Mons. Giuseppe Malandrino e il Servo di Dio Nino Baglieri

È tornato alla Casa del Padre, lo scorso 3 agosto 2025, nel giorno in cui si celebra la festa della Patrona della Diocesi di Noto, Maria Scala del Paradiso, monsignor Giuseppe Malandrino, IX vescovo della diocesi netina. 94 anni di età, 70 anni di sacerdozio e 45 anni di consacrazione episcopale sono numeri di tutto rispetto per un uomo che ha servito la Chiesa da Pastore con “l’odore delle pecore” come sottolineava spesso Papa Francesco.

Parafulmine dell’umanità
Nell’esperienza di pastore della Diocesi di Noto (19.06.1998 – 15.07.2007) ha avuto modo di coltivare l’amicizia con il Servo di Dio Nino Baglieri. Non mancava quasi mai una “sosta” a casa di Nino quando i motivi pastorali lo portavano a Modica. In una sua testimonianza mons. Malandrino dice: “…trovandomi al capezzale di Nino, avevo la percezione viva che questo nostro amato fratello infermo fosse veramente “parafulmine dell’umanità”, secondo una concezione dei sofferenti a me tanto cara e che ho voluto proporre anche nella Lettera Pastorale sulla missione permanente Mi sarete testimoni” (2003). Scrive mons. Malandrino: “È necessario riconoscere nei malati e sofferenti il volto di Cristo sofferente e assisterli con la stessa premura e con lo stesso amore di Gesù nella sua passione, vissuta in spirito di ubbidienza al Padre e di solidarietà ai fratelli”. Ciò è stato, pienamente incarnato dalla carissima mamma di Nino, la signora Peppina. Lei tipica donna siciliana, con un carattere forte e tanta determinazione, risponde al medico che gli propone l’eutanasia per suo figlio (viste le gravi condizioni di salute e la prospettiva di una vita da paralitico): “se il Signore lo vuole lo prende, ma se me lo lascia così sono contenta di accudirlo per tutta la vita”. La mamma di Nino, in quel momento era consapevole di quello a cui andava incontro? Maria, la madre di Gesù era consapevole di quanto dolore avrebbe dovuto soffrire, per il Figlio di Dio? La risposta, a leggerla con gli occhi umani, sembra non facile, soprattutto nella nostra società del XXI secolo dove tutto è labile, fluttuante, si consuma in un “istante”. Il Fiat di mamma Peppina divenne, come quello di Maria, un Sì di Fede e di adesione a quella volontà di Dio che trova compimento nel saper portate la Croce, nel saper dare “anima e corpo” alla realizzazione del Piano di Dio.

Dalla sofferenza alla gioia
Il rapporto di amicizia tra Nino e mons. Malandrino era già avviato quando quest’ultimo era ancora vescovo di Acireale, infatti già nel lontano 1993, per il tramite di Padre Attilio Balbinot, un camilliano molto vicino a Nino, lo omaggia del suo primo libro: “Dalla sofferenza alla gioia”. Nell’esperienza di Nino il rapporto con il Vescovo della sua diocesi era un rapporto di filiazione totale. Sin dal momento della sua accettazione del Piano di Dio su di lui, egli faceva sentire la propria presenza “attiva” offrendo le sofferenze per la Chiesa, il Papa e i Vescovi (nonché i sacerdoti e i missionari). Questo rapporto di filiazione veniva annualmente rinnovato in occasione del 6 maggio, giorno della caduta visto poi come inizio misterioso d’una rinascita. L’8 maggio 2004, pochi giorni dopo aver festeggiato Nino il 36.mo anniversario di Croce, mons. Malandrino si reca a casa sua. Egli in ricordo di quell’incontro scrive nelle sue memorie: “è sempre una grande gioia ogni volta che la vedo e ricevo tanta carica e forza per portare la mia Croce e offrila con tanto Amore per i bisogni della Santa Chiesa e in particolare per il mio Vescovo e per la nostra Diocesi, il Signore gli dia sempre più santità per guidarci per tanti anni sempre con più ardore e amore…”. Ancora: “… la Croce è pesante ma il Signore mi dona tante Grazie che rendono la sofferenza meno amara e diventa leggera e soave, la Croce si fa Dono, offerta al Signore con tanto Amore per la salvezza delle anime e la Conversione dei Peccatori…”. Infine, è da sottolineare come, in queste occasioni di grazia, non mancasse mai la pressante e costante richiesta di “aiuto a farsi Santo con la Croce di ogni giorno”. Nino, infatti, vuole assolutamente farsi santo.

Una beatificazione anticipata
Momento di grande rilevanza hanno rappresentato, in tal senso, le esequie del Servo di Dio il 3 marzo 2007, quando proprio mons. Malandrino, all’inizio della Celebrazione Eucaristica, con devozione si china, anche se con difficoltà, a baciare la bara che conteneva le spoglie mortali di Nino. Era un ossequio a un uomo che aveva vissuto 39 anni della sua esistenza in un corpo che “non sentiva” ma che sprigionava gioia di vivere a 360 gradi. Mons. Malandrino sottolineò che la celebrazione della Messa, nel cortile dei Salesiani divenuto per l’occasione “cattedrale” a cielo aperto, era stata un’autentica apoteosi (hanno partecipato migliaia di persone in lacrime) e si percepiva chiaramente e comunitariamente di trovarsi dinanzi non a un funerale, ma a una vera “beatificazione”. Nino, con la sua testimonianza di vita, era infatti diventato un punto di riferimento per tanti, giovani o meno giovani, laici o consacrati, madri o padri di famiglia, che grazie alla sua preziosa testimonianza riuscivano a leggere la propria esistenza e trovare risposte che non riuscivano a trovare altrove. Anche mons. Malandrino ha più volte sottolineato questo aspetto: «in effetti, ogni incontro con il carissimo Nino è stato per me, come per tutti, una forte e viva esperienza di edificazione e un potente – nella sua dolcezza – sprone alla paziente e generosa donazione. La presenza del Vescovo conferiva a lui ogni volta immensa gioia perché, oltre l’affetto dell’amico che veniva a visitarlo, vi percepiva la comunione ecclesiale. È ovvio che quanto ricevevo da lui era sempre molto di più quel poco che potevo donargli». Il “chiodo” fisso di Nino, era “farsi santo”: l’aver vissuto e incarnato appieno l’evangelo della Gioia nella Sofferenza, con i suoi patimenti fisici e il suo dono totale per l’amata Chiesa, hanno fatto sì che tutto non finisse con la sua dipartita verso la Gerusalemme del Cielo, ma continuasse ancora, come sottolineò mons. Malandrino alle esequie: “… la missione di Nino continua ora anche attraverso i suoi scritti, Egli stesso lo aveva preannunciato nel suo Testamento spirituale”: “… i miei scritti continueranno la mia testimonianza, continuerò a dare Gioia a tutti e a parlare del Grande Amore di Dio e delle Meraviglie che ha fatto nella mia vita”. Questo ancora si sta avverando perché non può stare nascosta “una città posta sopra un monte e non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candeliere, perché faccia luce a tutti coloro che sono in casa” (Matteo 5,14-16). Metaforicamente si vuole sottolineare che la “luce” (intesa in senso lato) deve essere visibile, prima o poi: ciò che è importante verrà alla luce e sarà riconosciuto.
Riandare in questi giorni – segnati dalla morte di mons. Malandrino, dai suoi funerali ad Acireale (5 agosto, Madonna della Neve) e a Noto (7 agosto) con tumulazione a seguire nella cattedrale di cui egli stesso volle fortemente la ristrutturazione dopo il crollo del 13 marzo1996 e che fu riaperta nel marzo 2007 (mese in cui Nino Baglieri morì) – significa ripercorrere questo legame tra due grandi figure della Chiesa netina, fortemente intrecciate ed entrambe capaci di lasciare in essa un segno che non passa.

Roberto Chiaramonte




Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette

Don Bosco propone una dettagliata narrazione dell’“Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette”, avvenuta il 19 settembre 1846, sulla base di documenti ufficiali e delle testimonianze dei veggenti. Ricostruisce il contesto storico e geografico – due giovani pastorelli, Massimino e Melania, nell’asma delle Alpi – l’incontro prodigioso con la Vergine, il suo messaggio di ammonimento contro il peccato e la promessa di grazie e provvidenze, nonché i segni soprannaturali che ne accompagnarono le dimostrazioni. Presenta le vicende della diffusione del culto, l’influsso spirituale sugli abitanti e sul mondo intero, e il segreto rivelato solo a Pio IX per rinvigorire la fede dei cristiani e a testimoniare la perenne presenza dei prodigi nella Chiesa.

Protesta dell’Autore
Per ubbidire ai decreti di Urbano VIII mi protesto, che a quanto si dirà nel libro di miracoli, rivelazioni, o di altri fatti, non intendo di attribuire altra autorità, che umana; e dando ad alcuno titolo di Santo o Beato, non intendo darlo se non secondo l’opinione; eccettuate quelle cose e persone, che sono state già approvate dalla S. Sede Apostolica.

Al lettore
            Un fatto certo e meraviglioso, attestato da migliaia di persone, e che tutti possono anche oggidì verificare, è l’apparizione della beata Vergine, avvenuta il 19 settembre 1846 (Su questo fatto straordinario si possono consultare molte operette e parecchi giornali stampati contemporaneamente al fatto e segnatamente: Notizia sull’apparizione di Maria SS. Torino, 1847; Santo officiale dell’apparizione, ecc., 1848; Il libretto stampato per cura del sac. Giuseppe Gonfalonieri, Novara, presso Enrico Grotti)
Questa nostra pietosa Madre è apparsa in forma e figura di gran Signora a due pastorelli, cioè ad un fanciullo di 11 anni, e ad una villanella di 15 anni, là sopra una montagna della catena delle Alpi situata nella parrocchia di La Salette in Francia. Ed essa comparve non pel bene soltanto della Francia, come dice il Vescovo di Grenoble, ma pel bene di tutto il mondo; e ciò per avvertirci della gran collera del suo Divin Figlio, accesa specialmente pei tre peccati: la bestemmia, la profanazione delle feste e il mangiar grasso nei giorni proibiti.
A questo tengono dietro altri fatti prodigiosi raccolti eziandio da pubblici documenti, oppure attestati da persone la cui fede esclude ogni dubbio intorno a quanto riferiscono.
Questi fatti valgano a confermare i buoni nella religione, a confutare quelli che forse per ignoranza vorrebbero porre un limite alla potenza e alla misericordia del Signore dicendo: Non è più il tempo dei miracoli.
Gesù disse che nella sua Chiesa si sarebbero operati miracoli maggiori che Egli non operò: e non fissò né tempo né numero, perciò finché vi sarà la Chiesa, noi vedremo sempre la mano del Signore che farà manifesta la sua potenza con prodigiosi avvenimenti, perché ieri ed oggi e sempre G. C. sarà quello che governa e assiste la sua Chiesa fino alla consumazione dei secoli.
Ma questi segni sensibili della Onnipotenza Divina sono sempre presagio di gravi avvenimenti che manifestano la misericordia e la bontà del Signore, oppure la sua giustizia e il suo sdegno, ma in modo che se ne tragga la sua maggior gloria e il maggior vantaggio delle anime.
Facciamo che per noi siano sorgente di grazie e di benedizioni; servano di eccitamento alla fede viva, fede operosa, fede che ci muova a fare il bene e a fuggire il male per renderci degni della sua infinita misericordia nel tempo e nella eternità.

Apparizione della B. Vergine sulle montagne della Salette
            Massimino, figlio di Pietro Giraud, falegname del borgo di Corps, era un fanciullo di 11 anni: Francesca Melania figlia di poveri parenti, nativa di Corps era una giovinetta di anni 15. Niente avevano di singolare: Ambedue ignoranti e rozzi, ambedue addetti a guardare il bestiame su pei monti. Massimino non sapeva altro che il Pater e l’Ave; Melania ne sapeva poco più, tanto che per la sua ignoranza non era ancora stata ammessa alla s. Comunione.
Mandati dai loro genitori a guidare il bestiame nei pascoli, non fu se non per puro accidente che il giorno 18 settembre, vigilia del grande avvenimento, s’incontrarono sul monte, mentre abbeveravano le loro vacche ad una fontana.
La sera di quel giorno, nel far ritorno a casa col bestiame, Melania disse a Massimino: «Domani chi sarà il primo a trovarsi sulla Montagna?» E all’indomani, 19 settembre, che era un sabato vi salivano insieme, conducendo ciascuno quattro vacche ed una capra. La giornata era bella e serena il sole brillante. Verso il mezzogiorno udendo suonare la campana dell’Angelus, fanno breve preghiera col segno della s. Croce; di poi prendono le loro provvisioni di bocca e vanno a mangiare presso una piccola sorgente, che era a sinistra d’un ruscelletto. Finito di mangiare, passano il ruscello, depongono i loro sacchi presso una fontana asciutta, discendono ancora qualche passo, e contro il solito si addormentano a qualche distanza l’uno dall’altro.
Ora ascoltiamo il racconto dagli stessi pastorelli tal quale essi lo fecero la sera del 19 ai loro padroni e di poi le mille volte a migliaia di persone.
Noi ci eravamo addormentati… racconta Melania, io mi sono svegliata la prima; e, non vedendo le mie vacche, svegliai Massimino dicendogli: Su andiamo a cercare le nostre vacche. Abbiamo passato il ruscello, siamo saliti un po’ in su, e le vedemmo dalla parte opposta coricate. Esse non erano lontane. Allora tornai giù a basso; e a cinque o sei passi prima di arrivare al ruscello, vidi un chiarore come il Sole, ma ancor più brillante, non però del medesimo colore, e dissi a Massimino: Vieni, vieni presto a veder là abbasso un chiarore (Erano tra le due e le tre ore dopo mezzogiorno).
Massimino discese subito dicendomi: Dov’è questo chiarore? E glielo indicai col dito rivolto alla piccola fontana; e lui si fermò quando lo vide. Allora noi vedemmo una Signora in mezzo alla luce; essa sedeva sopra un mucchio di sassi, col volto tra le mani. Per la paura io lasciai cadere il mio bastone. Massimino mi disse: tienilo il bastone; se la ci farà qualche cosa, le darò una buona bastonata.
In seguito questa Signora si levò in piedi, incrocicchiò le braccia e ci disse: «Avanzatevi, miei ragazzi: Non abbiate paura; son qui per darvi una gran nuova.» Allora noi passammo il ruscello, ed essa si avanzò sino al luogo, dove prima ci eravamo addormentati. Essa era in mezzo a noi due, e ci disse piangendo tutto il tempo che ci parlò (ho veduto benissimo le sue lagrime): «Se il mio popolo non si vuole sottomettere, sono costretta dì lasciar libera la mano di mio Figlio. Essa è così forte, così pesante, che non posso più trattenerla.»
«È gran tempo che soffro per voi! Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni, debbo pregarlo costantemente; e voi altri non ne fate conto. Voi potrete ben pregare, ben fare, giammai non potrete compensare la sollecitudine, che mi sono data per voi.»
«Vi ho dati sei giorni per lavorare, mi sono riservato il settimo, e non si vuole accordarmelo. Questo è ciò che rende tanto pesante la mano di mio Figlio.»
«Se le patate si guastano, è tutto per causa vostra. Ve lo feci vedere l’anno scorso (1845); e voi non avete voluto farne caso, e, trovando patate guaste, bestemmiavate mettendovi frammezzo il nome di mio Figlio.»
«Continueranno a guastarsi, e quest’anno per Natale non ne avrete più (1846).»
«Se avete del grano non dovete seminarlo: tutto ciò che voi seminerete, sarà dai vermi mangiato; e quello che nascerà andrà in polvere, quando lo batterete.»
«Verrà una grande carestia» (Avvenne difatti una grande carestia in Francia, e sulle strade si trovavano grandi torme di pezzenti affamati, che si recavano a mille a mille per le città per questuare: e mentre che da noi in Italia incari il grano in sul far della primavera 1847, in Francia per tutto l’inverno del 46 – 47 si patì gran fame. Ma la vera penuria di alimenti, la vera fame fu provata nei disastri della guerra del 1870-71. In Parigi da un grande personaggio fu imbandito ai suoi amici un lauto pranzo di grasso nel venerdì Santo. Pochi mesi dopo in questa medesima città i più agiati cittadini furono costretti a nutrirsi di vili alimenti e di carni dei più sozzi animali. Non pochi morirono di fame)
«Avanti che venga la carestia, i fanciulli al di sotto dei sette anni saranno presi da un tremore e moriranno tra le mani delle persone che li terranno: gli altri faranno penitenza per la carestia.»
«Le noci si guasteranno, e le uve marciranno…» (Nel 1849 le noci andarono a male da per tutto; e quanto alle uve tutti ne lamentano ancora il guasto e la perdita. Ognuno rammenta il guasto immenso che la crittogama cagionò all’uva in tutta l’Europa per lo spazio d’oltre a venti anni dal 1849 al 1869).
«Se si convertono, le pietre e gli scogli si cambieranno in mucchi di grano, e le patate verranno prodotte dalla terra stessa.»
Quindi ci disse:
«Dite voi bene le vostre orazioni, o miei ragazzi?»
Noi rispondemmo entrambi: «Non troppo bene, o Signora.»
«Ah miei fanciulli, dovete dirle bene la sera e la mattina. Quando non avete tempo dite almeno un Pater ed un’Ave Maria: e quando avrete tempo ditene di più.»
«Alla Messa non vanno che alcune donne vecchie, e le altre lavorano alla domenica tutta l’estate; e all’inverno i giovani, quando non sanno che fare, vanno alla Messa per mettere in ridicolo la religione. In quaresima si va alla macelleria a guisa di cani.»
Quindi ella disse: «Non hai tu veduto, o mio ragazzo, del grano guasto?»
Massimino rispose: «Oh! no, Signora.» Io, non sapendo a chi facesse questa domanda, risposi sotto voce.
«No, Signora, non ne ho ancora veduto.»
«Voi dovete averne veduto, mio ragazzo (rivolgendosi a Massimino), una volta verso il territorio di Coin con vostro padre. Il padrone del campo disse a vostro padre che andasse a vedere il suo grano guasto; voi ci siete andati entrambi. Prendeste alcune spighe nelle vostre mani, e strofinate andarono tutte in polvere, e voi vi ritornaste. Quando eravate ancora una mezz’ora distanti da Corps, vostro padre vi diede un pezzo di pane, e vi disse: Prendi, o figlio mio, mangia ancora del pane in quest’anno; non so chi ne mangerà l’anno venturo, se il grano continua a guastarsi in questo modo.»
Massimino rispose: «Oh! sì, Signora, ora me ne ricordo; poco fa non me ne sovveniva.»
Dopo ciò quella Signora ci disse: «Ebbene, miei ragazzi, voi lo farete sapere a tutto il mio popolo.»
Indi ella passò il ruscello, ed a due passi di distanza, senza rivolgersi verso di noi, ci disse di nuovo: «Ebbene, miei ragazzi, voi lo farete sapere a tutto il mio popolo.»
Ella salì di poi una quindicina di passi, sino al luogo ove eravamo andati per cercare le nostre vacche; ma essa camminava sopra l’erba; i suoi piedi non ne toccavano che la cima. Noi la seguivamo; io passai davanti alla Signora e Massimino un poco di fianco, a due o tre passi di distanza. E la bella Signora si è innalzata così (Melania fa un gesto levando la mano di un metro e più); Ella rimase così sospesa nell’aria un momento. Dopo Ella rivolse uno sguardo al Cielo, indi alla terra; dopo non vedemmo più la testa… non più le braccia… non più i piedi… sembrava che si fondesse; non si vide più che un chiarore nell’aria; e dopo il chiarore disparve.
Dissi a Massimino: «È forse una gran santa? Massimino mi rispose: Oh! se avessimo saputo ch’era una gran santa, noi le avremmo detto di condurci con essa. Ed io gli dissi: E se ci fosse ancora? Allora Massimino slanciò la mano per raggiungere un poco del chiarore, ma tutto era scomparso. Osservammo bene, per scorgere se non la vedevamo più.
E dissi: Essa non vuol farsi vedere per non farci sapere dove se ne vada. Dopo ciò andammo dietro alle nostre vacche.»
Questo è il racconto di Melania; la quale interrogata come quella Signora fosse vestita rispose:
«Essa aveva scarpe bianche con rose attorno… ve ne erano di tutti i colori; aveva le calze gialle, un grembiale giallo, una veste bianca tutta cospersa di perle, un fazzoletto bianco al collo contornato di rose, una cuffia alta un poco pendente avanti con una corona di rose attorno. Aveva una catenella, alla quale era appesa una croce col suo Cristo: a diritta una tenaglia, a sinistra un martello; all’estremità della Croce un’altra gran catena pendeva, come le rose intorno al suo fazzoletto da collo. Aveva il volto bianco, allungato; io non poteva riguardarla molto tempo, perché ci abbagliava.»
Interrogato separatamente Massimino fa lo stessissimo racconto, senza variazione alcuna, né per la sostanza e neppure per la forma; il quale perciò ci asteniamo di qui ripetere.
Sono infinite e stravaganti le insidiose domande che loro si fecero, specialmente per ben due anni, e sotto interrogatori di 5, 6, 7 ore di seguito coll’intento di imbarazzarli, di confonderli, di trarli in contraddizione. Certo è, che forse mai nessun reo fu dai tribunali di giustizia investito così con tante difficoltà e interrogazioni intorno ad un delitto imputatogli.

Segreto dei due pastorelli
            Subito dopo l’apparizione, Massimino e Melania, nel far ritorno a casa, s’interrogarono tra di loro, perché mai la gran Dama dopo che ebbe detto «le uve marciranno» ha tardato un poco a parlare e non faceva che muovere le labbra, senza far intendere che cosa dicesse?
Nell’interrogarsi su di ciò a vicenda, diceva Massimino a Melania «A me essa ha detto una cosa, ma mi ha proibito di dirtelo.» S’accorsero entrambi d’aver ricevuto dalla Signora, ciascuno separatamente, un segreto colla proibizione di non dirlo ad altri. Or pensa tu, o lettore, se i ragazzi possono tacere.
È cosa incredibile a dirsi quanto sia fatto e tentato per cavar loro di bocca in qualche modo questo secreto. Fa meraviglia a leggere i mille e mille tentativi adoperati a quest’uopo da centinaia e centinaia di persone per ben vent’anni. Preghiere, sorprese, minacce, ingiurie, regali e seduzioni d’ogni maniera, tutto andò a vuoto; essi sono impenetrabili.
Il vescovo di Grenoble, uomo ottuagenario, si credette in dovere di comandare ai due privilegiati fanciulli di far almeno pervenire il loro segreto al santo Padre, Pio IX. Al nome del Vicario di Gesù Cristo i due pastorelli ubbidirono prontamente e si decisero a rivelare un segreto, che fino allora nulla aveva potuto strappar loro di bocca. L’hanno dunque scritto essi medesimi (dal giorno dell’apparizione in poi erano stati messi alla scuola, e ciascheduno separatamente); quindi piegarono e suggellarono la loro lettera; e tutto ciò alla presenza di persone ragguardevoli, scelte dallo stesso vescovo a servir loro di testimoni. Indi il vescovo inviò due sacerdoti a portare a Roma questo misterioso dispaccio.
Il 18 luglio 1851 rimettevano a S. S. Pio IX tre lettere, una di Monsignor vescovo di Grenoble, che accreditava questi due inviati, le due altre contenevano il segreto dei due giovanetti della Salette; ciascun di essi aveva scritto e sigillata la lettera contenente il suo segreto alla presenza di testimoni che avevano dichiarato l’autenticità delle medesime sulla coperta.
S. S. aprì le lettere, e cominciata a leggere quella di Massimino, «Vi ha proprio, disse, il candore e la semplicità di un fanciullo.» Durante quella lettura si manifestò sul volto del Santo Padre una certa emozione; gli si contrassero le labbra, gli si gonfiarono le gote. «Trattasi, disse il Papa ai due sacerdoti, trattasi di flagelli, di cui la Francia è minacciata. Non essa sola è colpevole, lo sono pure l’Alemagna, l’Italia, l’Europa intiera, e meritano dei castighi. Io temo assai l’indifferenza religiosa ed il rispetto umano.»

Concorso alla Salette
            La fontana, presso alla quale erasi riposata la Signora, cioè la V. Maria, era come dicemmo, asciutta; e, a detta di tutti i pastori e paesani di quei contorni, non dava acqua se non dopo abbondanti piogge e dopo lo scioglimento delle nevi. Ora questa fontana, asciutta nello stesso giorno dell’apparizione, il giorno dopo cominciò a zampillare, e da quell’epoca l’acqua scorre chiara e limpida senza interruzione.
Quella montagna nuda, dirupata, deserta, abitata dai pastori, appena quattro mesi dell’anno, è divenuta il teatro di un concorso immenso di gente. Intere popolazioni traggono da ogni parte a quella privilegiata montagna; e piangendo per tenerezza, e cantando inni e cantici si vedono chinare la fronte sopra quella terra benedetta, dove ha risuonato la voce di Maria: si vedono baciare rispettosamente il luogo santificato dai piedi di Maria; e ne discendono pieni di gioia, di fiducia e di riconoscenza.
Ogni giorno un numero immenso di fedeli vanno devotamente a visitare il luogo del prodigio. Nel primo anniversario dell’apparizione (19 settembre 1847), oltre a settanta mila pellegrini d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni condizione ed anche d’ogni nazione coprivano la superficie di quel terreno…
Ma ciò che fa sentire vie più la potenza di quella voce venuta dal Cielo, è che si produsse un mirabile cambiamento di costumi negli abitanti di Corps, di La Salette, di tutto il cantone e di tutti i dintorni, e in lontane parti ancora si diffonde e si propaga… Hanno cessato di lavorare la Domenica: hanno dismessa la bestemmia… Frequentano la Chiesa, accorrono alla voce dei loro Pastori, si accostano ai santi Sacramenti, adempiono con edificazione il precetto della Pasqua fino a quel momento generalmente negletto. Taccio le molte e strepitose conversioni, e le grazie straordinarie nell’ordine spirituale.
Nel luogo dell’apparizione sorge ora una Chiesa maestosa con vastissimo edifizio, dove i viaggiatori dopo di aver soddisfatta la loro divozione possono agiatamente ristorarsi ed anche passarvi a gradimento la notte.

Dopo il fatto di La Salette Melania fu inviata alle scuole con meraviglioso progresso nella scienza e nella virtù. Ma si sentì ognora sì accesa di divozione verso alla B. V. Maria, che determinò di consacrarsi tutta a Lei. Entrò di fatto nelle carmelitane scalze tra cui, secondo il giornale Echo de Fourvière 22 ottobre 1870, sarebbe stata dalla s. Vergine chiamata al cielo. Poco prima di morire scrisse la seguente lettera a sua madre.

11 settembre 1870.

            Carissima ed amatissima madre,

Che Gesù sia amato da tutti i cuori. – Questa lettera non è solo per voi, ma è per tutti gli abitanti del mio caro paese di Corps. Un padre di famiglia, amorosissimo verso i suoi figli, vedendo che dimenticavano i loro doveri, che disprezzavano la legge loro imposta da Dio, che diventavano ingrati, si risolvette di castigarli severamente. La sposa del Padre di famiglia domandava grazia, e nello stesso tempo si recava dai due più giovani figli del Padre di famiglia, cioè i due più deboli e più ignoranti. La sposa che non può piangere nella casa del suo sposo (che è il Cielo) trova nei campi di questi miserabili figliuoli lagrime in abbondanza: essa espone i suoi timori e le sue minacce, se non si torna indietro, se non si osserva la legge del Padrone di casa. Un piccolissimo numero di persone abbraccia la riforma del cuore, e si mette ad osservare la santa legge del Padre di famiglia; ma ahimè! la maggioranza rimane nel delitto e vi si immerge sempre più. Allora il Padre di famiglia manda dei castighi per punirli e per trarli da questo stato di induramento. Questi figli sciagurati pensano di poter sottrarsi al castigo, afferrano e spezzano le verghe che li percuotono, invece di cader ginocchioni, domandar grazia e misericordia, e specialmente promettere di cambiar vita. Infine il padre di famiglia, irritato ancor di più, da mano ad una verga ancor più forte e batte e batterà infino a che lo si riconosca, si umilino e domandino misericordia a Colui che regna sulla terra e nei cieli.
Voi mi avete capito, cara madre e cari abitanti di Corps: questo Padre di famiglia è Dio. Noi siamo tutti suoi figli; né io né voi l’abbiamo amato come avremmo dovuto; non abbiamo adempito, come conveniva, i suoi comandamenti: ora Dio ci castiga. Un gran numero dei nostri fratelli soldati muoiono, famiglie e città intere son ridotte alla miseria; e se non ci rivolgiamo a Dio, non è finito. Parigi è colpevole assai perché ha premiato un uomo cattivo che ha scritto contro la divinità di Gesù Cristo. Gli uomini hanno un tempo solo per commettere peccati; ma Dio è eterno, e castiga i peccatori. Dio è irritato per la molteplicità dei peccati, e perché è quasi sconosciuto e dimenticato. Ora chi potrà arrestare la guerra che fa tanto male in Francia, e che fra poco ricomincerà in Italia? ecc. ecc. Chi potrà arrestare questo flagello?
Bisogna 1o che la Francia riconosca che in questa guerra vi è unicamente la mano di Dio; 2° che si umili e chieda colla mente e col cuore perdono dei suoi peccati; che prometta sinceramente di servire Dio colla mente e col cuore, e di obbedire ai suoi comandamenti senza rispetto umano. Alcuni pregano, domandano a Dio il trionfo di noi Francesi. No, non è questo che vuole il buon Dio: vuole la conversione dei francesi. La Beatissima Vergine è venuta in Francia, e questa non si è convertita: è perciò più colpevole delle altre nazioni; se non si umilia, sarà grandemente umiliata. Parigi, questo focolare della vanità e dell’orgoglio, chi potrà salvarla se fervorose preghiere non s’innalzano al cuore del buon Maestro?
Mi ricordo, cara madre e carissimi abitanti, del mio caro paese, mi ricordo, quelle devote processioni, che facevate sul sacro monte della Salette, perché la collera di Dio non colpisse il vostro paese! La S. Vergine ascoltò le vostre fervide preci, le vostre penitenze e tutto quanto faceste per amor di Dio. Penso e spero, che attualmente tanto più dovete fare delle belle processioni per la salvezza della Francia; cioè perché la Francia ritorni a Dio, perché Dio non aspetta che questo per ritirare la verga, di cui si serve per flagellare il suo popolo ribelle. Preghiamo dunque molto, sì, preghiamo; fate le vostre processioni, come le faceste nel 1846 e ‘47: credete che Dio ascolta sempre le preghiere sincere dei cuori umili. Preghiamo molto, preghiamo sempre. Non ho mai amato Napoleone, perché ricordo la intiera sua vita. Possa il divin Salvatore perdonargli tutto il male che ha fatto; e che fa ancora!
Ricordiamoci che siam creati per amare e servire Dio, e che fuori di questo non vi ha vera felicità. Le madri allevino cristianamente i loro figliuoli, perché il tempo delle tribolazioni non è finito. Se io ve ne svelassi il numero e le qualità, ne restereste inorriditi. Ma non voglio spaventarvi; abbiate fiducia in Dio, che ci ama infinitamente più dì quello che noi possiamo amarlo. Preghiamo, preghiamo, e la buona, la divina, la tenera Vergine Maria sarà sempre con noi: la preghiera disarma la collera di Dio; la preghiera è la chiave del Paradiso.
Preghiamo pei nostri poveri soldati, preghiamo per tante madri desolate per la perdita dei loro figliuoli, consacriamo noi stessi alla nostra buona Madre celeste: preghiamo per questi ciechi, che non vedono che è la mano di Dio, che ora percuote la Francia. Preghiamo molto e facciamo penitenza. Tenetevi tutti attaccati alla santa Chiesa, e al nostro S. Padre che ne è il Capo visibile e il Vicario di Nostro Signor Gesù Cristo sulla terra. Nelle vostre processioni, nelle vostre penitenze pregate molto per lui. Infine mantenetevi in pace, amatevi come fratelli, promettendo a Dio di osservare i suoi comandamenti e di osservarli davvero. E per la misericordia di Dio voi sarete felici, e farete una buona e santa morte, che desidero a tutti mettendovi tutti sotto la protezione dell’augusta Vergine Maria. Abbraccio di cuore (i parenti). La mia salute è nella Croce. Il cuore di Gesù veglia su di me.

Maria, della Croce, vittima di Gesù

Prima parte della pubblicazione “Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette con altri fatti prodigiosi, raccolti da pubblici documenti pel sacerdote Giovanni Bosco”, Torino, Tipografia dell’Oratorio di s. Francesco di Sales, 1871




Il Venerabile mons. Stefano Ferrando

Mons. Stefano Ferrando è stato un esempio straordinario di dedizione missionaria e servizio episcopale, coniugando il carisma salesiano con una vocazione profonda al servizio dei più poveri. Nato nel 1895 in Piemonte, entrò giovane nella Congregazione salesiana e, dopo aver prestato servizio militare durante la Prima guerra mondiale, che gli valse la medaglia d’argento al valore, si dedicò all’apostolato in India. Vescovo di Krishnagar e poi di Shillong per oltre trent’anni, camminò instancabilmente fra le popolazioni, promuovendo l’evangelizzazione con umiltà e profondo amore pastorale. Fondò istituzioni, sostenne i catechisti laici e incarnò nel suo vivere il motto “Apostolo di Cristo”. La sua vita fu un esempio di fede, abbandono a Dio e totale donazione, lasciando un’eredità spirituale che continua ad ispirare la missione salesiana nel mondo.

            Il venerabile Mons. Stefano Ferrando seppe coniugare la propria vocazione salesiana con il carisma missionario e il ministero episcopale. Nato il 28 settembre 1895 a Rossiglione (Genova, diocesi di Acqui) da Agostino e Giuseppina Salvi, si contraddistinse per un ardente amore a Dio e una tenera devozione alla beata Vergine Maria. Nel 1904 entrò nelle scuole salesiane, prima a Fossano e poi a Torino – Valdocco, dove conobbe i successori di Don Bosco e la prima generazione di Salesiani, e intraprese gli studi sacerdotali; nel frattempo nutrì il desiderio di partire missionario. Il 13 settembre 1912, a Foglizzo fece la sua prima professione religiosa nella Congregazione salesiana. Chiamato alle armi nel 1915, partecipò alla Prima guerra mondiale. Per il coraggio dimostrato gli venne conferita la medaglia d’argento al valore. Tornato a casa nel 1918, il 26 dicembre 1920 emise i voti perpetui.
            Fu ordinato sacerdote a Borgo San Martino (Alessandria) il 18 marzo 1923. Il 2 dicembre dello stesso anno, con nove compagni, s’imbarcò a Venezia come missionario in India. Il 18 dicembre, dopo 16 giorni di viaggio, il gruppo arrivò a Bombay e il 23 dicembre a Shillong, luogo del suo nuovo apostolato. Maestro dei novizi, educò i giovani salesiani all’amore per Gesù e Maria ed ebbe un grande spirito di apostolato.
            Il 9 agosto 1934 papa Pio XI lo nominò vescovo di Krishnagar. Il suo motto fu “Apostolo di Cristo”. Nel 1935, il 26 novembre, venne trasferito a Shillong dove rimarrà vescovo per 34 anni. Pur operando in una gravosa situazione di impatto culturale, religioso e sociale, Mons. Ferrando si prodigò instancabilmente per stare accanto al popolo che gli era stato affidato, lavorando con zelo nella vasta diocesi che comprendeva l’intera regione dell’India del Nord Est. Preferì alla macchina, di cui avrebbe potuto disporre, muoversi a piedi: questo gli permetteva infatti di incontrare le persone, fermarsi a parlare con loro, essere reso partecipe della loro vita. Tale contatto in diretta con la vita delle persone fu una delle principali ragioni della fecondità del suo annuncio evangelico: umiltà, semplicità, amore per i poveri spingono molti a convertirsi e a richiedere il Battesimo. Istituì un seminario per la formazione dei giovani salesiani indiani, costruì un ospedale, edificò un santuario dedicato a Maria Ausiliatrice e fondò la prima Congregazione di suore autoctone, la Congregazione delle Suore Missionarie di Maria Aiuto dei Cristiani (1942).

            Uomo dal carattere forte, non si scoraggiò di fronte alle innumerevoli difficoltà, che affrontò con il sorriso e la mitezza. La perseveranza di fronte agli ostacoli fu una delle sue caratteristiche principali. Cercò di unire il messaggio evangelico alla cultura locale nella quale esso andava inserito. Fu intrepido nelle visite pastorali, che compì nei luoghi più sperduti della diocesi, pur di ricuperare l’ultima pecorella smarrita. Manifestò una particolare sensibilità e promozione per i catechisti laici, che considerava complementari alla missione del vescovo e da cui dipese buona parte della fecondità dell’annuncio del Vangelo e della sua penetrazione nel territorio. Immensa anche la sua attenzione alla pastorale familiare. Nonostante i numerosi impegni, il venerabile fu un uomo dalla ricca vita interiore, alimentata dalla preghiera e dal raccoglimento. Come Pastore fu apprezzato dalle sue suore, dai sacerdoti, dai confratelli salesiani e nell’episcopato, nonché dal popolo che lo sentì profondamente vicino. Si donò in maniera creativa al suo gregge, occupandosi dei poveri, difendendo gli intoccabili, curando i malati di colera.
            I punti-cardine della sua spiritualità furono il legame filiale con la Vergine Maria, lo zelo missionario, il continuo riferimento a Don Bosco, come emerge dai suoi scritti e in tutta la sua attività missionaria. Il momento più luminoso ed eroico della sua vita virtuosa fu l’abbandono della diocesi di Shillong. Mons. Ferrando dovette presentare al Santo Padre le dimissioni quando era ancora nel pieno delle proprie facoltà fisiche e intellettive, per consentire la nomina del suo successore, che andava scelto, secondo le superiori indicazioni, fra i sacerdoti indigeni da lui stesso formati. Fu un momento particolarmente doloroso, vissuto dal grande vescovo con umiltà e obbedienza. Egli comprese che era tempo di ritirarsi in preghiera secondo la volontà del Signore.
            Tornato a Genova nel 1969, continuò la sua attività pastorale, presiedendo le cerimonie per il conferimento della Cresima e dedicandosi al sacramento della Penitenza.
            Fu sino all’ultimo fedele alla vita religiosa salesiana, decidendo di vivere in comunità e rinunciando ai privilegi che la sua posizione di vescovo poteva riservargli. Egli in Italia continuò ad essere «a missionary». Non «a missionary who moves, but […] a missionary who is»: non un missionario che si muove, ma un missionario che è. La sua vita in questa ultima stagione diventò un “irradiare”. Egli diventa un “missionario della preghiera” che dice: «Sono contento di essere venuto via perché altri subentrassero a compiere opere così meravigliose».
            Da Genova Quarto, continuò ad animare la missione dell’Assam, sensibilizzando le coscienze ed inviando aiuti economici. Visse quest’ora di purificazione con spirito di fede, di abbandono alla volontà di Dio e di obbedienza, toccando con mano tutto il senso dell’espressione evangelica «siamo solo servi inutili», e confermando con la sua vita il caetera tolle, l’aspetto oblativo-sacrificale della vocazione salesiana. Morì il 20 giugno 1978 e venne sepolto a Rossiglione, sua terra natale. Nel 1987 le sue spoglie mortali furono riportate in India.

            Nella docilità allo Spirito svolse una feconda azione pastorale, che si manifestò nel grande amore per i poveri, nell’umiltà di spirito e nella carità fraterna, nella gioia e nell’ottimismo dello spirito salesiano.
            Mons. Ferrando ha inaugurato, insieme a tanti missionari che con lui hanno condiviso l’avventura dello Spirito nella terra dell’India, tra i quali i Servi di Dio Francesco Convertini, Costantino Vendrame e Oreste Marengo, un nuovo metodo missionario: essere missionario itinerante. Tale esempio è un provvidenziale monito, soprattutto per le congregazioni religiose tentate da un processo di istituzionalizzazione e di chiusura, a non perdere la passione di andare incontro alle persone e alle situazioni di maggior povertà e indigenza materiale e spirituale, andando là dove nessuno vuole andare e affidandosi come lei fece. «Guardo con fiducia all’avvenire fidando in Maria Ausiliatrice… Mi affiderò all’Ausiliatrice che mi salvò già da tanti pericoli».




Santa Monica, madre di Sant’Agostino, testimone di speranza

Una donna dalla fede incrollabile, dalle lacrime feconde, esaudita da Dio dopo diciassette lunghi anni. Un modello di cristiana, sposa e madre per tutta la Chiesa. Una testimone di speranza che si è trasformata in potente intercessora nel Cielo. Lo stesso don Bosco raccomandava alle madri, afflitte per la vita poco cristiana dei loro figli, di affidarsi a lei nelle preghiere.

Nella grande galleria dei santi e delle sante che hanno segnato la storia della Chiesa, Santa Monica (331-387) occupa un posto singolare. Non per miracoli spettacolari, non per la fondazione di comunità religiose, non per imprese sociali o politiche di rilievo. Monica è ricordata e venerata anzitutto come madre, la madre di Agostino, il giovane inquieto che grazie alle sue preghiere, alle sue lacrime e alla sua testimonianza di fede divenne uno dei più grandi Padri della Chiesa e Dottori della fede cattolica.
Ma limitare la sua figura al ruolo materno sarebbe ingiusto e riduttivo. Monica è una donna che seppe vivere la sua vita ordinaria — moglie, madre, credente — in modo straordinario, trasfigurando la quotidianità attraverso la forza della fede. È un esempio di perseveranza nella preghiera, di pazienza nel matrimonio, di speranza incrollabile di fronte alle deviazioni del figlio.
Le notizie sulla sua vita ci giungono quasi esclusivamente dalle Confessioni di Agostino, un testo che non è una cronaca, ma una lettura teologica e spirituale dell’esistenza. Eppure, in quelle pagine Agostino traccia un ritratto indimenticabile della madre: non solo una donna buona e pia, ma un autentico modello di fede cristiana, una “madre delle lacrime” che diventano sorgente di grazia.

Le origini a Tagaste
Monica nacque nel 331 a Tagaste, città della Numidia, Souk Ahras nell’attuale Algeria. Era un centro vivace, segnato dalla presenza romana e da una comunità cristiana già radicata. Proveniva da una famiglia cristiana agiata: la fede era già parte del suo orizzonte culturale e spirituale.
La sua formazione fu segnata dall’influenza di una nutrice austera, che la educò alla sobrietà e alla temperanza. San Agostino scriverà di lei: “Non discorrerò per questo di doni suoi, ma di doni tuoi a lei, che non si era fatta da sé sola, né da sé sola educata. Tu la creasti senza che neppure il padre e la madre sapessero quale figlia avrebbero avuto; e l’ammaestrò nel tuo timore la verga del tuo Cristo, ossia la disciplina del tuo Unigenito, in una casa di credenti, membro sano della tua Chiesa.” (Confessioni IX, 8, 17).

Nelle stesse Confessioni Agostino racconta anche un episodio significativo: la giovane Monica aveva preso l’abitudine di bere piccoli sorsi di vino dalla cantina, finché una serva la rimproverò chiamandola “ubriacona”. Quel rimprovero le basto per correggersi definitivamente. Questo aneddoto, apparentemente minore, mostra la sua onestà di riconoscere i propri peccati, di lasciarsi correggere e di crescere in virtù.

A età di 23 anni Monica fu data in sposa a Patrizio, un funzionario municipale pagano, noto per il suo carattere collerico e la sua infedeltà coniugale. La vita matrimoniale non fu facile: la convivenza con un uomo impulsivo e distante dalla fede cristiana mise a dura prova la sua pazienza.
Eppure, Monica non cadde mai nello scoraggiamento. Con un atteggiamento fatto di mitezza e rispetto, seppe conquistare progressivamente il cuore del marito. Non rispondeva con durezza agli scatti d’ira, non alimentava conflitti inutili. Con il tempo, la sua costanza ottenne frutto: Patrizio si convertì e ricevette il battesimo poco prima di morire.
La testimonianza di Monica mostra come la santità non si esprima necessariamente in gesti clamorosi, ma nella fedeltà quotidiana, nell’amore che sa trasformare lentamente le situazioni difficili. In questo senso, è un modello per tante spose e madri che vivono matrimoni segnati da tensioni o differenze di fede.

Monica madre
Dal matrimonio nacquero tre figli: Agostino, Navigio e una figlia di cui non conosciamo il nome. Monica riversò su di loro tutto il suo amore, ma soprattutto la sua fede. Navigio e la figlia seguirono un cammino cristiano lineare: Navigio divenne sacerdote; la figlia intraprese la via della verginità consacrata. Agostino invece divenne presto il centro delle sue preoccupazioni e delle sue lacrime.
Già da ragazzo, Agostino mostrava un’intelligenza straordinaria. Monica lo mandò a studiare retorica a Cartagine, desiderosa di assicurargli un futuro brillante. Ma insieme ai progressi intellettuali arrivarono anche le tentazioni: la sensualità, la mondanità, le compagnie sbagliate. Agostino abbracciò la dottrina manichea, convinto di trovarvi risposte razionali al problema del male. Inoltre cominciò a convivere senza sposarsi con una donna dalla quale ebbe un figlio, Adeodato. Le deviazioni del figlio indussero Monica a negargli l’accoglienza nella propria casa. Pero non per questo cesso di pregare per lui e di offrire sacrifici: “dal cuore sanguinante di mia madre ti si offriva per me notte e giorno il sacrificio delle sue lacrime”. (Confessioni V, 7,13) e “versava più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli” (Confessioni III, 11,19).

Per Monica fu una ferita profonda: il figlio, che aveva consacrato a Cristo nel grembo, si stava smarrendo. Il dolore era indicibile, ma non smise mai di sperare. Agostino stesso scriverà: “Il cuore di mia madre, colpito da una tale ferita, non si sarebbe mai più risanato: perché non so esprimere adeguatamente i suoi sentimenti verso di me e quanto il suo travaglio nel partorirmi in spirito fosse maggiore di quello con cui mi aveva partorito nella carne.” (Confessioni V, 9,16).

Viene spontanea la domanda: perché Monica non fece battezzare Agostino subito dopo la nascita?
In realtà, benché il battesimo dei bambini fosse già conosciuto e praticato, non era ancora una prassi universale. Molti genitori preferivano rimandarlo all’età adulta, considerandolo un “lavacro definitivo”: temevano che, se il battezzato avesse peccato gravemente, la salvezza sarebbe stata compromessa. Inoltre Patrizio, ancora pagano, non aveva alcun interesse a educare il figlio nella fede cristiana.
Oggi vediamo chiaramente che si trattò di una scelta infelice, poiché il battesimo non solo ci rende figli di Dio, ma ci dona la grazia di vincere le tentazioni e il peccato.
Una cosa però è certa: se fosse stato battezzato da bambino, Monica avrebbe risparmiato a sé e al figlio tante sofferenze.

L’immagine più forte di Monica è quella di una madre che prega e piange. Le Confessioni la descrivono come donna instancabile nell’intercedere presso Dio per il figlio.
Un giorno, un vescovo di Tagaste — secondo alcuni, lo stesso Ambrogio — la rassicurò con parole rimaste celebri: “Va’, non può andare perduto il figlio di tante lacrime”. Quella frase divenne la stella polare di Monica, la conferma che il suo dolore materno non era vano, ma parte di un misterioso disegno di grazia.

Tenacità di una madre
La vita di Monica fu anche un pellegrinaggio sulle orme di Agostino. Quando il figlio decise di partire di nascosto per Roma, Monica non risparmia nessuna fatica; non dà la causa come perduta, ma lo segue e lo cerca fino quando non lo trova. Lo raggiunse a Milano, dove Agostino aveva ottenuto una cattedra di retorica. Qui trovò una guida spirituale in sant’Ambrogio, vescovo della città. Tra Monica e Ambrogio nacque una profonda sintonia: ella riconosceva in lui il pastore capace di guidare il figlio, mentre Ambrogio ammirava la sua fede incrollabile.
A Milano, la predicazione di Ambrogio aprì nuove prospettive ad Agostino. Egli abbandonò progressivamente il manicheismo e iniziò a guardare al cristianesimo con occhi nuovi. Monica accompagnava silenziosamente questo processo: non forzava i tempi, non pretendeva conversioni immediate, ma pregava e sosteneva e li rimane a fianco fino alla sua conversione.

La conversione di Agostino
Dio sembrava non ascoltarla, ma Monica non smise mai di pregare e di offrire sacrifici per il figlio. Dopo diciassette anni, finalmente le sue suppliche furono esaudite — e come! Agostino non solo si fece cristiano, ma divenne sacerdote, vescovo, dottore e padre della Chiesa.
Egli stesso lo riconosce: “Tu però nella profondità dei tuoi disegni esaudisti il punto vitale del suo desiderio, senza curarti dell’oggetto momentaneo della sua richiesta, ma badando a fare di me ciò che sempre ti chiedeva di fare.” (Confessioni V, 8,15).

Il momento decisivo arrivò nel 386. Agostino, tormentato interiormente, lottava contro le passioni e le resistenze della sua volontà. Nel celebre episodio del giardino di Milano, al sentire la voce di un bambino che diceva “Tolle, lege” (“Prendi, leggi”), aprì la Lettera ai Romani e lesse le parole che gli cambiarono la vita: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,14).
Fu l’inizio della sua conversione. Insieme al figlio Adeodato e ad alcuni amici si ritirò a Cassiciaco per prepararsi al battesimo. Monica era con loro, partecipe della gioia di vedere finalmente esaudite le preghiere di tanti anni.
La notte di Pasqua del 387, nella cattedrale di Milano, Ambrogio battezzò Agostino, Adeodato e gli altri catecumeni. Le lacrime di dolore di Monica si trasformarono in lacrime di gioia. Continua a rimanere al suo servizio, tanto che a Cassiciaco Agostino dirà: “Ebbe cura come se di tutti fosse stata madre e ci servì come se di tutti fosse stata figlia.”.

Ostia: l’estasi e la morte
Dopo il battesimo, Monica e Agostino si prepararono a tornare in Africa. Fermatisi a Ostia, in attesa della nave, vissero un momento di intensissima spiritualità. Le Confessioni narrano l’estasi di Ostia: madre e figlio, affacciati a una finestra, contemplarono insieme la bellezza del creato e si elevarono verso Dio, pregustando la beatitudine del cielo.
Monica dirà: “Figlio, quanto a me non trovo ormai più alcuna attrattiva per questa vita. Non so che cosa io stia a fare ancora quaggiù e perché mi trovi qui. Questo mondo non è più oggetto di desideri per me. C’era un solo motivo per cui desideravo rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico, prima di morire. Dio mi ha esaudito oltre ogni mia aspettativa, mi ha concesso di vederti al suo servizio e affrancato dalle aspirazioni di felicità terrene. Che sto a fare qui?” (Confessioni IX, 10,11). Aveva raggiunto la sua meta terrena.
Alcuni giorni dopo Monica si ammalò gravemente. Sentendo vicina la fine, disse ai figli: “Figli miei, seppellirete qui vostra madre: non vi preoccupate di dove. Solo di questo vi prego: ricordatevi di me all’altare del Signore, dovunque sarete”. Era la sintesi della sua vita: non l’importava il luogo della sepoltura, ma il legame nella preghiera e nell’Eucaristia.
Morì a 56 anni, nel 12 novembre del 387, e fu sepolta a Ostia. Nel VI secolo, le sue reliquie furono trasferite in una cripta nascosta nella stessa chiesa di Sant’Aurea. Nel 1425, le reliquie furono traslatate a Roma, nella basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio, dove ancora oggi sono venerate.

Il profilo spirituale di Monica
Agostino descrive sua madre con parole ben misurate:
“[…] muliebre nell’aspetto, virile nella fede, vegliarda nella pacatezza, materna nell’amore, cristiana nella pietà […]”. (Confessioni IX, 4, 8).
E ancora:
“[…] vedova casta e sobria, assidua nell’elemosina, devota e sottomessa ai tuoi santi; che non lasciava passare giornata senza recare l’offerta al tuo altare, che due volte al giorno, mattino e sera, senza fallo visitava la tua chiesa, e non per confabulare vanamente e chiacchierare come le altre vecchie, ma per udire le tue parole e farti udire le sue orazioni. Le lacrime di una tale donna, che con esse ti chiedeva non oro né argento, né beni labili o volubili, ma la salvezza dell’anima di suo figlio, avresti potuto sdegnarle tu, che così l’avevi fatta con la tua grazia, rifiutandole il tuo soccorso? Certamente no, Signore. Tu anzi le eri accanto e l’esaudivi, operando secondo l’ordine con cui avevi predestinato di dover operare.” (Confessioni V, 9,17).

Da questa testimonianza agostiniana, emerge una figura di sorprendente attualità.
Fu una donna di preghiera: non smise mai di invocare Dio per la salvezza dei suoi cari. Le sue lacrime diventano modello di intercessione perseverante.
Fu una sposa fedele: in un matrimonio difficile, non rispose mai con risentimento alla durezza del marito. La sua pazienza e la sua mitezza furono strumenti di evangelizzazione.
Fu una madre coraggiosa: non abbandonò il figlio nelle sue deviazioni, ma lo accompagnò con amore tenace, capace di fidarsi dei tempi di Dio.
Fu una testimone di speranza: la sua vita mostra che nessuna situazione è disperata, se vissuta nella fede.
Il messaggio di Monica non appartiene solo al IV secolo. Parla ancora oggi, in un contesto in cui molte famiglie vivono tensioni, figli si allontanano dalla fede, genitori sperimentano la fatica dell’attesa.
Ai genitori, insegna a non arrendersi, a credere che la grazia opera in modi misteriosi.
Alle donne cristiane, mostra come la mitezza e la fedeltà possano trasformare relazioni difficili.
A chiunque si senta scoraggiato nella preghiera, testimonia che Dio ascolta, anche se i tempi non coincidono con i nostri.
Non è un caso che molte associazioni e movimenti abbiano scelto Monica come patrona delle madri cristiane e delle donne che pregano per i figli lontani dalla fede.

Una donna semplice e straordinaria
La vita di santa Monica è la storia di una donna semplice e straordinaria insieme. Semplice perché vissuta nel quotidiano di una famiglia, straordinaria perché trasfigurata dalla fede. Le sue lacrime e le sue preghiere hanno plasmato un santo e, attraverso di lui, hanno inciso profondamente nella storia della Chiesa.
La sua memoria, celebrata il 27 agosto, alla vigilia della festa di sant’Agostino, ci ricorda che la santità passa spesso attraverso la perseveranza nascosta, il sacrificio silenzioso, la speranza che non delude.
Nelle parole di Agostino, rivolte a Dio per la madre, troviamo la sintesi della sua eredità spirituale: “Non posso dire abbastanza di quanto la mia anima sia debitrice a lei, mio Dio; ma tu sai tutto. Ripagale con la tua misericordia quanto ti chiese con tante lacrime per me” (Conf., IX, 13).

Santa Monica attraverso le vicende della sua vita ha raggiunto la felicità eterna che lei stessa ha definito: “La felicità consiste senza dubbio nel raggiungimento del fine e si deve aver fiducia che ad esso possiamo esser condotti da una ferma fede, da una viva speranza, da un’ardente carità”. (La Felicità 4,35).




Verso l’alto! San Pier Giorgio Frassati

“Carissimi giovani, la nostra speranza è Gesù. È Lui, come diceva San Giovanni Paolo II, «che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande […], per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna» (XV Giornata Mondiale della Gioventù, Veglia Di Preghiera, 19 agosto 2000). Teniamoci uniti a Lui, rimaniamo nella sua amicizia, sempre, coltivandola con la preghiera, l’adorazione, la Comunione eucaristica, la Confessione frequente, la carità generosa, come ci hanno insegnato i beati Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, che presto saranno proclamati Santi. Aspirate a cose grandi, alla santità, ovunque siate. Non accontentatevi di meno. Allora vedrete crescere ogni giorno, in voi e attorno a voi, la luce del Vangelo” (Papa Leone XIV – omelia Giubileo dei giovani – 3 agosto 2025).

Pier Giorgio e don Cojazzi
Il senatore Alfredo Frassati, ambasciatore del Regno d’Italia a Berlino, era il proprietario e direttore del quotidiano La Stampa di Torino. I Salesiani avevano un grosso debito di riconoscenza verso di lui. In occasione della grande montatura scandalistica nota come “I fatti di Varazze”, in cui si era cercato di gettare fango sulla onorabilità dei Salesiani, Frassati ne aveva preso le difese. Mentre persino alcuni giornali cattolici sembravano smarriti e disorientati di fronte alle pesanti e penose accuse, La Stampa, condotta una rapida inchiesta, aveva precorso le conclusioni della magistratura proclamando l’innocenza dei Salesiani. Così, quando da casa Frassati giunse la richiesta di un salesiano che si occupasse di seguire negli studi i due figli del senatore, Pier Giorgio e Luciana, don Paolo Albera, Rettor Maggiore, si sentì in obbligo di accettare. Inviò don Antonio Cojazzi (1880-1953). Era l’uomo adatto: buona cultura, temperamento giovanile di un’eccezionale capacità comunicativa. Don Cojazzi si era laureato in lettere nel 1905, in filosofia nel 1906, e aveva conseguito il diploma di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese dopo un serio perfezionamento in Inghilterra.
In casa Frassati don Cojazzi diventò qualcosa di più del ‘precettore’ che segue i ragazzi. Diventò un amico, specialmente di Pier Giorgio, di cui dirà: “Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e il liceo con lezioni che nei primi anni erano quotidiane; lo seguii con crescente interesse e affetto”. Pier Giorgio, diventato uno dei giovani di punta dell’Azione Cattolica torinese, ascoltava le conferenze e le lezioni che don Cojazzi teneva ai soci del Circolo C. Balbo, seguiva con interesse la Rivista dei Giovani, saliva talvolta a Valsalice in cerca di luce e di consiglio nei momenti decisivi.

Un momento di notorietà
Pier Giorgio lo ebbe durante il Congresso Nazionale della Gioventù Cattolica italiana, nel 1921: cinquantamila giovani che sfilavano per Roma, cantando e pregando. Pier Giorgio, studente del politecnico, reggeva la bandiera tricolore del circolo torinese C. Balbo. Le truppe regie, ad un tratto, circondarono l’enorme corteo e lo presero d’assalto per strappare le bandiere. Si volevano impedire disordini. Un testimone raccontò: “Picchiano con i calci dei moschetti, afferrano, spezzano, strappano le nostre bandiere. Vedo Pier Giorgio alle prese con due guardie. Accorriamo in suo aiuto, e la bandiera, con l’asta spezzata, resta nelle sue mani. Imprigionati a forza in un cortile, i giovani cattolici vengono interrogati dalla polizia. Il testimone ricorda il dialogo condotto con i modi e le cortesie che usano in simili contingenze:
– E tu, come ti chiami?
– Pier Giorgio Frassati di Alfredo.
– Che cosa fa tuo padre?
– Ambasciatore d’Italia a Berlino.
Stupore, cambiamento di tono, scuse, offerta di immediata libertà.
– Uscirò quando usciranno gli altri.
Intanto lo spettacolo bestiale continua. Un sacerdote è buttato, letteralmente buttato nel cortile con l’abito talare strappato e una guancia sanguinante… Insieme ci inginocchiammo per terra, nel cortile, quando quel prete lacero alzò il rosario e disse: Ragazzi, per noi e per quelli che ci hanno percosso, preghiamo!”.

Amava i poveri
Pier Giorgio amava i poveri, li andava a cercare nei quartieri più lontani della città; saliva le scale strette e oscure; entrava nelle soffitte dove soltanto abitano la miseria e il dolore. Tutto quello che aveva in tasca era per gli altri, come tutto quello che teneva nel cuore. Arrivava a passare le notti al capezzale di ammalati sconosciuti. Una notte che non rincasava, il padre sempre più ansioso telefonò alla questura, agli ospedali. Alle due si sentì girare la chiave nella porta e Pier Giorgio entrò. Papà esplose:
– Senti, puoi stare fuori di giorno, di notte, nessuno ti dice niente. Ma quando fai così tardi, avverti, telefona!
Pier Giorgio lo guardò, e con la solita semplicità rispose:
– Babbo, dov’ero io, non c’era telefono.
Le Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli lo videro assiduo cooperatore; i poveri lo conobbero consolatore e soccorritore; le misere soffitte lo accolsero sovente fra le loro squallide mura come un raggio di sole per i suoi derelitti abitanti. Dominato da una profonda umiltà, quello che faceva non voleva che fosse conosciuto da alcuno.

Giorgetto bello e santo
Nei primi giorni del luglio 1925 Pier Giorgio fu assalito e stroncato da un violento attacco di poliomielite. Aveva 24 anni. Sul letto di morte, mentre un male terribile gli devastava la schiena, pensò ancora ai suoi poveri. Su un biglietto, con grafia ormai quasi indecifrabile, scrisse per l’ingegnere Grimaldi, suo amico: Ecco le iniezioni di Converso, la polizza è di Sappa. L’ho dimenticata, rinnovala tu.
Di ritorno dal funerale di Pier Giorgio, don Cojazzi scrive di getto un articolo per la Rivista dei Giovani: “Ripeterò la vecchia frase, ma sincerissima: non credevo di amarlo tanto. Giorgetto bello e santo! Perché mi cantano in cuore insistenti queste parole? Perché le udii ripetere, le udii pronunciare per quasi due giorni, dal padre, dalla madre, dalla sorella, con voce che diceva sempre e non ripeteva mai. E perché affiorano certi versi d’una ballata del Deroulède: «Si parlerà di lui a lungo, nei palazzi dorati e nei casolari sperduti! Perché di lui parleranno anche i tuguri e le soffitte, dove passò tante volte angelo consolatore». Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e parte del liceo… lo seguii con crescente interesse e affetto fino alla sua odierna trasfigurazione… Scriverò la sua vita. Si tratta della raccolta di testimonianze che presentano la figura di questo giovane nella pienezza della sua luce, nella verità spirituale e morale, nella testimonianza luminosa e contagiosa di bontà e di generosità”.

Il best-seller dell’editoria cattolica
Incoraggiato e spinto anche dall’arcivescovo di Torino, Mons. Giuseppe Gamba, don Cojazzi si mise al lavoro di buona lena. Le testimonianze arrivarono numerose e qualificate, furono ordinate e vagliate con cura. La mamma di Pier Giorgio seguiva il lavoro, dava suggerimenti, forniva materiale. Nel marzo del 1928 esce la vita di Pier Giorgio. Scrive Luigi Gedda: “Fu un successo strepitoso. In soli nove mesi vennero esaurite 30 mila copie del libro. Nel 1932 erano già state diffuse 70 mila copie. Nel giro di 15 anni il libro su Pier Giorgio raggiunse 11 edizioni, e forse fu il best-seller dell’editoria cattolica in quel periodo”.
La figura illuminata da don Cojazzi fu una bandiera per l’Azione Cattolica durante il difficile tempo del fascismo. Nel 1942 avevano preso il nome di Pier Giorgio Frassati: 771 associazioni giovanili di Azione Cattolica, 178 sezioni aspiranti, 21 associazioni universitarie, 6o gruppi di studenti medi, 29 conferenze di S. Vincenzo, 23 gruppi del Vangelo… Il libro fu tradotto almeno in 19 lingue.
Il libro di don Cojazzi segnò una svolta nella storia della gioventù italiana. Pier Giorgio, fu l’ideale additato senza alcuna riserva: uno che ha saputo dimostrare che essere cristiano fino in fondo non è affatto utopistico, né fantastico.
Pier Giorgio Frassati segnò una svolta anche nella storia di don Cojazzi. Quel biglietto scritto da Pier Giorgio sul letto di morte gli rivelò in maniera concreta, quasi brutale, il mondo dei poveri. Scrive lo stesso don Cojazzi: “Il Venerdì Santo di quest’anno (1928) con due universitari visitai per quattro ore i poveri fuori Porta Metronia. Quella visita mi procurò una salutarissima lezione e umiliazione. Io avevo scritto e parlato moltissimo sulle Conferenze di S. Vincenzo… eppure non ero mai andato una sola volta a visitare i poveri. In quei luridi capannoni mi vennero spesso le lacrime agli occhi… La conclusione? Eccola chiara e cruda per me e per voi: meno parole belle e più opere buone”.
Il contatto vivo con i poveri non solo un’attuazione immediata del Vangelo, ma una scuola di vita per i giovani. Sono la migliore scuola per i giovani, per educarli e tenerli nella serietà della vita. Chi si reca a visitare i poveri e ne tocca con mano le piaghe materiali e morali, come può sprecare il suo denaro, il suo tempo, la sua giovinezza? Come può lamentarsi dei propri lavori e dolori, quando ha conosciuto, per diretta esperienza, che altri soffrono più di lui?

Non vivacchiare, ma vivere!
Pier Giorgio Frassati è un esempio luminoso di santità giovanile, attuale, «inquadrato» nel nostro tempo. Egli attesta ancora una volta che la fede in Gesù Cristo è la religione dei forti e dei veramente giovani, che sola può illuminare tutte le verità con la luce del «mistero» e che soltanto essa può regalare la perfetta letizia. La sua esistenza è il perfetto modello della vita normale alla portata di tutti. Egli, come tutti i seguaci di Gesù e del Vangelo, incominciò dalle piccole cose; giunse alle altezze più sublimi a forza di sottrarsi ai compromessi di una vita mediocre e senza senso e impiegando la naturale testardaggine nei suoi fermi propositi. Tutto, nella sua vita, gli fu gradino per salire; anche ciò che gli avrebbe dovuto essere di inciampo. Fra i compagni era l’intrepido ed esuberante animatore di ogni impresa facendo convergere intorno a sé tanta simpatia e tanta ammirazione. La natura gli era stata larga di favori: di famiglia rinomata, ricco, d’ingegno sodo e pratico, fisico prestante e robusto, educazione completa, nulla gli mancava per farsi largo nella vita. Ma egli non intendeva vivacchiare, bensì conquistarsi il suo posto al sole, lottando. Era una tempra di uomo ed un’anima di cristiano.
La sua vita aveva in sé stessa una coerenza che riposava nell’unità dello spirito e della esistenza, della fede e delle opere. La sorgente di questa personalità così luminosa era nella profonda vita interiore. Frassati pregava. La sua sete della Grazia gli faceva amare tutto ciò che riempie e arricchisce lo spirito. S’accostava ogni giorno alla Santa Comunione, poi restava ai piedi dell’altare, a lungo, senza che nulla valesse a distrarlo. Pregava sui monti e per la via. Non era però, la sua, una fede ostentata, anche se i segni di croce fatti sulla pubblica strada passando davanti alle chiese erano grandi e sicuri, anche se il Rosario era detto ad alta voce, in una carrozza ferroviaria o nella camera di un albergo. Ma era piuttosto una fede vissuta così intensamente e schiettamente che erompeva dalla sua anima generosa e franca con una semplicità di atteggiamento che convinceva e commoveva. La sua formazione spirituale si irrobustì nelle adorazioni notturne di cui fu fervido propugnatore ed immancabile partecipante. Fece più di una volta gli esercizi spirituali traendone serenità e vigoria spirituale.
Il libro di don Cojazzi si chiude con la frase: «Averlo conosciuto o averne udito parlare significa amarlo, ed amarlo significa seguirlo». L’augurio che la testimonianza di Piergiorgio Frassati sia “sale e luce” per tutti, soprattutto per i giovani di oggi.




Le sette allegrezze della Madonna

Nel cuore dell’opera educativa e spirituale di San Giovanni Bosco, la figura della Madonna occupa un posto privilegiato e luminoso. Don Bosco non fu solo un grande educatore e fondatore, ma anche un fervente devoto della Vergine Maria, che egli venerava con profondo affetto e alla quale affidava ogni suo progetto pastorale. Una delle espressioni più caratteristiche di questa devozione è la pratica delle “Sette allegrezze della Madonna”, proposta in modo semplice e accessibile nella sua pubblicazione “Il giovane provveduto”, uno dei testi più diffusi nella sua pedagogia spirituale.

Un’opera per l’anima dei giovani
Nel 1875, Don Bosco pubblicava una nuova edizione de “Il giovane provveduto per la pratica de’ suoi doveri negli esercizi di cristiana pietà”, un manuale di preghiere, esercizi spirituali e norme di condotta cristiana pensato per i ragazzi. Questo libro, redatto con uno stile sobrio e paterno, intendeva accompagnare i giovani nella loro formazione morale e religiosa, introducendoli a una vita cristiana integrale. In esso trovava spazio anche la devozione alle “Sette allegrezze di Maria Santissima”, una preghiera semplice ma intensa, strutturata in sette punti. A differenza delle “Sette dolori della Madonna”, molto più nota e diffusa nella pietà popolare, le “Sette allegrezze” di don Bosco pongono l’accento sulle gioie della Santissima Vergine nel Paradiso, conseguenza di una vita terrena vissuta nella pienezza della grazia di Dio.
Questa devozione ha origini antiche e fu particolarmente cara ai Francescani, che la diffusero a partire dal XIII secolo, come Rosario delle Sette Allegrezze della Beata Vergine Maria (o Corona Serafica). Nella forma francescana tradizionale è una preghiera devozionale composta da sette decine di Ave Maria, ciascuna preceduta da un mistero gioioso (allegrezza) e introdotta da un Padre Nostro. Alla fine di ogni decina si recita un Gloria al Padre. Le allegrezze sono: 1. L’Annunciazione dell’Angelo; 2. La visita a Santa Elisabetta; 3. La nascita del Salvatore; 4. L’adorazione dei Magi; 5. Il ritrovamento di Gesù nel tempio; 6. La risurrezione del Figlio; 7. L’assunzione e incoronazione di Maria in cielo.
Don Bosco, attingendo a questa tradizione, ne offre una versione semplificata, adatta alla sensibilità dei giovani.
Ciascuna di queste allegrezze è meditata attraverso la recita di un Ave Maria e un Gloria.

La pedagogia della gioia
La scelta di proporre ai giovani questa devozione non risponde solo a un gusto personale di Don Bosco, ma si inserisce pienamente nella sua visione educativa. Egli era convinto che la fede dovesse essere trasmessa attraverso la gioia, non la paura; attraverso la bellezza del bene, non il timore del male. Le “Sette allegrezze” diventano così una scuola di letizia cristiana, un invito a riconoscere che, nella vita della Vergine, la grazia di Dio si manifesta come luce, speranza e compimento.
Don Bosco conosceva bene le difficoltà e le sofferenze che molti dei suoi ragazzi affrontavano quotidianamente: la povertà, l’abbandono familiare, la precarietà del lavoro. Per questo, offriva loro una devozione mariana che non si limitasse al pianto e al dolore, ma che fosse anche una sorgente di consolazione e di gioia. Meditare le allegrezze di Maria significava aprirsi a una visione positiva della vita, imparare a riconoscere la presenza di Dio anche nei momenti difficili, e affidarsi con fiducia alla tenerezza della Madre celeste.
Nella pubblicazione “Il giovane provveduto”, Don Bosco scrive parole toccanti sul ruolo di Maria: la presenta come madre amorevole, guida sicura e modello di vita cristiana. La devozione alle sue allegrezze non è una semplice pratica devozionale, ma un mezzo per entrare in relazione personale con la Madonna, per imitarne le virtù e riceverne l’aiuto materno nelle prove della vita.
Per il santo torinese, Maria non è distante o inaccessibile, ma vicina, presente, attiva nella vita dei suoi figli. Questa visione mariana, fortemente relazionale, attraversa tutta la spiritualità salesiana e si riflette anche nella vita quotidiana degli oratori: ambienti dove la gioia, la preghiera e la familiarità con Maria vanno di pari passo.

Un’eredità viva
Anche oggi, la devozione alle “Sette allegrezze della Madonna” mantiene intatto il suo valore spirituale ed educativo. In un mondo segnato da incertezze, paure e fragilità, essa offre una via semplice ma profonda per scoprire che la fede cristiana è, prima di tutto, un’esperienza di gioia e di luce. Don Bosco, profeta della gioia e della speranza, ci insegna che l’autentica educazione cristiana passa attraverso la valorizzazione degli affetti, delle emozioni e della bellezza del Vangelo.
Riscoprire oggi le “Sette allegrezze” significa anche recuperare uno sguardo positivo sulla vita, sulla storia e sulla presenza di Dio. La Madonna, con la sua umiltà e la sua fiducia, ci insegna a custodire e a meditare nel cuore i segni della gioia vera, quella che non passa, perché fondata sull’amore di Dio.
In un tempo in cui anche i giovani cercano luce e senso, le parole di Don Bosco restano attuali: “Se volete essere felici, praticate la devozione a Maria Santissima”. Le “Sette allegrezze” sono, allora, una piccola scala verso il cielo, un rosario di luce che unisce la terra al cuore della Madre celeste.

Ecco anche il testo originale preso da “Il giovane provveduto per la pratica de suoi doveri negli esercizi di cristiana pieta”, 1875 (pp. 141-142), con i titoli nostri.

Le sette allegrezze che gode Maria in Cielo

1. Purità coltivata
Rallegratevi, o Sposa immacolata dello Spirito Santo, per quel contento che ora godete in Paradiso, perché per la vostra purità e verginità siete esaltata sopra tutti gli Angeli e sublimata sopra tutti i santi.
Ave, Maria e Gloria.

2. Sapienza cercata
Rallegratevi, o Madre di Dio, per quel piacere che provate in Paradiso, perché siccome il sole quaggiù in terra illumina tutto il mondo, così voi col vostro splendore adornate e fate risplendere tutto il Paradiso.
Ave e Gloria.

3. Obbedienza filiale
Rallegratevi, o Figlia di Dio, per la sublime dignità a cui foste elevata in Paradiso, perché tutte le Gerarchie degli Angeli, degli Arcangeli, dei Troni, delle Dominazioni e di tutti gli Spiriti Beati vi onorano, vi riveriscono e vi riconoscono per Madre del loro Creatore, e ad ogni minimo cenno vi sono obbedientissime.
Ave e Gloria.

4. Preghiera continua
Rallegratevi, o Ancella della SS. Trinità, per quel gran potere, che avete in Paradiso, perché tutte le grazie che chiedete al vostro Figliuolo vi sono subito concesse; anzi, come dice s. Bernardo, non si concede grazia quaggiù in terrà, che non passi per le vostre santissime mani.
Ave e Gloria.

5. Umiltà vissuta
Rallegratevi, o augustissima Regina, perché voi sola meritaste sedere alla destra del vostro santissimo Figlio, il quale siede alla destra dell’Eterno Padre.
Ave e Gloria.

6. Misericordia praticata
Rallegratevi, o Speranza dei peccatori, Rifugio dei tribolati, pel gran piacere che provate in Paradiso nel vedere che tutti quelli che vi lodano e vi riveriscono in questo mondo sono dall’Eterno Padre premiati colla sua santa grazia in terra, e colla sua immensa gloria in cielo.
Ave e Gloria.

7. Speranza premiata
Rallegratevi, o Madre, Figlia e Sposa di Dio, perché tutte le grazie, tutti i gaudi, tutte le allegrezze e tutti i favori, che ora godete in Paradiso non si diminuiranno mai; anzi si aumenteranno fino al giorno del giudizio e dureranno in eterno.
Ave e Gloria.

Orazione alla beatissima Vergine.
O gloriosa Vergine Maria, Madre del mio Signore, fonte di ogni nostra consolazione, per queste vostre allegrezze, di cui ho fatto rimembranza con quella devozione che ho potuto maggiore, vi prego d’impetrarmi da Dio la remissione dei miei peccati, ed il continuo aiuto della sua santa grazia, onde io non mi renda mai indegno della vostra protezione, ma bensì abbia la sorte di ricevere tutti quei celesti favori, che siete solita ottenere e compartire ai vostri servi, i quali fanno devota memoria di queste allegrezze, di cui ridonda il vostro bel cuore, o Regina immortale del Cielo.

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Casa Salesiana di Castel Gandolfo

Tra le colline verdi dei Castelli Romani e le acque tranquille del Lago Albano, sorge un luogo dove storia, natura e spiritualità si incontrano in modo singolare: Castel Gandolfo. In questo contesto ricco di memoria imperiale, fede cristiana e bellezza paesaggistica, la presenza salesiana rappresenta un punto fermo di accoglienza, formazione e vita pastorale. La Casa Salesiana, con la sua attività parrocchiale, educativa e culturale, continua la missione di san Giovanni Bosco, offrendo ai fedeli e ai visitatori un’esperienza di Chiesa viva e aperta, immersa in un ambiente che invita alla contemplazione e alla fraternità. È una comunità che, da quasi un secolo, cammina al servizio del Vangelo nel cuore stesso della tradizione cattolica.

Un luogo benedetto dalla storia e dalla natura
Castel Gandolfo è un gioiello dei Castelli Romani, situato a circa 25 km da Roma, immerso nella bellezza naturale dei Colli Albani e affacciato sul suggestivo Lago Albano. A circa 426 metri di altitudine, questo luogo si distingue per il suo clima mite e accogliente, un microclima che sembra preparato dalla Provvidenza per accogliere chi cerca ristoro, bellezza e silenzio.

Già in epoca romana questo territorio era parte dell’Albanum Caesaris, un’antica tenuta imperiale frequentata dagli imperatori sin dai tempi di Augusto. Fu però l’imperatore Tiberio il primo a risiedervi stabilmente, mentre più tardi Domiziano vi fece costruire una splendida villa, i cui resti sono oggi visibili nei giardini pontifici. La storia cristiana del luogo ha inizio con la donazione di Costantino alla Chiesa di Albano: un gesto che segna simbolicamente il passaggio dalla gloria imperiale alla luce del Vangelo.

Il nome Castel Gandolfo deriva dal latino Castrum Gandulphi, il castello costruito dalla famiglia Gandolfi nel XII secolo. Quando nel 1596 il castello passò alla Santa Sede, diventò residenza estiva dei Pontefici, e il legame tra questo luogo e il ministero del Successore di Pietro si fece profondo e duraturo.

La Specola Vaticana: contemplare il cielo, lodare il Creatore
Di particolare rilievo spirituale è la Specola Vaticana, fondata da papa Leone XIII nel 1891 e trasferita negli anni ’30 a Castel Gandolfo a causa dell’inquinamento luminoso di Roma. Essa testimonia come anche la scienza, quando orientata al vero, conduca a lodare il Creatore.
Nel corso degli anni, la Specola ha contribuito a progetti astronomici di grande rilievo come la Carte du Ciel e alla scoperta di numerosi oggetti celesti.

Con l’ulteriore peggioramento delle condizioni di osservazione anche nei Castelli Romani, negli anni Ottanta l’attività scientifica si spostò principalmente presso il Mount Graham Observatory in Arizona (USA), dove il Vatican Observatory Research Group prosegue le ricerche astrofisiche. Castel Gandolfo resta però un importante centro di studi: dal 1986 ospita ogni due anni la Vatican Observatory Summer School, dedicata a studenti e laureati in astronomia di tutto il mondo. La Specola organizza anche convegni specialistici, eventi divulgativi, mostre di meteoriti e presentazioni di materiali storici e artistici a tema astronomico, tutto in uno spirito di ricerca, dialogo e contemplazione del mistero della creazione.

Una chiesa nel cuore della città e della fede
Nel XVII secolo, papa Alessandro VII affidò a Gian Lorenzo Bernini la costruzione di una cappella palatina per i dipendenti delle Ville Pontificie. Il progetto, concepito inizialmente in onore di san Nicola di Bari, fu dedicato infine a san Tommaso da Villanova, agostiniano canonizzato nel 1658. La chiesa fu consacrata nel 1661 e affidata agli Agostiniani, che la ressero fino al 1929. Con la firma dei Patti Lateranensi, papa Pio XI affidò agli stessi Agostiniani la cura pastorale della nuova Pontificia Parrocchia di Sant’Anna in Vaticano, mentre la chiesa di San Tommaso da Villanova venne successivamente affidata ai Salesiani.

La bellezza architettonica di questa chiesa, frutto del genio barocco, è al servizio della fede e dell’incontro tra Dio e l’uomo: vi si celebrano oggi numerosi matrimoni, battesimi e liturgie, richiamando fedeli da ogni parte del mondo.

La casa salesiana
I Salesiani sono presenti a Castel Gandolfo dal 1929. In quegli anni il borgo conobbe un notevole sviluppo, sia demografico che turistico, ulteriormente anche grazie all’inizio delle celebrazioni papali nella chiesa di San Tommaso da Villanova. Ogni anno, nella solennità dell’Assunta, il papa celebrava la Santa Messa nella parrocchia pontificia, una tradizione iniziata da san Giovanni XXIII il 15 agosto 1959, quando uscì a piedi dal Palazzo Pontificio per celebrare l’Eucaristia tra la gente. Questa consuetudine si è mantenuta fino al pontificato di papa Francesco, che ha interrotto i soggiorni estivi a Castel Gandolfo. Nel 2016, infatti, l’intero complesso delle Ville Pontificie è stato trasformato in museo e aperto al pubblico.

La casa salesiana ha fatto parte dell’Ispettoria Romana e, dal 2009 al 2021, della Circoscrizione Salesiana Italia Centrale. Dal 2021 è passata sotto la diretta responsabilità della Sede Centrale, con direttore e comunità nominati dal Rettor Maggiore. Attualmente i salesiani presenti provengono da diverse nazioni (Brasile, India, Italia, Polonia) e sono attivi nella parrocchia, nelle cappellanie e nell’oratorio.

Gli spazi pastorali, pur appartenendo allo Stato della Città del Vaticano e quindi considerati zone extraterritoriali, fanno parte della diocesi di Albano, alla cui vita pastorale i Salesiani partecipano attivamente. Sono coinvolti nella catechesi diocesana per adulti, nell’insegnamento presso la scuola teologica diocesana, e nel Consiglio Presbiterale come rappresentanti della vita consacrata.

Oltre alla parrocchia di San Tommaso da Villanova, i Salesiani gestiscono anche due altre chiese: Maria Ausiliatrice (detta anche “San Paolo”, dal nome del quartiere) e Madonna del Lago, voluta da san Paolo VI. Entrambe furono costruite tra gli anni Sessanta e Settanta per rispondere alle esigenze pastorali della crescente popolazione.

La chiesa parrocchiale progettata da Bernini è oggi meta di numerosi matrimoni e battesimi celebrati da fedeli provenienti da tutto il mondo. Ogni anno, con le dovute autorizzazioni, vi si tengono decine, talvolta centinaia, di celebrazioni.

Il parroco, oltre a guidare la comunità parrocchiale, è anche cappellano delle Ville Pontificie e accompagna spiritualmente i dipendenti vaticani che vi lavorano.

L’oratorio, attualmente gestito da laici, vede il coinvolgimento diretto dei Salesiani, specialmente nella catechesi. In occasione di fine settimana, feste e attività estive come l’Estate Ragazzi, vi collaborano anche studenti salesiani residenti a Roma, offrendo un prezioso supporto. Presso la chiesa di Maria Ausiliatrice esiste anche un teatro attivo, con gruppi parrocchiali che organizzano spettacoli, luogo di incontro, cultura e evangelizzazione.

Vita pastorale e tradizioni
La vita pastorale è scandita dalle principali feste dell’anno: san Giovanni Bosco a gennaio, Maria Ausiliatrice a maggio con una processione nel quartiere di San Paolo, la festa della Madonna del Lago – e quindi la festa del Lago – l’ultimo sabato di agosto, con la statua portata in processione su una barca sul lago. Quest’ultima celebrazione sta coinvolgendo sempre più anche le comunità dei dintorni, attirando numerosi partecipanti, tra cui molti motociclisti, con cui sono stati avviati momenti di incontro.

Il primo sabato di settembre si celebra la festa patronale di Castel Gandolfo in onore di san Sebastiano, con una grande processione cittadina. La devozione a san Sebastiano risale al 1867, quando la città fu risparmiata da un’epidemia che colpì duramente i paesi vicini. Sebbene la memoria liturgica cada il 20 gennaio, la festa locale viene celebrata a settembre, sia in ricordo della protezione ottenuta che per ragioni climatiche e pratiche.

L’8 settembre si celebra il patrono della chiesa, san Tommaso da Villanova, in coincidenza con la Natività della Beata Vergine Maria. In questa occasione si tiene anche la festa delle famiglie, rivolta alle coppie che si sono sposate nella chiesa di Bernini: sono invitate a tornare per una celebrazione comunitaria, una processione e un momento conviviale. L’iniziativa ha avuto ottimi riscontri e si sta consolidando nel tempo.

Una curiosità: la buca delle lettere
Accanto all’ingresso della casa salesiana si trova una casella postale, nota come “Buca delle corrispondenze”, considerata la più antica ancora in uso. Risale infatti al 1820, vent’anni prima dell’introduzione del primo francobollo al mondo, il famoso Penny Black (1840). È una cassetta ufficiale delle Poste Italiane tuttora attiva, ma anche un simbolo eloquente: un invito alla comunicazione, al dialogo, all’apertura del cuore. Il ritorno del papa Leone XIV alla sua sede estiva, sicuramente lo aumenterà.

Castel Gandolfo resta un luogo dove il Creatore parla attraverso la bellezza del creato, la Parola proclamata e la testimonianza di una comunità salesiana che, nella semplicità dello stile di Don Bosco, continua a offrire accoglienza, formazione, liturgia e fraternità, ricordando a coloro che si avvicinano a queste terre in cerca di pace e serenità che la vera pace e serenità si trova solo in Dio e nella sua grazia.




Don Bosco e la chiesa del Santo Sudario

La Santa Sindone di Torino, reliquia tra le più venerate della cristianità, ha una storia millenaria intrecciata con quella dei Savoia e della città sabauda. Giunta a Torino nel 1578, divenne oggetto di profonda devozione, con ostensioni solenni legate a eventi storici e dinastici. Nell’Ottocento, figure come san Giovanni Bosco e altri santi torinesi ne promossero il culto, contribuendo alla sua diffusione. Oggi custodita nella Cappella del Guarini, la Sindone è al centro di studi scientifici e teologici. Parallelamente, la chiesa del Santo Sudario a Roma, legata ai Savoia e alla comunità piemontese, rappresenta un altro luogo significativo, dove don Bosco tentò di stabilire una presenza salesiana.

            La Santa Sindone di Torino, detta impropriamente «Santo Sudario» dall’uso francese di chiamarla «Le Saint Suaire», fu proprietà di Casa Savoia sin dal 1463, e venne trasferita da Chambery nella nuova capitale sabauda nel 1578.
            In quello stesso anno se ne celebrò la prima Ostensione, voluta da Emanuele Filiberto in omaggio al card. Carlo Borromeo che veniva a Torino in pellegrinaggio per venerarla.

Ostensioni nel secolo XIX e culto della Sindone
            Nel secolo XIX si ricordano in particolare le Ostensioni del 1815, 1842, 1868 e 1898: la prima per il rientro dei Savoia nei loro Stati, la seconda per le nozze di Vittorio Emanuele II con Maria Adelaide di Asburgo-Lorena, la terza per le nozze di Umberto I con Margherita di Savoia-Genova, e la quarta in occasione dell’Esposizione Universale.
            I Santi dell’800 torinese, il Cottolengo, il Cafasso e don Bosco, furono devotissimi della Santa Sindone, emuli sull’esempio del Beato Sebastiano Valfré, l’apostolo di Torino nell’assedio del 1706.
            Le Memorie Biografiche ci assicurano che don Bosco la venerò in particolare all’Ostensione del 1842 e a quella del ’68, quando portò anche i ragazzi dell’oratorio a vederla (MB II, 117; IX, 137).
            Oggi la tela senza prezzo, donata da Umberto II di Savoia alla Santa Sede, è affidata all’Arcivescovo di Torino «Custode Pontificio» e conservata nella sontuosa Cappella del Guarini, retrostante il Duomo.
            A Torino vi è pure, in via Piave angolo via San Domenico, la Chiesa del Santo Sudario, eretta dalla Confraternita omonima e rifatta nel 1761. Adiacente alla chiesa vi è il «Museo Sindonologico» e la sede del Sodalizio «Cultores Sanctae Sindonis», centro di studi sindonologici ai quali hanno dato preziosi contributi studiosi salesiani come don Natale Noguier de Malijay, don Antonio Tonelli, don Alberto Caviglia, don Pietro Scotti e, più recentemente, don Pietro Rinaldi e don Luigi Fossati, per nominare solo i principali.

La chiesa del Santo Sudario a Roma
            Una chiesa del Santo Sudario esiste anche a Roma lungo la via omonima che parte dal Largo Argentina parallelamente a Corso Vittorio. Eretta nel 1604 su disegno di Carlo di Castellamonte, fu la Chiesa dei Piemontesi, Savoiardi e Nizzardi, fatta costruire dalla Confraternita del Santo Sudario sorta in quel tempo a Roma. Dopo il 1870 divenne la chiesa particolare di Casa Savoia.
            Don Bosco nei suoi soggiorni romani celebrò varie volte la Santa Messa in quella chiesa e formulò su di essa e sulla casa adiacente un progetto in linea con lo scopo dell’allora estinta Confraternita, dedita ad opere caritative verso la gioventù abbandonata, gli infermi ed i carcerati.
            La Confraternita aveva cessato di operare agli inizi del secolo e la proprietà ed amministrazione della chiesa erano passate alla Legazione Sarda presso la Santa Sede. Negli anni ’60 la chiesa esigeva ormai grossi restauri tanto che nel 1868 venne temporaneamente chiusa.
            Ma già nel 1867 don Bosco era giunto all’idea di proporre al Governo Sabaudo di cedergliene l’uso e l’amministrazione, offrendo la propria collaborazione in denaro per condurre a termine i restauri. Forse egli presentiva non lontana l’entrata delle truppe piemontesi in Roma e, desiderando di aprirvi una casa, pensò di farlo prima che la situazione precipitasse rendendo più difficile ottenere il beneplacito della Santa Sede ed il rispetto degli accordi da parte dello Stato (MB IX, 415-416).
            Presentò quindi la richiesta al Governo. Nel 1869, in una sosta a Firenze, preparò un progetto di convenzione che, giunto a Roma, fece conoscere a Pio IX. Ottenuto il suo assenso, passò alla richiesta ufficiale al Ministero degli Affari Esteri, ma, purtroppo, l’occupazione di Roma venne poi a pregiudicare tutto l’affare. Don Bosco stesso vide l’inopportunità di insistere. L’assumere, infatti, in quel momento, l’ufficiatura di una chiesa romana appartenente ai Savoia da parte di una Congregazione religiosa con Casa Madre a Torino, sarebbe potuto apparire un atto di opportunismo e di servilismo verso il nuovo Governo.
            Dopo la breccia di Porta Pia, con verbale del 2 dicembre 1871, la Chiesa del SS. Sudario fu annessa alla Casa Reale e designata come sede ufficiale del Cappellano maggiore palatino. In seguito all’interdetto di Pio IX sulle Cappelle dell’ex palazzo apostolico del Quirinale, fu proprio nella Chiesa del Sudario che si svolgevano tutti i riti sacri della Famiglia Reale.
            Nel 1874 don Bosco tastò nuovamente il terreno presso il Governo. Ma, sfortunatamente, notizie intempestive trapelate dai giornali, mandarono definitivamente a monte il progetto (MB X, 1233-1235).
            Con la fine della monarchia, nel 2 di giugno del 1946, l’intero complesso del Sudario passò sotto la gestione della Segreteria Generale della Presidenza della Repubblica. Nel 1984, a seguito del nuovo Concordato che sancì l’abolizione delle Cappelle palatine, la Chiesa del Sudario fu affidata all’Ordinariato Militare e così è rimasta fino ad oggi.
            A noi, tuttavia, piace ricordare il fatto che don Bosco, nel cercare l’occasione propizia per aprire una casa in Roma, abbia posto lo sguardo sulla Chiesa del Santo Sudario.




L’educazione al femminile con san Francesco di Sales

Il pensiero educativo di san Francesco di Sales rivela una visione profonda e innovativa del ruolo femminile nella Chiesa e nella società del suo tempo. Convinto che la formazione delle donne fosse fondamentale per la crescita morale e spirituale dell’intera comunità, il santo vescovo di Ginevra promosse un’educazione equilibrata, rispettosa della dignità femminile ma anche attenta alle fragilità. Con uno sguardo paterno e realista, seppe cogliere e valorizzare le qualità delle donne, incoraggiandole a coltivare virtù, cultura e devozione. Fondatore della Visitazione con Giovanna di Chantal, difese con vigore la vocazione femminile anche contro critiche e pregiudizi. Il suo insegnamento continua a offrire spunti attuali sull’educazione, l’amore e la libertà nella scelta della propria vita.

            In occasione del suo viaggio a Parigi nel 1619, Francesco di Sales incontrò Adrien Bourdoise, un prete riformatore del clero, che gli rimproverò di occuparsi troppo delle donne. Il vescovo gli avrebbe risposto con calma che le donne erano la metà del genere umano e che, formando buone cristiane, si avrebbero avuti giovani buoni, e con giovani buoni, buoni preti. D’altronde, san Girolamo non ha consacrato loro parecchio tempo e vari scritti? La lettura delle sue lettere è raccomandata da Francesco di Sales alla signora di Chantal, la quale vi troverà, tra l’altro, numerose indicazioni «per educare le sue figlie». Se ne dedurrà che il ruolo delle donne in ambito educativo giustificava, ai suoi occhi, il tempo e la sollecitudine ad esse dedicati.

Francesco di Sales e le donne del suo tempo
            “Bisogna aiutare il sesso femminile, disprezzato”, aveva detto un giorno il vescovo di Ginevra a Jean-François de Blonay. Per comprendere le preoccupazioni e il pensiero di Francesco di Sales conviene situarlo nella sua epoca. Occorre dire che un certo numero di sue affermazioni sembrano ancora molto legate alla mentalità corrente. Nella donna del suo tempo deplorava «questa femminile tenerezza con sé stesse», la facilità «nel compatirsi e nel desiderare di essere compatite», una maggiore propensione rispetto agli uomini «a dar credito ai sogni, ad aver paura degli spiriti e ad essere credulone e superstiziose», e soprattutto, gli «attorcigliamenti dei loro vanitosi pensieri». Tra i consigli dati alla signora di Chantal attinenti all’educazione delle figlie, scriveva senza esitazione: “Togliete loro la vanità dall’anima: nasce quasi assieme al sesso”.
            Tuttavia, le donne sono dotate di grandi qualità. Scriveva a proposito della signora di La Fléchère che aveva appena perso il marito: “Se avessi soltanto questa perfetta pecorella nel mio ovile, non mi sarei angustiato d’essere pastore di questa afflitta diocesi. Dopo la signora di Chantal, non so se ho mai incontrato un’anima più forte in un corpo femminile, uno spirito più ragionevole e un’umiltà più sincera”. Le donne non sono affatto le ultime nella pratica delle virtù: “Non abbiamo forse visto molti grandi teologi che hanno detto cose meravigliose sulle virtù, non però per praticarle, mentre, al contrario, ci sono tante sante donne che non sanno parlare di virtù, ma che tuttavia conoscono molto bene come praticarle?”.
            Sono le donne sposate quelle più degne di ammirazione: «Oh mio Dio! Come sono gradite a Dio le virtù di una donna sposata; infatti devono essere forti ed eccellenti per poter durare in tale vocazione!». Nella lotta per conservare la castità, riteneva che «le donne sovente hanno combattuto in maniera più coraggiosa rispetto agli uomini».
            Fondatore di una congregazione di donne assieme a Giovanna di Chantal, fu in costante relazione con le prime religiose. Accanto a lodi, incominciarono a piovere le critiche. Spinto in queste trincee, il fondatore dovette difendersi e difenderle, non soltanto in quanto religiose, ma anche in quanto donne. In un documento che doveva servire come prefazione delle Costituzioni delle visitandine, troviamo la vena polemica di cui sapeva dar prova, dirigendosi non più contro «eresiarchi», ma contro «censori» malevoli e ignoranti:

La presunzione e inopportuna arroganza di parecchi figli di questo secolo, che biasimano ostentatamente tutto ciò che non è secondo il loro spirito […], mi offre l’occasione, meglio mi costringe a stendere questa Prefazione, mie carissime Suore, per armare e difendere la vostra santa vocazione contro le punte dello loro lingue pestifere; affinché le anime buone e pie, che senza dubbio sono legate al vostro  amabile e onorato Istituto, trovino qui come respingere le frecce scagliate dalla temerità di questi bizzarri e insolenti censori.

            Prevedendo forse che un tale preambolo rischiava di danneggiare la causa, il fondatore della Visitazione scrisse una seconda edizione addolcita, allo scopo di mettere in luce la fondamentale uguaglianza dei sessi. Dopo aver citato la Genesi, questa volta ne faceva il seguente commento: “La donna, dunque, non meno dell’uomo, ha la grazia di essere stata fatta a immagine di Dio; pari onore nell’uno e nell’altro sesso; le loro virtù sono uguali”.

L’educazione delle figlie
            Il nemico del vero amore è la “vanità”. Questo era il difetto che Francesco di Sales, come peraltro i moralisti e i pedagoghi del suo tempo, temeva di più nell’educazione delle giovani. Ne rileva parecchie manifestazioni. Guardate «queste signorine di mondo, che essendosi ben sistemate, vanno in giro gonfie d’orgoglio e di vanità, con la testa alta, gli occhi aperti, ansiose d’essere notate dai mondani».
            Il vescovo di Ginevra si diverte un poco nel prendere in giro queste «ragazze di società», che «portano cappelli sparsi e incipriati», con la testa «ferrata come si ferrano gli zoccoli dei cavalli», tutte «impennacchiate e infiorate quanto non è possibile dire» e «cariche di fronzoli». Ci sono di quelle che «indossano vesti che stringono e danno loro molto fastidio, e questo per far vedere che sono snelle»; ecco una vera “pazzia che per lo più le rende incapaci di fare alcunché”.
            Che pensare allora di certune bellezze artificiali trasformate in «boutiques di vanità?». Francesco di Sales preferisce una «faccia limpida e pulita», desidera «che non ci sia nulla di affettato, perché tutto ciò che è imbellettato dispiace». Occorre allora condannare ogni «artificio»? Ammette volentieri che «nel caso di qualche difetto di natura, bisogna correggerlo in modo da vederne la correzione, ma spoglia d’ogni artificio».
            E il profumo? si chiedeva il predicatore parlando della Maddalena. «È una cosa eccellente – risponde –; anche colui che è profumato ne percepisce qualcosa di eccellente»; aggiungendo, da buon conoscitore, che «il muschio della Spagna gode di grande stima nel mondo». Nel capitolo sulla «decenza degli abiti», permette che le giovani abbiano vestiti con ornamenti vari, «perché possono liberamente desiderare di essere gradevoli a molti, ma con l’unico scopo di guadagnarsi un giovane in vista di un santo matrimonio». Chiudeva con questa indulgente osservazione: «Che volete? È pur conveniente che le signorine siano un po’ carine».
            È opportuno aggiungere che la lettura della Bibbia l’aveva preparato a non fare il muso duro davanti alla bellezza femminile. Nell’amante del Cantico dei cantici, ammirava «la notevole bellezza del suo viso simile a un bouquet di fiori». Descrive Giacobbe che, incontrando Rachele presso il pozzo, «versava lacrime di gioia scorgendo una vergine che gli piaceva e l’incantava per la grazia del volto». Amava anche raccontare la storia di santa Brigida, nata in Scozia, un paese dove si ammirano «le più belle creature che uno possa vedere»; era «una giovane oltremodo avvenente», ma la sua bellezza era «naturale», precisa il nostro autore.
            L’ideale della bellezza salesiana si chiama «buona grazia», che designa non soltanto «la perfetta armonia delle parti che fa essere bello», ma anche la «grazia dei movimenti, dei gesti e delle azioni, che è come l’anima della vita e della bellezza», ossia la bontà di cuore. La grazia esige «semplicità e modestia». Ora, la grazia è una perfezione che deriva dall’intimo della persona. È la bellezza unita alla grazia che fa di Rebecca l’ideale femminile della Bibbia: ella era «così bella e graziosa presso il pozzo dove attingeva l’acqua per abbeverare il gregge», e la sua «familiare bontà» le ispirava, inoltre, di dar da bere non soltanto ai servi di Abramo, ma anche ai suoi cammelli.

Istruzione e preparazione alla vita
            Ai tempi di san Francesco di Sales, le donne avevano poche possibilità di accedere a studi superiori. Le ragazze imparavano ciò che udivano da parte dei loro fratelli e, quando la famiglia ne aveva la possibilità, frequentavano un monastero. La lettura era certamente più frequente della scrittura. I collegi erano riservati ai ragazzi, di conseguenza, imparare il latino, lingua della cultura, era praticamente interdetto alle ragazze.
            Bisogna credere che Francesco di Sales non era contrario al fatto che le donne potessero diventare persone colte, ma a condizione che non cadessero nella pedanteria e nella vanità. Ammirava santa Caterina che era «molto erudita, ma umile in tanta scienza». Tra le interlocutrici del vescovo di Ginevra, la signora di La Fléchère aveva studiato latino, italiano, spagnolo e le belle arti, ma era un’eccezione.
            Per trovare loro un posto nella vita, sia in ambito sociale che in quello religioso, a un certo momento le giovani avevano spesso bisogno di un aiuto particolare. Georges Rolland riferisce che il vescovo si occupò personalmente di parecchi casi difficili. Una donna di Ginevra, con tre figlie, fu assistita generosamente dal vescovo, «con denaro e crediti»; «collocò una di dette figlie come apprendista presso un’onesta signora della città, pagandole la pensione per sei anni, in grano e in denaro». Donò pure 500 fiorini per il matrimonio della figlia di uno stampatore di Ginevra.
            L’intolleranza religiosa del tempo talvolta provocava dei drammi, ai quali Francesco di Sales cercava di porre rimedio. Marie-Judith Gilbert, educata a Parigi dai genitori negli «errori di Calvino», scoprì a diciannove anni il libro della Filotea, che osava leggere soltanto in segreto. Ne prese in simpatia l’autore, di cui aveva sentito parlare. Sorvegliata strettamente dal padre e dalla madre, riuscì a farsi prelevare in carrozza, si fece istruire nella religione cattolica ed entrò tra le suore della Visitazione.
            Il ruolo sociale delle donne rimaneva ancora piuttosto limitato. Francesco di Sales non del tutto contrario all’intervento delle donne nella vita pubblica. Scriveva in questi termini, ad esempio, a una donna portata a intervenire in ambito pubblico, a proposito e a sproposito:

Il vostro sesso e la vostra vocazione vi consentono di reprimere il male esterno a voi, ma solo se ciò è ispirato dal bene e compiuto con rimostranze semplici, umili e caritatevoli nei confronti dei trasgressori e avvertendone i superiori nei limiti del possibile.

            D’altra parte, è significativo che una contemporanea di Francesco di Sales, la signorina di Gournay, una prima femminista ante litteram, una intellettuale e autrice di testi polemici come il suo trattato L’uguaglianza degli uomini e delle donne e La lagnanza delle donne, gli abbia manifestato grande ammirazione. Costei si accanì durante tutta la sua vita a dimostrare questa uguaglianza, raccogliendo tutte le testimonianze possibili in merito, senza dimenticare quella del «buono e santo vescovo di Ginevra».

Educazione all’amore
            Francesco di Sales ha parlato molto dell’amore di Dio, ma è stato anche assai attento alle manifestazioni dell’amore umano. Per lui, infatti, l’amore è uno, anche se il suo «oggetto» è diverso e disuguale. Per spiegare l’amore di Dio non ha saputo fare meglio se non partendo dall’amore umano.
            L’amore nasce dalla contemplazione del bello, e il bello si lascia percepire dai sensi, soprattutto dagli occhi. Si stabilisce un fenomeno interattivo tra lo sguardo e la bellezza: «Il contemplare la bellezza ce la fa amare, e l’amore ce la fa contemplare». L’odorato reagisce allo stesso modo; infatti, «i profumi esercitano l’unico loro potere di attrazione con la loro soavità».
            Dopo l’intervento dei sensi esterni subentra quello dei sensi interni, la fantasia, l’immaginazione, che esaltano e trasfigurano il reale: «In forza di questo reciproco movimento dell’amore verso la vista e della vista verso l’amore, allo stesso modo che l’amore rende più splendente la bellezza della cosa amata, così la vista della cosa amata rende l’amore più innamorato e piacevole”. Si comprende allora perché «coloro che hanno dipinto Cupido ne hanno bendato gli occhi, affermando che l’amore è ceco». A questo punto sopraggiunge l’amore-passione: esso fa «ricercare il dialogo, e il dialogo spesso nutre ed accresce l’amore»; inoltre «desidera il segreto, e quando gli innamorati non hanno nessun segreto da dirsi, si compiacciono talvolta a dirselo segretamente»; e infine induce a «proferire delle parole che, certo, sarebbero ridicole se non sgorgassero da un cuore appassionato».
            Ora, questo amore-passione che forse si riduce soltanto ad «amorucci», a «galanterie», è esposto a varie peripezie, a tal punto da indurre l’autore della Filotea a intervenire con una serie di considerazioni e di avvertimenti a proposito di «amicizie frivole che si allacciano fra persone di diverso sesso e senza intenzione di matrimonio». Spesso non sono altro che «aborti o, meglio, parvenze di amicizia».
            Francesco di Sales si è espresso anche in tema di baci, chiedendosi per esempio con gli antichi commentatori, come mai Rachele aveva permesso a Giacobbe di abbracciarla. Egli spiega che ci sono due specie di bacio: cattivo l’uno, buono l’altro. I baci che si scambiano facilmente fra loro i giovani e che all’inizio non sono cattivi, lo possono diventare in seguito a causa della fragilità umana. Ma il bacio però può essere anche buono. In determinati luoghi è voluto dal costume. «Il nostro Giacobbe abbraccia molto innocentemente la sua Rachele; Rachele accetta questo bacio di cortesia da parte di quest’uomo dal carattere buono e dal viso pulito». «Oh! – concludeva Francesco di Sales – datemi persone che abbiano l’innocenza di Giacobbe e di Rachele e permetterò loro di baciarsi».
            Nella questione della danza e del ballo, anch’essa all’ordine del giorno, il vescovo di Ginevra evitava i comandi assoluti, come facevano i rigoristi del tempo, tanto cattolici che protestanti, mostrandosi comunque molto prudente. Gli si è perfino rinfacciato aspramente di aver scritto che «le danze e i balli di per sé sono cose indifferenti». Come per certi giochi, anch’essi diventano pericolosi quando vi ci si affeziona talmente da non potersene più distaccare: il ballo «bisogna farlo per ricreazione e non per passione; per poco tempo e non fino a stancarsi e a stordirsi». Ciò che è più pericoloso sta nel fatto che questi passatempi diventano spesso occasioni che provocano «dispute, invidie, beffe, amorazzi».

La scelta della forma di vita
            Quando la figlioletta è diventata grande, arriva «il giorno in cui bisognerà parlarle, intendo riferirmi a una parola decisiva, quella in cui si dice alle giovani di volerle maritare». Uomo del suo tempo, Francesco di Sales condivideva in larga misura l’idea che attribuiva ai genitori un rilevante compito nel determinare la vocazione dei figli, sia al matrimonio che alla vita religiosa. «D’ordinario non si sceglie il proprio principe o il proprio vescovo, il proprio padre o la propria madre, e neppure spesse volte il proprio marito», costatava l’autore della Filotea. Tuttavia, afferma chiaramente che «le figlie non possono essere date in sposa, fintantoché esse dicono di no».
            La prassi corrente è spiegata bene in questo passo della Filotea: «Perché un matrimonio si faccia veramente, tre cose sono necessarie nei riguardi della giovane che si vuole dare in sposa: anzitutto che le si faccia la proposta; poi, che lei la gradisca; in terzo luogo che acconsenta». Siccome le ragazze si sposavano molto sovente assai giovani, non ci si può meravigliare della loro immaturità affettiva.  «Le ragazze sposate molto giovani amano realmente i loro sposi, se ne hanno, ma non cessano di amare anche gli anelli, i monili, le amiche con le quali si divertono un mondo a giocare, a ballare e a fare pazzie».
            Il problema della libertà di scegliere si poneva ugualmente per i fanciulli che si voleva destinare alla vita religiosa. La Franceschetta, figlia della baronessa di Chantal, doveva essere collocata in un monastero dalla madre desiderosa di vederla religiosa, ma il vescovo intervenne: «Se Franceschetta vuole di buon grado essere religiosa, bene; in caso contrario, non approvo che se ne anticipi il volere con decisioni non sue». Non converrebbe d’altronde che la lettura delle lettere di san Girolamo orienti troppo la madre nella via della severità e della costrizione. Perciò le consiglia di «usare moderazione» e di procedere con «inspirazioni soavi».
            Certe giovani esitano di fronte alla vita religiosa e al matrimonio, senza mai giungere a decidersi. Francesco di Sales incoraggiò la futura signora de Longecombe a fare il passo del matrimonio, che volle celebrare egli stesso. Fece quest’opera buona, dirà in seguito il marito, alla domanda della moglie «che desiderava sposarsi per le mani del vescovo, e senza tale presenza, non avrebbe mai potuto fare questo passo, a causa della grande avversione che nutriva nei confronti del matrimonio».

Le donne e la «devozione»
            Estraneo a ogni femminismo ante litteram, Francesco di Sales era consapevole dell’eccezionale apporto della femminilità sul piano spirituale. Si è fatto notare che favorendo la devozione nelle donne, l’autore della Filotea ne ha favorito, congiuntamente, la possibilità di una maggiore autonomia, una «vita privata al femminile».
            Non meraviglia che le donne abbiano disposizioni particolari per la «devozione». Dopo aver enumerato un certo numero di dottori ed esperti, poteva scrivere nella prefazione del Teotimo: «Ma affinché si sapesse che questo tipo di scritti si redigono meglio con la devozione degli innamorati che con la dottrina dei sapienti, lo Spirito santo ha fatto sì che numerose donne compissero meraviglie al riguardo. Chi ha mai manifestato meglio le celestiali passioni dell’amore divino di santa Caterina da Genova, di sant’Angela da Foligno, di santa Caterina da Siena, di santa Matilde?». È noto l’influsso della madre di Chantal nella redazione del Teotimo, e in particolare del libro nono, «il vostro libro nono dell’Amore di Dio», secondo l’espressione dell’autore.
            Le donne potevano immischiarsi in problemi concernenti la religione? «Ecco dunque questa donna che fa la teologhessa», dice Francesco di Sales parlando della Samaritana del Vangelo. Si deve necessariamente scorgervi una disapprovazione nei confronti delle teologhe? Non è certo. Tanto più che afferma con forza: «Vi dico che una donna semplice e povera può amare Dio quanto un dottore in teologia». La superiorità non abita sempre là dove uno pensa.
            Ci sono donne superiori agli uomini, incominciando dalla Santa Vergine. Francesco di Sales rispetta sempre il principio dell’ordine stabilito dalle leggi religiose e civili del suo tempo, verso le quali predica l’obbedienza, ma la sua prassi testimonia una grande libertà di spirito. Così, per il governo dei monasteri femminili, riteneva che era meglio per loro essere sotto la giurisdizione del vescovo piuttosto dipendere dai loro fratelli religiosi, i quali rischiavano di pesare su di loro in maniera eccessiva.
            Le visitandine, da parte loro, non dipenderanno da alcun ordine maschile e non avranno nessun governo centrale, essendo ogni monastero sotto la giurisdizione del vescovo del luogo. Egli osò qualificare col titolo inatteso di «apostole» le suore della Visitazione in partenza per una nuova fondazione.
            Se interpretiamo correttamente il pensiero del vescovo di Ginevra, la missione ecclesiale delle donne consiste nell’annunciare non la parola di Dio, ma «la gloria di Dio» con la bellezza della loro testimonianza. I cieli, prega il salmista, narrano la gloria di Dio soltanto con il loro splendore. «La bellezza del cielo e del firmamento invita gli uomini ad ammirare la grandezza del Creatore e ad annunciare le sue meraviglie»; e «non è forse una meraviglia più grande vedere un’anima ornata di molte virtù, rispetto a un cielo trapuntato di stelle?».




Venerabile Ottavio Ortiz Arrieta Coya, vescovo

Ottavio Ortiz Arrieta Coya, nato a Lima, in Perù, il 19 aprile 1878, è stato il primo salesiano peruviano. Da giovane si formò come falegname, ma il Signore lo chiamò a una missione più alta. Emise la sua prima professione salesiana il 29 gennaio 1900 e fu ordinato sacerdote nel 1908. Nel 1922 fu consacrato vescovo della diocesi di Chachapoyas, incarico che mantenne con dedizione fino alla morte, avvenuta il 1º marzo 1958. Due volte rifiutò la nomina alla più prestigiosa sede di Lima, preferendo restare vicino al suo popolo. Instancabile pastore, percorse tutta la diocesi per conoscere personalmente i fedeli e promosse numerose iniziative pastorali per l’evangelizzazione. Il 12 novembre 1990, sotto il pontificato di San Giovanni Paolo II, fu aperta la sua causa di canonizzazione, e gli fu attribuito il titolo di Servo di Dio. Il 27 febbraio 2017, papa Francesco ne ha riconosciuto le virtù eroiche, dichiarandolo Venerabile.


            Il venerabile Mons. Ottavio Ortiz Arrieta Coya trascorse la prima parte della vita quale oratoriano, studente e quindi diventò egli stesso Salesiano, impegnato nelle opere dei Figli di Don Bosco in Perù. Fu il primo Salesiano formatosi nella prima casa salesiana del Perù, fondata nel Rimac, un quartiere povero, dove imparò a vivere una vita austera di sacrificio. Tra i primi Salesiani che arrivarono in Perù nel 1891, conobbe lo spirito di Don Bosco e il Sistema Preventivo. Come Salesiano della prima generazione apprese che il servizio e il dono di sé sarebbero stati l’orizzonte della sua vita; per questo fin da giovane salesiano assunse importanti responsabilità, come l’apertura di nuove opere e la direzione di altre, con semplicità, sacrificio e totale dedizione ai poveri.
            Visse la seconda parte della vita, dall’inizio degli anni venti, come vescovo di Chachapoyas, diocesi immensa, vacante da anni, in cui le proibitive condizioni del territorio si sommavano a una certa chiusura, soprattutto nei villaggi più sperduti. Qui il campo e le sfide dell’apostolato erano immensi. Ortiz Arrieta era di temperamento vivace, abituato alla vita comunitaria; inoltre delicatissimo d’animo, al punto da venire chiamato “pecadito” nei suoi giovani anni, per la sua esattezza nel rilevare le mancanze e aiutare sé stesso e gli altri a emendarsene. Disponeva inoltre di un innato senso del rigore e del dovere morale. Le condizioni in cui dovette svolgere il ministero episcopale gli si prospettano invece diametralmente opposte: solitudine e sostanziale impossibilità a condividere una vita salesiana e sacerdotale, nonostante le reiterate e quasi supplicanti richieste alla propria Congregazione; necessità di contemperare il proprio rigore morale con una fermezza sempre più docile e quasi disarmata; fine coscienza morale continuamente messa alla prova da grossolanità di scelte e tiepidezza nella sequela, da parte di alcuni collaboratori meno eroici di lui, e di un popolo di Dio che sapeva opporsi al vescovo quando la sua parola diveniva denuncia di ingiustizia e diagnosi dei mali spirituali. Il cammino del venerabile verso la pienezza della santità, nell’esercizio delle virtù, fu pertanto segnato da fatiche, difficoltà e dalla continua necessità di convertire il proprio sguardo e il proprio cuore, sotto l’azione dello Spirito.
            Se senz’altro troviamo nella sua vita episodi definibili come eroici in senso stretto, occorre però evidenziare nel suo cammino virtuoso anche e forse soprattutto quei momenti in cui egli avrebbe potuto agire diversamente, ma non lo fece; cedere all’umana disperazione, mentre rinnovò la speranza; accontentarsi di una carità grande, senza però dare piena disponibilità all’esercizio di quella carità eroica che invece praticò con esemplare fedeltà per diversi decenni. Quando, per due volte, gli venne proposto di cambiare sede, e nel secondo caso gli fu offerta la sede primaziale di Lima, decise di restare tra i suoi poveri, quelli che nessuno voleva, davvero alla periferia del mondo, rimanendo nella diocesi che aveva per sempre sposato e amato così come essa era, impegnandosi con tutto sé stesso a renderla anche solo un poco migliore. Fu pastore “moderno” nel suo stile di presenza e nel ricorso a mezzi di azione come l’associazionismo e la stampa. Uomo di temperamento deciso e di salde convinzioni di fede, Mons. Ortiz Arrieta usò certamente di questo “don de gobierno” nella sua guida, sempre unita però al rispetto e alla carità, espressi con coerenza straordinaria.
            Benché sia vissuto prima del Concilio Vaticano II, tuttavia è attuale il modo in cui egli pianificò e svolse gli incarichi pastorali a lui affidati: dalla pastorale vocazionale al concreto appoggio ai suoi seminaristi e sacerdoti; dalla formazione catechetica e umana dei più giovani a quella pastorale familiare attraverso cui incontra coppie di sposi in crisi o coppie di conviventi restii nel regolarizzare la loro unione. Mons. Ortiz Arrieta del resto non educa solo con la sua concreta azione pastorale, ma con il suo stesso comportamento: con la capacità di discernere per sé stesso, prima di tutto, che cosa significhi e che cosa comporti rinnovare la fedeltà alla strada intrapresa. Egli davvero ha perseverato nella povertà eroica, nella fortezza attraverso le numerose prove della vita e nella radicale fedeltà alla diocesi cui era stato assegnato. Umile, semplice, sempre sereno; tra il serio e il gentile; la dolcezza del suo sguardo faceva trasparire tutta la tranquillità del suo spirito: questo fu il cammino della santità che percorse.
            Le belle caratteristiche che i suoi superiori salesiani riscontrarono in lui prima dell’ordinazione sacerdotale – quando lo definiscono una “perla di salesiano” e ne valorizzano lo spirito di sacrificio – ritornano come una costante in tutta la sua vita, anche episcopale. Davvero si può dire che Ortiz Arrieta si sia «fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22): autorevole con le autorità, semplice con i bambini, povero tra i poveri; mite con chi lo insultava o tentava per rancore di delegittimarlo; sempre pronto a non restituire male per male, ma a vincere il male con il bene (cf Rm 12,21). Tutta la sua vita fu dominata dal primato della salvezza delle anime: una salvezza cui vorrebbe fattivamente dedicati anche i suoi sacerdoti, dei quali prova a contrastare la tentazione di rinserrarsi entro facili sicurezze o trincerarsi dietro incarichi di maggior prestigio, per impegnarli invece nel servizio pastorale. Si può davvero dire che si sia situato in quella misura “alta” della vita cristiana, che ne fa un pastore che incarnò in modo originale la carità pastorale, cercando la comunione nel popolo di Dio, andando verso i più bisognosi e testimoniando una vita evangelica povera.