Santa Monica, madre di Sant’Agostino, testimone di speranza

Una donna dalla fede incrollabile, dalle lacrime feconde, esaudita da Dio dopo diciassette lunghi anni. Un modello di cristiana, sposa e madre per tutta la Chiesa. Una testimone di speranza che si è trasformata in potente intercessora nel Cielo. Lo stesso don Bosco raccomandava alle madri, afflitte per la vita poco cristiana dei loro figli, di affidarsi a lei nelle preghiere.

Nella grande galleria dei santi e delle sante che hanno segnato la storia della Chiesa, Santa Monica (331-387) occupa un posto singolare. Non per miracoli spettacolari, non per la fondazione di comunità religiose, non per imprese sociali o politiche di rilievo. Monica è ricordata e venerata anzitutto come madre, la madre di Agostino, il giovane inquieto che grazie alle sue preghiere, alle sue lacrime e alla sua testimonianza di fede divenne uno dei più grandi Padri della Chiesa e Dottori della fede cattolica.
Ma limitare la sua figura al ruolo materno sarebbe ingiusto e riduttivo. Monica è una donna che seppe vivere la sua vita ordinaria — moglie, madre, credente — in modo straordinario, trasfigurando la quotidianità attraverso la forza della fede. È un esempio di perseveranza nella preghiera, di pazienza nel matrimonio, di speranza incrollabile di fronte alle deviazioni del figlio.
Le notizie sulla sua vita ci giungono quasi esclusivamente dalle Confessioni di Agostino, un testo che non è una cronaca, ma una lettura teologica e spirituale dell’esistenza. Eppure, in quelle pagine Agostino traccia un ritratto indimenticabile della madre: non solo una donna buona e pia, ma un autentico modello di fede cristiana, una “madre delle lacrime” che diventano sorgente di grazia.

Le origini a Tagaste
Monica nacque nel 331 a Tagaste, città della Numidia, Souk Ahras nell’attuale Algeria. Era un centro vivace, segnato dalla presenza romana e da una comunità cristiana già radicata. Proveniva da una famiglia cristiana agiata: la fede era già parte del suo orizzonte culturale e spirituale.
La sua formazione fu segnata dall’influenza di una nutrice austera, che la educò alla sobrietà e alla temperanza. San Agostino scriverà di lei: “Non discorrerò per questo di doni suoi, ma di doni tuoi a lei, che non si era fatta da sé sola, né da sé sola educata. Tu la creasti senza che neppure il padre e la madre sapessero quale figlia avrebbero avuto; e l’ammaestrò nel tuo timore la verga del tuo Cristo, ossia la disciplina del tuo Unigenito, in una casa di credenti, membro sano della tua Chiesa.” (Confessioni IX, 8, 17).

Nelle stesse Confessioni Agostino racconta anche un episodio significativo: la giovane Monica aveva preso l’abitudine di bere piccoli sorsi di vino dalla cantina, finché una serva la rimproverò chiamandola “ubriacona”. Quel rimprovero le basto per correggersi definitivamente. Questo aneddoto, apparentemente minore, mostra la sua onestà di riconoscere i propri peccati, di lasciarsi correggere e di crescere in virtù.

A età di 23 anni Monica fu data in sposa a Patrizio, un funzionario municipale pagano, noto per il suo carattere collerico e la sua infedeltà coniugale. La vita matrimoniale non fu facile: la convivenza con un uomo impulsivo e distante dalla fede cristiana mise a dura prova la sua pazienza.
Eppure, Monica non cadde mai nello scoraggiamento. Con un atteggiamento fatto di mitezza e rispetto, seppe conquistare progressivamente il cuore del marito. Non rispondeva con durezza agli scatti d’ira, non alimentava conflitti inutili. Con il tempo, la sua costanza ottenne frutto: Patrizio si convertì e ricevette il battesimo poco prima di morire.
La testimonianza di Monica mostra come la santità non si esprima necessariamente in gesti clamorosi, ma nella fedeltà quotidiana, nell’amore che sa trasformare lentamente le situazioni difficili. In questo senso, è un modello per tante spose e madri che vivono matrimoni segnati da tensioni o differenze di fede.

Monica madre
Dal matrimonio nacquero tre figli: Agostino, Navigio e una figlia di cui non conosciamo il nome. Monica riversò su di loro tutto il suo amore, ma soprattutto la sua fede. Navigio e la figlia seguirono un cammino cristiano lineare: Navigio divenne sacerdote; la figlia intraprese la via della verginità consacrata. Agostino invece divenne presto il centro delle sue preoccupazioni e delle sue lacrime.
Già da ragazzo, Agostino mostrava un’intelligenza straordinaria. Monica lo mandò a studiare retorica a Cartagine, desiderosa di assicurargli un futuro brillante. Ma insieme ai progressi intellettuali arrivarono anche le tentazioni: la sensualità, la mondanità, le compagnie sbagliate. Agostino abbracciò la dottrina manichea, convinto di trovarvi risposte razionali al problema del male. Inoltre cominciò a convivere senza sposarsi con una donna dalla quale ebbe un figlio, Adeodato. Le deviazioni del figlio indussero Monica a negargli l’accoglienza nella propria casa. Pero non per questo cesso di pregare per lui e di offrire sacrifici: “dal cuore sanguinante di mia madre ti si offriva per me notte e giorno il sacrificio delle sue lacrime”. (Confessioni V, 7,13) e “versava più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli” (Confessioni III, 11,19).

Per Monica fu una ferita profonda: il figlio, che aveva consacrato a Cristo nel grembo, si stava smarrendo. Il dolore era indicibile, ma non smise mai di sperare. Agostino stesso scriverà: “Il cuore di mia madre, colpito da una tale ferita, non si sarebbe mai più risanato: perché non so esprimere adeguatamente i suoi sentimenti verso di me e quanto il suo travaglio nel partorirmi in spirito fosse maggiore di quello con cui mi aveva partorito nella carne.” (Confessioni V, 9,16).

Viene spontanea la domanda: perché Monica non fece battezzare Agostino subito dopo la nascita?
In realtà, benché il battesimo dei bambini fosse già conosciuto e praticato, non era ancora una prassi universale. Molti genitori preferivano rimandarlo all’età adulta, considerandolo un “lavacro definitivo”: temevano che, se il battezzato avesse peccato gravemente, la salvezza sarebbe stata compromessa. Inoltre Patrizio, ancora pagano, non aveva alcun interesse a educare il figlio nella fede cristiana.
Oggi vediamo chiaramente che si trattò di una scelta infelice, poiché il battesimo non solo ci rende figli di Dio, ma ci dona la grazia di vincere le tentazioni e il peccato.
Una cosa però è certa: se fosse stato battezzato da bambino, Monica avrebbe risparmiato a sé e al figlio tante sofferenze.

L’immagine più forte di Monica è quella di una madre che prega e piange. Le Confessioni la descrivono come donna instancabile nell’intercedere presso Dio per il figlio.
Un giorno, un vescovo di Tagaste — secondo alcuni, lo stesso Ambrogio — la rassicurò con parole rimaste celebri: “Va’, non può andare perduto il figlio di tante lacrime”. Quella frase divenne la stella polare di Monica, la conferma che il suo dolore materno non era vano, ma parte di un misterioso disegno di grazia.

Tenacità di una madre
La vita di Monica fu anche un pellegrinaggio sulle orme di Agostino. Quando il figlio decise di partire di nascosto per Roma, Monica non risparmia nessuna fatica; non dà la causa come perduta, ma lo segue e lo cerca fino quando non lo trova. Lo raggiunse a Milano, dove Agostino aveva ottenuto una cattedra di retorica. Qui trovò una guida spirituale in sant’Ambrogio, vescovo della città. Tra Monica e Ambrogio nacque una profonda sintonia: ella riconosceva in lui il pastore capace di guidare il figlio, mentre Ambrogio ammirava la sua fede incrollabile.
A Milano, la predicazione di Ambrogio aprì nuove prospettive ad Agostino. Egli abbandonò progressivamente il manicheismo e iniziò a guardare al cristianesimo con occhi nuovi. Monica accompagnava silenziosamente questo processo: non forzava i tempi, non pretendeva conversioni immediate, ma pregava e sosteneva e li rimane a fianco fino alla sua conversione.

La conversione di Agostino
Dio sembrava non ascoltarla, ma Monica non smise mai di pregare e di offrire sacrifici per il figlio. Dopo diciassette anni, finalmente le sue suppliche furono esaudite — e come! Agostino non solo si fece cristiano, ma divenne sacerdote, vescovo, dottore e padre della Chiesa.
Egli stesso lo riconosce: “Tu però nella profondità dei tuoi disegni esaudisti il punto vitale del suo desiderio, senza curarti dell’oggetto momentaneo della sua richiesta, ma badando a fare di me ciò che sempre ti chiedeva di fare.” (Confessioni V, 8,15).

Il momento decisivo arrivò nel 386. Agostino, tormentato interiormente, lottava contro le passioni e le resistenze della sua volontà. Nel celebre episodio del giardino di Milano, al sentire la voce di un bambino che diceva “Tolle, lege” (“Prendi, leggi”), aprì la Lettera ai Romani e lesse le parole che gli cambiarono la vita: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,14).
Fu l’inizio della sua conversione. Insieme al figlio Adeodato e ad alcuni amici si ritirò a Cassiciaco per prepararsi al battesimo. Monica era con loro, partecipe della gioia di vedere finalmente esaudite le preghiere di tanti anni.
La notte di Pasqua del 387, nella cattedrale di Milano, Ambrogio battezzò Agostino, Adeodato e gli altri catecumeni. Le lacrime di dolore di Monica si trasformarono in lacrime di gioia. Continua a rimanere al suo servizio, tanto che a Cassiciaco Agostino dirà: “Ebbe cura come se di tutti fosse stata madre e ci servì come se di tutti fosse stata figlia.”.

Ostia: l’estasi e la morte
Dopo il battesimo, Monica e Agostino si prepararono a tornare in Africa. Fermatisi a Ostia, in attesa della nave, vissero un momento di intensissima spiritualità. Le Confessioni narrano l’estasi di Ostia: madre e figlio, affacciati a una finestra, contemplarono insieme la bellezza del creato e si elevarono verso Dio, pregustando la beatitudine del cielo.
Monica dirà: “Figlio, quanto a me non trovo ormai più alcuna attrattiva per questa vita. Non so che cosa io stia a fare ancora quaggiù e perché mi trovi qui. Questo mondo non è più oggetto di desideri per me. C’era un solo motivo per cui desideravo rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico, prima di morire. Dio mi ha esaudito oltre ogni mia aspettativa, mi ha concesso di vederti al suo servizio e affrancato dalle aspirazioni di felicità terrene. Che sto a fare qui?” (Confessioni IX, 10,11). Aveva raggiunto la sua meta terrena.
Alcuni giorni dopo Monica si ammalò gravemente. Sentendo vicina la fine, disse ai figli: “Figli miei, seppellirete qui vostra madre: non vi preoccupate di dove. Solo di questo vi prego: ricordatevi di me all’altare del Signore, dovunque sarete”. Era la sintesi della sua vita: non l’importava il luogo della sepoltura, ma il legame nella preghiera e nell’Eucaristia.
Morì a 56 anni, nel 12 novembre del 387, e fu sepolta a Ostia. Nel VI secolo, le sue reliquie furono trasferite in una cripta nascosta nella stessa chiesa di Sant’Aurea. Nel 1425, le reliquie furono traslatate a Roma, nella basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio, dove ancora oggi sono venerate.

Il profilo spirituale di Monica
Agostino descrive sua madre con parole ben misurate:
“[…] muliebre nell’aspetto, virile nella fede, vegliarda nella pacatezza, materna nell’amore, cristiana nella pietà […]”. (Confessioni IX, 4, 8).
E ancora:
“[…] vedova casta e sobria, assidua nell’elemosina, devota e sottomessa ai tuoi santi; che non lasciava passare giornata senza recare l’offerta al tuo altare, che due volte al giorno, mattino e sera, senza fallo visitava la tua chiesa, e non per confabulare vanamente e chiacchierare come le altre vecchie, ma per udire le tue parole e farti udire le sue orazioni. Le lacrime di una tale donna, che con esse ti chiedeva non oro né argento, né beni labili o volubili, ma la salvezza dell’anima di suo figlio, avresti potuto sdegnarle tu, che così l’avevi fatta con la tua grazia, rifiutandole il tuo soccorso? Certamente no, Signore. Tu anzi le eri accanto e l’esaudivi, operando secondo l’ordine con cui avevi predestinato di dover operare.” (Confessioni V, 9,17).

Da questa testimonianza agostiniana, emerge una figura di sorprendente attualità.
Fu una donna di preghiera: non smise mai di invocare Dio per la salvezza dei suoi cari. Le sue lacrime diventano modello di intercessione perseverante.
Fu una sposa fedele: in un matrimonio difficile, non rispose mai con risentimento alla durezza del marito. La sua pazienza e la sua mitezza furono strumenti di evangelizzazione.
Fu una madre coraggiosa: non abbandonò il figlio nelle sue deviazioni, ma lo accompagnò con amore tenace, capace di fidarsi dei tempi di Dio.
Fu una testimone di speranza: la sua vita mostra che nessuna situazione è disperata, se vissuta nella fede.
Il messaggio di Monica non appartiene solo al IV secolo. Parla ancora oggi, in un contesto in cui molte famiglie vivono tensioni, figli si allontanano dalla fede, genitori sperimentano la fatica dell’attesa.
Ai genitori, insegna a non arrendersi, a credere che la grazia opera in modi misteriosi.
Alle donne cristiane, mostra come la mitezza e la fedeltà possano trasformare relazioni difficili.
A chiunque si senta scoraggiato nella preghiera, testimonia che Dio ascolta, anche se i tempi non coincidono con i nostri.
Non è un caso che molte associazioni e movimenti abbiano scelto Monica come patrona delle madri cristiane e delle donne che pregano per i figli lontani dalla fede.

Una donna semplice e straordinaria
La vita di santa Monica è la storia di una donna semplice e straordinaria insieme. Semplice perché vissuta nel quotidiano di una famiglia, straordinaria perché trasfigurata dalla fede. Le sue lacrime e le sue preghiere hanno plasmato un santo e, attraverso di lui, hanno inciso profondamente nella storia della Chiesa.
La sua memoria, celebrata il 27 agosto, alla vigilia della festa di sant’Agostino, ci ricorda che la santità passa spesso attraverso la perseveranza nascosta, il sacrificio silenzioso, la speranza che non delude.
Nelle parole di Agostino, rivolte a Dio per la madre, troviamo la sintesi della sua eredità spirituale: “Non posso dire abbastanza di quanto la mia anima sia debitrice a lei, mio Dio; ma tu sai tutto. Ripagale con la tua misericordia quanto ti chiese con tante lacrime per me” (Conf., IX, 13).

Santa Monica attraverso le vicende della sua vita ha raggiunto la felicità eterna che lei stessa ha definito: “La felicità consiste senza dubbio nel raggiungimento del fine e si deve aver fiducia che ad esso possiamo esser condotti da una ferma fede, da una viva speranza, da un’ardente carità”. (La Felicità 4,35).




Diventare un segno di speranza in eSwatini – Lesotho – Sudafrica dopo 130 anni

Nel cuore dell’Africa australe, tra le bellezze naturali e le sfide sociali di eSwatini, Lesotho e Sudafrica, i Salesiani celebrano 130 anni di presenza missionaria. In questo tempo di Giubileo, di Capitolo Generale e di anniversari storici, l’Ispettoria Africa Meridionale condivide i suoi segni di speranza: la fedeltà al carisma di Don Bosco, l’impegno educativo e pastorale tra i giovani e la forza di una comunità internazionale che testimonia fraternità e resilienza. Nonostante le difficoltà, l’entusiasmo dei giovani, la ricchezza delle culture locali e la spiritualità dell’Ubuntu continuano a indicare strade di futuro e di comunione.

Saluti fraterni dai Salesiani della più piccola Visitatoria e della più antica presenza nella Regione Africa-Madagascar (dal 1896, i primi 5 confratelli furono inviati da Don Rua). Quest’anno ringraziamo i 130 SDB che hanno lavorato nei nostri 3 Paesi e che ora intercedono per noi dal cielo. “Piccolo è bello”!

Nel territorio dell’AFM vivono 65 milioni di persone che comunicano in 12 lingue ufficiali, tra tante meraviglie della natura e grandi risorse del sottosuolo. Siamo tra i pochi Paesi dell’Africa sub-sahariana in cui i cattolici sono una piccola minoranza rispetto alle altre Chiese cristiane, con soli 5 milioni di fedeli.

Quali sono i segni di speranza che i nostri giovani e la società stanno cercando?
In primo luogo, stiamo cercando di superare i famigerati record mondiali del crescente divario tra ricchi e poveri (100.000 milionari contro 15 milioni di giovani disoccupati), della mancanza di sicurezza e della crescente violenza nella vita quotidiana, del collasso del sistema educativo, che ha prodotto una nuova generazione di milioni di analfabeti, alle prese con diverse dipendenze (alcool, droga…). Inoltre, a 30 anni dalla fine del regime di apartheid nel 1994, la società e la Chiesa sono ancora divise tra le varie comunità in termini di economia, opportunità e molte ferite non ancora rimarginate. In effetti, la comunità del “Paese dell’Arcobaleno” sta lottando con molte “lacune” che possono essere “riempite” solo con i valori del Vangelo.

Quali sono i segni di speranza che la Chiesa cattolica in Sudafrica sta cercando?
Partecipando all’incontro triennale “Joint Witness” dei superiori religiosi e dei vescovi nel 2024, ci siamo resi conto di molti segni di declino: meno fedeli, mancanza di vocazioni sacerdotali e religiose, invecchiamento e diminuzione del numero di religiosi, alcune diocesi in bancarotta, continua perdita/diminuzione di istituzioni cattoliche (assistenza medica, istruzione, opere sociali o media) a causa del forte calo di religiosi e laici impegnati. La Conferenza episcopale cattolica (SACBC – che comprende Botswana, eSwatini e Sudafrica) indica come priorità l’assistenza ai giovani dipendenti dall’alcool e da altre sostanze varie.

Quali sono i segni di speranza che i salesiani dell’Africa meridionale stanno cercando?
Preghiamo ogni giorno per nuove vocazioni salesiane, per poter accogliere nuovi missionari. È infatti finita l’epoca dell’Ispettoria anglo-irlandese (fino al 1988) e il Progetto Africa non comprendeva la punta meridionale del continente. Dopo 70 anni in eSwatini (Swaziland) e 45 anni in Lesotho, abbiamo solo 4 vocazioni locali da ciascun Regno. Oggi abbiamo solo 5 giovani confratelli e 4 novizi in formazione iniziale. Tuttavia, la Visitatoria più piccola dell’Africa-Madagascar, attraverso le sue 7 comunità locali, è incaricata dell’educazione e della cura pastorale in 6 grandi parrocchie, 18 scuole primarie e secondarie, 3 centri di formazione professionale (TVET) e diversi programmi di assistenza sociale. La nostra comunità ispettoriale, con 18 nazionalità diverse tra i 35 SDB che vivono nelle 7 comunità, è un grande dono e una sfida da accogliere.

Come comunità cattolica minoritaria e fragile dell’Africa australe
Crediamo che l’unica strada per il futuro sia quella di costruire più ponti e comunione tra i religiosi e le diocesi: più siamo deboli più ci sforziamo di lavorare insieme. Poiché tutta la Chiesa cattolica cerca di puntare sui giovani, Don Bosco è stato scelto dai vescovi come Patrono della Pastorale Giovanile e la sua Novena viene celebrata con fervore nella maggior parte delle diocesi e delle parrocchie all’inizio dell’anno pastorale.

Come Salesiani e Famiglia Salesiana, ci incoraggiamo costantemente a vicenda: “work in progress” (un lavoro costante)
Negli ultimi due anni, dopo l’invito del Rettor Maggiore, abbiamo cercato di rilanciare il nostro carisma salesiano, con la saggezza di una visione e direzione comune (a partire dall’assemblea annuale ispettoriale), con una serie di piccoli e semplici passi quotidiani nella giusta direzione e con la saggezza della conversione personale e comunitaria.

Siamo grati per l’incoraggiamento di don Pascual Chávez per il nostro recente Capitolo Ispettoriale del 2024: «Sapete bene che è più difficile, ma non impossibile, “rifondare” che fondare [il carisma], perché ci sono abitudini, atteggiamenti o comportamenti che non corrispondono allo spirito del nostro Santo Fondatore, don Bosco, e al suo Progetto di Vita, e hanno “diritto di cittadinanza” [nell’Ispettoria]. C’è davvero bisogno di una vera conversione di ogni confratello a Dio, tenendo il Vangelo come suprema regola di vita, e di tutta l’Ispettoria a Don Bosco, assumendo le Costituzioni come vero progetto di vita».

È stato votato il consiglio di don Pascual e l’impegno: “Diventare più appassionati di Gesù e dedicati ai giovani”, investendo nella conversione personale (creando uno spazio sacro nella nostra vita, per lasciare che Gesù la trasformi), nella conversione comunitaria (investendo nella formazione permanente sistematica mensile secondo un tema) e nella conversione ispettoriale (promuovendo la mentalità ispettoriale attraverso “One Heart One Soul” – frutto della nostra assemblea ispettoriale) e con incontri mensili online dei direttori.

Sull’immaginetta-ricordo della nostra Visitatoria del Beato Michele Rua, accanto ai volti di tutti i 46 confratelli e 4 novizi (35 vivono nelle nostre 7 comunità, 7 sono in formazione all’estero e 5 SDB sono in attesa del visto, con uno a San Callisto-catacombe e un missionario che sta facendo chemioterapia in Polonia). Siamo anche benedetti da un numero crescente di confratelli missionari che vengono inviati dal Rettor Maggiore o per un periodo specifico da altre Ispettorie africane per aiutarci (AFC, ACC, ANN, ATE, MDG e ZMB). Siamo molto grati a ciascuno di questi giovani confratelli. Crediamo che, con il loro aiuto, la nostra speranza di rilancio carismatico stia diventando tangibile. La nostra Visitatoria – la più piccola dell’Africa-Madagascar, dopo quasi 40 anni dalla fondazione, non ha ancora una vera e propria casa ispettoriale. La costruzione è iniziata, con l’aiuto del Rettor Maggiore, solo l’anno scorso. Anche qui diciamo: “lavori in corso”…

Vogliamo condividere anche i nostri umili segni di speranza con tutte le altre 92 Ispettorie in questo prezioso periodo del Capitolo Generale. L’AFM ha un’esperienza unica di 31 anni di volontari missionari locali (coinvolti nella Pastorale Giovanile del Centro Giovanile Bosco di Johannesburg dal 1994), il programma “Love Matters” per una sana crescita sessuale degli adolescenti dal 2001. I nostri volontari, infatti, coinvolti per un anno intero nella vita della nostra comunità, sono membri più preziosi della nostra Missione e dei nuovi gruppi della Famiglia Salesiana che stanno lentamente crescendo (VDB, Salesiani Cooperatori e Ex-allievi di Don Bosco).

La nostra casa madre di Città del Capo celebrerà già l’anno prossimo il suo cento trentesimo (130°) anniversario e, grazie al cento cinquantesimo (150°) anniversario delle Missioni Salesiane, abbiamo realizzato, con l’aiuto dell’Ispettoria della Cina, una speciale “Stanza della Memoria di San Luigi Versiglia”, dove il nostro Protomartire trascorse un giorno durante il suo ritorno dall’Italia in Cina-Macao nel maggio 1917.

Don Bosco ‘Ubuntu’ – cammino sinodale
 “Siamo qui grazie a voi!” – Ubuntu è uno dei contributi delle culture dell’Africa meridionale alla comunità globale. La parola in lingua Nguni significa “Io sono perché voi siete” (“I’m because you are!”. Altre possibili traduzioni: “Ci sono perché ci siete voi”). L’anno scorso abbiamo intrapreso il progetto “Eco Ubuntu” (progetto di sensibilizzazione ambientale della durata di 3 anni) che coinvolge circa 15.000 giovani delle nostre 7 comunità in eSwatini, Lesotho e Sudafrica. Oltre alla splendida celebrazione e alla condivisione del Sinodo dei Giovani 2024, i nostri 300 giovani [che hanno partecipato] conservano soprattutto Ubuntu nei loro ricordi. Il loro entusiasmo è una fonte di ispirazione. L’AFM ha bisogno di voi: Ci siamo grazie a voi!

Marco Fulgaro




Profeti del perdono e della gratuità

In questi tempi, dove le notizie, giorno dopo giorno, ci comunicano esperienze di conflitto, di guerra e di odio, quanto è grande il rischio che noi come credenti finiamo per essere coinvolti in una lettura degli eventi che si riduce solamente a livello politico oppure ci limitiamo a prendere posizione a favore di una parte o dell’altra con degli argomenti che hanno a che fare con la nostra maniera di vedere le cose, con la nostra maniera di interpretare la realtà.

Nel discorso di Gesù che segue le beatitudini c’è una serie di “piccole/grandi lezioni” che il Signore offre. Sempre iniziano con il versetto “avete inteso che fu detto”. In una di queste il Signore richiama l’antico detto “occhio per occhio e dente per dente” (Mt 5,38).
Fuori dalla logica del Vangelo, questa legge non solo non è contestata, ma può anche essere presa come una regola che esprime il modo ristabilire i conti con coloro che ci hanno offeso. Ottenere vendetta è percepita come diritto‚ Fino a essere anche un dovere.
Gesù si presenta davanti a questa logica con una proposta completamente differente, totalmente opposta. A quello che abbiamo inteso, Gesù ci dice: “Ma io vi dico” (Mt 5,39). E qui come cristiani dobbiamo fare molta attenzione. Le parole di Gesù che seguono sono importanti non solamente per sé stesse, ma perché esprimono in una maniera molto sintetica tutto il suo messaggio. Gesù non viene per dirci che c’è un altro modo di interpretare la realtà. Gesù non si avvicina a noi per allargare lo spettro delle opinioni a proposito delle realtà terrene, in modo particolare quella che toccano la nostra vita. Gesù non è un’altra opinione, ma lui stesso incarna la proposta alternativa alla legge della vendetta.
La frase “ma io vi dico” è di fondamentale importanza perché adesso non è più la parola pronunciata, ma la persona stessa di Gesù. Quello che Gesù ci comunica lui lo vive. Quando Gesù dice “di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra” (Mt 5,39), queste stesse parole le ha vissute in prima persona. Sicuramente non possiamo dire di Gesù che predica bene ma vi fa male nel suo messaggio.
Per ritornare ai nostri tempi, queste parole di Gesù rischiano di essere percepite come le parole di una persona debole, reazioni di chi non è più capace di reagire ma soltanto di subire. E in effetti quando noi guardiamo a Gesù che si offre completamente sul legno della Croce, questa è l’impressione che possiamo avere. Eppure, sappiamo benissimo che col sacrificio sulla croce e frutto di un vissuto che parte dalla frase “ma io vi dico”. Perché tutto ciò che Gesù ci ha detto, lui ha finito per assumerlo in pieno. E assumendolo in pieno è riuscito a passare dalla croce alla vittoria. Quella di Gesù è una logica che apparentemente comunica una personalità perdente. Ma sappiamo benissimo che il messaggio che Gesù ci ha lasciato, e che lui lo ha vissuto pienamente, e la medicina di cui questo mondo oggi ne ha proprio bisogno.

Essere profeti del perdono significa assumere il bene come risposta al male. Significa avere la determinazione che la potenza del maligno non condizionerà il mio modo di vedere e di interpretare la realtà. Il perdono non è la risposta del debole. Il perdono è il segno più eloquente di quella libertà che è capace di riconoscere le ferite che il male lascia dietro di sé, ma che quelle stesse ferite non saranno mai una polveriera che fomenta la vendetta e l’odio.
Reagire al male con il male non fa altro che allargare ed approfondire le ferite dell’umanità. La pace e la concordia non crescono sul terreno dell’odio ed è la vendetta.

Essere profeti della gratuità richiede da noi la capacità di guardare al povero e all’ingente non con la logica del profitto, ma con la logica della carità. Il povero non sceglie di essere povero, ma chi sta bene alla possibilità di scegliere di essere generoso, buono e pieno di compassione. Quanto sarebbe differente il mondo se i nostri leader politici in questo scenario dove stanno crescendo i conflitti le guerre, abbiano la sensatezza di guardare a coloro che pagano il prezzo in queste divisioni, e sono i poveri, di emarginati quelli che non possono scappare perché non ce la fanno.
Se partiamo da una lettura puramente orizzontale, c’è da disperarsi. Non ci rimane altro che rimanere chiusi nelle nostre mormorazioni nelle nostre critiche. Eppure, no! Noi siamo educatori dei giovani. Sappiamo bene che questi giovani in questo nostro mondo stanno cercando punti di riferimento di un’umanità sana, di leaders politici capace di interpretare la realtà con dei criteri di giustizia e di pace. Ma quando i nostri giovani guardano attorno, sappiamo bene che colgono solamente il vuoto di una visione povera della vita.
Noi che siamo impegnati per la educazione dei giovani abbiamo una grossa responsabilità. Non basta commentare il buio che lascia un’assenza quasi completa di leadership. Non basta commentare che non ci sono proposte che hanno la capacità di infiammare la memoria dei giovani. Spetta ad ognuno e ad ognuna di noi accendere quella candela di speranza in questo buio, offrire esempi di umanità riuscita nella quotidianità.
Davvero vale la pena oggi essere profeti del perdono e della gratuità.




Dialogo familiare

Figlio: «Avete sentito quello che è successo in Ucraina?».
Padre: «Bah!».
Madre: «È abbastanza salata la minestra?».
Figlio: «È un problema, no?».
Padre: «Sì».
Figlio: «Allora che ne pensi?».
Padre: «Hai ragione, manca un po’ di sale».
Madre: «Eccolo, tieni».
Figlio: «È strano come si sia potuti arrivare a tanto».
Madre: «Quanto hai preso di matematica?».
Padre: «Io non ho mai capito niente di matematica».
Madre: «Fa freddo, stasera…».

Un marito ascolta la moglie al massimo per 17 secondi e poi incomincia a parlare lui.
Una moglie ascolta il marito al massimo per 17 secondi e poi incomincia a parlare lei.
Marito e moglie ascoltano i figli per…




L’oratorio festivo di Valdocco

Nel 1935, a seguito della canonizzazione di don Bosco nel 1934, i salesiani si premurarono di raccogliere testimonianze su di lui. Un certo Pietro Pons, che fanciullo aveva frequentato l’oratorio festivo di Valdocco per una decina di anni (dal 1871 al 1882), e che pure aveva frequentato due anni di scuole elementari (con le aule sotto la basilica di Maria Ausiliatrice) l’8 novembre rilasciò una bella testimonianza di quegli anni. Ne stralciamo alcuni passi, quasi tutti inediti.

La figura di don Bosco
Era il centro di attrazione di tutto l’Oratorio. Così lo ricorda il nostro antico oratoriano Pietro Pons sul finire degli anni settanta: “Non aveva più vigore, ma era sempre pacato e sorridente. Aveva due occhi, che foravano, e penetravano nella mente. Compariva tra di noi: era una gioia per tutti. D. Rua, D. Lazzero gli stavano ai fianchi come se avessero in mezzo a loro il Signore. D. Barberis e tutti i ragazzi gli correvano incontro, lo circondavano, chi camminando sui fianchi, chi dietro per aver la faccia rivolta a lui. Era una fortuna, un ambito privilegio il poter stargli vicino, il parlare con lui. Egli passeggiava adagio parlando, e guardando tutti con quei due occhi che giravano da ogni parte, elettrizzavano di gioia i cuori”.
Fra gli episodi rimasti impressi nella mente a 60 anni di distanza ne ricorda due in particolare: “Un giorno… compare soletto dalla porta d’ingresso presso il santuario. Allora uno stuolo di ragazzi piglia la corsa per investirlo come una folata di vento. Ma egli tiene in mano l’ombrello, che ha il manico ed il fusto grosso come quello dei contadini. Lo alza e servendosene come una spada si destreggia a respingere quell’affettuoso assalto ora a destra ora a sinistra per aprirsi il passo. Tocca uno colla punta, un altro di fianco, ma intanto s’accostano gli altri dall’altra parte. Così il gioco, lo scherzo continua portando la gioia nei cuori, desiderosi di vedere il buon Padre ritornare dal suo viaggio. Sembrava un parroco di paese, ma di quelli alla buona”.

I giochi e il teatrino
Un oratorio salesiano senza gioco è impensabile. Ricorda l’anziano exallievo: “il cortile era occupato da un fabbricato, dalla chiesa di Maria A. e al termine di un muretto… appoggiava all’angolo a sinistra una specie di capanna, presso cui c’era sempre qualcuno a controllare chi entrava… Appena entrato a destra c’era l’altalena con un posto solo, le parallele poi e la sbarra fissa per i più grandicelli, che si divertivano a fare le loro giravolte e capriole, ed anche il trapezio, ed il passo volante unico, che si trovavano però presso le sacrestie oltre la cappella di S. Giuseppe”. Ed ancora: “Questo cortile era di una bella lunghezza e si prestava assai bene a fare le corse di velocità partendo dal lato della chiesa e tornando ivi al ritorno. Si giocava pure a bara rotta, alle corse dei sacchi, alle pignatte. Questi ultimi giochi erano annunziati fin dalla domenica precedente. Così pure la cuccagna; ma l’albero si piantava con la parte sottile in basso perché fosse più difficile l’ascendere. C’erano delle lotterie, ed il biglietto si pagava un soldo o due. Dentro alla casetta c’era una piccola biblioteca contenuta in un armadietto”.

Al gioco si univa il famoso “teatrino” su cui si svolgevano autentici drammi come “il figlio del Crociato”, si cantavano le romanze di don Cagliero e si presentavano “musical” come il Ciabattino personificato dal mitico Carlo Gastini [brillantissimo animatore degli exallievi]. La recita, presenti gratuitamente i genitori, si teneva nel salone sotto la navata centrale della chiesa di Maria A., ma il vecchio ex oratorio ricorda anche che “una volta si recitò presso la casa Moretta [attuale chiesa parrocchiale presso la piazza]. Ivi abitava della povera gente nella più squallida miseria. Nelle cantine che si vedono sotto il poggiolo c’era una povera madre, che sul mezzogiorno portava sulle spalle il suo Carlo, che per un morbo aveva il corpo rigido, a pigliare il sole”.

Le funzioni religiose e le riunioni formative
All’oratorio festivo non mancavano le funzioni religiose della domenica mattina: santa Messa con santa comunione, preghiere del buon cristiano; seguiva al pomeriggio la ricreazione, il catechismo, la predica di don Giulio Barberis. Ormai anziano “D. Bosco non veniva mai a dir messa o a far la predica, ma solo per visitare e trattenersi coi ragazzi durante la ricreazione… I catechisti e assistenti avevano con sé in chiesa durante le funzioni i loro allievi a cui insegnavano il catechismo. La dottrina piccola era regalata a tutti. Si esigeva la lezione a memoria ogni festa e poi anche la spiegazione”. Le feste solenni si concludevano con una processione e una merenda per tutti: “uscendo di chiesa dopo la messa c’era la colazione. Un giovane a destra fuori della porta dava la pagnotta, un altro a sinistra con una forchetta vi metteva sopra due fette di salame”. Si accontentavano di poco quei ragazzi, ma erano contentissimi. Quando poi i ragazzi interni si univano agli oratoriani per il canto dei vespri si potevano udire le loro voci in via Milano e in via Corte d’appello!
All’oratorio festivo si tenevano anche riunioni di gruppi formativi. Nella casetta presso la chiesetta di S. Francesco vi era “una stanza piccola e bassa che poteva contenere circa una ventina di persone…Nella stanza c’era un tavolinetto per il conferenziere, c’erano le panche per le adunanze e conferenze dei più grandi in genere, e della Compagnia di S. Luigi, quasi tutte le domeniche”.

Chi erano gli oratoriani?
Dei suoi circa 200 compagni – ma il loro numero diminuiva in inverno per il ritorno in famiglia degli stagionali – il nostro arzillo vecchietto ricordava che molti erano biellesi “quasi tutti ‘ bic’, portavano cioè la secchia di legno piena di calce e il cesto di vimini pieno di mattoni ai muratori delle costruzioni”. Altri erano “apprendisti muratori, meccanici, lattonieri”. Poveri garzoni: lavoravano da mattina a sera tutti i giorni e solo la domenica si potevano permettere un po’ di svago “da don Bosco” (come veniva definito il suo oratorio): “Si giocava all’Asino vola, sotto la direzione dell’allora sig. Milanesio [futuro sacerdote grande missionario in Patagonia.]. Il sig. Ponzano, poi sacerdote, era maestro di ginnastica. Egli ci faceva fare esercizi a corpo libero, coi bastoni, agli attrezzi”.
I ricordi di Pietro Pons sono molto più ampi, tanto ricchi di suggestioni lontane, quanto pervasi da un’ombra di nostalgia; attendono di essere conosciuti per intero. Speriamo di farlo presto.




Nessuno spaventava le galline (1876)

Ambientato nel gennaio 1876, il brano presenta uno dei più suggestivi «sogni» di Don Bosco, strumento prediletto con cui il santo torinese scuoteva e guidava i giovani dell’Oratorio. La visione si apre su una pianura sterminata in cui fervono i lavori dei seminatori: il grano, simbolo della Parola di Dio, germoglierà solo se protetto. Ma galline voraci piombano sul seme e, mentre i contadini cantano versetti evangelici, i chierici addetti alla custodia restano muti o distratti, lasciando che tutto vada perduto. La scena, animata da dialoghi arguti e citazioni bibliche, diventa parabola della mormorazione che spegne il frutto della predicazione e monito alla vigilanza attiva. Con toni insieme paterni e severi, Don Bosco trasforma l’elemento fantastico in lezione morale incisiva.

            Nella seconda metà di gennaio il Servo di Dio ebbe un sogno simbolico, del quale fece parola con alcuni Salesiani. Don Barberis lo pregò di raccontarlo in pubblico, perché i suoi sogni piacevano molto ai giovani, facevano loro gran bene e li affezionavano all’Oratorio.
            – Sì, questo è vero, rispose il Beato, fanno del bene e sono ascoltati con avidità; il solo che ne riceva nocumento sono io, perché bisognerebbe che avessi polmoni di ferro. Si può ben dire, che nell’Oratorio non ci sia un solo, il quale non si senta scosso da tali narrazioni; poiché per lo più questi sogni toccano tutti, e ciascheduno vuol sapere in quale stato io l’abbia veduto, che cosa debba fare, quale significato abbia questo o quello; ed io sono tormentato giorno e notte. Se poi voglio svegliare il desiderio delle confessioni generali, non ho da far altro che raccontare un sogno… Senti, fa’ una cosa. Domenica andrò a parlare ai giovani, e tu interrogami in pubblico. Io allora conterò il sogno.
            Il 23 gennaio, dopo le orazioni della sera, egli montò in cattedra. Il suo volto raggiante di gioia manifestava, come sempre, la propria contentezza nel trovarsi tra i suoi figli. Fattosi un po’ di silenzio, Don Barberis chiese di parlare e interrogò:
            – Scusi, signor Don Bosco, mi permette che io le faccia una domanda?
            – Di’ pure.
            – Ho sentito a dire che in queste notti scorse ha fatto un sogno di semenza, di seminatore, di galline, e che l’ha già raccontato al chierico Calvi. Vorrebbe favorire di raccontarlo anche a noi? Questo ci farebbe assai piacere.
            – Curioso!! – fece Don Bosco in tono di rimprovero. E qui scoppiò una risata generale.
            – Non importa, sa, che mi dia del curioso; purché ci racconti il sogno. E con questa mia domanda credo d’interpretare la volontà di tutti i giovani, i quali certamente lo ascolteranno tanto volentieri.
            – Se è così ve lo racconto. Non voleva dir nulla, perché ci sono cose che riguardano diversi di voi in particolare, e alcune anche per te, che fanno bruciare un po’ le orecchie; ma poiché me ne richiedi, io racconterò.
            – Ma eh! signor Don Bosco, se c’è qualche bastonata per me, me la risparmi qui in pubblico.
            – Io racconterò le cose come le sognai; ciascuno prenda la parte sua. Ma prima di tutto bisogna che ciascuno tenga bene a mente, che i sogni si fanno dormendo, e dormendo non si ragiona; perciò se vi è qualche cosa di buono, qualche ammonimento da prendere, si prende. Del resto nessuno si metta in apprensione. Ho detto che io sognando di notte dormiva, perché taluni sognano anche di giorno e alcune volte perfino essendo svegliati e con non leggiero disturbo dei professori, per i quali riescono scolari fastidiosi.

            Mi pareva di essere lontano di qui e di trovarmi a Castelnuovo d’Asti, mia patria. Aveva avanti a me una grande estensione di terreno, situata in una vasta e bella pianura; ma quel terreno non era nostro e non sapeva di chi fosse.
            In quel campo vidi molti che lavoravano colle zappe, colle vanghe, coi rastrelli ed altri strumenti. Chi arava, chi seminava il grano, chi spianava la terra, chi faceva altro. Vi erano qua e là i capi preposti a dirigere i lavori e fra costoro mi sembrava di esser anch’io. Cori di contadini stavano in altra parte cantando. Io osservava stupito e non sapeva darmi ragione di quel luogo. Meco stesso andava dicendo: – Ma a che fine costoro lavorano tanto? – E rispondeva a me stesso: – Per provvedere le pagnotte ai miei giovani. – Ed era veramente una meraviglia il vedere come quei buoni agricoltori non desistessero un istante dal lavoro e incessantemente continuassero nel loro uffizio con uno slancio costante e colla stessa solerzia. Solo alcuni stavano ridendo e scherzando fra di loro.
            Mentre io contemplava così bel quadro, mi guardo attorno e vedo che mi circondavano alcuni preti e molti dei miei chierici, parte vicini, parte ad una certa distanza. Diceva tra me: – Ma io sogno; i miei chierici sono a Torino, qui invece siamo a Castelnuovo. E poi come ciò può essere? Io sono vestito da inverno da capo a piedi, solamente ieri io aveva tanto freddo, ed ora qui si semina il grano. – E mi toccava le mani e camminava e diceva: – Ma pure non sogno, questo è proprio un campo; questo chierico che è qui è il chierico A… in persona; quest’altro è il chierico B… E poi come potrei nel sogno vedere questa cosa e quest’altra?
            Intanto vidi lì presso, ma a parte, un vecchio che all’aspetto sembrava molto benevolo ed assennato, intento ad osservare me e gli altri. Mi accostai a lui e gli domandai:
            – Dite, bravo uomo, ascoltate! Che cosa è ciò che io vedo e non ne capisco nulla? Qui dove siamo? Chi sono questi lavoratori? Di chi è questo campo?
            – Oh! mi risponde quell’uomo; belle interrogazioni da farsi! Ella è prete e non sa queste cose?
            – Ma dunque ditemi! Credete voi che io sogni o che sia desto? Poiché a me par di sognare e non mi sembrano possibili le cose che vedo.
            – Possibilissime, anzi reali e a me pare che Lei sia desto affatto. Non se ne avvede? Parla, ride, scherza.
            – Eppure vi son taluni, io soggiunsi, cui sembra nel sogno di parlare, ascoltare, operare, come se fossero desti.
            – Ma no; lasci da parte tutto questo. Lei è qui in corpo ed anima.
            – Ebbene, sia pure; e se son desto, ditemi allora di chi sia questo campo.
            – Ella ha studiato il latino: qual è il primo nome della seconda declinazione che ha studiato nel Donato? Lo sa ancora?
            – Eh! sì che lo so; ma che cosa ha da far questo con ciò che vi domando?
            – Ha da far moltissimo. Dica adunque quale è il primo nome che si studia nella seconda declinazione.
            – È Dominus.
            – E come fa al genitivo?
            – Domini!
            – Bravo, bene, Domini; questo campo adunque è Domini, del Signore.
            – Ah! ora comincio a capire qualche cosa! – esclamai.
            Era meravigliato della conseguenza tratta da quel buon vecchio. Intanto vidi varie persone che venivano con sacchi di grano per seminare, e un gruppo di contadini cantava: Exit, qui seminat, seminare semen suum (Il seminatore uscì a seminare il suo seme, Lc 8,5).
            A me pareva un peccato gettar via quella semente e farla marcire sotterra. Era così bello quel grano! – Non sarebbe meglio, diceva fra me. macinarlo e fame del pane o delle paste? – Ma poi pensava: – Chi non semina, non raccoglie. Se non si getta via la semente e questa non marcisce, che cosa si raccoglierà poi?
            In quel mentre vedo da tutte le parti uscire una moltitudine di galline e andar pel seminato a beccarsi tutto il grano che altri spargeva per seme.
            E quel gruppo di cantori proseguiva nel suo canto: Venerunt aves caeli, sustulerunt frumentum et reliquerunt zizaniam (Gli uccelli del cielo vennero e raccolsero il grano e lasciarono la zizzania).
            Io do uno sguardo attorno e osservo quei chierici che erano con me. Uno colle mani conserte stava guardando con fredda indifferenza; un altro chiacchierava coi compagni; alcuni si stringevano nelle spalle, altri guardavano il cielo, altri ridevano di quello spettacolo, altri tranquillamente proseguivano la loro ricreazione e i loro giuochi, altri sbrigavano alcuna loro occupazione; ma nessuno spaventava le galline per farle andar via. Io mi rivolgo loro tutto risentito e, chiamando ciascuno per nome, diceva:
            – Ma che cosa fate? Non vedete quelle galline che si mangiano tutto il grano? Non vedete che distruggono tutto il buon seme, fanno svanire le speranze di questi buoni contadini? Che cosa raccoglieremo poi? Perché state così muti? perché non gridate, perché non le fate andar via?
            Ma i chierici si stringevano nelle spalle, mi guardavano e non dicevano niente. Alcuni non si volsero neppure: non badavano prima a quel campo, né ci badarono dopo che io ebbi gridato.
            – Stolti che siete! io continuava. Le galline hanno già tutte il gozzo pieno. Non potreste battere le mani e fare così? – E intanto io batteva le mani, trovandomi in un vero imbroglio, poiché a nulla valevano le mie parole. Allora alcuni si misero a fugar le galline, ma io ripeteva tra me: – Eh sì! Ora che tutto il grano fu mangiato, si scacciano le galline.
            In quel mentre mi colpì l’orecchio il canto di quel gruppo di contadini, i quali così cantavano: Canes muti nescientes latrare (I cani muti non sanno abbaiare, Is 56,10).
            Allora io mi rivolsi a quel buon vecchio e tra stupefatto e sdegnato gli dissi:
            – Orsù, datemi una spiegazione di quanto vedo; io ne capisco nulla. Che cosa è quel seme che si getta per terra?
            – Oh bella! Semen est verbum Dei (Il seme è la parola di Dio, Lc 8,11).
            – Ma che cosa vuol dir questo, mentre vedo che là le galline se lo mangiano?
            Il vecchio, cambiando tono di voce, proseguì:
            – Oh! se vuole una più compiuta spiegazione, io gliela do. Il campo è la vigna del Signore, di cui si parla nel Vangelo, e si può anche intendere del cuore dell’uomo. I coltivatori sono gli operai evangelici, che specialmente colla predicazione seminano la parola di Dio. Questa parola produrrebbe molto frutto in quel cuore, terreno ben preparato. Ma che? Vengono gli uccelli del cielo e la portano via.
            – Che cosa indicano questi uccelli?
            – Vuole che le dica che cosa indicano? Indicano le mormorazioni. Sentita quella predica che porterebbe effetto, si va coi compagni. Uno fa la chiosa ad un gesto, alla voce, ad una parola del predicatore, ed ecco portato via tutto il frutto della predica. Un altro accusa il predicatore stesso di qualche difetto o fisico o intellettuale; un terzo ride sul suo italiano, e tutto il frutto della predica è portato via. Lo stesso deve dirsi di una buona lettura, della quale il bene resta tutto impedito da una mormorazione. Le mormorazioni sono tanto più cattive, in quanto che esse generalmente sono segrete, nascoste, e colà vivono e crescono, ove punto noi non ce lo aspettiamo. Il grano sebbene sia in un campo non molto coltivato, tuttavia nasce, cresce, viene su abbastanza alto e produce frutto. Quando in un campo di fresco seminato viene un temporale, allora il campo resta pestato e non porta più tanto frutto, ma pure ne porta. Se anche la semenza non sarà tanto bella, pure crescerà: porterà poco frutto, ma pure ne porterà. Invece quando le galline o gli uccelli si beccano la semente, non c’è più verso: il campo non rende né punto né poco; non porta più frutto di sorta. Così se alle prediche, alle esortazioni, ai buoni propositi terrà dietro qualche altra cosa come distrazione, tentazione, ecc. farà meno frutto; ma quando c’è la mormorazione, il parlar male o simili, qui non c’è poco che tenga, ma c’è subito il tutto che vien portato via. E a chi tocca battere le mani, insistere, gridare, sorvegliare, perché queste mormorazioni, questi discorsi cattivi non si facciano? Lei lo sa!
            – Ma che cosa facevano mai questi chierici? io gli chiesi. Non potevano essi impedire tanto male?
            – Non impedirono nulla, egli proseguì. Taluni stavano ad osservare come statue mute, altri non ci badavano, non ci pensavano, non vedevano e se ne stavano colle braccia conserte, altri non avevano il coraggio d’impedire questo male; alcuni, pochi però, si univano anch’essi ai mormoratori, prendevano parte alle loro maldicenze, facevano il mestiere di distruggitori della parola di Dio. Tu che sei prete insisti su questo; predica, esorta, parla, non aver paura di dir mai troppo; e tutti sappiano che il fare le chiose a chi predica, a chi esorta, a chi dà buoni consigli è ciò che reca più del male. E lo star muti quando si vede qualche disordine e non impedirlo, specialmente chi potrebbe o dovrebbe, questo è al tutto rendersi complice del male degli altri.
            Io tutto compreso da queste parole, voleva ancora guardare, osservare questa e quella cosa, rimproverare i chierici, infiammarli a compiere il proprio dovere. Ed essi già si movevano e cercavano di mettere in fuga le galline. Ma io, avendo fatti alcuni passi, inciampai in un rastrello, destinato a spianar la terra, lasciato in quel campo, e mi svegliai. Ora lasciamo da parte ogni cosa e veniamo alla morale. D. Barberis! Che cosa ne dici di questo sogno?
            – Dico, rispose D. Barberis, che è una buona bastonata, e bazza a chi tocca.
            – Eh certo, riprese D. Bosco, è una lezione la quale bisogna che ci faccia del bene; e tenetelo a mente, o miei cari giovani, di evitare fra voi in ogni modo la mormorazione, come un male straordinario, fuggendola come si fugge dalla peste, e non solo evitarla voi, ma a tutto potere cercare di farla evitare agli altri. Alcune volte santi consigli, opere ottime non fanno il bene, che reca l’impedire una mormorazione e qualunque parola che possa nuocere ad altri. Armiamoci di coraggio e combattiamola francamente. Non v’è peggior disgrazia di quella di far perdere la parola di Dio. E basta un motto, basta uno scherzo.

            Vi ho contato un sogno avvenutomi già sono varie notti, ma in questa notte scorsa ne ho avuto un altro, che eziandio desidero narrarvi. L’ora non è ancora troppo tarda; sono appena le nove e posso esporvelo. Procurerò tuttavia di non andare per le lunghe.
            Mi parve adunque di trovarmi in un luogo che ora non ricordo più quale fosse: non era io più a Castelnuovo, ma mi pare che neppure fossi all’Oratorio. Venne qualcuno con tutta premura a chiamarmi:
            – D. Bosco, venga! D. Bosco, venga!
            – Ma e che cosa c’è di tanta premura? io risposi.
            – È in corrente delle cose avvenute?
            – Io non intendo quello che tu vuoi dire; spiegati chiaramente, risposi ansioso.
            – Non sa, D. Bosco, che il tal giovane così buono, così pieno di brio, è gravemente infermo, anzi moribondo?
            – Io dubito che tu voglia prenderti gioco di me, gli dissi: perché appunto stamane parlai e passeggiai con lo stesso giovane, che ora mi annunzi moribondo.
            – Ah, D. Bosco, io non cerco d’ingannarla e mi credo in debito di narrarle la pura verità. Quel giovane ha sommamente bisogno di lei e desidera di vederla e di parlarle per l’ultima volta. Ma venga presto, perché altrimenti non è più in tempo.
            Io senza sapere il dove, andai in tutta fretta dietro a quel tale. Arrivo in un luogo e vedo gente mesta e piangente che mi dice: Faccia pure presto, che è agli estremi.
            – Ma che cosa è accaduto? – rispondo. Vengo introdotto in una camera, dove vedo un giovane coricato, tutto smorto nel viso, d’un colore quasi cadaverico, con una tosse e un rantolo che lo soffocava e appena a stento gli permetteva di parlare:
            – Ma non sei tu il tale dei tali? io gli dissi.
            – Sì, sono il tale!
            – Come stai?
            – Sto male
            – E come va che ora ti vedo in questo stato? Solamente ieri e stamattina non passeggiavi tranquillo sotto i portici?
            – Sì, rispose il giovane, ieri e stamattina passeggiavo sotto i portici; ma ora faccia presto, che io ho bisogno di confessarmi; vedo che mi resta più poco tempo.
            – Non affannarti, non affannarti; tu ti sei confessato da pochi giorni.
            – È vero e mi pare di non avere nessuna grossa pena sul mio cuore; ma tuttavia desidero ricevere la santa assoluzione prima di presentarmi al Divin Giudice.
            Io ascoltai la sua confessione. Ma intanto osservai che visibilmente peggiorava e un catarro era per soffocarlo. – Ma qui bisogna fare in fretta, dico fra me, se voglio che riceva ancora il santo viatico e l’olio santo. Anzi il viatico non potrà più riceverlo, sia perché ci vuole più tempo per i preparativi, sia perché la tosse potrebbe impedirgli d’inghiottire. Presto l’olio santo!
            Così dicendo, esco dalla camera e mando subito un uomo a prendere la borsa degli olii santi. I giovani che erano in sala mi domandavano:
            – Ma è veramente in pericolo? è proprio moribondo, come si va dicendo?
            – Purtroppo! io rispondeva. Non vedete che il respiro gli si fa ognor più grave e il catarro lo soffoca?
            – Ma sarà meglio portargli anche il viatico e così fortificato mandarlo nelle braccia di Maria!
            Ma mentre io mi affaccendava nel preparar l’occorrente, sento una voce: – è spirato!
            Rientro in camera e trovo l’infermo cogli occhi sbarrati; più non respira; è morto.
            – È morto? io domando a quei due che lo assistevano morto, mi rispondono: è morto!
            – Ma come va, tanto in fretta? Ditemi: non è desso il tale?
            – Sì, è il tale.
            – Non posso credere agli occhi miei! Solo ieri passeggiava con me sotto i portici.
            – Ieri passeggiava ed ora è morto, mi replicarono.
            – Per fortuna che era un giovane buono! esclamai. E diceva ai giovani che aveva attorno:
            – Vedete, vedete? Costui non ha nemmanco più potuto ricevere il viatico e l’estrema unzione. Ringraziamo però il Signore, che gli diede tempo di confessarsi. Questo giovane era buono, frequentava abbastanza i Sacramenti e speriamo che sia andato ad una vita felice, o almeno in purgatorio. Ma se fosse un po’ capitata ad altri la stessa sorte, che cosa ne sarebbe ora di certuni?
            Ciò detto, ci mettemmo tutti in ginocchio e recitammo un De profundis per l’anima del povero defunto.
            Intanto io andava in camera, quando mi vedo giungere Ferraris dalla libreria (coadiutore Giovanni Antonio Ferraris, libraio), il quale tutto affannato mi dice:
            – Sa, D. Bosco, che cosa è avvenuto?
            – Eh! purtroppo lo so! È morto il tale! rispondo.
            – Non è questo che voglio dire; vi sono due altri morti.
            – Come? chi?
            – Il tale ed il tale altro.
            – Ma quando? Non capisco.
            – Sì, due altri, i quali morirono prima che ella giungesse.
            – E perché allora non mi avete chiamato?
            – Mancò il tempo. Ma ella sa dirmi quando è morto questo qui?
            – È morto adesso! io risposi.
            – Sa ella in che giorno siamo e di qual mese? proseguì Ferraris.
            – Sì che lo so; siamo ai 22 di gennaio, secondo giorno della novena di S. Francesco di Sales.
            – No, disse Ferraris. Ella si sbaglia, signor Don Bosco; guardi bene. – Io alzo gli occhi al calendario e vedo: 26 di Maggio.
            – Ma questa è maiuscola! esclamai. Siamo di gennaio, e ben me ne accorgo dal come sono vestito, non si va vestiti così di maggio; di maggio non vi sarebbe il calorifero acceso.
            – Io non so che dirle, o che ragione darle, ma ora siamo ai 26 di maggio.
            – Ma se ieri solamente è morto quel nostro compagno ed eravamo in gennaio.
            – Si sbaglia, insisté Ferraris; eravamo in tempo pasquale.
            – Un’altra ne aggiungi ancor più grossa!
            – Tempo pasquale, sicuro: eravamo in tempo pasquale, e fu ben più fortunato di morire nella Pasqua, che gli altri due, i quali morirono nel mese di Maria.
            – Tu mi burli, io gli dissi. Spiegati meglio, altrimenti io non t’intendo.
            – Io non burlo niente affatto. La cosa è così. Se poi vuole saperne di più, e che io mi spieghi meglio, ecco! Stia attento!
            Aperse le braccia, poi batté le due mani una contro l’altra forte forte: ciac! Ed io mi sono svegliato. Allora esclamai: – Oh per fortuna! Non è una realtà, ma è un sogno. Quanto timore ho avuto!
            Ecco il sogno che ho fatto la notte scorsa. Voi dategli quell’importanza che volete. Io stesso non voglio dargli interamente fede. Oggi però ho voluto vedere se coloro che mi parvero morti in sogno, fossero ancora vivi e li vidi sani e vigorosi. Certamente che non conviene ch’io dica, e non dirò, chi siano costoro. Tuttavia terrò d’occhio quei due: se sarà necessario qualche consiglio per vivere bene, lo darò loro, e li preparerò, facendo le volte larghe senza che se ne accorgano; perché così, se accadesse loro di dover morire, la morte non li trovi impreparati. Ma nessuno vada dicendo: Sarà questi, sarà quegli. Ciascuno pensi a sé.
            E non datevi nessuna apprensione di questo. L’effetto che deve fare in voi è semplicemente quello che ci suggerì il Divin Salvatore nel Vangelo: Estote parati, quia, qua hora non putatis, filius hominis veniet (Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo, Lc 12,40). È questo un grande avvertimento, miei cari giovani, che ci dà il Signore. Stiamo apparecchiati sempre, perché nell’ora in cui meno ce lo aspettiamo, può venire la morte e colui che non è preparato a morir bene, corre grave rischio di morir male. Io mi terrò preparato il meglio che posso e voi fate lo stesso, affinché in qualunque ora piaccia al Signore di chiamarci, possiamo essere pronti a passare nella felice eternità. Buona notte.

            Le parole di Don Bosco si ascoltavano sempre con religioso silenzio; ma quando egli raccontava di queste cose straordinarie, fra le centinaia di ragazzi che gremivano il luogo, non si sentiva un colpo di tosse né il più lieve fruscio di piedi. L’impressione viva durava settimane e mesi e con l’impressione avvenivano mutazioni radicali nella condotta di certi discoli. Si faceva poi ressa intorno al confessionale di Don Bosco. Di supporre che egli inventasse quei racconti per spaventare e migliorare la vita dei giovani, non veniva in capo a nessuno, perché gli annunzi di morti prossime si avveravano sempre e certi stati di coscienza veduti nei sogni rispondevano a realtà.
            Ma il timore prodotto da sì lugubri predizioni non era un incubo opprimente? Non pare. Troppe si presentavano le possibilità e le supposizioni in una moltitudine di più che ottocento giovani, perché i singoli ne potessero essere preoccupati. Inoltre la persuasione realmente diffusa, che chi moriva nell’Oratorio, andava di certo in paradiso, e che Don Bosco preparava i designati senza spaventarli, contribuiva a scacciare dagli animi ogni timore. D’altra parte si sa bene quanto sia grande la volubilità giovanile: sul momento la fantasia dei giovani rimane colpita e scossa; ma poi quel ricordo si libera ben presto da qualsiasi paurosa apprensione. Tanto ci attestavano unanimi i superstiti di quei tempi.
            Andati che furono i giovani a dormire, alcuni confratelli che attorniavano il Beato, lo tempestavano di domande, per sapere se alcuno di loro fosse fra quei che dovevano morire. Il Servo di Dio, sorridendo secondo il suo solito e scuotendo il capo, ripeteva:
            – Già, già! Verrò a dirvi chi è, con pericolo di far morire qualcuno prima del tempo!
            Visto che lì non si spillava nulla, lo interrogarono se nel primo sogno vi fossero anche dei chierici a far la parte delle galline, che, si abbandonassero cioè alla mormorazione. Don Bosco, che passeggiava, si fermò, girò gli occhi su gl’interlocutori e fece un risolino come per dire: – Eh! qualcuno sì; tuttavia pochi, e non aggiungo altro. – Allora gli chiesero che dicesse almeno se essi erano fra i cani muti; il Beato si tenne sulle generali, osservando che bisognava stare attenti a evitare e a far evitare le mormorazioni e in genere tutti i disordini, massime i cattivi discorsi. – Guai al prete e al chierico, disse, il quale, incaricato della vigilanza, vede i disordini e non li impedisce! Desidero si sappia e si ritenga che con la parola “mormorazioni” io non intendo solamente il tagliarci i panni addosso, ma ogni discorso, ogni motto, ogni parola, che possa in un compagno sminuire il frutto della parola di Dio udita. In generale poi intendo di dire che è un gran male starsene quieti, allorché si conosce qualche disordine, non impedendolo o non cercando che lo impedisca chi di ragione.
            Uno più arditelo mosse al Servo di Dio un’interrogazione alquanto azzardata.
            – E Don Barberis per che cosa entra nel sogno? Lei ha detto che ce n’era anche per lui, e Don Barberis stesso sembrava che si aspettasse una buona bastonata per sé. – Don Barberis era presente. Sulle prime Don Bosco accennava a non voler rispondere. Ma poi, essendo rimasti ai suoi fianchi solo alcuni preti e mostrandosi Don Barberis contento che egli palesasse il segreto, il Beato disse:
            – Eh! Don Barberis non predica abbastanza su questo punto; su quest’argomento non insiste quanto bisogna. Don Barberis confermò che né l’anno innanzi né durante l’anno in corso si era mai fermato di proposito: su quelle materie nelle sue conferenze agli ascritti; ebbe perciò molto piacere dell’osservazione e se la legò all’orecchio per l’avvenire.
            Ciò detto, salirono le scale e tutti, baciata la mano a Don Bosco, si allontanarono e andarono a riposo. Tutti, meno Don Barberis, che secondo il consueto lo accompagnò fino all’uscio della sua stanza. Don Bosco, vedendo che era ancora presto e accorgendosi che non avrebbe potuto prender sonno, perché fortemente impressionato dalle cose esposte, contro la sua costante abitudine fece entrare Don Barberis nella camera, dicendo:
            – Giacché abbiamo ancora tempo, possiamo fare due passi su e giù per la stanza.
            Così continuò a discorrere per una mezz’ora. Disse fra l’altro:
            – Io nel sogno ho veduto tutti ed ho veduto lo stato nel quale ognuno si trovava: se gallina, se cane muto, se nel numero di coloro che avvisati si misero all’opera o non si mossero. Di queste cognizioni io mi servo confessando, esortando in pubblico ed in privato, finché vedo che producono del bene. Da principio non faceva gran caso di questi sogni; ma mi accorsi che per lo più valgono a produrre l’effetto di più prediche, anzi per alcuni sono più efficaci che un corso di esercizi spirituali; perciò me ne servo. E perché no? Si legge nella Sacra Scrittura: Probate spiritus (mettete alla prova gli spiriti, 1Gv 4,1); quod bonum est tenete (tenete ciò che è buono, 1Tes 5,21). Vedo che giovano, vedo che piacciono, e perché tenerli segreti? Anzi osservo che contribuiscono ad affezionare molti alla Congregazione.
            – Ho provato io stesso, interruppe Don Barberis, di quanta utilità fossero questi sogni e quanto salutari. Anche narrati altrove, fanno del bene. Dove Don Bosco è conosciuto, si può dire che sono sogni fatti da lui; dove non è conosciuto, si possono presentare come similitudini. Oh, se sì potesse fame una raccolta, esponendoli in forma di similitudini! Sarebbero ricercati e letti da piccoli e da grandi, da giovani e da vecchi, con vantaggio delle anime loro.
            – Già, già! Farebbero del bene, ne sono intimamente convinto.
            – Ma forse, lamentò Don Barberis, nessuno li ha raccolti per iscritto.
            – Io, riprese Don Bosco, non ho tempo, e di molti non mi ricordo più.
            – Quelli dei quali io mi ricordo, replicò Don Barberis, sono i sogni che si riferivano ai progressi della Congregazione, all’estendersi del manto della Madonna…
            – Ah, sì! – esclamò il Beato. E accennò a parecchie visioni di questo genere. Presa quindi un’aria più grave e quasi conturbato proseguì:
            – Quando penso alla mia responsabilità nella posizione in cui io mi trovo, tremo tutto… Che conto tremendo avrò da rendere a Dio di tutte le grazie che ci fa per il buon andamento della nostra Congregazione!
(MB XII, 40-51)

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L’albero

Un uomo aveva quattro figli. Egli desiderava che i suoi figli imparassero a non giudicare le cose in fretta. Per questo, invitò ognuno di loro a fare un viaggio per osservare un albero che era piantato in un luogo lontano. Li mandò uno alla volta, a distanza di tre mesi uno dall’altro. I figli ubbidirono.
Quando l’ultimo rientrò, li riunì, e chiese loro di descrivere quello che avevano visto.
Il primo figlio disse che l’albero era brutto, torto e piegato.
Il secondo figlio disse, invece, che l’albero era ricoperto di gemme verdi e promesse di vita.
Il terzo figlio era in disaccordo; disse che era coperto di fiori, che avevano un profumo tanto dolce, ed erano tanto belli da fargli dire che erano la cosa più bella che avesse mai visto.
L’ultimo figlio era in disaccordo con tutti gli altri; disse che l’albero era carico di frutta, vita e generosità.
L’uomo allora spiegò ai suoi figli che tutte le risposte erano esatte poiché ognuno aveva visto solo una stagione della vita dell’albero.
Egli disse che non si può giudicare un albero, o una persona, da una sola stagione, e che la loro essenza, il piacere, l’allegria e l’amore che vengono da quelle vite possono essere misurati solo alla fine, quando tutte le stagioni sono complete.

Quando la primavera se ne parte tutti i fiori muoiono, ma quando ritorna sorridono lieti. Nei miei occhi tutto passa, sulla mia testa tutto imbianchisce.
Ma non bisogna mai credere che all’agonia della primavera tutti i fiori muoiano perché, proprio la scorsa notte, un ramo di pesco fioriva.
(anonimo del Vietnam)

Non lasciare che il dolore di una stagione distrugga la gioia di ciò che verrà dopo.
Non giudicare la tua vita in una stagione difficile. Persevera attraverso le difficoltà, e sicuramente tempi migliori verranno quando meno te lo aspetti! Vivi ogni tua stagione con gioia e con la forza della speranza.




La decima collina (1864)

Il sogno della “Decima Collina”, narrato da don Bosco nell’ottobre 1864, è una delle pagine più suggestive della tradizione salesiana. In esso il santo si ritrova in una sterminata valle colma di giovani: alcuni già all’Oratorio, altri ancora da incontrare. Guidato da una voce misteriosa, deve condurli oltre una ripida scarpata e poi attraverso dieci colline, simbolo dei dieci comandamenti, verso una luce che prefigura il Paradiso. Il carro dell’Innocenza, le schiere penitenziali e la musica celestiale disegnano un affresco educativo: mostrano la fatica di preservare la purezza, il valore del pentimento e il ruolo insostituibile degli educatori. Con questa visione profetica don Bosco anticipa l’espansione mondiale della sua opera e l’impegno di accompagnare ogni giovane sul cammino della salvezza.

                D. Bosco aveva sognato nella notte precedente. Nello stesso tempo un giovane di nome C… E… di Casal Monferrato, fece egli pure lo stesso sogno, parendogli di trovarsi con D. Bosco e di parlargli. Levatosi ne era rimasto tanto colpito che andò a raccontare le cose sognate al suo professore, il quale lo esortò di recarsi a narrarle a D. Bosco. Il giovane andò subito e s’imbatté con lui stesso che scendeva le scale, per cercarlo e narrargli la stessa cosa.
                Parve adunque a D. Bosco di trovarsi in una grandissima valle tutta piena di migliaia e migliaia di giovanetti, ma così numerosi che esso non credeva potersene trovare tanti in tutto il mondo. Fra questi giovani egli distingueva tutti quelli che furono, e quelli che sono nella casa. Tutti gli altri erano coloro che forse verranno poi. Frammisti ai giovani si vedevano i preti ed i chierici della casa.
                Una ripa altissima chiudeva da un lato quella valle. Mentre D. Bosco pensava che cosa avrebbe dovuto fare di tanti giovani, una voce gli disse:
                – Vedi quella ripa? Ebbene; bisogna che tu e i tuoi giovani ne guadagniate la cima.
                Allora D. Bosco diede ordine a tutte quelle, turbe di giovani di muoversi verso il punto indicato. I giovani si mossero e a gran corsa si slanciarono arrampicandosi su per la ripa. I preti della casa correvano anche essi all’insù spingendo avanti i giovani, rialzavano quelli che cadevano e portavano sulle spalle coloro che stanchi non potevano camminare. D. Rua colle maniche della veste rivoltate lavorava più di tutti e, prendendo i giovani a due per due, addirittura gli slanciava per aria sulla ripa, sulla quale cadendo essi restavano in piedi e poi scorrazzavano allegramente qua e là. D. Cagliero e D. Francesia correvano su e giù per le file gridando:
                – Coraggio, avanti; avanti, coraggio.
                In poco d’ora quelle schiere giovanili raggiunsero la cima della ripa; D. Bosco pure era salito e disse:
                – Ed ora che cosa faremo?
                E la voce soggiunse:
                – Tu devi valicare coi tuoi giovani queste dieci colline che vedi distendersi innanzi a te l’una dopo l’altra.
                – Ma come faranno a reggere ad un viaggio così lungo tanti giovanetti che sono così piccoli e delicati?
                – Chi non potrà andare coi suoi piedi, sarà portato; – gli fu risposto.
                Ed ecco infatti spuntare ad una estremità del colle e salire un magnifico carro. Impossibile ne è la descrizione tanto era bello, ma pure qualche cosa si può dire. Era triangolare e aveva tre ruote che si movevano per tutti i versi. Dai tre angoli partivano tre aste che venivano a congiungersi in un punto solo sopra il carro stesso, formando come un pinnacolo di pergolato. Su questo punto di congiunzione si innalzava un magnifico stendardo sul quale era scritto a caratteri cubitali: Innocentia. Una fascia poi che correva tutto intorno al carro, formava sponda e portava l’iscrizione: Adjutorio Dei Altissimi Patris et Filii et Spiritus Sancti (al riparo di Dio Altissimo, Padre e Figlio e Spirito Santo).
                Il carro, che splendeva tutto per oro e pietre preziose, si avanzò e venne a collocarsi in mezzo ai giovani. Dato il comando, molti fanciulletti vi salirono sopra. Il numero era di 500. Cinquecento appena in mezzo a tante migliaia di giovani erano ancora innocenti.
                Collocati questi sul carro D. Bosco pensava per quale via avrebbe dovuto incamminarsi, quando vide aprirsi innanzi a lui una strada larga e comoda, ma tutta sparsa di spine. Apparvero quindi all’improvviso sei giovani, già morti nell’Oratorio, vestiti di bianco, i quali inalberavano un’altra bellissima bandiera sulla quale era scritto: Poenitentia. Costoro si andarono a posare alla testa di tutte quelle falangi di giovani che dovevano mettersi in viaggio pedestri. Allora fu dato il segnale della partenza. Molti preti si slanciano al timone del carro, il quale tratto da essi incomincia a muoversi. I sei vestiti di bianco lo seguono. Dietro a loro tutto il resto della moltitudine. Con magnifica ed inesprimibile musica si intona dai giovanetti che erano sul carro il Laudate pueri Dominum (Lodate Dio voi piccoli, Ps 113,1).
                D. Bosco camminava inebbriato da quella musica celeste, quando si ricordò di voltarsi indietro, per vedere se tutti i giovani lo avevano seguito. Ma oh doloroso spettacolo! Molti erano rimasti nella valle, molti erano ritornati indietro. Don Bosco agitato da inesprimibile dolore decise di rifare il cammino già fatto per tentar di persuadere quei giovani sconsigliati, e di aiutarli a seguirlo. Ma gli venne assolutamente vietato.
                – Ma quei poverini si perdono: – esclamò egli.
                E gli venne, risposto:
                – Peggio per loro: essi furono chiamati come gli altri e non vollero seguirti. La strada da farsi l’hanno veduta e ciò basta.
                D. Bosco voleva replicare; pregò, scongiurò: tutto fa inutile:
                – L’obbedienza è anche per te! – gli fu detto. E dovette continuare il cammino.
                Non erasi ancor lenito questo dolore, quando un altro tristo accidente sopravvenne. Molti giovanetti di quelli che si trovavano sul carro a poco a poco erano caduti per terra. Di 500 appena 150 rimanevano sotto il vessillo dell’innocenza.
                Il cuore di D. Bosco scoppiava per l’insopportabile affanno. Esso sperava fosse quello un sogno, faceva tutti gli sforzi per svegliarsi, ma pur troppo si accorgeva che era una terribile realtà. Batteva le mani ed udiva il suono di esse: gemeva, ed udiva che il suo gemito risuonare per la stanza; voleva dissipare quel terribile fantasma, ma non poteva.
                – Ah miei cari giovani! egli esclamava a questo punto, narrando il sogno. Io ho conosciuto e veduto coloro che rimasero nella valle, quelli che tornarono indietro o caddero dal carro! Vi ho conosciuti tutti. Ma non dubitate; io farò ogni sforzo possibile per salvarvi. Molti di voi invitati da me a confessarsi non risposero alla chiamata! Per carità salvate le anime vostre.
                Molti dei giovanetti caduti dal carro si erano di mano in mano andati a porre tra le file di coloro che camminavano dietro la seconda bandiera. Intanto la musica del carro continuava così dolce che a poco a poco vinse il dolore di D. Bosco. Sette colline erano già valicate e giunte quelle schiere sulla ottava, entrarono in un meraviglioso paese, dove si fermarono a prendere un po’ di riposo. Le case erano di una ricchezza e bellezza indescrivibile.
                D. Bosco parlando ai giovani di questa regione soggiunse:
                – Vi dirò con Santa Teresa ciò che essa affermò delle cose del paradiso: sono cose che col parlarne si avviliscono, perché sono così belle che è inutile sforzarsi a descriverle. Quindi osserverò solamente che gli stipiti di quelle case parevano di oro, di cristallo, di diamante tutt’insieme, sicché sorprendevano, appagavano la vista infondevano allegrezza. I campi erano ripieni d’alberi sui quali si vedevano contemporaneamente fiori, bottoni, frutta matura e frutta verde. Era un incanto magnifico.
                I giovani si sparsero pel paese chi di qua e chi di là, chi per una cosa, chi per l’altra, poiché grande era la loro curiosità e il desiderio di avere di quella frutta.
                È in questo villaggio che quel giovane di Casale si imbatté in D. Bosco e tenne con lui un lungo dialogo. D. Bosco e il giovane si ricordavano perfettamente le domande fatte e le risposte avute. Singolare combinazione di due sogni.
                D. Bosco ebbe qui un’altra strana sorpresa. I suoi giovani gli apparvero ad un tratto come divenuti vecchi; senza denti, pieni di rughe in volto, coi capelli bianchi, curvi, zoppicanti, appoggiati al bastone. D. Bosco si meravigliava di questa metamorfosi, ma la voce gli disse:
                – Tu ti meravigli; ma hai da sapere che non sono già poche ore dacché sei partito dalla valle, ma sono anni ed anni. È quella musica che ti ha fatto parer corto il cammino. In prova, guarda la tua fisionomia e ti persuaderai se io dico il vero. – E a D. Bosco venne presentato uno specchio. Egli si specchiò e vide che il suo aspetto era d’uomo attempato, col volto rugoso, e coi denti guasti e pochi.
                La comitiva frattanto si rimise in cammino e i giovani a quando a quando chiedevano di fermarsi per vedere quelle nuove cose. Ma D. Bosco diceva loro:
                – Avanti, avanti: noi non abbisogniamo di nulla; non abbiamo fame, noti abbiam sete, dunque avanti.
                (In fondo lontano, sulla decima collina spuntava una luce che andava sempre crescendo come se uscisse da una stupenda porta). Ricominciò allora il canto, ma così bello che solo in Paradiso si può udire l’eguale e gustarlo. Non era musica di istrumenti, né pareva di voci umane. Era una musica impossibile a descriversi; e tanta fu la piena del giubilo che inondò l’anima di D. Bosco che svegliatosi si trovò nel suo letto.
                D. Bosco così spiegò il suo sogno:
                – La valle è il mondo. La ripa gli ostacoli per staccarsi da esso. – Il carro lo capite. – Le squadre dei giovani a piedi sono i giovani che perduta l’innocenza, si pentirono dei loro falli.
                D. Bosco aggiunse ancora che le 10 colline raffiguravano i 10 comandamenti della legge di Dio, l’osservanza dei quali conduce alla vita eterna.
                Quindi annunziò che, se facesse di bisogno era pronto a dire confidenzialmente a certi giovani che cosa facevano in quel sogno; se restarono nella valle o se caddero dal carro.
                Disceso dalla bigoncia, l’alunno Ferraris Antonio si avvicinò a lui, e gli raccontò, essendo noi presenti che intendemmo perfettamente le sue parole, come la sera precedente avesse egli sognato di trovarsi in compagnia di sua madre, la quale gli aveva domandato se a Pasqua sarebbe tornato a casa per passarvi i giorni di vacanza: esso averle risposto che prima di Pasqua sarebbe andato in paradiso. Quindi in confidenza sottovoce disse alcune altre parole nell’orecchio a D. Bosco. Ferraris Antonio morì il 16 marzo 1865.
                Noi abbiamo subito scritto il sogno, e la stessa sera 22 ottobre 1864 sul fine aggiungevamo la seguente postilla. “Io tengo per certo che D. Bosco colle sue spiegazioni cercò di coprire ciò che il sogno ha di più sorprendente, almeno per qualche circostanza. Quella dei dieci comandamenti non mi appaga. L’ottava collina sulla quale D. Bosco fa una sosta, ed egli si vede nello specchio così attempato, io credo che indichi il fine della sua vita dover succedere oltre i settanta anni. Vedremo l’avvenire”.
                Questo avvenire è dunque ora tempo passato, e noi ci siamo confermati nella nostra opinione. Il sogno indicava a Don Bosco la durata del suo vivere. Confrontiamo con questo, quello della Ruota, che noi non potemmo conoscere se non qualche anno dopo. I giri della Ruota procedono per decenni: e così pure sembra che’ abbracci simile spazio di tempo il procedere di collina in collina. Ognuna della dieci colline rappresenta dieci anni, sicché vengono a significare cento anni il massimo della vita di un uomo. Ora noi vediamo D. Bosco ancor fanciullo, nel primo decennio, incominciare la sua missione tra i compagni dei Becchi e così dar principio al suo viaggio; percorre interamente le sette colline cioè sette decenni quindi la sua età giunge a settant’anni: sale l’ottava collina e qui fa una sosta: vede case e campi meravigliosamente belli, ovvero la sua Pia Società resa grande e fruttifera dalla bontà infinita di Dio. È ancor lunga la via da percorrere sulla ottava collina e si rimette in viaggio; ma non giunge alla nona, perché si risveglia. Così egli non campò l’ottavo decennio, morendo a 72 anni e 5 mesi.
                Che ne dice il lettore? Aggiungeremo che la sera dopo Don Bosco avendo interrogato noi stessi qual fosse il nostro pensiero intorno al sogno, gli abbiamo risposto, che non riguardava solamente i giovani, ma sebbene indicava la dilatazione della Pia Società in tutto il mondo.
                – Ma che? replicò uno dei nostri confratelli; abbiamo già i collegi di Mirabello e di Lanzo e se ne aprirà qualche altro in Piemonte. Che cosa vuoi di più?
                – No; sono ben altri i destini che ci annunzia il sogno.
                E D. Bosco approvava, sorridendo, la nostra persuasione.
(MB VII, 796-802)




L’educazione al femminile con san Francesco di Sales

Il pensiero educativo di san Francesco di Sales rivela una visione profonda e innovativa del ruolo femminile nella Chiesa e nella società del suo tempo. Convinto che la formazione delle donne fosse fondamentale per la crescita morale e spirituale dell’intera comunità, il santo vescovo di Ginevra promosse un’educazione equilibrata, rispettosa della dignità femminile ma anche attenta alle fragilità. Con uno sguardo paterno e realista, seppe cogliere e valorizzare le qualità delle donne, incoraggiandole a coltivare virtù, cultura e devozione. Fondatore della Visitazione con Giovanna di Chantal, difese con vigore la vocazione femminile anche contro critiche e pregiudizi. Il suo insegnamento continua a offrire spunti attuali sull’educazione, l’amore e la libertà nella scelta della propria vita.

            In occasione del suo viaggio a Parigi nel 1619, Francesco di Sales incontrò Adrien Bourdoise, un prete riformatore del clero, che gli rimproverò di occuparsi troppo delle donne. Il vescovo gli avrebbe risposto con calma che le donne erano la metà del genere umano e che, formando buone cristiane, si avrebbero avuti giovani buoni, e con giovani buoni, buoni preti. D’altronde, san Girolamo non ha consacrato loro parecchio tempo e vari scritti? La lettura delle sue lettere è raccomandata da Francesco di Sales alla signora di Chantal, la quale vi troverà, tra l’altro, numerose indicazioni «per educare le sue figlie». Se ne dedurrà che il ruolo delle donne in ambito educativo giustificava, ai suoi occhi, il tempo e la sollecitudine ad esse dedicati.

Francesco di Sales e le donne del suo tempo
            “Bisogna aiutare il sesso femminile, disprezzato”, aveva detto un giorno il vescovo di Ginevra a Jean-François de Blonay. Per comprendere le preoccupazioni e il pensiero di Francesco di Sales conviene situarlo nella sua epoca. Occorre dire che un certo numero di sue affermazioni sembrano ancora molto legate alla mentalità corrente. Nella donna del suo tempo deplorava «questa femminile tenerezza con sé stesse», la facilità «nel compatirsi e nel desiderare di essere compatite», una maggiore propensione rispetto agli uomini «a dar credito ai sogni, ad aver paura degli spiriti e ad essere credulone e superstiziose», e soprattutto, gli «attorcigliamenti dei loro vanitosi pensieri». Tra i consigli dati alla signora di Chantal attinenti all’educazione delle figlie, scriveva senza esitazione: “Togliete loro la vanità dall’anima: nasce quasi assieme al sesso”.
            Tuttavia, le donne sono dotate di grandi qualità. Scriveva a proposito della signora di La Fléchère che aveva appena perso il marito: “Se avessi soltanto questa perfetta pecorella nel mio ovile, non mi sarei angustiato d’essere pastore di questa afflitta diocesi. Dopo la signora di Chantal, non so se ho mai incontrato un’anima più forte in un corpo femminile, uno spirito più ragionevole e un’umiltà più sincera”. Le donne non sono affatto le ultime nella pratica delle virtù: “Non abbiamo forse visto molti grandi teologi che hanno detto cose meravigliose sulle virtù, non però per praticarle, mentre, al contrario, ci sono tante sante donne che non sanno parlare di virtù, ma che tuttavia conoscono molto bene come praticarle?”.
            Sono le donne sposate quelle più degne di ammirazione: «Oh mio Dio! Come sono gradite a Dio le virtù di una donna sposata; infatti devono essere forti ed eccellenti per poter durare in tale vocazione!». Nella lotta per conservare la castità, riteneva che «le donne sovente hanno combattuto in maniera più coraggiosa rispetto agli uomini».
            Fondatore di una congregazione di donne assieme a Giovanna di Chantal, fu in costante relazione con le prime religiose. Accanto a lodi, incominciarono a piovere le critiche. Spinto in queste trincee, il fondatore dovette difendersi e difenderle, non soltanto in quanto religiose, ma anche in quanto donne. In un documento che doveva servire come prefazione delle Costituzioni delle visitandine, troviamo la vena polemica di cui sapeva dar prova, dirigendosi non più contro «eresiarchi», ma contro «censori» malevoli e ignoranti:

La presunzione e inopportuna arroganza di parecchi figli di questo secolo, che biasimano ostentatamente tutto ciò che non è secondo il loro spirito […], mi offre l’occasione, meglio mi costringe a stendere questa Prefazione, mie carissime Suore, per armare e difendere la vostra santa vocazione contro le punte dello loro lingue pestifere; affinché le anime buone e pie, che senza dubbio sono legate al vostro  amabile e onorato Istituto, trovino qui come respingere le frecce scagliate dalla temerità di questi bizzarri e insolenti censori.

            Prevedendo forse che un tale preambolo rischiava di danneggiare la causa, il fondatore della Visitazione scrisse una seconda edizione addolcita, allo scopo di mettere in luce la fondamentale uguaglianza dei sessi. Dopo aver citato la Genesi, questa volta ne faceva il seguente commento: “La donna, dunque, non meno dell’uomo, ha la grazia di essere stata fatta a immagine di Dio; pari onore nell’uno e nell’altro sesso; le loro virtù sono uguali”.

L’educazione delle figlie
            Il nemico del vero amore è la “vanità”. Questo era il difetto che Francesco di Sales, come peraltro i moralisti e i pedagoghi del suo tempo, temeva di più nell’educazione delle giovani. Ne rileva parecchie manifestazioni. Guardate «queste signorine di mondo, che essendosi ben sistemate, vanno in giro gonfie d’orgoglio e di vanità, con la testa alta, gli occhi aperti, ansiose d’essere notate dai mondani».
            Il vescovo di Ginevra si diverte un poco nel prendere in giro queste «ragazze di società», che «portano cappelli sparsi e incipriati», con la testa «ferrata come si ferrano gli zoccoli dei cavalli», tutte «impennacchiate e infiorate quanto non è possibile dire» e «cariche di fronzoli». Ci sono di quelle che «indossano vesti che stringono e danno loro molto fastidio, e questo per far vedere che sono snelle»; ecco una vera “pazzia che per lo più le rende incapaci di fare alcunché”.
            Che pensare allora di certune bellezze artificiali trasformate in «boutiques di vanità?». Francesco di Sales preferisce una «faccia limpida e pulita», desidera «che non ci sia nulla di affettato, perché tutto ciò che è imbellettato dispiace». Occorre allora condannare ogni «artificio»? Ammette volentieri che «nel caso di qualche difetto di natura, bisogna correggerlo in modo da vederne la correzione, ma spoglia d’ogni artificio».
            E il profumo? si chiedeva il predicatore parlando della Maddalena. «È una cosa eccellente – risponde –; anche colui che è profumato ne percepisce qualcosa di eccellente»; aggiungendo, da buon conoscitore, che «il muschio della Spagna gode di grande stima nel mondo». Nel capitolo sulla «decenza degli abiti», permette che le giovani abbiano vestiti con ornamenti vari, «perché possono liberamente desiderare di essere gradevoli a molti, ma con l’unico scopo di guadagnarsi un giovane in vista di un santo matrimonio». Chiudeva con questa indulgente osservazione: «Che volete? È pur conveniente che le signorine siano un po’ carine».
            È opportuno aggiungere che la lettura della Bibbia l’aveva preparato a non fare il muso duro davanti alla bellezza femminile. Nell’amante del Cantico dei cantici, ammirava «la notevole bellezza del suo viso simile a un bouquet di fiori». Descrive Giacobbe che, incontrando Rachele presso il pozzo, «versava lacrime di gioia scorgendo una vergine che gli piaceva e l’incantava per la grazia del volto». Amava anche raccontare la storia di santa Brigida, nata in Scozia, un paese dove si ammirano «le più belle creature che uno possa vedere»; era «una giovane oltremodo avvenente», ma la sua bellezza era «naturale», precisa il nostro autore.
            L’ideale della bellezza salesiana si chiama «buona grazia», che designa non soltanto «la perfetta armonia delle parti che fa essere bello», ma anche la «grazia dei movimenti, dei gesti e delle azioni, che è come l’anima della vita e della bellezza», ossia la bontà di cuore. La grazia esige «semplicità e modestia». Ora, la grazia è una perfezione che deriva dall’intimo della persona. È la bellezza unita alla grazia che fa di Rebecca l’ideale femminile della Bibbia: ella era «così bella e graziosa presso il pozzo dove attingeva l’acqua per abbeverare il gregge», e la sua «familiare bontà» le ispirava, inoltre, di dar da bere non soltanto ai servi di Abramo, ma anche ai suoi cammelli.

Istruzione e preparazione alla vita
            Ai tempi di san Francesco di Sales, le donne avevano poche possibilità di accedere a studi superiori. Le ragazze imparavano ciò che udivano da parte dei loro fratelli e, quando la famiglia ne aveva la possibilità, frequentavano un monastero. La lettura era certamente più frequente della scrittura. I collegi erano riservati ai ragazzi, di conseguenza, imparare il latino, lingua della cultura, era praticamente interdetto alle ragazze.
            Bisogna credere che Francesco di Sales non era contrario al fatto che le donne potessero diventare persone colte, ma a condizione che non cadessero nella pedanteria e nella vanità. Ammirava santa Caterina che era «molto erudita, ma umile in tanta scienza». Tra le interlocutrici del vescovo di Ginevra, la signora di La Fléchère aveva studiato latino, italiano, spagnolo e le belle arti, ma era un’eccezione.
            Per trovare loro un posto nella vita, sia in ambito sociale che in quello religioso, a un certo momento le giovani avevano spesso bisogno di un aiuto particolare. Georges Rolland riferisce che il vescovo si occupò personalmente di parecchi casi difficili. Una donna di Ginevra, con tre figlie, fu assistita generosamente dal vescovo, «con denaro e crediti»; «collocò una di dette figlie come apprendista presso un’onesta signora della città, pagandole la pensione per sei anni, in grano e in denaro». Donò pure 500 fiorini per il matrimonio della figlia di uno stampatore di Ginevra.
            L’intolleranza religiosa del tempo talvolta provocava dei drammi, ai quali Francesco di Sales cercava di porre rimedio. Marie-Judith Gilbert, educata a Parigi dai genitori negli «errori di Calvino», scoprì a diciannove anni il libro della Filotea, che osava leggere soltanto in segreto. Ne prese in simpatia l’autore, di cui aveva sentito parlare. Sorvegliata strettamente dal padre e dalla madre, riuscì a farsi prelevare in carrozza, si fece istruire nella religione cattolica ed entrò tra le suore della Visitazione.
            Il ruolo sociale delle donne rimaneva ancora piuttosto limitato. Francesco di Sales non del tutto contrario all’intervento delle donne nella vita pubblica. Scriveva in questi termini, ad esempio, a una donna portata a intervenire in ambito pubblico, a proposito e a sproposito:

Il vostro sesso e la vostra vocazione vi consentono di reprimere il male esterno a voi, ma solo se ciò è ispirato dal bene e compiuto con rimostranze semplici, umili e caritatevoli nei confronti dei trasgressori e avvertendone i superiori nei limiti del possibile.

            D’altra parte, è significativo che una contemporanea di Francesco di Sales, la signorina di Gournay, una prima femminista ante litteram, una intellettuale e autrice di testi polemici come il suo trattato L’uguaglianza degli uomini e delle donne e La lagnanza delle donne, gli abbia manifestato grande ammirazione. Costei si accanì durante tutta la sua vita a dimostrare questa uguaglianza, raccogliendo tutte le testimonianze possibili in merito, senza dimenticare quella del «buono e santo vescovo di Ginevra».

Educazione all’amore
            Francesco di Sales ha parlato molto dell’amore di Dio, ma è stato anche assai attento alle manifestazioni dell’amore umano. Per lui, infatti, l’amore è uno, anche se il suo «oggetto» è diverso e disuguale. Per spiegare l’amore di Dio non ha saputo fare meglio se non partendo dall’amore umano.
            L’amore nasce dalla contemplazione del bello, e il bello si lascia percepire dai sensi, soprattutto dagli occhi. Si stabilisce un fenomeno interattivo tra lo sguardo e la bellezza: «Il contemplare la bellezza ce la fa amare, e l’amore ce la fa contemplare». L’odorato reagisce allo stesso modo; infatti, «i profumi esercitano l’unico loro potere di attrazione con la loro soavità».
            Dopo l’intervento dei sensi esterni subentra quello dei sensi interni, la fantasia, l’immaginazione, che esaltano e trasfigurano il reale: «In forza di questo reciproco movimento dell’amore verso la vista e della vista verso l’amore, allo stesso modo che l’amore rende più splendente la bellezza della cosa amata, così la vista della cosa amata rende l’amore più innamorato e piacevole”. Si comprende allora perché «coloro che hanno dipinto Cupido ne hanno bendato gli occhi, affermando che l’amore è ceco». A questo punto sopraggiunge l’amore-passione: esso fa «ricercare il dialogo, e il dialogo spesso nutre ed accresce l’amore»; inoltre «desidera il segreto, e quando gli innamorati non hanno nessun segreto da dirsi, si compiacciono talvolta a dirselo segretamente»; e infine induce a «proferire delle parole che, certo, sarebbero ridicole se non sgorgassero da un cuore appassionato».
            Ora, questo amore-passione che forse si riduce soltanto ad «amorucci», a «galanterie», è esposto a varie peripezie, a tal punto da indurre l’autore della Filotea a intervenire con una serie di considerazioni e di avvertimenti a proposito di «amicizie frivole che si allacciano fra persone di diverso sesso e senza intenzione di matrimonio». Spesso non sono altro che «aborti o, meglio, parvenze di amicizia».
            Francesco di Sales si è espresso anche in tema di baci, chiedendosi per esempio con gli antichi commentatori, come mai Rachele aveva permesso a Giacobbe di abbracciarla. Egli spiega che ci sono due specie di bacio: cattivo l’uno, buono l’altro. I baci che si scambiano facilmente fra loro i giovani e che all’inizio non sono cattivi, lo possono diventare in seguito a causa della fragilità umana. Ma il bacio però può essere anche buono. In determinati luoghi è voluto dal costume. «Il nostro Giacobbe abbraccia molto innocentemente la sua Rachele; Rachele accetta questo bacio di cortesia da parte di quest’uomo dal carattere buono e dal viso pulito». «Oh! – concludeva Francesco di Sales – datemi persone che abbiano l’innocenza di Giacobbe e di Rachele e permetterò loro di baciarsi».
            Nella questione della danza e del ballo, anch’essa all’ordine del giorno, il vescovo di Ginevra evitava i comandi assoluti, come facevano i rigoristi del tempo, tanto cattolici che protestanti, mostrandosi comunque molto prudente. Gli si è perfino rinfacciato aspramente di aver scritto che «le danze e i balli di per sé sono cose indifferenti». Come per certi giochi, anch’essi diventano pericolosi quando vi ci si affeziona talmente da non potersene più distaccare: il ballo «bisogna farlo per ricreazione e non per passione; per poco tempo e non fino a stancarsi e a stordirsi». Ciò che è più pericoloso sta nel fatto che questi passatempi diventano spesso occasioni che provocano «dispute, invidie, beffe, amorazzi».

La scelta della forma di vita
            Quando la figlioletta è diventata grande, arriva «il giorno in cui bisognerà parlarle, intendo riferirmi a una parola decisiva, quella in cui si dice alle giovani di volerle maritare». Uomo del suo tempo, Francesco di Sales condivideva in larga misura l’idea che attribuiva ai genitori un rilevante compito nel determinare la vocazione dei figli, sia al matrimonio che alla vita religiosa. «D’ordinario non si sceglie il proprio principe o il proprio vescovo, il proprio padre o la propria madre, e neppure spesse volte il proprio marito», costatava l’autore della Filotea. Tuttavia, afferma chiaramente che «le figlie non possono essere date in sposa, fintantoché esse dicono di no».
            La prassi corrente è spiegata bene in questo passo della Filotea: «Perché un matrimonio si faccia veramente, tre cose sono necessarie nei riguardi della giovane che si vuole dare in sposa: anzitutto che le si faccia la proposta; poi, che lei la gradisca; in terzo luogo che acconsenta». Siccome le ragazze si sposavano molto sovente assai giovani, non ci si può meravigliare della loro immaturità affettiva.  «Le ragazze sposate molto giovani amano realmente i loro sposi, se ne hanno, ma non cessano di amare anche gli anelli, i monili, le amiche con le quali si divertono un mondo a giocare, a ballare e a fare pazzie».
            Il problema della libertà di scegliere si poneva ugualmente per i fanciulli che si voleva destinare alla vita religiosa. La Franceschetta, figlia della baronessa di Chantal, doveva essere collocata in un monastero dalla madre desiderosa di vederla religiosa, ma il vescovo intervenne: «Se Franceschetta vuole di buon grado essere religiosa, bene; in caso contrario, non approvo che se ne anticipi il volere con decisioni non sue». Non converrebbe d’altronde che la lettura delle lettere di san Girolamo orienti troppo la madre nella via della severità e della costrizione. Perciò le consiglia di «usare moderazione» e di procedere con «inspirazioni soavi».
            Certe giovani esitano di fronte alla vita religiosa e al matrimonio, senza mai giungere a decidersi. Francesco di Sales incoraggiò la futura signora de Longecombe a fare il passo del matrimonio, che volle celebrare egli stesso. Fece quest’opera buona, dirà in seguito il marito, alla domanda della moglie «che desiderava sposarsi per le mani del vescovo, e senza tale presenza, non avrebbe mai potuto fare questo passo, a causa della grande avversione che nutriva nei confronti del matrimonio».

Le donne e la «devozione»
            Estraneo a ogni femminismo ante litteram, Francesco di Sales era consapevole dell’eccezionale apporto della femminilità sul piano spirituale. Si è fatto notare che favorendo la devozione nelle donne, l’autore della Filotea ne ha favorito, congiuntamente, la possibilità di una maggiore autonomia, una «vita privata al femminile».
            Non meraviglia che le donne abbiano disposizioni particolari per la «devozione». Dopo aver enumerato un certo numero di dottori ed esperti, poteva scrivere nella prefazione del Teotimo: «Ma affinché si sapesse che questo tipo di scritti si redigono meglio con la devozione degli innamorati che con la dottrina dei sapienti, lo Spirito santo ha fatto sì che numerose donne compissero meraviglie al riguardo. Chi ha mai manifestato meglio le celestiali passioni dell’amore divino di santa Caterina da Genova, di sant’Angela da Foligno, di santa Caterina da Siena, di santa Matilde?». È noto l’influsso della madre di Chantal nella redazione del Teotimo, e in particolare del libro nono, «il vostro libro nono dell’Amore di Dio», secondo l’espressione dell’autore.
            Le donne potevano immischiarsi in problemi concernenti la religione? «Ecco dunque questa donna che fa la teologhessa», dice Francesco di Sales parlando della Samaritana del Vangelo. Si deve necessariamente scorgervi una disapprovazione nei confronti delle teologhe? Non è certo. Tanto più che afferma con forza: «Vi dico che una donna semplice e povera può amare Dio quanto un dottore in teologia». La superiorità non abita sempre là dove uno pensa.
            Ci sono donne superiori agli uomini, incominciando dalla Santa Vergine. Francesco di Sales rispetta sempre il principio dell’ordine stabilito dalle leggi religiose e civili del suo tempo, verso le quali predica l’obbedienza, ma la sua prassi testimonia una grande libertà di spirito. Così, per il governo dei monasteri femminili, riteneva che era meglio per loro essere sotto la giurisdizione del vescovo piuttosto dipendere dai loro fratelli religiosi, i quali rischiavano di pesare su di loro in maniera eccessiva.
            Le visitandine, da parte loro, non dipenderanno da alcun ordine maschile e non avranno nessun governo centrale, essendo ogni monastero sotto la giurisdizione del vescovo del luogo. Egli osò qualificare col titolo inatteso di «apostole» le suore della Visitazione in partenza per una nuova fondazione.
            Se interpretiamo correttamente il pensiero del vescovo di Ginevra, la missione ecclesiale delle donne consiste nell’annunciare non la parola di Dio, ma «la gloria di Dio» con la bellezza della loro testimonianza. I cieli, prega il salmista, narrano la gloria di Dio soltanto con il loro splendore. «La bellezza del cielo e del firmamento invita gli uomini ad ammirare la grandezza del Creatore e ad annunciare le sue meraviglie»; e «non è forse una meraviglia più grande vedere un’anima ornata di molte virtù, rispetto a un cielo trapuntato di stelle?».




Il volontariato missionario cambia la vita dei giovani in Messico

Il volontariato missionario rappresenta un’esperienza che trasforma profondamente la vita dei giovani. In Messico, l’Ispettoria Salesiana di Guadalajara ha sviluppato da decenni un percorso organico di Volontariato Missionario Salesiano (VMS) che continua a incidere in modo duraturo nel cuore di molti ragazzi e ragazze. Grazie alle riflessioni di Margarita Aguilar, coordinatrice del volontariato missionario a Guadalajara, condivideremo il cammino riguardante le origini, l’evoluzione, le fasi di formazione e le motivazioni che spingono i giovani a mettersi in gioco per servire le comunità in Messico.

Origini
Il volontariato, inteso come impegno a favore degli altri nato dall’esigenza di aiutare il prossimo tanto sul piano sociale quanto su quello spirituale, si rafforzò nel tempo con il contributo di governi e ONG per sensibilizzare sui temi della salute, dell’istruzione, della religione, dell’ambiente e altro ancora. Nella Congregazione Salesiana, lo spirito volontario è presente fin dalle origini: Mamma Margherita, accanto a Don Bosco, fu tra i primi “volontari” nell’Oratorio, impegnandosi nell’assistenza ai giovani per compiere la volontà di Dio e contribuire alla salvezza delle loro anime. Già il Capitolo Generale XXII (1984) iniziò a parlare esplicitamente di volontariato, e i capitoli successivi insistettero su questo impegno come dimensione inscindibile della missione salesiana.

In Messico i Salesiani sono suddivisi in due Ispettorie: Città del Messico (MEM) e Guadalajara (MEG). È proprio in quest’ultima che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, si è strutturato un progetto di volontariato giovanile. L’Ispettoria di Guadalajara, fondata 62 anni fa, offre da quasi 40 anni la possibilità a giovani desiderosi di sperimentare il carisma salesiano di dedicare un periodo di vita al servizio delle comunità, soprattutto nelle zone di frontiera.

Nel 24 ottobre 1987 l’ispettore inviò un gruppo di quattro giovani insieme a salesiani nella città di Tijuana, in una zona di confine in forte espansione salesiana. Fu l’avvio del Volontariato Giovanile Salesiano (VJS), che si sviluppò gradualmente e si organizzò in modo sempre più strutturato.

L’obiettivo iniziale era proposto ai giovani di circa 20 anni, disponibili a dedicare da uno a due anni per costruire i primi oratori nelle comunità di Tijuana, Ciudad Juárez, Los Mochis e altre località al nord. Molti ricordano i primi giorni: paletta e martello in mano, convivenza in case semplici con altri volontari, pomeriggi trascorsi con bambini, adolescenti e giovani del quartiere giocando nel terreno dove sarebbe sorto l’oratorio. Mancava talvolta il tetto, ma non mancavano la gioia, il senso di famiglia e l’incontro con l’Eucaristia.

Quelle prime comunità di salesiani e volontari portarono nei cuori l’amore per Dio, per Maria Ausiliatrice e per Don Bosco, manifestando spirito pionieristico, ardore missionario e cura totale per gli altri.

Evoluzione
Con il crescere dell’Ispettoria e della Pastorale Giovanile, emerse la necessità di itinerari formativi chiari per i volontari. L’organizzazione si rafforzò attraverso:
Questionario di candidatura: ogni aspirante volontario compilava una scheda e rispondeva a un questionario che delineava le sue caratteristiche umane, spirituali e salesiane, avviando il processo di crescita personale.

Corso di formazione iniziale: laboratori teatrali, giochi e dinamiche di gruppo, catechesi e strumenti pratici per le attività sul campo. Prima della partenza, i volontari si riunivano per concludere la formazione e ricevere l’invio nelle comunità salesiane.

Accompagnamento spirituale: si invitava il candidato a farsi accompagnare da un salesiano nella sua comunità di origine. Per un certo periodo, la preparazione fu svolta insieme agli aspiranti salesiani, rafforzando l’aspetto vocazionale, anche se poi questa prassi subì modifiche in base all’animazione vocazionale dell’Ispettoria.

Incontro ispettoriale annuale: ogni dicembre, in prossimità della Giornata Internazionale del Volontario (5 dicembre), i volontari si incontrano per valutare l’esperienza, riflettere sul cammino di ciascuno e consolidare i processi di accompagnamento.

Visite alle comunità: l’équipe di coordinamento visita regolarmente le comunità in cui operano i volontari, per sostenere non solo i giovani stessi, ma anche salesiani e laici della comunità educativa-pastorale, rafforzando le reti di sostegno.

Progetto di vita personale: ogni candidato elabora, con l’aiuto dell’accompagnatore spirituale, un progetto di vita che aiuti a integrare la dimensione umana, cristiana, salesiana, vocazionale e missionaria. È previsto un periodo minimo di sei mesi di preparazione, con momenti online dedicati alle varie dimensioni.

Coinvolgimento delle famiglie: incontri informativi con i genitori sui processi del VJS, per far comprendere il percorso e rafforzare il supporto familiare.

Formazione continua durante l’esperienza: ogni mese viene affrontata una dimensione (umana, spirituale, apostolica, ecc.) attraverso materiali di lettura, riflessione e lavoro di approfondimento in corso d’opera.

Post-volontariato: dopo la conclusione dell’esperienza, si organizza un incontro di chiusura per valutare l’esperienza, progettare i passi successivi e accompagnare il volontario nel reinserimento nella comunità di origine e nella famiglia, con fasi in presenza e online.

Nuove tappe e rinnovamenti
Recentemente, l’esperienza ha assunto il nome di Volontariato Missionario Salesiano (VMS), in linea con l’enfasi della Congregazione sulla dimensione spirituale e missionaria. Alcune novità introdotte:

Pre-volontariato breve: durante le vacanze scolastiche (dicembre-gennaio, Settimana Santa e Pasqua, e soprattutto estate) i giovani possono sperimentare per brevi periodi la vita in comunità e l’impegno di servizio, per farsi un primo “assaggio” dell’esperienza.

Formazione all’esperienza internazionale: si è istituito un processo specifico per preparare i volontari a vivere l’esperienza fuori dai confini nazionali.

Maggiore enfasi sull’accompagnamento spirituale: non più solo “inviare a lavorare”, ma porre al centro l’incontro con Dio, affinché il volontario scopra la propria vocazione e missione.

Come sottolinea Margarita Aguilar, coordinatrice del VMS a Guadalajara: “Un volontario ha bisogno di avere le mani vuote per poter abbracciare la sua missione con fede e speranza in Dio.”

Motivazioni dei giovani
Alla base dell’esperienza VMS c’è sempre la domanda: “Qual è la tua motivazione per diventare volontario?”. Si possono individuare tre gruppi principali:

Motivazione operativa/pratica: chi crede di svolgere attività concrete legate alle proprie competenze (insegnare in una scuola, servire in mensa, animare un oratorio). Spesso scopre che il volontariato non è solo lavoro manuale o didattico e può restare deluso se si aspettava un’esperienza meramente strumentale.

Motivazione legata al carisma salesiano: ex-fruitori di opere salesiane che desiderano approfondire e vivere più a fondo il carisma, immaginando un’esperienza intensa come un lungo incontro festivo del Movimento Giovanile Salesiano, ma per un periodo prolungato.

Motivazione spirituale: chi intende condividere la propria esperienza di Dio e scoprirlo negli altri. Talvolta però questa “fedeltà” è condizionata da aspettative (es. “sì, ma solo in questa comunità” o “sì, ma se posso tornare per un evento familiare”), e serve aiutare il volontario a maturare il “sì” in modo libero e generoso.

Tre elementi chiave del VMS
L’esperienza di Volontariato Missionario Salesiano si articola su tre dimensioni fondamentali:

Vita spirituale: Dio è il centro. Senza preghiera, sacramenti e ascolto dello Spirito, l’esperienza rischia di ridursi a semplice impegno operativo, stancando il volontario fino all’abbandono.

Vita comunitaria: la comunione con i salesiani e con gli altri membri della comunità rafforza la presenza del volontario presso bambini, adolescenti e giovani. Senza comunità non c’è sostegno nei momenti di difficoltà né contesto per crescere insieme.

Vita apostolica: la testimonianza gioiosa e la presenza affettiva tra i giovani evangelizza più di qualsiasi attività formale. Non si tratta solo di “fare”, ma di “essere” sale e luce nel quotidiano.

Per vivere pienamente queste tre dimensioni, serve un percorso di formazione integrale che accompagni il volontario dall’inizio alla fine, abbracciando ogni aspetto della persona (umano, spirituale, vocazionale) secondo la pedagogia salesiana e il mandato missionario.

Il ruolo della comunità di accoglienza
Il volontario, per essere strumento autentico di evangelizzazione, ha bisogno di una comunità che lo sostenga, ne sia esempio e guida. Allo stesso modo, la comunità accoglie il volontario per integrarlo, sostenendolo nei momenti di fragilità e aiutandolo a liberarsi da legami che ostacolano la dedizione totale. Come evidenzia Margarita: “Dio ci ha chiamati ad essere sale e luce della Terra e molti dei nostri volontari hanno trovato il coraggio di prendere un aereo lasciandosi alle spalle la famiglia, gli amici, la cultura, il loro modo di vivere per scegliere questo stile di vita incentrato sull’essere missionari.”

La comunità offre spazi di confronto, preghiera comune, accompagnamento pratico ed emotivo, affinché il volontario possa restare saldo nella sua scelta e portare frutto nel servizio.

La storia del volontariato missionario salesiano a Guadalajara è un esempio di come un’esperienza possa crescere, strutturarsi e rinnovarsi imparando dagli errori e dai successi. Ponendo sempre al centro la motivazione profonda del giovane, la dimensione spirituale e comunitaria, si offre un percorso capace di trasformare non solo le realtà servite, ma anche la vita dei volontari stessi.
Ci dice Margarita Aguilar: “Un volontario ha bisogno di avere le mani vuote per poter abbracciare la sua missione con fede e speranza in Dio.”

Ringraziamo Margarita per le sue preziose riflessioni: la sua testimonianza ci ricorda che il volontariato missionario non è un mero servizio, ma un cammino di fede e crescita che tocca la vita dei giovani e delle comunità, rinnovando la speranza e il desiderio di donarsi per amore di Dio e del prossimo.