Don Bosco e le sue croci quotidiane

La vita di don Bosco ha avuto delle grandi sofferenze ma furono da lui portate con eroica umiltà e pazienza. Qui vogliamo, invece, parlare di croci quotidiane, più passeggere di quelle ma non meno pesanti. Si tratta di spine che egli incontrò sul cammino ad ogni piè sospinto, in realtà spine pungenti alla sua coscienza retta ed al suo cuore sensibile, che avrebbero potuto scoraggiare chiunque meno paziente di lui. Porteremo solo alcuni esempi di fastidi di carattere prevalentemente finanziario, che egli ebbe ad avere per colpa altrui.
Scrivendo il 25 aprile del 1876 una lettera da Roma a Don Michele Rua, egli diceva fra l’altro: «Quante cose, quanti carrozzini fatti e in corso da farsi. Sembrano favole!» Qui il termine “carrozzini” è un piemontesismo usato da Don Bosco per indicare angherie altrui che gli procurarono oneri gravi e inaspettati, di cui egli non era stato la causa ma la vittima.

Tre casi significativi
Il proprietario di un pastificio a vapore, certo Avv. Luigi Succi di Torino, uomo molto conosciuto per le sue opere di beneficenza, un giorno pregò Don Bosco di prestargli la sua firma in un’operazione bancaria per ritirare 40.000 lire. Trattandosi di un uomo ricco da cui aveva ricevuto non pochi benefici, Don Bosco vi si arrese. Ma tre giorni dopo il Succi morì, la cambiale scadde e Don Bosco mandò ad avvisare gli eredi dell’impegno del loro defunto.
Testificò il Card. G. Cagliero: «Eravamo a cena quando entra Don Rua e dice a Don Bosco che gli eredi non sanno né vogliono sapere di cambiali. Io sedevo al fianco di Don Bosco. Egli stava mangiando la minestra e vidi che tra un cucchiaio e l’altro (si noti che era il mese di gennaio e il refettorio non aveva riscaldamento), gli cadevano dalla fronte nel piatto gocce di sudore, ma senz’affanno e senza interrompere la sua modesta refezione».
Non ci fu verso alcuno di far intendere ragioni a quegli eredi, e Don Bosco dovette pagare lui. Solo dopo circa dieci anni riebbe quasi intera la somma assicurata con l’avallo della sua firma.

Un’altra opera di carità gli costò pure molto cara per le molestie che gli procurò. Un certo Giuseppe Rua, torinese, aveva inventato un apparecchio con il quale elevare in chiesa l’ostensorio sopra il tabernacolo dell’altare e poi abbassarlo nuovamente sulla mensa facendo nello stesso tempo scendere e poi risalire la croce. Ciò avrebbe evitato i rischi che il sacerdote incorreva nel salire sulla scaletta per compiere tale funzione. Sembrava davvero quello un mezzo più semplice e più sicuro per l’esposizione del Santissimo. Per favorirlo Don Bosco inviò i disegni alla Sacra Congregazione dei Riti, raccomandando l’iniziativa. Ma la Congregazione non approvò l’invenzione e non voleva neppure restituire i disegni, adducendo il motivo che tale era la prassi in simili casi. Infine poi si fece un’eccezione per lui onde liberarlo da più gravi molestie. Ma il Sig. Rua, vista la non piccola perdita della sua industria, ne incolpò Don Bosco, gli intentò lite e pretendeva che dal Tribunale egli venisse obbligato a sborsagli una grossa indennità. Per fortuna il magistrato risultò poi di ben diverso avviso. Ma intanto durante il lungo corso della lite, la sofferenza di Don Bosco non fu cosa da poco.

Una terza molestia ebbe origine dalla carità di Don Bosco. Egli aveva ideato una questua speciale nell’inverno 1872-1873. Quell’inverno fu particolarmente duro date le già gravi difficoltà finanziarie pubbliche. Don Bosco, per procurare mezzi di sussistenza alla sua opera di Valdocco che allora contava circa 800 giovani convittori, scrisse una circolare spedita in busta chiusa a potenziali contribuenti, invitandoli ad acquistare biglietti da dieci lire ciascuno a titolo di elemosina e mettendo a premio per sorteggio una pregevole riproduzione della Madonna di Foligno del Raffaello.

Croci che ornano la capella Pinardi

In questa iniziativa la pubblica autorità vide una violazione della legge che proibiva lotterie pubbliche e citò Don Bosco in giudizio. Questi, interrogato. protestò che quella lotteria non aveva carattere speculativo ma consisteva in un semplice appello alla carità cittadina, accompagnato da un piccolo attestato di riconoscenza. La causa si trascinò molto a lungo e si chiuse solo nel 1875 con la sentenza della Corte d’Appello che condannava «il sacerdote cavaliere Don Giovanni Bosco» a una forte multa per contravvenzione alla legge sulle lotterie. Pur non dubitandosi che il fine da lui propostosi era lodevole, la sua buona fede non poteva esimerlo dalla pena, bastando il fatto materiale a stabilire la contravvenzione anche perché «avrebbe potuto trascendersi il fine che egli con ciò intendeva»!
Questa diffida spinse Don Bosco ad un ultimo tentativo. Ricorse al Re Vittorio Emanuele II, implorando in virtù di grazia sovrana il condono a favore dei suoi giovani sui quali sarebbero cadute le conseguenze della condanna. Ed il Sovrano benignamente annuì, accordando la grazia. La concessione della grazia cadde in un momento in cui Don Bosco era, tra l’altro, tutto ingolfato nelle spese per la sua prima spedizione di Missionari Salesiani in America. Ma nel frattempo quanta trepidazione!
Quantunque Don Bosco, per amor di pace, abbia sempre cercato di evitare liti in tribunale, ne dovette pur sostenere ottenendo solo a volte completa assoluzione. «Summum jus summa iniuria», diceva Cicerone, e cioè il soverchio rigore nel giudicare spesso è una grande ingiustizia.

Il consiglio del Santo
Don Bosco era cosi alieno dalle questioni e dalle liti che lasciò scritto nel suo cosiddetto Testamento Spirituale:
Cogli esterni bisogna tollerare molto, e sopportare anche del danno piuttosto che venire a questioni.
Con le autorità civili ed ecclesiastiche si soffra quanto si può onestamente, ma non si venga a questioni davanti a tribunali laici. Siccome poi malgrado i sacrifici ed ogni buon volere talvolta si devono sostenere questioni e liti, così io consiglio e raccomando che si rimetta la vertenza ad uno o due arbitri con pieni poteri, rimettendo la vertenza a qualunque loro parere.
In questo modo è salvata la coscienza e si mette termine ad affari, che ordinariamente sono assai lunghi e dispendiosi e nei quali difficilmente si mantiene la pace e la carità cristiana
“.




Don Bosco, La Salette, Lourdes

In questo mese che ci ricorda le apparizioni di Lourdes, ci permettiamo di cogliere l’occasione per puntualizzare l’errore in cui, qualche tempo fa, è caduto l’autore di un’anti-agiografia di don Bosco nel suo tentativo di ridicoleggiare la divozione a Maria Ausiliatrice.
Scrisse, adunque quel saggista:
«In tanta impregnazione di culto mariano, di storia quasi sub specie Mariae, stupisce non trovare tracce, nella vita di don Bosco, di fatti così importanti come le apparizioni de La Salette (1846) e di Lourdes (1858); eppure tutto quello che accadeva in Francia era a Torino risentitissimo, molto più di quel che si srotolava in Italia. Non capisco questa assenza d’echi. Era il mantello di Maria Ausiliatrice e della Consolata a formare come una gelosa barriera contro altre protezioni e discese della stessa Figura?».

Ciò che qui davvero stupisce è la sorpresa di uno scrittore non ignaro delle fonti salesiane, perché don Bosco parlò e scrisse ripetutamente delle apparizioni di La Salette e di Lourdes. Nel 1871, e cioè ben tre anni dopo la consacrazione della chiesa di Maria Ausiliatrice e del relativo impegno di don Bosco per diffonderne la divozione, egli stesso compilò e pubblicò come fascicolo di maggio delle sue «Letture Cattoliche», il libretto intitolato: Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette. In questo volumetto di 92 pagine, che ebbe una terza edizione nel 1877, don Bosco descrive l’Apparizione in tutti i suoi particolari, per passare poi ad altri fatti prodigiosi attribuiti alla Vergine.
Due anni dopo, nel 1873, pubblicava, come fascicolo di dicembre delle stesse «Letture Cattoliche», il libretto intitolato: Le Meraviglie della Madonna di Lourdes. Il fascicolo uscì anonimo ma era preceduto da un annunzio «Ai benefattori nostri corrispondenti e lettori» firmato da don Bosco.
Nelle Memorie Biografiche
E non è tutto. Nelle Memorie Biografiche, descrivendo la prima festa dell’Immacolata celebrata in Casa Pinardi a Valdocco l’8 dicembre 1846, il biografo, don G.B. Lemoyne, asserisce che la festa fu «rallegrata eziandio dalla fama di un’apparizione della Madonna in Francia alla Salette»; e continua: «Fu questo l’argomento prediletto di don Bosco, ripetuto da lui cento volte».

Agli ipercritici l’espressione «cento volte» sembrerà esagerata, ma chi conosce la nostra lingua sa che da noi significa semplicemente «molte volte» («te l’ho ripetuto cento volte»). E «molte volte» non significa «poche», tanto meno «mai».
Nelle stesse Memorie troviamo scritto dell’8 dicembre 1858:
«Lieto don Bosco di tali incoraggiamenti celebrava la festa dell’Immacolata Concezione di Maria SS. Tanto più che in quest’anno un portentoso avvenimento aveva in tutto il mondo fatto risuonare la gloria e la bontà della celeste Madre e don Bosco l’aveva narrato più volte ai suoi giovani e più tardi ne consegnava alla stampa la relazione». Si trattava, evidentemente di Lourdes.
C’è dell’altro ancora. Una cronaca dell’anno 1865 riferisce la «Buona Notte», o sermoncino serale ai giovani, fatto da don Bosco l’11 gennaio di quell’anno:
«Vi voglio contare cose magnifiche stasera. La Madonna si degnò di comparire molte volte in pochi anni ai suoi devoti. Comparve in Francia nel 1846 a due pastorelli, dove, fra le altre cose, predisse la malattia delle patate e dell’uva, come avvenne; e si doleva che la bestemmia, il lavorare alla festa, lo stare in chiesa come cani, avessero acceso l’ira del suo Divin Figlio. Comparve nel 1858 alla piccola Bernardetta presso Lourdes, raccomandandole che si pregasse per i poveri peccatori…».
Si noti che in quell’anno si erano cominciati i lavori per la costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice; eppure don Bosco non dimenticò le apparizioni mariane in Francia.
Poi basta cercare nel Bollettino Salesiano per trovare tanti riferimenti a Lourdes e Salette.
Come si può insinuare, allora, che «il mantello di Maria Ausiliatrice» formasse come «una gelosa barriera contro altre protezioni e discese della stessa Figura»? Come si può affermare che manchino nella vita di don Bosco tracce di fatti così importanti come l’Apparizione de La Salette (1846) e di Lourdes (1858)?
Noi che andiamo sempre in cerca di «curiosità», abbiamo voluto registrare anche questa, che rivela come certa saggistica abbia ben poco da spartire con un’autentica e seria conoscenza storica.




Bullismo. Una cosa nuova? C’era anche nei tempi di don Bosco

Non è certamente un mistero per i più attenti conoscitori della “realtà viva” di Valdocco e non solo “ideale” o “virtuale”, che la vita quotidiana in una struttura decisamente ristretta per accogliere 24 ore su 24 e per molti mesi all’anno varie centinaia di bambini, ragazzi e giovani eterogenei per età, provenienza, dialetto, interessi, poneva problemi educativi e disciplinari non indifferenti a don Bosco e ai suoi giovani educatori. Riportiamo due episodi significativi al riguardo, per lo più sconosciuti.

La violenta colluttazione
Nell’autunno 1861 la vedova del pittore Agostino Cottolengo, fratello del famoso (san) Benedetto Cottolengo, dovendo collocare i suoi due figli, Giuseppe e Matteo Luigi, nella capitale del neonato Regno d’Italia per motivi di studio, chiese al cognato, can. Luigi Cottolengo di Chieri, di individuare un collegio adatto. Questi suggerì l’oratorio di don Bosco e così il 23 ottobre i due fratelli, accompagnati da un altro zio, Ignazio Cottolengo, frate domenicano, entrarono al Valdocco a 50 lire mensili di pensione. Prima di Natale il quattordicenne Matteo Luigi era però già ritornato a casa per motivi di salute, mentre il fratello maggiore Giuseppe, ritornato a Valdocco dopo le vacanze natalizie, un mese dopo fu allontanato per causa di forza maggiore. Che cosa era successo?
Era successo che il 10 febbraio 1862, Giuseppe, sedicenne, era venuto alle mani con un certo Giuseppe Chicco, di nove anni, nipote del can. Simone Chicco di Carmagnola, che probabilmente ne pagava la pensione.

Nella colluttazione, con tanto di bastone, il bambino ovviamente ebbe la peggio, restandone seriamente ferito. Don Bosco si premurò di farlo ricoverare presso la fidatissima famiglia Masera, onde evitare che la notizia dello spiacevole episodio si diffondesse in casa e fuori casa. Il bambino venne visitato da un medico, il quale redasse un referto piuttosto pesante, utile “per chi di ragione”.

L’allontanamento provvisorio del bullo
Per non correre rischi e per ovvi motivi disciplinari, don Bosco il 15 febbraio si vide costretto ad allontanare per qualche tempo il giovane Cottolengo, facendolo accompagnare non a Bra a casa della madre che ne avrebbe sofferto troppo, ma a Chieri, dallo zio canonico. Questi, due settimane dopo, chiese a don Bosco delle condizioni di salute del Chicco e delle spese mediche sostenute, onde risarcirle di tasca propria. Gli chiese altresì se era disposto a riaccettare a Valdocco il nipote. Don Bosco gli rispose che il fanciullo ferito era ormai quasi completamente guarito e che per le spese mediche non c’era in alcun modo da preoccuparsi perché “abbiamo da fare con onesta gente”. Quanto a riaccettargli il nipote, “s’immagini se mi ci posso rifiutare”, scriveva. Però a due condizioni: che il ragazzo riconoscesse il suo torto e che il can. Cottolengo scrivesse al can. Chicco, onde chiedergli scusa a nome del nipote e pregarlo di “dire una semplice parola” a don Bosco perché riaccogliesse a Valdocco il giovane. Don Bosco gli garantiva che il can. Chicco non solo avrebbe accolto le scuse – gli aveva già scritto al riguardo – ma aveva già fatto ricoverare il nipotino “in casa di un parente per impedire ogni pubblicità”. A metà marzo entrambi i fratelli Cottolengo venivano riaccolti a Valdocco “in modo gentile”. Matteo Luigi vi rimase però solo fino a Pasqua per i soliti disturbi di salute, mentre Giuseppe fino al termine degli studi.

Un’amicizia consolidata e un piccolo guadagno
Non ancora contento che la vicenda si fosse conclusa con comune soddisfazione, l’anno successivo il can. Cottolengo insistette nuovamente con don Bosco per pagare le spese del medico e delle medicine del bambino ferito. Il can. Chicco, interpellato da don Bosco, rispose che la spesa complessiva era stata di 100 lire, che però lui e la famiglia del bambino non chiedevano nulla; ma se il Cottolengo insisteva nel voler saldare il conto, devolvesse tale somma “a favore dell’Oratorio di S. Francesco di Sales”. Così dovette avvenire.
Dunque un episodio di bullismo si era risolto in modo brillante ed educativo: il colpevole si era ravveduto, la “vittima” era stata ben assistita, gli zii si erano uniti per il bene dei loro nipoti, le mamme non ne avevano sofferto, don Bosco e l’opera di Valdocco, dopo aver corso qualche rischio, avevano guadagnato in amicizie, simpatie… e, cosa sempre gradita in quel collegio di ragazzi poveri, un piccolo contributo economico. Far nascere il bene dal male non è da tutti, don Bosco ci è riuscito. C’è da imparare.

Un’interessantissima lettera che apre uno spiraglio sul mondo di Valdocco
Ma presentiamo un caso ancor più grave, che di nuovo può essere istruttivo per i genitori e gli educatori di oggi alle prese con ragazzi difficili e ribelli.
Ecco il fatto. Nel 1865 un certo Carlo Boglietti, schiaffeggiato per grave insubordinazione dall’assistente del laboratorio di legatoria, il chierico Giuseppe Mazzarello, denuncia il fatto alla pretura urbana di Borgo Dora, che avvia un’inchiesta, convocando l’accusato, l’accusatore e tre ragazzi quali testimoni. Don Bosco, nel desiderio di sciogliere la questione con minori disturbi delle autorità pensa bene di rivolgersi direttamente e preventivamente per lettera al pretore stesso. Come direttore di una casa educativa crede di poterlo e doverlo fare “a nome di tutti […] pronto a dare a chi che sia le più ampie soddisfazioni”.

Due importanti premesse giuridiche
Nella sua lettera anzitutto difende il suo diritto e la sua responsabilità di padre-educatore dei ragazzi a lui affidati: fa subito notare che l’articolo 650 del codice penale, chiamato in causa dall’atto di convocazione, “sembra interamente estraneo all’oggetto di cui si tratta, imperciocché interpretato nel senso preteso la pretura urbana si verrebbe ad introdurre nel Regime domestico delle famiglie, i genitori e chi ne fa le veci non potrebbero più correggere la propria figliolanza neppure impedire un’insolenza ed un’insubordinazione, [cose] che tornerebbero a grave danno della moralità pubblica e privata”.
In secondo luogo ribadisce che la facoltà “di usare tutti que’ mezzi che si fossero giudicati opportuni […] per tenere in freno certi giovanetti” gli era stata concessa dall’autorità governativa che gli inviava i ragazzi; solo nei casi disperati – invero “più volte” – aveva dovuto far intervenire “il braccio della pubblica sicurezza”.

L’episodio, i precedenti e le conseguenze educative
Quanto al giovane Carlo in questione, don Bosco scrive che, di fronte a continui gesti ed atteggiamenti di ribellione, “fu più volte paternamente, inutilmente avvisato; che egli si dimostrò non solo incorreggibile, ma insultò, minacciò ed imprecò il ch. Mazzarello in faccia a’ suoi compagni”, al punto che “quell’assistente d’indole mitissima, e mansuetissima ne rimase talmente spaventato, che d’allora in poi fu sempre ammalato senza aver mai più potuto ripigliare i suoi doveri e vive tuttora da ammalato”.
Il ragazzo era poi scappato dal collegio e tramite la sorella aveva informato i superiori della fuga solo “quando seppe che non si poteva più tenere nascosta la notizia alla questura”, cosa che non si era fatto prima “per conservargli la propria onoratezza”. Purtroppo i suoi compagni avevano continuato negli atteggiamenti di protesta violenta, tanto che – scrive ancora don Bosco – “fu mestieri cacciarne alcuni dallo stabilimento, altri con dolore consegnarli alle autorità della pubblica sicurezza che li condussero in prigione”.

Le richieste di don Bosco
A fronte di un giovane “discolo, che insulta e minaccia i suoi superiori” e che ha poi “l’audacia di citare avanti le autorità coloro che per il suo bene […] consacrano vita e sostanze” don Bosco in linea generale sostiene che “l’autorità pubblica dovrebbe sempre venire in aiuto dell’autorità privata e non altrimenti”. Nel caso specifico poi non si oppone al procedimento penale, ma a due precise condizioni: che il ragazzo presenti preventivamente un adulto che paghi “le spese che possono occorrere e che si faccia responsabile delle gravi conseguenze che forse ne potrebbero avvenire”.
Per scongiurare l’eventuale processo, che indubbiamente sarebbe stato strumentalizzato dalla stampa avversa, don Bosco calca la mano: chiede preventivamente che “siano riparati i danni che l’assistente ha sofferto nell’onore e nella persona almeno finché possa ripigliare le sue ordinarie occupazioni, “che le spese di questa causa siano a conto di lui” e che né il ragazzo né “il suo parente o consigliere” sig. Stefano Caneparo non vengano più a Valdocco “a rinnovare gli atti d’insubordinazione e gli scandali già altre volte cagionati”.

Conclusione
Come sia andata a finire la triste vicenda non è dato sapere; con ogni probabilità si venne ad una previa conciliazione fra le parti. Resta però il fatto che è bene sapere che i ragazzi di Valdocco non erano tutti dei Domenico Savio, dei Francesco Besucco e neppure dei Michele Magone. Non mancavano giovani “avanzi di galera” che davano filo da torcere a don Bosco e ai suoi giovanissimi educatori. L’educazione dei giovani è sempre stata arte impegnativa non aliena da rischi; ieri come oggi, c’è bisogno di stretta collaborazione fra genitori, insegnanti, educatori, tutori dell’ordine, tutti interessati al bene esclusivo dei giovani.




Don Bosco e la Bibbia

In un capitolo della Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione promulgata dal Concilio Vaticano II, che riguarda «la Sacra Scrittura nella vita della Chiesa», si invitano vivamente tutti i fedeli cristiani alla lettura frequente del Libro Sacro.

È un fatto che ai tempi di Don Bosco in Piemonte, nella catechesi parrocchiale e scolastica, la lettura personale del testo biblico non era ancora sufficientemente praticata. Più che ricorrere direttamente a esso si usava fare una catechesi sulla dottrina cattolica con esempi ricavati da Compendi di Storia Sacra.

E così si faceva anche a Valdocco.

Tutto questo non vuol dire che Don Bosco non leggesse e meditasse personalmente la Bibbia. Già nel Seminario di Chieri egli poteva trovare a sua disposizione la Bibbia del Martini, oltre a noti commentari come quelli del Calmet. Ma è un fatto che quando egli era in Seminario venivano prevalentemente sviluppati trattati di carattere dottrinale più che studi biblici propriamente detti, anche se i trattati dogmatici includevano evidentemente citazioni bibliche. Il chierico Bosco non si accontentò di ciò e si fece autodidatta in materia.

Nell’estate del 1836 Don Cafasso, che ne era stato richiesto, gli propose di tenere scuola di greco ai convittori del Collegio del Carmine di Torino, sfollati a Montaldo per la minaccia del colera. Ciò lo spinse ad occuparsi seriamente della lingua greca per rendersi idoneo a insegnarla.

Con l’aiuto di un padre gesuita profondo conoscitore del greco, il chierico Bosco fece grandi progressi. In solo quattro mesi il colto gesuita gli fece tradurre quasi tutto il Nuovo Testamento, e poi, per quattro anni ancora ogni settimana controllava qualche composizione o versione greca che il chierico Bosco gli spediva ed egli puntualmente rivedeva con le opportune osservazioni. «In questa maniera, – dice Don Bosco stesso -, potei giungere a tradurre il greco quasi come si farebbe del latino».

Il suo primo biografo assicura che il 10 febbraio del 1886, ormai vecchio e malato, Don Bosco alla presenza dei suoi discepoli andava recitando per intero alcuni capitoli delle Lettere di San Paolo in greco e in latino.

Dalle stesse Memorie Biografiche veniamo a sapere che il chierico Giovanni Bosco, d’estate, al Sussambrino, dove abitava con il fratello Giuseppe, soleva salire in cima alla vigna di proprietà Turco e lì si dedicava a quegli studi ai quali non aveva potuto attendere nel corso dell’anno scolastico, specialmente allo studio della Storia del Vecchio e del Nuovo Testamento del Calmet, della geografia dei Luoghi Santi, e dei principi della lingua ebraica, acquistandone sufficienti cognizioni.

Ancora nel 1884 si ricordava dello studio fatto dell’ebraico e fu sentito in Roma entrare con un professore di lingua ebraica sulla spiegazione di certe frasi originali dei profeti, facendo confronti con i testi paralleli di vari libri della Bibbia. E si occupava pure di una traduzione del Nuovo Testamento dal greco.

Don Bosco, quindi, come autodidatta, fu uno studioso attento degli scritti della Bibbia e se ne venne a fare una sicura conoscenza.

Un giorno, ancora studente di teologia, volle andare a trovare il suo vecchio insegnante e amico Don Giuseppe Lacqua che abitava a Ponzano. Questi, informato della proposta visita, gli scrisse una lettera nella quale gli diceva, tra l’altro, «giunto che sarà il tempo di venire a trovarmi, ricordatevi di portarmi i tre volumetti della Sacra Bibbia».

Prova questa, evidente, che il chierico Bosco li studiava.

Giovane sacerdote, discorrendo con il suo parroco, Teologo Cinzano, venne con lui a parlare della mortificazione cristiana. Don Bosco allora gli citò le parole del Vangelo: «Si quis vult post me venire, abneget semetipsum, et tollat crucem suam quotidie et sequatur me». Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua). Il teologo Cinzano lo interruppe dicendogli:

— Tu aggiungi una parola, quel quotidie (= ogni giorno) che nel vangelo non c’è».

E Don Bosco:

Questa parola non si trova in tre evangelisti, ma c’è nel vangelo di San Luca. Consulti il capo nono, versetto 23 e vedrà che io non aggiungo nulla.

Il buon Parroco, che pur era valente nelle discipline ecclesiastiche, non aveva notato il versetto di San Luca, mentre Don Bosco vi aveva fatto attenzione. Più volte Don Cinzano raccontò con gusto tale incidente.

L’impegno di Don Bosco a Valdocco

Don Bosco poi dimostrò in tanti altri modi questo suo profondo interesse e studio della Sacra Scrittura, e molto fece poi a Valdocco per farne conoscere i contenuti ai suoi figli.

Si pensi alla sua edizione della Storia Sacra, uscita la prima volta nel 1847 e poi ristampata in 14 edizioni e decine e decine di ristampe sino al 1964.

Si pensi a tutti gli altri suoi scritti correlati con la storia biblica, come Maniera facile per imparare la Storia Sacra, pubblicato la prima volta nel 1850; la Vita di San Pietro, uscita nel gennaio 1857 come fascicolo delle «Letture Cattoliche»; la Vita di San Paolo, uscita nel mese di aprile dello stesso anno come fascicolo delle «Letture Cattoliche»; la Vita di San Giuseppe, uscita nel fascicolo delle «Letture Cattoliche» del marzo 1867; ecc.

Don Bosco poi teneva per segnacoli nel suo Breviario massime della Sacra Scrittura, come la seguente: «Bonus Dominus et confortans in die tribulationis».

Fece dipingere sulle pareti del porticato di Valdocco sentenze della Sacra Scrittura come la seguente: «Omnis enim, qui petit accipit, et qui quaerit invenit, et pulsanti aperietur».

Sin dal 1853 volle che i suoi chierici studenti di filosofia e di teologia studiassero ogni settimana dieci versetti del Nuovo Testamento e lo recitassero letteralmente al mattino del giovedì.

All’inaugurazione del corso tutti i chierici tenevano in mano il volume della Bibbia Volgata latina e lo avevano aperto sulle prime linee del Vangelo di San Matteo. Ma Don Bosco, recitata la preghiera, prese a dire in latino il versetto 18 del capo 16° di Matteo: «Et ego dico tibi quia tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam»: Ed io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. Voleva proprio che i suoi figli tenessero sempre nella mente e nel cuore questa evangelica verità.