Don Rinaldi ai Becchi

Il beato don Filippo Rinaldi, terzo successore di don Bosco, è ricordato come una figura straordinaria, capace di unire in sé le qualità di Superiore e Padre, insigne maestro di spiritualità, pedagogia e vita sociale, oltre che guida spirituale impareggiabile. La sua profonda ammirazione per don Bosco, che ebbe il privilegio di conoscere personalmente, lo rese una viva testimonianza del carisma del fondatore. Consapevole dell’importanza spirituale dei luoghi legati all’infanzia di don Bosco, don Rinaldi dedicò particolare attenzione a visitarli, riconoscendone il valore simbolico e formativo. In questo articolo, ripercorriamo alcune delle sue visite al Colle Don Bosco, alla scoperta del legame speciale che lo univa a questi luoghi santi.

Per il santuarietto di Maria Ausiliatrice
            Con l’inaugurazione del Santuarietto di Maria Ausiliatrice, voluto davanti alla Casetta di don Bosco da don Paolo Albera, e precisamente dal due agosto 1918, quando Mons. Morganti, Arcivescovo di Ravenna, assistito dai nostri Superiori Maggiori, benedisse solennemente la chiesa e le campane, ebbe inizio la presenza stabile dei Salesiani ai Becchi. In quel giorno c’era pure don Filippo Rinaldi, Prefetto Generale, e, con lui, don Francesco Cottrino, primo direttore della nuova casa.
            D’allora in poi le visite di don Rinaldi ai Becchi si rinnovarono ogni anno a ritmo serrato, vera espressione del suo grande affetto al buon padre don Bosco e del suo vivissimo interessamento per l’acquisto e l’appropriata sistemazione dei luoghi memorabili della fanciullezza del Santo.
            Dalle scarne notizie di cronaca della casa salesiana dei Becchi si possono facilmente dedurre la cura e l’amore con cui don Rinaldi promosse e seguì personalmente i lavori necessari a rendere onore a don Bosco ed appropriato servizio ai pellegrini.
            Nel 1918, dunque, don Rinaldi, dopo la sua venuta ai Becchi per la benedizione della chiesa, vi ritornò il 6 ottobre assieme al Card. Cagliero per la Festa del Santo Rosario, e ne approfittò per avviare le trattative dell’acquisto della Casa Cavallo retrostante a quella di don Bosco.

Cura dei lavori per la casetta
            Nel 1919 furono due le visite di don Rinaldi ai Becchi: quella del 2 giugno e quella del 28 settembre, tutte e due in vista dei restauri da effettuare nella zona storica del Colle.
            Tre invece furono le visite nel 1920: quella del 16-17 giugno, per trattare l’acquisto della casa Graglia e del prato dei fratelli Bechis; quella dell’11 settembre per visitare i lavori e la proprietà dei Graglia; e, infine, quella del 13 dello stesso mese, per presenziare alla stesura dello strumento notarile di acquisto della medesima casa Graglia.
            Due furono le visite del 1921: il 16 marzo, con l’Arch. Valotti, per il progetto di una strada che conducesse al Santuario e di un Pilone e di un Capannone per pellegrini sulla piazzetta; il 12-13 settembre, con l’Arch. Valotti ed il Cav. Melle, per lo stesso scopo.
            Nel 1922 don Rinaldi fu di nuovo ai Becchi due volte: il 4 maggio con il Card. Cagliero, don Ricaldone, don Conelli e tutti i Membri del Capitolo Generale (inclusi i Vescovi Salesiani), per pregare presso la Casetta dopo la sua elezione a Rettor Maggiore; ed il 28 settembre con i suoi più diretti collaboratori.
            Vi giunse poi il 10 giugno 1923 per celebrare la Festa di Maria Ausiliatrice. Presiedette ai Vespri nel santuario, fece la predica ed impartì la benedizione eucaristica. Nell’Accademia che seguì, presentò la Croce «Pro Ecclesia et Pontifice» al sig. Giovanni Febbraro, nostro benefattore. Vi ritornò poi in ottobre con il Card. G. Cagliero per la festa del Santo Rosario, celebrando la Santa Messa alle ore 7 e portando il SS. nella processione eucaristica cui seguì la Benedizione impartita dal Cardinale.
            Il 7 settembre 1924 don Rinaldi guidò ai Becchi il Pellegrinaggio dei Padri di Famiglia e de-gli Exallievi delle Case di Torino. Celebrò la Santa Messa, fece la predica e poi, dopo colazione, partecipò al Concerto organizzato per l’occasione. Ritornò ancora il 22 ottobre dello stesso anno assieme a don Ricaldone, ed ai sigg. Valotti e Barberis, per risolvere la spinosa questione della strada al santuario che implicava difficoltà da parte dei proprietari dei terreni adiacenti.
            Ben tre volte don Rinaldi fu ai Becchi nel 1925: il 21 maggio per lo scoprimento della lapide a don Bosco, e poi il 23 luglio ed il 19 settembre, accompagnato questa volta nuovamente dal Card. Cagliero.
            Il 13 maggio 1926 don Rinaldi guidò un pellegrinaggio di circa 200 soci dell’Unione Insegnanti don Bosco, celebrando la Santa Messa e presiedendo alla loro adunanza. Il 24 luglio dello stesso anno ritornò, assieme a tutto il Capitolo Superiore, alla guida del pellegrinaggio dei Direttori delle Case d’Europa; e, di nuovo, il 28 agosto con il Capitolo Superiore ed i Direttori delle case d’Italia.

Ristrutturazione del centro storico
            Tre altre visite di don Rinaldi ai Becchi risalgono al 1927: quella del 30 maggio con don Giraudi ed il sig. Valotti per definire i lavori edilizi (costruzione del portico ecc.); quella del 30 agosto con don Tirone e con i Direttori degli Oratori festivi; e quella del 10 ottobre con don Tirone ed i giovani missionari di Ivrea. In quest’ultima occasione don Rinaldi esortò il Direttore di allora, don Fracchia, a collocare piante dietro la casa Graglia e nel prato del Sogno,
            Quattro volte don Rinaldi fu ai Becchi nel 1928: — Il 12 aprile con don Ricaldone per l’esame dei lavori eseguiti e di quelli in corso. — Il 9-10 giugno con don Candela e don V. Bettazzi per la Festa di Maria Ausiliatrice e per l’inaugurazione del Pilone del Sogno. In quest’occasione cantò la Santa Messa e, dopo i Vespri e la Benedizione eucaristica pomeridiana, benedisse il Pilone del Sogno ed il nuovo Portico, dirigendo a tutti dalla veranda la sua parola. Alla sera assistette alla luminaria. — Il 30 settembre giunse con don Ricaldone e don Giraudi per visitare la località «Gaj». — L’8 ottobre ritornò alla testa del pellegrinaggio annuale dei giovani missionari della casa di Ivrea. Fu in quell’anno che don Rinaldi manifestò il desiderio dell’acquisto della villa Damevino per adibirla ad alloggio per pellegrini o, meglio ancora, destinarla ai Figli di Maria aspiranti missionari.
            Ben sei furono le visite ai Becchi nel 1929: — La prima, del 10 marzo, con don Ricaldone, fu per visitare la villa Damevino e la casa Graglia (la prima delle quali venne poi acquistata quello stesso anno). Essendo ormai imminente la beatificazione di don Bosco, don Rinaldi volle pure che si allestisse un altarino al Beato nella cucina della Casetta (il che fu poi eseguito più tardi, nel 1931). — La seconda, del 2 maggio, fu pure una visita di studio, con don Giraudi, il sig. Valotti ed il pittore prof. Guglielmino. — La terza, del 26 maggio, fu per partecipare alla festa di Maria Ausiliatrice. — La quarta, del 16 giugno, la fece con il Capitolo Superiore e con tutti i Membri del Capitolo Generale per la Festa di don Bosco. — La quinta, del 27 luglio, fu una breve visita con don Tirone e Mons. Massa. — La sesta, infine, fu con Mons. Mederlet ed i giovani missionari della Casa di Ivrea, per i quali don Rinaldi non nascondeva le sue predilezioni.
            Nel 1930 don Rinaldi venne ancora due volte ai Becchi: il 26 giugno per una breve visita di ricognizione delle varie località; ed il 6 agosto, con don Ricaldone, il sig. Valotti ed il cav. Sartorio, per la ricerca dell’acqua (trovata poi da don Ricaldone in due punti, a 14 e a 11 metri di distanza dalla fonte chiamata Bacolla).
            L’anno 1931, che fu l’anno della sua morte, avvenuta il 5 dicembre, don Rinaldi giunse ai Becchi almeno tre volte: Il 19 luglio, di pomeriggio. In quell’occasione raccomandò di fare la commemorazione di don Bosco il 16 di ogni mese o la domenica seguente. Il 16 settembre, quando approvò e lodò il campo di ricreazione preparato per i giovani della Comunità. Il 25 settembre, e fu l’ultima, quando, con don Giraudi ed il sig. Valotti, esaminò il progetto degli alberi da piantare nella zona (sarà eseguito più tardi, nel 1990, quando cominciò la realizzazione del progetto di alberazione di 3000 piante sui vari versanti del Colle dei Becchi, proprio nell’anno della sua beatificazione).
            Non calcolando eventuali visite precedenti, sono quindi 41 le visite fatte da don Rinaldi ai Becchi tra il 1918 e il 1931.




Gran santo, gran manager

            Non è facile scegliere fra le centinaia di lettere inedite di don Bosco che abbiamo recuperato in questi ultimi decenni quelle che più meritano di essere presentate e commentate. Questa volta ne prendiamo una molto semplice, ma che in poche righe sintetizza tutto un progetto di opera educativa salesiana e ci offre tante altre interessanti notizie. Si tratta di quella scritta il 7 maggio 1877 ad un personaggio trentino, un certo Daniele Garbari, che a nome di due fratelli gli aveva più volte richiesto come poteva fondare un istituto educativo nella sua terra, come quelli che don Bosco stava fondando in tutta Italia, Francia e Argentina.

Pregiatissimo sig. Garbari,

La mia assenza da Torino fu cagione del ritardo a riscontrare alle sue lettere, che ho regolarmente ricevuto. Godo assai che questa nostra istituzione sia ben accolta in questi suoi paesi. Più sarà conosciuta e più sarà ben voluta dagli stessi governi; perciocché si voglia o non si voglia, ma i fatti ci assicurano che i giovanetti pericolanti bisogna aiutarli per farne buoni cittadini o mantenerli nel disonore entro le carceri.
Riguardo poi ad impiantare un istituto simile a questo nella città o nei paesi di Trento non occorre gran cosa per cominciare:
1° Un locale capace di ricoverare un certo numero di fanciulli, ma che abbiano nell’interno i rispettivi opifici o laboratori.
2° Qualche cosa che possa somministrare un po’ di pane al direttore ed alle altre persone che lo coadiuvano nell’assistenza e direzione.
I ragazzi sono sostenuti:
1° da quel poco di pensione mensile che taluni di essi possono pagare, oppure pagano i parenti o altre persone che li raccomandano.
2° Dal po’ di guadagno che dà il lavoro.
3° Dai sussidi dei municipi, dal governo, congregazioni di carità, e dalle oblazioni dei privati. In questa guisa si reggono tutte le nostre case di artigianelli, e coll’aiuto di Dio siamo andati avanti bene. Bisogna però ritenere per base che noi siamo sempre stati e saremo sempre per l’avvenire estranei ad ogni cosa che si riferisca alla politica.
Nostro scopo dominante è di raccogliere fanciulli pericolanti per farne dei buoni cristiani ed onesti cittadini. Questa sia la prima cosa da far bene comprendere alle autorità civili e governative.
Come prete poi io debbo essere in pieno accordo coll’autorità ecclesiastica; perciò quando si trattasse di concretare la cosa, io scriverei direttamente all’Arcivescovo di Trento, il quale per certo non opporrà difficoltà.
Eccole il mio pensiero preliminare. Continuando la pratica ed occorrendo altro lo scriverò. La prego di ringraziare da parte mia tutte quelle persone che mostransi a me benevole.
Ho voluto scrivere io stesso colla mia brutta calligrafia, altra volta cederò la penna al mio segretario, affinché più facilmente si possa leggere lo scritto.

Mi creda colla massima stima e gratitudine con cui ho l’onore di professarmi Di V. S. Stimabil.mo

Umile servitore Sac. Gio. Bosco Torino, 7 maggio 1877

Immagine positiva dell’opera salesiana
            Anzitutto la lettera ci informa come don Bosco, dopo l’approvazione pontificia della congregazione salesiana (1874), l’apertura della prima casa salesiana in Francia (1875) e la prima spedizione missionaria in America Latina (1875), era sempre occupatissimo nel visitare e sostenere le sue opere già esistenti e nell’accettare o meno le moltissime che gli venivano proposte in quegli anni da ogni parte. All’epoca della lettera aveva il pensiero di aprire le prime case delle Figlie di Maria Ausiliatrice oltre quella di Mornese – ben sei nel biennio 1876-1877 – e soprattutto gli interessava stabilirsi a Roma, dove da oltre 10 anni tentava inutilmente di avere una sede. Niente da fare. Un altro piemontese doc come don Bosco, un “prete del movimento” come lui, non era gradito in riva al Tevere, nella Roma Capitale già zeppa di invisi piemontesi, da certe autorità pontificie e da certo clero romano. Per tre anni dovette “accontentarsi” della “periferia” romana, vale a dire dei Castelli Romani e di Magliano Sabino.

            Paradossalmente capitava il contrario presso le amministrazioni cittadine e le stesse autorità di governo del Regno d’Italia, dove don Bosco contava, se non amici – avevano idee troppo distanti – almeno grandi estimatori. E per un motivo molto semplice, cui ogni governo era interessato: gestire il neonato paese Italia con cittadini onesti, operosi, rispettosi della legge, anziché popolare le carceri di “criminali” vagabondi, incapaci di mantenere sé e la propria famiglia con un proprio dignitoso lavoro. A distanza di tre decenni, nel 1900, il celebre antropologo e criminologo ebreo Cesare Lombroso avrebbe dato pienamente ragione a don Bosco quando scriveva: “Gli istituti salesiani rappresentano uno sforzo colossale e genialmente organizzati per prevenire il delitto, l’unico anzi che si sia fatto in Italia”. Come ben dice la lettera in questione, l’immagine delle opere salesiane in cui, senza schierarsi con i vari partiti politici, si educavano i ragazzi a diventare “buoni cristiani e onesti cittadini” era positiva, e ciò anche nell’impero austro-ungarico, cui all’epoca appartenevano il Trentino e la Venezia Giulia.

Tipologia di una casa salesiana
            Nel prosieguo della lettera don Bosco passava a presentare la struttura di una casa di educazione: ambienti dove poter ospitare i ragazzi (e sottintendeva almeno 5 cose: cortile per giocare, aule per studiare, refettorio per mangiare, camerata per dormire, chiesa per pregare) e “opifici o laboratori” dove insegnare un mestiere con cui i giovani potevano vivere ed avere un futuro una volta lasciato l’istituto. Quanto alle risorse economiche indicava tre cespiti: le minime pensioni mensili che i genitori-parenti dei ragazzi potevano pagare, il piccolo guadagno dei laboratori artigianali, i sussidi della beneficienza pubblica (governo, municipi) e soprattutto privata. Era esattamente l’esperienza di Valdocco. Ma don Bosco qui taceva una cosa importante: la totale consacrazione alla missione educativa del direttore e dei suoi stretti collaboratori, preti e laici, i quali al prezzo di un tozzo di pane e di un letto spendevano le 24 ore del giorno in lavoro, preghiera, insegnamento e assistenza. Così almeno si faceva nelle case salesiane dell’epoca, apprezzatissime tanto dalle autorità civili, quanto da quelle religiose, i vescovi anzitutto, senza il cui assenso evidentemente non si poteva fondare una casa “che educava evangelizzando e evangelizzava educando” come quella salesiana.

Risultato
            Non sappiamo se ci fu un seguito di questa lettera. Di certo il progetto di fondazione salesiana del sig. Garbari non andò in porto. E così decine di altre proposte di fondazioni. Ma è storicamente accertato che tanti altri istitutori, sacerdoti e laici, in tutta Italia si ispirarono all’esperienza di don Bosco fondando opere similari, ispirate al suo modello educativo e al suo sistema preventivo.
            Il Garbari dovette ritenersi comunque soddisfatto: don Bosco gli aveva suggerito una strategia che a Torino e altrove funzionava… e poi aveva nelle proprie mani un suo autografo, che per quanto di difficile “decifrazione”, era sempre quello di un santo. Tant’è che lo ha conservato gelosamente e oggi è custodito nell’Archivio Salesiano Centrale di Roma.




Salesiani a Tarnowskie Góry

In Polonia esiste un luogo, forse unico, in cui i Salesiani si occupano di giovani provenienti da contesti sociali diversi. Bambini e giovani che provengono da aree urbane e rurali, ricchi e poveri, disabili, abbandonati dai genitori, emarginati si incontrano in un’unica opera. Alcuni studiano a scuola, altri hanno trovato qui una casa, un cortile, un luogo per incontrare Dio. Da venticinque anni l’Istituto Salesiano di Tarnowskie Góry è una seconda casa non solo per i giovani, ma anche un luogo in cui realtà diverse si mescolano, sostenendo l’uomo, ogni uomo.

Una breve storia
Tarnowskie Góry è una città di sessantamila abitanti situata nell’Alta Slesia, una regione molto particolare sulla mappa della Polonia per la sua cultura originale, il suo dialetto, le sue numerose tradizioni. È una città con una ricca storia, le cui origini sono legate alle miniere d’argento che qui operarono dalla fine del XV secolo fino all’inizio del XX secolo. La dedizione al lavoro e la fedeltà alla tradizione caratterizzano ancora oggi gli abitanti di queste terre.

I Salesiani dell’Ispettoria di Breslavia (PLO) sono arrivati a Tarnowskie Góry a cavallo tra il 1998 e il 1999 per prendere in consegna gli edifici dell’ex istituto di riabilitazione per disabili, situato in un bellissimo parco naturale noto come il Parco di Repty. Il parco apparteneva alla ricca famiglia Donnersmarck, che vi costruì un palazzo e un edificio per la servitù. Dopo la seconda guerra mondiale, il palazzo fu distrutto e al suo posto fu allestito un ospedale per i minatori vittime di incidenti. L’edificio della servitù fu ampliato e fu creata una struttura che si occupava della riabilitazione e dell’adattamento dei minatori e delle altre persone disabili. Con il tempo, questa istituzione fu chiamata l’istituto di riabilitazione per disabili e fu consegnata ai Salesiani. Una volta completati i lavori più necessari, il 30 settembre 1999 è stata inaugurata solennemente la presenza salesiana in città. È una presenza speciale, infatti, non si tratta solo di una scuola salesiana con oratorio, ma dell’intera struttura necessaria per accogliere ed integrare le persone disabili.

La struttura dell’Istituto
Oggi la struttura dell’Istituto salesiano include:
– Scuola Primaria e Secondaria con 633 studenti nell’anno scolastico 2023-2024;
– Scuola per Bisogni Speciali con quasi 50 studenti con un convitto, principalmente per i disabili, dove vivono 30 alunni;
– Centro di assistenza per persone con disabilità, con circa 40 persone;
– Centro di Riabilitazione, che fornisce ogni anno quasi 870 servizi di riabilitazione, a favore di quasi 530 giovani minorenni;
– l’Oratorio, dove circa 70 giovani ricevono la formazione;
– l’ospitalità che accoglie vari gruppi per ritiri o attività ricreative.
Nell’Istituto lavorano più di 150 persone che si occupano quotidianamente dei giovani.

Le scuole
La ricchezza delle scuole sta negli studenti e negli insegnanti. Le scuole dell’Istituto impiegano insegnanti che, oltre alla loro formazione specialistica, hanno qualifiche in pedagogia speciale e terapia. Le competenze di questi insegnanti sono la risposta alle esigenze particolari degli studenti con disabilità fisiche e difficoltà specifiche di apprendimento, che non mancano nelle scuole salesiane di Tarnowskie Góry. Gli insegnanti sono creativi, migliorano costantemente le loro competenze e hanno molta esperienza nel loro lavoro.

Il programma educativo delle scuole deriva dai principi del Sistema Educativo Salesiano e tiene particolarmente conto della formula di integrazione di questo lavoro. Allo stesso tempo, il programma definisce la specificità della scuola cattolica e salesiana, che basa le sue attività educative sui valori cristiani. In modo particolare, i giovani vengono educati all’accettazione e alla formazione di se stessi in base alle proprie capacità e ai limiti legati alla disabilità; alla gentilezza e alla tolleranza della visione del mondo, della religione e della razza, a vivere e ad agire in accordo con l’insegnamento della Chiesa cattolica; al patriottismo e alla preoccupazione per il bene comune; alla sensibilità per la sorte degli altri; alla capacità di gestire la preparazione alla vita professionale, familiare e personale; alla verità, all’indipendenza, alla responsabilità; alla comunione con la natura e all’uso dei suoi beni; alla formazione della cultura personale.

Scuola per Bisogni Speciali con un convitto

La scuola per Bisogni Speciali con un convitto accoglie alunni con disabilità provenienti da tutta la Polonia. Lo scopo delle scuole e del convitto è quello di consentire agli alunni di ricevere un’istruzione adeguata alle loro capacità e di fornire un’assistenza educativa completa, nonché di consentire la partecipazione alla riabilitazione terapeutica e sociale e di preparare gli alunni alla partecipazione indipendente alla vita sociale. Questa parte dell’opera salesiana a Tarnowskie Góry rende presente in modo speciale la dimensione della casa secondo i criteri del Sistema Preventivo di don Bosco e sensibilizza l’intera comunità verso i giovani più bisognosi.

Centro di assistenza per persone con disabilità
Centro di assistenza per persone con disabilità è una struttura pubblica all’interno dell’opera salesiana che svolge i compiti di riabilitazione sociale e professionale. Assiste lo sviluppo generale, migliorando l’idoneità degli adulti a funzionare nel modo più indipendente e attivo possibile nel loro ambiente. Le attività di riabilitazione sono adattate alle capacità e alle competenze individuali dei partecipanti. Essi hanno accesso a laboratori terapeutici allestiti adeguatamente, condotti da terapisti e istruttori qualificati.

Centro di Riabilitazione
È un’istituzione nata per fornire attività terapeutiche e riabilitative permanenti e complete agli alunni disabili e agli allievi con i bisogni specifici. Questo è un indubbio vantaggio dell’Istituto salesiano, in quanto i giovani che necessitano di riabilitazione possono usufruirne nel loro luogo di studio e di residenza e in orari coordinati con le attività scolastiche.

Oratorio

L’Oratorio è la realizzazione dell’idea fondamentale di don Bosco: creare per i giovani un ambiente che sia casa, scuola, cortile e chiesa. Offre agli allievi e agli incaricati del Centro, così come ai bambini e ai giovani esterni, l’opportunità di: impiegare bene il loro tempo libero, sviluppare le loro capacità sociali, artistiche e intellettuali, educarli a essere attivi e ad agire per il bene degli altri, e dare loro la possibilità di approfondire la loro vita spirituale. I giovani, soprattutto gli alunni delle scuole, vengono formati per essere “buoni cristiani e onesti cittadini” nella vita adulta; partecipano alla formazione nella comunità locale, ma anche a livello dell’Ispettoria di Breslavia. Prestano un servizio per i più giovani sia a scuola sia fuori scuola, come nell’estate ragazzi.

Ospitalità
La struttura del Centro offre un luogo per accogliere gli ospiti che desiderano riposare, rinnovarsi spiritualmente e godere della bellezza della campagna circostante. Infatti, tutto l’anno l’Istituto accoglie vari gruppi, soprattutto quelli che desiderano vivere momenti di formazione o di ritiro.

Il Colle delle Beatitudini, dove si realizza il sogno di don Bosco
Il cuore dell’Opera salesiana di Tarnowskie Góry è una cappella dedicata a don Bosco. Sull’altare si trova la statua dell’Educatore torinese che indica a san Domenico Savio la meta: il cielo. Infatti, lo scopo dell’attività salesiana a Tarnowskie Góry è l’educazione attraverso l’evangelizzazione e l’evangelizzazione attraverso l’educazione. È interessante notare che l’Istituto è situato su una collina. È in un certo senso il “Colle delle Beatitudini”: qui Dio benedice davvero i giovani, qui insegna loro lo stile di vita secondo le Beatitudini evangeliche attraverso le mani di insegnanti ed educatori. Su questo colle, ogni giorno, si realizza il sogno di don Bosco, anche se a volte deve essere realizzato lungo un sentiero cosparso di rose, come lui stesso sognava: “Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte e robusto (…). A suo tempo tutto comprenderai”.

don Krystian SUKIENNIK, sdb




ll don Bosco di Napoli. L’oratorio dei mille mestieri

            L’origine della presenza Salesiana a Napoli risale allo stesso don Bosco; Napoli è stata la città più a sud visitata da don Bosco tra il 29 e il 31 Marzo 1880. In questa occasione don Bosco nella chiesa di san Giuseppe in via Medina, celebrò l’Eucarestia assistito da un piccolo ministrante di nome Peppino Brancati. Alcuni anni dopo il ragazzo napoletano andò a Valdocco da don Bosco e divenne il primo salesiano originario del sud Italia, a lui è stata anche dedicata una casa famiglia a Torre Annunziata.
            Nel periferico quartiere della Doganella i figli di Don Bosco iniziarono la loro attività nel 1934 in locali poveri e insufficienti ad accogliere le numerose masse giovanili che affluivano attorno ad essi.
            Vent’anni dopo, passata la tremenda bufera della guerra, nel 1954 posero mano all’attuazione del grande Istituto oggi esistente realizzato con cospicui contributi di benefattori privati e di Enti.
            Il 28 Maggio 1959 veniva inaugurato dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Nell’anno centenario della morte don Bosco, il 21 Ottobre 1988, il Rettor Maggiore Don Egidio Viganò inaugurava il Centro Sociale “Don Bosco” nel quale l’Istituto si riprogettava secondo le esigenze dei tempi e nella fedeltà dinamica al Fondatore.
            Oggi il don Bosco di Napoli, si presenta come una realtà dinamica e aperta al territorio che a partire dal carisma di Don Bosco risponde alle nuove povertà educative presenti in città.
            Napoli è una città bellissima e complessa che genera problemi complessi ed è per questo che la nostra casa salesiana si è strutturata in maniera, articolata rispondente però a un criterio unificante semplice: il criterio oratoriano, l’Oratorio dei mille mestieri!

Casa che accoglie
            I salesiani nel corso degli anni hanno saputo reinventare la vocazione all’accoglienza, dai grandi collegi degli anni 60, alle comunità famiglia, strutture più a misura di ragazzo con progetti educativi individualizzati. Nella nostra casa ne abbiamo ben tre! La prima nata è la comunità famiglia “Il Sogno” animata dall’APS salesiana “Piccoli Passi grandi sogni” nata nel 2007. Nei suoi 15 anni di vita ha accolto 120 ragazzi per lo più di Napoli e provincia, provenienti sia dall’area penale che amministrativa. Nel 2017 Napoli vive l’emergenza sbarchi di profughi e i salesiani rispondono presente: nasce la comunità per minori stranieri non accompagnati “il Ponte”. Sono ragazzi che per venire in Europa hanno affrontato viaggi infiniti tra mille pericoli. La Libia per la maggioranza di loro ha rappresentato la tappa più traumatica. Ma non basta…nel 2018 dinanzi alla drammatica situazione di minori abbandonati per strada soprattutto nella zona della stazione, nasce la comunità di pronta accoglienza “La zattera”. Si tratta di un pronto soccorso educativo aperto 24 ore su 24, a cui la polizia, gli assistenti sociali o i cittadini possono sempre rivolgersi per dare un tetto, un pasto, vestiti ma soprattutto la possibilità di ripartire. In queste due comunità sono passati più di 250 ragazzi provenienti da 32 paesi del mondo! Tra le storie di riscatto e di rinascita di questi ragazzi mi piace raccontare quella di Mustafà,17 anni proveniente dalla Somalia. Viene trovato dalla polizia riverso per terra alla stazione centrale. Ricordo la sera quando è arrivato nella portineria del nostro centro accompagnato dall’assistente sociale accolto da Pietro e don Vanni. Sguardo terrorizzato, ma soprattutto noto che non riesce a camminare; nelle prigioni libiche gli hanno spaccato l’anca. Sono passati tre anni Mustafà ha preso da noi la terza media, è stata operato e ora cammina abbastanza bene, si è iscritto al primo anno del nostro Centro di Formazione Professionale. Ogni volta che lo vedo ripenso a quella sera in portineria e penso ai miracoli di don Bosco.

Scuola che avvia la vita
            Don Bosco diceva, i miei ragazzi hanno “l’intelligenza nelle mani” e questo vale tanto più per i ragazzi napoletani. Napoli però è anche la città in Italia con la maggiore dispersione scolastica. Come combattere la dispersione scolastica facendo leva sull’intelligenza delle mani delle ragazze e dei ragazzi napoletani? La formazione professionale! Nel 2018 abbiamo inaugurato un nuovo Centro di Formazione Professionale insieme con altri partner che condividono questa grande missione educativa: la Fondazione san Gennaro, la Fondazione Franca e Alberto Riva, IF imparare e fare, cooperativa il Millepiedi, Cometa Formazione. Nasce la scuola del Fare, una scuola innovativa, bella, che fa dell’attenzione educativa e del rapporto con le aziende il suo tratto distintivo. Con i due corsi di “operatori dei sistemi e servizi logistici” e “operatore alla riparazione dei veicoli a motore” diamo una risposta concreta ai ragazzi del territorio.
            Accanto a questi due corsi triennali strutturati, l’Oratorio dei mille mestieri offre una pluralità di laboratori in cui esercitarsi, sperimentarsi, imparare un mestiere, trovare il proprio mondo nel mondo: il laboratorio di pizzeria “Anem e Pizza”, il laboratorio di acconciatore “Cap Appost”, il Centro “Le ali” con la possibilità che offre di ottenere la qualifica come cuoco, cameriere e sala bar, la banda don Bosco che offre la possibilità ai ragazzi di imparare e suonare uno strumento e tante altre possibilità, tanti altri mestieri.

Chiesa che evangelizza
            La nostra comunità salesiana anima la Parrocchia don Bosco del rione Amicizia. Una presenza evangelizzatrice in un territorio che vede in noi salesiani un punto di riferimento, una presenza costante che accompagna in tutte le stagioni della vita e tutte le situazioni della vita visto che la nostra comunità si occupa anche della cura pastorale dell’Ospedale san Giovanni Bosco.
            Il momento centrale della vita oratoriana è la preghiera con la buona notte salesiana, quando tutti i settori e tutti i progetti si fermano per dedicare pochi minuti al dialogo con Dio, con parole semplici e vicine al quotidiano. Ecco allora che i ragazzi che frequentano il centro diurno, i laboratori di educativa di strada, i progetti territoriali con le scuole, i ragazzi della scuola calcio e i ragazzi che liberamente accedono all’oratorio si riconoscono appartenenti alla stessa grande famiglia salesiana. La “chiamata” alla preghiera puntuale e ferma alla 17.30 di don Michele rappresenta un rito educativo imprescindibile per la nostra opera, perché anche l’educazione ha bisogno dei suoi riti!

Cortile per incontrarsi da amici
            Il cortile è il centro geografico e carismatico della nostra opera. Il don Bosco ha un cortile bellissimo e ampio con tanti campi, un ampio porticato, una “piazza” a misura di ragazzo, la piazza della gioia. Questo spazio è tanto più prezioso perché sorge in una porzione di città che non ha spazi dedicati ai ragazzi, che spesso sono costretti a stare per la strada con tutti i pericoli che ne derivano. Ricordo ancora un pomeriggio di sole in cortile quando arriva una mamma che quasi con le lacrime agli occhi, lasciando i figli in oratorio mi dice “meno male che ci siete voi salesiani”. Pochi minuti prima in una piazza vicina una bambina mentre passeggiava con la nonna era stata colpita da un proiettile. Consapevoli che da soli non si educa, abbiamo costruito una rete con le altre agenzie del territorio, famiglia, scuola, servizi sociali, parrocchie, associazioni.
            Il cortile è abitato quotidianamente da centinaia di ragazzi e da decine di educatori che lo rendono uno spazio educativo per incontrarsi da amici. Lo sport aperto a tutti ci permette poi di agganciare centinaia di ragazzi e ragazze con le loro famiglie.
            In questi anni mi sono sempre più persuaso che don Bosco con il suo stile educativo, la sua amorevolezza ha tanto da dare a Napoli, ma anche che Napoli con la sua bellezza, la sua genialità, arricchisce don Bosco, lo rende più simpatico, insomma sono una coppia vincente!

Fabio Bellino




Casa salesiana di Châtillon

Situata in una bella zona montagnosa, ai piedi delle Alpi, vicino alla Svizzera, la Casa salesiana di Châtillon ha una storia particolare e di successo.

Nella regione della Valle d’Aosta, si trova un comune di nome Châtillon (il nome proviene dal latino “Castellum”) che si situa tra il Monte Zerbion a nord e il Monte Barbeston a sud; è il terzo comune più popolato della regione.
Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, in questa località fu fondata un’azienda, Soie de Châtillon (in italiano: “Seta di Châtillon”), che iniziava a lavorare nel settore delle tecnofibre con tecnologia moderna. La presenza delle centrali idroelettriche nelle vicinanze che fornivano l’energia elettrica ha condizionato la scelta del posto per l’impresa, visto che non esistevano ancora reti elettriche estese per trasportare l’elettricità.
Nel 1942 l’azienda passa sotto la proprietà della Società Saifta (Società Anonima Italiana per le Fibre Tessili Artificiali S.p.A.).
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Società Saifta, che gestiva lo stabilimento “Soie” di Châtillon, destinato inizialmente al convitto per le operaie, chiama i salesiani e mette loro a disposizione questi edifici per accogliere, in qualità di convittori, orfani di guerra e figli dei dipendenti della “Soie”. Così ha inizio l’Istituto Orfanotrofio Salesiano “Don Bosco” di Châtillon, nome che è rimasto fino a oggi, anche se gli orfani non ci sono più.
Alla fine dell’agosto del 1948, 33 ragazzi iniziavano un corso di Avviamento Professionale di tipo Industriale nelle due specializzazioni per Meccanici-aggiustatori e Falegnami-ebanisti: quest’ultima specializzazione era molto utile nella zona geografica montuosa, ricca di boschi.
Alcuni mesi più tardi, il 5 febbraio del 1949 si inaugurava ufficialmente l’Orfanotrofio “Don Bosco”, destinato ad accogliere i giovani poveri della Valle d’Aosta ed avviarli all’apprendimento di una professione.
Con l’introduzione della scuola dell’obbligo, nell’anno 1965, l’Avviamento Professionale viene sostituito dalla Scuola Media, e la Scuola Tecnica dall’Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato (IPIA), nelle due specializzazioni: Congegnatori meccanici ed Ebanisti-mobilieri.
Alla fine degli anni ’70, la Società Saifta entra in crisi, smette di sostenere economicamente l’Orfanotrofio e mette in vendita la struttura “Soie”. La Regione Valle d’Aosta, nel maggio 1980, accorgendosi dell’importanza e del valore dell’opera – che nel frattempo si era tanto sviluppata –acquista tutta la struttura educativa e la offre in gestione ai Salesiani.
Le attività scolastiche continuano, sviluppandosi nella scuola professionale, frutto della collaborazione dei salesiani con le ditte del territorio.
Dal 1997 il Centro di Formazione Professionale (CFP) offre corsi per falegnami, meccanici, grafici.
Nel 2004 il CFP offre corsi per impiantisti elettrici e anche corsi post diploma.
Dal 2006 ci sono corsi per impiantisti elettrici, meccanici, corsi post diploma e meccanici d’auto.
A partire dall’anno scolastico 2010-2011, con la riforma Gelmini, l’Istituto Professionale passa da percorso triennale a percorso quinquennale.

Attualmente la Casa Salesiana, chiamata l’Istituto Orfanotrofio Salesiano “Don Bosco”, ha vari ambiti educativi:
– un Centro di Formazione Professionale: corso triennale di motoristica d’auto e carrozzeria; corsi per lavoratori e imprese (corsi di formazione iniziale post diploma diurni e serali di aggiornamento per occupati), che fanno parte della federazione CNOS/FAP Regione Valle d’Aosta, nata nel luglio 2001;
– un Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato (IPIA), con due indirizzi: MAT (Manutenzione Assistenza Tecnica-meccanica); PIA (Produzione Industria Artigianato-Made in Italy-legno);
– una Scuola Media, scuola secondaria di primo grado, paritaria, che accoglie ragazzi/e della media-bassa valle;
– un Convitto Don Bosco, riservato agli studenti frequentanti l’IPIA, che ospita dal lunedì al venerdì i ragazzi provenienti dal vicino Piemonte o dalle vallate.

La preparazione di questi giovani è affidata a una comunità educante, che ha come primi protagonisti la comunità salesiana, i laici docenti, educatori, collaboratori, e anche i genitori e i gruppi della famiglia salesiana (cooperatori, exallievi).

L’attenzione educativa non si è fermata però solo alla preparazione umana e professionale per formare onesti cittadini, ma anche per fare dei buoni cristiani.
Anche se gli spazi della casa – essendo troppo piccoli – non permettono di svolgere le attività di formazione cristiana, si è trovata una soluzione per queste e per le celebrazioni importanti. Più in alto e a poca distanza della Casa Salesiana di Châtillon si trova l’antica parrocchia San Pietro (attestata già dal XII secolo), che ha una grande chiesa. L’accordo con la parrocchia ha portato molti frutti, inclusi quelli della propagazione della devozione alla Madonna di don Bosco, Maria Ausiliatrice, invocazione cara ai salesiani. Il frutto di questa devozione si è manifestato anche nel ritrovo della salute di varie persone (Blanchod Martina, Emma Vuillermoz, Pession Paolina, ecc.), attestata dagli scritti dei tempi.

Il desiderio sincero di fare il bene da parte di tutti coloro che hanno dato il loro contributo allo sviluppo, ha portato al successo di quest’opera salesiana.
Prima di tutto gli imprenditori che hanno capito la necessità e importanza dell’educazione dei ragazzi a rischio, e nello stesso tempo hanno promosso la formazione di possibili futuri dipendenti. Non hanno solo offerto le loro strutture, ma hanno anche sostenuto economicamente le attività educative.
Poi la saggezza delle autorità locali, che hanno capito l’importanza dell’opera svolta in più di trent’anni e si sono subito offerti di continuare a offrire il sostegno a favore dei ragazzi e anche delle ditte del territorio, dotandole così di lavoratori qualificati.
Non da ultimo, si deve riconoscere il lavoro svolto dai salesiani e dai loro collaboratori di ogni genere che hanno fatto il possibile affinché non si spegnesse la speranza del futuro: i giovani e la loro educazione integrale.
Questa professionalità nella preparazione dei giovani, insieme con la cura delle strutture logistiche (aule, laboratori, palestre, cortili), l’accurata e costante manutenzione dei locali, il collegamento con il territorio, hanno portato a un ampio riconoscimento che si riflette anche nel fatto che una via e una piazza di Châtillon sono dedicate a san Giovanni Bosco.

Quando gli uomini cercano il bene sinceramente e si sforzano per conseguirlo, Dio dà la sua benedizione.




Salesiani in Azerbaigian, seminatori di speranza

Il racconto di un ragazzo che esprime gratitudine per l’operato dell’unica comunità salesiana dell’Azerbaigian, punto di riferimento per tanti giovani della capitale.

L’Azerbaigian (ufficialmente Repubblica dell’Azerbaigian), è un paese localizzato nella regione transcaucasica, che confina con il Mar Caspio a est, con la Russia a nord, la Georgia e l’Armenia a ovest e l’Iran a sud. Ospita una popolazione di circa 10 milioni di abitanti, che parla la lingua azera, appartenente alla famiglia delle lingue turche. La ricchezza principale del paese è rappresentata dal petrolio e dal gas. Diventato indipendente nel 1918, è stato il primo stato laico democratico a maggioranza musulmana. La sua indipendenza però duro solo due anni, dato che nel 1920 venne incorporato dalla nuova Unione Sovietica appena costituita. Con la caduta dell’impero sovietico, ha riconquistato l’indipendenza nel 1991. In questo periodo, la regione del Nagorno Karabakh, abitata principalmente da armeni, dichiarò la sua indipendenza sotto in nome di Repubblica dell’Artsakh, evento che portò a varie guerre. È riapparsa nei notiziari internazionali dopo il recente attacco dell’Azerbaigian, il 19 settembre 2023, che ha condotto alla soppressione della sopraddetta repubblica e all’esodo di quasi tutti gli abitanti armeni da questa regione verso l’Armenia.

La presenza dei cristiani in quest’area geografica è menzionata fin dai primi secoli dopo Cristo. Nel sec. IV il re caucasico Urnayr dichiarò ufficialmente il cristianesimo religione di stato e rimase così fino all’VIII secolo quando, in seguito ad una guerra, si impose l’islam. Attualmente la religione maggioritaria è proprio l’islam a predominanza sciita, e i cristiani di tutte le confessioni rappresentano il 2,6% della popolazione.
La presenza dei cattolici nel paese risale al 1882 quando fu fondata una parrocchia; nel 1915 fu costruita una chiesa nella capitale Baku, demolita dai comunisti sovietici nel 1931, dissolvendo la comunità e arrestando il parroco, che morì un anno dopo in un campo di lavoro forzato.

In seguito alla caduta del comunismo, si ricostituì la comunità cattolica di Baku nel 1997, e dopo la visita in Azerbaigian di papa san Giovanni Paolo II nel 2002, si ottenne il terreno per la costruzione di una nuova chiesa, consacrata all’Immacolata Concezione e inaugurata il 29 aprile 2007.
La presenza salesiana in Azerbaigian è stata aperta nell’anno del Giubileo 2000, nella capitale Baku, la più grande città del paese, con una popolazione di più di 2 milioni di abitanti.

Il direttore della casa salesiana di Baku, don Martin Bonkálo, ci racconta che la missione salesiana si incarna in contesti diversi e sempre nuovi, come risposta alle sfide e ai bisogni della gioventù. Gli echi di don Bosco si sentono anche in Azerbaigian, in Asia Centrale, paese a maggioranza musulmana, che nello scorso secolo ha conosciuto il regime sovietico.
In questa casa vivono e lavorano sette salesiani, di cui cinque sacerdoti e due coadiutori, appartenenti all’Ispettoria slovacca (SLK), che si curano della parrocchia di Santa Maria e del Centro educativo “Maryam”. Si tratta di un’opera per lo sviluppo integrale dei giovani: evangelizzazione, catechesi, educazione ed aiuto sociale.
In tutto il paese i cattolici sono un piccolo gregge che professa con coraggio e speranza la propria fede. Il lavoro dei salesiani quindi, si basa sulla testimonianza dell’amore di Dio, sotto varie forme. I rapporti con la gente sono aperti, chiari ed amichevoli: questo favorisce il prosperare dell’azione educativa.

I giovani sono come tutti gli altri giovani del mondo, con le loro paure e i loro talenti. La loro sfida più grande è quella di ricevere una buona istruzione per guadagnarsi da vivere. I giovani cercano un ambiente educativo e persone capaci a livello professionale ed umano, che sappiano comunicare il cammino da seguire per cercare il senso della vita.
I salesiani sono impegnati a guardare al futuro, per arricchire la presenza nel paese, renderla più internazionale e rimanere fedeli al carisma trasmesso da don Bosco, con gioia ed entusiasmo.

Shamil, exallievo del centro salesiano di Baku, racconta: “Sono entrato a contatto con il centro Maryam nel 2012 e quell’incontro si è rivelato fondamentale per il resto della mia vita. A quel tempo, avevo prestato il servizio militare e stavo terminando la mia formazione presso un collegio d’informatica. Avvertivo la necessità di crescere a livello professionale, ma allo stesso tempo avevo un gran bisogno di amici nel mondo reale! Arrivai a Baku dalla provincia, incontrai per strada un mio amico che mi parlò del Centro Maryam. Così siamo andati insieme per visitarlo e da lì è iniziato un capitolo bellissimo nella mia vita. Fin dal primo giorno mi sono trovato in un mondo diverso, non facile da spiegare, io nel mio cuore dico che è un’isola. È diventata per me un’isola di umanità, nel mondo moderno spesso interessato a usare le persone, e non a interessarsi realmente a loro.

Senza che neanche me ne rendessi conto, era iniziato il programma nel centro giovanile e io ero parte di una squadra. Qualcuno giocava a pallavolo, qualcuno a ping-pong, un gruppo di ragazzi strimpellava la chitarra… Più tardi, ci siamo seduti in refettorio e a tutti è stata data la possibilità di condividere una parola per esprimere la propria opinione sulla giornata passata, sulle impressioni o sulle nuove idee. Io ero un ragazzo piuttosto timido, eppure ho iniziato a parlare con piacere degli eventi del giorno e degli argomenti generali, senza alcuna difficoltà o freno. Tra i tanti corsi del centro, ho deciso di iniziare con il corso di grafica Photoshop e il corso di lingua inglese. Quando poi ho dovuto lasciare il mio lavoro per motivi di salute, ho perso anche un tetto sopra la testa. La soluzione è stata quella di lavorare al centro come guardia, con determinati obblighi e responsabilità. Sono stato in prova per un mese e sono contento di non aver deluso nessuno e di aver trovato una nuova casa. Quando don Stefan nel 2014 ha iniziato a sviluppare al centro il progetto di rete informatica dell’Accademia Cisco, è iniziato il mio percorso professionale come ingegnere di rete. Nello stesso periodo, ho potuto imparare tre mestieri domestici: saldatura, elettricità e idraulica. Nel 2016 sono diventato istruttore ufficiale di Cisco e ormai sono sei anni che lavoro come ingegnere di rete. Questo lavoro ha permesso a me e alla mia famiglia di rimetterci in piedi dopo anni di vita molto precaria. Oltre al lavoro, tengo corsi sulle reti informatiche, sono diventato animatore e aiuto a organizzare campi estivi per bambini. Non posso che essere grato a don Bosco per tutto quello che mi ha donato nella vita”.

Sono tante le storie di giovani come Shamil, che sono riusciti a indirizzare la propria vita grazie al lavoro dei Salesiani a Baku, e speriamo che quest’opera possa prosperare e continuare ancora a essere feconda.

Marco Fulgaro




Alexandre Planas Saurì, il sordo martire (2/2)

(continuazione dal’articolo precedente)

Il salesiano
            È accanto ai malati, i bambini. L’Oratorio, che i salesiani avevano fondato all’inizio della casa, terminò con la sua partenza nel lontano 1903. Ma la parrocchia di Sant Vicenç raccolse la fiaccola attraverso un giovane, Joan Juncadella, catechista nato, e il Sordo, suo grande assistente. Tra loro nacque, come detto prima, una fortissima amicizia e una collaborazione permanente, a cui pose fine solo la tragedia del 1936. Alexandre si occupava della pulizia e dell’ordine del luogo, ma ben presto si dimostrò un vero animatore di giochi e delle escursioni che venivano organizzate. E, se necessario, non esitava a mettere a disposizione i soldi che risparmiava.
E aveva dentro di sé il cuore salesiano. La sordità non gli permise di professare come salesiano, cosa che sicuramente desiderava. Tuttavia, risulta che avesse fatto voti privati che emise con l’autorizzazione dell’allora ispettore, don Filippo Rinaldi, secondo la testimonianza di uno dei direttori della casa, padre Crescenzi.
            La sua identificazione con la causa salesiana la dimostrò in mille modi, ma in forma particolarmente significativa prendendosi personalmente cura della casa per quasi 30 anni e difendendola nella difficile situazione dell’estate e dell’autunno del 1936.
            “Sembrava il padre di ognuno di noi”. Quando nel 1935, tre ragazzi annegarono nel fiume “il dolore di quell’uomo era come quello di aver perso tre figli contemporaneamente”. Sappiamo che i salesiani non lo considerarono un dipendente, ma uno della famiglia, o un cooperatore. Oggi forse potremmo dire un laico consacrato nello stile dei Volontari con Don Bosco. “Un salesiano di grande statura spirituale”.

Abbracciato alla Croce, vero testimone di fede e di riconciliazione
            Nell’autunno del 1931 i salesiani tornarono a Sant Vicenç dels Horts. Le rivolte incontrollate che produssero la caduta della monarchia spagnola colpirono la casa di El Campello (Alicante) dove in quel tempo si trovava l’Aspirantato. Fu quindi presa la decisione di spostarlo a Sant Vicenç. La casa, anche se relativamente fatiscente, era pronta e poté ampliarsi con l’acquisto di una torre adiacente. Qui si svolse la vita degli aspiranti, la cui testimonianza sul Sordo ha permesso di disegnare il ritratto dell’uomo, dell’artista, del credente e del salesiano a cui abbiamo fatto riferimento.

Cristo inchiodato alla croce, nel cortile della casa, di Alexandre

La deposizione nelle mani di Maria, nel cortile della casa, di Alexandre

Il santo sepolcro, nel cortile della casa, di Alexandre

            Non è ora il caso di riferirsi alla situazione critica degli anni 1931-1936 in Spagna. Nonostante tutto questo, la vita dell’Aspirantato di Sant Vicenç trascorse abbastanza normalmente. Il motore della vita quotidiana era la coscienza vocazionale dei giovani che sempre li spingeva a guardare avanti nella speranza di legarsi in una data non lontana a don Bosco per sempre.
            Finché arrivò la rivoluzione del 18 luglio 1936. Lo stesso giorno salesiani e giovani fecero la loro escursione-pellegrinaggio al Tibidabo. Quando tornarono, nel pomeriggio, le cose stavano cambiando. In pochi giorni la casa parrocchiale del villaggio venne incendiata, il seminario salesiano fu sequestrato, un clima di intolleranza religiosa si era diffuso ovunque, il parroco e il vicario della parrocchia furono arrestati e uccisi, le forze dell’ordine non poterono o non seppero far fronte ai disordini. A Sant Vicenç prese il potere il “Comitato antifascista”, di matrice chiaramente anticristiana.
            Sebbene in un primo momento la vita degli educatori fosse rispettata, grazie all’attenzione verso i ragazzi che la casa ospitava, tuttavia dovettero assistere alla distruzione e al rogo di tutti gli oggetti religiosi, in particolare dei tre monumenti eretti dal Sordo. “Quanto soffrì” vedendosi nella necessità di collaborare alla distruzione di quella che era espressione della sua profonda spiritualità e di assistere all’espulsione dei sacerdoti.
            In quei giorni il Sordo prese chiaramente coscienza del nuovo ruolo che la rivoluzione lo costringeva ad assumere: senza cessare di essere il principale anello di congiunzione della comunità con il mondo esterno (si era sempre mosso liberamente come fattorino e in ogni tipo di necessità), doveva custodire come prima la proprietà e, soprattutto, proteggere i seminaristi. “In realtà era lui a rappresentare i salesiani e a farci da padre”. In pochi giorni, infatti, rimasero solo i coadiutori e un gruppo sempre più ristretto di ragazzi aspiranti.
            L’espulsione definitiva di entrambi avvenne il 12 novembre. A Sant Vicenç è rimasto solo il signor Alexandre. dei suoi ultimi giorni di vita abbiamo solo tre dati certi: due dei coadiutori espulsi tornò al villaggio il 16 per convincerlo a cercare un posto più sicuro fuori dal villaggio, cosa che Alexandre rifiutò. Non poteva lasciare la casa che aveva custodito per tanti anni e non rispettare lo spirito salesiano anche in mezzo a quelle difficili circostanze. Uno di loro, Eliseo García, non volendolo lasciare solo, rimase con lui. Entrambi furono arrestati nella notte tra il 18 e il 19. Pochi giorni dopo, vedendo che Eliseo non era tornato a Sarriá, un altro salesiano coadiutore e un seminarista si recarono a Sant Vicenç per avere loro notizie. “Non sanno cosa è successo?”, disse una signora amica che conoscevano e che gestiva un bar. “Ci ha raccontato in poche parole della scomparsa del Sordo e di Eliseo”.
            Come trascorse questa ultima settimana? Conoscendo a fondo il percorso di vita del Sordo, sempre fedele ai suoi principi e al suo modo di fare, non è difficile immaginarlo: aiutando gli uni e gli altri, senza nascondere la sua fede e la sua carità, con la consapevolezza di fare il bene, contemplando il mistero della passione e morte di Cristo reale e presente nella vita dei perseguitati, degli scomparsi e degli assassinati… Forse nella speranza che potesse essere il custode non solo delle proprietà dei salesiani ma il custode di tante persone del popolo che soffrivano. Del crocifisso, come abbiamo ricordato, non volle spogliarsi nemmeno nei mesi di persecuzione religiosa che culminarono nel suo martirio. Con questa fede, con questa speranza, con questo immenso amore ascolterebbe dal Signore della gloria: “Molto bene, servo buono e fedele. Sei rimasto fedele in piccole cose; Ti affiderò molto di più. Entra nella gioia del tuo Signore”. (Mt 25,21)

Il Vangelo del Sordo
            Arrivati a questo punto, ogni spirito, per quanto insensibile, non può che tacere e cercare di raccogliere, al meglio delle sue capacità, la preziosa eredità spirituale che Alexandre ha lasciato alla Famiglia Salesiana, la sua famiglia adottiva. Possiamo dire qualcosa sul “suo vangelo”, cioè sulla Buona Novella che Egli ha fatto sua e continua a proporci con la sua vita e la sua morte?
            Alexandre è come quel “sordo che sa a malapena parlare” di Mc 7,32. La supplica dei suoi genitori a Gesù per la guarigione sarebbe stata continua. Come lui, anche Gesù lo portò in un luogo solitario, lontano dalla sua gente e gli disse: “Effata!” Il miracolo non era nella guarigione dell’orecchio fisico, ma nell’orecchio spirituale. Mi sembra che l’accettazione della sua situazione con spirito di fede sia stata una delle esperienze fondanti della sua vita da credente che lo ha portato a proclamare, come il sordo del Vangelo, ai quattro venti: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti” (Mc 7,37).
            E da qui possiamo contemplare nella vita del Sordo “il tesoro nascosto del Regno” (Mt 13,44); “il lievito che fa fermentare tutta la pasta” (Mt 13,33); Gesù in persona “che accoglie i malati” e “benedice i bambini”; Gesù che prega il Padre per ore e ore e ci insegna il Padre nostro (dare gloria al Padre, desiderare il Regno, compiere la sua volontà, fidarsi del pane quotidiano, perdonare, liberare dal male…) (Mt 7,9-13); “l’amministratore della casa che tira fuori dalla sua borsa cose nuove e cose vecchie come meglio crede” (Mt 13,52); “il buon samaritano che ha pietà dell’uomo percosso, gli si avvicina, gli fascia le ferite e si fa carico della sua guarigione” (Lc 10,33-35); “il Buon Pastore, custode dell’ovile che entra dalla porta, ama le pecore fino a dare la vita per loro” (Gv 10,7-11)… In una parola, un’icona vivente delle Beatitudini, di tutte, nella vita di ogni giorno (Mt 5,3-12).
            Ma, e ancora di più, possiamo avvicinarci ad Alexandre e contemplare con lui il Mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù. Un mistero che si avvererà nella sua vita dalla nascita alla morte. Un mistero che lo rafforza nella sua fede, che alimenta la sua speranza e che lo riempie di amore, con cui dare gloria a Dio, fatto tutto per tutti con i bambini e i giovani della casa salesiana, e con i paesani del villaggio di Sant Vicenç specialmente i più poveri, compresi quelli che gli hanno tolto la vita: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Fammi, Signore, testimone di fede e di riconciliazione. Possano anche loro, un giorno, sentire dalle tue labbra: “Oggi sarai con me in Paradiso” (Lc 23,43).
            Beato Alexandre Planas Saurí, laico, martire salesiano, testimone di fede e di riconciliazione, seme fecondo della civiltà dell’Amore per il mondo di oggi, intercedi per noi.

don Joan Lluís Playà, sdb




Alexandre Planas Saurì, il sordo martire (1/2)

Alexandre Planas Saurì, nato a Mataró (Barcellona) nel 31 di dicembre 1878, è stato un laico collaboratore dei salesiani fino alla sua gloriosa morte come martire a Garraf (Barcellona) il 19 novembre 1936. La sua beatificazione avvenne insieme con altri salesiani e membri della famiglia salesiana, l’11 marzo del 2001, da parte di papa san Giovanni Paolo II.

            Nell’elenco dei martiri spagnoli beatificati da Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001, c’è il laico Alexandre PLANAS SAURÌ. Il suo nome fa parte dei martiri salesiani dell’Ispettoria Tarraconense, sottogruppo di Barcellona. Le testimonianze sulla sua vita usano anche la parola “della famiglia” o “cooperatore”, ma tutte lo definiscono come “un autentico salesiano”. Il villaggio di Sant Vicenç dels Horts, dove visse per 35 anni, lo conobbe con il soprannome di “El Sord”, “El Sord dels Frares (Il Sordo dei frati)”. E questa è l’espressione che compare sulla bella lapide della Chiesa Parrocchiale, posta proprio su un lato della parte posteriore, nel punto preciso in cui si trovava Alexandre quando andava a pregare.
            La sua vita fu interrotta nella notte tra il 18 e il 19 novembre 1936 insieme a quella di un salesiano coadiutore, Eliseo García, che rimase con lui per non lasciarlo solo, poiché Alexandre non voleva abbandonare il villaggio e cercare un posto più sicuro. In poche ore entrambi furono arrestati, condannati dal comitato anarchico del comune, e portati sulle rive del Garraf, sul Mediterraneo, dove furono fucilati. I loro corpi non furono ricuperati. Alexandre aveva 58 anni.
            Questa è una nota che avrebbe potuto far parte della pagina degli eventi di qualsiasi giornale e cadere nel più assoluto oblio. Ma non è stato così. La Chiesa ha proclamato entrambi beati. Per la Famiglia Salesiana sono stati e saranno sempre “segni di fede e di riconciliazione”. In queste pagine si farà riferimento al sig. Alexandre. Chi era quest’uomo che la gente soprannominava “el Sord dels Frares”?

Le circostanze della sua vita
            Alexandre Planas Saurì nacque a Mataró (provincia di Barcellona) nel 1878, sei anni prima che il treno che portava don Bosco a Barcellona (per visitare e incontrarsi con i salesiani e i giovani della casa di Sarriá) si fermasse alla stazione di questa città, per prelevare la signora Dorotea de Chopitea e i Martí Codolar che desideravano accompagnarlo nell’ultimo tratto del viaggio verso Barcellona.
            Della sua infanzia e adolescenza si sa molto poco. Ricevette il battesimo nella parrocchia più popolare della città, San Giuseppe e San Giovanni. Era, senza dubbio, un ragazzo assiduo nelle celebrazioni domenicali, nelle attività e nelle feste della parrocchia. A giudicare dalla traiettoria della sua vita successiva, fu un giovane che seppe sviluppare una solida vita spirituale.
            Alexandre aveva una notevole menomazione fisica: era totalmente sordo e aveva un corpo sgraziato (basso di statura, con il corpo curvo). È sconosciuta la circostanza che lo ha portato a Sant Vicenç dels Horts, una città a circa 50 km dalla sua città natale. La verità è che nel 1900 era tra i salesiani della piccola città di Sant Vicenç come impiegato nelle attività quotidiane della casa salesiana: il giardino, le pulizie, l’agricoltura, le commissioni… Un giovane uomo di ingegno e laborioso. E, soprattutto, “buono e molto pio”.
            La casa di Sant Vicenç dels Horts fu acquistata da don Filippo Rinaldi, già ispettore di Spagna, nel 1895, per ospitare il noviziato e gli studi di filosofia che dovevano essere fatti in seguito. Fu il primo centro di formazione dei salesiani in Spagna. Alexandre vi arrivò nel 1900 come dipendente, guadagnandosi subito la stima di tutti. Si sentiva molto a suo agio, pienamente integrato nello spirito e nella missione di quella casa.
            Alla fine dell’anno scolastico 1902-1903, la casa subì un forte cambiamento di orientamento. Il Rettor Maggiore, don Michele Rua, aveva creato le tre province della Spagna. Quelle di Madrid e di Siviglia decisero di organizzare la formazione nelle rispettive province. Anche quella di Barcellona trasferì il noviziato e la filosofia a Girona. La casa di Sant Vicenç dels Horts restò praticamente vuota in pochi mesi, abitata solo dal signor Alexandre.
            Da quell’anno, fino al 1931 (28 anni!), divenne il guardiano di quella casa: non solo della proprietà, ma soprattutto delle tradizioni salesiane che in pochi anni si erano radicate fortemente nella popolazione. Una presenza e un lavoro benevoli, vivendo come un anacoreta, ma per nulla estraneo agli amici della casa che lo proteggevano, ai malati del paese che visitava, alla vita parrocchiale che frequentava, ai parrocchiani che edificava con l’esempio della sua pietà, e ai bambini della catechesi parrocchiale e dell’oratorio festivo che animava insieme a un giovane del paese, Joan Juncadella, con il quale strinse una forte amicizia. Distante e vicino allo stesso tempo, con non poca influenza sulle persone. Un personaggio singolare. Il referente dello spirito salesiano nel villaggio. “El sord dels frares”.

L’uomo

            Alexandre, una persona disabile e sorda, ma che capiva i suoi interlocutori grazie al suo sguardo penetrante, dal movimento delle labbra, rispondeva sempre con lucidità, anche se a bassa voce. Un uomo dal cuore buono e luminoso: “Un tesoro posto in un brutto vaso di terracotta, ma noi, i bambini, siamo stati in grado di percepire perfettamente la sua dignità umana”.
            Si vestiva poveramente, sempre con la borsa a tracolla sulla spalla, a volte accompagnato da un cane. I salesiani lo lasciarono stare in casa. Poteva vivere con ciò che l’orto produceva e l’aiuto che riceveva da alcune persone. La sua povertà era esemplare, più che evangelica. E se aveva qualcosa di troppo, lo dava ai poveri. Con queste abitudini di vita, svolgeva il compito di custode della casa con assoluta fedeltà.
           Accanto all’uomo fedele e responsabile, appare l’uomo buono, umile, sacrificato, di una amabilità invincibile, anche se ferma. “Non permetteva che si parlasse male di nessuno”. Fino a questo giungeva la delicatezza del suo cuore. “Il consolatore di tutte le famiglie”. Un uomo dal cuore trasparente, di retta intenzione. Un uomo che si faceva amare e rispettare. La gente era con lui.

L’artista
            Alexandre aveva anche un’anima d’artista. Di artista e di mistico. Isolato dai rumori esterni, viveva assorto in una costante contemplazione mistica. E riusciva a cogliere nella materia i sentimenti più intimi della sua esperienza religiosa, che quasi sempre ruotava attorno alla passione di Gesù Cristo.
            Eresse nel cortile della casa tre monumenti ben visibili: Cristo inchiodato alla croce, la deposizione nelle mani di Maria e il santo sepolcro. Tra i tre, spiccava la croce che presiedeva il cortile. I passeggeri del treno che correva accanto alla fattoria potevano vederlo perfettamente. D’altra parte, allestì un piccolo laboratorio in una delle dipendenze della casa dove eseguiva gli ordini che riceveva o piccole immagini con cui soddisfaceva i gusti della pietà popolare e che distribuiva gratuitamente tra i vicini.

Il credente
            Ma ciò che dominava la sua personalità era la sua fede cristiana. La professava nell’intimo del suo essere e la manifestava con totale chiarezza, a volte anche ostentatamente, professandola in pubblico. “Un vero santo”, un “uomo di Dio”, diceva la gente. “Quando arrivavamo alla cappella al mattino o al pomeriggio trovavamo sempre, immancabilmente, Alexandre che pregava, in ginocchio, facendo le sue pratiche di pietà”. “La sua pietà era profondissima”. Un uomo totalmente aperto alla voce dello Spirito, con la sensibilità che possiedono i santi. La cosa più ammirevole di quest’uomo era la sua sete e fame di Dio, “cercando sempre più spiritualità”.
            La fede di Alexandre si apriva anzitutto al mistero di Dio, davanti alla cui grandezza cadeva in ginocchio in profonda adorazione: “Piegato col corpo, con gli occhi abbassati, pieno di vita interiore… posto in un lato della chiesa, con il capo piegato, inginocchiato, assorto nel mistero di Dio, immerso pienamente nella meditazione della santa compiacenza, sfogava i suoi affetti e le sue emozioni…”.
            “Trascorreva ore davanti al tabernacolo, inginocchiato, con il corpo piegato quasi orizzontalmente a terra, dopo la comunione”. Dalla contemplazione di Dio e dalla sua grandezza salvifica, Alexandre traeva una grande fiducia nella Divina Provvidenza, ma anche una radicale avversione alle colpe contro la gloria di Dio e al suo santo nome. Non poteva tollerare che si bestemmiasse. “Percependo una bestemmia, o diventava teso guardando intensamente colui che l’aveva pronunciata, o sussurrava con compassione, in modo che la persona potesse sentire: ‘La Madonna piange, Nostro Signore piange’”.
            La sua fede si esprimeva nelle devozioni tradizionali dell’Eucaristia, come abbiamo visto, e nel rosario mariano. Ma dove il suo impulso religioso trovava il canale più adatto alle sue esigenze era senza dubbio nella meditazione della passione di Cristo. “Del Sordo, ricordo l’impressione che avevamo nel sentirlo parlare della Passione di Cristo”.
            Egli portava il mistero della croce nella sua carne e nella sua anima. In suo onore aveva eretto i monumenti della croce, della deposizione e della sepoltura di Cristo. Tutte le testimonianze ricordano anche il crocifisso di ferro che portava appeso al petto, e la cui catena era conficcata nella pelle. E dormiva sempre con un grande crocifisso accanto a sé. Non volle spogliarsi del crocifisso nemmeno nei mesi di persecuzione religiosa che culminarono nel martirio. “Faccio del male? – diceva – e se mi uccidono, tanto meglio, così ho già il cielo aperto”.
            Ogni giorno faceva l’esercizio della Via Crucis: “Quando saliva nella sala studio, il signor Planas entrava nella cappella, e quando dopo un’ora scendevamo, stava finendo la Via Crucis, che faceva totalmente inclinato, fino a toccare terra con la testa”.
            Fondata su questa esperienza della croce alla quale si aggiungeva la sua profonda devozione al Sacro Cuore, la spiritualità del Sordo fu proiettata verso l’ascesi e la solidarietà. Viveva da penitente, in povertà evangelica e spirito di mortificazione. Dormiva su assi senza materasso o cuscino, avendo accanto a sé un teschio che gli ricordava la morte e “alcuni strumenti di penitenza”. Questo non lo apprese dai salesiani. Lo aveva appreso precedentemente e lo spiegava ricordando la spiritualità del padre gesuita, sant’Alfonso Rodríguez, il cui manuale era solito leggere nella casa del noviziato e che talvolta meditava in quegli anni.
            Ma l’amore per la croce lo spingeva anche alla solidarietà. La sua austerità era impressionante. Si vestiva come i poveri e mangiava frugalmente. Dava tutto quello che poteva dare: non soldi, perché non ne aveva, ma sempre il suo aiuto fraterno: “Quando c’era da fare qualcosa per qualcuno, lasciava tutto e andava dove c’era bisogno”. Quelli che più ne hanno beneficiato sono stati i bambini della catechesi e i malati. “Non mancava mai al capezzale di una persona gravemente malata: vegliava su di lui mentre la famiglia riposava. E se non c’era nessuno in famiglia che potesse preparare il defunto, era pronto per questo servizio. I preferiti erano i malati poveri che, se poteva, aiutava con le elemosine che raccoglieva o con il frutto del suo lavoro”.

(continua)

don Joan Lluís Playà, sdb




Casa salesiana Tibidabo

Situata nella vetta più alta delle montagne di Collserola che offre una bella vista su Barcellona, la Casa salesiana Tibidabo ha una storia particolare, legata alla visita di don Bosco in Spagna, compiuta nel 1886.

Il nome della collina, “Tibidabo”, discende dal latino “Tibidabo”, che significa “ti darò”, e deriva da alcuni versetti della Sacra Scrittura: “… et dixit illi haec tibi omnia dabo si cadens adoraveris me”, “… e gli disse: Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai” (Matteo 4,9). Questa frase viene pronunciata dal demonio a Gesù da una grande altezza, mostrandogli i regni della terra, cercando di tentarlo con le ricchezze di questo mondo.
Il vecchio nome della collina barcellonese era Puig de l’Àliga (Collina dell’Aquila). Il nuovo nome di “Tibidabo”, come altri nomi biblici (Valle di Hebron, il Monte Carmelo ecc.), è stato dato da alcuni religiosi che vivevano nella zona. La scelta di questo nuovo nome è stata fatta per la vista maestosa che offre sulla città di Barcellona, da un’altezza che dà la sensazione di dominare tutto.

Durante il suo viaggio in Spagna, don Bosco si recò nel pomeriggio del 5 maggio 1886, alla basilica di Nostra Signora della Misericordia, patrona della città di Barcellona, per ringraziarla dei favori ricevuti durante la sua visita alla città e per l’opera salesiana iniziata a Sarrià. Lì, alcuni signori delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli lo avvicinarono, gli diedero la proprietà di un terreno in cima al Tibidabo e lo pregarono di costruirvi un santuario del Sacro Cuore di Gesù. Gli chiesero questo favore “per mantenere salda e indistruttibile la religione che Lei ci ha predicato con tanto zelo ed esempio e che è l’eredità dei nostri padri”.

La reazione di don Bosco fu spontanea: “Sono confuso da questa nuova e inaspettata prova della sua religiosità e pietà. La ringrazio per questo; ma sappia che, in questo momento, lei è uno strumento della Provvidenza divina. Mentre lasciavo Torino per venire in Spagna, pensavo tra me e me: ora che la chiesa del Sacro Cuore a Roma è quasi terminata, dobbiamo studiare come promuovere sempre di più la devozione al Sacro Cuore di Gesù. E una voce interiore mi rassicurò che avrei trovato i mezzi per realizzare il mio desiderio. Questa voce mi ripeteva: Tibidabo, tibidabo (ti darò, ti darò). Sì, signori, voi siete gli strumenti della Divina Provvidenza. Con il vostro aiuto, presto sorgerà su questa montagna un santuario dedicato al Sacro Cuore di Gesù; lì tutti avranno la comodità di accostarsi ai santi Sacramenti, e la vostra carità e la fede di cui mi avete dato tante e così belle prove saranno sempre ricordate” (MB XVIII,114).

Il 3 di luglio dello stesso anno, 1886, l’ormai venerabile Dorotea de Chopitea, promotrice del lavoro salesiano a Barcellona e facilitatrice della visita di don Bosco alla città, finanziò la costruzione di una piccola cappella dedicata al Sacro Cuore sulla stessa collina.
Il progetto di costruzione del tempio subì un ritardo significativo, soprattutto a causa della comparsa di un nuovo progetto per la costruzione di un osservatorio astronomico sulla cima del Tibidabo, che alla fine fu costruito su una collina vicina (Osservatorio Fabra).
Nel 1902, fu posata la prima pietra della chiesa e nel 1911 fu inaugurata la cripta dell’attuale santuario del Tibidabo, alla presenza dell’allora Rettor Maggiore, don Paolo Albera. Alcuni giorni dopo l’inaugurazione, quest’ultimo fu nominato “Tempio Espiatorio e Nazionale del Sacro Cuore di Gesù” conforme a una decisione presa nell’ambito del XXII Congresso Eucaristico Internazionale, che si tenne a Madrid alla fine del mese di giugno del 1911. L’opera fu completata nel 1961 con l’erezione della statua del Sacro Cuore di Gesù, settantacinque anni dopo la visita di Giovanni Bosco a Barcellona. Nel 29 ottobre 1961, la chiesa ricevette il titolo di basilica minore, concesso da papa Giovanni XXIII.

Oggi, il tempio continua ad attirare un gran numero di pellegrini e visitatori da tutto il mondo. Accoglie cordialmente tutti coloro che vengono alla Basilica del Sacro Cuore di Gesù, per qualsiasi motivo, dando loro l’opportunità di ricevere il messaggio del Vangelo e di accostarsi ai sacramenti, in particolare all’Eucaristia e alla Riconciliazione. È allo stesso tempo una parrocchia affidata ai Salesiani, anche se ha pochi parrocchiani stabili.
Per coloro che sono venuti con l’intenzione di trascorrere un po’ di tempo in preghiera mette a disposizione anche i materiali offerti dalla Rete Mondiale di Preghiera del Papa, di cui il Tempio è membro.
Si continua l’adorazione del Santissimo Sacramento durante il giorno, e si incoraggia la pratica dell’adorazione notturna.
E a coloro che voglio fare un ritiro, mette a disposizione alloggio e vitto all’interno della struttura salesiana.
Un’opera dedicata al Sacro Cuore di Gesù voluta dalla Provvidenza tramite san Giovanni Bosco, che continua la sua missione attraverso la storia.

don Joan Codina i Giol, sdb
direttore Tibibabo

Galleria foto – Casa salesiana al Tibidabo

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Benedizione della Cappella del Sacro Cuore, Tibidabo, 03.07.1886
Sentiero alla Cappella del Sacro Cuore, Tibidabo, 1902
Tempio Espiatorio del Sacro Cuore. Cripta nel 1911
Statua del Sacro Cuore al Tibidabo
Cupola dell'altare della cripta al Tibidabo
Dettaglio nella cupola dell'altare della cripta al Tibidabo. Don Bosco riceve la proprietà





La venerabile Dorotea di Chopitea

Chi era Dorotea di Chopitea? Era una cooperatrice salesiana, una vera madre dei poveri della città di Barcellona, creatrice di numerose istituzioni al servizio della carità e della missione apostolica della Chiesa. La sua figura assume oggi un’importanza particolare e ci incoraggia a imitare il suo esempio di essere “misericordiosi come il Padre”.

Una vizcayano in Cile
Nel 1790, durante il regno di Carlo IV, un vizcayano, Pedro Nicolás de Chopitea, originario di Lequeitio, emigrò in Cile, allora parte dell’Impero spagnolo. Il giovane emigrante prosperò e sposò una giovane creola, Isabel de Villota.

Don Pedro Nolasco Chopitea e Isabel Villota si stabilirono a Santiago del Cile. Dio concesse loro una numerosa famiglia di 18 figli, anche se solo 12 sopravvissero, cinque maschi e sette femmine. La più piccola nacque, fu battezzata e cresimata lo stesso giorno, il 5 agosto 1816, e prese i nomi di Antonia, Dorotea e Dolores, anche se fu sempre conosciuta come Dorotea, che in greco significa “dono di Dio”. La famiglia di Pietro ed Elisabetta era benestante, cristiana e impegnata a utilizzare le proprie ricchezze a beneficio dei poveri che la circondava.

Nel 1816, anno di nascita di Dorotea, i cileni iniziarono a chiedere apertamente l’indipendenza dalla Spagna, che ottennero nel 1818. L’anno successivo Don Pedro, che si era schierato con i realisti, cioè a favore della Spagna, e per questo era stato imprigionato, trasferì la sua famiglia oltreoceano a Barcellona, in modo che le turbolenze politiche non coinvolgessero i suoi figli più grandi, pur continuando a mantenere una fitta rete di relazioni con gli ambienti politici ed economici del Cile.

Nella grande casa di Barcellona, Dorotea, di tre anni, fu affidata alle cure della sorella Josefina, di dodici anni. Così Josefina, in seguito “Suor Josefina”, fu per la piccola Dorotea la “piccola madre giovane”. Si affidò a lei con totale affetto, lasciandosi guidare con docilità.

A tredici anni, su consiglio di Josefina, prese come direttore spirituale il sacerdote Pedro Nardó, della parrocchia di Santa Maria del Mar. Per 50 anni Pedro fu il suo confessore e il suo consigliere nei momenti più delicati e difficili. Il sacerdote le insegnò con gentilezza e forza a “separare il suo cuore dalle ricchezze”.

Per tutta la vita, Dorotea considerò le ricchezze della sua famiglia non come una fonte di divertimento e dissipazione, ma come un grande mezzo messo in mano da Dio per fare del bene ai poveri. Don Pedro Nardó le fece leggere più volte la parabola evangelica del ricco e del povero Lazzaro. Come segno distintivo cristiano, consigliò a Josefina e Dorotea di vestirsi sempre in modo modesto e semplice, senza la cascata di nastri e garze di seta leggera che la moda dell’epoca imponeva alle giovani donne aristocratiche.

Dorotea ricevette in famiglia la solida istruzione che all’epoca veniva impartita alle ragazze provenienti da famiglie benestanti. Infatti, in seguito aiutò molte volte il marito nella sua professione di mercante.

Moglie all’età di sedici anni
Le Chopiteas si erano incontrate a Barcellona con degli amici cileni, la famiglia Serra, che era tornata in Spagna per lo stesso motivo, l’indipendenza. Il padre, Mariano Serra i Soler, era originario di Palafrugell e si era ritagliato una brillante posizione economica. Sposato con una giovane creola, Mariana Muñoz, ebbe quattro figli, il maggiore dei quali, José María, nacque in Cile il 4 novembre 1810.

All’età di sedici anni, Dorotea visse il momento più delicato della sua vita. Era fidanzata con José María Serra, anche se si parlava del matrimonio come di un evento futuro. Ma accadde che Don Pedro Chopitea dovette tornare in America Latina per difendere i suoi interessi e poco dopo sua moglie Isabel si preparò ad attraversare l’Atlantico per raggiungerlo in Uruguay insieme ai loro figli più piccoli. Improvvisamente, Dorotea si trovò di fronte a una decisione fondamentale per la sua vita: rompere il profondo affetto che la legava a José María Serra e partire con sua madre, oppure sposarsi all’età di sedici anni. Dorotea, su consiglio di Don Pedro Nardó, decise di sposarsi. Il matrimonio ebbe luogo nella basilica Santa Maria del Mar il 31 ottobre 1832.

La giovane coppia si stabilì in Carrer Montcada, nel palazzo dei genitori del marito. L’intesa tra i due era perfetta e divenne fonte di felicità e benessere.

Dorotea era una persona esile e smunta, con un carattere forte e determinato. Il “ti amerò sempre” giurato dai due coniugi davanti a Dio si trasformò in una vita matrimoniale affettuosa e solida, che diede vita a sei figlie: tutte ricevettero il nome di Maria con vari complementi: Maria Dolores, Maria Ana, Maria Isabel, Maria Luisa, Maria Jesus e Maria del Carmen. La prima venne al mondo nel 1834, l’ultima nel 1845.

Cinquant’anni dopo il “sì” pronunciato nella chiesa di Santa Maria del Mar, José Maria Serra dirà che in tutti quegli anni “il nostro amore è cresciuto di giorno in giorno”.

Dorotea, madre dei poveri
Dorotea è la padrona di casa, in cui lavorano diverse famiglie di dipendenti. È l’intelligente collaboratrice di José María, che presto raggiunge fama e notorietà nel mondo degli affari. È al suo fianco nei momenti di successo e in quelli di incertezza e fallimento. Dorotea era al fianco del marito quando questi viaggiava all’estero. Era con lui nella Russia dello zar Alessandro II, nell’Italia dei Savoia e nella Roma di papa Leone XIII.

Nella sua visita a Roma, all’età di sessantadue anni, fu accompagnata dalla nipote Isidora Pons, che testimoniò al processo apostolico: “Fu ricevuta dal Papa. La deferenza con cui Leone XIII trattò mia zia, alla quale offrì in dono il suo prendisole bianco, mi è rimasta impressa”.

Affettuosa e forte
I dipendenti della casa Serra si sentivano parte della famiglia. Maria Arnenos ha dichiarato sotto giuramento: “Aveva un affetto materno per noi dipendenti. Si occupava del nostro benessere materiale e spirituale con un amore concreto. Quando qualcuno era malato, faceva in modo che non gli mancasse nulla, si occupava anche dei più piccoli dettagli”. Il suo stipendio era più alto di quello dei dipendenti di altre famiglie.

Una persona delicata, un carattere forte e determinato. Questo fu il campo di battaglia su cui Dorotea lottò per tutta la vita per acquisire l’umiltà e la calma che la natura non le aveva dato. Per quanto grande fosse il suo impeto, maggiore era la sua forza di vivere sempre alla presenza di Dio. Così scrisse nei suoi appunti spirituali:
“Mi sforzerò di fare in modo che fin dal mattino tutte le mie azioni siano rivolte a Dio”, “Non rinuncerò alla meditazione e alla lettura spirituale senza un serio motivo”, “Farò venti atti quotidiani di mortificazione e altrettanti di amore per Dio”, “Compiere tutte le azioni da Dio e per Dio, rinnovando frequentemente la purezza dell’intenzione… Prometto a Dio di purificare la mia intenzione in tutte le mie azioni”.

Cooperatrice Salesiana
Negli ultimi decenni del 1800, Barcellona è una città in piena “rivoluzione industriale”. La periferia della città era piena di persone molto povere. Mancavano rifugi, ospedali e scuole. Negli esercizi spirituali che fece nel 1867, Doña Dorotea scrisse tra i suoi propositi:
“La mia virtù preferita sarà la carità verso i poveri, anche se mi costerà grandi sacrifici”. E Adrián de Gispert, secondo nipote di Dorotea, ha testimoniato: “So che zia Dorotea ha fondato ospedali, rifugi, scuole, laboratori di arti e mestieri e molte altre opere. Ricordo di aver visitato alcune di esse in sua compagnia. Quando il marito era in vita, la aiutava in queste opere caritatevoli e sociali. Dopo la sua morte, salvaguardò innanzitutto il patrimonio delle sue cinque figlie; poi, i suoi beni personali (la sua ricchissima dote, il patrimonio ricevuto personalmente in eredità, i beni che il marito volle registrare a suo nome) li utilizzò per i poveri con un’amministrazione attenta e prudente”. Un testimone dichiarò sotto giuramento: “Dopo aver provveduto alla sua famiglia, dedicò il resto ai poveri come atto di giustizia”.

Avendo notizie di don Bosco, gli scrisse il 20 settembre 1882 (lei aveva sessantasei anni, don Bosco sessantasette). Gli disse che Barcellona era una città “eminentemente industriale e mercantile” e che la sua giovane e dinamica congregazione avrebbe trovato molto lavoro tra i ragazzi della periferia. Offrì una scuola per apprendisti lavoratori.

Don Felipe Rinaldi arrivò a Barcellona nel 1889 e scrive: “Ci recammo a Barcellona su sua chiamata, perché voleva provvedere soprattutto ai giovani lavoratori e agli orfani abbandonati. Comprò un terreno con una casa, di cui curò l’ampliamento. Arrivai a Barcellona quando la costruzione era già stata completata… Ho visto con i miei occhi molti casi di assistenza a bambini, vedove, anziani, disoccupati e malati. Molte volte ho sentito dire che svolgeva personalmente i servizi più umili per i malati”.

Nel 1884 pensò di affidare un asilo alle Figlie di Maria Ausiliatrice: bisognava pensare ai bambini di quella periferia.

Don Bosco poté recarsi a Barcellona solo nella primavera del 1886 e le cronache riportano ampiamente l’accoglienza trionfale che gli fu riservata nella metropoli catalana e le attenzioni affettuose e rispettose con cui Doña Dorotea, le figlie, i nipoti e i parenti circondarono il santo.

Il 5 febbraio 1888, quando fu informato della morte di don Bosco, il Beato Miguel Rúa gli scrisse: “Il nostro carissimo padre Don Bosco è volato in cielo, lasciando i suoi figli pieni di dolore”. Egli mostrò sempre una viva stima e un grato affetto per la nostra madre di Barcellona, come la chiamava, la madre dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Inoltre, prima di morire, le assicurò che le avrebbe preparato un buon posto in cielo. Nello stesso anno, Doña Dorotea consegnò ai Salesiani l’oratorio e le scuole popolari di via Rocafort, nel cuore di Barcellona.

L’ultima consegna alla Famiglia Salesiana fu la scuola “Santa Dorotea”, affidata alle Figlie di Maria Ausiliatrice. Per il suo acquisto erano necessarie 60.000 pesetas e lei le consegnò dicendo: “Dio mi vuole povera”. Quella somma fu la sua ultima provvista per la vecchiaia, ciò che conservò per vivere modestamente insieme a Maria, la sua fedele compagna.

Il Venerdì Santo del 1891, nella fredda chiesa di Maria Reparatrice, mentre faceva la colletta, contrasse una polmonite. Aveva settantacinque anni e fu subito chiaro che non avrebbe superato la crisi. Don Rinaldi andò da lei e rimase a lungo al suo capezzale. Scrive: “Nei pochi giorni in cui era ancora viva, non pensava alla sua malattia ma ai poveri e alla sua anima. Voleva dire qualcosa in particolare a ciascuna delle sue figlie e le benedisse tutte nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, come un antico patriarca. Mentre stavamo intorno al suo letto raccomandandola al Signore, a un certo punto alzò gli occhi. Il confessore le presentò il crocifisso da baciare. Noi che eravamo presenti ci inginocchiammo. Dona Dorotea si raccolse, chiuse gli occhi e spirò dolcemente”.

Era il 3 aprile 1891, cinque giorni dopo la Pasqua.

Papa Giovanni Paolo II la dichiarò “venerabile” il 9 giugno 1983, cioè “una cristiana che ha praticato in modo eroico l’amore di Dio e del prossimo”.

don Echave-Sustaeta del Villar Nicolás, sdb
Vice-Postulatore della causa della venerabile