tornò da Maria e le spiegò quanto accaduto. La Madonna gli diede un altro messaggio e lo esortò a riprovare, e così ancora e ancora. Juan Diego obbediva, non si dava per vinto: avrebbe portato a termine il compito che la Madre celeste gli stava affidando. Ma un giorno, preso dai problemi della vita, stava per saltare l’appuntamento con la Madonna: suo zio stava morendo. «Credi proprio che dimenticherei chi amo tanto?» Maria guarì suo zio, mentre Juan Diego obbediva ancora una volta:
«Mio amato figlio», rispose la Signora, «sali sulla cima della collina dove ci siamo incontrati la prima volta. Taglia e raccogli le rose che vi troverai. Mettile nel tuo tilma e portamele qui. Ti dirò io che devi fare e dire». Pur sapendo che su quella collina non crescevano rose, e certo non d’inverno, Juan corse fin sulla cima. E là c’era il più bel giardino che avesse mai visto. Rose di Casti-glia ancora lucenti di rugiada si stendevano a perdita d’occhio. Tagliò delicatamente i boccioli più belli col suo coltello di pietra, ne riempì il mantello, e veloce tornò dove la Signora lo aspettava. La Signora prese le rose e le sistemò di nuovo nel tilma di Juan. Poi glielo legò dietro al collo e disse: «Questo è il segno che il vescovo vuole. Presto, vai da lui e non fermarti lungo la strada.»

Sul mantello era apparsa l’immagine della Madonna e alla vista di tale miracolo, il vescovo si convinse. Ed oggi il Santuario di Nostra Signora di Guadalupe conserva ancora l’effige miracolosa.

Maria, Madre che non dimentica
Tu, che non dimentichi nessuno dei tuoi figli, non lasci indietro nessuno, hai guardato ai giovani che hanno riposto in te le loro speranze. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Obbedisci anche quando non comprendi: una madre non dimentica, una madre non lascia soli.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, maternità e compassione

La maternità di Maria non si esaurisce nel suo sì che ha reso possibile l’incarnazione del Figlio di Dio. Certamente, quel momento è il fondamento di tutto, ma la sua maternità è un’attitudine costante, un modo di essere per noi, di relazionarsi con l’umanità intera.
Gesù sulla croce proprio le affida Giovanni con le parole Donna, ecco tuo figlio, simbolicamente estendendo la sua maternità a tutti i credenti di tutti i tempi.
Maria diventa così madre della Chiesa madre spirituale di ognuno di noi.

Vediamo allora come questa maternità si manifesta in una cura tenera e premurosa in un’attenzione costante ai bisogni dei suoi figli e in un desiderio profondo del loro bene. Maria ci accoglie, ci nutre con la sua espressione di fedeltà, ci protegge sotto il suo manto. La maternità di Maria è un dono immenso che noi ci avviciniamo a lei, lo sentiamo una presenza amorevole che ci accompagna in ogni momento.

Ecco allora la compassione di Maria è il naturale corollario della sua maternità. Compassione che non è semplicemente un sentimento superficiale di pietà ma una partecipazione profonda al dolore degli altri, un “soffrire con”.  La vediamo manifestarsi in modo toccante durante la passione del figlio. E nella stessa maniera Maria non rimane indifferente al nostro dolore, intercede per noi, ci consola, ci offre il suo aiuto materno.

Ecco, il cuore di Maria allora diventa un rifugio sicuro dove noi possiamo deporre le nostre fatiche, trovare conforto e speranza. Maternità e compassione in Maria diventano, per così dire, due facce della stessa esperienza umana a favore di noi, due espressioni del suo amore infinito per Dio e per l’umanità.

La sua compassione allora è la manifestazione concreta del suo essere madre, compassione conseguenza della maternità. Contemplare Maria allora come madre ci apre il cuore alla speranza che in lei trova una esperienza veramente completa. Madre Celeste che ci ama.

Chiediamo a Maria affinché la vediamo come un modello di una umanità autentica, di una maternità capace di “sentire con”, capace di amare, capace di soffrire con gli altri, seguendo l’esempio del suo figlio Gesù, che per amore nostro ha patito ed è morto sulla croce.

E noi, siamo sicuri che una madre non dimentica, così come lo sono i bambini?

La preghiera di un figlio perso
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore obbediente.
Quando non ti ascolto, ti prego insisti.
Quando non torno, ti prego vienimi a cercare.
Quando non mi perdono, ti prego insegnami l’indulgenza.
Perché noi uomini ci perdiamo e ci perderemo sempre
ma tu non ti dimenticare di noi figli erranti.
Vieni a prenderci,
vieni a portarci per mano.
Non vogliamo e non possiamo rimanere soli qui.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 4
Essere Figli – Stupore e riflessione

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Nostra Signora de La Salette
I piccoli Melania e Maximin di La Salette
Sabato 19 settembre 1846 i due ragazzini salirono di buon’ora i versanti del monte Planeau, al di sopra del villaggio di La Salette, guidando ognuno quattro mucche a pascolare. A metà strada, presso una piccola sorgente, Melania per prima vide su un mucchio di pietre un globo di fuoco «come se il sole fosse caduto lì» e lo indicò a Maximin. Da quella sfera luminosa cominciò ad apparire una donna, seduta con la testa fra le mani, i gomiti sulle ginocchia, profondamente triste. Davanti al loro stupore, la Signora si alzò e con voce dolce, ma in lingua francese, disse loro: «Avvicinatevi figli miei, non abbiate paura, sono qui per annunciarvi una grande notizia». Rincuorati, i ragazzi si avvicinarono e videro che la figura stava piangendo.

Una madre annuncia una grande notizia ai suoi figli e lo fa piangendo. Eppure i ragazzini non si straniscono del suo pianto. Ascoltano nel più tenero dei momenti tra una madre e i suoi figli. Perché anche le madri a volte sono preoccupate, perché anche le madri affidano ai loro figli le proprie sensazioni, i propri pensieri e riflessioni. E Maria affida ai due pastorelli, poveri e trascurati negli affetti, un grande messaggio: “sono preoccupata per l’umanità, sono preoccupata per voi figli miei che vi state allontanando da Dio. E la vita lontana da Dio è una vita complicata, difficile, fatta di sofferenze.” Ecco perché piange. Piange come una qualunque madre e racconta ai sui figli più piccoli e più puri un messaggio tanto stupefacente quanto grande. Un messaggio da annunciare a tutti, da portare al mondo.
E loro lo faranno, perché non possono tenere per loro un momento così bello: l’espressione dell’amore di una mamma per i suoi figli bisogna annunciarla a tutti. Il Santuario di Nostra Signora di La Salette che sorge nel luogo delle apparizioni, pone le sue basi sulla rivelazione del dolore di Maria di fronte al peregrinare dei suoi figli peccatori.

Maria, Madre che annuncia/che racconta
Tu, che ti doni completamente ai tuoi figli tanto da non avere paura di raccontar loro di te, hai toccato il cuore dei tuoi figli più piccoli, capaci di riflettere sulle tue parole e accoglierle con stupore. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Stupisciti di fronte alle parole di una madre: saranno sempre le più autentiche.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, amore e misericordia

La sentiamo questa dimensione di Maria, queste due dimensioni? Maria è la donna del cuore traboccante di amore, di attenzione e anche di misericordia. Noi la sentiamo come un porto, un rifugio sicuro nel momento che stiamo passando momenti di difficoltà o di prova.

Contemplando Maria è come immergerci in un oceano di tenerezza, di compassione. Ci sentiamo circondati da un ambiente, da tutta un’atmosfera inesauribile di conforto e di speranza. L’amore di Maria è un amore materno che abbraccia tutta l’intera umanità, perché è un amore che ha le sue radici nel suo sì incondizionato al progetto di Dio.

Maria, accogliendo il suo figlio nel grembo, ha accolto l’amore di Dio. Per conseguenza il suo amore non conosce confine né distinzioni, si china sulle fragilità, sulle miserie umane, con una delicatezza infinita. Lo vediamo manifestarsi nella sua attenzione verso Elisabetta, nella sua intercessione alle nozze di Cana, nella sua presenza silenziosa, straordinaria ai piedi della croce.

Ecco, l’amore di Maria, questo amore materno, è un riflesso dello stesso amore di Dio, un amore che si fa vicino, che consola, perdona, non si stanca mai, non finisce mai. Ecco, ci insegna Maria che amare significa donarsi completamente, farsi prossimo di chi soffre, condividere le gioie e i dolori dei fratelli con la stessa generosità e la stessa dedizione che hanno animato il suo cuore. Amore, misericordia.

La misericordia allora diventa la naturale conseguenza dell’amore di Maria, una compassione, possiamo dirle viscerale, davanti alle sofferenze dell’umanità, del mondo. Maria la guardiamo, la contempliamo, la incontriamo con il suo sguardo materno e lo sentiamo posarsi sulle nostre debolezze, sui nostri peccati, sulla nostra vulnerabilità, senza aggressione, anzi con una infinita dolcezza. È un cuore immacolato, sensibile al grido del dolore.

Maria è una madre che non giudica, non condanna, ma accoglie, consola, perdona. La misericordia di Maria la sentiamo come un balsamo per le ferite dell’anima, una broccia che riscalda il cuore. Ci ricorda Maria che Dio è ricco di misericordia e che non si stanca mai di perdonare chi si rivolge a Lui con cuore contrito, sereno, aperto, disponibile.

Amore e misericordia in Maria Santissima si fondono in un abbraccio che avvolge l’intera umanità. Chiediamo a Maria che ci aiuti a spalancare i nostri cuori, all’amore di Dio, come ha fatto lei, a lasciare che questo amore pervada il nostro cuore, specialmente quando ci sentiamo più bisognosi, più sotto il peso delle prove e della difficoltà. In Maria troviamo una madre tenerissima e potente, pronta ad accoglierci nel suo amore e a intercedere per la nostra salvezza.

E noi, siamo capaci di stupirci ancora come un bambino di fronte all’amore della mamma?

La preghiera di un figlio lontano
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore capace di compassione e conversione.
Nel silenzio, ti ritrovo.
Nella preghiera, ti ascolto.
Nella riflessione, ti scopro.
E di fronte alle tue parole d’amore, Madre, mi stupisco
e scopro la forza del tuo legame con l’umanità.
Lontano da te, chi mi tiene la mano nei momenti di difficoltà?
Lontano da te, chi mi conforta nel mio pianto?
Lontano da te, chi mi consiglia quando sto prendendo il bivio sbagliato?
Io ritorno a te, nell’unità.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 5
Essere Figli – Fiducia e preghiera

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Medaglia di Caterina
La piccola Caterina Labouré
La notte del 18 luglio 1830, verso le 11,30, si sentì chiamare per nome. Era un bambino che le disse: «Alzati e vieni con me». Caterina lo seguì. Tutte le luci erano accese. La porta della cappella si aprì appena il bambino l’ebbe sfiorata con la punta delle dita. Caterina si inginocchiò.
A mezzanotte venne la Madonna, si sedette sulla poltrona che c’era accanto all’altare. «Allora sono balzata vicino a lei, ai suoi piedi, sui gradini dell’altare, e ho posato le mani sulle sue ginocchia» raccontò Caterina. «Sono rimasta così non so quanto tempo. Mi è parso il momento più dolce della mia vita…».
«Dio vuole affidarti una missione» disse la Vergine a Caterina.

Caterina, orfana a 9 anni, non si rassegna a vivere senza la mamma. E si avvicina alla Madre del Cielo. La Madonna che la guardava già da lontano, non l’avrebbe mai abbandonata. Anzi, aveva grandi progetti per lei. Lei, una sua figlia attenta e amorevole, avrebbe avuto una grande missione: vivere una vita cristiana autentica, una relazione personale con Dio forte e salda. Maria crede nelle potenzialità della sua bambina e a lei affida la Medaglia Miracolosa, capace di intercedere e compiere grazie e miracoli. Una missione importante, un messaggio difficile. Eppure Caterina non si scoraggia, si fida della sua Mamma del Cielo e sa che lei non l’abbandonerà mai.

Maria, Madre che dà fiducia
Tu, che ti fidi e affidi missioni e messaggi a ogni tuo figlio, li accompagni sulla loro strada come presenza discreta, restando accanto a tutti ma soprattutto a chi ha vissuto grandi dolori. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Fidati: una madre ti affiderà sempre solo compiti che potrai portare a termine e ti starà accanto per tutto il cammino.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, fiducia e preghiera

Maria Santissima ci si presenta come la donna di una fiducia incrollabile, una potente interceditrice attraverso la preghiera. Ecco, contemplare questi due aspetti, la fiducia e la preghiera, vediamo due dimensioni fondamentali della relazione di Maria con Dio.

La fiducia di Maria in Dio possiamo dire che è un filo d’oro che percorre tutta la sua esistenza, dall’inizio fino alla fine. Quel sì pronunciato con consapevolezza delle conseguenze, è un atto di abbandono totale alla volontà divina. Ecco, Maria si affida, Maria vive la fiducia in Dio con un cuore saldo alla provvidenza divina, sapendo che Dio non l’avrebbe mai abbandonata.

Ecco, allora per noi, nella nostra vita quotidiana, guardare a Maria, questo abbandono non passivo, ma attivo, fiducioso, è un invito, non a dimenticare le nostre ansie, le nostre paure, ma in qualche modo di guardare tutto a quella luce dell’amore di Dio, che nel caso di Maria non è mai venuto a meno, e neanche nella nostra vita. Ecco, allora, questa fiducia che porta alla preghiera, che possiamo dire è quasi il respiro dell’anima di Maria, il canale privilegiato della sua intima comunione con Dio. La fiducia porta alla comunione, la sua vita abbandonata è stato un continuo dialogo di amore con il Padre, un’offerta costante di sé stessa, delle sue preoccupazioni, ma anche delle sue decisioni.

La visitazione a Elisabetta è un esempio di preghiera che si fa poi servizio. Vediamo Maria accompagnando Gesù fino alla croce, dopo l’ascensione la vediamo nel cenacolo unita agli Apostoli in fervente attesa. Maria ci insegna il valore della preghiera costante come conseguenza di una fiducia totale e completa abbandonandosi nelle mani di Dio, precisamente incontrare Dio e vivere con Dio.

Fiducia e preghiera e Maria Santissima sono strettamente interconnesse. Una profonda fiducia in Dio che fa nascere, fa emergere una preghiera perseverante. Chiediamo a Maria affinché sia lei il suo esempio che noi ci sentiamo esortati a fare della preghiera un’abitudine quotidiana perché vogliamo continuamente sentirci abbandonati nelle mani misericordiose di Dio.

Rivolgiamoci a lei con filiale e confidenza affinché imitandola, imitando la sua fiducia e la sua perseveranza nella preghiera, potremo sperimentare la pace che solo quando ci abbandoniamo a un Dio possiamo ricevere le grezze necessarie per il nostro cammino di fede.

E noi, siamo capaci di fidarci in maniera incondizionata come i bambini?

La preghiera di un figlio sfiduciato
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore capace di pregare.
Non sono capace di ascoltarti, apri le mie orecchie.
Non sono capace di seguirti, muovi i miei passi.
Non sono capace di tenere fede a quanto vorrai affidarmi, rendi la mia anima salda.
Le tentazioni sono tante, fa’ che io non ceda.
Le difficoltà sembrano insormontabili, fa’ che io non cada.
Le contraddizioni del mondo gridano forte, fa’ che io sia non le segua.
Io, tuo figlio fallimentare, sono qui perché tu ti serva di me.
Rendendomi un figlio obbediente.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 6
Essere Figli – Sofferenza e guarigione

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Nostra Signora dei dolori di Kibeho
La piccola Alphonsine Mumiremana e i suoi compagni
La storia cominciò alle 12,35 di un sabato, il 28 novembre 1981, in un Collegio gestito da Suore locali, frequentato da poco più di un centinaio di ragazze della zona. Un Collegio rurale, povero, dove si imparava a diventare maestre oppure segretarie. Il complesso non era dotato di Cappella e, quindi, non vi era un clima religioso particolarmente sentito. Quel giorno tutte le ragazze del Collegio erano nel refettorio. La prima del gruppo a “vedere” fu Alphonsine Mumureke, di 16 anni. Secondo quanto lei stessa scrive nel suo diario, stava servendo a tavola le sue compagne, quando udì una voce femminile che la chiamava: “Figlia mia, vieni qui”. Si diresse verso il corridoio, accanto al refettorio, e lì le apparve una donna di incomparabile bellezza. Era vestita di bianco, con un velo bianco sulla testa, che nascondeva i capelli, e che sembrava unito al resto del vestito, che non aveva cuciture. Era scalza e le sue mani erano giunte sul petto con le dita rivolte al cielo.

Successivamente la Madonna apparve ad altri compagni di Alphonsine che all’inizio erano scettici ma poi, di fronte all’apparizione di Maria, dovettero ricredersi. Maria, parlando con Alphonsine, si definisce la Signora dei dolori di Kibeho e racconta ai ragazzi tutti gli spietati e sanguinosi avvenimenti che sarebbero avvenuti di lì a poco con lo scoppio della guerra in Ruanda. Il dolore sarà grande ma anche la consolazione e la guarigione da quel dolore, perché lei, la Signora dei Dolori, non avrebbe mai lasciato soli i suoi figli dell’Africa. I ragazzi restano lì, attoniti, di fronte alle visioni ma credono in questa mamma che tende loro le braccia dicendo chiamandoli “figli miei”. Sanno che solo in lei ci sarà consolazione. E per poter pregare affinché la madre che consola avesse alleviato le sofferenze dei suoi figli, viene eretto il santuario dedicato a Nostra Signora dei Dolori di Kibeho, oggi luogo segnato da stermini e genocidi. E la Madonna continua a essere lì e abbracciare tutti i suoi figli.

Maria, Madre che consola
Tu, che hai consolato i tuoi figli come Giovanni sotto la croce, hai guardato a chi vive nella sofferenza. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Non aver paura di attraversare la sofferenza: la madre che consola asciugherà le tue lacrime.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, sofferenza e invito alla conversione

Figura emblematica di sofferenza, trasfigurata e potente invito alla conversione è Maria. Quando contempliamo il suo cammino doloroso, è monito, silenzioso e pure eloquente, una chiamata profonda a rivedere un po’ le nostre vite, le nostre scelte, e la chiamata a ritornare al cuore del Vangelo. La sofferenza che attraversa la vita di Maria, come una spada affilata, profetizzata dal vecchio Simeone, segnata dalla scomparsa di Gesù Fanciullo, al dolore indicibile ai piedi della croce, ecco, Maria vive tutto questo, il peso della fragilità umana, e il mistero del dolore innocente in una maniera unica.

La sofferenza di Maria non è stata una sofferenza sterile, una rassegnazione passiva, ma in qualche modo notiamo che c’è una attività, un’offerta silenziosa e coraggiosa, unita al sacrificio redentivo del suo figlio Gesù.

Ecco, quando noi guardiamo a Maria, la donna che soffre con gli occhi da parte nostra della fede, quella sofferenza, piuttosto che deprimerci, ci rivela la profondità dell’amore di Dio per noi, che è visibile nella vita di Maria. Maria in qualche modo ci insegna che anche nel dolore più acuto può trovare senso, una possibilità di crescita spirituale, che viene frutto dell’unione con il mistero pasquale.

Ecco allora, dall’esperienza del dolore trasfigurato, scaturisce, emerge un potente invito alla conversione. Guardando, contemplando Maria come ha sopportato tanto per amore nostro e per la nostra salvezza, anche noi siamo interpellati a non rimanere indifferenti, di fronte al mistero della redenzione.

Maria, la donna dolce e materna, ci esorta a abbandonare le vie del male, per abbracciare il cammino della fede. La famosa frase di Maria alle nozze di Cana, «Fate tutto quello che vi dirà», risuona ancora per noi oggi come un pressante invito ad ascoltare la voce di Gesù nei momenti della difficoltà, nei momenti della prova. Nei momenti delle situazioni inaspettate e incognite.

La sofferenza di Maria, notiamo subito che non è fine a se stessa, ma è intimamente legata alla redenzione operata da Cristo. Ecco, il suo esempio di fede è incrollabile nel dolore, sia per noi luce e guida per trasformare le nostre sofferenze in opportunità di crescita spirituale, sia per rispondere con generosità all’appello pressante alla conversione, affinché la profondità che ancora risuona nel cuore di ogni uomo, l’invito di Dio, di un Dio che ci ama, possa attraverso l’intercessione di Maria trovare senso, sbocco, crescita, anche nei momenti più difficili, nei momenti più sofferenti.

E noi, siamo ci lasciamo consolare come i bambini?

La preghiera di un figlio che soffre
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore capace guarire.
Quando sono a terra, tendimi la mano, madre.
Quando mi sento distrutto, rimetti insieme i pezzi, madre.
Quando la sofferenza prende il sopravvento, aprimi alla speranza, madre.
Perché io non cerchi solo la guarigione del corpo ma mi renda conto di quanto il mio cuore
ha bisogno di pace.
E dalla polvere alzami, madre.
Alza me e tutti i tuoi figli che sono nella prova.
Quelli sotto le bombe,
quelli perseguitati,
quelli ingiustamente incarcerati,
quelli lesi nei diritti e nella dignità,
quelli a quali viene stroncata la vita troppo presto.
Alzali e consolali
perché sono tuoi figli. Perché siamo tuoi figli.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 7
Essere Figli – Giustizia e dignità

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Nostra Signora di Aparecida
I piccoli pescatori Domingos, Felice e Joao
All’alba del 12 ottobre 1717, Domingos Garcia, Felipe Pedroso e Joao Alves spinsero la loro barca nelle acque del fiume Paraiba che scorreva presso il loro villaggio. Non sembravano aver fortuna quella mattina: per ore gettarono le reti, senza pescare nulla. Avevano quasi deciso di rinunciare, quando Joao Alves, il più giovane, volle fare un ultimo tentativo. Gettò dunque nelle acque del fiume la sua rete e lentamente la tirò su. C’era qualcosa, ma non era un pesce… sembrava piuttosto un pezzo di legno. Quando lo liberò dalle maglie della rete, il pezzo di legno si rivelò essere una statua della Vergine Maria, purtroppo priva della testa. Joao gettò di nuovo la rete in acqua e questa volta, ritirandola su, vi trovò impigliato un altro pezzo di legno di forma arrotondata che sembrava proprio la testa della stessa statua: provò a mettere insieme i due pezzi e si accorse che combaciavano perfettamente. Come obbedendo ad un impulso, Joao Alves gettò nuovamente in acqua la rete e, quando provò a tirarla su, si accorse di non riuscirci, perché era piena di pesci. I suoi compagni gettarono le reti in acqua a loro volta e la pesca di quel giorno fu veramente abbondantissima.

Una madre vede le necessità dei sui figli, Maria ha visto le necessità dei tre pescatori ed è andata loro in soccorso. I figli le hanno dato tutto l’amore e la dignità che si può dare a una madre: hanno messo insieme i due pezzi della statua, l’hanno posta su una capanna e ne hanno fatto un santuario. Dall’alto della capanna, la Madonna Aparecida – che vuol dire Apparsa – ha salvato un suo figlio schiavo che scappava dai padroni: ne ha visto la sofferenza e gli ha restituito dignità. E oggi, quella capanna, è il più grande santuario mariano del mondo e porta il nome di Basilica di Nostra Signora di Aparecida.

Maria, Madre che vede
Tu, che hai visto la sofferenza dei tuoi figli maltrattati, a iniziare dai discepoli, ti poni accanto ai tuoi figli più poveri e perseguitati. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Non nasconderti dallo sguardo di una madre: lei vede anche nei tuoi desideri e bisogni più nascosti.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, dignità e giustizia sociale

Maria Santissima è uno specchio di dignità umana pienamente realizzata, silenziosa ma potente e ispiratrice per un senso giusto del vissuto sociale. Riflettere sulla figura di Maria in relazione a questi temi ci svela una prospettiva profonda e sorprendentemente attuale.

Guardiamo a Maria, la donna piena di dignità come un dono che per noi oggi ci aiuta a guardare questa sua purezza originaria, che non la pone su un piedistallo inaccessibile, ma rivela Maria nella pienezza di quella dignità a cui tutti ci sentiamo un pochettino attratti, chiamati.

Contemplando Maria vediamo risplendere la bellezza e la nobiltà precisamente la dignità dell’essere umano, creato ad immagine e somiglianza di Dio, libero dal gioco del peccato, pienamente aperto all’amore divino, una umanità che non si perde nei dettagli, nelle cose superficiali.

Possiamo dire che il sì libero e consapevole di Maria è quel gesto di autodeterminazione che eleva Maria a quella che è a livello della volontà di Dio, entra in qualche modo nella logica di Dio. La sua umiltà poi la rende ancora più libera, lungi dall’essere sminuente dall’umiltà. L’umiltà di Maria diventa la consapevolezza della vera grandezza che viene da Dio.

Ecco allora questa dignità Maria ci aiuta a guardare come noi la stiamo vivendo nella quotidianità della vita. Il tema della giustizia sociale può apparire meno esplicito però da una lettura attenta contemplativa del Vangelo specialmente dal Magnificat riusciamo a captare, a sentire a incontrare quello spirito rivoluzionario che proclama l’abbattimento dei potenti dai troni e l’innalzamento degli umili, cioè il rovesciamento delle logiche mondane e l’attenzione privilegiata di Dio verso i poveri, gli affamati.

Parole che sgorgano da un cuore umile, pieno di Spirito Santo. Possiamo dire che sono un manifesto di giustizia sociale “ante Littera”, un’anticipazione del regno di Dio, dove gli ultimi saranno i primi.

Contempliamo Maria affinché ci sentiamo attratti da questa dignità che non si limita a chiudersi in se stesso ma è una dignità che nel Magnificat ci sfida a non rimanere chiusi nelle nostre logiche ma diventiamo aperti, lodando Dio cercando di vivere il dono ricevuto per il bene dell’umanità, con dignità per il bene dei poveri per il bene di quelli che sono gli scartati della società.

E noi, siamo ci nascondiamo o diciamo tutto come fanno i bambini?

La preghiera di un figlio che ha paura
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore capace di restituire dignità.
Nell’ora della prova, guarda le mie mancanze e colmale.
Nell’ora della fatica, guarda le mie debolezze e sanale.
Nell’ora dell’attesa, guarda le mie insofferenze e curale.
Così che io guardando i miei fratelli, possa guardare le loro mancanze e colmarle,
vedere le loro debolezze e sanarle, sentire le loro insofferenze e curarle.
Perché nulla cura come l’amore e nessuno è forte come una madre che cerca giustizia per i suoi figli.
E allora anche io, Madre, mi fermo ai piedi della capanna, guardo con occhi fiduciosi la tua immagine e ti prego per la dignità di tutti i tuoi figli.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 8
Essere Figli – Dolcezza e quotidianità

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Madonna di Banneaux
La piccola Marietta di Banneaux
Il 18 gennaio, Marietta è in giardino, prega con il rosario. Maria viene e la porta a una piccola sorgente ai margini del bosco, ove dice: «Questa sorgente è per me», e invita la piccola a immergervi la mano e il rosario. Il papà e due altre persone hanno seguito, con indicibile stupore, Marietta in tutti i suoi gesti e parole. E quella stessa sera il primo d’essere conquistato dalla grazia di Banneaux è proprio il papà di Marietta, che corre a confessarsi e a ricevere l’Eucaristia: era dalla Prima Comunione che non si confessava più.
Il 19 gennaio, Marietta domanda: «Signora, chi siete?». «Sono la Vergine dei poveri».
Alla sorgente, aggiunge: «Questa sorgente è per me, per tutte le nazioni, per i malati. Vengo a consolarli!».

Marietta è una ragazza normale che vive i suoi giorni come tutti noi, come i nostri figli, i nostri nipoti. Un borgo piccolo e sconosciuto, il suo. Prega per rimanere vicina a Dio. Prega la sua mamma celeste per mantenere vivo il legame con lei. E Maria le parla con dolcezza, in un luogo a lei familiare. Le apparirà diverse volte, le confiderà segreti e le dirà di pregare per la conversione del mondo: questo per Marietta è un forte messaggio di speranza. Tutti i figli vengono abbracciati e consolati dalla Madre, tutta la dolcezza che Marietta trova nella “Signora gentile” la trasmette al mondo. E da questo incontro nasce una grande catena d’amore e spiritualità che trova il suo compimento nel santuario alla Madonna di Banneaux.

Maria, Madre che resta accanto
Tu, che sei rimasta accanto ai tuoi figli, senza perderne mai neanche uno, hai illuminato il cammino quotidiano dei più semplici. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Abbandonati nell’abbraccio di Maria: non temere, lei ti consolerà.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, educazione e amore

Maria Santissima è una maestra incomparabile di educazione, perché è fonte inesauribile di amore e chi ama educa, educa veramente chi ama.

Riflettere sulla figura di Maria in relazione a questi due pilastri della crescita umana e spirituale ecco abbiamo qui un esempio da contemplare, da prendere sul serio, da assumere nelle nostre scelte quotidiane.
L’educazione che viene emanata da Maria, non è fatta di precetti, di insegnamenti formali ma si manifesta attraverso il suo esempio di vita. Un silenzio contemplativo che parla, la sua obbedienza alla volontà di Dio, umile e grande allo stesso tempo, la sua profonda umanità.

Ecco, il primo aspetto educativo che Maria ci comunica è quello dell’ascolto.
L’ascolto della parola di Dio, l’ascolto di quel Dio che è continuamente lì per aiutarci, per accompagnarci. Maria custodisce nel suo cuore, medita con cura favorisce l’ascolto attento alla parola di Dio e con la stessa maniera la necessità degli altri. Maria ci educa a quella umiltà che non sceglie di rimanere distaccata e passiva ma piuttosto a quell’umiltà che mentre riconosciamo la nostra piccolezza davanti alla grandezza di Dio, ci mettiamo come protagonisti al suo servizio. Il nostro cuore è aperto per essere veramente quelli che accompagniamo, viviamo il progetto che Dio ha per noi.

Maria è un esempio che ci aiuta a lasciarci educare dalla fede ci educa alla perseveranza rimanendo saldi nell’amore per Gesù, fino ai piedi della croce.
Educazione e amore.  Ecco, l’amore di Maria è il cuore pulsante della sua esistenza, continua a essere per noi, tutte le volte che ci avviciniamo a Maria, sentiamo questo amore materno, che si estende su tutti noi. È un amore per Gesù che diventa un amore per l’umanità. Il cuore di Maria che si apre con quella tenerezza infinita che lei riceve da Dio, che lei comunica a Gesù, ai suoi figli spirituali.

Chiediamo al Signore affinché contemplando l’amore di Maria, che è un amore che educa lasciamoci spingere a superare i nostri egoismi, le nostre chiusure e di aprirci agli altri. In Maria vediamo una donna che educa con amore e che ama con un amore che è educativo. Chiediamo al Signore che ci dia il dono di un amore, che è il dono del suo amore che a sua volta è un amore che ci purifica ci sostiene, ci fa crescere, affinché il nostro esempio, possa essere veramente un esempio che comunica amore e comunicando amore possiamo lasciarci educare da lei e lasciamo che lei ci aiuti affinché il nostro esempio educhi anche gli altri.

E noi, siamo capaci di abbandonarci come fanno i bambini?

La preghiera di un figlio dei nostri giorni
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore mite e docile.
Chi mi rimetterà insieme, dopo essermi spezzato sotto il peso delle croci che porto?
Chi riporterà la luce nei miei occhi, dopo aver visto le macerie della crudeltà umana?
Chi allevierà le sofferenze della mia anima, dopo gli errori che ho commesso sul mio cammino?
Madre mia, solo tu puoi consolarmi.
Abbracciami e tienimi con te per evitare che io vada in mille pezzi.
L’anima mia riposa in te e trova pace come un bimbo in braccio a sua madre.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 9
Essere Figli – Costruzione e sogno

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Maria Ausiliatrice
Il piccolo Giovannino Bosco
A 9 anni ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita. Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All’udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere. In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito.
— Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici.
— Chi siete voi, soggiunsi, che mi comandate cosa impossibile?
— Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza.
— Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza?
— Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza.
In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella.
—Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte e robusto: e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo per i miei figli.
Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci, apparvero altrettanti mansueti agnelli, che, saltellando, correvano attorno belando, come per fare festa a quell’uomo e a quella signora. A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai a voler parlare in modo da capire, poiché io non sapevo quale cosa volesse significare. Allora ella mi pose la mano sul capo dicendomi:
—A suo tempo tutto comprenderai.

Maria guida e accompagna Giovannino Bosco in tutta la sua vita e la sua missione. Lui, bambino, scopre così, da un sogno, la sua vocazione. Non capirà ma si lascerà guidare. Non comprenderà per molti anni ma alla fine ma sarà consapevole che “ha fatto tutto lei”. E la madre, sia quella terrena, sia quella celeste, sarà la figura centrale nella vita di questo figlio che si farà pane per i propri figli. E dopo aver incontrato Maria nei suoi sogni, Giovanni Bosco ormai diventato sacerdoti, ergerà un santuario alla Madonna perché tutti i suoi figli possano affidarsi a lei. E lo dedicherà a Maria Ausiliatrice, perché lei è stata il suo porto sicuro, il suo aiuto perenne. Così, tutti coloro che entrano nella Basilica di Maria Ausiliatrice a Torino vengono presi sotto il manto protettivo di Maria che ne diventa guida.

Maria, Madre che accompagna/che guida
Tu, che hai accompagnato tuo figlio Gesù in tutto il suo cammino, ti sei proposta come guida a chi ha saputo ascoltarti con l’entusiasmo che solo i bambini sanno avere. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Lasciati accompagnare: la Madre sarà sempre al tuo fianco per indicarti la via.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima aiuto nella conversione

Maria Santissima è un aiuto potente e silenzioso nel nostro cammino di crescita.
È un cammino che ha bisogno continuamente di liberarsi da quello che lo blocca verso la crescita. È un cammino che continuamente deve rinnovarsi, a non ritornare indietro oppure a fermarsi in degli angoli oscuri della propria esistenza. Ecco la conversione.

La presenza di Maria è un faro di speranza, è un invito costante affinché noi continuiamo a camminare verso Dio, aiutare il nostro cuore che sia continuamente focalizzato verso Dio, verso il suo amore. Riflettere su Maria, sul suo ruolo, significa che scopriamo Maria che non impone, che non giudica, ma piuttosto sostiene, incoraggia, con la sua umiltà, con il suo amore materno, aiuta il nostro cuore a rimanere accanto a lei per avvicinarci sempre di più verso il suo figlio Gesù, che è la via, la verità e la vita.

Anche per noi continua a essere valido questo Sì di Maria all’annunciazione che apre all’umanità la storia della salvezza raggiungibile e accessibile. La sua intercessione alle Nozze di Cana sostiene quelle che si trovano in situazioni non attese, inedite. Ecco, Maria è un modello di conversione continua. La sua vita, una vita di Immacolata, è stata però un progressivo aderire alla volontà di Dio, un cammino di fede che l’ha portata attraverso gioie e dolori, culminando nel sacrificio del Calvario.

Ecco, la perseveranza di Maria nel seguire Gesù diventa per noi un invito, affinché anche noi viviamo questa vicinanza continua, questa trasformazione interiore, che sappiamo bene che è un processo graduale, ma che richiede costanza, umiltà e fiducia nella grazia di Dio.

Maria aiuto nella conversione attraverso un ascolto molto attento e focalizzato sulla Parola di Dio. Un ascolto che ci aiuta a trovare la forza per abbandonare le vie del peccato, perché riconosciamo la forza, la bellezza di camminare verso Dio. Rivolgiamoci a Maria con fiducia filiale, perché questo significa che noi, mentre riconosciamo le nostre fragilità, i nostri peccati, i nostri difetti, vogliamo favorire quei desideri di cambiamento. Un cambiamento di un cuore che vuole lasciarsi accompagnare dal cuore materno di Maria. In Maria, troviamo quell’aiuto prezioso per discernere le false promesse del mondo e riscoprire la bellezza e la verità del Vangelo. Che Maria, l’aiuto dei cristiani, sia per tutti noi un aiuto continuo per scoprire la bellezza del Vangelo. E per accettare di camminare verso la bontà, la grandezza della parola di Dio, viva nel cuore per poterla comunicare agli altri.

E noi, siamo capaci di farci prendere per mano come i bambini?

La preghiera di un figlio immobile
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore capace di sognare e di costruire.
Io che non mi lascio aiutare da nessuno.
Io che mi scoraggio, perdo la pazienza e non credo mai di aver costruito nulla.
Io che penso sempre di essere fallimentare.
Oggi voglio essere figlio, quel figlio in grado di darti la mano Madre mia
per farsi accompagnare sulle strade della vita.
Mostrami il mio campo,
mostrami il mio sogno
e fa’ che alla fine anche io possa comprendere tutto e riconoscere il tuo passaggio
nella mia vita.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.