Mons. Giuseppe Malandrino e il Servo di Dio Nino Baglieri
È tornato alla Casa del Padre, lo scorso 3 agosto 2025, nel giorno in cui si celebra la festa della Patrona della Diocesi di Noto, Maria Scala del Paradiso, monsignor Giuseppe Malandrino, IX vescovo della diocesi netina. 94 anni di età, 70 anni di sacerdozio e 45 anni di consacrazione episcopale sono numeri di tutto rispetto per un uomo che ha servito la Chiesa da Pastore con “l’odore delle pecore” come sottolineava spesso Papa Francesco.
Parafulmine dell’umanità Nell’esperienza di pastore della Diocesi di Noto (19.06.1998 – 15.07.2007) ha avuto modo di coltivare l’amicizia con il Servo di Dio Nino Baglieri. Non mancava quasi mai una “sosta” a casa di Nino quando i motivi pastorali lo portavano a Modica. In una sua testimonianza mons. Malandrino dice: “…trovandomi al capezzale di Nino, avevo la percezione viva che questo nostro amato fratello infermo fosse veramente “parafulmine dell’umanità”, secondo una concezione dei sofferenti a me tanto cara e che ho voluto proporre anche nella Lettera Pastorale sulla missione permanente Mi sarete testimoni” (2003). Scrive mons. Malandrino: “È necessario riconoscere nei malati e sofferenti il volto di Cristo sofferente e assisterli con la stessa premura e con lo stesso amore di Gesù nella sua passione, vissuta in spirito di ubbidienza al Padre e di solidarietà ai fratelli”. Ciò è stato, pienamente incarnato dalla carissima mamma di Nino, la signora Peppina. Lei tipica donna siciliana, con un carattere forte e tanta determinazione, risponde al medico che gli propone l’eutanasia per suo figlio (viste le gravi condizioni di salute e la prospettiva di una vita da paralitico): “se il Signore lo vuole lo prende, ma se me lo lascia così sono contenta di accudirlo per tutta la vita”. La mamma di Nino, in quel momento era consapevole di quello a cui andava incontro? Maria, la madre di Gesù era consapevole di quanto dolore avrebbe dovuto soffrire, per il Figlio di Dio? La risposta, a leggerla con gli occhi umani, sembra non facile, soprattutto nella nostra società del XXI secolo dove tutto è labile, fluttuante, si consuma in un “istante”. Il Fiat di mamma Peppina divenne, come quello di Maria, un Sì di Fede e di adesione a quella volontà di Dio che trova compimento nel saper portate la Croce, nel saper dare “anima e corpo” alla realizzazione del Piano di Dio.
Dalla sofferenza alla gioia Il rapporto di amicizia tra Nino e mons. Malandrino era già avviato quando quest’ultimo era ancora vescovo di Acireale, infatti già nel lontano 1993, per il tramite di Padre Attilio Balbinot, un camilliano molto vicino a Nino, lo omaggia del suo primo libro: “Dalla sofferenza alla gioia”. Nell’esperienza di Nino il rapporto con il Vescovo della sua diocesi era un rapporto di filiazione totale. Sin dal momento della sua accettazione del Piano di Dio su di lui, egli faceva sentire la propria presenza “attiva” offrendo le sofferenze per la Chiesa, il Papa e i Vescovi (nonché i sacerdoti e i missionari). Questo rapporto di filiazione veniva annualmente rinnovato in occasione del 6 maggio, giorno della caduta visto poi come inizio misterioso d’una rinascita. L’8 maggio 2004, pochi giorni dopo aver festeggiato Nino il 36.mo anniversario di Croce, mons. Malandrino si reca a casa sua. Egli in ricordo di quell’incontro scrive nelle sue memorie: “è sempre una grande gioia ogni volta che la vedo e ricevo tanta carica e forza per portare la mia Croce e offrila con tanto Amore per i bisogni della Santa Chiesa e in particolare per il mio Vescovo e per la nostra Diocesi, il Signore gli dia sempre più santità per guidarci per tanti anni sempre con più ardore e amore…”. Ancora: “… la Croce è pesante ma il Signore mi dona tante Grazie che rendono la sofferenza meno amara e diventa leggera e soave, la Croce si fa Dono, offerta al Signore con tanto Amore per la salvezza delle anime e la Conversione dei Peccatori…”. Infine, è da sottolineare come, in queste occasioni di grazia, non mancasse mai la pressante e costante richiesta di “aiuto a farsi Santo con la Croce di ogni giorno”. Nino, infatti, vuole assolutamente farsi santo.
Una beatificazione anticipata Momento di grande rilevanza hanno rappresentato, in tal senso, le esequie del Servo di Dio il 3 marzo 2007, quando proprio mons. Malandrino, all’inizio della Celebrazione Eucaristica, con devozione si china, anche se con difficoltà, a baciare la bara che conteneva le spoglie mortali di Nino. Era un ossequio a un uomo che aveva vissuto 39 anni della sua esistenza in un corpo che “non sentiva” ma che sprigionava gioia di vivere a 360 gradi. Mons. Malandrino sottolineò che la celebrazione della Messa, nel cortile dei Salesiani divenuto per l’occasione “cattedrale” a cielo aperto, era stata un’autentica apoteosi (hanno partecipato migliaia di persone in lacrime) e si percepiva chiaramente e comunitariamente di trovarsi dinanzi non a un funerale, ma a una vera “beatificazione”. Nino, con la sua testimonianza di vita, era infatti diventato un punto di riferimento per tanti, giovani o meno giovani, laici o consacrati, madri o padri di famiglia, che grazie alla sua preziosa testimonianza riuscivano a leggere la propria esistenza e trovare risposte che non riuscivano a trovare altrove. Anche mons. Malandrino ha più volte sottolineato questo aspetto: «in effetti, ogni incontro con il carissimo Nino è stato per me, come per tutti, una forte e viva esperienza di edificazione e un potente – nella sua dolcezza – sprone alla paziente e generosa donazione. La presenza del Vescovo conferiva a lui ogni volta immensa gioia perché, oltre l’affetto dell’amico che veniva a visitarlo, vi percepiva la comunione ecclesiale. È ovvio che quanto ricevevo da lui era sempre molto di più quel poco che potevo donargli». Il “chiodo” fisso di Nino, era “farsi santo”: l’aver vissuto e incarnato appieno l’evangelo della Gioia nella Sofferenza, con i suoi patimenti fisici e il suo dono totale per l’amata Chiesa, hanno fatto sì che tutto non finisse con la sua dipartita verso la Gerusalemme del Cielo, ma continuasse ancora, come sottolineò mons. Malandrino alle esequie: “… la missione di Nino continua ora anche attraverso i suoi scritti, Egli stesso lo aveva preannunciato nel suo Testamento spirituale”: “… i miei scritti continueranno la mia testimonianza, continuerò a dare Gioia a tutti e a parlare del Grande Amore di Dio e delle Meraviglie che ha fatto nella mia vita”. Questo ancora si sta avverando perché non può stare nascosta “una città posta sopra un monte e non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candeliere, perché faccia luce a tutti coloro che sono in casa” (Matteo 5,14-16). Metaforicamente si vuole sottolineare che la “luce” (intesa in senso lato) deve essere visibile, prima o poi: ciò che è importante verrà alla luce e sarà riconosciuto.
Riandare in questi giorni – segnati dalla morte di mons. Malandrino, dai suoi funerali ad Acireale (5 agosto, Madonna della Neve) e a Noto (7 agosto) con tumulazione a seguire nella cattedrale di cui egli stesso volle fortemente la ristrutturazione dopo il crollo del 13 marzo1996 e che fu riaperta nel marzo 2007 (mese in cui Nino Baglieri morì) – significa ripercorrere questo legame tra due grandi figure della Chiesa netina, fortemente intrecciate ed entrambe capaci di lasciare in essa un segno che non passa.
Roberto Chiaramonte
I Cardinali Protettori della Società Salesiana di San Giovanni Bosco
Sin dagli inizi, la Società Salesiana ha avuto, come molti altri ordini religiosi, un cardinale protettore. Nel tempo, fino al Concilio Vaticano II, si sono succeduti nove cardinali protettori, un ruolo di grande importanza per la crescita della Società Salesiana.
L’istituzione dei cardinali protettori per le congregazioni religiose è una tradizione antica che risale ai primi secoli della Chiesa, quando il Papa nominava difensori e rappresentanti della fede. Con il passare del tempo, questa pratica si estese agli ordini religiosi, ai quali veniva assegnato un cardinale con il compito di proteggerne i diritti e le prerogative presso la Santa Sede. Anche la Società Salesiana di San Giovanni Bosco godette di tale favore, avendo diversi cardinali che la rappresentavano e proteggevano nelle sedi ecclesiali.
Origine del ruolo di Cardinale Protettore L’usanza di avere un protettore risale ai primi secoli dell’Impero Romano, quando Romolo, fondatore di Roma, creò due ordini sociali: patrizi e plebei. Ogni plebeo poteva eleggere un patrizio come protettore, stabilendo un sistema di reciproco beneficio tra le due classi sociali. Questa pratica venne in seguito adottata anche dalla Chiesa. Uno dei primi esempi di protettore ecclesiastico è quello di San Sebastiano, nominato da Papa Caio nel 283 d.C. come difensore della Chiesa di Roma.
Nel XIII secolo, l’assegnazione di cardinali protettori agli ordini religiosi divenne una prassi consolidata. San Francesco d’Assisi fu uno dei primi a richiedere un cardinale protettore per il suo ordine. A seguito di una visione in cui i suoi frati venivano attaccati da rapaci, Francesco chiese al Papa di assegnare un cardinale come loro difensore. Innocenzo III acconsentì e nominò il cardinale Ugolino Conti, nipote del Papa. Da allora, gli ordini religiosi seguirono questa tradizione per ottenere protezione e supporto nei loro rapporti con la Chiesa.
Questa pratica si diffuse quasi come una necessità, poiché i nuovi ordini mendicanti e itineranti avevano uno stile di vita diverso da quello dei monaci con dimora fissa, ben conosciuti dai vescovi locali. Le distanze geografiche, i diversi sistemi politici dei luoghi in cui operavano i nuovi ordini religiosi e le difficoltà nelle comunicazioni dell’epoca richiedevano una figura autorevole che conoscesse a fondo le loro problematiche ed esigenze. Questa figura poteva rappresentarli presso la Curia Romana, difendere i loro diritti e interessi e intercedere presso la Santa Sede in caso di necessità. Il cardinale protettore non aveva giurisdizione ordinaria sugli ordini religiosi; il suo ruolo era quello di un protettore benevolo, anche se in particolari circostanze poteva ricevere poteri delegati.
Questa pratica si estese anche agli altri ordini religiosi e, nel caso della Società Salesiana, i cardinali protettori hanno svolto un ruolo cruciale nel garantire il riconoscimento e la protezione della giovane congregazione, soprattutto nei suoi primi anni di vita, quando essa cercava di consolidarsi all’interno della struttura della Chiesa Cattolica.
La scelta del Cardinale Protettore Il rapporto tra don Bosco e la gerarchia ecclesiastica fu complesso, soprattutto nei primi anni della fondazione della congregazione. Non tutti i cardinali e vescovi vedevano con favore il modello educativo e pastorale proposto da don Bosco, in parte a causa del suo approccio innovativo e in parte per la sua insistenza nel rivolgersi alle classi più povere e svantaggiate.
La scelta del cardinale protettore non era casuale, ma avveniva con grande attenzione. Solitamente, si cercava un cardinale che avesse familiarità con l’ordine o che avesse dimostrato interesse per il tipo di lavoro svolto dalla congregazione. Nel caso dei salesiani, questo significava cercare cardinali che avessero una particolare attenzione per i giovani, per l’educazione o per le missioni, dato che queste erano le aree principali di attività della Società. Ovviamente, la nomina definitiva dipendeva dal Papa e dalla Segreteria di Stato.
Il ruolo del Cardinale Protettore per i Salesiani Per la Società Salesiana, il cardinale protettore rappresentava una figura chiave nella sua interazione con la Santa Sede, aiutando a mediare eventuali controversie, garantire la corretta interpretazione delle regole canoniche e assicurare che le necessità dell’ordine fossero comprese e rispettate. A differenza di alcune congregazioni più antiche, che avevano già consolidato un forte rapporto con le autorità ecclesiastiche, i salesiani, nati in un’epoca di rapidi cambiamenti sociali e religiosi, necessitavano di un sostegno significativo per affrontare le sfide iniziali, sia a livello interno che esterno.
Uno degli aspetti più importanti del ruolo del cardinale protettore era la sua capacità di sostenere i salesiani nei rapporti con il Papa e la Curia. Questo ruolo di mediatore e protettore forniva alla congregazione un canale diretto con le alte sfere della Chiesa, permettendo loro di esprimere preoccupazioni e richieste che altrimenti avrebbero potuto essere ignorate o rimandate. Il cardinale protettore aveva anche il compito di vigilare affinché la Società Salesiana rispettasse le direttive del Papa e della Chiesa, assicurando che la loro missione rimanesse in linea con l’insegnamento cattolico.
In una sua visita a Roma, nel febbraio del 1875, don Bosco chiese al Santo Padre Pio IX la grazia di avere un cardinale protettore:
“Nella stessa udienza egli domandò al Papa, se dovesse, come le altre Congregazioni religiose, chiedere un Cardinale Protettore. Il Papa testualmente gli rispose: – Finché sarò io in vita sarò sempre vostro Protettore, e della vostra Congregazione” (MB XI, 113).
Tuttavia, accorgendosi della necessità di una persona di riferimento che avesse l’autorità per portare avanti varie pratiche per la Società Salesiana, nel 1876 don Bosco tornò a chiedere al Papa un cardinale protettore:
“Avendo poi io domandato che per sbrogliare i nostri negozi ecclesiastici a Roma, assegnasse a noi un Cardinale Protettore che perorasse le nostre cause presso la Santa Sede, come hanno tutti gli altri Ordini e Congregazioni, sorridente mi disse: – Ma quanti protettori volete? Non ne avete abbastanza di uno? – Facendomi intendere: voglio essere io il vostro Cardinale protettore; ne volete ancora altri? Sentendo parole di tanta bontà, lo ringraziai di tutto cuore e gli dissi: – Padre Santo, quando voi dite questo, io non cerco più altro difensore.” (MB XII, 221-222).
Dopo questa risposta appagante, don Bosco ottenne comunque un cardinale protettore nello stesso anno, 1876:
“3° Ho fatta dimanda di un Cardinale protettore pel cui mezzo comunicare con S. S. Dapprima pareva che desiderasse egli stesso essere nostro Protettore, ma quando gli feci notare che il Cardinale Protettore era appunto un referendario delle cose Salesiane a S. S., che tali cose noi non potevamo trattare nelle Sacre Congregazioni perché lontani, S. Santità sarebbe appunto stato il nostro Protettore di fatto, il Cardinale avrebbe maneggiato le nostre cose nei vari dicasteri per riferirle poscia a S. S. – In questo senso va bene, egli aggiunse, e comunicherò ogni cosa alla Cong. dei VV. e RR. – Il Card. è l’Em.mo Oreglia che sarà protettore delle nostre Missioni, dei Cooperatori Salesiani, dell’Opera di Maria A.; dell’Arciconfraternita dei divoti di M. A. e di tutta la Congregazione Salesiana per gli affari che dovranno trattarsi in Roma presso alla S. Sede.” (MB XIII, 496-497)
Di questo cardinale fece cenno don Bosco nel suo scritto “Il più bel fiore del collegio apostolico ossia l’elezione di Leone XIII” (pp. 193-194):
“XXVIII. Il Card. Luigi Oreglia Luigi Oreglia dei Baroni di S. Stefano onora il Piemonte come il cardinale Bilio, essendo egli nato in Benevagienna nella diocesi di Mondovì il 9 luglio 1828. Fece i suoi studi teologici in Torino sotto il magistero de’ nostri valenti professori, che ne ammiravano la mente perspicace e l’amore indefesso al lavoro. Passò quindi a Roma nell’Accademia ecclesiastica, dove compì lodevolmente la sua educazione religiosa, ed attese allo studio delle lingue, principalmente della tedesca, in cui è valentissimo. Entrato nella prelatura, fu il 15 aprile 1858 nominato referendario di Segnatura, quindi mandato internunzio all’Aia in Olanda, donde poi passò in Portogallo, dopo essere stato preconizzato Arcivescovo di Damiata, succedendo in quell’importante ufficio diplomatico all’eminentissimo cardinale Perrieri. Trovò in Portogallo vive ancora certe tradizioni di Pombal, che con somma intelligenza e coraggio combatté. Per la qual cosa non riuscì troppo gradito a coloro che allora comandavano. Ed egli tornossene a Roma ed il Santo Padre, per dimostrare che se egli cessava di rappresentare la Santa Sede in Portogallo non era per nessun demerito, lo creò e pubblicò Cardinale nel Concistoro del 22 dicembre 1873, dandogli il titolo di Santa Anastasia e nominandolo prefetto della Sacra Congregazione delle Indulgenze e Sacre Reliquie. Il Cardinale Oreglia alle nobili maniere del gentiluomo aggiunge le virtù del sacerdote esemplare. Pio Nono l’ebbe sempre carissimo ed amava la sua conversazione piena di riserbo e di grazia. Egli va adagio ad impegnarsi in qualche affare, ma quando spende una parola non bada più a fatiche e disturbi purché riesca bene. È molto limosiniero. Il novello Pontefice lo tiene in grande considerazione e lo confermò nella carica di prefetto della Sacra Congregazione delle Indulgenze e Sacre Reliquie.”
Il cardinale Luigi Oreglia rimase protettore dei salesiani dal 1876 al 1878, anche se aveva già svolto questo compito in modo informale prima del 1876.
Tuttavia, ufficialmente, il primo cardinale protettore dei salesiani fu Lorenzo Nina, che svolse questo incarico dal 1879 al 1885. Leone XIII acconsentì alla richiesta di don Bosco di avere un cardinale protettore per la Società, e la notifica ufficiale avvenne dopo l’udienza del 29 marzo 1879:
“Sei giorni dopo questa udienza, con biglietto della Segreteria di Stato recante la firma di monsignor Serafino Cretoni, si notificava ufficialmente a Don Bosco la nomina del Protettore, in questi onorifici termini: ‘La Santità di Nostro Signore, volendo che la Congregazione Salesiana, la quale va acquistando ogni giorno nuovi titoli alla speciale benevolenza della S. Sede per le opere di carità e di fede impiantate nelle varie parti del mondo, abbia uno speciale Protettore, si è benignamente degnata di conferire quest’officio al Sig. Cardinal Lorenzo Nina, Suo Segretario di Stato’. Al tempo di Pio IX faceva da Protettore il cardinale Oreglia, ma solo a titolo officioso, avendo quel Pontefice riserbato a sé la protezione della Società, bisognosa di particolare e paterna assistenza nei suoi primordi; ora invece si aveva il Protettore vero e proprio al pari delle altre Congregazioni religiose. Né la scelta poteva cadere su Prelato più benevolo; che, avendo conosciuto Don Bosco prima del cardinalato, nutriva per lui altissima stima e gli portava sincera affezione. Pregato da Don Bosco a voler essere il Protettore dei Salesiani, vi si era mostrato dispostissimo, dicendogli: – Non potrei offrirmi per questo al Santo Padre; ma se il Santo Padre me lo dice, accetto subito. – Diede prova eloquente del suo buon volere quando il Beato gli propose che, avendo Sua Eminenza tanto da fare, gli assegnasse una persona con cui trattare la faccenda delle Missioni. Rispose il Cardinale: – No, no; voglio che la trattiamo noi direttamente; passi domani alle quattro e mezzo, e ci parleremo meglio. È un miracolo il vedere una Congregazione venir su in questi tempi sulle rovine altrui, dove tutto si vorrebbe distruggere. – Il Beato sperimentò sovente quanto gli fosse giovevole una sì affettuosa protezione. Ritornato a Torino e comunicata al Capitolo Superiore la designazione pontificia del Protettore, inviò al Cardinale, in nome di tutta la Congregazione, una lettera di ringraziamento perché egli si fosse degnato di accettare quell’ufficio, di cordialissimo omaggio e di preghiera per le Missioni e forse anche per i privilegi; tanto ci è dato argomentare dalla seguente risposta di Sua Eminenza.” (MB XIV, 78-79)
Da questo momento in poi, la Congregazione Salesiana avrà sempre un cardinale protettore con grande influenza nella Curia Romana.
Oltre a questa figura ufficiale, vi sono sempre stati altri cardinali e alti prelati che, comprendendo l’importanza dell’educazione, hanno sostenuto i salesiani. Fra questi ricordiamo i cardinali Alessandro Barnabò (1801-1874), Giuseppe Berardi (1810-1878), Gaetano Alimonda (1818-1891), Luigi Maria Bilio (1826-1884), Luigi Galimberti (1836-1896), Augusto Silj (1846-1926) e molti altri.
Elenco dei Protettori della Società Salesiana di San Giovanni Bosco:
L’ultimo protettore dei salesiani è stato il cardinale Benedetto Aloisi Masella, poiché il ruolo dei protettori fu annullato dalla Segreteria di Stato al tempo del Concilio Vaticano II, nel 1964. I protettori in carica rimasero fino alla loro morte, e con loro si spense anche l’ufficio ricevuto.
Questo è avvenuto perché, nel contesto contemporaneo, il ruolo del cardinale protettore ha perso parte della sua rilevanza formale. La Chiesa Cattolica ha subito numerose riforme nel corso del XX secolo, e molte delle funzioni che un tempo erano delegate ai cardinali protettori sono state incorporate nelle strutture ufficiali della Curia romana o sono state rese obsolete da cambiamenti nella governance ecclesiastica. Tuttavia, anche se la figura del cardinale protettore non esiste più con le stesse prerogative del passato, il concetto di protezione ecclesiastica rimane importante.
Oggi, i Salesiani, come molte altre congregazioni, mantengono un rapporto stretto con la Santa Sede attraverso diversi dicasteri e uffici curiali, in particolare il Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. Inoltre, molti cardinali continuano a sostenere personalmente la missione dei Salesiani, anche senza il titolo formale di protettore. Questa vicinanza e sostegno rimangono fondamentali per garantire che la missione salesiana continui a rispondere alle sfide del mondo contemporaneo, in particolare nell’educazione giovanile e nelle missioni.
L’istituzione dei cardinali protettori per la Società Salesiana fu un elemento cruciale per la sua crescita e il suo consolidamento. Grazie alla protezione offerta da queste eminenti figure ecclesiastiche, don Bosco e i suoi successori poterono portare avanti la missione salesiana con maggiore serenità e sicurezza, sapendo di poter contare sul supporto della Santa Sede. L’opera dei cardinali protettori si rivelò essenziale non solo per la difesa dei diritti della congregazione, ma anche per favorire la sua espansione in tutto il mondo, contribuendo a diffondere il carisma di don Bosco e il suo sistema educativo.
La vita secondo lo Spirito in Mamma Margherita (2/2)
4. Esodo verso il sacerdozio del figlio Dal sogno dei nove anni, quando è la sola ad intuire la vocazione del figlio, «chissà che non abbia a diventare prete», è la più convinta e tenace sostenitrice della vocazione del figlio, affrontando per questo umiliazioni e sacrifici: «Sua madre allora, che voleva secondarlo a costo di qualunque sacrifizio, non esitò a prendere la risoluzione di fargli frequentare le scuole pubbliche di Chieri nell’anno seguente. Quindi si diede premura di trovar persone veramente cristiane presso le quali potesse collocarlo in pensione». Margherita segue con discrezione il cammino vocazionale e formativo di Giovanni, tra gravi strettezze economiche. Lo lascia sempre libero nelle sue scelte e non condiziona per nulla il suo cammino verso il sacerdozio, ma quando il parroco cerca di convincere Margherita perché Giovanni non intraprenda una scelta di vita religiosa, così da garantirle una sicurezza economica e un aiuto, subito raggiunge il figlio e pronuncia delle parole che resteranno scolpite tutta la vita nel cuore di Don Bosco: «Io voglio solamente che tu esamini attentamente il passo che vuoi fare, e che poi seguiti la tua vocazione senza guardar ad alcuno. Il parroco voleva che io ti dissuadessi da questa decisione, in vista del bisogno che potrei avere in avvenire del tuo aiuto. Ma io dico: in queste cose non c’entro, perché Dio è prima di tutto. Non prenderti fastidio per me. Io da te non voglio niente; niente aspetto da te. Ritieni bene: sono nata in povertà, sono vissuta in povertà, voglio morire in povertà. Anzi te lo protesto. Se tu ti risolvessi allo stato di prete secolare e per sventura diventassi ricco, io non verrò a farti neppure una sola visita, anzi non porrò mai più piede in casa tua. Ricordalo bene!». Ma in questo cammino vocazionale non manca di essere forte nei confronti del figlio, ricordandogli, in occasione della partenza per il seminario di Chieri, le esigenze legate alla vita sacerdotale: «Giovanni mio, tu hai vestito l’abito sacerdotale; io ne provo tutta la consolazione che una madre può provare per la fortuna di suo figlio. Ma ricordati che non è l’abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Se mai tu venissi a dubitare di tua vocazione, ah per carità! non disonorare quest’abito! Deponilo tosto. Amo meglio avere un povero contadino, che un figlio prete trascurato nei suoi doveri». Don Bosco non dimenticherà mai queste parole di sua madre, espressione sia della coscienza della dignità sacerdotale, che frutto di una vita profondamente retta e santa. Il giorno della Prima Messa di Don Bosco ancora una volta Margherita si rende presente con parole ispirate dallo Spirito, sia esprimendo il valore autentico del ministero sacerdotale, che la consegna totale del figlio alla sua missione senza alcuna pretesa o richiesta: «Sei prete; dici la Messa; da qui avanti sei adunque più vicino a Gesù Cristo. Ricordati però che incominciare a dir Messa vuol dire cominciar a patire. Non te ne accorgerai subito, ma a poco a poco vedrai che tua madre ti ha detto la verità. Sono sicura che tutti i giorni pregherai per me, sia ancora io viva, o sia già morta; ciò mi basta. Tu da qui innanzi pensa solamente alla salute delle anime e non prenderti nessun pensiero di me». Lei rinuncia completamente al figlio per offrirlo al servizio della Chiesa. Ma perdendolo lo ritrova, condividendo la sua missione educativa e pastorale tra i giovani.
5. Esodo dai Becchi a Valdocco Don Bosco aveva apprezzato e riconosciuto i grandi valori che aveva attinti nella sua famiglia: la sapienza contadina, la sana furbizia, il senso del lavoro, l’essenzialità delle cose, l’industriosità nel darsi da fare, l’ottimismo a tutta prova, la resistenza nei momenti di sfortuna, la capacità di ripresa dopo le batoste, l’allegria sempre e comunque, lo spirito di solidarietà, la fede viva, la verità e l’intensità degli affetti, il gusto per l’accoglienza e l’ospitalità; tutti beni che aveva trovato a casa sua e che lo avevano costruito in quel modo. È talmente segnato da questa esperienza che, quando pensa a un’istituzione educativa per i suoi ragazzi non vuole altro nome che quello di “casa” e definisce lo spirito che avrebbe dovuto improntarla con l’espressione “spirito di famiglia”. E per dare l’impronta giusta chiede a Mamma Margherita, ormai anziana e stanca, di lasciare la tranquillità della sua casetta in collina, per scendere in città e prendersi cura di quei ragazzi raccolti dalla strada, quelli che le daranno non poche preoccupazioni e dispiaceri. Ma lei va ad aiutare Don Bosco e a fare da mamma a chi non ha più famiglia e affetti. Se Giovanni Bosco impara alla scuola di Mamma Margherita l’arte di amare in modo concreto, generoso, disinteressato e verso tutti, la mamma condividerà fino in fondo e fino alla fine la scelta del figlio di dedicare la vita per la salvezza dei giovani. Questa comunione di spirito e di azione tra figlio e madre segna l’inizio dell’opera salesiana, coinvolgendo tante persone in questa divina avventura. Dopo aver raggiunto una situazione di tranquillità, accetta, non più giovane, di abbandonare la quieta vita e la sicurezza dei Becchi, per recarsi a Torino in una zona periferica e in una casa spoglia di tutto. È una vera ripartenza nella sua vita!
Don Bosco dunque, dopo aver pensato e ripensato come uscire dalle difficoltà, andò a parlarne col proprio Parroco di Castelnuovo, esponendogli la sua necessità e i suoi timori. – Hai tua madre! Rispose il Parroco senza esitare un istante: falla venire con te a Torino. Don Bosco, che aveva preveduto questa risposta, volle fare alcune riflessioni, ma Don Cinzano gli replicò: – Piglia con te tua madre. Non troverai nessuna persona più adatta di lei all’opera. Sta tranquillo; avrai un angelo al fianco! Don Bosco ritornò a casa convinto dalle ragioni postegli sott’occhio dal Prevosto. Tuttavia lo trattenevano ancora due motivi. Il primo era la vita di privazioni e di mutate abitudini, alle quali la madre avrebbe naturalmente dovuto andare soggetta in quella nuova posizione. La seconda proveniva dalla ripugnanza che egli provava nel proporre alla madre un ufficio che l’avrebbe resa in certo qual modo dipendente da lui. Per Don Bosco sua mamma era tutto, e col fratello Giuseppe, era abituato a tenere per legge indiscutibile ogni suo desiderio. Tuttavia dopo aver pensato e pregato, vedendo che non rimaneva altra scelta, concluse: – Mia madre è una santa e quindi posso farle la proposta! Un giorno dunque la prese in disparte e così le parlò: – Io ho deciso, o madre, di far ritorno a Torino fra i miei cari giovanetti. D’ora innanzi non stando più al Rifugio avrei bisogno di una persona di servizio; ma il luogo dove mi toccherà abitare in Valdocco, per causa di certe persone che vi dimorano vicino, è molto rischioso, e non mi lascia tranquillo. Ho dunque bisogno di avere al mio fianco una salvaguardia per levar via ai malevoli ogni motivo di sospetto e di chiacchiere. Voi sola mi potreste togliere da ogni timore; non verreste volentieri a stare con me? A questa uscita non attesa la pia donna rimase alquanto pensosa, e poi rispose: – Mio caro figlio, tu puoi immaginare quanto costi al mio cuore l’abbandonare questa casa, tuo fratello e gli altri cari; ma se ti pare che tal cosa possa piacere al Signore io sono pronta a seguirti. Don Bosco l’assicurò, e ringraziatala, concluse: – Disponiamo dunque le cose, e dopo la festa dei Santi partiremo. Margherita si recava ad abitare col figlio, non già per condurre una vita più comoda e dilettevole, ma per dividere con lui stenti e pene a sollievo di più centinaia di ragazzi poveri ed abbandonati; vi si recava, non già attirata da cupidigia di guadagno, ma dall’amor di Dio e delle anime, perché sapeva che la parte di sacro ministero, presa ad esercitare da Don Bosco, lungi dal porgergli risorsa o lucro di sorta, lo obbligava a spendere i propri beni, e inoltre a cercare elemosina. Ella non si arrestò; anzi, ammirando il coraggio e lo zelo del figlio, si sentì maggiormente stimolata a farsene compagna ed imitatrice, sino alla morte.
Margherita vive all’oratorio portando quel calore materno e la saggezza di una donna profondamente cristiana, la dedizione eroica al figlio in tempi difficili per la sua salute e la sua incolumità fisica, esercitando in tal modo un’autentica maternità spirituale e materiale verso il figlio sacerdote. Infatti si stabilisce a Valdocco non solo per cooperare all’opera iniziata dal figlio, ma anche per fugare ogni occasione di maldicenza che potesse sorgere dalla vicinanza di locali equivoci. Lascia la tranquilla sicurezza della casa di Giuseppe per avventurarsi con il figlio in una missione non facile e rischiosa. Vive il suo tempo in una dedizione senza riserve per i giovanetti «di cui erasi costituita madre». Ama i ragazzi dell’oratorio come suoi figli e si adopera per il loro benessere, la loro educazione e la vita spirituale, dando all’oratorio quel clima famigliare che fin dalle origini sarà una caratteristica delle case salesiane. «Se esiste la santità delle estasi e delle visioni, esiste anche quella delle pentole da pulire e delle calze da rammendare. Mamma Margherita fu una santa così». Nei rapporti con i ragazzi ebbe un comportamento esemplare, distinguendosi per la sua finezza di carità e la sua umiltà nel servire, riservandosi le occupazioni più umili. Il suo intuito di madre e di donna spirituale risulta nel riconoscere in Domenico Savio un’opera straordinaria della grazia. Anche all’oratorio tuttavia non mancano situazioni di prova e quando ci fu un momento di tentennamento per la durezza dell’esperienza, dovuta a una vita molto esigente, lo sguardo al Crocifisso additato dal figlio basta a infonderle energie nuove: «Da quell’istante più non isfuggì dal suo labbro una parola di lamento. Parve anzi d’allora in poi insensibile a quelle miserie». Bene riassume don Rua la testimonianza di Mamma Margherita all’oratorio, con la quale visse quattro anni: «Donna veramente cristiana, pia, di cuore generoso e coraggiosa, prudente, che tutta si consacrò alla buona educazione dei suoi figli e della sua famiglia adottiva».
6. Esodo verso la casa del Padre Era nata povera. Visse povera. Morì povera con indosso l’unico abito che usava; in tasca 12 lire destinate a comprarne uno nuovo, che mai acquistò. Anche nell’ora della morte è rivolta al figlio amato e lo lascia con parole degne della donna saggia: «Abbi grande confidenza con quelli che lavorano con te nella vigna del Signore… Sta’ attento che molti invece della gloria di Dio cercano l’utilità propria… Non cercare né eleganza né splendore nelle opere. Cerca la gloria di Dio, abbi per base la povertà di fatto. Molti amano la povertà negli altri, ma non in sé stessi. L’insegnamento più efficace è fare noi per i primi quello che comandiamo agli altri». Margherita, che aveva consacrato Giovanni alla Vergine Santissima, a Lei lo aveva affidato agli inizi degli studi, raccomandandogli la devozione e la propagazione dell’amore a Maria, ora lo rassicura: «La Madonna non mancherà di guidare le cose tue». Tutta la sua vita fu un dono totale di sé. Sul letto di morte può dire: «Ho fatto tutta la mia parte». Muore a 68 anni nell’oratorio di Valdocco il 25 novembre 1856. Al cimitero l’accompagnano i ragazzi dell’oratorio piangendola come “Mamma”. Don Bosco addolorato dice a Pietro Enria: «Abbiamo perduto la madre, ma sono certo che essa ci aiuterà dal Paradiso. Era una santa!». E lo stesso Enria aggiunge: «Don Bosco non esagerò a chiamarla santa, perché essa si sacrificò per noi e fu per tutti una vera madre».
Concludendo Mamma Margherita fu una donna ricca di vita interiore e dalla fede granitica, sensibile e docile alla voce dello Spirito, pronta a cogliere e realizzare la volontà di Dio, attenta ai problemi del prossimo, disponibile nel provvedere ai bisogni dei più poveri e soprattutto dei giovani abbandonati. Don Bosco ricorderà sempre gli insegnamenti e ciò che aveva appreso alla scuola della mamma e tale tradizione segnerà il suo sistema educativo e la sua spiritualità. Don Bosco aveva sperimentato che la formazione della sua personalità era vitalmente radicata nello straordinario clima di dedizione e di bontà della sua famiglia; per questo ha voluto riprodurne le qualità più significative nella sua opera. Margherita intrecciò la sua vita con quella del figlio e con gli inizi dell’opera salesiana: fu la prima “cooperatrice” di Don Bosco; con bontà fattiva divenne l’elemento materno del Sistema Preventivo. Alla scuola di Don Bosco e di Mamma Margherita ciò significa curare la formazione delle coscienze, educare alla fortezza della vita virtuosa nella lotta, senza sconti e compromessi, contro il peccato, con l’aiuto dei sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione, crescendo nella docilità personale, famigliare e comunitaria alle ispirazioni e mozioni dello Spirito Santo per rafforzare le ragioni del bene e testimoniare la bellezza della fede. Per tutta la Famiglia Salesiana questa testimonianza è un ulteriore invito ad assumere un’attenzione privilegiata alla famiglia nella pastorale giovanile, formando e coinvolgendo i genitori nell’azione educativa e evangelizzatrice dei figli, valorizzandone l’apporto negli itinerari di educazione affettiva e favorendo nuove forme di evangelizzazione e di catechesi delle famiglie e attraverso le famiglie. Mamma Margherita oggi è un modello straordinario per le famiglie. La sua è una santità di famiglia: di donna, di moglie, di madre, di vedova, di educatrice. La sua vita racchiude un messaggio di grande attualità, soprattutto nella riscoperta della santità del matrimonio. Ma occorre sottolineare un altro aspetto: uno dei motivi fondamentali per cui Don Bosco vuole sua madre accanto a sé a Torino è per trovare in lei una custodia al proprio sacerdozio. «Piglia con te tua madre», gli aveva suggerito il vecchio parroco. Don Bosco prende Mamma Margherita nella sua vita di prete e di educatore. Da bambino, orfano, era stata la mamma a prenderlo per mano, da giovane prete è lui che la prende per mano per condividere una missione speciale. Non si capisce la santità sacerdotale di Don Bosco senza la santità di Mamma Margherita, modello non solo di santità famigliare, ma anche di maternità spirituale verso i sacerdoti.
La vita secondo lo Spirito in Mamma Margherita (1/2)
Don Lemoyne nella prefazione alla vita di Mamma Margherita ci lascia un ritratto davvero singolare: «Non descriveremo fatti straordinari ed eroici, ma ritrarremo una vita semplice, costante nella pratica del bene, vigilante nell’educazione dei figli, rassegnata e previdente nelle angustie della vita, risoluta in tutto ciò che il dovere le imponeva. Non ricca, ma con un cuore da regina; non istruita in scienze profane, ma educata nel santo timore di Dio; priva ben presto di chi doveva essere il suo sostegno, ma sicura con l’energia della sua volontà appoggiata all’aiuto celeste, seppe condurre a termine felicemente la missione che Dio le aveva affidata». Con queste parole ci vengono offerti i tasselli di un mosaico e un canovaccio su cui possiamo costruire l’avventura dello Spirito che il Signore ha fatto vivere a questa donna che, docile allo Spirito, si è rimboccata le mani affrontando la vita con fede operosa e carità materna. Percorreremo le tappe di questa avventura con la categoria biblica dell’“esodo”, espressione di autentico cammino nell’obbedienza della fede. Anche Mamma Margherita ha vissuto le sue “uscite”, anche lei ha camminato verso “una terra promessa”, attraversando il deserto e superando prove. Questo cammino lo cogliamo in modo riflesso nella luce del suo rapporto con il figlio e secondo due dinamiche tipiche della vita nello Spirito: una meno visibile, costituita dal dinamismo interiore del cambiamento di sé, condizione previa e indispensabile per aiutare gli altri; l’altra più immediata e documentabile: la capacità di rimboccarsi le maniche per amare il prossimo in carne e ossa, venendo in soccorso di chi avesse bisogno.
1. Esodo da Capriglio alla cascina Biglione Margherita fu educata nella fede, visse e morì nella fede. «Dio era in cima a tutti i suoi pensieri». Sentiva di vivere alla presenza di Dio ed esprimeva questa persuasione con l’affermazione a lei abituale: «Dio ti vede». Tutto le parlava della paternità di Dio e grande era in lei la fiducia nella Provvidenza, dimostrando gratitudine a Dio per i doni ricevuti e riconoscenza a tutti coloro che erano strumenti della Provvidenza. Margherita trascorre la sua vita in continua e incessante ricerca della volontà di Dio, unico criterio operativo delle sue scelte e delle sue azioni. A 23 anni sposa Francesco Bosco, rimasto vedovo a 27 anni, con il figlio Antonio e con la madre semiparalizzata. Margherita non diventa solo moglie, ma mamma adottiva e aiuto per la suocera. Questo passo è per i due sposi il più importante perché sanno bene che l’aver ricevuto santamente il sacramento del matrimonio è per loro fonte di molte benedizioni: per la serenità e la pace in famiglia, per i futuri figli, per il lavoro e per superare i momenti difficili della vita. Margherita vive con fedeltà e fecondità il suo sposalizio con Francesco Bosco. I loro anelli saranno segno di una fecondità che si allargherà alla famiglia fondata dal figlio Giovanni. Tutto ciò susciterà in Don Bosco e nei suoi ragazzi un grande senso di riconoscenza e di amore verso questa coppia di santi coniugi e genitori.
2. Esodo dalla cascina Biglione ai Becchi Solo dopo cinque anni di matrimonio, nel 1817, il marito Francesco muore. Don Bosco ricorderà che, uscendo dalla stanza la mamma in lacrime «mi prese per mano», e lo portò fuori. Ecco l’icona spirituale ed educativa di questa madre. Prende per mano il figlio e lo conduce fuori. Già da questo momento c’è quel «prendere per mano», che accomunerà madre e figlio sia nel cammino vocazionale che nella missione educativa. Margherita si trova in una situazione molto difficile dal punto di vista affettivo ed economico, compresa una pretestuosa vertenza mossale dalla famiglia Biglione. Ci sono debiti da pagare, il duro lavoro nei campi e una terribile carestia da affrontare, ma lei vive tutte queste prove con grande fede e incondizionata fiducia nella Provvidenza. La vedovanza le apre una nuova vocazione di educatrice attenta e premurosa verso i propri figli. Ella si dedica con tenacia e coraggio alla sua famiglia, rifiutando una vantaggiosa proposta matrimoniale. «Dio mi ha dato un marito e me lo ha tolto; morendo egli mi affidò tre figli, ed io sarei madre crudele, se li abbandonassi nel momento in cui hanno più bisogno di me… Il tutore… è un amico, io sono la madre dei miei figli; non li abbandonerò mai, quando anche mi si volesse dare tutto l’oro del mondo». Educa saggiamente i figli, anticipando l’ispirazione pedagogica del Sistema Preventivo. È una donna che ha fatto la scelta di Dio e sa trasmettere ai suoi figli, nella vita di tutti i giorni, il senso della sua presenza. Lo fa in modo semplice, spontaneo, incisivo, cogliendo tutte le piccole occasioni per educarli a vivere nella luce della fede. Lo fa anticipando quel metodo «della parola all’orecchio» che Don Bosco userà poi con i ragazzi per richiamarli alla vita di grazia, alla presenza di Dio. Lo fa aiutando a riconoscere nelle creature l’opera del Creatore, che è Padre provvidente e buono. Lo fa raccontando i fatti del Vangelo e la vita dei santi. Educazione cristiana. Prepara i figli a ricevere i sacramenti, trasmettendo loro un vivissimo senso della grandezza dei misteri di Dio. Giovannino Bosco riceve la prima Comunione il giorno di Pasqua del 1826: «O caro figlio, fu questo per te un gran giorno. Sono persuasa che Dio ha veramente preso possesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare quanto puoi per conservarti buono fino alla fine della tua vita». Queste parole di Mamma Margherita fanno di lei una vera madre spirituale dei suoi figli, in particolare di Giovannino, che si dimostrerà subito sensibile a questi insegnamenti, che hanno il sapore di una vera iniziazione, espressione della capacità di introdurre al mistero della grazia in una donna illetterata, ma ricca della sapienza dei piccoli. La fede in Dio si riflette nell’esigenza di rettitudine morale che pratica con sé stessa e inculca nei figli. «Contro il peccato aveva dichiarato una guerra perpetua. Non solo abborriva essa ciò che era male, ma si studiava di tenere lontano l’offesa del Signore anche da coloro che non le appartenevano. Quindi era sempre all’erta contro lo scandalo, prudente, ma risoluta e a costo di qualunque sacrificio». Il cuore che anima la vita di Mamma Margherita è un immenso amore e devozione verso la santissima Eucaristia. Ne sperimenta il valore salvifico e redentore nella partecipazione al santo sacrificio e nell’accettare le prove della vita. A questa fede e a questo amore educa i suoi figli fin dalla più tenera età, trasmettendo quella convinzione spirituale ed educativa che troverà in Don Bosco un prete innamorato dell’Eucaristia e che farà dell’Eucaristia una colonna del suo sistema educativo. La fede trova espressione nella vita di preghiera e in particolare la preghiera in comune in famiglia. Mamma Margherita trova la forza della buona educazione in un’intensa e curata vita cristiana. Precede con l’esempio e orienta con la parola. Alla sua scuola Giovannino apprende così in forma vitale la forza preventiva della grazia di Dio. «L’istruzione religiosa, che imparte una madre con la parola, con l’esempio, col confrontare la condotta del figlio, coi precetti particolari del catechismo, fa sì che la pratica della Religione diventi normale e il peccato si rifiuti per istinto, come per istinto si ama il bene. L’esser buono diventa un’abitudine, e la virtù non costa grande sforzo. Un fanciullo così educato deve fare una violenza a sé stesso per divenir malvagio. Margherita conosceva la forza di simile educazione cristiana e come la legge di Dio, insegnata col catechismo tutte le sere e ricordata di frequente anche lungo il giorno, fosse il mezzo sicuro per rendere i figli obbedienti ai precetti materni. Essa quindi ripeteva le domande e le risposte tante volte, quanto era necessario perché i figli le imparassero a memoria».
Testimone di carità. Nella sua povertà, pratica con gioia l’ospitalità, senza fare distinzioni, né esclusioni; aiuta i poveri, visita i malati e i figli apprendono da lei ad amare smisuratamente gli ultimi. «Era di carattere sensibilissimo, ma questa sensibilità era talmente trasnaturata in carità, che a buon diritto poteva esser chiamata la mamma di coloro che si trovavano in necessità». Questa carità si manifesta in una spiccata capacità di comprendere le situazioni, di trattare con le persone, di fare scelte giuste al momento giusto, di evitare eccessi e di mantenere in tutto un grande equilibrio: «Una donna di molto senno» (Don Giacinto Ballesio). La ragionevolezza dei suoi insegnamenti, la coerenza personale e la fermezza senza ira, toccano l’animo dei ragazzi. I proverbi e i detti fioriscono con facilità sulle sue labbra e in essi condensa precetti di vita: «Una cattiva lavandaia non trova mai una buona pietra»; «Chi a vent’anni non sa, a trenta non fa e sciocco morrà»; «La coscienza è come il solletico, chi lo sente e chi non lo sente». In particolare va sottolineato come Giovannino Bosco sarà un grande educatore dei ragazzi, «perché aveva avuto una mamma che aveva educato la sua affettività. Una mamma buona, carina, forte. Con tanto amore educò il suo cuore. Non si può capire Don Bosco senza Mamma Margherita. Non lo si può capire». Mamma Margherita ha contribuito con la sua mediazione materna all’opera dello Spirito nella plasmazione e formazione del cuore del figlio. Don Bosco imparò ad amare, come egli stesso dichiara, in seno alla Chiesa, grazie a Mamma Margherita e con l’intervento soprannaturale di Maria, che gli fu data da Gesù come “Madre e Maestra”.
3. Esodo dai Becchi alla cascina Moglia Un momento di grande prova per Margherita sono le difficili relazioni tra i figli. «I tre figlioletti di Margherita, Antonio, Giuseppe e Giovanni, erano diversi per indole e per inclinazioni. Antonio era rozzo di modi, di poca o nessuna delicatezza di sentimenti, esageratore manesco, vero ritratto del Me ne infischio io! Viveva di prepotenze. Spesse volte si lasciava andare a battere i fratellini e Mamma Margherita doveva correre per levarglieli di mano. Essa però non usò mai della forza per difenderli e fedele alla sua massima, non torse mai ad Antonio neppure un capello. Si può immaginare qual padronanza avesse Margherita sovra di sé per comprimere la voce del sangue e dell’amore che portava sviscerato a Giuseppe e a Giovanni. Antonio era stato messo a scuola e avea imparato a leggere e a scrivere, ma vantavasi di non aver mai studiato e di non essere andato a scuola. Non avea attitudine agli studi, si occupava dei lavori nella campagna». D’altra parte Antonio era in situazione di particolare disagio: maggiore di età, era ferito nella sua duplice condizione di orfano di padre e di madre. Egli nonostante le sue intemperanze è in genere remissivo, grazie all’atteggiamento di Mamma Margherita che riesce a dominarlo con bontà ragionante. Col tempo purtroppo la sua insofferenza nei confronti soprattutto di Giovannino, che non si lasciava facilmente sottomettere, andrà crescendo e anche le sue reazioni nei confronti di Mamma Margherita saranno più dure e a volte pesanti. In particolare Antonio non accetta che Giovannino si dedichi agli studi e le tensioni arriveranno a un punto culminante: «Voglio finirla con questa grammatica. Io sono venuto grande e grosso, non ho mai veduto questi libri». Antonio è figlio del suo tempo e della sua condizione contadina e non riesce né a comprendere, né ad accettare che il fratello possa dedicarsi allo studio. Tutti sono turbati, ma chi soffre più di tutti è Mamma Margherita, che era coinvolta in prima persona e aveva giorno dopo giorno la guerra in casa: «Mia madre era afflittissima, io piangeva, il cappellano addolorato». Di fronte alla gelosia e all’ostilità di Antonio, Margherita cerca la soluzione ai conflitti famigliari, inviando per circa due anni Giovannino alla cascina Moglia e successivamente provvede in modo irremovibile, di fronte alle resistenze di Antonio, alla divisione dei beni, al fine di permettere a Giovanni di studiare. Certamente è solo il dodicenne Giovannino che se ne va da casa, ma anche la Madre vive questo profondo distacco. Non dimentichiamo che Don Bosco nelle Memorie dell’oratorio non parla di questo periodo. Tale silenzio fa pensare ad un vissuto difficile da elaborare, essendo in quel tempo un ragazzino di dodici anni, costretto ad andarsene da casa per l’impossibilità di convivenza con il fratello. Giovanni soffre in silenzio, attende l’ora della Provvidenza e con lui Mamma Margherita, che non vuole chiudere il cammino del figlio, ma aprirlo attraverso vie speciali, affidandolo ad una buona famiglia. La soluzione presa dalla mamma e accettata dal figlio era una scelta temporanea in vista di una soluzione definitiva. Era fiducia e abbandono in Dio. Madre e figlio vivono una stagione di attesa.
Nino, un giovane come tanti… incontra nel suo Signore lo scopo della vita
Nino Baglieri nasce a Modica Alta il 1° maggio 1951 da mamma Giuseppa e papà Pietro. Dopo appena quattro giorni è battezzato nella Parrocchia di Sant’Antonio da Padova. Cresce come tanti ragazzi, con il gruppo di amici, qualche fatica negli anni della scuola e il sogno di un futuro fatto di lavoro e della possibilità di formarsi una famiglia. Pochi giorni dopo il suo diciassettesimo compleanno, festeggiato al mare con gli amici, il 6 maggio 1968, memoria liturgica di san Domenico Savio, Nino durante una giornata di ordinario lavoro come muratore cade da 17 metri di altezza quando cede l’impalcatura del palazzo – non lontano da casa – al quale stava lavorando: 17 metri, precisa Nino, nel suo Quaderno-Diario, «1 metro per ogni anno di vita». «Le mie condizioni», racconta, «erano così gravi che i medici si aspettavano il mio decesso da un momento all’altro (ricevetti addirittura l’estrema unzione). [Un medico] fece un’insolita proposta ai miei genitori: “se vostro figlio riuscisse a superare questi momenti, il che sarebbe solo frutto di un miracolo, sarebbe destinato a passare la sua vita su un letto; se voi credete, con una puntura letale, sia a voi che a lui risparmierete tante sofferenze”. “Se Dio lo vuole con sé – rispose la mamma – lo prenda, ma se lo lascia vivere sarò felice di accudirlo per tutta la vita”. Così la mia mamma, che è sempre stata una donna di grande fede e coraggio, aprì le braccia e il cuore ed abbracciò per prima la croce». Nino affronterà anni difficili anche per il peregrinare in diversi Ospedali, dove dolorose terapie e operazioni lo proveranno duramente, non sortendo la guarigione desiderata. Resterà tetraplegico per tutta la vita. Ritornato a casa, seguito dall’affetto della famiglia e dal sacrificio eroico della mamma che gli è sempre accanto, Nino Baglieri ritrova gli sguardi di amici e conoscenti, ma vede in essi troppo spesso un compatire che lo disturba: “mischinu poviru Ninuzzu…” (“poveretto povero Nino…”). Finisce così per chiudersi in sé stesso, in dieci dolorosi anni di solitudine e rabbia. Sono anni di disperazione e bestemmie per la non accettazione del suo stato e di domande come: “Perché proprio a me è capitato tutto questo?”. La svolta arriva il 24 marzo 1978, vigilia dell’Annunciazione e – quell’anno – Venerdì Santo: un sacerdote del Rinnovamento nello Spirito Santo va a trovarlo con alcune persone ed essi pregano su di lui. La mattina Nino, sempre allettato, aveva chiesto alla mamma di vestirlo: «Se il Signore mi guarisce non sarò nudo davanti alle persone». Leggiamo dal suo Quaderno-Diario: “Padre Aldo cominciò subito la Preghiera, io ero ansioso ed emozionato, mi pose le mani sulla testa, io non capivo questo gesto; cominciò ad invocare lo Spirito Santo affinché scendesse su di me. Dopo qualche minuto, sotto l’imposizione delle mani, sentii un grande calore in tutto il corpo, un grande formicolio, come una forza nuova entrare in me, una forza rigeneratrice, una forza Viva e qualcosa di vecchio uscire. Lo Spirito Santo era sceso su di me, con potere è entrato nel mio cuore, è stata un’Effusione d’Amore e di Vita, in quell’istante ho accettato la Croce, ho detto il mio Sì a Gesù e sono rinato a Vita Nuova, sono diventato un uomo nuovo, con un cuore nuovo; tutta la disperazione di 10 anni cancellata in pochi secondi, il mio cuore è stato riempito di una gioia nuova e vera che io non avevo mai conosciuto. Il Signore mi ha guarito, io volevo la guarigione fisica ed invece il Signore ha operato qualcosa di più grande, la Guarigione dello Spirito, così ho trovato la Pace, la Gioia, la Serenità, e tanta forza e tanta voglia di vivere. Finì la preghiera, il mio cuore traboccava di gioia, i miei occhi brillavano e il mio viso era raggiante; pur restando nelle stesse condizioni di sofferente ero felice». Per Nino Baglieri e la sua famiglia comincia allora un nuovo periodo, un periodo di rinascita segnato in Nino dalla riscoperta della fede e dall’amore per la Parola di Dio, che egli legge per un anno di seguito. Si apre a quei rapporti umani dai quali si era sottratto senza che gli altri invece avessero mai smesso di volergli bene. Un giorno Nino, sollecitato da alcuni bambini che erano vicino a lui e gli chiedono aiuto per fare un disegno, si accorge di avere il dono di scrivere con la bocca: in breve tempo sarà in grado di scrivere molto bene – meglio di come quando scrivesse a mano – e questo gli permette di oggettivare il proprio vissuto, sia nella forma personalissima di numerosi Quaderni-Diario, sia attraverso poesie / brevi componimenti che inizierà a leggere alla Radio. Arriveranno poi, con il dilatarsi della rete relazionale, migliaia di lettere, amicizie, incontri…, attraverso i quali Nino espliciterà una particolare forma di apostolato, sino al termine della vita. Approfondisce intanto il cammino spirituale attraverso tre direttrici, che ritmano la sua esperienza ecclesiale, dentro l’obbedienza agli incontri che Dio mette sul suo cammino: la vicinanza al Rinnovamento nello Spirito Santo; il legame con la realtà dei Camilliani (Ministri degli Infermi); il cammino con i Salesiani, diventando dapprima Salesiano Cooperatore e poi consacrato laico nell’Istituto Secolare dei Volontari con Don Bosco (interpellato dai delegati del Rettor Maggiore, dà anche un contributo nella stesura del Progetto di vita dei CDB). Saranno i Camilliani per primi a proporgli una forma di consacrazione: essa, umanamente parlando, sembrava intercettare lo specifico della sua esistenza, segnata dalla sofferenza. Il posto di Nino però è a casa di Don Bosco ed egli lo scopre nel tempo, non senza momenti di fatica, sempre però affidandosi a chi lo guida e imparando a confrontare i propri desideri con le modalità attraverso cui la Chiesa chiama. E mentre Nino percorre le tappe di formazione e consacrazione (fino alla professione perpetua, il 31 agosto 2004), sono tante le vocazioni – anche al sacerdozio e alla vita consacrata femminile – che da lui traggono ispirazione, forza, luce. Il responsabile Mondiale dei “CDB” così si esprime sul senso della consacrazione laicale oggi, vissuta anche da Nino: «Nino Baglieri è stato per noi Volontari Con Don Bosco un dono speciale del cielo: è il primo di noi fratelli che ci mostra un cammino di santità attraverso una testimonianza umile, discreta, gioiosa. Nino ha realizzato in pienezza la vocazione alla secolarità consacrata salesiana e ci insegna che la santità è possibile in ogni condizione di vita, anche quelle segnate dall’incontro con la croce e la sofferenza. Nino ci ricorda che tutti possiamo vincere in Colui che ci dà forza: la Croce che lui ha tanto amato, come uno sposo fedele, è stata il ponte attraverso cui ha unito la sua storia personale di uomo con la storia della salvezza; è stata l’altare su cui ha celebrato il suo sacrificio di lode al Signore della vita; è stata la scala per il paradiso. Animati dal suo esempio anche noi, come Nino, possiamo diventare capaci di trasformare come lievito buono tutte le realtà quotidiane, certi di trovare in lui un modello e un potente intercessore presso Dio». Nino, che non può muoversi, è Nino che nel tempo apprende a non scappare, a non sottrarsi alle richieste e diventa sempre più accessibile e semplice come il suo Signore. Il suo letto, la sua stanzetta o la sedia a rotelle si trasfigurano così in quell’“altare” dove tanti portano gioie e dolori: egli le accoglie, si offre e offre le proprie sofferenze per essi. Nino “che sta” è l’amico sul quale si possono “scaricare” tante preoccupazioni e “deporre” i pesi: lui accoglie col sorriso, anche se alla sua vita – custoditi nel riserbo – non mancheranno momenti di grande prova morale e spirituale. Nelle lettere, negli incontri, nelle amicizie attesta grande realismo e sa essere sempre vero, riconoscendo la propria piccolezza ma anche la grandezza del dono di Dio in lui e attraverso di lui. Durante un incontro con i giovani a Loreto, alla presenza del Card. Angelo Comastri, dirà: «Se qualcuno di voi è in peccato mortale, sta molto peggio di me!»: è la consapevolezza, tutta salesiana, che è meglio “la morte, ma non i peccati”, e che veri amici devono essere Gesù e Maria, da cui non separarsi mai. Il Vescovo della diocesi di Noto, Mons. Salvatore Rumeo, sottolinea che «la divina avventura di Nino Baglieri ricorda a tutti noi che la santità è possibile e non appartiene ai secoli passati: la santità è la via per raggiungere il Cuore di Dio. Nella vita cristiana non ci sono altre soluzioni. Abbracciare la Croce vuol dire stare con Gesù nella stagione della sofferenza per partecipare alla Sua Luce. E Nino è nella luce di Dio». Nino è nato al Cielo il 2 marzo 2007, dopo aver ininterrottamente festeggiato dal 1982 il 6 maggio (giorno della caduta) quale “anniversario della Croce”. Dopo la morte, viene vestito con la tuta e le scarpe da ginnastica, affinché, come aveva detto, «nel mio ultimo viaggio verso Dio, potrò corrergli incontro». Don Giovanni d’Andrea, ispettore dei Salesiani di Sicilia ci invita così a «… conoscere sempre meglio e sempre più la persona di Nino ed il suo messaggio di speranza. Anche noi come Nino vogliamo indossare “tuta e scarpette” e “correre” sulla strada della santità che vuol dire realizzare il Sogno di Dio per ciascuno di noi, un Sogno che ognuno di noi è: l’essere “felici nel tempo e nell’eternità”, come don Bosco scrisse nella sua Lettera da Roma, il 10 maggio 1884». Nel suo testamento spirituale Nino ci esorta a «non lasciarlo senza far nulla»: la sua Causa di Beatificazione e Canonizzazione è, ora, lo strumento, messo a disposizione dalla Chiesa per imparare a conoscerlo e ad amarlo sempre più, a incontrarlo come amico ed esempio nella sequela di Gesù, a rivolgersi a lui nella preghiera, chiedendogli quelle grazie che sono arrivate già numerosissime. «La testimonianza di Nino – auspica il Postulatore Generale don Pierluigi Cameroni sdb – sia segno di speranza per quanti sono nella prova e nel dolore, e per le nuove generazioni, perché possano imparare ad affrontare la vita con fede e coraggio, senza scoraggiarsi e abbattersi. Nino ci sorride e ci sostiene perché, come lui, possiamo fare la nostra “corsa” verso la gioia del cielo». Infine il vescovo Rumeo, al termine della Sessione di chiusura dell’Inchiesta diocesana, ha detto: «È una gioia grande aver raggiunto questo traguardo per Nino e soprattutto per la Chiesa di Noto, dobbiamo pregare Nino, bisogna intensificare la preghiera, dobbiamo chiedere qualche grazia a Nino perché possa intercedere dal cielo. È un invito a noi a camminare sulla via della santità. Quella della santità è un’arte difficile perché il cuore della santità è il Vangelo. Essere santi significa accogliere la parola del Signore: a chi ti percuote la guancia, porgi anche l’altra, a chi ti chiede il mantello offri anche la tunica. Questa è la santità! […] In un mondo dove prevale l’individualismo dobbiamo scegliere come intendere la vita: o scegliamo la ricompensa degli uomini, o riceviamo la ricompensa di Dio. Lo ha detto Gesù, lui è venuto e rimane segno di contraddizione perché è lo spartiacque, l’anno zero. La venuta di Cristo diventa l’ago della bilancia: o con lui, o contro di lui. Amare e amarci e il claim che deve guidare la nostra esistenza».
Roberto Chiaramonte
Don Bosco e sua madre
Nel 1965 venne commemorato il 150° anniversario della nascita di Don Bosco. Tra le conferenze per l’occasione ce ne fu una fatta da Mons. Giuseppe Angrisani, allora Vescovo di Casale, e Presidente Nazionale degli Exallievi sacerdoti. L’oratore nel suo discorso, accennando a Mamma Margherita, ebbe a dire di Don Bosco: «Per fortuna sua quella mamma gli fu a fianco per tanti e tanti anni, ed io penso e credo di essere nel vero affermando che l’aquila dei Becchi non avrebbe spiccato il volo fino ai confini della terra se la rondinella della Serra di Capriglio non fosse venuta a nidificare sotto la trave dell’umilissima casa della famiglia Bosco» (BS, sett. 1966, p. 10). Quella dell’illustre oratore fu un’immagine altamente poetica, che esprimeva tuttavia una realtà. Non per nulla 30 anni prima, G. Joergensen, senza voler profanare la Sacra Scrittura, si permetteva di iniziare il suo Don Bosco edito dalla SEI con le parole: «In principio c’era la madre». L’influsso materno negli atteggiamenti religiosi del fanciullo e nella religiosità dell’adulto è riconosciuto dagli esperti di psicologia religiosa ed è, nel caso nostro, più che evidente: San Giovanni Bosco, che ebbe sempre per sua madre la più grande venerazione, ricopiò da lei un profondo senso religioso della vita. «Dio domina come un sole meridiano la mente di Don Bosco» (Pietro Stella).
Iddio in cima ai suoi pensieri È un fatto facile da documentarsi: Don Bosco ebbe sempre Iddio in cima a tutti i suoi pensieri. Uomo di azione, fu prima di tutto uomo di preghiera. Ricorda egli stesso che fu la madre ad insegnargli a pregare, cioè a conversare con Dio: — Mi faceva mettere coi miei fratelli in ginocchio mattino e sera, e tutti insieme recitavamo le preghiere in comune (MO 21-22). Quando Giovanni dovette lasciare il tetto materno e andar garzone di campagna alla cascina Moglia, la preghiera era già il suo abituale alimento e conforto. In quella casa di Moncucco «si adempivano i doveri del buon cristiano con la regolarità delle inveterate abitudini domestiche, tenaci sempre nelle famiglie campagnole, tenacissime a quei tempi di vita sanamente paesana» (E. Ceria). Ma Giovanni faceva già qualcosa di più: pregava in ginocchio, pregava spesso, pregava a lungo. Anche fuori casa, mentre conduceva le vacche al pascolo, sostava ogni tanto in preghiera. La mamma gli aveva anche instillato nel cuore una tenera devozione alla Vergine Santissima. Alla sua entrata in Seminario, gli aveva detto: — Quando sei venuto al mondo, ti ho consacrato alla Beata Vergine; quando hai cominciato i tuoi studi, ti ho raccomandato la devozione a questa nostra Madre; e se diverrai sacerdote, raccomanda e propaga sempre la devozione a Maria (MO, 89). Mamma Margherita, dopo aver educato il figlio Giovanni nella casetta dei Becchi, dopo averlo maternamente seguito ed incoraggiato nel suo duro cammino vocazionale, visse ancora per dieci anni al suo fianco, coprendo un delicatissimo ruolo materno nell’educazione di quei giovani da lui radunati, con uno stile che rivive in tanti aspetti della prassi educativa di Don Bosco: consapevolezza della presenza di Dio, laboriosità che è senso della dignità umana e cristiana, coraggio ispiratore di opere, ragione che è dialogo e accettazione degli altri, amore esigente ma rasserenante. Senza alcun dubbio, quindi, la madre svolse una funzione unica nell’educazione e nel primo apostolato del figlio, incidendo profondamente sullo spirito e sullo stile del suo futuro operare. Fatto sacerdote ed iniziato il lavoro tra la gioventù, Don Bosco diede il nome di Oratorio alla sua opera. Non è senza motivo che il centro propulsore di tutte le opere di Don Bosco sia stato chiamato “Oratorio”. Il titolo indica l’attività dominante, lo scopo principale di un’impresa. E Don Bosco, come lui stesso confessava, diede il nome di Oratorio alla sua «casa» per indicare chiaramente come la preghiera fosse la sola potenza su cui fare assegnamento. Non aveva nessun’altra forza a disposizione per animare i suoi oratori, avviare l’ospizio, risolvere il problema del pane quotidiano, porre le basi del la sua Congregazione. Perciò molti, lo sappiamo, dubitarono persino della sua sanità mentale. Ciò che i grandi non capivano, lo capirono invece i piccoli, cioè i giovani che, dopo averlo conosciuto, non si staccavano più da lui. Vedevano in lui la viva immagine del Signore. Sempre calmo e sereno, tutto a loro disposizione, fervente nel pregare, faceto nel parlare, paterno nel guidarli al bene, tenendo poi sempre viva in tutti la speranza della salvezza. Se qualcuno, asserisce un teste, gli avesse domandato a bruciapelo: Don Bosco, dov’è incamminato? egli avrebbe risposto: Andiamo in Paradiso! Questo senso religioso della vita, che permeò tutte le opere e gli scritti di Don Bosco, era evidente retaggio di sua madre. La santità di Don Bosco era attinta alla fonte divina della Grazia e si modellava su Cristo, maestro di ogni perfezione, ma affondava le radici in un valore spirituale materno, la sapienza cristiana. L’albero buono produce frutti buoni.
Glielo aveva insegnato Lei La mamma di Don Bosco, Margherita Occhiena, dal novembre 1846, quando a 58 anni di età, aveva lasciato la sua casetta dei Becchi, divideva con il figlio a Valdocco una vita di privazioni e sacrifici tutta spesa per i monelli della periferia di Torino. Passarono quattro anni, e lei si sentiva ormai venire meno le forze. Una grande stanchezza le era penetrata nelle ossa, una forte nostalgia nel cuore. Entrò nella stanza di Don Bosco e disse: «Ascoltami, Giovanni, non è più possibile andar avanti così. I ragazzi tutti i giorni me ne combinano una. Ora mi gettano a terra la biancheria pulita stesa al sole, ora mi calpestano la verdura nell’orto. Stracciano i vestiti in modo che non c’è più verso di rattopparli. Perdono calze e camicie. Portano via gli arnesi di casa per i loro divertimenti e mi fanno girare tutto il giorno per ritrovarli. Io, in mezzo a questa confusione, ci perdo la testa, Vedi! Quasi, quasi, me ne ritorno ai Becchi». Don Bosco fissò in volto sua mamma, senza parlare. Poi le indicò il Crocifisso appeso alla parete. Mamma Margherita capì. I suoi occhi si riempirono di lacrime. — Hai ragione, hai ragione, esclamò; e tornò alle sue faccende, per altri sei anni, fino alla sua morte (G.B. LEMOYNE, Mamma Margherita, Torino, SEI, 1956, p. 155-156). Mamma Margherita nutriva una profonda devozione alla Passione di Cristo, a quella Croce che dava senso, forza e speranza a tutte le sue croci. Lo aveva insegnato lei a suo figlio. Le bastò uno sguardo al Crocifisso!… Per lei la vita era una missione da compiere, il tempo un dono di Dio, il lavoro un contributo umano al disegno del Creatore, la storia dell’uomo cosa sacra perché Dio, nostro Signore, Padre e Salvatore, è al centro, al principio e alla fine del mondo e dell’uomo. Lei aveva insegnato tutto questo a suo figlio con la parola e con l’esempio. Madre e figlio: una fede ed una speranza riposte in Dio solo, e una carità ardente che bruciò nel loro cuore sino alla morte.
La venerabile Dorotea di Chopitea
Chi era Dorotea di Chopitea? Era una cooperatrice salesiana, una vera madre dei poveri della città di Barcellona, creatrice di numerose istituzioni al servizio della carità e della missione apostolica della Chiesa. La sua figura assume oggi un’importanza particolare e ci incoraggia a imitare il suo esempio di essere “misericordiosi come il Padre”.
Una vizcayano in Cile Nel 1790, durante il regno di Carlo IV, un vizcayano, Pedro Nicolás de Chopitea, originario di Lequeitio, emigrò in Cile, allora parte dell’Impero spagnolo. Il giovane emigrante prosperò e sposò una giovane creola, Isabel de Villota.
Don Pedro Nolasco Chopitea e Isabel Villota si stabilirono a Santiago del Cile. Dio concesse loro una numerosa famiglia di 18 figli, anche se solo 12 sopravvissero, cinque maschi e sette femmine. La più piccola nacque, fu battezzata e cresimata lo stesso giorno, il 5 agosto 1816, e prese i nomi di Antonia, Dorotea e Dolores, anche se fu sempre conosciuta come Dorotea, che in greco significa “dono di Dio”. La famiglia di Pietro ed Elisabetta era benestante, cristiana e impegnata a utilizzare le proprie ricchezze a beneficio dei poveri che la circondava.
Nel 1816, anno di nascita di Dorotea, i cileni iniziarono a chiedere apertamente l’indipendenza dalla Spagna, che ottennero nel 1818. L’anno successivo Don Pedro, che si era schierato con i realisti, cioè a favore della Spagna, e per questo era stato imprigionato, trasferì la sua famiglia oltreoceano a Barcellona, in modo che le turbolenze politiche non coinvolgessero i suoi figli più grandi, pur continuando a mantenere una fitta rete di relazioni con gli ambienti politici ed economici del Cile.
Nella grande casa di Barcellona, Dorotea, di tre anni, fu affidata alle cure della sorella Josefina, di dodici anni. Così Josefina, in seguito “Suor Josefina”, fu per la piccola Dorotea la “piccola madre giovane”. Si affidò a lei con totale affetto, lasciandosi guidare con docilità.
A tredici anni, su consiglio di Josefina, prese come direttore spirituale il sacerdote Pedro Nardó, della parrocchia di Santa Maria del Mar. Per 50 anni Pedro fu il suo confessore e il suo consigliere nei momenti più delicati e difficili. Il sacerdote le insegnò con gentilezza e forza a “separare il suo cuore dalle ricchezze”.
Per tutta la vita, Dorotea considerò le ricchezze della sua famiglia non come una fonte di divertimento e dissipazione, ma come un grande mezzo messo in mano da Dio per fare del bene ai poveri. Don Pedro Nardó le fece leggere più volte la parabola evangelica del ricco e del povero Lazzaro. Come segno distintivo cristiano, consigliò a Josefina e Dorotea di vestirsi sempre in modo modesto e semplice, senza la cascata di nastri e garze di seta leggera che la moda dell’epoca imponeva alle giovani donne aristocratiche.
Dorotea ricevette in famiglia la solida istruzione che all’epoca veniva impartita alle ragazze provenienti da famiglie benestanti. Infatti, in seguito aiutò molte volte il marito nella sua professione di mercante.
Moglie all’età di sedici anni Le Chopiteas si erano incontrate a Barcellona con degli amici cileni, la famiglia Serra, che era tornata in Spagna per lo stesso motivo, l’indipendenza. Il padre, Mariano Serra i Soler, era originario di Palafrugell e si era ritagliato una brillante posizione economica. Sposato con una giovane creola, Mariana Muñoz, ebbe quattro figli, il maggiore dei quali, José María, nacque in Cile il 4 novembre 1810.
All’età di sedici anni, Dorotea visse il momento più delicato della sua vita. Era fidanzata con José María Serra, anche se si parlava del matrimonio come di un evento futuro. Ma accadde che Don Pedro Chopitea dovette tornare in America Latina per difendere i suoi interessi e poco dopo sua moglie Isabel si preparò ad attraversare l’Atlantico per raggiungerlo in Uruguay insieme ai loro figli più piccoli. Improvvisamente, Dorotea si trovò di fronte a una decisione fondamentale per la sua vita: rompere il profondo affetto che la legava a José María Serra e partire con sua madre, oppure sposarsi all’età di sedici anni. Dorotea, su consiglio di Don Pedro Nardó, decise di sposarsi. Il matrimonio ebbe luogo nella basilica Santa Maria del Mar il 31 ottobre 1832.
La giovane coppia si stabilì in Carrer Montcada, nel palazzo dei genitori del marito. L’intesa tra i due era perfetta e divenne fonte di felicità e benessere.
Dorotea era una persona esile e smunta, con un carattere forte e determinato. Il “ti amerò sempre” giurato dai due coniugi davanti a Dio si trasformò in una vita matrimoniale affettuosa e solida, che diede vita a sei figlie: tutte ricevettero il nome di Maria con vari complementi: Maria Dolores, Maria Ana, Maria Isabel, Maria Luisa, Maria Jesus e Maria del Carmen. La prima venne al mondo nel 1834, l’ultima nel 1845.
Cinquant’anni dopo il “sì” pronunciato nella chiesa di Santa Maria del Mar, José Maria Serra dirà che in tutti quegli anni “il nostro amore è cresciuto di giorno in giorno”.
Dorotea, madre dei poveri Dorotea è la padrona di casa, in cui lavorano diverse famiglie di dipendenti. È l’intelligente collaboratrice di José María, che presto raggiunge fama e notorietà nel mondo degli affari. È al suo fianco nei momenti di successo e in quelli di incertezza e fallimento. Dorotea era al fianco del marito quando questi viaggiava all’estero. Era con lui nella Russia dello zar Alessandro II, nell’Italia dei Savoia e nella Roma di papa Leone XIII.
Nella sua visita a Roma, all’età di sessantadue anni, fu accompagnata dalla nipote Isidora Pons, che testimoniò al processo apostolico: “Fu ricevuta dal Papa. La deferenza con cui Leone XIII trattò mia zia, alla quale offrì in dono il suo prendisole bianco, mi è rimasta impressa”.
Affettuosa e forte I dipendenti della casa Serra si sentivano parte della famiglia. Maria Arnenos ha dichiarato sotto giuramento: “Aveva un affetto materno per noi dipendenti. Si occupava del nostro benessere materiale e spirituale con un amore concreto. Quando qualcuno era malato, faceva in modo che non gli mancasse nulla, si occupava anche dei più piccoli dettagli”. Il suo stipendio era più alto di quello dei dipendenti di altre famiglie.
Una persona delicata, un carattere forte e determinato. Questo fu il campo di battaglia su cui Dorotea lottò per tutta la vita per acquisire l’umiltà e la calma che la natura non le aveva dato. Per quanto grande fosse il suo impeto, maggiore era la sua forza di vivere sempre alla presenza di Dio. Così scrisse nei suoi appunti spirituali: “Mi sforzerò di fare in modo che fin dal mattino tutte le mie azioni siano rivolte a Dio”, “Non rinuncerò alla meditazione e alla lettura spirituale senza un serio motivo”, “Farò venti atti quotidiani di mortificazione e altrettanti di amore per Dio”, “Compiere tutte le azioni da Dio e per Dio, rinnovando frequentemente la purezza dell’intenzione… Prometto a Dio di purificare la mia intenzione in tutte le mie azioni”.
Cooperatrice Salesiana Negli ultimi decenni del 1800, Barcellona è una città in piena “rivoluzione industriale”. La periferia della città era piena di persone molto povere. Mancavano rifugi, ospedali e scuole. Negli esercizi spirituali che fece nel 1867, Doña Dorotea scrisse tra i suoi propositi: “La mia virtù preferita sarà la carità verso i poveri, anche se mi costerà grandi sacrifici”. E Adrián de Gispert, secondo nipote di Dorotea, ha testimoniato: “So che zia Dorotea ha fondato ospedali, rifugi, scuole, laboratori di arti e mestieri e molte altre opere. Ricordo di aver visitato alcune di esse in sua compagnia. Quando il marito era in vita, la aiutava in queste opere caritatevoli e sociali. Dopo la sua morte, salvaguardò innanzitutto il patrimonio delle sue cinque figlie; poi, i suoi beni personali (la sua ricchissima dote, il patrimonio ricevuto personalmente in eredità, i beni che il marito volle registrare a suo nome) li utilizzò per i poveri con un’amministrazione attenta e prudente”. Un testimone dichiarò sotto giuramento: “Dopo aver provveduto alla sua famiglia, dedicò il resto ai poveri come atto di giustizia”.
Avendo notizie di don Bosco, gli scrisse il 20 settembre 1882 (lei aveva sessantasei anni, don Bosco sessantasette). Gli disse che Barcellona era una città “eminentemente industriale e mercantile” e che la sua giovane e dinamica congregazione avrebbe trovato molto lavoro tra i ragazzi della periferia. Offrì una scuola per apprendisti lavoratori.
Don Felipe Rinaldi arrivò a Barcellona nel 1889 e scrive: “Ci recammo a Barcellona su sua chiamata, perché voleva provvedere soprattutto ai giovani lavoratori e agli orfani abbandonati. Comprò un terreno con una casa, di cui curò l’ampliamento. Arrivai a Barcellona quando la costruzione era già stata completata… Ho visto con i miei occhi molti casi di assistenza a bambini, vedove, anziani, disoccupati e malati. Molte volte ho sentito dire che svolgeva personalmente i servizi più umili per i malati”.
Nel 1884 pensò di affidare un asilo alle Figlie di Maria Ausiliatrice: bisognava pensare ai bambini di quella periferia.
Don Bosco poté recarsi a Barcellona solo nella primavera del 1886 e le cronache riportano ampiamente l’accoglienza trionfale che gli fu riservata nella metropoli catalana e le attenzioni affettuose e rispettose con cui Doña Dorotea, le figlie, i nipoti e i parenti circondarono il santo.
Il 5 febbraio 1888, quando fu informato della morte di don Bosco, il Beato Miguel Rúa gli scrisse: “Il nostro carissimo padre Don Bosco è volato in cielo, lasciando i suoi figli pieni di dolore”. Egli mostrò sempre una viva stima e un grato affetto per la nostra madre di Barcellona, come la chiamava, la madre dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice.
Inoltre, prima di morire, le assicurò che le avrebbe preparato un buon posto in cielo. Nello stesso anno, Doña Dorotea consegnò ai Salesiani l’oratorio e le scuole popolari di via Rocafort, nel cuore di Barcellona.
L’ultima consegna alla Famiglia Salesiana fu la scuola “Santa Dorotea”, affidata alle Figlie di Maria Ausiliatrice. Per il suo acquisto erano necessarie 60.000 pesetas e lei le consegnò dicendo: “Dio mi vuole povera”. Quella somma fu la sua ultima provvista per la vecchiaia, ciò che conservò per vivere modestamente insieme a Maria, la sua fedele compagna.
Il Venerdì Santo del 1891, nella fredda chiesa di Maria Reparatrice, mentre faceva la colletta, contrasse una polmonite. Aveva settantacinque anni e fu subito chiaro che non avrebbe superato la crisi. Don Rinaldi andò da lei e rimase a lungo al suo capezzale. Scrive: “Nei pochi giorni in cui era ancora viva, non pensava alla sua malattia ma ai poveri e alla sua anima. Voleva dire qualcosa in particolare a ciascuna delle sue figlie e le benedisse tutte nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, come un antico patriarca. Mentre stavamo intorno al suo letto raccomandandola al Signore, a un certo punto alzò gli occhi. Il confessore le presentò il crocifisso da baciare. Noi che eravamo presenti ci inginocchiammo. Dona Dorotea si raccolse, chiuse gli occhi e spirò dolcemente”.
Era il 3 aprile 1891, cinque giorni dopo la Pasqua.
Papa Giovanni Paolo II la dichiarò “venerabile” il 9 giugno 1983, cioè “una cristiana che ha praticato in modo eroico l’amore di Dio e del prossimo”.
don Echave-Sustaeta del Villar Nicolás, sdb Vice-Postulatore della causa della venerabile
I benefattori di don Bosco
Fare del bene ai giovani richiede non solo dedizione, ma anche ingenti risorse materiali e finanziarie. Don Bosco diceva «Io confido illimitatamente nella Divina Provvidenza ma anche la Provvidenza vuol essere aiutata da immensi sforzi nostri»; detto e fatto.
Ai suoi missionari partenti, l’11 novembre 1875, don Bosco diede 20 preziosi «Ricordi». Il primo era: «Cercate anime, ma non denari, né onori né dignità». Don Bosco dovette egli stesso per tutta la vita andare alla ricerca di denaro ma voleva che i suoi figli non si affannassero nel cercare danaro, non si preoccupassero quando veniva loro a mancare, non perdessero la testa quando ne trovavano, ma fossero pronti ad ogni umiliazione e sacrificio nella ricerca del necessario, con piena fiducia nella Divina Provvidenza che non lo avrebbe mai lasciato mancare. E ne diede loro l’esempio.
«Il Santo dei milioni!» Don Bosco nella sua vita maneggiò grandi somme di denaro, raccolte a prezzo di enormi sacrifici, umilianti questue, laboriose lotterie, incessanti peregrinazioni. Con questo denaro egli diede pane, vestito, alloggio e lavoro a tanti poveri ragazzi, comperò case, aprì ospizi e collegi, costruì chiese, avviò grandi iniziative tipografiche ed editoriali, lanciò le missioni salesiane in America e, infine, già affranto dagli acciacchi della vecchiaia, eresse ancora a Roma, in obbedienza al Papa, la Basilica del Sacro Cuore. Non tutti compresero lo spirito che lo animava, non tutti apprezzarono le sue multiformi attività e la stampa anticlericale si sbizzarrì in ridicole insinuazioni. Il 4 aprile 1872 il periodico satirico torinese «Il Fischietto» disse don Bosco fornito di «fondi favolosi», mentre in sua morte sul giornale «Il Birichin» Luigi Pietracqua pubblicava un sonetto blasfemo in cui chiamava don Bosco uomo astuto «capace di cavar sangue da una rapa» e lo definiva «il Santo dei milioni» perché avrebbe contato i milioni a palate senza guadagnarli con il proprio sudore. Chi conosce lo stile di povertà in cui visse e morì il Santo, può facilmente capire di qual ingiusta fosse la satira del Pietracqua. Don Bosco fu, sì, un abile amministratore del denaro che la carità dei buoni gli procurava, ma non tenne mai nulla per sé. Il mobilio della sua cameretta a Valdocco consisteva in un lettuccio di ferro, un tavolino, una sedia e, più tardi, un sofà, senza tendine alle finestre, senza tappeti, senza neanche uno scendiletto. Nell’ultima malattia, tormentato dalla sete, quando gli provvidero acqua di seltz per dargli sollievo, non voleva berla credendola una bevanda costosa. Fu necessario assicurarlo che costava solo sette centesimi la bottiglia. Pochi giorni prima di morire ordinò a don Viglietti di osservare nelle tasche dei suoi abiti e consegnare a don Rua il portamonete, per poter morire senza un soldo in tasca.
Nobiltà filantropica Le Memorie Biografiche e l’Epistolario di don Bosco danno una ricca documentazione sui suoi benefattori. Vi troviamo i nomi di quasi 300 nobili famiglie delle quali ci è qui impossibile dare l’elenco.
Certo non si deve commettere l’errore di limitare i benefattori di don Bosco alla sola nobiltà. Egli ottenne aiuto e collaborazione disinteressata da migliaia di altre persone del ceto ecclesiastico e civile, della borghesia e del popolo, a cominciare da quella benefattrice incomparabile che fu Mamma Margherita. Ci fermiamo su una figura della nobiltà che si distinse nel sostegno all’opera di don Bosco, facendo notare l’atteggiamento semplice e delicato e, nello stesso tempo, coraggioso ed apostolico, che egli seppe tenere per ricevere e fare del bene. Nel 1866 don Bosco indirizzava una lettera alla Contessa Enrichetta Bosco di Ruffino, nata Riccardi, già da anni in relazione con l’Oratorio di Valdocco. Era una delle Signore che si riunivano settimanalmente per riparare i vestiti dei giovani ricoverati. Ecco il testo:
«Benemerita Sig.ra Contessa, Non posso andar a far visita a V.S. benemerita come desidero, ma ci vado colla persona di Gesù Cristo nascosto sotto a questi cenci che a Lei raccomando perché nella sua carità li voglia rappezzare. E roba grama nel tempo; ma spero che per Lei sarà un tesoro per l’eternità. Dio benedica Lei, le sue fatiche e tutta la sua famiglia, mentre ho l’onore di potermi con pienezza di stima professare di V.S.B. Obbl.mo servitore» Sac. Bosco Gio. Torino, 16 maggio 1866
Lettera di Don Bosco ai benefattori
In questa lettera don Bosco si scusa di non potere andare di persona a far visita alla Signora Contessa. In compenso le invia un fagotto di cenci dei ragazzi dell’Oratorio da… rattoppare… roba grama (piemontese per: robaccia) davanti agli uomini, ma tesoro prezioso a chi veste gli ignudi per amore di Cristo! C’è chi ha voluto vedere nelle relazioni di don Bosco con i ricchi un’interessata cortigianeria. Ma qui c’è autentico spirito evangelico!
Vera Grita, mistica dell’Eucarestia
Nel centenario della nascita della Serva di Dio Vera Grita, Laica, Salesiana cooperatrice (Roma 28 gennaio 1923 – Pietra Ligure 22 dicembre 1969) viene presentato un profilo biografico e spirituale della sua testimonianza.
Roma, Modica, Savona Vera Grita nasce a Roma il 28 gennaio 1923, secondogenita di Amleto, fotografo di professione da generazioni, e di Maria Anna Zacco della Pirrera, di nobili origini. La famiglia, molto unita e affiatata, era composta anche dalla sorella maggiore Giuseppa (detta Pina) e dalle minori Liliana e Santa Rosa (detta Rosa). Il 14 dicembre dello stesso anno Vera ricevette il Battesimo nella parrocchia di San Gioacchino in Prati, sempre a Roma.
Vera manifesta fin da bambina un carattere buono e mite che non verrà scalfito dagli eventi negativi che si abbattono su di lei: undicenne deve lasciare la famiglia e distaccarsi dagli affetti più cari insieme alla sorella minore Liliana, per raggiungere a Modica, in Sicilia, le zie paterne che si sono rese disponibili ad aiutare i genitori di Vera colpiti da dissesto finanziario per la crisi economica del 1929-1930. In questo periodo Vera manifesta la sua tenerezza verso la sorella più piccola standole vicino quando la sera quest’ultima piange per la nostalgia della mamma. Vera è attratta da un grande quadro del Sacro Cuore di Gesù, appeso nella sala dove con le zie ogni giorno recita le preghiere del mattino e il Rosario. Rimane spesso in silenzio davanti a quel dipinto e ripete di frequente che da grande vuole diventare suora. Il giorno della sua Prima Comunione (24 maggio 1934) non vuole togliersi l’abito bianco perché teme di non dimostrare abbastanza a Gesù la gioia di averlo nel cuore. A scuola ottiene buoni risultati ed è socievole con le compagne di classe. A diciassette anni, nel 1940, rientra in famiglia. La famiglia si è trasferita a Savona e Vera, l’anno successivo, ottiene il diploma presso l’Istituto Magistrale. Vera ha vent’anni quando deve affrontare un nuovo e doloroso distacco per la morte prematura del padre Amleto (1943) e rinuncia a proseguire gli studi universitari cui aspirava, per aiutare economicamente la famiglia.
Nel giorno della Prima Comunione
Il dramma della guerra Ma è la Seconda guerra mondiale con il bombardamento su Savona del 1944 che arrecherà a Vera un danno irreparabile: esso determinerà il corso successivo della sua vita. Vera viene travolta e calpestata dalla folla che, in fuga, cerca riparo in una galleria-rifugio.
Vera intorno ai 14-15 anni
La medicina chiama sindrome da schiacciamento le conseguenze fisiche che si verificano in seguito a bombardamenti, terremoti, crolli strutturali, a causa dei quali un arto o tutto il corpo sono schiacciati. Quello cui si assiste poi è un danno a livello muscolare che si ripercuote su tutto l’organismo, compromettendo soprattutto i reni. Per lo schiacciamento, Vera riporterà lesioni lombari e dorsali che creeranno danni irreparabili alla sua salute con febbri, mal di testa, pleuriti. Inizia con questo avvenimento drammatico la “Via Crucis” di Vera che durerà 25 anni, durante i quali alternerà al lavoro lunghi ricoveri ospedalieri. A 32 anni le viene diagnosticato il morbo di Addison che la consumerà debilitando il suo organismo: Vera arriverà a pesare soli 40 chili. A 36 anni Vera subisce un intervento di isterectomia totale (1959) che le causerà una menopausa precoce con conseguente acuirsi della astenia di cui già soffriva a causa del morbo di Addison. Nonostante le sue precarie condizioni fisiche, Vera sostiene e vince un concorso come insegnante nelle scuole elementari. Si dedicherà all’insegnamento durante gli ultimi dieci anni della sua vita terrena prestando servizio in sedi scolastiche dell’entroterra ligure difficili da raggiungere (Rialto, Erli, Alpicella, Deserto di Varazze), destando stima e affetto tra le colleghe, nei genitori e negli scolari.
Salesiana cooperatrice A Savona, nella parrocchia salesiana di Maria Ausiliatrice, partecipa alla Messa ed è assidua al sacramento della Penitenza. Dal 1963 è suo confessore il salesiano don Giovanni Bocchi. Salesiana Cooperatrice dal 1967, realizza la sua chiamata nel dono totale di sé al Signore, che in modo straordinario si dona a lei, nell’intimo del suo cuore, con la “Voce”, con la “Parola”, per comunicarle l’Opera dei Tabernacoli Viventi. Sottopone tutti gli scritti al direttore spirituale, il salesiano don Gabriello Zucconi, e custodisce nel silenzio del proprio cuore il segreto di quella chiamata, guidata dal divino Maestro e dalla Vergine Maria che l’accompagneranno lungo la via della vita nascosta, della spoliazione e dell’annientamento di sé.
Sotto l’impulso della grazia divina e accogliendo la mediazione delle guide spirituali, Vera Grita risponde al dono di Dio testimoniando nella sua vita, segnata dalla fatica della malattia, l’incontro con il Risorto e dedicandosi con eroica generosità all’insegnamento e all’educazione degli allievi, sovvenendo alle necessità della famiglia e testimoniando una vita di evangelica povertà. Centrata e salda nel Dio che ama e sostiene, con grande fermezza interiore è resa capace di sopportare le prove e le sofferenze della vita. Sulla base di tale solidità interiore da testimonianza di un’esistenza cristiana fatta di pazienza e costanza nel bene. Muore il 22 dicembre 1969 a Pietra Ligure all’ospedale di Santa Corona in una cameretta dove aveva trascorso gli ultimi sei mesi di vita in un crescendo di sofferenze accettate e vissute in unione a Gesù Crocifisso. “L’anima di Vera – scriverà don Giuseppe Borra, Salesiano, suo primo biografo – con i messaggi e le lettere entra nella schiera di quelle anime carismatiche chiamate ad arricchire la Chiesa con fiamme di amore a Dio e a Gesù Eucaristico per la dilatazione del Regno”. È uno di quei chicchi di grano che il Cielo ha lasciato cadere sulla Terra per portare frutto, a suo tempo, nel silenzio e nel nascondimento.
In pellegrinaggio a Lourdes
Vera di Gesù La vita di Vera Grita si è svolta nel breve arco di tempo di 46 anni segnati da eventi storici drammatici quali la grande crisi economica del 1929-1930 e la Seconda guerra mondiale e si conclude poi alle soglie di un altro evento storico significativo: la contestazione del 1968, che avrà ripercussioni profonde a livello culturale, sociale, politico, religioso ed ecclesiale.
Con alcuni famigliari
La vita di Vera inizia, si sviluppa e si conclude in mezzo a questi eventi storici dei quali ella subisce le conseguenze drammatiche sul piano familiare, affettivo e fisico. Al tempo stesso, la sua storia evidenzia come ella abbia attraversato questi eventi affrontandoli con la forza della fede in Gesù Cristo, testimoniando così una fedeltà eroica all’Amore crocifisso e risorto. Fedeltà che, al termine della sua vita terrena, il Signore ripagherà donandole il nome nuovo: Vera di Gesù. “Ti ho donato il mio Nome santo, e d’ora in poi ti chiamerai e sarai ‘Vera di Gesù’” (Messaggio del 3 dicembre 1968). Provata dalle diverse malattie che, nel tempo, delineano una situazione di generalizzata e irrecuperabile usura fisica, Vera vive nel mondo senza essere del mondo, mantenendo stabilità ed equilibrio interiori dovuti alla sua unione con Gesù Eucaristia ricevuto quotidianamente, e alla consapevolezza della sua Permanenza eucaristica nella sua anima. È pertanto la Santa Messa il centro della vita quotidiana e spirituale di Vera, dove, come piccola “goccia d’acqua”, ella si unisce al vino per essere inseparabilmente unita all’Amore infinito che continuamente si dona, salva e sostiene il mondo. Pochi mesi prima di morire Vera scrive al padre spirituale, don Gabriello Zucconi: “Le malattie che mi porto dentro da più di venti anni sono degenerate, divorata dalla febbre e dai dolori in tutte le ossa, io sono viva nella Santa Messa”. Ancora: “Rimane la fiamma della Santa Messa, la scintilla divina che mi anima, mi dà vita, poi il lavoro, i ragazzi, la famiglia, l’impossibilità di trovare in essa un posticino tranquillo ove isolarmi per pregare, ovvero la stanchezza fisica dopo la scuola”.
L’Opera dei Tabernacoli Viventi Nei lungi anni di sofferenza, consapevole della sua fragilità e limitatezza umana, Vera impara ad affidarsi a Dio e ad abbandonarsi totalmente alla sua volontà. Mantiene tale docilità anche quando il Signore le comunica l’Opera dei Tabernacoli Viventi, negli ultimi 2 anni e 4 mesi di vita terrena. L’amore per la volontà di Dio conduce Vera al dono totale di sé stessa: dapprima con i voti privati e il voto di “piccola vittima” per i sacerdoti (2 febbraio 1965); successivamente con l’offerta della vita (5 novembre 1968) per la nascita e lo sviluppo dell’Opera dei Tabernacoli Viventi, sempre in piena obbedienza a chi la dirige spiritualmente. Il 19 settembre 1967 iniziò l’esperienza mistica che la invitava a vivere a fondo la gioia e la dignità di figlia di Dio, nella comunione con la Trinità e nell’intimità eucaristica con Gesù ricevuto nella S. Comunione e presente nel Tabernacolo. “Il vino e l’acqua siamo noi: Io e te, tu e Io. Siamo una cosa sola: Io scavo in te, scavo, scavo per costruirmi un tempio: lasciami lavorare, non pormi ostacoli […] la volontà del Padre mio è questa: che Io rimanga in te, e tu in Me. Insieme porteremo gran frutto”. Sono 186 i messaggi che costituiscono l’Opera dei Tabernacoli Viventi che Vera, lottando con il timore di essere vittima di un inganno, scrisse in obbedienza a don Zucconi. Il “Portami con te” esprime in modo semplice l’invito di Gesù fatto a Vera. Dove, portami con te? Dove vivi: Vera viene educata e preparata da Gesù a vivere in unione con Lui. Gesù vuole entrare nella vita di Vera, nella sua famiglia, nella scuola dove insegna. Un invito rivolto a tutti i cristiani. Gesù vuole uscire dalla Chiesa di pietra e vuole vivere nel nostro cuore con l’Eucaristia, con la grazia della permanenza eucaristica nell’anima. Vuole venire con noi dove andiamo, per vivere la nostra vita familiare, e vuole raggiungere vivendo in noi le persone che vivono lontane da lui.
Nella scia del carisma salesiano Nell’Opera dei Tabernacoli Viventi sono espliciti i riferimenti a Don Bosco e al suo “da mihi animas cetera tolle”, a vivere l’unione con Dio e la fiducia in Maria Ausiliatrice, per donare Dio attraverso un apostolato instancabile che cooperi alla salvezza dell’umanità. L’Opera, per volontà del Signore, viene affidata in prima istanza ai figli di Don Bosco per la sua realizzazione e diffusione nelle parrocchie, negli istituti religiosi e nella Chiesa: “Ho scelto i Salesiani poiché essi vivono con i giovani, ma la loro vita di apostolato dovrà essere più intensa, più attiva, più sentita”.
La causa di Beatificazione della Serva di Dio Vera Grita è stata avviata il 22 dicembre 2019, 50° anniversario della sua morte, a Savona con la presentazione del Supplice libello al vescovo diocesano mons. Calogero Marino da parte del Postulatore don Pierluigi Cameroni. Attore della Causa è la Congregazione salesiana. L’Inchiesta diocesana è stata celebrata dal 10 aprile al 15 maggio 2022 presso la Curia di Savona. Il Dicastero delle Cause dei Santi ha dato la validità giuridica a tale Inchiesta il 16 dicembre 2022. Come ha scritto il Rettor Maggiore nella Strenna di quest’anno: “Vera Grita attesta anzitutto un orientamento eucaristico totalizzante, che si fa esplicito soprattutto negli ultimi anni della sua esistenza. Non ha pensato in termini di programmi, di iniziative apostoliche, di progetti: ha accolto il “progetto” fondamentale che è Gesù stesso, fino a farne vita della propria vita. Il mondo odierno attesta un grande bisogno di Eucaristia. Il suo cammino nella faticosa operosità dei giorni offre anche una nuova prospettiva laica alla santità, divenendo esempio di conversione, accettazione e santificazione per i “poveri”, i “fragili”, i “malati” che in lei possono riconoscersi e ritrovare speranza. Come Salesiana Cooperatrice, Vera Grita vive e lavora, insegna e incontra la gente con una spiccata sensibilità salesiana: dall’amorevolezza della sua presenza discreta ma efficace alla sua capacità di farsi amare da bambini e famiglie; dalla pedagogia della bontà che attua con il suo costante sorriso alla generosa prontezza con cui, incurante dei disagi, si volge di preferenza agli ultimi, ai piccoli, ai lontani, ai dimenticati; dalla generosa passione per Dio e la Sua Gloria alla via della croce, lasciandosi togliere tutto nella sua condizione di malata”.
Nel giardino di Santa Corona nel 1966
Per conoscere di più: Vera Grita, una mistica dell’Eucaristia. Epistolario di Vera Grita e dei sacerdoti salesiani don Bocchi, don Borra e don Zucconi. Autore: Centro studi Opera Tabernacoli Viventi. A cura di: Scrimieri Pedriali Maria Rita. Vedi QUI.
Portami con te! L’Opera dei Tabernacoli Viventi nei manoscritti originali di Vera Grita. Autore: Centro studi Opera Tabernacoli Viventi. Vedi QUI.