Missionario in Amazonia

Essere missionari in Amazzonia significa lasciarsi evangelizzare dalla foresta

La bellezza degli indigeni del Rio Negro conquista i cuori e fa sì che il proprio cuore cambi, si espanda, si sorprenda e si identifichi con questa terra, al punto che è impossibile dimenticare la “cara Amazzonia”! Questa è l’esperienza di Leonardo, giovane salesiano nel cuore dell’Amazzonia.

Come è nata nel suo cuore l’idea di essere missionario?
Per molti anni questo desiderio è maturato in me ascoltando le storie dei missionari salesiani, la loro testimonianza come portatori dell’amore di Dio al mondo. Ho sempre ammirato questi fratelli che, avendo sperimentato l’amore divino nella loro vita, non potevano rimanere in silenzio; anzi, si sentivano in dovere di annunciarlo agli altri, affinché anche loro potessero dimostrare quanto fossero amati da Dio. Fu così che chiesi di fare un’esperienza nelle missioni salesiane in Amazzonia tra le popolazioni indigene. Nel 2021 ho iniziato a vivere e a lavorare come “tirocinante” nella comunità missionaria di São Gabriel da Cachoeira, nello stato dell’Amazzonia. È stata una vera e propria “scuola missionaria”, ricca di nuove scoperte ed esperienze, di sfide mai immaginate, affrontando realtà fino ad allora totalmente sconosciute.

Quali sono state le sue prime impressioni all’arrivo in una terra sconosciuta?
Dal primo momento in cui ho guardato fuori dal finestrino dell’aereo e ho visto l’immensità della foresta e i numerosi fiumi, la mia mente ha fatto “click”: sono davvero in Amazzonia! Come ho sempre visto in televisione, la regione amazzonica è di una bellezza esuberante, con splendidi paesaggi naturali, veri capolavori di Dio Creatore. Un’altra prima impressione molto bella è quella di vedere tanti fratelli e sorelle indigeni, con caratteristiche fisiche così evidenti, come il colore della pelle, gli occhi chiari e i capelli neri. Vedere la diversità e la ricchezza culturale dell’Amazzonia significa ricordare la nostra storia, ricordare la nostra origine come Brasile e capire meglio chi siamo come popolo.

 

E perché la scelta dell’Amazzonia? Che cosa ha di speciale per lei?
La Chiesa, compresa la nostra Congregazione salesiana, è essenzialmente missionaria. Tuttavia, nella regione del Nord questo è ancora più vero perché i territori sono immensi; l’accesso, generalmente via fiume, è difficile e costoso; la diversità culturale e linguistica è vasta e c’è un’enorme mancanza di sacerdoti, religiosi e altri leader che possano portare avanti l’evangelizzazione e la presenza della Chiesa in queste terre. Pertanto, c’è molto lavoro e un lavoro “pesante”, impegnativo. Non è solo il servizio delle visite, della predicazione, della celebrazione dei sacramenti, come si potrebbe pensare della vita missionaria, ma significa condividere la vita e il lavoro del popolo, portare fardelli pesanti, sentire il bisogno, l’esclusione e l’abbandono del popolo da parte dei politici; passare ore sulla strada o sul fiume; sentire le punture degli insetti; mangiare il cibo della gente semplice, “condito” con le spezie dell’amore, della condivisione e dell’accoglienza; ascoltare le storie degli anziani, spesso con parole ed espressioni che non conosciamo bene; sporcarsi i piedi e i vestiti di fango, non riscaldare le auto; rimanere senza internet e, a volte, anche senza elettricità. .. Tutto questo è coinvolto nella vita missionaria salesiana in Amazzonia!

Ci racconti qualcosa di più sull’opera salesiana dove ha vissuto? Cosa fanno i Salesiani per i giovani della regione?
Uno degli scopi della nostra comunità salesiana di Sao Gabriel è l’Oratorio e l’Opera sociale: è il parco giochi salesiano, il nostro lavoro diretto con i giovani del “Gabriel” che frequentano ogni giorno il nostro Oratorio e trovano nella nostra casa un luogo dove giocare, divertirsi e vivere in modo sano con i loro amici e colleghi. I giovani qui amano lo sport, soprattutto la passione nazionale che è il calcio. Poiché la città non offre molte opzioni per il tempo libero e lo sport, i bambini sono presenti nel nostro lavoro per tutto il tempo in cui siamo operativi e si lamentano molto quando è ora di concludere le attività della giornata. Ogni giorno passano dal nostro lavoro in media 150-200 giovani. Inoltre, il Centro Missionario Salesiano offre corsi per adolescenti e giovani, come informatica e panificazione.

E se un giovane, conoscendovi e apprezzando il carisma, esprime il desiderio di diventare salesiano, c’è un percorso di formazione?
Sì, da qualche anno la nostra comunità gestisce anche il “Centro de Formación indígena” (CFI), che ha lo scopo di accompagnare e accogliere i giovani indigeni di tutte le nostre comunità missionarie che desiderano intraprendere un accompagnamento vocazionale ed essere aiutati nella stesura di un Progetto di vita. Questo accompagnamento costituisce l’Aspirazione Indigena dell’Ispettoria Salesiana Missionaria dell’Amazzonia (ISMA). Oltre a proporre questo itinerario formativo, il CFI offre corsi di portoghese, salesianità, informatica e pasticceria, accompagnamento spirituale e psicologico e inserimento graduale nella vita salesiana. È davvero un’esperienza molto apprezzata da loro, perché sono i primi passi del cammino formativo e si svolge nel loro ambiente, con la loro gente, con l’affetto e la vicinanza dei salesiani e degli animatori laici.

Ha detto che ci sono altre comunità missionarie oltre a San Gabriel? Come mai? Come funziona il lavoro missionario a Rio Negro?
La nostra comunità di Sao Gabriel, poiché ha più collegamenti e servizi, è la base e quella che si occupa del collegamento e della logistica con le nostre missioni che si trovano nell’interno, in particolare Maturacá (con il popolo Yanomami) e Iauaretê (nel “triangolo tukano”). In queste realtà missionarie non esiste un commercio formale e, quando c’è, i prezzi sono estremamente alti. Pertanto, tutti gli acquisti di cibo, prodotti per l’igiene, materiali per le riparazioni e carburante per le imbarcazioni utilizzate nelle “itineranze” (visite pastorali alle comunità fluviali) e per la produzione di energia elettrica tramite generatore, vengono effettuati a São Gabriel e poi inviati da noi, tramite trasporto fluviale, in queste località. È un lavoro manuale molto intenso, perché dobbiamo comprare e poi trasportare molto peso sulle barche che porteranno questi prodotti ai nostri fratelli che vivono e lavorano nelle altre missioni. Portiamo sacchetti di cibo, scatole di polistirolo con la carne e diverse “carotes” (contenitori di plastica per il trasporto di liquidi) da 50 litri di carburante ciascuna. Inoltre, la nostra casa ha diverse stanze, sempre disponibili e preparate per ospitare i fratelli missionari che passano da São Gabriel, per andare o tornare dalle altre missioni. Si tratta di un vero e proprio lavoro di assistenza e di rete.

E di questi “itinerari” sui fiumi, ricorda qualche esperienza forte?
Sì, certo, in relazione alle “itineranze”, un’esperienza che mi ha segnato profondamente è stata l’itineranza a Maturacá. Abbiamo vissuto giorni di profonda esperienza dell’incontro con Dio attraverso l’incontro con l’altro, con chi è diverso da noi, con il prossimo, perché abbiamo fatto la visita pastorale, detta itineranza, alle comunità del popolo Yanomami.

Oltre alla sede della Missione salesiana a Maturacá, abbiamo visitato altre sei comunità (Nazaré, Cachoeirinha, Aiari, Maiá, Marvim e Inambú). Sono stati giorni intensi e impegnativi. In primo luogo perché ogni comunità è molto distante l’una dall’altra e l’accesso è possibile solo attraverso i fiumi della nostra amata Amazzonia, percorsi in una barca a motore (chiamata “voadeira”), sotto il sole forte o la pioggia battente. In secondo luogo, si tratta di comunità tradizionali Yanomami, quindi lo shock culturale è inevitabile, poiché hanno abitudini, costumi e modi di vita completamente diversi da quelli di noi non indigeni. In terzo luogo, ci sono le sfide pratiche, come la mancanza di elettricità 24 ore su 24, l’assenza di segnale telefonico, la scarsa scelta e varietà di cibo, il bagno e il lavaggio dei vestiti nel fiume, la convivenza con gli insetti e gli altri animali della foresta… Una vera e propria “immersione” antropologica e spirituale. Abbiamo celebrato l’Eucaristia in tutte le comunità e diversi battesimi in alcune di esse, abbiamo visitato le famiglie e pregato con i bambini. È stata una fantastica esperienza di incontro, giorni speciali, giorni di gratitudine, giorni di ritorno all’essenziale della nostra fede e della nostra spiritualità giovanile salesiana: l’amore per Gesù, frutto dell’incontro personale con Lui, e l’amore per il prossimo che si manifesta nel desiderio di stare con lui e di diventare suo amico.

Questa straordinaria “itineranza” ha indubbiamente lasciato molto da imparare nella sua vita, non è vero?
L’itineranza è una vera e propria “scuola” e ci dà lezioni di vita: il distacco, perché più “cose” si accumulano, più “pesante” diventa il viaggio; vivere il presente, perché nel mezzo dell’Amazzonia, senza accesso ai mezzi di informazione, l’unico contatto è con la realtà presente, quella che ci circonda, la foresta, il fiume, il cielo, la barca; la gratuità, perché si affrontano le difficoltà e la stanchezza senza aspettarsi gesti di umana gratitudine. Infine, l’itineranza geografica ci porta a una “itineranza interiore”, alla conversione, al ritorno all’essenziale della vita e della fede. Navigare sui fiumi dell’Amazzonia significa navigare verso i fiumi interni.  Essere in missione significa essere costantemente provocati a liberarsi da idee preconcette e rigide per essere più liberi di amare e accogliere l’altro e annunciargli la gioia del Vangelo.

Una lezione molto speciale che imparo ogni giorno in missione è che per essere un buon missionario devo essere una persona profondamente segnata e toccata dall’amore misericordioso di Dio, e solo a partire da questa esperienza posso essere pronto a “portare” e “mostrare” ovunque come Dio ci ama e può trasformare tutta la nostra vita. Imparo anche che, essendo missionario, porto e mostro questo amore, prima di tutto con la mia stessa vita donata alla missione. Senza dire una parola, per il semplice fatto di lasciare le mie origini e abbracciare nuove culture, posso rivelare che l’amore di Dio vale molto di più di tutte le cose che consideriamo preziose nella nostra vita. Pertanto, la vita del missionario è la sua prima e più grande testimonianza e annuncio!

Avete vissuto questa esperienza missionaria, ma si può dire che anche voi siete stati evangelizzati? Cosa vi ha dato soddisfazione nel cuore?
Infine, trovandomi a São Gabriel, il comune più indigeno del Brasile, “casa” di 23 gruppi etnici, multiculturale e multilingue, mi rendo conto ogni giorno che, nel chiamarci a essere missionari, Dio ci chiama a essere capaci di lasciarci incantare dalla bellezza e dal mistero che è ogni persona e ogni cultura del nostro mondo. Per questo, sull’esempio del Maestro Gesù, missionario del Padre, siamo chiamati a “svuotarci” di tutto per “riempirci” delle bellezze e delle meraviglie presenti in ogni angolo della terra e associarle alla preziosità del Vangelo. Questa è stata una delle esperienze più profonde per me.

Alla fine di tutto questo, credo che la soddisfazione venga dai sorrisi e dalle grida dei nostri bambini e bambine che giocano, corrono, saltano, tirano una palla, raccontano le loro barzellette; viene dagli sguardi curiosi e brillanti degli uomini e delle donne della foresta; la gioia viene dalla contemplazione della bellezza della natura, dalla generosità della gente e dalla perseveranza dei cristiani che rimangono, a volte, per mesi senza la presenza di un sacerdote, ma che guardano e toccano con amore e devozione i piedini dell’immaginetta della Madonna o la croce sull’altare. Nelle missioni salesiane di Rio Negro si impara a vivere senza eccessi, a valorizzare la semplicità e a gioire delle piccole cose della vita. Qui tutto diventa festa, danza, musica, celebrazione, fede? Qui si vive nella stessa povertà e semplicità dell’inizio di Valdocco, dove hanno vissuto e si sono santificati don Bosco, mamma Margherita, il bambino Savio, don Rua e tanti altri. Essere in Amazzonia ci arricchisce certamente come persone, cristiani e salesiani di Don Bosco!

Intervista di don Gabriel ROMERO al giovane salesiano Leonardo Tadeu DA SILVA OLIVEIRA, dell’Ispettoria di São João Bosco, con sede a Belo Horizonte, Minas Gerais, Brasile.

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Nuovi missionari

Il messaggio del rettor maggiore, don Ángel FERNÁNDEZ ARTIME

La prima spedizione missionaria fu benedetta dalle lacrime di don Bosco che disse:

«Noi diamo principio ad una grand’opera. Chi sa, che non sia questa partenza come un seme da cui abbia a sorgere una grande pianta?».

La profezia si è avverata.

La prima volta fu indimenticabile. Era la festa di San Martino del 1875. Il mondo non lo sapeva, ma in quell’angolo di Torino chiamato Valdocco cominciava un’impresa straordinaria: dieci giovani salesiani partivano per l’Argentina. Erano i primi missionari salesiani.

Le Memorie Biografiche raccontano quel momento con accenti epici: «Scoccavano le 4 ed echeggiavano le prime note del concerto campanario, quando sorse nella Casa un impetuoso rumore con un violento sbattersi di porte e di finestre. Erasi levato un vento così forte, che sembrava volesse atterrare l’Oratorio. Sarà stato un caso; ma il fatto è che un vento uguale soffiò nell’ora in cui si pose la pietra angolare della chiesa di Maria Ausiliatrice; un vento simile si ripeté alla consacrazione del Santuario».

La Basilica era affollata. Don Bosco salì sul pulpito. «Al suo apparire si fece in quel mare di gente profondo silenzio; un fremito di commozione passò per tutta l’udienza, che ne bevette avidamente le parole. Ogni volta che accennava direttamente ai Missionari, la voce gli si velava fin quasi a morirgli sulle labbra. Egli con isforzi virili frenava le lagrime, ma l’uditorio piangeva».

La voce mi manca, le lagrime soffocano la parola. Soltanto vi dico che se l’animo mio in questo momento è commosso per la vostra partenza, il mio cuore gode di una grande consolazione nel mirare rassodata la nostra Congregazione; nel vedere che nella nostra pochezza anche noi mettiamo in questo momento il nostro sassolino nel grande edifizio della Chiesa. Sì, partite pure coraggiosi; ma ricordatevi che vi è una sola Chiesa che si estende in Europa ed in America e in tutto il mondo, e riceve gli abitanti di tutte le nazioni che vogliono venire a rifugiarsi nel suo materno abbraccio. Come Salesiani, in qualunque rimota parte del globo vi troviate, non dimenticate che qui in Italia avete un padre che vi ama nel Signore, una Congregazione che ad ogni evenienza a voi pensa, a voi provvede e sempre vi accoglierà come fratelli. Andate adunque; voi dovrete affrontare ogni genere di fatiche, di stenti, di pericoli; ma non temete, Dio è con voi. Andrete, ma non andrete soli; tutti vi accompagneranno. Addio! Forse tutti non potremo più vederci su questa terra» (MB XI,381-390).

Abbracciandoli, don Bosco consegnò a ciascuno un foglietto con venti ricordi speciali, quasi un paterno testamento a figli che forse non avrebbe più riveduti. Li aveva scritti a matita nel suo taccuino durante un recente viaggio in treno.

L’albero cresce

Il 25 settembre abbiamo rivissuto quel momento di grazia per la 153esima volta. Oggi Si chiamano Oscar, Sébastien, Jean-Marie, Tony, Carlos… Sono 25, giovani, preparati ma portano negli occhi e nel cuore la consapevolezza e il coraggio dei primi. Sono le avanguardie di quanto ho chiesto a tutta la famiglia salesiana per questo sessennio: audacia, profezia e fedeltà.

Don Bosco aveva fatto una piccola profezia: «Noi diamo principio ad una grand’opera, non perché si abbiano pretensioni o si creda di convertire l’universo intero in pochi giorni, no; ma chi sa, che non sia questa partenza e questo poco come un seme da cui abbia a sorgere una grande pianta? Chi sa, che non sia come un granellino di miglio o di senapa, che a poco a poco vada estendendosi e non sia per fare un gran bene? Chi sa che questa partenza non abbia svegliato nel cuore di molti il desiderio di consacrarsi a Dio nelle Missioni, facendo corpo con noi e rinforzando le nostre file? Io lo spero. Ho visto il numero stragrande di coloro che chiesero di essere prescelti» (MB XI, 385).

«Essere missionario. Che parola!» testimonia un salesiano dopo quarant’anni di vita missionaria. «Una persona anziana mi disse: «Non parlarmi di Cristo; siediti qui accanto a me, voglio sentire il tuo odore e se questo è il Suo odore allora mi potrai battezzare».

Il quinto dei consigli di don Bosco ai missionari era: “prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri”.

Viviamo un tempo da affrontare con una mentalità rinnovata, che “sappia superare le frontiere”. In un mondo in cui le frontiere rischiano di chiudersi sempre più, la profezia della nostra vita consiste anche in questo: mostrare che per noi non ci sono frontiere. L’unica realtà che abbiamo è Dio, il Vangelo e la missione.

Sogno che dire oggi e nei prossimi anni “Salesiani di Don Bosco” significhi, per le persone che ascoltano il nostro nome, che siamo consacrati un po’ “pazzi”, cioè “pazzi” perché amano i giovani, soprattutto i più poveri, i più abbandonati e indifesi, con un vero cuore salesiano. Questa mi sembra la definizione più bella che si possa dare oggi dei figli di don Bosco. Sono convinto che il nostro Padre vorrebbe proprio questo.

Ancora partono per donare la vita a Dio. Non solo a parole. La Congregazione ha pagato anche il tributo del sangue. Il motto sacerdotale che il martire Rudolf Lunkenbein aveva scelto per l’Ordinazione era “Sono venuto per servire e dare la vita”. Nella sua ultima visita in Germania, nel 1974, sua madre lo pregava di fare attenzione, perché l’avevano informata dei rischi che correva suo figlio. Lui rispose: «Mamma, perché ti preoccupi? Non c’è niente di più bello che morire per la causa di Dio. Questo sarebbe il mio sogno”.

Ho la ferma convinzione che la nostra Famiglia deve camminare nei prossimi sei anni verso una maggiore universalità e senza frontiere. Le nazioni hanno confini. La nostra generosità, che sostiene la missione, non può né deve conoscere limiti. La profezia di cui dobbiamo essere testimoni come Congregazione non comprende i confini.

Un missionario raccontava di aver celebrato la messa per gli indigeni delle montagne vicine a Cochabamba, in Bolivia. Era un giovane prete e quasi non conosceva la lingua quechua, e alla fine, mentre si incamminava verso casa, sentì di essere stato un fiasco e di non essere riuscito per nulla a comunicare. Ma si presentò un vecchio contadino, vestito poveramente, e ringraziò il giovane missionario per essere venuto.

Poi fece una mossa incredibile: «Prima che io riesca ad aprire bocca, il vecchio campesino mette le mani nelle tasche del suo mantello e ne trae due manciate di variopinti petali di rosa. Si alza in punta di piedi e a gesti mi chiede di aiutarlo abbassando la testa. Così mi fa cadere i petali sulla testa, e io resto senza parole. Fruga di nuovo nelle tasche e riesce a estrarne altre due manciate di petali. Continua a ripetere il gesto, e la scorta di petali di rosa rossi, rosa e gialli sembra infinita. Io sto semplicemente lì e lo lascio fare, guardando i miei huaraches (sandali di cuoio), bagnati dalle mie lacrime e coperti di petali di rosa. Alla fine si congeda e io resto solo. Solo con la fresca fragranza delle rose».

Vi posso dire per esperienza che milioni di famiglie in tutto il mondo sono pieni di riconoscenza verso i Salesiani che sono diventati “vangelo” in mezzo a loro.




Lettera Rettor Maggiore. Appello missionario 2023

Ricordiamo il giorno in cui 163 anni fa – 18 dicembre 1859 – Don Bosco fondò la nostra “Pia Società di San Francesco di Sales”. Da allora essa non ha mai smesso di diffondersi. Grazie ai nostri missionari oggi il carisma di Don Bosco è presente in 134 paesi, e stiamo preparando ad iniziare nuove presenze in Niger e Algeria per l’anno prossimo. Già il 6° successore di Don Bosco, Don Luigi Ricceri, ci ha ricordato che lo spirito e l’impegno missionario non erano solo un interesse personale del nostro fondatore ma un vero charisma fundationis che egli ha trasmesso a noi e a tutta la Famiglia Salesiana (ACG 267, p.14). Ecco perché oggi è una bella occasione per inviarvi questo appello missionario.

All’invio della prima spedizione missionaria nel 1875 Don Bosco aveva fatto una profezia: “… Chi sa, che non sia questa partenza e questo poco come un seme da cui abbia a sorgere una grande pianta? … Chi sa che questa partenza non abbia svegliato nel cuore di molti il desiderio di consacrarsi a Dio nelle Missioni, facendo corpo con noi e rinforzando le nostre file? Io lo spero. …” (MB XI, 385). Infatti, nonostante che nel 1875 ci fossero solo 171 salesiani (64 professi perpetui di cui 49 sacerdoti, e 107 professi temporanei) e 81 novizi, Don Bosco aveva inviato 11 salesiani in Argentina. Alla sua morte c’erano 773 salesiani di cui 137 erano missionari inviati da Don Bosco stesso in 11 spedizioni missionarie.

Oggi ci troviamo in un contesto molto diverso dal tempo di Don Bosco. Oggi le missioni’ non possono essere comprese solo come movimento verso le terre di missione’, come una volta. Oggi i missionari salesiani provengono dai cinque continenti e sono inviati dal Rettor Maggiore ai cinque continenti. In un mondo in cui le frontiere rischiano di chiudersi sempre più, i missionari salesiani sono inviati non solo per rispondere al bisogno di personale ma, soprattutto, per testimoniare che per noi non ci sono frontiere, per contribuire al dialogo interculturale, all’inculturazione della fede e del nostro carisma e per innescare processi che possano generare nuove vocazioni locali.

Nella mia prima lettera come Rettor Maggiore ho manifestato la mia convinzione che “una grande ricchezza della nostra Congregazione sia proprio la sua capacità missionaria” (ACG 419, p. 24). Ho la ferma convinzione che noi salesiani abbiamo bisogno di camminare verso una maggiore consapevolezza della nostra internazionalità. E la generosità missionaria dei confratelli è una testimonianza profetica che la nostra Congregazione è senza frontiere. Infatti, la presenza dei missionari nell’Ispettoria aiuta a riflettere meglio l’internazionalità della nostra Congregazione e a capire che il carisma salesiano non è monocolore e che le differenze e la multiculturalità arricchiscono l’Ispettoria e tutta la nostra Congregazione.

Al contrario, un’Ispettoria composta solo da confratelli della stessa cultura rischia di ridursi a un’enclave etnica, meno sensibile alla sfida d’interculturalità e meno capace di vedere oltre i confini del proprio mondo culturale. E per questo che ho insistito varie volte che noi non facciamo professione religiosa per un paese o per un’Ispettoria. Siamo Salesiani di Don Bosco nella Congregazione e per la missione, là dove ci sia più bisogno di noi e dove sia possibile il nostro servizio.

Già nel 1972 il nostro Capitolo Generale Speciale aveva considerato il rilancio missionario come “un termometro della vitalità pastorale della Congregazione e un mezzo efficace contro il pericolo dell’imborghesimento” (CGS, 296). La capacità dei confratelli di accogliere e accompagnare i nuovi missionari inviati nella propria Ispettoria è altrettanto un termometro del proprio spirito missionario.

Grazie allo spirito missionario nella nostra Congregazione, ci sono ancora confratelli che partono per donare la propria vita a Dio come missionari. Al mio appello del 18 dicembre 2021 scorso 36 salesiani hanno risposto inviandomi la lettera della loro disponibilità missionaria. Dopo un attento discernimento, 25 sono stati scelti come membri della 153a spedizione missionaria quest’anno. Gli altri continuano il loro discernimento.

Dunque, con questa lettera, invito voi, cari confratelli, a pregare e fare un attento discernimento per scoprire se il Signore vi chiama, dentro la nostra comune vocazione salesiana, ad essere missionari, scelta che implica un impegno per tutta la vita (ad vitam).

Invito gli Ispettori, con loro Delegati per l’animazione missionaria (DIAM), ad essere i primi ad aiutare i confratelli a coltivare il desiderio missionario e a facilitare il loro discernimento, invitandoli, dopo il dialogo personale, a mettersi a disposizione del Rettor Maggiore per rispondere ai bisogni missionari della Congregazione. Poi il Consigliere Generale per le Missioni, a nome mio, continuerà il discernimento che porterà alla scelta dei missionari per la 154 spedizione missionaria che si terrà, Dio volendo, domenica 24 settembre 2023, nella Basilica di Maria Ausiliatrice di Valdocco, come si è fatto sin dal tempo di Don Bosco.

Il dialogo con il Consigliere Generale per le Missioni e la riflessione condivisa all’interno del Consiglio Generale mi permette di precisare le urgenze individuate per il 2023, dove vorrei che un numero significativo di confratelli potesse essere inviato:
• in Sudafrica, Mozambico e nelle nuove frontiere nel continente Africano;
• in Albania, Kosovo, Slovenia e in altre nuove frontiere del Progetto Europa;
• in Azerbaijan, Bangladesh, Nepal, Mongolia e Yakutia;
• nelle nostre numerose presenze nelle isole dell’Oceania;
• nelle frontiere missionarie dell’America Latina e con i popoli indigeni.

Vi saluto, cari confratelli, con vero affetto e con un ricordo davanti l’Ausiliatrice e Don Bosco qui a Valdocco.

Torino Valdocco, 18 dicembre 2022




Pastorale giovanile e famiglia

Investire sull’educazione dei giovani per costruire le famiglie di oggi e di domani

L’educazione dei giovani è compito originale dei genitori, connesso alla trasmissione della vita, e primario rispetto al compito educativo di altri soggetti; quindi il ruolo della Comunità Educativo-Pastorale si propone come complementare, non sostitutivo, del ruolo educativo dei genitori dei giovani. Il contributo della vocazione familiare, genitoriale e di coppia è stato individuato in almeno tre temi centrali: l’amore, la vita e l’educazione.

La cura della famiglia suscita un grande interesse in tutto il mondo. Una particolare attenzione è dedicata alla questione attraverso articoli, pubblicazioni scientifiche e atti dei convegni. Nello stesso tempo, alla famiglia è chiesto di prendersi cura dei legami che costituiscono la fitta trama che sostiene la persona dei giovani nel processo di crescita e che incrementano la qualità della vita di una comunità. Perciò, bisogna promuovere adeguate strategie educativo-pastorali di sostegno alla famiglia, sul ruolo che ha nella costruzione dei rapporti interpersonali e intergenerazionali, nonché nella complessiva concezione dell’educazione e dell’accompagnamento delle nuove generazioni.

Nella sua complessità, ogni famiglia è come un libro che ha bisogno di essere letto, interpretato e compreso con molta cura, attenzione e rispetto. Nella nostra società contemporanea, la vita familiare presenta, di fatto, alcune condizioni che la espongono a fragilità.

Incontrare don Bosco è un viaggio sempre attuale. Seguire i suoi sogni; comprendere la sua passione educativa; conoscere il suo talento nel tirare fuori i giovani da “strade cattive” per farli diventare “buoni cristiani e onesti cittadini”, per educarli alla fede cristiana e alla coscienza sociale, per guidarli a una professione onesta, è un’esperienza di straordinaria intensità umana e familiare. L’esperienza di Don Bosco ha radici lontane. La sua vita, infatti è popolata da famiglie, da molteplicità di relazioni, da generazioni, da giovani senza famiglia, da storie di amore e di crisi familiari, fin dalla prima pagina della sua vita, quando deve affrontare molto giovane la perdita del padre.

La Comunità Educativo-Pastorale (CEP) è una delle forme, se non la forma, in cui si concretizza lo spirito di famiglia. In esso il Sistema Preventivo diventa operativo in un progetto comunitario. In quanto grande famiglia che si occupa dell’educazione e dell’evangelizzazione dei giovani su uno specifico territorio, la CEP è l’attualizzazione di quella intuizione che, all’origine del carisma salesiano, Don Bosco ripeteva spesso: “Ho sempre avuto bisogno di tutti”. A partire da questa convinzione, costituisce attorno a sé, fin dai primi tempi dell’Oratorio, una comunità-famiglia che non tiene conto delle diverse condizioni culturali, sociali ed economiche dei collaboratori e nella quale gli stessi giovani sono protagonisti.

L’educazione dei giovani è compito originale dei genitori, connesso alla trasmissione della vita, e primario rispetto al compito educativo di altri soggetti; quindi il ruolo della CEP si propone come complementare, non sostitutivo, del ruolo educativo dei genitori dei giovani.
La teologia pastorale, in questo processo di responsabilizzazione, afferma che la famiglia è oggetto, contesto e soggetto dell’azione pastorale. Questa riflessione ci ha portato ad interrogarci sull’originalità della famiglia all’interno della CEP, la quale può occupare un posto specifico. Il contributo della vocazione familiare, genitoriale e di coppia è stato individuato in almeno tre temi centrali: l’amore, la vita e l’educazione.

Per questo, sia a livello locale che ispettoriale, occorre che si inizino a progettare percorsi formativi per gli operatori/formatori, integrando le famiglie nel PEPS, dove la proposta educativa e pastorale sia strutturata intorno ad azioni che vedano la famiglia protagonista a favore dei giovani. Tali percorsi devono avere come nucleo centrale il confronto, la metodologia della pedagogia familiare e la Spiritualità Salesiana.
Per questo motivo diventa essenziale riprogettarsi insieme in senso vocazionale; contestualmente entrare nel quotidiano delle famiglie, parlare il loro linguaggio, stare accanto alle fragilità delle relazioni e riconoscere le fatiche presenti nel vissuto di tante di loro avendo cura dei giovani senza famiglia, delle giovani famiglie, delle situazioni familiari più fragili (dalla povertà, disuguaglianza e vulnerabilità) promuovendo la solidarietà tra famiglie. Diventa poi necessario accompagnare l’amore delle giovani coppie/famiglie avendone cura e progettando una buona e costante formazione all’amore per lo sviluppo di ogni vocazione.

Tutto ciò che è stato detto su Pastorale Giovanile Salesiana e Famiglia esige, per essere realizzato, l’avvio di processi di formazione per tutti i membri del CEP e quindi sia per i salesiani consacrati che per i laici che sostengono lo sviluppo del PEPS e della Famiglia Salesiana.




Famiglia salesiana. Come rami di un albero

Da sempre ammiravo don Bosco, la sua passione per i giovani, la sua spiritualità fatta di gioia e di concretezza, ma ignoravo che attorno a lui ci fosse una grande Famiglia. Quando tempo fa, qualcuno mi parlò per la prima volta della Famiglia Salesiana, mi indicò una grande quercia che si ergeva maestosa davanti a me e mi disse: “Guarda quell’albero. La Famiglia Salesiana è così: ha un forte e solido tronco che è don Bosco, ben radicato a terra, alla realtà concreta del quotidiano – i giovani, i poveri, le sfide di ogni giorno che attendono risposte, … – ed ha tanti rami che guardano al cielo – i vari Gruppi nati dal suo carisma. Ci sono Gruppi di religiosi e gruppi di laici, uomini e donne, ben trentadue realtà che condividono la stessa spiritualità, la stessa passione per la missione, ma ognuno la realizza secondo la sua modalità specifica!”.

Mi piacque l’immagine dell’albero: i rami erano l’uno vicino all’altro, crescevano autonomamente, ma uniti al tronco e si nutrivano della stessa linfa della pianta. Insieme rendevano l’albero frondoso, rigoglioso, un riparo eccezionale per i tanti uccelli che l’avevano scelto come loro casa. Poteva essere una casa anche per me! Mi piacque anche l’idea della “famiglia”: mi sapeva di buono, di intimità, di sostegno reciproco.

La prima cosa che attirò il mio interesse è stato il fatto che tutti i Gruppi insieme, pur nella loro autonomia, formano una grande realtà dove si vive un clima di fraternità e di gioia, di prossimità e di confidenza. È uno stile che caratterizza tutti i Gruppi: i Salesiani di Don Bosco, le Figlie di Maria Ausiliatrice, i Salesiani Cooperatori, l’Associazione dell’ADMA e tutti quelli che, nel corso degli anni, sono stati fondati da “figli di don Bosco”, ognuno con la propria peculiarità. Ci sono suore che si occupano dei lebbrosi e quelle che svolgono la loro missione in piccoli centri dove non arrivano altri; religiose che si mettono a servizio degli indigeni ed altre che accolgono i bambini. E poi ci sono Gruppi di laici, da quelli che evangelizzano attraverso i mass media a quelli che si occupano dell’attività missionaria ad gentes o che si impegnano a essere presenti nel sociale, portando i valori ricevuti negli ambienti salesiani. Infine ci sono anche gli Istituti Secolari maschili e femminili, con laici consacrati impegnati a farsi missione nel cuore del mondo.

Una grande varietà di vocazioni unite dall’unico carisma, dall’unica spiritualità: quella di don Bosco.

Volli anch’io entrare in questa avventura. Man mano che andavo avanti capivo che cosa significasse “appartenere”: come far parte di una famiglia naturale non significa semplicemente avere uno stesso cognome, ma è anche partecipare alla sua storia, condividere i suoi valori, i suoi progetti, le sue fatiche, così è per la Famiglia Salesiana. Appartenere ad essa è una scelta, è una vocazione alla quale si risponde e da quel momento si cresce insieme, si creano e si rinvigoriscono legami, si sogna insieme, si progetta insieme, si costruisce insieme, ci si sostiene, ci si AMA. È questo fare Famiglia!

Già nel 2009 il Successore di don Bosco del tempo, don Pascual Chavez, diceva con forza: “A questa Famiglia faccio il pressante invito ad acquisire una nuova mentalità, a pensarsi ed agire sempre come Movimento, con intenso spirito di comunione (concordia), con convinta volontà di sinergia (unità di intenti), con matura capacità di lavorare in rete (unità di progetti)”.

Non, allora, un’aggregazione di Gruppi che, come monadi, vivono in modo auto-referenziale, ignorando il cammino degli altri, quanto piuttosto la risposta ad una chiamata a vivere in piena comunione, realizzando una vera rivoluzione copernicana! Si tratta di poter avvertire, quando si entra a far parte di un gruppo salesiano, che non si è soli, che in primo luogo si entra a far parte di una Famiglia, di un Movimento di spiritualità apostolica, che poi si specifica in una particolare modalità di vivere lo stesso dono. Si tratta di imparare a riconoscersi come parte di un insieme e a comprendere che, camminando e operando in sinergia con gli altri, ci si arricchisce tutti e si possono ottenere migliori risultati. Si tratta di imparare a riconoscere le ricchezze dei carismi degli altri, di impegnarsi a far crescere non solo il proprio, ma anche gli altri Gruppi e a costruire una comunione fatta di rispetto delle specificità di ognuno, di collaborazione, di apprezzamento per tutti.

Don Bosco ha veramente avuto un’intuizione originale e affascinante: unire le forze per una missione più efficace!

In una lettera al cardinale Giovanni Cagliero (27 aprile 1876), infatti, don Bosco scriveva: “Una volta poteva bastare l’unirsi insieme nella preghiera, ma oggidì che sono tanti i mezzi di pervertimento, soprattutto a danno della gioventù di ambo i sessi, è mestieri unirsi nel campo dell’azione e operare”.

E ancora nel Bollettino Salesiano del gennaio 1878, rivolgendosi ai cooperatori: “Bisogna unirci tra noi e tutti con la Congregazione. Uniamoci dunque con il mirare allo stesso fine e con lo usare gli stessi mezzi per conseguirlo. Uniamoci dunque come una sola famiglia con i vincoli della fraterna carità”.

Questo, “lavorare insieme” non sempre vuol dire, però, lavorare “gomito a gomito”, non vuol dire avere un’uniformità di intervento, non vuol dire fare tutti la stessa cosa, ma saper leggere insieme i contesti personali e sociali dei giovani, saper trovare strategie possibili di intervento per raggiungere obiettivi condivisi, sapersi coordinare, in sinergia, nella reciprocità, nella responsabilità comune e di ognuno.

Come in qualsiasi famiglia, anche nella Famiglia di Don Bosco ognuno ha il suo ruolo, ma tutti sono protesi a raggiungere i medesimi traguardi. Ogni gruppo ha il suo specifico, che va rispettato e valorizzato; ha la sua caratterizzazione che non esaurisce da sola il carisma che lo Spirito ha donato attraverso don Bosco alla Chiesa e al mondo, ma ne mette in luce aspetti sempre nuovi ed originali. Nessuno, d’altra parte, può dirsi “proprietario” del carisma, ma semplicemente custode! Nella Famiglia Salesiana si può dire che ogni gruppo è incompleto senza l’altro. Tutto questo mi fa pensare a un volto di don Bosco realizzato con tante tessere di un puzzle: se mancano alcuni pezzi, i tratti della figura saranno deturpati, il volto non potrà riconoscersi. Le tessere unite mostreranno un don Bosco completo.

Insieme, in comunione, per vivere la missione! Così tutti i Gruppi possono collaborare alla formazione e all’approfondimento carismatico; possono, partendo dalle situazioni concrete, programmare insieme e promuovere un impegno condiviso nel territorio dove ognuno possa offrire la propria “specializzazione”; possono lavorare in rete in spirito fraterno, per risultare più efficaci.

Sappiamo bene come oggi sia urgente impegnarsi per un mondo più giusto e più umano; come sia necessario indicare orizzonti di speranza a tanti giovani; come sia indispensabile testimoniare solidarietà, unità, comunione in una società costantemente tentata a chiudersi nel privato.

Sì, questa è veramente una bella Famiglia!

Voglio cantare il mio grazie a don Bosco che, disponibile allo Spirito Santo, ha gettato un seme nella terra. Quel seme ha germogliato, è diventato una grande pianta con tanti rami, foglie, fiori: … un unico grande albero.

Ora so che chiunque senta la stessa passione di don Bosco, lo stesso desiderio di farsi missione per i giovani, i poveri, gli ultimi, troverà il suo posto tra le sue fronde e contribuirà a rendere il mondo più bello.

Giuseppina BELLOCCHI




Gli invisibili altri don Bosco

I lettori del Bollettino Salesiano sanno già del viaggio intercontinentale che ha fatto l’urna di don Bosco alcuni anni fa. I resti mortali del nostro santo hanno raggiunto decine e decine di nazioni in tutto il mondo e si sono soffermati in un migliaio di città e paesi, accolti ovunque con ammirazione e simpatia. Non so quale salma di santo abbia viaggiato tanto e quale salma di italiano sia stata accolta con tanto entusiasmo oltre i confini del proprio paese. Forse nessuna.

Se questo “viaggio” è storia conosciuta, non lo è certamente il viaggio intercontinentale fatto dell’ACSSA (Associazione dei Cultori di Storia Salesiana) dal novembre 2018 al marzo 2019 per coordinare una serie di quattro Seminari di studio promossi dalla stessa Associazione nelle città di Bratislava (Slovacchia), Bangkok (Thailandia), Nairobi (Kenia), Buenos Aires (Argentina). Il quinto era stato celebrato a Hyderabad (India) nel giugno 2018.

Ebbene: in questi viaggi non ho visto le case, i collegi, le scuole, le parrocchie, le missioni salesiane, come ho fatto altre volte e come può fare chiunque viaggi un po’ ovunque dal nord al sud, dall’est all’ovest del mondo; ho invece incontrato una storia di don Bosco, tutta da scrivere.

Gli altri don Bosco

Il tema dei Seminari di studio era infatti quello di presentare figure di Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice, defunti, che, in un periodo breve o lungo della loro vita, si fossero segnalate come particolarmente significative e rilevanti, e soprattutto abbiano lasciato traccia dopo la loro morte. Alcuni di loro poi, sono stati degli autentici “innovatori” del carisma salesiano, capaci di inculturarlo nelle modalità più varie, ovviamente nella più assoluta fedeltà a don Bosco e al suo spirito.

Ne è sorta una galleria di un centinaio di uomini e donne del XX secolo, tutti diversi fra loro, che hanno saputo farsi “altri don Bosco”: aprire cioè gli occhi sulla loro terra di nascita o di missione, rendersi conto dei bisogni materiali, culturali, spirituali dei giovani colà residenti, soprattutto dei più poveri, ed “inventarsi” il modo di soddisfarli il meglio possibile.

Vescovi, preti, suore, salesiani laici, membri della Famiglia salesiana: tutti personaggi, uomini e donne, che senza essere santi – nelle nostre ricerche abbiamo escluso per principio i santi e quelli già avviati agli altari – hanno realizzato in pienezza la missione educativa di don Bosco in ambiti e ruoli diversi: come educatori e sacerdoti, come professori e maestri, animatori di oratori e centri giovanili, fondatori e direttori di opere educative, formatori di vocazioni e di nuovi istituti religiosi, come scrittori e musici, architetti e  costruttori di chiese e collegi, artisti del legno e della pittura, missionari ad gentes, testimoni della fede in carcere, semplici salesiani e semplici Figlie di Maria Ausiliatrice. Fra loro non pochi hanno vissuto spesso una vita di duri sacrifici, superando ostacoli di ogni genere, imparando lingue difficilissime, rischiando sovente la morte per mancanza di condizioni igienico-sanitarie accettabili, per condizioni climatiche impossibili, per regimi politici ostili e persecutori, anche per attentati veri e propri. L’ultimo di questi è avvenuto proprio mentre ero in partenza per Nairobi: il salesiano spagnolo, don Cesare Fernández, assassinato a sangue freddo il 15 febbraio 2018 alla frontiera fra Togo e Burkina Faso. Uno dei più recenti “martiri” salesiani, potremmo definirlo con cognizione di causa, conoscendone la persona.

Una storia da conoscere

La Boca, quartiere di Buenos Aires, Argentina; prima missione fra gli emigrati

Che dire allora? Che anche questa è storia sconosciuta di don Bosco, o, se vogliamo, dei Figli e delle Figlie del santo. Se la l’urna del santo è stata accolta, come dicevamo, con tanto rispetto e stima da autorità pubbliche e dalla popolazione semplice anche in paesi non cristiani, significa che i suoi Figli e Figlie non ne hanno solo cantate le lodi – anche questo è stato fatto di sicuro, visto che l’immagine di don Bosco si ritrova un po’ ovunque –  ma ne hanno realizzato i sogni: far conoscere l’amore di Dio per i giovani, portare la buona novella del Vangelo dovunque, fino alla fine del mondo (nella Terra del Fuoco!).

Chi, come me ed i miei colleghi dell’ACSSA, ha potuto in febbraio e marzo del 2018 ascoltare esperienze di vita salesiana vissuta nel secolo XX in una cinquantina di paesi di quattro continenti, non può che affermare, come fece sovente don Bosco guardando lo sviluppo impressionante della congregazione sotto i suoi occhi: “Qui c’è il dito di Dio”.  Se il dito di Dio c’è stato nelle opere e fondazioni salesiane, c’è stato anche negli uomini e donne che all’ideale evangelico realizzato alla maniera di don Bosco hanno consacrato l’intera loro esistenza.

“Santi della porta accanto” questi personaggi presentati? Qualcuno certamente, pur considerando i loro limiti personali, i loro caratteri, i loro capricci, e, perché no, i loro peccati (ma che solo Dio conosce). Tutti però erano muniti di immensa fede, di tanta speranza, di forte carità e generosità, di tanto amore a don Bosco e alle anime. Alcuni poi – si pensi ai missionari e missionarie pionieri in Patagonia – si è tentati di definirli veri “pazzi”, pazzi per Dio e per le anime ovviamente.

Gli esiti concreti di questa storia sono sotto gli occhi di tutti, ma i nomi di molti protagonisti sono rimasti finora pressoché “invisibili”. Possiamo conoscerli leggendo “Volti di uno stesso carisma: Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice nel XX secolo”, un libro multilingue, dalla Editrice LAS, dentro la Collana, “Associazione Cultori Storia Salesiana – Studi”.

Se il male trascina, il bene fa altrettanto. “Bonum est diffusivum sui” scriveva san Tommaso d’Aquino secoli fa. I salesiani e le salesiane presentate nel corso dei nostri Seminari ne sono la prova; accanto a loro o al loro seguito altri hanno poi fatto altrettanto, fino ad oggi.

Presentiamo brevemente questi nuovi volti di don Bosco.

1 Antonio COJAZZI, don 1880-1953 educatore geniale Educatori sul campo EU
2 Domenico MORETTI, don 1900-1989 esperienza negli oratori salesiani con i giovani più poveri Educatori sul campo EU
3 Samuele VOSTI, don 1874-1939 ideatore e promotore di un rinnovato oratorio festivo a Valdocco Educatori sul campo EU
4 Karl ZIEGLER, don 1914-1990 amante della natura e scout Educatori sul campo EU
5 Alfonsina FINCO, suor 1869-1934 dedizione per l’infanzia abbandonata Educatori sul campo EU
6 Margherita MARIANI, suor 1858-1939 Figlie di Maria Ausiliatrice a Roma Educatori sul campo EU
7 Sisto COLOMBO, don 1878-1938 uomo di cultura e di animo mistico Educatori sul campo EU
8 Franc WALLAND, don 1887-1975 teologo e ispettore Educatori sul campo EU
9 Maria ZUCCHI, suor 1875-1949 l’impronta salesiana nell’Istituto Don Bosco di Messina Educatori sul campo EU
10 Clotilde MORANO, suor 1885-1963 l’insegnamento dell’educazione fisica femminile Educatori sul campo EU
11 Annetta URI, suor 1903-1989 dalla cattedra ai cantieri: il coraggio di costruire il futuro della scuola Educatori sul campo EU
12 Frances PEDRICK, suor 1887-1981 la prima Figlia di Maria Ausiliatrice a laurearsi all’Università di Oxford Educatori sul campo EU
13 Giuseppe CACCIA, coadiutore 1881-1963 una vita dedicata all’editoria salesiana Educatori sul campo EU
14 Rufillo UGUCCIONI, don 1891-1966 scrittore per ragazzi, evangelizzatore e divulgatore di valori salesiani Educatori sul campo EU
15 Flora FORNARA, suor 1902-1971 una vita per il teatro educativo Educatori sul campo EU
16 Gaspar MESTRE, coadiutore 1888-1962 la scuola salesiana di intaglio, scultura e decorazione di Sarriá (Barcellona) Educatori sul campo EU
17 Wictor GRABELSKI, don 1857-1902 un precursore dell’opera salesiana in Polonia Educatori sul campo EU
18 Antoni HLOND, don 1884-1963 musicista, compositore, fondatore di scuola per organisti Iniziatori EU
19 Carlo TORELLO, don 1886-1967 devozione popolare e memoria civica a Latina Iniziatori EU
20 Jan KAJZER coadiutore 1892-1976 ingegnere coautore dello stile polacco “art decò” e modernizzatore della scuola salesiana professionale di Oświęcim Iniziatori EU
21 Antonio CAVOLI, don 1888-1972 fondatore di congregazione religiosa in Giappone ispirata al carisma salesiano Iniziatori EU
22 Iside MALGRATI, suor 1904-1992 salesiana innovativa nella stampa, nella scuola e nella formazione professionale Iniziatori EU
23 Anna JUZEK, suor 1879-1957 contributo all’impianto delle opere delle Figlie di Maria Ausiliatrice in Polonia Iniziatori EU
24 Mária ČERNÁ, suor 1928-2011 fondamento della rinascita delle Figlie di Maria Ausiliatrice in Slovacchia Iniziatori EU
25 Antonio SALA, don 1836-1895 economo di Valdocco ed economo generale della prima ora salesiana SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
26 Francesco SCALONI, don 1861-1926 una straordinaria figura di superiore salesiano SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
27 Luigi TERRONE, don 1875-1968 maestro dei novizi e direttore SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
28 Marcelino OLAECHEA, monsignore 1889-1972 promotore di alloggi per lavoratori SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
29 Stefano TROCHTA, cardinale 1905-1974 martire del nazismo e del comunismo SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
30 Alba DEAMBROSIS, suor 1887-1964 costruttrice dell’opera salesiana femminile nell’area di lingua tedesca SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
31 Virginia FERRARO ORTÍ, suor 1894-1963 da sindacalista a direttrice salesiana SDB e FMA in ruoli dirigenziali EU
32 Raffaele PIPERNI, don 1842-1930 parroco “mediatore” dell’integrazione degli immigrati italiani nella mainstream di San Francisco Pionieri in missione AM, AS, AF
33 Remigio RIZZARDI, don 1863-1912 il padre dell’apicoltura in Colombia Pionieri in missione AM, AS, AF
34 Carlos PANE, don 1856-1923 pioniere della presenza salesiana in Spagna e Perù Pionieri in missione AM, AS, AF
35 Florencio José MARTÍNEZ EMBODAS, don 1894-1971 un modo salesiano di costruire Pionieri in missione AM, AS, AF
36 Martina PETRINI PRADO, suor 1874-1965 Figlie di Maria Ausiliatrice; origini in un Uruguay in via di modernizzazione Pionieri in missione AM, AS, AF
37 Anna María COPPA, suor 1891-1973 fondatrice e volto della prima scuola cattolica dell’Ecuador Pionieri in missione AM, AS, AF
38 Rose MOORE, suor 1911-1996 pioniera nella riabilitazione dei giovani tailandesi non vedenti Pionieri in missione AM, AS, AF
39 Mirta MONDIN, suor 1922-1977 alle origini della prima scuola cattolica femminile a Gwangju (Korea) Pionieri in missione AM, AS, AF
40 Terezija MEDVEŠEK, suor 1906-2001 una valorosa missionaria nel nord-est dell’India Pionieri in missione AM, AS, AF
41 Nancy PEREIRA, suor 1923-2010 instancabile dedizione per i poveri Pionieri in missione AM, AS, AF
42 Jeanne VINCENT, suor 1915-1997 una delle prime missionarie di Port-Gentil, Gabon Pionieri in missione AM, AS, AF
43 Maria Gertrudes DA ROCHA, suor 1933-2017 missionaria ed economa in Mozambico Pionieri in missione AM, AS, AF
44 Pietro GIACOMINI, monsignore 1904-1982 fioritura di un’obbedienza SDB e FMA in ruoli dirigenziali AM, AS, AF
45 José Luis CARREÑO ECHANDIA, don 1905-1986 un missionario poliedrico con un’opzione preferenziale per i poveri SDB e FMA in ruoli dirigenziali AM, AS, AF
46 Catherine MANIA, suor 1903-1983 prima ispettrice dell’India nordorientale SDB e FMA in ruoli dirigenziali AM, AS, AF
47 William Richard AINSWORTH, don 1908-2005 un saggio sulla leadership salesiana moderna SDB e FMA in ruoli dirigenziali AM, AS, AF
48 Blandine ROCHE, suor 1906-1999 la presenza salesiana negli anni difficili della Tunisia post-indipendenza SDB e FMA in ruoli dirigenziali AM, AS, AF



Lettera Rettor Maggiore. Artemide ZATTI

«CREDETTI, PROMISI, GUARII!»
Artemide Zatti: Vangelo della Vocazione e Chiesa della Cura




«Il
mosaico dei nostri santi e beati, pur essendo abbastanza ricco quanto
a rappresentatività -Fondatore, Cofondatrice, Rettori
Maggiori, missionari, martiri, sacerdoti, giovani – era ancora privo
del tassello prezioso della figura di un coadiutore. Ora anche questo
si sta realizzando»1.

Così
don Juan Edmundo Vecchi, ottavo Successore di don Bosco, cominciava
la sua lettera in occasione della beatificazione di Artemide Zatti.

Se
al “mosaico dei nostri santi” mancava una tessera, oggi
questo mosaico ha una lucentezza del tutto particolare perché,
tra poche settimane, ci sarà dato di vivere un grande dono del
Signore: vedere uno dei figli di Don Bosco, coadiutore salesiano,
emigrato italiano in Argentina e infermiere, canonizzato da Papa
Francesco il prossimo 9 ottobre 2022.

Artemide
Zatti sarà, dunque, il primo
santo salesiano non martire ad essere canonizzato
.
Senza dubbio la canonizzazione del primo santo salesiano e di un
salesiano coadiutore dà e darà un tocco di completezza
alla serie di modelli di spiritualità salesiana, che la Chiesa
dichiara ufficialmente tali.

Riporto
la bellissima testimonianza personale, piena di profondità
spirituale e di fede, resa da Artemide Zatti nel 1915 a Viedma, in
occasione dell’inaugurazione di un monumento funerario posto
sulla tomba del Padre Evasio Garrone (1861-1911), salesiano
missionario benemerito e considerato da Artemide insigne benefattore.

«Se
io sto bene, sono sano e in condizione di fare un po’ di bene
al mio prossimo infermo, lo debbo al Padre Garrone, Dottore, che
vedendo peggiorare di giorno in giorno la mia salute, essendo io
affetto da tubercolosi con frequenti emottisi, mi disse decisamente
che, se non volevo finire come molti altri, facessi una promessa a
Maria Ausiliatrice di rimanere sempre al fianco suo, aiutandolo nella
cura degli infermi, che egli, confidando in Maria, m’avrebbe
guarito.

CREDETTI,
perché sapevo per fama che Maria Ausiliatrice lo aiutava in
modo visibile.

PROMISI,
perché sempre fu mio desiderio essere d’aiuto in
qualcosa al mio prossimo.

E,
avendo Dio ascoltato il suo servo, GUARII.
[Firmato]
Artemide Zatti».

Vediamo
che la vita salesiana di Artemide Zatti, secondo questa
testimonianza, si fonda su tre verbi che ne testimoniano la solidità
generosa e confidente. Per valorizzare il dono della santità
di questo grande salesiano coadiutore, vorremmo meditare su questi
tre verbi e sui loro straordinari frutti di bene, perché
tocchino in profondità i desideri, i sogni, gli impegni della
nostra Congregazione e di ciascuno di noi e promuovano in tutti una
rinnovata e feconda fedeltà al carisma di don Bosco.

Profilo
di Artemide Zatti2

Artemide
Zatti nasce a Boretto (Reggio Emilia) il 12 dicembre 1880 da Albina
Vecchi e Luigi Zatti. La famiglia contadina lo educa ad una vita
povera e laboriosa, illuminata da una fede semplice, schietta e
robusta, che guida e nutre la vita.

A
nove anni Artemide, per contribuire all’economia familiare,
lavora come bracciante presso una famiglia benestante.

Nel
1897 gli Zatti emigrano in Argentina e si stabiliscono a Bahia
Blanca. Artemide giunge in questa Città all’età
di diciassette anni e nell’ambiente familiare impara presto ad
affrontare le fatiche e le responsabilità del lavoro. Trova
lavoro in una fabbrica di mattoni e, nello stesso tempo, coltiva e
matura una profonda relazione con Dio, sotto la guida del salesiano
don Carlo Cavalli, suo Parroco e Direttore spirituale. Artemide trova
in lui un vero amico, un confessore saggio e un autentico ed esperto
direttore spirituale, che lo forma al ritmo quotidiano della
preghiera e alla vita sacramentale settimanale. Con don Cavalli
stabilisce un rapporto spirituale e di collaborazione3.
Nella biblioteca del suo parroco ha la possibilità di leggere
la biografia di Don Bosco e ne rimane affascinato. Fu
il vero inizio della sua vocazione salesiana.

Nel
1900, ormai ventenne, Artemide, invitato da don Cavalli, chiede di
entrare nell’aspirantato salesiano di Bernal, località
vicina a Buenos Aires.

Nel
1902, ormai prossimo all’ingresso in noviziato, Artemide
contrae però la tubercolosi. Racconta don Vecchi nella sua
lettera: «Sicuri della sua responsabilità, i superiori
gli affidarono l’assistenza di un giovane sacerdote malato di
tubercolosi. Zatti svolse con generosità l’incarico, ma
dopo denunziò la stessa malattia»4.

Gravemente
malato, fa ritorno
a Bahía Blanca
e don Cavalli lo invia a Viedma, affidandolo alle cure del salesiano
don Evasio Garrone, competente – grazie a lunga esperienza –
nell’arte medica e direttore dell’ospedale San José
fondato da mons. Cagliero.

Trovo
molto significativo ricordare che Artemide a Viedma incontra Zefirino
Namuncurá-oggi beato-proveniente da Buenos Aires e come lui
affetto da tubercolosi. I due, pur con età diversa, vivono in
cordiale amichevole rapporto, finché Zefferino parte nel 1904
per l’Italia con Mons. Giovanni Cagliero.

Dopo
due anni di cure a Viedma con risultati insoddisfacenti, don Garrone
invita Artemide a chiedere la guarigione per intercessione della
Vergine Santa, facendo voto di dedicare tutta la vita alla cura dei
malati. Formulato il voto con viva fede, Artemide ottiene la
guarigione e, nel 1906, inizia il noviziato.

Per
i rischi associati alla pregressa condizione di salute, Artemide deve
rinunciare al proposito di diventare sacerdote e professa come
coadiutore tra i Salesiani di don Bosco l’11 gennaio 1908.
Questo fatto comporta per Artemide una grande crescita nella fede.
Infatti, egli non abbandona il desiderio di essere salesiano prete e
continua a pensare alla vocazione sacerdotale nella Congregazione
Salesiana, soprattutto quando la salute sembrava migliorare. Perciò
«è commovente constatare l’attaccamento
incrollabile alla propria vocazione, manifestato anche quando la
malattia sembrava precludere assolutamente questo cammino. Leggiamo,
ad esempio, quello che scrive ai suoi il 7 agosto 1902: “Vi fò
sapere che non solo era mio desiderio, ma anche dei miei Superiori di
mettermi il sacro abito; ma c’è un articolo della Santa
Regola che dice di non poter ricevere l’abito uno che abbia la
più piccola cosa rispetto alla salute. Così è
che se Dio non mi trovò degno dell’abito finora, confido
nelle vostre orazioni di sanare presto e così appagare i miei
desideri”»5.

Ma
alla fine i Superiori, date tutte le circostanze di malattia e anche
l’età (23-24 anni) devono proporre a Zatti di professare
come salesiano coadiutore. È certo che «era la donazione
totale a Dio nella vita salesiana cui Artemide aspirava in primo
luogo»6.

Anche
su questo punto decisivo nella sua vita, Zatti compie un camino di
maturità. Leggiamo ancora nella lettera di don Vecchi:
«Sacerdote? Coadiutore? Diceva egli stesso ad un confratello:
“Si può servire Dio sia come sacerdote sia come
coadiutore: davanti a Dio una cosa vale tanto come l’altra,
purché la si viva come una vocazione con amore”»7.

L’11
febbraio 1911 emette i voti perpetui e, nello stesso anno, dopo la
morte di don Garrone, gli subentra, dapprima come incaricato della
farmacia annessa all’ospedale San José di Viedma, e poi
– dal 1915 – come responsabile dello stesso ospedale.
Ospedale e farmacia diverranno il campo di lavoro di Artemide.

Così,
dal 1915, per 25 anni, con grande energia, sacrificio e
professionalità Zatti sarà l’anima dell’ospedale
che però, nel 1941, dovrà essere demolito: i superiori
salesiani decidono di utilizzare il terreno fino ad allora occupato
dalla struttura sanitaria per la costruzione della sede vescovile.
Artemide soffre intensamente al pensiero della demolizione, ma in
spirito di obbedienza accetta la decisione e trasferisce gli ammalati
negli ambienti della Scuola Agricola Sant’Isidro dove crea una
nuova struttura per la cura e l’assistenza di infermi e poveri.

Dopo
altri anni di intenso servizio, ormai esonerato dalle responsabilità
dell’amministrazione sanitaria, nel 1950, a seguito di una
caduta durante un lavoro di riparazione, gli esami clinici gli
riscontrano un tumore al fegato per il quale sono vane le cure.
Accoglie e vive con consapevolezza l’evoluzione della malattia.
Di fatto, egli stesso prepara per il medico il certificato della
propria morte! Non sono poche le sofferenze, ma trascorre gli ultimi
mesi nell’attesa del momento finale preparato per l’incontro
con il Signore. Lui stesso dice: «Cinquant’anni fa sono
venuto qui per morire e sono arrivato fino a questo momento, che cosa
posso desiderare di più? D’altra parte, ho trascorso
tutta la vita preparandomi per questo momento…»8.

La
morte sopravviene il 15 marzo 1951 e la diffusione della notizia
mobilita la popolazione di tutta Viedma per un tributo di gratitudine
a questo salesiano che ha dedicato l’intera vita ai malati,
soprattutto più poveri. Di fatto, “tutta Viedma salutò
il “parente
di tutti i poveri”
,
come lo chiamavano da tempo; colui che era sempre disponibile per
accogliere i malati speciali e la gente che veniva dalla lontana
campagna; colui che poteva entrare nella più ambigua delle
case a qualsiasi ora del giorno o della notte, senza che alcuno
potesse insinuare il minimo sospetto su di lui; colui che, pur
essendo sempre “in rosso”, aveva mantenuto un rapporto
singolare con le istituzioni finanziarie della città, sempre
aperte all’amicizia ed alla collaborazione generosa con coloro
che componevano il corpo medico della cittadina»9.

I
funerali, con l’imponente afflusso di popolo, confermano la
fama di santità che circonda Artemide Zatti e che sollecita
l’apertura a Viedma del processo diocesano (22 marzo 1980). Il
7 luglio 1997 Zatti viene dichiarato Venerabile e il 14 aprile 2002 è
proclamato Beato da San Giovanni Paolo II.

La
pedagogia di Dio nei suoi santi

Per
accostare la figura di Artemide Zatti è preziosa la guida di
un principio teologico, denso di significato e ripetuto da Hans Urs
von Balthasar:

«Soltanto
l’immagine [di Gesù] che lo Spirito presenta alla Chiesa
ha saputo, lungo millenni di storia, trasformare uomini peccatori in
santi. Proprio in base a questo criterio della potenza di
trasformazione si dovrebbe misurare il valore di un’interpretazione
di Gesù che pretenda trasmetterci una conoscenza di Lui»10.

Con
queste parole, Balthasar rimarca un’evidenza che ha sempre
accompagnato la storia della Chiesa: l’azione dello Spirito si
manifesta come potenza di trasformazione della vita umana, a
testimonianza della perenne attualità e vitalità del
Vangelo. In questo modo la buona notizia di Gesù continua a
vivere e diffondersi secondo la regola dell’Incarnazione e,
specie nella carne e nella vita dei santi, per il loro profondo
consentire allo Spirito, la Pasqua sfolgora nell’attualità
storica di qui
ed ora
sempre nuovi, ove maturano prodigi che confermano la fede della
Chiesa.

I
santi sono allora realizzazioni dello Spirito che offrono, con la
semplicità di una vita trasfigurata, lineamenti precisi del
Figlio, donati dal Padre alla fatica del mondo, nell’attualità
di un tempo e nella prossimità di luoghi bisognosi di salvezza
e di speranza.

Se
Dio guida la sua Chiesa attraverso la vita obbediente dei suoi figli
più docili e audaci, nella storia di ciascuno di loro devono
anzitutto brillare riflessi di Vangelo che trasformano una
feriale biografia in agiografia

e poi si debbono riconoscere semi pasquali, capaci di innescare
rinnovati cammini ecclesiali nel popolo di Dio.

Artemide
Zatti conferma questa regola della santità: l’agiografia
è luce dello Spirito sprigionata dalla semplicità della
sua biografia, tanto convincente perché abitata in pienezza
d’umanità, e tanto sorprendente da rendere visibili «un
nuovo
cielo e una nuova terra» (Ap
21,1); così i semi pasquali, regalati dalla vita di questo
salesiano coadiutore al campo del mondo, hanno trasformato luoghi di
sofferenza – gli ospedali di San José e di Sant’Isidro
– in vivai della speranza cristiana straordinariamente
irradianti. «Si è trattato di un’attiva presenza
nel sociale, tutta animata dalla carità di Cristo che lo
spingeva interiormente»11.

È
possibile allora meditare sul dono che lo Spirito fa al mondo, alla
Chiesa, alla Famiglia Salesiana con la santità di Zatti,
sostando dapprima sulla luminosità della sua biografia –
un Vangelo, pienamente incarnato, della vocazione, della confidenza e
della dedizione – per considerare poi la forza pasquale del suo
apostolato che ha edificato, nei suoi ospedali, la chiesa della cura,
della prossimità, della salvezza, della corredenzione, per
nutrire la fede del popolo di Dio.

Se
vogliamo esprimere in modo sintetico il segreto che ha ispirato e
guidato la vita, i passi, i lavori, gli impegni, la gioia, le
lacrime…, di Artemide Zatti, le parole di don Vecchi a tale
fine sono esaustive: «Al
seguito di Gesù, con Don Bosco e come Don Bosco, dovunque e
sempre
»12.

1.
UN UOMO DI VANGELO

1.1
Il Vangelo della vocazione: «Credetti»

La
vicenda di Artemide Zatti colpisce anzitutto per la sua particolarità
vocazionale. Una vocazione luminosa perché purificata da una
misteriosa pedagogia di Dio che si dispiega nella sua vita attraverso
mediazioni e situazioni diverse e impegnative. La vita cristiana è
il respiro condiviso della famiglia di Artemide, che tutto legge
nella luce del mistero di Dio; sarà la seconda patria
argentina, raggiunta con l’emigrazione, a mostrare il
radicamento degli Zatti in una fede non comune. Il Card. Cagliero
scrive:

«I
nostri compatrioti, anche quelli che appartengono alle popolazioni
più religiose d’Italia, giunti qui pare che mutino
natura. L’amore smodato al lavoro, l’indifferenza
religiosa dominante in quei paesi, i pessimi esempi frequentissimi
[…] operano un’incredibile trasformazione nello spirito
e nel cuore dei nostri buoni contadini ed artigiani, che in cambio di
qualche scudo che guadagnano, perdono la fede, la moralità, la
religione»13.

La
famiglia Zatti non cederà all’influsso dell’ambiente,
segnalandosi al contrario per una pratica religiosa fervente,
schietta, coraggiosa, libera dal rispetto umano; e Artemide
continuerà a nutrire in famiglia un intenso rapporto con Dio,
sostanziato di preghiera, laboriosità, rettitudine, così

«tutto
fa credere […] che la formazione religiosa che il Servo di Dio
ricevette da fanciullo e nella prima giovinezza […] dovette
essere privilegiata e tale da spiegare gli atteggiamenti spirituali
che egli mantenne poi per tutta la vita»14.

L’esperienza
di Artemide riflette la discrezione luminosa della «“misura
alta” della vita cristiana ordinaria» (Novo
Millennio ineunte
,
31) frutto di un esclusivo radicamento in Dio, di una fede vissuta
come obbedienza coraggiosa e irraggiante perché libera, lieta
e feconda.

Quando
il salesiano don Cavalli, parroco e guida di Artemide sui sentieri
dello Spirito, dovrà sostenerne l’orientamento
definitivo di vita, il discernimento sarà sobrio e limpido:
constaterà che la chiamata a darsi a Dio totalmente, come
sacerdote, risuona nel cuore di quel giovane in modo integro e puro,
non contaminata dalla ricerca di sé e del proprio interesse,
ma accesa dal desiderio di servire il Vangelo del Regno.

E
Dio, per la singolare disponibilità di Artemide al dono di sé,
non si limita a chiamare, ma può dilagare, con il segno
incontrovertibile della sua presenza: la croce del Figlio. Così
proprio al cuore del discernimento vocazionale di questo giovane
desideroso di diventare sacerdote si rende riconoscibile il sigillo
della predilezione di Dio: Artemide, accolto a Bernal come aspirante,
viene richiesto di un servizio rischioso, la cura di un sacerdote
malato di tubercolosi-come ricordato in precedenza. Il servizio senza
calcolo porta Artemide a contrarre a propria volta la malattia che
esigerà il sacrificio del sogno vocazionale: Zatti sarà
salesiano, ma non sacerdote.

Qui
riconosciamo la potenza del Vangelo accolta senza condizioni nella
vita dei santi; una potenza che suscita una risposta vocazionale pura
perché custodita da un cuore non solo distaccato dal male
-condizione essenziale per l’ascolto della voce di Dio-ma
capace di libertà anche rispetto al bene, condizione
essenziale di una fede rocciosa nell’Assoluto di Dio.

Camminando
nell’oscurità luminosa della fede, Artemide sacrifica il
desiderio di servire la Chiesa nella forma ministeriale del
sacerdozio, abbracciandone però l’essenza, secondo
Cristo, «il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì sé
stesso senza macchia a Dio» (Eb
9,14).

I
caratteri del vangelo della vocazione si riconoscono così,
indelebili, nella pienezza del sacrificio di sé che sigilla il
principio della vita salesiana di Zatti ben prima di coronarne la
pienezza.

E
la fedeltà alla forma laicale della vita salesiana,
abbracciata per puro amore di Dio, sarà piena e convinta,
lontana da ogni rammarico, dispiegata in un’esistenza
convincente e contenta.

Questo
è il vangelo della vocazione, la buona notizia della chiamata
di Dio riservata singolarmente a ciascuno dei suoi figli, chiamata
della quale Dio solo conosce la portata, le ragioni, la destinazione,
lo svolgimento concreto. Chiamata che si rende percepibile solo nella
corrispondenza pura dell’amore che, a propria volta «vuole
disfarsi dell’avversario più pericoloso: la propria
libertà di scelta. Ogni vero amore ha perciò la forma
interna del voto: esso si lega all’amato, a motivo dell’amore
e nello spirito dell’amore»15.

Il
vangelo della vocazione
,
nella santità di Zatti, è il vangelo della pura fede:
la buona notizia del respiro sano del cuore che assapora la libertà
nell’obbedienza al disegno di Dio, custode del mistero di ogni
vita chiamata ad essere tralcio fecondo della vera Vite, affidata
alla sapienza dell’«Agricoltore» (Gv
15,1).

La
santità di Artemide Zatti provoca in questo modo la paura
vocazionale del nostro tempo, paura che stringe il cuore nella
sfiducia davanti al mistero di Dio. Il
vangelo della vocazione

annunciato dalla vita di questo santo salesiano coadiutore mostra che
solo corrispondendo al sogno di Dio è possibile, ad ogni età
e in ogni situazione, sconfiggere la paralisi dell’io, con la
povertà del suo sguardo e delle sue misure, con l’angustia
della sua incertezza e del suo timore.

Quando
don Garrone – salesiano a propria volta di eminente virtù,
oltre che di grande competenza medica, acquisita attraverso il
servizio generoso ai malati – esorta Artemide malato di
tubercolosi a chiedere la grazia della guarigione per intercessione
della Vergine e con il voto di dedicarsi per tutta la vita ai malati,
la fede di Zatti dà buona prova di sé: semplice,
disinteressata, senza riserve, racchiusa in una parola: “Credetti!”.

“Credetti”,
ovvero quando basta una parola a dire la fede, perché la fede
è pura; e solo questa fede è vocazionalmente generosa,
per la levità della sua purezza che “mette ali al cuore
e non catene ai piedi”.

La
santità di Artemide Zatti raggiunge i nostri cammini
vocazionali, talvolta stanchi e grevi, con la forza dirompente di un
«credetti» che non è mai venuto meno: il presente
della fede che si fa continuo lungo la vita e la rende credibile. La
sua è stata una fede con una continua
unione con Dio
.
Nelle testimonianze raccolte così si esprimeva Mons. M. Pérez:
«L’impressione che io ricevetti fu quella di un uomo
unito al Signore. L’orazione era come il respiro della sua
anima, tutto il suo comportamento dimostrava che viveva pienamente il
primo comandamento di Dio: lo amava con tutto il cuore, con tutta la
sua mente e con tutta la sua anima»16.

Siamo
chiamati a valorizzare la testimonianza di Zatti per rinnovare
l’ardore della nostra pastorale vocazionale e per offrire ai
giovani l’esempio di una vita che la solidità della fede
rende piena, semplice, coraggiosa, per la potenza dello Spirito e la
docilità del chiamato.

1.2
Il Vangelo della confidenza: «Promisi»

Il
Vangelo della vocazione
,
del quale Zatti è testimone, anima un secondo verbo di
importanza fondamentale: promettere.

Delle
promesse umane oggi si sperimenta spesso la debolezza, si teme
l’inaffidabilità, si constata l’incapacità
ad essere definitive: di qui gli inverni vocazionali che stanno
colpendo la famiglia, le Congregazione in molte parti del mondo, la
Chiesa, e che rendono urgente l’annuncio del vangelo della
chiamata di Dio e della risposta del credente.

Von
Balthasar, riflettendo sull’essenza della vocazione, frutto di
un credere autentico, così scrive: «Non c’è
nessun camminare incontro all’amore senza almeno un accenno di
questo gesto
di consegna
.
[…] [L’amore] vuole definitivamente rimettersi,
consegnarsi, affidarsi, racchiudersi. Vuole depositare presso l’amato
una volta per tutte la sua libertà di circolazione, per
lasciargli un pegno d’amore. Appena l’amore si desta
veramente alla vita, l’attimo temporale vuole essere
superato in una forma di eternità
.
Amore a tempo, amore ad interruzione non è mai vero amore»17.

Artemide
Zatti, pur in giovane età e proprio in un grande momento di
prova, sente la chiamata alla pienezza dell’impegno di sé
in una promessa irrevocabile e radicale; quando in età matura,
testimoniando la sua gratitudine verso il Padre Evasio Garrone, suo
benefattore, rievocherà i primordi del proprio cammino di
consacrazione, Zatti potrà essere lapidario nel presentare il
cuore della sua adesione giovanile alla chiamata del Signore:
«credetti, promisi».

Il
promisi
di Zatti segue il suo “credetti
ma anche ne plasma la radicalità e la qualità umana e
cristiana. Artemide crede perché promette e non solo promette
perché crede: in lui vediamo realizzata la regola della fede
che, se non può contare sulla disponibilità alla
promessa, alla consegna di sé, decade ad interesse spirituale,
a previdenza e contratto religioso.

Zatti
non attende garanzie per dedicare rischiosamente la sua vita, non
chiede di riscuotere il diritto al “centuplo quaggiù”
come condizione previa al suo gettare le reti; piuttosto «si
offerse con pronta disponibilità ad assistere un sacerdote
malato di tisi e ne contrasse il male: non disse una parola di
lamento, accolse la malattia come dono di Dio e ne portò con
fortezza e serenità le conseguenze»18.

Così
la generosità di Artemide, è pagata prima ancora della
professione religiosa, e il prezzo è alto: una malattia
debilitante, un sogno vocazionale infranto, una sofferenza acuta, e –
soprattutto – una totale incertezza. Ma al crocevia di fede e
promessa il vangelo della vocazione realizza in questa vita, sin
dalla giovinezza, prodigi di santità.

La
promessa di Zatti è pura, disinteressata, come la sua fede e
fa brillare l’integrità dell’abbandono al disegno
di Dio e la generosità del dono e dell’impegno di sé
che mostrano autentico spessore teologale: Artemide fa sua la vita
del Figlio obbediente che si lascia totalmente decidere e destinare
dall’amore del Padre per la salvezza del mondo.

L’alfabeto
vocazionale di Zatti è tanto profondo quanto semplice e
chiaro: «Credetti, promisi. Zatti crede e promette con
radicalità evangelica perché già ha praticato la
Passione del Signore quale regola della sua fede e della sua
dedizione, come non si stanca di ripetere nelle sue lettere ai
familiari: “Le nostre gioie sono le croci, il nostro conforto è
il patire, la nostra vita sono le lacrime, ma con a fianco la sempre
cara e inseparabile compagna, la speranza di raggiungere al bel
paradiso, quando sarà compiuto il nostro pellegrinaggio in
terra”»19.

La
croce è la regola della fede, e insegna come il credere
cristiano non sia un semplice conoscere qualcosa, ma affidarsi a
Qualcuno promettendoGli non qualcosa, ma se stessi. Formato dalla
croce Artemide prima ancora di intraprendere il cammino della vita
religiosa, non promette
ma
si
promette
,
non fa
voto
,
si
vota
,
e così riflette i lineamenti del Figlio che «entrando
nel mondo, […] dice: Tu non hai voluto né sacrificio né
offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né
olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco,
io vengo -poiché di me sta scritto nel rotolo del libro- per
fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb
10, 5-7).

E,
sempre alla scuola del Signore Gesù, Zatti impara che alla
radicalità della promessa di sé corrisponde l’audacia
crescente della fede. Chi si dà completamente a Dio può
abbandonarsi alla certezza di ricevere tutto da Lui, e Artemide non
si stanca di ricordarlo nelle sue lettere: «Mi raccomando che
non abbiate paura o vergogna di domandare grazie. Domandate pure ed
otterrete; e più domandate, più otterrete; poiché
chi domanda molto riceve molto, chi poco, riceve poco, e chi niente
domanda, nulla riceve. […] Io non starò lì a
enumerare le grazie che dovete chiedere; ben voi lo sapete. Solo vi
metto sotto gli occhi una: ed è quella, che noi tutti possiamo
amare e servire Dio in questo mondo e poi goderlo nell’altro»20.

1.3
Il Vangelo della dedizione: «Guarii»

«Guarii»
è il verbo con il quale Zatti sigilla l’evento che lo
introduce nella vita salesiana.

Cosa
significa «Guarii»?
Certamente la tubercolosi che ne aveva minato la salute fu superata
da Zatti e in un modo che sorprese i medici: «Nel processo di
Viedma il Tribunale si domanda se la guarigione fu miracolosa. A
quanto ci è dato sapere, mancò per qualificarla tale la
istantaneità, ma, a detta dei dottori […] che conobbero
bene Zatti fino alla sua morte, fu straordinaria per la scarsezza e
la poca efficacia delle cure di allora, per la continuità
della guarigione e per la più che normale robustezza fisica di
cui godette poi sempre il Servo di Dio, nonostante la sua vita di
strapazzo. L’intervento della Madonna sembra innegabile, sia
che si trattasse di miracolo sia che fosse grazia straordinaria»21.

Il
dito di Dio però agì secondo il suo stile
inconfondibile: non estirpò il male riportando la vita di
Artemide alle condizioni previe alla malattia, e neppure dipanò
il mistero tipico di ogni disegno divino e di ogni esistenza umana.
Così, come sappiamo, «i Superiori, pur constatando i
miglioramenti della salute del Servo di Dio, non dovettero essere
pienamente persuasi sulle sue future possibilità. La
tubercolosi, a quei tempi, non dava mai sicurezza di guarigione e di
guarigione definitiva; il curriculum
di studi che il Servo di Dio avrebbe dovuto affrontare, alla sua età
(23-24 anni), era ancora lungo e non certo adatto ad un
tubercolotico; egli, d’altra parte, aveva già
incominciato a lavorare, e tutto fa credere con successo e con
reciproca soddisfazione, nella Farmacia in una occupazione adatta ad
un laico; forse Padre Garrone faceva qualche pressione per tenerlo
con sé nel suo lavoro. I Superiori allora, date tutte queste
circostanze, dovettero proporre al Servo di Dio – che
certamente, da tutto quello che appare nei suoi scritti, aveva deciso
di lasciare il mondo e di consacrarsi a Dio – di farsi
religioso salesiano, ma come coadiutore (confratello laico): la
soluzione sembrava la più prudente in vista della sua ancora
incerta salute: un lavoro materiale richiedeva meno sforzi di quanti
non se ne esigessero per un lungo periodo di studi severi»22.

Il
mistero di Dio si infittisce con la guarigione, e alla fede di
Artemide viene chiesta una purificazione forse più severa di
quella imposta dalla perdita della salute: il sacrificio
dell’orientamento vocazionale. Così Artemide è
condotto ad approfondire il cammino di svuotamento che Dio gli
richiede: la liberazione dalla malattia non è una riconquista
di forze, che permette a un giovane intraprendente di “riprendere
in mano la vita”. La guarigione, a suo modo, è il
deserto di una nuova povertà, perché la vita di Zatti
sia spazio libero per Dio, nella radicalità di un nuovo
abbandono.

Dio
guarisce Artemide dalla tubercolosi per rinnovare in lui il prodigio
della salvezza dall’attaccamento a se stesso, del distacco
anche dai propri progetti di bene: «C’è da
ritenere che abbandonare l’aspirazione al sacerdozio sia stata
per il Servo di Dio una grande sofferenza spirituale, tanto era lo
slancio e lo spirito di sacrificio con cui aveva intrapreso il
cammino verso questa meta. È però meraviglioso, e
indice di straordinaria forza spirituale, il fatto che non appaia mai
una parola di lamento od anche solo di rammarico e nostalgia […]
per questo capovolgimento nella prospettiva della sua vita»23.

«Guarii»:
è allora la voce della coerenza dell’alfabeto
vocazionale di Zatti. Quando Dio chiama e la sua creatura risponde,
lo Spirito non si limita a riparare la precarietà umana ma
compie il sogno di Dio «Ecco, io faccio nuove tutte le cose»
(Ap
21,5). Così, se la malattia inclina il cuore umano a
ripiegarsi su di sé, il credere e il promettere di Zatti,
nutriti dall’amore al Signore Gesù e alla Croce,
producono vera salute: una più grande dimenticanza di sé
e condiscendenza incondizionata a Dio, che lo porta ad essere l’umile
apostolo dei più poveri, dei malati e, tra questi, a diventare
l’apostolo dei casi più difficili; in breve, degli
abbandonati e degli scartati di questo mondo.

Artemide
rinato a più grande povertà è più arreso,
in confidenza piena e operosa, al disegno del Padre: «Ex
auditu

posso dire che [nella vita del Servo di Dio] c’è stata
una volontà generale che Dio fosse glorificato. In quel che lo
conobbi posso assicurare che vivesse per la gloria di Dio»24.

La
subordinazione di tutto alla gloria di Dio e il sacrificio delle
proprie vedute – compresi i progetti di bene – per
assecondare la sapienza di Dio che sola realizza la pienezza
dell’Amore, saranno essenziali non solo all’esperienza
spirituale di questo salesiano straordinario, ma pure alla pedagogia
del dolore

che dovrà praticare per la specificità della sua
missione.

Nel
“guarii” di Zatti si compie non solo una grazia ma una
scuola, ed entrambe plasmate dal dito di Dio per il bene dei
fratelli: libero dalla malattia Artemide servirà per una vita
i malati, dopo essere passato attraverso il vero
guarire

che lo renderà vero
medico

delle creature sulle quali si chinerà.

«Faceva
spesso il segno della Santa Croce e lo faceva fare agli infermi,
amava insegnarlo ai bambini. In lui la fede e i medicamenti formavano
una simbiosi, senza la fede non curava e nemmeno senza medicine.
Ugualmente non vedeva una dicotomia tra l’anima e il corpo; era
una sola cosa l’uomo, e curava questo uomo: corpo e anima»25.

Solo
perché condotto dalla mano di Dio a vivere il guarire come
morire a se stesso Zatti potrà farsi prossimo ai malati con il
farmaco dell’Amore Incarnato e Crocifisso, dispensando
conforto, luce e speranza.

2.
UN TESTIMONE DELLA PASQUA

Se
nella vita di Zatti – per il modo in cui fu raggiunto dalla
chiamata di Dio – brilla in forma originale e attualissima il
Vangelo della vocazione
,
la sua semina apostolica si compie come arte della cura nella luce
della Pasqua.

La
coerenza pasquale è la regola di fedeltà di ogni
apostolato cristiano: nei santi la pratica di questa regola raggiunge
il fulgore, portando la vita di Dio dentro le fatiche degli uomini,
della storia, del mondo, edificando così la Chiesa.

Zatti
ha praticato con passione pasquale la fatica della sofferenza umana
ed ha così edificato la Chiesa come vero ospedale da campo
(come oggi continua a ripetere Papa Francesco), proprio trasformando
due ospedali sorti “alla fine del mondo” in cellule vive
della Chiesa.

Gli
ospedali di San José prima e poi di Sant’Isidro furono
tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento una
risorsa sanitaria preziosa e unica per la cura soprattutto dei poveri
di Viedma e della regione del Rio Negro: l’eroismo di Zatti ne
fece luoghi di irradiazione dell’amore di Dio dove la cura
della salute diventa esperienza di salvezza.

Zatti
ha consegnato la sua vita alla parabola del buon Samaritano. Il
Samaritano è Cristo, il Dio vicino (nel suo Figlio Amato) che
non conosce indifferenza e disprezzo, ma offre se stesso, in
anticipo, per guarire fin l’ultimo dei suoi figli e figlie, per
mezzo della prossimità dell’amore, così che il
male della storia non condanni nessuno di questi piccoli a perire
fuori da Gerusalemme.

Ecco
il miracolo di Dio: in quel fazzoletto di terra patagonica, dove
scorre la vita di Zatti, ha preso vita una pagina del Vangelo. Il
Buon Samaritano ha trovato volto, mani e passione, anzitutto per i
piccoli, i poveri, i peccatori, gli ultimi. Così un ospedale è
diventato la Locanda del Padre, è diventato segno di una
Chiesa che voleva essere ricca di doni di umanità e di Grazia,
dimora del comandamento dell’Amore di Dio e del Fratello, luogo
di salute quale pegno di Salvezza.

Sono
numerosi i testimoni che permettono di contemplare l’esperienza
di Chiesa accessibile in quell’ospedale da campo reso vivo dal
cuore infiammato di Zatti: dando loro la parola emerge di nuovo il
fascino di Artemide preoccupato di curare quanti a lui si affidavano,
sia con i rimedi dell’arte medica, sia con la presenza, la
simpatia, la preghiera per tutti e con tutti, e con l’espressione
di fede di tutti giorni di questo umile salesiano. Tutto questo si
rivelò certamente più efficace di tante medicine.

2.1.
Cura pasquale e servizio (
diakonia)
della vita ferita

Dove
c’è santità la Chiesa si diffonde, e dove si
edifica la Chiesa c’è santità. Chi ha incontrato
Zatti, chi è stato accolto nel suo ospedale, ha fatto
esperienza di fraternità e in questa fraternità
esperienza di Chiesa.

Zatti
ha vissuto con radicalità evangelica la certezza che il
servizio, che è stata la sua caratteristica vocazionale – a
diakonia
– rende credibile, riconoscibile, amabile, il volto della Chiesa. La
porta del servizio attrae il cuore umano, specie quando è
provato dalla vita e dalla sofferenza, e apre all’esperienza
dell’incontro con Gesù, il vero Buon Samaritano, e Zatti
ha fatto del suo meglio per vivere come un buon samaritano.
«L’ospedale e le case dei poveri, visitati notte e giorno
viaggiando su una bicicletta, considerata ormai elemento storico
della città di Viedma, furono la frontiera della sua missione.
Visse la donazione totale di sé a Dio e la consacrazione di
tutte le sue forze al bene del prossimo»26.

Zatti
è testimone di servizio, e così come Gesù ha
donato se stesso sino alla fine, Zatti ha realizzato fino
all’eroismo, sui passi del suo Signore, una donazione e una
diakonia
pienamente cristiana. Meritano di essere sottolineati, con le parole
unanimi dei testimoni, i caratteri straordinari della diakonia
evangelica
di Zatti: l’universalità della sua dedicazione, la
totalità del dono di sé, la generosità nata con
Dio accanto, in obbedienza a Lui, compiuta in Lui e per Lui.

Che
il servizio di Zatti non conoscesse particolarismi e non facesse
preferenza di persone è sotto gli occhi di quanti lo hanno
conosciuto: «So che ha visitato la prigione per curare i
malati. Con gli increduli e i nemici della Chiesa era disponibile e
amabile. Ricordo la frase di un medico che commentando il titolo del
libro del Padre Entraigas “Il parente di tutti i poveri”
diceva che avrebbe dovuto essere corretto in “parente di tutti”
per l’equità con la quale [Zatti] non faceva distinzione
tra tutti quelli che lo cercavano»27.

Se
nel servizio e
nella
donazione di se stesso
da parte di Zatti c’era una preferenza per qualcuno, questa era
la preferenza insegnata dal Buon Pastore, sensibile soprattutto alla
sorte delle pecore più ferite e smarrite: «Fu una delle
predilezioni [di Zatti] la sua totale donazione a Dio in queste
persone umili, indifese o con infermità ripugnanti a tal punto
che quando qualcuno voleva mandarle a un ospizio perché erano
state molti anni nell’Ospedale San José rispondeva che
non si dovevano abbandonare questi veri parafulmini
dell’Ospedale»28.

Zatti
poi serviva con tutto se stesso, consumandosi in una generosità
senza calcolo nelle forme più disparate di un’attività
febbrile, orientata soltanto a corrispondere alle richieste di tutti:
«Siccome era a tutti nota la sua bontà e la sua buona
volontà nel servire gli altri, tutti si rivolgevano a lui per
le cose più disparate. […] I direttori delle Case
dell’Ispettoria scrivevano per consigli medici, gli mandavano
confratelli da assistere, affidavano al suo ospedale-cronicario
persone di servizio diventate inabili. Le Figlie di Maria
Ausiliatrice non erano da meno dei Salesiani nel chiedere favori. Gli
emigranti italiani chiedevano aiuti, facevano scrivere in Italia,
sollecitavano pratiche, coloro che erano stati ben curati
all’Ospedale, quasi fosse espressione di gratitudine, gli
inviavano parenti e amici da assistere per la stima che avevano delle
sue cure. Le autorità civili avevano spesso persone inabili da
sistemare e ricorrevano a Zatti. I carcerati e altre persone,
vedendolo in buoni rapporti con le autorità, si raccomandavano
perché chiedesse clemenza per loro o facesse procedere la
soluzione dei loro problemi»29.

Il
servizio di Zatti era poi continuativo e dimentico di sé e,
proprio per questo, non frenato da suscettibilità,
ingratitudini, corrispondenze mancate o richieste assillanti: «Nel
servo di Dio la preoccupazione per il prossimo era straordinaria nel
lavoro quotidiano; dalla mattina alla sera viveva per i suoi amati
infermi. Queste circostanze si moltiplicavano la notte, quando, a
qualunque ora lo chiamassero, egli accorreva rapidamente. […]
Mi consta che spesso abbia dovuto soffrire di pretese eccessive di
alcuni infermi, esigenze smodate, capricci, come il caso […]
di pazienti con infermità mentali. Il Servo di Dio non perdeva
mai la pazienza. Ricordo di averlo visto in più di una
occasione salire con cattivo tempo, freddo e pioggia con il suo
veicolo, una bicicletta non ultimo modello, per curare infermi tra la
popolazione andando per strade molto poco transitabili»30.

A
segnare poi profondamente la diakonia,
il
servizio a tutti,
di Zatti era il suo svolgersi in compagnia del Signore. A nessuno
sfuggiva la competenza di questo generoso infermiere, ma altrettanto
evidente era il suo essere in missione con Gesù: «Un
fatto personale molto concreto: essendo io novizio e poi sacerdote
novello, venni a Viedma per alcune pustole che mi uscivano
soprattutto sul collo e sulla faccia e il Servo di Dio sempre mi
accoglieva sorridente, mi curava cauterizzandomi con una punta
rovente canticchiando il Magnificat
mentre operava e incoraggiandomi poi a offrire quelle sofferenze per
la santa perseveranza nella vocazione»31.

Ancora,
in Zatti rifulgeva l’obbedienza a Dio e al suo disegno come
anima di un servizio umile e fiducioso, che doveva ispirare nei
poveri e nei malati sentimenti di abbandono in Dio. Tutto trovava in
Dio ispirazione, e tutto Zatti svolgeva secondo il comando di Dio,
così che il servizio di questo grande salesiano era una
pratica continua e affascinante del precetto dell’amore: egli
«amò Dio sopra ogni cosa. Per lui tutte le cose di
questa terra erano transitorie e secondarie. Per me Zatti era
costante, senza cedimenti nel suo amore a Dio e nella sua pietà.
Non solo negli atti di pietà ma in ogni servizio al prossimo
teneva sempre il nome di Dio sulla bocca. Esortò tutti coloro
che gli furono vicini a vivere la pietà. Zatti era
permanentemente un esempio, la sua pietà era superiore
all’ordinario»32.

Quella
di Zatti però, come accade sempre nei santi, è una
diakonia,
un
servizio
compiuto certo in obbedienza a Dio, ma soprattutto in nome di Dio,
prestando a Dio il volto, il cuore, le mani, nella certezza –
fonte di grande audacia – di essere piccolo strumento della sua
grande Potenza e Provvidenza. Così Zatti opera con generosità
straordinaria, ma con abbandono totale perché sa che ad agire,
in lui, è il suo Signore: «Sperò e confidò
sempre in Dio. La serenità con la quale superava le difficoltà
era una dimostrazione della sua speranza in Dio. Sempre diceva: “Dio
provvederà”, però lo diceva con piena confidenza
e speranza»33.

Zatti,
credente e uomo vero, è «mosso dalla carità verso
il prossimo perché in ogni malato vedeva Cristo sofferente.
Tanta era la bontà che usava con gli infermi che non negava
loro nulla»34;
«per il Servo di Dio l’amore si manifestava nella carità
con la quale assisteva gli “altri Cristi”. Nella sua
concezione evangelica che tutto quello che faranno i suoi discepoli
al loro prossimo lo staranno facendo allo stesso Cristo, il Servo di
Dio si comportò abitualmente con tutti con carità,
anche quando si trattava di increduli o indifferenti»35.

O
vivendo in uscita una Chiesa del servizio, capace di raggiungere in
bicicletta i suoi poveri, o servendo quanti bussavano al suo ospedale
– di San José prima e di sant’Isidro poi –
perché vi incontrassero l’amore di Dio Zatti ha dato
tutto se stesso a Dio, divenendo servo del Signore, missionario
autentico della Chiesa nel nome del Signore Gesù.

2.2
Fraternità pasquale e comunione (
koinonia)
nella vita condivisa

La
santità di Zatti ci porta nel cuore della Chiesa non solo per
la singolarità della sua diakonia,
ma anche per la qualità della comunione fiorita per il suo
donarsi agli altri. Cosa fosse per Zatti la comunione è
attestato tanto dalle testimonianze di chi ne ha visto l’azione,
quanto dal modo in cui attraversò i momenti più
faticosi che ne segnarono la vita.

Un
fatto per lui particolarmente doloroso si verificò quando i
superiori si orientarono per la demolizione dell’Ospedale di
San José, al quale Artemide aveva consacrato ogni energia; a
Viedma mancavano gli ambienti per l’episcopio e per edificare
una confacente dimora vescovile fu deciso l’abbattimento del
vecchio ospedale, con l’onere del trasferimento di tutti i
servizi sanitari negli spazi della Scuola agricola di Sant’Isidro,
sede di un’altra opera salesiana a Viedma.

Per
Zatti la demolizione non era una semplice operazione edile, era una
prova cruda e crocifiggente: davanti agli occhi non aveva solo le
macerie di un vecchio ospedale, ma il dubbio che con quelle mura
fosse crollata la sua vita e lì fossero finite anche le sue
rinunce e privazioni, incomprensioni e veglie, grattacapi e sudori,
dedizione agli altri e sacrificio di sé. A Zatti il calice non
fu risparmiato, ma rimase in piedi, con fortezza e dolcezza
cristiana: «All’epoca della demolizione dell’ospedale
san José aveva prima proposto che il palazzo vescovile fosse
costruito in altro luogo e il terreno fosse permutato; poi, data
l’inesorabilità della demolizione, che […]
sentiva enormemente data la sua estrema sensibilità umana, non
si ribellò né protestò; anzi, calmava coloro che
cercavano di farlo ribellare»36.

Come
sempre accade nella vita dei santi, la prova è insieme
crogiolo oscuro e dimostrazione luminosa: Zatti con la sua serenità
d’animo e con l’alacrità posta nell’allestire
la nuova sede dei servizi sanitari, dimostrò quale fosse il
fondamento della sua dedizione: il vero ospedale da lui edificato non
poteva essere ridotto in macerie perché era un’invenzione
della carità, di quella carità che «non avrà
mai fine» (1Cor 13,8), e che esprime il miracolo della
comunione, riflesso dell’eterna Vita di Dio. Il vero ospedale
di Zatti non era un edificio terreno, dedicato a San José o a
Sant’Isidro; in quegli ambienti la sua professionalità
accoglieva tutti, attraverso la porta del servizio, perché
facessero però esperienza vera e piena della tenerezza di Dio.

Zatti
non ha predicato il catechismo della comunione, ma con la sua santità
lo ha incarnato; e il suo ospedale non era un fabbricato imponente,
ma un miracolo evidente, quotidiano, di servizio e comunione. Qui «il
Servo di Dio dirigeva il personale, che era composto da persone varie
che abitavano nell’ospedale, come un superiore di una comunità
religiosa […] Il personale lo amava, lo venerò e ne
seguì alla lettera le regole. A ciascuno non è mai
mancato il necessario: morale, spirituale e tecnico per il disbrigo
dei suoi impegni e questo per la personale preoccupazione del Servo
di Dio»37.

Che
proprio la statura spirituale di Zatti ne facesse l’artefice
della comunione è persuasione di tutti: «Negli anni in
cui sono stato a scuola nel Collegio san Francesco di Sales,
l’Ospedale era una dipendenza del Collegio e si sapeva tutto
ciò che accadeva qui come là. Non ho mai sentito
parlare di liti o incomprensioni tra i collaboratori di Zatti che
potessero avere qualche rilievo ed essere causa di pettegolezzi in
paese o nella scuola»38.

La
comunione cristiana, quando si realizza, non passa inosservata per la
sua bellezza che sconvolge il mondo prostrato dal rancore e dalla
divisione; sono solo i santi però a conoscere fino in fondo il
prezzo della comunione, la sua estraneità allo spontaneismo,
all’immediatezza della simpatia, alla facilità senza
sacrificio. I santi sanno quanto costa la comunione perché
sanno qual è la sua fonte: il Costato squarciato del Signore,
che compie l’opera della riconciliazione tra gli uomini e con
gli uomini.

Zatti
sa che solo il Sangue del Signore crea comunione, e sceglie la via
della partecipazione fedele e quotidiana al sacrificio del Figlio,
con il sorriso sul volto, la fortezza nell’animo, la pace nel
cuore, le mani trafitte dal lavoro e dalla fatica. Rendendo quasi
impercettibile l’impegno richiesto dalla sua immolazione, Zatti
«era un uomo che irradiava pace, [uomo] di azione, dinamico,
non mostrava nervosismo, allegro. Era frequente una sua battuta […]
per rallegrare un malato […]. Era un uomo che non ha vacillato
nelle sue pratiche religiose, […] segno del suo sforzo per
migliorare sé stesso. Personalmente, ciò che ho notato
di più di lui sono state la sua carità e umiltà»39.

L’umiltà
di Zatti costruisce la Chiesa e rende cristiana la comunione della
quale egli stesso è artefice; chi non muore ogni giorno a se
stesso porta con sé la pesantezza dell’egoismo che
ferisce la comunione; solo l’umiltà guarisce le
relazioni e vince le lusinghe del potere, del controllo, della
seduzione, della prevaricazione. Zatti, senza moltiplicare parole o
discorsi, sa che solo con l’umiltà può essere
artefice di vera koinonia
frutto e condizione di una diakonia
efficace e discreta, che non crea dipendenza ma restituisce dignità;
solo l’umiltà serve in modo generativo, promuovendo una
comunione che cura il legame e promuove l’autonomia. L’umiltà
è la virtù di Dio perché è il segreto di
ogni padre, la speranza di ogni figlio, lo spirito di ogni vita vera.

Zatti
può essere servo e artefice di comunione per l’umiltà
che lo rende semplice figlio di Dio, vivo della Vita dello Spirito e
padre di tutti: «Penso che nel rapporto di Zatti con i
collaboratori non ci siano mai stati problemi perché era come
il padre di tutti. Ricordo che a tutti mancava molto quando era
assente per essere andato a Roma alla Canonizzazione di don Bosco»40;
«il rapporto di don Zatti con l’ospedale era come quello
di un padre. Non conosco malintesi o difficoltà: se ci sono
state, credo non siano state da parte sua. Dalle infermiere con le
quali ho trattato […], non ho sentito altro che lodi e nessuna
lamentela»41.

2.3
Prossimità pasquale e
martyria
della vita senza fine

Il
nostro confratello Artemide Zatti ha realmente testimoniato con la
sua vita (martyria)
che il Signore è risorto. «Io sono la luce del mondo»
(Gv
8,12) dice di sé il Signore. Il Vangelo è Luce che
vuole penetrare la vita degli uomini, e Luce per il mondo è la
Chiesa, sacramento vivente di Dio. Anche la santità di Zatti,
alimentata dalla Pasqua di Gesù, è luce, e ne fanno
esperienza soprattutto i poveri e i malati di Viedma. Zatti li
accoglie attraverso la porta del servizio, li custodisce tra le mura
della comunione ma per offrire loro, con la sua testimonianza di
vita, la luce del Vangelo, lo splendore della Pasqua che illumina la
Chiesa.

Credenti
e non credenti sono folgorati dalle parole e dai gesti di Zatti; la
sua testimonianza è senza ombre, straordinariamente salesiana,
raggiunge tutti e annuncia, attraverso due nomi, due lineamenti
decisivi del Dio di Gesù: Provvidenza e Paradiso.

Non
c’è Chiesa dove non c’è annuncio esplicito
del nome di Dio, annuncio pagato con il martirio della vita, nel
segno del sangue o della carità; dove si spingono il servizio
e la comunione di Zatti risuona l’annuncio del nome di Dio, di
questi due nomi, tanto cristiani e tanto salesiani: Provvidenza e
Paradiso.

Zatti
annuncia con la sua vita che tutto in Dio è amore, ma amore
concreto, attento, sconfinato e minuto, per ciascuna creatura:
l’amore di Dio è Provvidenza. La Provvidenza di Dio però
non è a tempo, bensì eterna, ed ecco il secondo nome:
Paradiso; Paradiso è il nome proprio del desiderio di Dio che
nella storia provvede alle sue creature per averle con sé per
sempre, per l’eternità.

Zatti
è maestro di questo alfabeto cristiano: «Era
suo costante desiderio che il Signore fosse conosciuto e amato. Lo
attestava la gioia che esprimeva quando un nuovo paziente, che non
sapeva nulla di Dio diventava devoto cristiano. La sua prima
sollecitudine era curare premurosamente e ispirare fiducia nella
divina Provvidenza»42.

Il
senso della Provvidenza non era la risposta obbligata a condizioni di
precarietà, una sorta di ultima spiaggia offerta ai naufraghi
per non affondare nei momenti difficili. Testimoniare la Provvidenza
per Zatti significava insegnare a parlare con Dio, a chiamarlo per
nome, con fiducia cristiana, perché «era molto convinto
dei principi evangelici e uno che era ben scolpito nel suo cuore e
nella sua mente era “cercare prima il Regno di Dio e la sua
giustizia e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt
6,33). Aveva imparato alla scuola di Don Bosco – avendo letto
molto la sua vita – a non diffidare mai dell’aiuto di
Dio, soprattutto quando è onorato come vuole, in ogni nostro
prossimo»43.

Ma
una Provvidenza senza Paradiso non consentirebbe all’annuncio
del nome di Dio di reggere l’urto della storia, con il suo
carico di fatica, sofferenza, morte. Zatti animava, dentro e fuori
l’ospedale, una Chiesa sempre visitata dal dolore e dalla
morte, e questo chiedeva pienezza di fede e di testimonianza,
chiedeva di annunciare il nome dell’unico desiderio di Dio per
l’uomo: Paradiso. Quando testimoniava il Paradiso Zatti
mostrava la certezza «della vita eterna e della sua
acquisizione per grazia e buone opere; questo manifestava soprattutto
di fronte alla morte […]. L’ho ascoltato personalmente
gioire per aver potuto prestare aiuto religioso ai malati ed
esclamare […] “Oggi ne abbiamo mandati due o tre in
cielo”»44.

Con
questi due nomi di Dio Zatti ha evangelizzato la vita e la morte, la
gioia e il dolore, la salute e la malattia da vero testimone
cristiano, da martire, nel martirio quotidiano della carità.
L’annuncio e la martyria
di Zatti non divulgano un vangelo di circostanza o di opportunità,
ma diffondono Sale, Luce, Lievito, prestano volto, cuore e mani a un
Vangelo che chiede la vita e tutta la pervade, scioglie gli enigmi e
vince l’angoscia con il calore della Verità: «Da
quando l’ho conosciuto, ha sempre dato più importanza
alle pratiche religiose che al suo lavoro, sebbene lo facesse con
perseveranza. Citava spesso le Scritture, soprattutto i vangeli, per
consolare i malati o incoraggiare la virtù […]. Era
molto difficile per lui non mettere un pensiero spirituale nelle sue
conversazioni. Una volta, parlando con lui, accennavo alla scoperta
di alcune nuove medicine come la penicillina e i sulfamidici; il
Servo di Dio mi ha ascoltato e, quando ho finito di parlare, mi ha
detto: “È vero, è vero, ma la gente continuerà
comunque a morire”»45.

E
la verità del vangelo, tutta intera, illumina l’ospedale
di Zatti, come aveva illuminato l’Oratorio al tempo di don
Bosco: per questo nell’ospedale di Viedma come tra le mura di
Valdocco, non si teme la morte e non si moltiplicano gli espedienti
per addolcirne lo scandalo o nasconderne l’evidenza, inganni
pericolosi per il cuore umano. Zatti affrontava la morte con la
testimonianza del Vangelo della vita: una vita con i piedi per terra,
per questo operosa e concreta, ma con il cuore in cielo, e per questo
fiduciosa e serena: «L’unico motivo della sua vita è
stato proprio l’attesa di un premio celeste, non ha mai agito
per guadagnare denaro o reputazione, ha fatto tutto nella speranza
della felicità futura»46.

Il
suo impegno è stato, pur nella semplicità, quello di
vivere il Vangelo con il cuore radicato nel Premio finale è
portare il Dio della Provvidenza e del Paradiso dentro ogni piaga e
ogni morte umana, perché vi fioriscano Vita e Resurrezione.
Questo rendeva benedetta la testimonianza di Zatti e ne invocava la
presenza quando indispensabili erano le medicine preziose e rare
della speranza e della consolazione. Tutta la città di Viedma
lo sapeva, come hanno confermato con sorprendente unanimità i
testimoni: si chiamava sempre Zatti, e lui accorreva a rincuorare e
consolare, donando questa medicina cristiana che attingeva, per la
sua vita in Grazia di Dio, dallo Spirito stesso, il Consolatore. Così
diventava «straordinaria nel Servo di Dio la capacità di
infondere speranza negli infermi, fatto che contribuiva quasi
miracolosamente alla guarigione sollevando l’animo del
sofferente»47.
Zatti testimonia, fino al martirio della carità, che il
Signore è Dio del cielo e della terra. Zatti ne è
testimone, con la passione dei santi, che non conosce misura:
«Ricordo che un paziente disse a Zatti che lo preparava sempre
al cielo e che doveva prepararlo un po’ per la terra. Un altro
fatto mostra l’atmosfera dell’Ospedale: un’infermiera,
una volta, insistette per preparare alla morte un paziente che non
stava così male e che in effetti è ancora vivo»48.

2.4
Gioia pasquale e liturgia della vita redenta

Artemide
Zatti, con la sua fedeltà straordinaria agli appuntamenti
centrali della vita cristiana, si nutre del Pane della Parola, del
Pane del Perdono, del Pane del Cielo, e la sua vita si trasfigura,
sempre più profondamente, a beneficio di una missione ricca di
frutti crescenti. Così, la vita di Grazia, intensamente
vissuta da questo figlio di don Bosco, raggiunge quanti lo
incontrano, indistintamente: malati e collaboratori, confratelli e
autorità, poveri e benefattori, in Zatti toccano la vita del
Signore, per la forza del mistero sacramentale che si partecipa tra
le persone nella comunione del popolo di Dio. E così la Chiesa
tutta, nei sacramenti, per la potenza dello Spirito Santo, celebra il
mistero Pasquale e assicura agli uomini il nutrimento, per il cammino
e i rimedi che guariscono le ferite del male e della morte.

all’umanità
ferita dal male e dalla morte.

Questa
è la Chiesa: fiorisce e cresce dove il servizio e la comunione
annunciano il nome di Dio, testimoniano la Parola di Gesù,
sono nutriti dal suo Corpo, guariti dal suo Perdono. Zatti non
semplicemente fa tutto questo, ma è tutto questo; per la
corrispondenza alla Grazia, che rende santa la sua vita, in lui si
riconoscono non solo i gesti e le parole del Signore, ma si fa
esperienza della Sua stessa Vita: Zatti è un “tabernacolo
vivente”, e la sua testimonianza irradiante suscita domande,
propositi, conversione, anche in chi è lontano da una
partecipazione intima al mistero del Signore.

La
dedizione di Zatti, rivelando una radice più che umana,
diventa una prova, universalmente convincente, della forza
soprannaturale dei sacramenti; il suo, infatti, è «un
amore soprannaturale e straordinario per il prossimo. […] Era
disposto a qualsiasi sacrificio ed è per questo che in lui il
difficile sembrava facile. Penso che le circostanze ardue della sua
azione caritativa siano state: la carenza di personale, la richiesta
di assistenza in ogni momento, non farsi condizionare dalle
intemperie, servire ogni tipo di persone. Ricordo di un mio parente,
ammalato, cui venne a far visita in una giornata di pessimo tempo e
quando gli fu detto: “Con questo tempo esce, signor Zatti?”,
lui rispose: “Non ne ho un altro!”»49.

È
una regola della liturgia cristiana saper dare buona prova di sé
nella vita del credente con l’ordine, l’armonia, il
dinamismo efficace, e soprannaturale. Zatti è un cristiano, un
consacrato laico salesiano di don Bosco, è una pietra viva
della chiesa, è un testimone della Pasqua, perché nelle
sue opere diviene visibile il comandamento dell’Amore, che fa
riconoscere Dio nel prossimo e il prossimo in Dio; ma Zatti insegna,
con la sua vita, che la forza necessaria alla pratica di quel
comandamento è soprannaturale, e può venire solo da
Dio, dai suoi sacramenti e della preghiera e unione con Lui. «Zatti
esercitò la carità in circostanze difficili per la
carenza di risorse economiche. Anche perché la sua attività
eccedeva l’ordinario, per la quantità di ore che
dedicava ai suoi impegni senza omettere i suoi obblighi religiosi.
Per come lo conoscevamo ci chiedevamo come potesse sostenere uno
sforzo così grande senza il riposo che solitamente si
considera necessario»50.

Due
episodi meritano di essere ricordati, a esempio della liturgia della
vita per la quale Zatti è prima discepolo e poi apostolo del
Signore Crocifisso e Risorto; anzitutto la demolizione del vecchio
ospedale San José, con la necessità di trasferire i
malati a Sant’Isidro: «Non ho notizie che a Zatti sia
stata comunicata una data di sfratto, e di certo non aveva ricevuto
nulla dal suo Ispettore, altrimenti l’avrei saputo […].
Lo stato emotivo in cui è caduto Zatti quando è stato
necessario rimuovere i malati, perché le macerie non
crollassero su di loro, poteva essere psicologicamente fatale. Pianse
amaramente, ma dopo aver pregato davanti al Santissimo, si mise al
lavoro con serena energia»51;
e poi il servizio ai morenti: «Stava per morire un giovanotto,
e Zatti conversava con lui dopo avergli fatto fare la comunione; a un
certo punto il ragazzo cominciò a gridare “Zatti, io
muoio!” e nello stesso momento si sollevava dal letto; Zatti,
guardandolo negli occhi, sorridendo gli disse: “Che bello, vai
in paradiso!” e il giovane si lasciò cadere con un
sorriso che ritraeva quello di Zatti, e che gli rimase impresso sul
volto»52.

Ecco
cosa accade quando l’Eucarestia diventa vita e il Mistero
pasquale pratica quotidiana: le grandezze umane si trasformano, per
la potenza dello Spirito, e ogni azione di un credente si compie in
Cristo, per Cristo e con Cristo, rendendo la vita una liturgia e
trasfondendo i doni santi della liturgia nella vita.

Il
nostro caro Artemide Zatti, debitore in tutto dei Misteri del
Signore, sa che tutto può solo grazie a Lui; di qui la sua
umiltà: «Ricordo che, essendo molto malato di febbre
tifoidea mio fratello Salvador, il Servo di Dio lo andava a curare
più volte al giorno. In una occasione, incontrandomi con lui
che si dirigeva alla casa di Salvador, afflitto gli dissi: “Signor
Zatti, per favore, salvi mio fratello!”. Egli voltandosi e
fissandomi negli occhi, con severità mi disse: “Non sia
blasfemo, solo Dio salva!”»53.

Quella
di Artemide Zatti è stata una vita fatta di donazione,
comunione, testimonianza del Signore risorto. Una vita piena di
grazie che l’ha portato ad una morte pienamente cristiana:
«Chiedendogli se i suoi dolori fossero continui, forti o no,
senza rispondere direttamente mi disse: “Sono un mezzo di
purificazione e sono contento perché mi rendo conto che sto
completando la Passione di Cristo, cosa che ho tanto inculcato negli
infermi”»54.

E
l’offerta di Zatti fu piena, discreta, serena e gioiosa, come
sigillo della sua liturgia. Merita di essere ripreso un fioretto, nel
quale, dietro il velo della simpatia, Zatti regala a chi lo assiste
il senso della sua vita, che Dio ha potuto spremere fino in fondo,
perché matura e piena. Pochi mesi prima della morte,
sorridendo della sua malattia – un tumore al fegato che
ingiallisce il volto – Zatti dice a un’infermiera che
sarà presto colorato, anche lui, con il trucco! Il suo sarà
però, come nei limoni, il colore della maturità, che
rende quel frutto pronto per essere spremuto, fino in fondo: «Voi
vi truccate? Anche io! Entro sei mesi vi darò la
dimostrazione. Il limone non serve se non è giallo»55.

3.
UN INVITO AD UN IMPEGNO STRAORDINARIO

Questo
era il titolo dell’ultima parte della lettera di don Vecchi, a
cui ho fatto riferimento più volte, e che vorrei conservare e
condividere ora. Nelle pagine precedenti ho cercato di delineare in
modo semplice ma incisivo la straordinaria figura del nostro
confratello salesiano coadiutore Artemide Zatti. Il suo percorso di
vita, impregnato e riempito di Dio, è un esempio per tutti.
Così come la sua santità. Davanti a questa grande
figura, nella nostra Congregazione si accende la coscienza più
viva della necessità e dell’importanza di uno speciale
impegno per promuovere oggi questa bella vocazione. Faccio mie le
parole di don Vecchi per chiedere ad ogni Ispettoria, ad ogni
comunità, e a ciascun confratello nei prossimi anni, fin da
ora, «un
impegno rinnovato, straordinario e specifico per la vocazione del
salesiano coadiutore,
all’interno
della pastorale vocazionale, nel pregare per essa, nell’annunciarla
e proporla, nel chiamare, nell’accogliere e accompagnare, nel
viverla personalmente e insieme nella comunità»56.
Non mancano ricche pubblicazioni sulla figura del salesiano
coadiutore57;
forse ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento è
rendere il nostro impegno più convincente. Ho ricordato spesso
nelle mie visite alle ispettorie e anche nelle mie lettere che
dobbiamo essere prima di tutto uomini di fede, oggi più che
mai abbandonati al Signore. Molte altre strategie e piani possono
aiutarci, ma ci faranno uscire da una difficoltà profonda solo
la fiducia
nel Signore e il ricorso a Lui.

La seguente testimonianza di un confratello coadiutore ha, a mio
avviso, una forza particolare: «Anche oggi risuona il “Vieni
e seguimi”. Ed
è sempre uno stupore constatare che anche oggi ci sono giovani
a cui nulla mancherebbe per orientarsi verso il sacerdozio e invece
fanno la scelta del laico consacrato anche nella Congregazione
Salesiana. Perciò nella pastorale vocazionale bisogna credere
in questa vocazione in sé completa e trasmetterne per osmosi
la stima, senza operare forzature e distorsioni in direzione della
figura clericale. Bisogna essere convinti che ci sono giovani che non
si identificano nel modello presbiterale, mentre si sentono attratti
dal modello del laico consacrato. Quali i motivi di questa scelta?
Tutte le motivazioni sono insufficienti: al fondo resta il mistero
della Grazia e della libertà»58.

A
questo punto vorrei invitarvi ad approfondire le prossime
pubblicazioni che usciranno sia su Sant’Artemide Zatti che
sulla vocazione del coadiutore salesiano nella nostra Congregazione,
nelle varie Regioni, e nelle proposte di entrambi i Settori della
Pastorale Giovanile e della Formazione.

Non
mancheranno gli stimoli, le riflessioni, e soprattutto i doni di
intercessione del nuovo santo in modo particolare per i suoi
confratelli salesiani coadiutori nel mondo, per quelli che già
ci sono e per quelli che verranno con la Grazia di Dio.

La
forza e la bellezza di un invito

Credo
che non si possa terminare il confronto con la vita di Artemide Zatti
senza evocare, ancora una volta, una lettera del 1986, del cardinale
Jorge Mario Bergoglio, oggi Papa Francesco, scritta a un salesiano, a
testimonianza di una grazia ricevuta per intercessione di Zatti.

La
vicenda è nota: quand’era Provinciale dei Gesuiti
dell’Argentina, padre Bergoglio affidò a Zatti la
richiesta al Signore di sante vocazioni alla vita consacrata laicale
per la Compagnia di Gesù e la sua Provincia ebbe la grazia, in
un decennio, di ventitré nuove vocazioni di religiosi
fratelli.

L’episodio
è rilevante non solo per i protagonisti della vicenda –
il Padrone della Messe, un Santo coadiutore salesiano, l’attuale
Successore di Pietro – ma per il suo contenuto: la forza
vocazionale della testimonianza di Zatti.

Stupisce
che il primo salesiano canonizzato non per il martirio del sangue sia
un coadiutore, e un coadiutore che rinuncia, in radicale obbedienza a
Dio, alla stessa forma della vocazione dalla quale era stato
affascinato, quella presbiterale, per stare con don Bosco, svolgendo
poi un servizio sacrificato nel mondo della malattia e della
sofferenza.

Non
può sfuggire però la forte bellezza di questa
testimonianza; in lui brillano gli amori fondamentali che devono
infiammare il cuore del Salesiano: l’amore per Dio e per la sua
volontà, l’amore per il prossimo, che nelle sue membra
sofferenti è il Volto vicino di Gesù Crocifisso,
l’amore alla Madre del Signore, Mediatrice di ogni grazia,
l’amore a don Bosco che ad ogni salesiano promette pane, lavoro
e Paradiso.

Questi
amori brillano nella luminosa grandezza della vita religiosa di
Artemide, abbracciata con gioiosa radicalità e intraprendenza
generosa.

Il
nostro confratello Artemide Zatti ci mostra quanto il mondo sia
sensibile alla testimonianza della vita religiosa, purché tale
testimonianza sia vera, credibile, autentica: il trionfo dei suoi
funerali, la fama di santità, la venerazione della sua tomba
sono segni chiari di quanto tutti abbiano riconosciuto il dito di Dio
in azione in questo salesiano generoso e fedele: «in
proporzione agli abitanti di Viedma fu impressionante la quantità
di gente che accorse ai funerali. Da ogni dove accorreva gente umile
con piccoli mazzi di fiori. Oltre alle autorità molte altre
persone. Nei giorni [successivi alla morte] le persone, erano
convinte che fosse morto un santo; alcuni si recavano alla tomba
sperando miracoli: pregavano, portavano fiori»59.

La
vita di Artemide Zatti ha svegliato una città, e oggi tocca
l’intero mondo, perché ha parlato di Dio: ha portato tra
i poveri e i malati, con una pratica esemplare della castità,
il profumo dell’amore verginale e fecondo di Dio; ha donato a
tutti la ricchezza della fede, pagandola con una povertà amata
fino a cedere la propria camera a un infermo o a portarvi un morto
per sottrarlo alla vista degli altri malati in un ultimo gesto di
tenerezza e pietà; ha insegnato la libertà vera,
obbedendo a prezzo di lacrime amare alla volontà dei superiori
riconoscendoli mediatori del disegno di Dio.

Religioso
esemplare, con questa testimonianza, insegna a tutti che la salute da
custodire sopra ogni bene è quella dell’anima, di quella
nostra anima tanto preziosa perché da Dio viene e a Lui
aspira, spesso inconsapevolmente, nel desiderio di trovare, tra le
sue braccia, Amore eterno.

Possano
gli amori di Zatti accendere i nostri amori; possano la sua
testimonianza dell’Assoluto di Dio, della grandezza dell’anima
e della nostra vera Patria ispirare i nostri gesti e la nostra
passione pastorale, per una nuova fedeltà apostolica e
rinnovata fecondità vocazionale. Che non ci manchi mai, come
ha sempre cercato Artemide Zatti, la protezione materna
dell’Ausiliatrice, e che la devozione alla Madre in ogni casa
salesiana del mondo, e in ogni angolo dove è presente la
Famiglia di Don Bosco, sia una strada sicura che ci aiuti a vivere
una santità come quella del nostro confratello.

Concludo
queste parole proponendo una preghiera al Padre per intercessione del
nuovo santo coadiutore salesiano, sant’Artemide Zatti.

Preghiera
di intercessione

per
chiedere vocazioni di salesiani laici

O
Dio, che in sant’Artemide Zatti
ci
hai dato un modello di salesiano coadiutore,
che
docile alla tua chiamata,
con
la compassione del Buon samaritano,
si
è fatto prossimo a ogni uomo,
aiutaci
a riconoscere il dono di questa vocazione,
che
testimonia al mondo la bellezza della vita consacrata.
Donaci
il coraggio di proporre ai giovani
questa
forma di vita evangelica
al
servizio dei piccoli e dei poveri,
e
fa’ che coloro che tu chiami per questa via,
rispondano
generosamente al tuo invito.
Te
lo chiediamo per l’intercessione di Sant’Artemide Zatti
e
per la mediazione di Cristo Signore.
Amen.

Con
vero affetto e uniti nel Signore con la mutua preghiera vi saluto

Ángel
Fernández Artime, sdb
Rettor
Maggiore

1
J.E. Vecchi, Beatificazione del coadiutore Artemide Zatti: Una
novità dirompente,
in ACG 376 (2001), 3.
2
Ho deciso di tracciare un profilo breve e sobrio. Coloro che
volessero conoscere di più la vita di Artemide Zatti possono
trovare parecchie biografie sul prossimo Santo e anche leggere il
profilo biografico della lettera di don Vecchi alla quale mi sono
riferito precedentemente.
3
Cf. Positio, p.35.
4
Cfr. J.E. Vecchi,
o.c., p. 15 e Cf. Positio, p. 47.
5
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 17 e Positio, p. 79.
6
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 18.
7
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 20 e Summarium, p. 310, n. 1224.
8
Positio, p. 198.
9
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 25.
10
H.U. von Balthasar,
Gesù ci conosce? Noi conosciamo Gesù?
Morcelliana (= Il Pellicano), Brescia 1981, 95.
11
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 26.
12
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 27.
13
Positio, 31.
14
Positio, 21.
15
H.U. von Balthasar,
Gli stati di vita del cristiano, Jaca Book, Milano 1985, 34.
16
Summarium, p. 43, n. 160.
17
H.U. von Balthasar,
Gli stati di vita del cristiano, 34.
18
Positio, 206 (Profilo spirituale del servo di Dio).
19
Positio super scriptis 12.
20
Lettera
al padre
,
Viedma 15 giugno 1908.
21
Positio, 75-76.
22
Positio, 80.
23
Positio, 81.
24
Summarium
15.
25
Summarium
80.
26
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 21.
27
Testimonianza di Tassara Carlo, Summ.
126-127.
28
Testimonianza di mons. Peréz Carlo Mariano, Summ. 52.
29
Fiora Luigi, Biografia, Positio 132.
30
Testimonianza di mons. Peréz Carlo Mariano, Summ.
43-47.
31
Testimonianza di mons. Peréz Carlo Mariano, Summ. 43.
32
Testimonianza di García Oscar Giovanni, Summ. 113.
33
Testimonianza di Molinari Ferdinando Enrique, Summ.
151.
34
Testimone Morero Noelia de Tofoni, Summ. 259.
35
Testimonianza di don De Roia Luigi, Summ. 271.
36
Testimonianza di Kossman Enrico Mario, Summ. 10
37
Testimonianza di don Prieto Antonio F. Fernández, Summ.
61.
38
Testimonianza di don Brizzola Mario, Summ. 75.
39
Testimonianza di García Oscar Giovanni, Summ. 113.
40
Testimonianza di Costanzo Giuseppe Nicola, Summ. 103.
41
Testimonianza di Giraudini Amalia Teresa, Summ. 117.
42
Testimonianza di Linares Manuel, Summ. 92.
43
Testimonianza di mons. Peréz Carlo Mariano, Summ. 36.
44
Testimonianza di Kossman Enrico Mario, Summ.
14.
45
Testimonianza di don Brizzola Mario, Summ. 79-80.
46
Testimonianza di don Brizzola Mario, Summ.
80.
47
Testimonianza di Cadorna Guidi Giovanni, Summ. 218.
48
Testimonianza del dott. Guidi Pasquale Attilio, Summ. 100.
49
Testimonianza di García Oscar Giovanni, Summ.
114.
50
Testimonianza di De Palma Luigi, Summ. 135.
51
Testimonianza di don López Feliciano, Summ. 178.
52
Testimonianza di don López Feliciano, Summ. 174.
53
Testimonianza di Echay Pietro, Summ. 211-212.
54
Testimonianza di Geronazzo Francesco Erasmo, Summ. 274.
55
Testimonianza di don López Feliciano, Summ. 193.
56
J.E. Vecchi, o.c.,
p. 47.
57
Quelli offerti da Don Vecchi sono disponibili in ACG 373
(2000) e in La Vocazione del salesiano coadiutore nella pastorale
vocazionale,
in Il salesiano coadiutore. Storia, identità,
pastorale vocazionale e formazione
, Editrice SDB, Roma 1989,
133-161.
58
J.E. Vecchi, o.c.,
pp. 49-50.
59
Testimonianza di Giraudini Amalia Teresa, Summ.
115-116.





Sinodalità missionaria

La Sinodalità Missionaria: Una Prospettiva Salesiana

Sinodalità nel Nuovo Testamento

Negli ultimi anni, il sostantivo “sinodalità” è diventato di uso comune. Purtroppo, alcuni hanno una propria comprensione ideologica o errata del concetto. Non sorprende quindi che molte persone, anche religiosi e sacerdoti, si chiedano apertamente: “Che cos’è questa cosa? Che cosa significa?”. Sinodalità è in realtà una parola nuova per una realtà antica. Gesù, il pellegrino che annunciava la Buona Novella del Regno di Dio (Lc 4,14-15), ha condiviso con tutti la verità e l’amore della comunione con Dio e con le sorelle e i fratelli. L’immagine dei discepoli di Emmaus in Luca 24,18-35 è un altro esempio di sinodalità: hanno iniziato ricordando gli eventi vissuti; poi hanno riconosciuto la presenza di Dio in quegli eventi; infine, hanno agito tornando a Gerusalemme per annunciare la risurrezione di Cristo. Questo significa che noi, discepoli di Gesù, dobbiamo camminare insieme nella storia come popolo di Dio della nuova alleanza. Infatti, negli Atti degli Apostoli, il Popolo di Dio avanza insieme, sotto la guida dello Spirito Santo, durante il Concilio di Gerusalemme (Atti 15; Gal 2,1-10).

Sinodalità nella Chiesa primitiva

Nella Chiesa primitiva, Sant’Ignazio di Antiochia (50-117) ricordava alla comunità cristiana di Efeso che tutti i suoi membri sono “compagni di viaggio”, in virtù del loro battesimo e della loro amicizia con Cristo. Mentre San Cipriano di Cartagine (200-258) insisteva sul fatto che nella Chiesa locale non si dovesse fare nulla senza il vescovo. Allo stesso modo, per San Giovanni Crisostomo (347-407) “Chiesa” è un termine per “camminare insieme” attraverso la relazione reciproca e ordinata dei membri che li porta ad avere una mente comune.

Nella Chiesa primitiva, la parola greca composta da due parti: syn (che significa “con”) e ódós (che significa “cammino”) era usata per descrivere il cammino del popolo di Dio sullo stesso sentiero per rispondere a questioni disciplinari, liturgiche e dottrinali. Così, i sinodi si sono tenuti periodicamente nelle Chiese locali e nelle diocesi a partire dalla metà del II secolo, cioè dal 150 circa. Allo stesso modo, dal 325 a Nicea, la riunione di tutti i vescovi della Chiesa, chiamata “Concilio” in latino, iniziò a prendere decisioni come espressione della comunione con tutte le Chiese.

Sinodalità nel Vaticano II

Il Concilio Vaticano II non ha affrontato in modo specifico il tema della sinodalità né ha utilizzato questo termine o concetto nei suoi documenti. Ha invece utilizzato il termine “collegialità” per il metodo di costruzione dei processi conciliari. Tuttavia, la sinodalità è al centro del lavoro di rinnovamento che il Concilio stava incoraggiando. Mentre la collegialità riguarda il processo decisionale dei vescovi a livello della Chiesa universale, la sinodalità è il frutto degli sforzi attivi per vivere le prospettive del Concilio Vaticano II a livello locale. Questa comprensione è stata incarnata nella visione della natura della Chiesa come “comunione” che ha ricevuto la “missione” di proclamare e stabilire tra tutti i popoli il regno di Dio (Lumen gentium, 5). Essa immagina la Chiesa che cammina insieme e condivide “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce” di tutti coloro con cui camminiamo (Gaudium et spes, 1).

Papa Francesco e la Sinodalità

Dal 2013, Papa Francesco ci insegna la sinodalità in tutto ciò che fa e dice. La sinodalità non è una semplice discussione, né è come le deliberazioni dei parlamenti alla ricerca del consenso che si concludono con il voto della maggioranza. Non è discutere, argomentare o ascoltare per rispondere. Non è un processo di democratizzazione o di messa ai voti di una dottrina. Non è un piano o un programma da attuare. Non si tratta nemmeno di ciò che vogliono i vescovi o altre parti interessate, né di comando e controllo. La sinodalità riguarda invece chi siamo e chi aspiriamo a essere come comunità cristiana, come corpo di Cristo. È lo stile di vita che qualifica la vita e la missione dell’intera Chiesa. Sinodalità è ascolto attento per capire a livello personale e più profondo. È una Chiesa di partecipazione e di corresponsabilità, a partire dal Papa, dai vescovi e coinvolgendo tutto il popolo di Dio, affinché tutti possiamo scoprire la volontà di Dio nell’affrontare una serie di sfide particolari.

La presenza dello Spirito Santo, attraverso il sacramento del Battesimo ricevuto, permette alla totalità del popolo di Dio di avere un istinto di fede (sensus fidei) che lo aiuta a discernere ciò che è veramente di Dio e a sentire, intuire e percepire in armonia con la Chiesa. La sinodalità comporta l’esercizio del sensus fidei di tutto il popolo di Dio, il ministero di guida del collegio episcopale con il clero e il ministero di unità del Vescovo di Roma.

Sinodalità e Discernimento

La sinodalità è caratterizzata soprattutto da un costante discernimento della presenza dello Spirito Santo. Si tratta di una realtà dinamica e in divenire, perché non possiamo prevedere dove lo Spirito Santo può condurci. La sinodalità non è un percorso tracciato in anticipo. È invece un incontro che forma e trasforma. È un processo che ci sfida a riconoscere la funzione profetica del popolo di Dio e ci richiede di essere aperti all’inaspettato di Dio. Attraverso l’ascolto reciproco e il dialogo, Dio viene a toccarci, a scuoterci, a cambiarci interiormente. In ultima analisi, la sinodalità è l’espressione del coinvolgimento collettivo e del senso di corresponsabilità per la Chiesa della totalità del popolo di Dio.

Questo implica un atteggiamento di ascolto attento, con umiltà, rispetto, apertura, pazienza verso le nostre esperienze e disponibilità ad ascoltare anche idee discordanti, persone che hanno abbandonato la pratica della fede, persone di altre tradizioni di fede o addirittura di nessun credo religioso per poter discernere i suggerimenti dello Spirito Santo, che è il protagonista principale, e di conseguenza promuovere l’azione di Dio nelle persone e nella società agendo con saggezza e creatività.

La Chiesa è missionaria

La Chiesa esiste per diffondere la buona novella di Gesù. Pertanto, la sua attività missionaria consiste soprattutto nell’annunciare il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il regno e il mistero di Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio (Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 14, 22). Poiché tutti i membri della Chiesa, in virtù del battesimo ricevuto, sono agenti di evangelizzazione, di conseguenza una Chiesa sinodale è un presupposto indispensabile per una nuova energia missionaria che coinvolga l’intero popolo di Dio. L’evangelizzazione senza sinodalità manca di attenzione alle strutture della Chiesa. Al contrario, la sinodalità senza evangelizzazione significa che siamo solo un altro club sociale, commerciale o filantropico.

Sinodalità Missionaria

La sinodalità missionaria è un approccio sistemico alla realtà pastorale. Inviato ad annunciare il Vangelo, ogni battezzato, come discepolo-missionario, deve imparare ad ascoltare con attenzione e rispetto, come compagni di viaggio, la gente del luogo, i seguaci di altre religioni, le grida dei poveri e degli emarginati, coloro che non hanno voce nello spazio pubblico, per essere più vicini a Gesù e al suo Vangelo e diventare una Chiesa in uscita, non chiusa in se stessa.

Se la nostra testimonianza pubblica non è sempre evangelizzatrice in senso lato, siamo solo un’altra ONG, in un mondo di crescente disuguaglianza e isolamento. Oggi c’è una crescente consapevolezza che tutto ciò che facciamo come cattolici è un punto di contatto con l’evangelizzazione. Evangelizziamo attraverso il modo in cui accogliamo le persone, il modo in cui trattiamo i nostri amici e familiari, il modo in cui spendiamo i nostri soldi come individui, comunità e gruppi, il modo in cui ci prendiamo cura dei poveri e raggiungiamo gli emarginati, il modo in cui usiamo i social media, il modo in cui ascoltiamo con attenzione i desideri dei giovani e il modo in cui siamo in disaccordo e dialoghiamo tra di noi.

Il Processo sinodale

Per ascoltare con attenzione il senso della fede del popolo di Dio (sensus fidelium), che la Chiesa insegna come autentico garante della fede che esprime, Papa Francesco ha istituito il “processo sinodale”. Camminando insieme, discutendo e riflettendo come popolo di Dio, la Chiesa crescerà nella sua autocomprensione, imparerà a vivere la comunione, favorirà la partecipazione e si aprirà alla missione di evangelizzazione.

Il processo sinodale, infatti, ha lo scopo di ispirare speranza, stimolare la fiducia, ricucire le ferite per tessere relazioni nuove e più profonde, imparare gli uni dagli altri e illuminare le menti per sognare con entusiasmo la Chiesa e la nostra missione comune. È un kairos o momento maturo nella vita della Chiesa per la conversione in preparazione all’evangelizzazione ed è un momento di evangelizzazione.

Sinodalità e il carisma salesiano

Dai tesori pedagogici e spirituali del carisma salesiano possiamo ricavare espressioni di sinodalità missionaria.

Il nostro Patrono, San Francesco di Sales, ha fatto della vera amicizia il contesto necessario in cui si svolge il cammino insieme attraverso l’accompagnamento spirituale. Egli riteneva che non ci potesse essere un vero accompagnamento spirituale senza una vera amicizia. Tale amicizia implica sempre una comunicazione reciproca e un arricchimento reciproco, che permette alla relazione di diventare veramente spirituale.

Nell’Oratorio di Valdocco, Don Bosco ha preparato i suoi ragazzi alla vita e li ha resi consapevoli dell’amore di Dio per loro, li ha aiutati ad amare la loro fede cattolica e a praticarla nella vita quotidiana. Si preoccupava di mantenere un rapporto individuale per offrire loro, secondo le necessità di ciascuno, un accompagnamento personale e di gruppo. Così scriveva nella sua lettera da Roma del 1884: “la familiarità porta all’amore e l’amore porta alla fiducia. È questo che apre il cuore e i giovani rivelano tutto senza paura”. Mantenendo un bell’equilibrio tra un ambiente sano e maturo e la responsabilità individuale, l’Oratorio divenne una casa, una parrocchia, una scuola e un campo da gioco.

Don Bosco formò attorno a sé una comunità in cui i giovani stessi erano protagonisti. Favorì la partecipazione e la condivisione di responsabilità da parte di ecclesiastici, salesiani, laici. Lo aiutavano a tenere il catechismo e altre lezioni, ad assistere in chiesa, a guidare i giovani nella preghiera, a prepararli per la prima comunione e la cresima, ad assistere nel cortile dove giocavano con i ragazzi, ad aiutare i più bisognosi a trovare un impiego presso qualche datore di lavoro onesto. In cambio, Don Bosco si prendeva diligentemente cura della loro vita spirituale, attraverso incontri personali, conferenze, direzione spirituale e amministrazione dei sacramenti. Da questo ambiente nacque una nuova cultura in cui si respirava un profondo amore per Dio e per la Madonna, che a sua volta creò un nuovo stile di relazione tra i giovani e gli educatori, tra i laici e i sacerdoti, tra gli artigiani e gli studenti.

Oggi la Comunità Educativo-Pastorale (CEP), attraverso il Piano Educativo-Pastorale Salesiano (PEPS), è il centro di comunione e condivisione dello spirito e della missione di Don Bosco. Nella CEP promuoviamo un nuovo modo di pensare, giudicare e agire, un nuovo modo di affrontare i problemi e un nuovo stile di relazioni – con i giovani, i salesiani e i laici, in vari modi, come leader e collaboratori.

Un elemento essenziale del carisma di Don Bosco è lo spirito missionario che ha trasmesso ai suoi salesiani e a tutta la famiglia salesiana. Questo è riassunto nel Da mihi animas e si esprime attraverso il “cuore oratoriano”, il fervore, lo slancio e la passione per l’evangelizzazione, in particolare dei giovani. È la capacità di dialogo interculturale e interreligioso e la disponibilità ad essere inviato dove c’è bisogno, in particolare nelle periferie.

Un tempo di conversione

La conversione personale e comunitaria sarà sempre necessaria, perché riconosciamo umilmente che in noi ci sono ancora tanti ostacoli ai nostri sforzi per vivere la sinodalità missionaria: l’urgenza di insegnare più che di ascoltare; un senso di diritto al privilegio; l’incapacità di essere trasparenti e responsabili; la lentezza nel dialogo e la mancanza di presenza animatrice tra i giovani; la propensione al controllo e alla rivendicazione del diritto esclusivo di prendere decisioni; la mancanza di fiducia nella responsabilizzazione dei laici come partner della missione; e la mancanza di riconoscimento della presenza dello Spirito Santo nelle culture e nei popoli, anche prima del nostro arrivo.

In effetti, la sinodalità missionaria salesiana è allo stesso tempo un dono e un compito!