Il Venerabile mons. Stefano Ferrando

Mons. Stefano Ferrando è stato un esempio straordinario di dedizione missionaria e servizio episcopale, coniugando il carisma salesiano con una vocazione profonda al servizio dei più poveri. Nato nel 1895 in Piemonte, entrò giovane nella Congregazione salesiana e, dopo aver prestato servizio militare durante la Prima guerra mondiale, che gli valse la medaglia d’argento al valore, si dedicò all’apostolato in India. Vescovo di Krishnagar e poi di Shillong per oltre trent’anni, camminò instancabilmente fra le popolazioni, promuovendo l’evangelizzazione con umiltà e profondo amore pastorale. Fondò istituzioni, sostenne i catechisti laici e incarnò nel suo vivere il motto “Apostolo di Cristo”. La sua vita fu un esempio di fede, abbandono a Dio e totale donazione, lasciando un’eredità spirituale che continua ad ispirare la missione salesiana nel mondo.

            Il venerabile Mons. Stefano Ferrando seppe coniugare la propria vocazione salesiana con il carisma missionario e il ministero episcopale. Nato il 28 settembre 1895 a Rossiglione (Genova, diocesi di Acqui) da Agostino e Giuseppina Salvi, si contraddistinse per un ardente amore a Dio e una tenera devozione alla beata Vergine Maria. Nel 1904 entrò nelle scuole salesiane, prima a Fossano e poi a Torino – Valdocco, dove conobbe i successori di Don Bosco e la prima generazione di Salesiani, e intraprese gli studi sacerdotali; nel frattempo nutrì il desiderio di partire missionario. Il 13 settembre 1912, a Foglizzo fece la sua prima professione religiosa nella Congregazione salesiana. Chiamato alle armi nel 1915, partecipò alla Prima guerra mondiale. Per il coraggio dimostrato gli venne conferita la medaglia d’argento al valore. Tornato a casa nel 1918, il 26 dicembre 1920 emise i voti perpetui.
            Fu ordinato sacerdote a Borgo San Martino (Alessandria) il 18 marzo 1923. Il 2 dicembre dello stesso anno, con nove compagni, s’imbarcò a Venezia come missionario in India. Il 18 dicembre, dopo 16 giorni di viaggio, il gruppo arrivò a Bombay e il 23 dicembre a Shillong, luogo del suo nuovo apostolato. Maestro dei novizi, educò i giovani salesiani all’amore per Gesù e Maria ed ebbe un grande spirito di apostolato.
            Il 9 agosto 1934 papa Pio XI lo nominò vescovo di Krishnagar. Il suo motto fu “Apostolo di Cristo”. Nel 1935, il 26 novembre, venne trasferito a Shillong dove rimarrà vescovo per 34 anni. Pur operando in una gravosa situazione di impatto culturale, religioso e sociale, Mons. Ferrando si prodigò instancabilmente per stare accanto al popolo che gli era stato affidato, lavorando con zelo nella vasta diocesi che comprendeva l’intera regione dell’India del Nord Est. Preferì alla macchina, di cui avrebbe potuto disporre, muoversi a piedi: questo gli permetteva infatti di incontrare le persone, fermarsi a parlare con loro, essere reso partecipe della loro vita. Tale contatto in diretta con la vita delle persone fu una delle principali ragioni della fecondità del suo annuncio evangelico: umiltà, semplicità, amore per i poveri spingono molti a convertirsi e a richiedere il Battesimo. Istituì un seminario per la formazione dei giovani salesiani indiani, costruì un ospedale, edificò un santuario dedicato a Maria Ausiliatrice e fondò la prima Congregazione di suore autoctone, la Congregazione delle Suore Missionarie di Maria Aiuto dei Cristiani (1942).

            Uomo dal carattere forte, non si scoraggiò di fronte alle innumerevoli difficoltà, che affrontò con il sorriso e la mitezza. La perseveranza di fronte agli ostacoli fu una delle sue caratteristiche principali. Cercò di unire il messaggio evangelico alla cultura locale nella quale esso andava inserito. Fu intrepido nelle visite pastorali, che compì nei luoghi più sperduti della diocesi, pur di ricuperare l’ultima pecorella smarrita. Manifestò una particolare sensibilità e promozione per i catechisti laici, che considerava complementari alla missione del vescovo e da cui dipese buona parte della fecondità dell’annuncio del Vangelo e della sua penetrazione nel territorio. Immensa anche la sua attenzione alla pastorale familiare. Nonostante i numerosi impegni, il venerabile fu un uomo dalla ricca vita interiore, alimentata dalla preghiera e dal raccoglimento. Come Pastore fu apprezzato dalle sue suore, dai sacerdoti, dai confratelli salesiani e nell’episcopato, nonché dal popolo che lo sentì profondamente vicino. Si donò in maniera creativa al suo gregge, occupandosi dei poveri, difendendo gli intoccabili, curando i malati di colera.
            I punti-cardine della sua spiritualità furono il legame filiale con la Vergine Maria, lo zelo missionario, il continuo riferimento a Don Bosco, come emerge dai suoi scritti e in tutta la sua attività missionaria. Il momento più luminoso ed eroico della sua vita virtuosa fu l’abbandono della diocesi di Shillong. Mons. Ferrando dovette presentare al Santo Padre le dimissioni quando era ancora nel pieno delle proprie facoltà fisiche e intellettive, per consentire la nomina del suo successore, che andava scelto, secondo le superiori indicazioni, fra i sacerdoti indigeni da lui stesso formati. Fu un momento particolarmente doloroso, vissuto dal grande vescovo con umiltà e obbedienza. Egli comprese che era tempo di ritirarsi in preghiera secondo la volontà del Signore.
            Tornato a Genova nel 1969, continuò la sua attività pastorale, presiedendo le cerimonie per il conferimento della Cresima e dedicandosi al sacramento della Penitenza.
            Fu sino all’ultimo fedele alla vita religiosa salesiana, decidendo di vivere in comunità e rinunciando ai privilegi che la sua posizione di vescovo poteva riservargli. Egli in Italia continuò ad essere «a missionary». Non «a missionary who moves, but […] a missionary who is»: non un missionario che si muove, ma un missionario che è. La sua vita in questa ultima stagione diventò un “irradiare”. Egli diventa un “missionario della preghiera” che dice: «Sono contento di essere venuto via perché altri subentrassero a compiere opere così meravigliose».
            Da Genova Quarto, continuò ad animare la missione dell’Assam, sensibilizzando le coscienze ed inviando aiuti economici. Visse quest’ora di purificazione con spirito di fede, di abbandono alla volontà di Dio e di obbedienza, toccando con mano tutto il senso dell’espressione evangelica «siamo solo servi inutili», e confermando con la sua vita il caetera tolle, l’aspetto oblativo-sacrificale della vocazione salesiana. Morì il 20 giugno 1978 e venne sepolto a Rossiglione, sua terra natale. Nel 1987 le sue spoglie mortali furono riportate in India.

            Nella docilità allo Spirito svolse una feconda azione pastorale, che si manifestò nel grande amore per i poveri, nell’umiltà di spirito e nella carità fraterna, nella gioia e nell’ottimismo dello spirito salesiano.
            Mons. Ferrando ha inaugurato, insieme a tanti missionari che con lui hanno condiviso l’avventura dello Spirito nella terra dell’India, tra i quali i Servi di Dio Francesco Convertini, Costantino Vendrame e Oreste Marengo, un nuovo metodo missionario: essere missionario itinerante. Tale esempio è un provvidenziale monito, soprattutto per le congregazioni religiose tentate da un processo di istituzionalizzazione e di chiusura, a non perdere la passione di andare incontro alle persone e alle situazioni di maggior povertà e indigenza materiale e spirituale, andando là dove nessuno vuole andare e affidandosi come lei fece. «Guardo con fiducia all’avvenire fidando in Maria Ausiliatrice… Mi affiderò all’Ausiliatrice che mi salvò già da tanti pericoli».




Le lotterie: autentiche imprese

Don Bosco non fu soltanto un instancabile educatore e pastore di anime, ma anche un uomo di straordinaria intraprendenza, capace di inventare soluzioni nuove e coraggiose per sostenere le sue opere. Le necessità economiche dell’Oratorio di Valdocco, in continua espansione, lo spinsero a cercare mezzi sempre più efficaci per garantire vitto, alloggio, scuola e lavoro a migliaia di ragazzi. Tra questi, le lotterie rappresentarono una delle intuizioni più ingegnose: vere imprese collettive, che coinvolgevano nobili, sacerdoti, benefattori e semplici cittadini.Non era semplice, poiché la legislazione piemontese regolava con rigore le lotterie, consentendone l’organizzazione ai privati solo in casi ben definiti. E non si trattava soltanto di raccogliere fondi, ma di creare una rete di solidarietà che univa la società torinese intorno al progetto educativo e spirituale dell’Oratorio. La prima, nel 1851, fu un’avventura memorabile, ricca di imprevisti e successi.

            Il tanto denaro che è giunto nelle mani di don Bosco vi è rimasto per poco, perché subito impiegato nel dare vitto, alloggio, scuola e lavoro a decine di migliaia di ragazzi o nel costruire collegi, orfanotrofi e chiese o nel sostenere le missioni sudamericane. I suoi conti, si sa, erano sempre in rosso; i debiti lo hanno accompagnato tutta la vita.
            Ora fra i mezzi intelligentemente adottati da don Bosco per finanziare le sue opere si possono di certo collocare le lotterie: una quindicina quelle da lui organizzate, fra piccole e grandi. La prima, modesta, fu quella di Torino nel 1851 a favore della chiesa di san Francesco di Sales in Valdocco e l’ultima, grandiosa, a metà degli anni ottanta, fu quella per sopperire alle immense spese della chiesa e dell’ospizio del S. Cuore presso la stazione Termini di Roma.
            Una vera storia di tali lotterie non è ancora stata scritta, benché al riguardo non manchino le fonti. Solo in riferimento alla prima, quella del 1851, ne abbiamo recuperato noi stessi una dozzina di inedite. Con esse ne ricostruiamo la tormentata storia in due puntate.

Domanda di autorizzazione
            A norma di legge del 24 febbraio 1820 – modificata da Regie Patenti del gennaio 1835 e da Istruzioni dell’Azienda Generale delle Regie Finanze in data 24 agosto 1835 e successivamente da Regie Patenti del 17 luglio 1845 – per qualunque lotteria nazionale (Regno di Sardegna) si richiedeva la preventiva autorizzazione governativa.
            Per don Bosco si trattò anzitutto di avere la morale certezza di riuscire nel progetto. La ebbe dall’appoggio economico e morale dei primissimi benefattori: le nobili famiglie Callori e Fassati ed il canonico Anglesio del Cottolengo. Si lanciò dunque in quella che sarebbe risultata un’autentica impresa. In tempi brevi riuscì a costituire una Commissione organizzatrice, composta inizialmente da sedici note personalità, poi accresciuta fino a venti. Fra loro numerose autorità civili ufficialmente riconosciute, come un senatore (nominato tesoriere), due vicesindaci, tre consiglieri comunali; poi sacerdoti di prestigio come i teologi Pietro Baricco, vicesindaco e segretario della Commissione, Giovanni Borel cappellano di corte, Giuseppe Ortalda, direttore di Opera Pia di Propaganda Fide, Roberto Murialdo, cofondatore del collegio degli Artigianelli e dell’Associazione di carità; infine uomini esperti come un ingegnere, un orefice stimatore, un negoziante all’ingrosso ecc. Tutte persone, per lo più possidenti, conosciute da don Bosco e “vicine” all’opera di Valdocco.
            Completata la Commissione, ad inizio dicembre 1851 don Bosco inoltrò la domanda formale all’Intendente generale di Finanza, cavalier Alessandro Pernati di Momo (futuro senatore e ministro dell’Interno del Regno) nonché “amico” dell’opera di Valdocco.

L’appello per i doni
            Alla richiesta di autorizzazione allegò un’interessantissima circolare, in cui, dopo aver tracciato una commovente storia dell’Oratorio – apprezzato dalla famiglia reale, dalle autorità di governo, dalle autorità municipali – indicava che le continue necessità di ampiamento dell’Opera di Valdocco per accogliere sempre più giovani consumavano le risorse economiche della beneficenza privata. Perciò al fine di pagare le spese del completamento della nuova cappella in costruzione, si era presa la decisione di far appello alla pubblica carità mediante una lotteria di doni da offrire spontaneamente: “Consiste questo mezzo in una lotteria d’oggetti, che i sottoscritti vennero in pensiero d’intraprendere per sopperire alle spese di ultimazione della nuova cappella, ed a cui la signoria vostra vorrà, non vi ha dubbio, prestare il suo concorso, riflettendo all’eccellenza dell’opera cui è diretta. Qualunque oggetto piaccia alla signoria vostra offrire o di seta, o di lana, o di metallo, o di legno, ossia lavoro di riputato artista, o di modesto operaio, o di laborioso artigiano, o di caritatevole gentildonna, tutto sarà accettato con gratitudine, perché in fatto di beneficenza ogni piccolo aiuto è gran cosa, e perché le offerte anche tenui di molti insieme riunite possono bastare a compir l’opera desiderata”.
            Nella circolare indicò pure i nomi dei promotori e promotrici, cui si potevano consegnare i doni e delle persone di fiducia che li avrebbero poi raccolti e custoditi. Fra i 46 promotori figuravano varie categorie di persone: professionisti, professori, impresari, studenti, chierici, negozianti, mercanti, sacerdoti; diversamente fra la novantina di promotrici sembra prevalessero le nobildonne (baronessa, marchesa, contessa e relative damigelle).
            Non mancò di allegare alla domanda pure il “piano della lotteria” in tutti i suoi molteplici aspetti formali: raccolta degli oggetti, ricevuta di consegna degli stessi, loro valutazione, biglietti autenticati da smerciare in numero proporzionato al numero e valore degli oggetti, loro esposizione al pubblico, estrazione dei vincitori, pubblicazione dei numeri estratti, tempi di ritiro dei premi ecc. Una serie di impegnativi adempimenti cui don Bosco non si sottrasse. Per i suoi giovani non bastava più la cappella Pinardi: ci voleva una chiesa più grande, quella, progettata, di san Francesco di Sales (una dozzina di anni dopo ce ne sarebbe voluta un’altra ancora più grande, quella di Maria Ausiliatrice!).

Risposta positiva
            Vista la serietà dell’iniziativa e l’alta “qualità” dei membri della Commissione proponente, la risposta dell’Intendenza non poté che essere positiva ed immediata. Il 17 dicembre il suddetto vicesindaco Pietro Baricco trasmise a don Bosco il relativo decreto, con l’invito a trasmettere sempre in copia i futuri atti formali della lotteria all’Amministrazione comunale, responsabile delle regolarità di tutti gli adempimenti di legge. A questo punto prima di Natale don Bosco mandò alle stampe la suddetta circolare, la diffuse ed incominciò a raccogliere doni.
            Gli erano stati concessi due mesi di tempo al riguardo, in quanto durante l’anno avevano luogo anche altre lotterie. I doni arrivavano però lentamente, per cui a metà gennaio don Bosco si vide costretto a ristampare la predetta circolare e chiese la collaborazione a tutti i giovani di Valdocco ed agli amici per scrivere indirizzi, fare visita a benefattori conosciuti, propagandare l’iniziativa, raccogliere i doni.
            Ma “il bello” doveva ancora venire.

Il salone espositivo
            Valdocco non aveva spazi per l’esposizione dei doni, per cui don Bosco domandò al vicesindaco Baricco, tesoriere della commissione per la lotteria, di chiedere al Ministero della guerra, tre stanze di quella parte del Convento di san Domenico che era a disposizione dell’esercito. I padri domenicani erano d’accordo. Il ministro Alfonso Lamarmora in data 16 gennaio le concesse. Ma ben presto don Bosco si rese conto che non sarebbero state sufficientemente ampie, per cui fece chiedere al re, tramite l’elemosiniere, abate Stanislao Gazzelli, un locale più grande. Dal sovraintendente reale Pamparà gli venne risposto che il re non disponeva di locale adatto e proponeva di affittare a sue spese il locale del gioco del Trincotto (o pallacorda: una sorta di tennis a mano ante litteram). Questo locale però sarebbe stato disponibile per il solo mese di marzo e a certe condizioni. Don Bosco rifiutò la proposta ma accettò le 200 lire offerte dal re per il fitto del locale. Messosi allora alla ricerca di altro salone, ne trovò uno adatto su indicazione del municipio cittadino, dietro la chiesa di S. Domenico, a poche centinaia di metri da Valdocco.

Arrivo dei doni
            Nel frattempo don Bosco aveva chiesto al ministro delle Finanze, il famoso conte Camillo Cavour, una riduzione o l’esenzione delle spese di spedizione delle lettere circolari, dei biglietti e degli stessi doni. Tramite il fratello del conte, il religiosissimo marchese Gustavo di Cavour, ricevette il consenso per varie riduzioni postali.
            Si trattava ora di trovare un perito per la valutazione dell’ammontare dei doni e il conseguente numero dei biglietti da smerciare. Don Bosco lo chiese all’Intendente suggerendone anche il nome: un orefice membro della Commissione. L’Intendente, invece, tramite il sindaco gli rispose chiedendogli una doppia copia descrittiva dei doni arrivati onde nominare un proprio perito. Don Bosco eseguì subito la richiesta e così il 19 febbraio il perito valutò in 4124,20 lire i 700 oggetti raccolti. Dopo tre mesi si arrivò a 1000 doni, dopo quattro a 2000, sino alla conclusione di 3251 doni, grazie al continuo “questuare di don Bosco” presso singoli, sacerdoti e vescovi e alle sue ripetute richieste formali al Comune di proroga del tempo per l’estrazione. Don Bosco non mancò neppure di criticare la stima fatta dal perito comunale dei doni che continuamente arrivavano, a suo dire, inferiore all’effettivo loro valore; ed in effetti vennero aggiunti altri estimatori, soprattutto un pittore per le opere d’arte.
            La cifra finale fu tale che don Bosco fu autorizzato ad emettere 99 999 biglietti al prezzo di 50 centesimi l’uno. Al catalogo già stampato con i doni numerati con nome del donatore e dei promotori e promotrici si aggiunse un supplemento con gli ultimi doni arrivati. Fra loro quelli del papa, del re, della regina madre, della regina consorte, deputati, senatori, autorità municipali ma anche tantissime persone umili, soprattutto donne che offrirono oggetti e suppellettili per la casa, anche di poco valore (bicchiere, calamaio, candela, caraffa, cavatappi, cuffia, ditale, forbici, lampada, metro, pipa, portachiavi, saponetta, temperino, zuccheriera). Il dono più offerto furono i libri, ben 629 e i quadri-quadretti, 265. Pure i ragazzi di Valdocco andarono a gara ad offrire il loro piccolo dono, magari un libretto regalato loro da don Bosco stesso.

Un lavoro immane fino all’estrazione dei numeri
            A questo punto bisognava stampare i biglietti in serie progressiva in duplice forma (piccola matrice e biglietto), farli firmare entrambi da due membri della commissione, spedire il biglietto tenendone nota, documentare il denaro incassato… A molti benefattori si inviavano decine di biglietti, con l’invito a tenerli o a smerciarli presso amici e conoscenti.
            La data dell’estrazione, inizialmente fissata per il 30 aprile, fu rinviata al 31 maggio e quindi al 30 giugno, per effettuarlo poi a metà luglio. Quest’ultima proroga fu dovuta allo scoppio della polveriera di Borgo Dora che devastò l’area di Valdocco.
            Per due pomeriggi, 12-13 luglio 1852, sul balcone del palazzo municipale si procedette all’estrazione dei biglietti. Quattro urne a ruota di diverso colore contenevano 10 pallottole (da 0 a 9) identiche e dello stesso colore della ruota. Inserite ad una ad una dal vicesindaco nelle urne, e fatte girare, otto giovani dell’Oratorio compivano l’operazione ed il numero estratto veniva proclamato ad alta voce e poi pubblicato sulla stampa. Molti doni furono lasciati all’Oratorio, dove furono successivamente riutilizzati.

Valeva la pena?
            Per i circa 74 mila biglietti venduti, tolte le spese, a don Bosco restarono circa 26.000 lire, che poi provvide a suddividere equamente con l’attigua opera Cottolengo. Un piccolo capitale certo (la metà del prezzo di acquisto della casetta Pinardi l’anno precedente), ma il risultato più grande del lavoro massacrante cui si sottopose per effettuare la lotteria – documentata da decine di lettere spesso inedite – è stato il diretto e sentito coinvolgimento di migliaia di persone di ogni classe sociale nel suo “incipiente progetto Valdocco”: nel farlo conoscere, apprezzare e poi sostenere economicamente, socialmente, politicamente.
            Don Bosco ricorrerà molte volte alle lotterie e sempre con il duplice scopo: raccogliere fondi per le sue opere per i ragazzi poveri, per le missioni e offrire modalità a credenti (e non credenti) di praticare la carità, il mezzo più efficace, come ripeteva continuamente, per “ottenere il perdono dei peccati e assicurarsi la vita eterna”.

«Ho sempre avuto bisogno di tutti» Don Bosco

Al senatore Giuseppe Cotta

Giuseppe Cotta, banchiere, fu grande benefattore di don Bosco. In archivio si conserva la seguente dichiarazione su carta da bollo in data 5 Febbraio 1849: “I sottoscritti sacerdoti T. Borrelli Gioanni di Torino e D. Bosco Gio’ di Castelnuovo d’Asti si dichiarano debitori di franchi tre mila verso l’ill.mo Cavaliere Cotta che ne fece imprestito ai medesimi per un’opera pia. Questa somma dovrà essere dai medesimi sottoscritti restituita fra un anno cogli interessi legali”. Firmato Sacerdote Giovanni Borel, D. Bosco Gio.

In calce allo stesso foglio e nella stessa data p. Cafasso Giuseppe scrive: “Il sottoscritto rende distinte grazie all’Ill. mo Sig. Cav. Cotta per quanto sopra e nello stesso tempo si rende fideiussore verso il medesimo della somma nominata”. A fondo pagina il Cotta sottoscrive di aver ricevuto lire 2.000 il 10 aprile 1849, altre 500 lire il 21 luglio 1849 e il saldo il 4 gennaio 1851.




Diventare un segno di speranza in eSwatini – Lesotho – Sudafrica dopo 130 anni

Nel cuore dell’Africa australe, tra le bellezze naturali e le sfide sociali di eSwatini, Lesotho e Sudafrica, i Salesiani celebrano 130 anni di presenza missionaria. In questo tempo di Giubileo, di Capitolo Generale e di anniversari storici, l’Ispettoria Africa Meridionale condivide i suoi segni di speranza: la fedeltà al carisma di Don Bosco, l’impegno educativo e pastorale tra i giovani e la forza di una comunità internazionale che testimonia fraternità e resilienza. Nonostante le difficoltà, l’entusiasmo dei giovani, la ricchezza delle culture locali e la spiritualità dell’Ubuntu continuano a indicare strade di futuro e di comunione.

Saluti fraterni dai Salesiani della più piccola Visitatoria e della più antica presenza nella Regione Africa-Madagascar (dal 1896, i primi 5 confratelli furono inviati da Don Rua). Quest’anno ringraziamo i 130 SDB che hanno lavorato nei nostri 3 Paesi e che ora intercedono per noi dal cielo. “Piccolo è bello”!

Nel territorio dell’AFM vivono 65 milioni di persone che comunicano in 12 lingue ufficiali, tra tante meraviglie della natura e grandi risorse del sottosuolo. Siamo tra i pochi Paesi dell’Africa sub-sahariana in cui i cattolici sono una piccola minoranza rispetto alle altre Chiese cristiane, con soli 5 milioni di fedeli.

Quali sono i segni di speranza che i nostri giovani e la società stanno cercando?
In primo luogo, stiamo cercando di superare i famigerati record mondiali del crescente divario tra ricchi e poveri (100.000 milionari contro 15 milioni di giovani disoccupati), della mancanza di sicurezza e della crescente violenza nella vita quotidiana, del collasso del sistema educativo, che ha prodotto una nuova generazione di milioni di analfabeti, alle prese con diverse dipendenze (alcool, droga…). Inoltre, a 30 anni dalla fine del regime di apartheid nel 1994, la società e la Chiesa sono ancora divise tra le varie comunità in termini di economia, opportunità e molte ferite non ancora rimarginate. In effetti, la comunità del “Paese dell’Arcobaleno” sta lottando con molte “lacune” che possono essere “riempite” solo con i valori del Vangelo.

Quali sono i segni di speranza che la Chiesa cattolica in Sudafrica sta cercando?
Partecipando all’incontro triennale “Joint Witness” dei superiori religiosi e dei vescovi nel 2024, ci siamo resi conto di molti segni di declino: meno fedeli, mancanza di vocazioni sacerdotali e religiose, invecchiamento e diminuzione del numero di religiosi, alcune diocesi in bancarotta, continua perdita/diminuzione di istituzioni cattoliche (assistenza medica, istruzione, opere sociali o media) a causa del forte calo di religiosi e laici impegnati. La Conferenza episcopale cattolica (SACBC – che comprende Botswana, eSwatini e Sudafrica) indica come priorità l’assistenza ai giovani dipendenti dall’alcool e da altre sostanze varie.

Quali sono i segni di speranza che i salesiani dell’Africa meridionale stanno cercando?
Preghiamo ogni giorno per nuove vocazioni salesiane, per poter accogliere nuovi missionari. È infatti finita l’epoca dell’Ispettoria anglo-irlandese (fino al 1988) e il Progetto Africa non comprendeva la punta meridionale del continente. Dopo 70 anni in eSwatini (Swaziland) e 45 anni in Lesotho, abbiamo solo 4 vocazioni locali da ciascun Regno. Oggi abbiamo solo 5 giovani confratelli e 4 novizi in formazione iniziale. Tuttavia, la Visitatoria più piccola dell’Africa-Madagascar, attraverso le sue 7 comunità locali, è incaricata dell’educazione e della cura pastorale in 6 grandi parrocchie, 18 scuole primarie e secondarie, 3 centri di formazione professionale (TVET) e diversi programmi di assistenza sociale. La nostra comunità ispettoriale, con 18 nazionalità diverse tra i 35 SDB che vivono nelle 7 comunità, è un grande dono e una sfida da accogliere.

Come comunità cattolica minoritaria e fragile dell’Africa australe
Crediamo che l’unica strada per il futuro sia quella di costruire più ponti e comunione tra i religiosi e le diocesi: più siamo deboli più ci sforziamo di lavorare insieme. Poiché tutta la Chiesa cattolica cerca di puntare sui giovani, Don Bosco è stato scelto dai vescovi come Patrono della Pastorale Giovanile e la sua Novena viene celebrata con fervore nella maggior parte delle diocesi e delle parrocchie all’inizio dell’anno pastorale.

Come Salesiani e Famiglia Salesiana, ci incoraggiamo costantemente a vicenda: “work in progress” (un lavoro costante)
Negli ultimi due anni, dopo l’invito del Rettor Maggiore, abbiamo cercato di rilanciare il nostro carisma salesiano, con la saggezza di una visione e direzione comune (a partire dall’assemblea annuale ispettoriale), con una serie di piccoli e semplici passi quotidiani nella giusta direzione e con la saggezza della conversione personale e comunitaria.

Siamo grati per l’incoraggiamento di don Pascual Chávez per il nostro recente Capitolo Ispettoriale del 2024: «Sapete bene che è più difficile, ma non impossibile, “rifondare” che fondare [il carisma], perché ci sono abitudini, atteggiamenti o comportamenti che non corrispondono allo spirito del nostro Santo Fondatore, don Bosco, e al suo Progetto di Vita, e hanno “diritto di cittadinanza” [nell’Ispettoria]. C’è davvero bisogno di una vera conversione di ogni confratello a Dio, tenendo il Vangelo come suprema regola di vita, e di tutta l’Ispettoria a Don Bosco, assumendo le Costituzioni come vero progetto di vita».

È stato votato il consiglio di don Pascual e l’impegno: “Diventare più appassionati di Gesù e dedicati ai giovani”, investendo nella conversione personale (creando uno spazio sacro nella nostra vita, per lasciare che Gesù la trasformi), nella conversione comunitaria (investendo nella formazione permanente sistematica mensile secondo un tema) e nella conversione ispettoriale (promuovendo la mentalità ispettoriale attraverso “One Heart One Soul” – frutto della nostra assemblea ispettoriale) e con incontri mensili online dei direttori.

Sull’immaginetta-ricordo della nostra Visitatoria del Beato Michele Rua, accanto ai volti di tutti i 46 confratelli e 4 novizi (35 vivono nelle nostre 7 comunità, 7 sono in formazione all’estero e 5 SDB sono in attesa del visto, con uno a San Callisto-catacombe e un missionario che sta facendo chemioterapia in Polonia). Siamo anche benedetti da un numero crescente di confratelli missionari che vengono inviati dal Rettor Maggiore o per un periodo specifico da altre Ispettorie africane per aiutarci (AFC, ACC, ANN, ATE, MDG e ZMB). Siamo molto grati a ciascuno di questi giovani confratelli. Crediamo che, con il loro aiuto, la nostra speranza di rilancio carismatico stia diventando tangibile. La nostra Visitatoria – la più piccola dell’Africa-Madagascar, dopo quasi 40 anni dalla fondazione, non ha ancora una vera e propria casa ispettoriale. La costruzione è iniziata, con l’aiuto del Rettor Maggiore, solo l’anno scorso. Anche qui diciamo: “lavori in corso”…

Vogliamo condividere anche i nostri umili segni di speranza con tutte le altre 92 Ispettorie in questo prezioso periodo del Capitolo Generale. L’AFM ha un’esperienza unica di 31 anni di volontari missionari locali (coinvolti nella Pastorale Giovanile del Centro Giovanile Bosco di Johannesburg dal 1994), il programma “Love Matters” per una sana crescita sessuale degli adolescenti dal 2001. I nostri volontari, infatti, coinvolti per un anno intero nella vita della nostra comunità, sono membri più preziosi della nostra Missione e dei nuovi gruppi della Famiglia Salesiana che stanno lentamente crescendo (VDB, Salesiani Cooperatori e Ex-allievi di Don Bosco).

La nostra casa madre di Città del Capo celebrerà già l’anno prossimo il suo cento trentesimo (130°) anniversario e, grazie al cento cinquantesimo (150°) anniversario delle Missioni Salesiane, abbiamo realizzato, con l’aiuto dell’Ispettoria della Cina, una speciale “Stanza della Memoria di San Luigi Versiglia”, dove il nostro Protomartire trascorse un giorno durante il suo ritorno dall’Italia in Cina-Macao nel maggio 1917.

Don Bosco ‘Ubuntu’ – cammino sinodale
 “Siamo qui grazie a voi!” – Ubuntu è uno dei contributi delle culture dell’Africa meridionale alla comunità globale. La parola in lingua Nguni significa “Io sono perché voi siete” (“I’m because you are!”. Altre possibili traduzioni: “Ci sono perché ci siete voi”). L’anno scorso abbiamo intrapreso il progetto “Eco Ubuntu” (progetto di sensibilizzazione ambientale della durata di 3 anni) che coinvolge circa 15.000 giovani delle nostre 7 comunità in eSwatini, Lesotho e Sudafrica. Oltre alla splendida celebrazione e alla condivisione del Sinodo dei Giovani 2024, i nostri 300 giovani [che hanno partecipato] conservano soprattutto Ubuntu nei loro ricordi. Il loro entusiasmo è una fonte di ispirazione. L’AFM ha bisogno di voi: Ci siamo grazie a voi!

Marco Fulgaro




La pastora, le pecore e agnelli (1867)

Nel brano che segue, Don Bosco, fondatore dell’Oratorio di Valdocco, racconta ai suoi giovani un sogno avuto tra il 29 e il 30 maggio 1867 e narrato la sera della Domenica della Santissima Trinità. In una pianura sconfinata, greggi e agnelli diventano allegoria del mondo e dei ragazzi: prati rigogliosi o deserti aridi figurano la grazia e il peccato; corna e ferite denunciano scandalo e disonore; la cifra «3» preannuncia tre carestie – spirituale, morale, materiale – che minacciano chi si allontana da Dio. Dal racconto sgorga l’appello pressante del santo: custodire l’innocenza, tornare alla grazia con la penitenza, così che ogni giovane possa rivestirsi dei fiori della purezza e partecipare alla gioia promessa dal buon Pastore.

                La Domenica della SS. Trinità, 16 giugno, nella qual festa ventisei anni addietro Don Bosco aveva celebrata la sua prima messa, i giovani erano in aspettazione del sogno, il cui racconto era stato da lui annunziato il giorno 13. Il suo ardente desiderio era il bene del suo gregge spirituale, e sempre sua norma gli ammonimenti e le promesse del capo XXVII, v. 23-25 del libro dei Proverbi: Diligenter agnosce vultum pecoris tui, tuosque greges considera: non enim habebis iugiter potestatem: sed corona tribuetur in generationem et generationem. Aperta sunt prata, et apparuerunt herbae virentes, et collecta sunt foena de montibus… (Preoccupati dello stato del tuo gregge, abbi cura delle tue mandrie, perché le ricchezze non sono eterne e una corona non dura per sempre. Tolto il fieno, ricresce l’erba nuova e si raccolgono i foraggi sui monti, Pro 27,23-25). Colle sue preghiere chiedeva di acquistare conoscenza esatta delle sue pecorelle, di aver la grazia di vigilarle attentamente, di assicurarne la custodia anche dopo la sua morte e di vederle provviste di facile e comodo nutrimento spirituale e materiale. Don Bosco adunque, dopo le orazioni della sera, così parlò:

                In una delle ultime notti del mese di Maria, il 29 o 30 maggio, essendo in letto e non potendo dormire, pensava ai miei cari giovani e diceva fra me stesso.
                – Oh se potessi sognare qualche cosa che fosse di loro profitto!
                Stetti alquanto riflettendo e mi risolsi:
                – Sì! adesso voglio fare un sogno per i giovani!
                Ed ecco che restai addormentato. Non appena il sonno mi ebbe preso, mi trovai in una immensa pianura coperta da un numero sterminato di grosse pecore, le quali divise in gregge pascolavano in prati estesi a vista d’occhio. Volli avvicinarmi ad esse e mi diedi a cercare il pastore, meravigliandomi che vi potesse essere al mondo chi possedesse così gran numero di pecore. Cercai per breve tempo, quando mi vidi innanzi un pastore appoggiato al suo bastone. Subito mi feci ad interrogarlo e gli domandai:
                – Di chi è questo gregge così numeroso?
                Il pastore non mi diede risposta. Replicai la domanda ed allora mi disse:
                – Che cosa hai da saper tu?
                – E perché, gli soggiunsi, mi rispondi in questo modo?
                – Ebbene: questo gregge è del suo padrone!
                Del suo padrone? Lo sapevo già questo; dissi fra me. Ma, continuai ad alta voce:
                – Chi è questo padrone?
                – Non t’infastidire, mi rispose il pastore: lo saprai.
                Allora percorrendo con lui quella valle mi diedi ad esaminare il gregge e tutta quella regione per la quale questo andava vagando. La valle era in alcuni luoghi coperta di ricca verdura con alberi che stendevano larghe frondi con ombre graziose ed erbe freschissime delle quali si pascevano belle e floride pecore. In altri luoghi la pianura era sterile, arenosa, piena di sassi con spineti senza foglie, e di gramigne giallastre, e non aveva un filo d’erba fresca; eppure anche qui vi erano moltissime altre pecore che pascolavano, ma d’aspetto miserabile.
                Io domandava varie spiegazioni al mio condottiero intorno a questo gregge, ed egli, senza dar veruna risposta alle mie domande, mi disse:
                – Tu non sei destinato per loro. A queste tu non devi pensare. Ti condurrò io a vedere il gregge del quale devi prenderti cura.
                – Ma tu chi sei?
                – Sono il padrone; vieni meco a guardar là, da quella parte.
                E mi condusse in un altro punto della pianura dove erano migliaia e migliaia di soli agnellini. Questi erano tanto numerosi che non si potevano contare, ma così magri che a stento passeggiavano. Il prato era secco ed arido e sabbioso e non vi si scorgeva un fil d’erba fresca, un ruscello; ma solo qualche sterpo disseccato e cespugli inariditi. Ogni pascolo era stato pienamente distrutto dagli stessi agnelli.
                Si vedeva a prima vista che quei poveri agnelli coperti di piaghe avevano molto sofferto e molto soffrivano ancora. Cosa strana! Ciascuno aveva due corna lunghe e grosse che gli spuntavano sulla fronte, come se fossero vecchi montoni e sulla punta delle corna avevano una appendice in forma di “S”. Meravigliato, me ne stava perplesso nel vedere quella strana appendice di genere così nuovo, e non sapeva darmi pace perché quegli agnellini avessero già le corna così lunghe e grosse, ed avessero distrutto già così presto tutta la loro pastura.
                – Come va questo? dissi al pastore. Son ancora così piccoli questi agnelli ed hanno già tali corna?
                – Guarda, mi rispose; osserva.
                Osservando più attentamente vidi che quegli agnelli in tutte le parti del corpo, sul dosso, sulla testa, sul muso, sulle orecchie, sul naso, sulle gambe, sulle unghie portavano stampati tanti numeri “3” in cifra.
                – Ma che vuol dire ciò? esclamai. Io non capisco niente.
                – Come, non capisci? disse il pastore: Ascolta adunque e saprai tutto. Questa vasta pianura è il gran mondo. I luoghi erbosi la parola di Dio e la grazia. I luoghi sterili ed aridi sono quei luoghi dove non si ascolta la parola di Dio e solo si cerca di piacere al mondo. Le pecore sono gli uomini fatti, gli agnelli sono i giovanetti e per questi Iddio ha mandato D. Bosco. Quest’angolo di pianura che tu vedi è l’Oratorio e gli agnelli ivi radunati i tuoi fanciulli. Questo luogo così arido figura lo stato di peccato. Le corna significano il disonore. La lettera “S” vuol dire scandalo. Essi col mal esempio vanno alla rovina. Fra questi agnelli ve ne sono alcuni che hanno le corna rotte; furono scandalosi, ma ora hanno cessato di dare scandalo. Il numero “3” vuol dire che portano la pena della colpa, cioè che soffriranno tre grandi carestie; carestia spirituale, morale, materiale. 1° La carestia d’aiuti spirituali: domanderanno questo aiuto e non l’avranno. 2 ° Carestia di parola di Dio. 3° Carestia di pane materiale. L’aver gli agnelli mangiato tutto, significa non rimaner più loro altro che il disonore e il numero “3”, ossia le carestie. Questo spettacolo mostra eziandio le sofferenze attuali di tanti giovani in mezzo al mondo. Nell’Oratorio anche quelli che pur ne sarebbero indegni non mancano di pane materiale.
                Mentre io ascoltava ed osservava ogni cosa come smemorato, ecco nuova meraviglia. Tutti quelli agnelli cambiarono aspetto!
                Alzatisi sulle gambe posteriori divennero alti e tutti presero la forma di altrettanti giovanetti. Io mi avvicinai per vedere se ne conoscessi alcuno. Erano tutti giovani dell’Oratorio. Moltissimi io non li aveva mai veduti, ma tutti si dichiaravano essere figli del nostro Oratorio. E fra quelli che non conosceva ve n’erano anche alcuni pochi che attualmente si trovano nell’Oratorio. Sono coloro che non si presentano mai a D. Bosco, che non vanno mai a prendere consiglio da lui, coloro che lo fuggono: in una parola, coloro che Don Bosco non conosce ancora! L’immensa maggioranza però degli sconosciuti era di coloro che non furono né sono ancora nell’Oratorio.
                Mentre con pena osservava quella moltitudine, colui che mi accompagnava mi prese per mano e mi disse:
                – Vieni con me e vedrai altre cose! – E mi condusse in un angolo remoto della valle, circondato da collinette, cinto da una siepe di piante rigogliose, ove era un gran prato verdeggiante, il più ridente che immaginar si possa, ripieno di ogni sorta di erbe odorifere, sparso di fiori campestri, con freschi boschetti e correnti di limpide acque. Qui trovai un altro grandissimo numero di figliuoli, tutti allegri, i quali coi fiori del prato si erano formati o andavano formandosi una vaghissima veste.
                – Almeno hai costoro che ti dànno grande consolazione.
                – E chi sono? interrogai.
                – Sono quelli che si trovano in grazia di Dio.
                Ah! io posso dire di non avere mai vedute cose e persone così belle e risplendenti, né mai avrei potuto immaginare tali splendori. È inutile che mi ponga a descriverli, perché sarebbe un guastare quello che è impossibile a dirsi senza che si veda. Erami però riserbato uno spettacolo assai più sorprendente. Mentre me ne stava guardando con immenso piacere quei giovanetti e fra questi ne contemplava molti che non conosceva ancora, la mia guida mi soggiunse:
                – Vieni, vieni con me e ti farò vedere una cosa che ti darà un gaudio ed una consolazione maggiore. – E mi condusse in un altro prato tutto smaltato di fiori più vaghi e più odorosi dei già veduti. Aveva l’aspetto di un giardino principesco. Qui si scorgeva un numero di giovani non tanto grande, ma che erano di così straordinaria bellezza e splendore da far scomparire quelli da me ammirati poc’anzi. Alcuni di costoro sono già nell’Oratorio, altri qui verranno più tardi.
                Mi disse il pastore:
                – Costoro sono quelli che conservano il bel giglio della purità. Questi sono ancora vestiti della stola dell’innocenza.
                Guardava estatico. Quasi tutti portavano in capo una corona di fiori di indescrivibile bellezza. Questi fiori erano composti di altri piccolissimi fiorellini di una gentilezza sorprendente, e i loro colori erano di una vivezza e varietà che incantava. Più di mille colori in un sol fiore, e in un sol fiore si vedevano più di mille fiori. Scendeva ai loro piedi una veste di bianchezza smagliante, anch’essa tutta intrecciata di ghirlande di fiori, simili a quelli della corona. La luce incantevole che partiva da questi fiori rivestiva tutta la persona e specchiava in essa la propria gaiezza. I fiori si riflettevano l’uno negli altri e quelli delle corone in quelli delle ghirlande, riverberando ciascuno i raggi che erano emessi dagli altri. Un raggio di un colore infrangendosi con un raggio di un altro colore formava raggi nuovi, diversi, scintillanti e quindi ad ogni raggio si riproducevano sempre nuovi raggi, sicché io non avrei mai potuto credere esservi in paradiso un incanto così molteplice. Ciò non è tutto. I raggi e i fiori della corona degli uni si specchiavano nei fiori e nei raggi della corona di tutti gli altri: così pure le ghirlande, e la ricchezza della veste degli uni si riflettevano nelle ghirlande, nelle vesti degli altri. Gli splendori poi del viso di un giovane, rimbalzando, si fondevano con quelli del volto dei compagni e riverberando centuplicati su tutte quelle innocenti e rotonde faccine producevano tanta luce da abbarbagliare la vista ed impedire di fissarvi lo sguardo.
                Così in un solo si accumulavano le bellezze di tutti i compagni con un’armonia di luce ineffabile! Era la gloria accidentale dei santi. Non vi è nessuna immagine umana per descrivere anche languidamente quanto divenisse bello ciascuno di quei giovani in mezzo a quell’oceano di splendori. Fra questi ne osservai alcuni in particolare, che adesso sono qui all’Oratorio e son certo che, se potessero vedere almeno la decima parte della loro attuale speciosità, sarebbero pronti a soffrire il fuoco, a lasciarsi tagliare a pezzi, ad andare insomma incontro a qualunque più atroce martirio, piuttosto che perderla.
                Appena potei alquanto riavermi da questo celestiale spettacolo, mi volsi al duce e gli dissi:
                – Ma dunque fra tanti miei giovani sono così pochi gli innocenti? Sono così pochi coloro che non han mai perduta la grazia di Dio?
                Mi rispose il pastore:
                – Come? Non ti pare abbastanza grande questo numero? Del resto quelli che hanno avuto la disgrazia di perdere il bel giglio della purità, e con questo l’innocenza, possono ancor seguire i loro compagni nella penitenza. Vedi là? In quel prato si ritrovano ancor molti fiori; ebbene essi possono tessersi una corona e una veste bellissima e seguire ancora gli innocenti nella gloria.
                – Suggeriscimi ancora qualche cosa da dire ai miei giovani! io soggiunsi allora.
                – Ripeti ai tuoi giovani, che se essi conoscessero quanto è preziosa e bella agli occhi di Dio l’innocenza e la purità, sarebbero disposti a fare qualunque sacrificio per conservarla. Di’ loro che si facciano coraggio a praticare questa candida virtù, che supera le altre in bellezza e splendore. Imperciocché i casti sono quelli che crescunt tanquam lilia in conspectu Domini (crescono come gigli davanti al Signore).
                Io allora volli andare in mezzo a quei miei carissimi, così vagamente incoronati, ma inciampai nel terreno e svegliatomi mi trovai in letto.
                Figliuoli miei, siete voi tutti innocenti? Forse ve ne saranno fra voi alcuni e a questi io rivolgo le mie parole. Per carità, non perdete un pregio di valore inestimabile! È una ricchezza che vale quanto vale il Paradiso quanto vale Iddio! Se aveste potuto vedere come erano belli questi giovanetti coi loro fiori. L’insieme di questo spettacolo era tale che io avrei dato qualunque cosa del mondo per godere ancora di quella vista, anzi, se fossi pittore, l’avrei per una grazia grande poter dipingere in qualche modo ciò che vidi. Se voi conosceste la bellezza di un innocente, vi assoggettereste a qualunque più penoso stento, perfino anco alla morte, per conservare il tesoro dell’innocenza.
                Il numero di coloro che erano ritornati in grazia, quantunque mi abbia recato grande consolazione, tuttavia io sperava che dovesse essere assai maggiore. E restai assai meravigliato nel vedere alcuno che or qui in apparenza sembra un buon giovane e là aveva le corna lunghe e grosse…

                 D. Bosco finì con una calda esortazione a coloro che hanno perduta l’innocenza, perché si adoperino volenterosamente a riacquistare la grazia per mezzo della penitenza.
                Due giorni dopo, il 18 giugno, D. Bosco risaliva alla sera sulla cattedra e dava alcune spiegazioni del sogno.

                Non farebbe più d’uopo nessuna spiegazione riguardo al sogno, ma ripeterò quello che già dissi. La gran pianura è il mondo, e anche i luoghi e lo stato donde furono chiamati qui tutti i nostri giovani. Quell’angolo dove erano gli agnelli è l’Oratorio. Gli agnelli sono tutti i giovani, che furono, sono presentemente, e saranno nell’Oratorio. I tre prati in questo angolo, l’arido, il verde, il fiorito, indicano lo stato di peccato, lo stato di grazia e lo stato d’innocenza. Le corna degli agnelli sono gli scandali che si sono dati nel passato. Ve ne erano poi di quelli che avevano le corna rotte e costoro furono scandalosi, ma ora cessarono dal dare scandalo. Tutte quelle cifre “3”, che si vedevano stampate su ciascuno agnello, sono, come seppi dal pastore, tre castighi che Dio manderà sui giovani: 1° Carestia d’aiuti spirituali. 2° Carestia morale, ossia mancanza d’istruzione religiosa e della parola di Dio. 3° Carestia materiale, ossia mancanza anche di vitto. I giovani risplendenti sono coloro che si trovano in grazia di Dio, e soprattutto quelli che conservano ancora l’innocenza battesimale e la bella virtù della purità. E quanta gloria li aspetta!
                Mettiamoci dunque, cari giovani, coraggiosamente a praticare la virtù. Chi non è in grazia di Dio, si metta di buona voglia e quindi con tutte le sue forze e coll’aiuto di Dio perseveri sino alla morte. Che se tutti non possiamo essere in compagnia degli innocenti a far corona all’immacolato Agnello, Gesù, almeno possiamo seguirlo dopo di loro.
                Uno mi domandò se era fra gli innocenti ed io gli dissi di no e che aveva le corna, ma rotte. Mi domandò ancora se aveva delle piaghe ed io gli dissi di sì.
                – E che cosa significano queste piaghe? egli soggiunse.
                Risposi:
                – Non temere. Sono rimarginate, spariranno; queste piaghe ora non sono più disonorevoli, come non sono disonorevoli le cicatrici di un combattente, il quale malgrado le tante ferite e l’incalzamento e gli sforzi del nemico, seppe vincere e riportare vittoria. Sono dunque cicatrici onorevoli!… Ma è più onorevole chi combattendo valorosamente in mezzo ai nemici non riporta nessuna ferita. La sua incolumità eccita la meraviglia di tutti.
Spiegando questo sogno, D. Bosco disse eziandio che non andrà più molto tempo che si faranno sentire questi tre mali: – Peste, fame e quindi mancanza di mezzi per farci del bene.
Soggiunse che non passeranno tre mesi che accadrà qualche cosa di particolare.
Questo sogno produsse nei giovani l’impressione e i frutti che avevano ottenuto tante altre volte simili esposizioni.
(MB VIII 839-845)




Don Bosco con i suoi salesiani

Se con i suoi ragazzi Don Bosco scherzava volentieri per vederli allegri e sereni, con i suoi Salesiani rivelava anche nello scherzo la stima che di essi aveva, il desiderio di vederli formare con lui una sola grande famiglia, povera sì, ma fiduciosa nella Divina Provvidenza, unita nella fede e nella carità.

I feudi di Don Bosco
            Nel 1830 Margherita Occhiena, vedova di Francesco Bosco, fece la divisione dei beni ereditati dal marito tra il suo figliastro Antonio ed i suoi due figli Giuseppe e Giovanni. Si trattava, tra l’altro, di otto appezzamenti di terreno a prato, a campo e a vigna. Nulla sappiamo di preciso sui criteri seguiti da Mamma Margherita per la divisione tra loro tre dell’eredità paterna. Però tra gli appezzamenti di terreno vi era una vigna presso i Becchi (al Bric dei Pin), un campo a Valcapone (o Valcappone) e un altro al Bacajan (o Bacaiau). Ad ogni modo questi tre terreni costituiscono i «feudi» nominati a volte scherzosamente da Don Bosco come sua proprietà.
            I Becchi, tutti lo sappiamo, sono l’umile frazione della borgata dove Don Bosco era nato; Valcapponé (o Valcapone) era un sito ad est del Colle sotto la Serra di Capriglio ma a valle nella zona detta Sbaruau (= spauracchio), perché fitta di boscaglie con qualche casotto celato tra le frasche che serviva da ripostiglio a lavandai e da rifugio a briganti. Bacajan (o Bacaiau) era un campo ad est del Colle tra il lotto Valcapone e Morialdo. Ecco i «feudi» di Don Bosco!
            Dicono le Memorie Biografiche che da tempo Don Bosco aveva conferito titoli nobiliari ai suoi collaboratori laici. Quindi c’era il Conte dei Becchi, il Marchese di Valcappone, il Barone di Bacaiau, e cioè dei tre terreni che Don Bosco doveva conoscere come parte della sua eredità. “Con questi titoli egli era solito chiamare Rossi, Gastini, Enria, Pelazza, Buzzetti, non solo in casa ma anche fuori, specialmente quando viaggiava con qualcuno di essi” (MB VIII, 198-199).
            Tra questi «nobil» salesiani, sappiamo di sicuro, che il Conte dei Becchi (o del Bricco del Pino) era Rossi Giuseppe, il primo salesiano laico, o «Coadiutore» che amò Don Bosco come un figlio affezionatissimo e gli fu fedele per sempre.
            Un giorno Don Bosco si recò alla stazione di Porta Nuova e Rossi Giuseppe lo accompagnò portandogli la valigia. Arrivarono che il treno stava per partire e le carrozze erano strapiene di gente. Don Bosco, non potendo trovare posto, si rivolse a Rossi e, ad alta voce, gli disse:
            — Oh, signor Conte, mi rincresce che si prenda tanto incomodo per me!
            — S’immagini Don Bosco, per me è un onore!
            Alcuni viaggiatori ai finestrini, udendo quelle parole «Signor Conte» e «Don Bosco», si guardarono in faccia meravigliati e uno di essi gridò dal carrozzone:
            — Don Bosco! Signor Conte! Salgano qui, ci sono ancora due posti!
— Ma io non vorrei dar loro incomodo, – rispose Don Bosco.
            — Salgano! È un onore per noi. Ritiro le mie valigie, ci staranno benissimo!…
E così il «Conte dei Becchi» poté salire sul treno con Don Bosco e la valigia.

Le pompe e una baracca
            Don Bosco visse e morì povero. Nel vitto si accontentava di ben poco. Anche un bicchier di vino era già troppo per lui, e lo annacquava sistematicamente.
            «Spesse volte si dimenticava di bere essendo assorto in ben altri pensieri, e toccava ai vicini di tavola di versarglielo nel bicchiere. Ed allora egli, se il vino era buono, cercava subito l’acqua “per farlo più buono”, diceva. E aggiungeva sorridendo: “Ho rinunciato al mondo e al demonio, ma non alle pompe”, alludendo alle trombe che estraggono l’acqua dal pozzo» (MB IV, 191-192).
            Anche per l’alloggio sappiamo come viveva. Il 12 settembre 1873 fu tenuta la Conferenza Generale dei Salesiani per rieleggere un Economo e tre Consiglieri. In quella circostanza Don Bosco proferì memorabili e profetiche parole sullo sviluppo della Congregazione. Giunto poi a parlare del Capitolo Superiore, che ormai pareva aver bisogno di residenza adatta, disse, tra l’universale ilarità: «Se fosse possibile, mi piacerebbe fare in mezzo al cortile una “sopanta” (leggi: supanta = baracca), dove il Capitolo potesse stare separato da tutti gli altri mortali. Ma poiché i suoi membri hanno ancora diritto di stare su questa terra, così potranno stare ora qui, ora là, nelle diverse case, secondo che parrà meglio!» (MB X, 1061-1062).

Otis, botis, pija tutis
            Un giovane gli chiese un giorno come facesse a conoscere l’avvenire e a indovinare tante cose segrete. Gli rispose:
— «Ascoltami. Il mezzo è questo, e si spiega con: Otis, botis, pija tutis. Sai cosa significano queste parole?… Stai attento. Sono parole greche, e, – compitando, ripeteva: – O-tis, bo-tis, pi-ja tu-tis. Capisci?
— È un affare serio!
— Lo so anch’io. Non ho mai voluto manifestare a nessuno che cosa significhi questo motto. E nessuno lo sa, né mai lo saprà, perché non mi conviene dirlo. È il mio segreto col quale opero cose straordinarie, leggo nelle coscienze, conosco i misteri. Ma se tu sei furbo, puoi capirne qualcosa.
            E ripeteva quelle quattro parole puntando il dito indice sulla fronte, sulla bocca, sul mento, sul petto del giovane. Finì per dargli all’improvviso uno schiaffetto. Il giovane rise, ma insisteva:
            — Almeno mi traduca le quattro parole!
— Posso tradurle, ma non capirai la traduzione.
            E scherzosamente gli disse in dialetto piemontese:
Quand ch’at dan ed bòte, pije tute (Quando ti dan botte, pigliale tutte) (MB VI, 424). E voleva dire che per farsi santi occorre accettare tutte le sofferenze che la vita ci riserva.

Protettore degli stagnini
            Tutti gli anni i giovani dell’Oratorio di San Leone in Marsiglia facevano una scampagnata alla villa del Sig. Olive, generoso benefattore dei Salesiani. In quell’occasione il padre e la madre servivano a tavola i superiori, e i loro figli gli alunni.

            Nel 1884 la gita si fece durante il soggiorno di Don Bosco a Marsiglia.
            Mentre gli alunni si divertivano nei giardini, la cuoca corse tutta affannata dalla signora Olive a dirle:
            — Signora, la pentola della minestra per i ragazzi perde e non si riesce in nessun modo a rimediarvi. Dovranno stare senza minestra!
            La padrona, che aveva gran fede in Don Bosco, ebbe un’idea. Mandò a chiamare tutti i giovani e:
— Sentite – disse loro – se volete mangiare la minestra, inginocchiatevi qui e recitate una preghiera a Don Bosco perché faccia ristagnare la pentola.
            Obbedirono. La pentola cessò all’istante di perdere. Ma Don Bosco, sentendo contare il fatto, rise di gusto, dicendo:
D’ora in avanti chiameranno Don Bosco patrono degli stagnin (stagnai) (MB XVII, 55-56).




Il cardinale Augusto Hlond

            Secondo di 11 figli, suo padre era un operaio delle ferrovie. Ricevuta dai genitori una fede semplice ma forte, a 12 anni, attratto dalla fama di Don Bosco, seguì in Italia il fratello Ignazio per consacrarsi al Signore nella Società Salesiana, e vi attirò presto altri due fratelli: Antonio, che diventerà salesiano e rinomato musicista, e Clemente, che sarà missionario. Lo accolse il collegio di Valsalice per gli studi ginnasiali. Ammesso quindi al noviziato, ricevette l’abito talare dal beato Michele Rua (1896). Fatta la professione religiosa nel 1897, i superiori lo destinarono a Roma all’Università Gregoriana per il corso di filosofia che coronò con la laurea. Da Roma tornò in Polonia a esercitare il tirocinio pratico nel collegio di Oświęcim. La sua fedeltà al sistema educativo di Don Bosco, il suo impegno nell’assistenza e nella scuola, la sua dedizione ai giovani e l’amabilità del suo tratto gli acquistarono grande ascendente. Si affermò subito anche per il talento musicale.
            Compiuti gli studi di teologia, ricevette il 23 settembre 1905 l’ordinazione sacerdotale, conferitagli in Cracovia da Mons. Nowak. Negli anni 1905-09 frequentò la facoltà di lettere presso le università di Cracovia e di Leopoli. Nel 1907 fu preposto alla direzione della nuova casa di Przemyśl (1907-09), da dove passò alla direzione della casa di Vienna (1909-19). Qui il suo valore e la sua abilità personale ebbero un campo ancor più vasto per le particolari difficoltà in cui si trovava l’istituto nella capitale imperiale. Don Augusto Hlond, con la sua virtù e col suo tatto, riuscì in breve non solo a sistemare la situazione economica, ma anche a suscitare una fioritura di opere giovanili da attirare l’ammirazione di ogni ceto di persone. La cura dei poveri, degli operai, dei figli del popolo gli attirava l’affetto delle classi più umili. Carissimo ai vescovi e ai nunzi apostolici, godeva la stima delle autorità e della stessa famiglia imperiale. Come riconoscimento di tale opera sociale ed educativa ricevette per tre volte alcune delle onorificenze più prestigiose.
            Nel 1919 lo sviluppo dell’Ispettoria Austro-Ungarica consigliò una divisione proporzionata al numero delle case, e i superiori nominarono don Hlond ispettore dell’Ispettoria tedesco-ungarica, con sede a Vienna (191922), affidandogli la cura dei confratelli austriaci, tedeschi e ungheresi. In nemmeno tre anni, il giovane ispettore aprì una decina di nuove presenze salesiane, e le formò al più genuino spirito salesiano, suscitando numerose vocazioni.
            Era nel pieno fervore della sua attività salesiana, quando, nel 1922, dovendo la Santa Sede provvedere alla sistemazione religiosa della Slesia Polacca, ancor sanguinante per le lotte politiche e nazionali, il Santo Padre Pio XI affidò a lui la delicatissima missione, nominandolo Amministratore Apostolico. Dalla sua mediazione tra tedeschi e polacchi nacque nel 1925 la diocesi di Katowice, di cui diventò vescovo. Nel 1926 è arcivescovo di Gniezno e Poznań e primate di Polonia. L’anno successivo il Papa lo crea cardinale. Nel 1932 fonda la Società di Cristo per gli emigrati polacchi, volta ad assistere i tanti compatrioti che hanno lasciato il Paese.
            Nel marzo del 1939 partecipa al Conclave che elegge Pio XII. Il primo settembre dello stesso anno i nazisti invadono la Polonia: inizia la Seconda guerra mondiale. Il cardinale alza la voce contro le violazioni dei diritti umani e della libertà religiosa compiute da Hitler. Costretto all’esilio si rifugia in Francia, presso l’Abbazia di Hautecombe, denunciando le persecuzioni contro gli Ebrei in Polonia. La Gestapo penetra nell’Abbazia e lo arresta, deportandolo a Parigi. Il porporato si rifiuta categoricamente di appoggiare la formazione di un governo polacco filonazista. Viene internato prima in Lorena e poi in Westfalia. Liberato dalle truppe alleate, nel 1945 torna in Patria.
            Nella nuova Polonia liberata dal nazismo, trova il comunismo. Con coraggio difende i Polacchi dall’oppressione atea marxista, scampando anche ad alcuni attentati. Muore il 22 ottobre 1948 a causa di una polmonite, all’età di 67 anni. Ai funerali accorrono migliaia di persone.
            Il cardinale Hlond fu un uomo virtuoso, un luminoso esempio di religioso salesiano e un pastore generoso, austero, capace di visioni profetiche. Obbediente alla Chiesa e fermo nell’esercizio dell’autorità, dimostrò umiltà eroica e inequivocabile costanza nei momenti di maggiore prova. Coltivò la povertà e praticò la giustizia verso i poveri e i bisognosi. Le due colonne della sua vita spirituale, alla scuola di san Giovanni Bosco, furono l’Eucaristia e Maria Ausiliatrice.
            Nella storia della Chiesa di Polonia, il cardinale Augusto Hlond è stato una delle figure più eminenti per la testimonianza religiosa della sua vita, per la grandezza, la varietà e l’originalità del suo ministero pastorale, per le sofferenze che affrontò con intrepido animo cristiano per il Regno di Dio. L’ardore apostolico distinse l’opera pastorale e la fisionomia spirituale del venerabile Augusto Hlond, che assumendo come motto episcopale Da mihi animas coetera tolle, da vero figlio di san Giovanni Bosco lo confermò con la sua vita di consacrato e di vescovo, dando testimonianza di instancabile carità pastorale.
            Va ricordato il suo grande amore alla Madonna, appreso nella sua famiglia e nella grande devozione del popolo polacco alla Madre di Dio, venerata nel santuario di Częstochowa. Inoltre da Torino, dove iniziò il suo cammino come salesiano, diffuse in Polonia il culto a Maria Ausiliatrice e consacrò la Polonia al Cuore Immacolato di Maria. L’affidamento a Maria lo sostenne sempre nelle avversità e nell’ora dell’incontro estremo con il Signore. Morì con la corona del Rosario fra le mani dicendo ai presenti che la vittoria, quando sarebbe venuta, sarebbe stata la vittoria di Maria Immacolata.
            Il venerabile cardinale Augusto Hlond è testimone singolare di come dobbiamo accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, difficoltà, anche persecuzioni: questo è santità. «Gesù ricorda quanta gente è perseguitata ed è stata perseguitata semplicemente per aver lottato per la giustizia, per aver vissuto i propri impegni con Dio e con gli altri. Se non vogliamo sprofondare in una oscura mediocrità, non pretendiamo una vita comoda, perché “chi vuol salvare la propria vita, la perderà” (Mt 16,25). Non si può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto intorno a noi sia favorevole, perché molte volte le ambizioni del potere e gli interessi mondani giocano contro di noi… La croce, soprattutto le stanchezze e i patimenti che sopportiamo per vivere il comandamento dell’amore e il cammino della giustizia, è fonte di maturazione e di santificazione» (Francesco, Gaudete et Exsultate, nn. 90-92).




Don José-Luis Carreño, missionario salesiano

Don José Luis Carreño (1905-1986) è stato descritto dallo storico Joseph Thekkedath come “il salesiano più amato dell’India del Sud” nella prima parte del ventesimo secolo. In ogni luogo in cui ha vissuto – sia in India britannica, nella colonia portoghese di Goa, nelle Filippine o in Spagna – troviamo salesiani che custodiscono con affetto la sua memoria. Stranamente, però, non disponiamo ancora di una biografia adeguata di questo grande salesiano, eccetto la corposa lettera mortuaria redatta da don José Antonio Rico: “José Luis Carreño Etxeandía, obrero de Dios”. Speriamo che presto si possa colmare questa lacuna. Don Carreño è stato uno degli artefici della regione dell’Asia Sud, e non possiamo permetterci di dimenticarlo.

            José-Luis Carreño Etxeandía nacque a Bilbao, in Spagna, il 23 ottobre 1905. Rimasto orfano di madre alla tenera età di otto anni, fu accolto nella casa salesiana di Santander. Nel 1917, all’età di dodici anni, entrò nell’aspirantato di Campello. Ricorda che a quei tempi “non si parlava molto di Don Bosco… Ma per noi un Don Binelli era un Don Bosco, per non parlare di Don Rinaldi, allora Prefetto Generale, le cui visite ci lasciavano una sensazione soprannaturale, come quando i messaggeri di Yahweh visitarono la tenda di Abramo”.
            Dopo il noviziato e postnoviziato, svolse il tirocinio come assistente dei novizi. Doveva essere un chierico brillante, perché di lui scrive don Pedro Escursell al Rettor Maggiore: “Sto parlando proprio in questo momento con uno dei chierici modello di questa casa. È un assistente nella formazione del personale di questa Ispettoria; mi dice che da tempo chiede di essere mandato nelle missioni e dice che ha rinunciato a chiederlo perché non riceve risposta. È un giovane di grande valore intellettuale e morale.”
            Alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale, nel 1932, il giovane José-Luis scrisse direttamente al Rettor Maggiore, offrendosi per le missioni. L’offerta fu accettata, e fu inviato in India, dove sbarcò a Mumbai nel 1933. Appena un anno dopo, quando fu eretta l’Ispettoria dell’India del Sud, fu nominato maestro dei novizi a Tirupattur: aveva appena 28 anni. Con le sue straordinarie qualità di mente e di cuore, divenne rapidamente l’anima della casa e lasciò una profonda impressione nei suoi novizi. “Ci conquistò con il suo cuore paterno”, scrive uno di loro, l’arcivescovo Hubert D’Rosario di Shillong.
            Don Joseph Vaz, un altro novizio, raccontava spesso come Carreño si fosse accorto che lui tremava di freddo durante una conferenza. “Aspetta un momento, hombre,” disse il maestro dei novizi, e uscì. Poco dopo rientrò con un maglione blu che consegnò a Joe. Joe notò che il maglione era stranamente caldo. Poi si ricordò che sotto la talare il suo maestro indossava qualcosa di blu… che adesso non c’era più. Carreño gli aveva dato il suo stesso maglione.
            Nel 1942, quando il governo britannico in India internò tutti gli stranieri provenienti da paesi in guerra con la Gran Bretagna, Carreño, essendo cittadino di un paese neutrale, non fu disturbato. Nel 1943 ricevette un messaggio tramite la Radio Vaticana: doveva prendere il posto di don Eligio Cinato, ispettore dell’ispettoria dell’India del Sud, anche egli internato. Nello stesso periodo, arcivescovo salesiano Louis Mathias di Madras-Mylapore lo invitò a essere suo vicario generale.
            Nel 1945 fu ufficialmente nominato ispettore, incarico che ricoprì dal 1945 al 1951. Uno dei suoi primissimi atti fu consacrare l’Ispettoria al Sacro Cuore di Gesù. Molti salesiani erano convinti che la straordinaria crescita dell’Ispettoria del Sud fosse dovuta proprio a questo gesto. Sotto la guida di don Carreño, le opere salesiane raddoppiarono. Uno dei suoi atti più lungimiranti fu l’avvio di un college universitario nel remoto e povero villaggio di Tirupattur. Il Sacred Heart College avrebbe finito per trasformare l’intero distretto.
            Fu anche Carreño l’artefice principale della “indianizzazione” del volto salesiano in India, cercando fin da subito vocazioni locali, invece di fare affidamento esclusivo sui missionari stranieri. Una scelta che si rivelò provvidenziale: prima, perché il flusso di missionari stranieri cessò, si interruppe durante la Guerra; poi, perché l’India indipendente decise di non concedere più visti a nuovi missionari stranieri. “Se oggi i salesiani in India sono più di duemila, il merito di questa crescita va attribuito alle politiche avviate da don Carreño,” scrive don Thekkedath nella sua storia dei salesiani in India.
            Don Carreño, come abbiamo detto, non era solo ispettore, ma anche vicario di mons. Mathias. Questi due grandi uomini, che si stimavano profondamente, erano però molto diversi per temperamento. L’arcivescovo era fautore di misure disciplinari severe nei confronti dei confratelli in difficoltà, mentre don Carreño preferiva procedimenti più miti. Il visitatore straordinario, don Albino Fedrigotti, sembra aver dato ragione all’arcivescovo, definendo don Carreño “un eccellente religioso, un uomo dal cuore grande”, ma anche “un po’ troppo poeta”.
            Non mancò neppure l’accusa di essere un cattivo amministratore, ma è significativo che una figura come don Aurelio Maschio, grande procuratore e architetto delle opere salesiane di Mumbai, abbia respinto con decisione tale accusa. In realtà, don Carreño era un innovatore e un visionario. Alcune delle sue idee – come quella di coinvolgere volontari non salesiani per un servizio di qualche anno – erano, all’epoca, guardate con sospetto, ma oggi sono largamente accettate e attivamente promosse.
            Nel 1951, al termine del suo mandato ufficiale come ispettore, a Carreño fu chiesto di rientrare in Spagna per occuparsi dei Salesiani Cooperatori. Non era questo il vero motivo della sua partenza, dopo diciotto anni in India, ma Carreno accettò con serenità, anche se non senza dolore.
            Nel 1952 gli fu invece chiesto di andare a Goa, dove rimase fino al 1960. “Goa fu amore a prima vista,” scrisse in Urdimbre en el telar. Goa, da parte sua, lo accolse nel cuore. Proseguì la tradizione dei salesiani che prestavano servizio come direttori spirituali e confessori del clero diocesano, e fu persino patrono dell’associazione degli scrittori in lingua konkani. Soprattutto, governò la comunità di Don Bosco Panjim con amore, si prese cura con straordinaria paternità dei tanti ragazzi poveri e, ancora una volta, si dedicò attivamente alla ricerca di vocazioni alla vita salesiana. I primi salesiani di Goa – persone come Thomas Fernandes, Elias Diaz e Romulo Noronha – raccontavano con le lacrime agli occhi come Carreño e altri passassero dal Goa Medical College, proprio accanto alla casa salesiana, per donare il sangue e così ottenere qualche rupia con cui comprare viveri e altri beni per i ragazzi.
            Nel 1961 ebbero luogo l’azione militare indiana e l’annessione di Goa. In quel momento don Carreño si trovava in Spagna e non poté più fare ritorno all’amata terra. Nel 1962 fu inviato nelle Filippine come maestro dei novizi. Accompagnò solo tre gruppi di novizi, perché nel 1965 chiese di rientrare in Spagna. All’origine della sua decisione vi era una seria divergenza di visione tra lui e i missionari salesiani provenienti dalla Cina, e specialmente con don Carlo Braga, superiore della visitatoria. Carreño si oppose con forza alla politica di inviare i giovani Salesiani filippini appena professi a Hong Kong per gli studi di filosofia. Come accadde, alla fine i superiori accettarono la proposta di trattenere i giovani salesiani nelle Filippine, ma a quel punto la richiesta di Carreño di rientrare in patria era già stata accolta.

            Don Carreño trascorse solo quattro anni nelle Filippine, ma anche qui, come in India, lasciò un’impronta indelebile, “un contributo incommensurabile e cruciale alla presenza salesiana nelle Filippine”, secondo le parole dello storico salesiano Nestor Impelido.
            Rientrato in Spagna, ha collaborato con le Procure Missionarie di Madrid e di New Rochelle, e all’animazione delle ispettorie iberiche. Molti in Spagna ricordano ancora il vecchio missionario che visitava le case salesiane, contagiando i giovani con il suo entusiasmo missionario, le sue canzoni e la sua musica.
            Ma nella sua fantasia creativa stava prendendo forma un nuovo progetto. Carreño si dedicò con tutto il cuore al sogno di fondare un Pueblo Misionero con due obiettivi: preparare giovani missionari – per lo più provenienti dall’Europa dell’Est – per l’America Latina; e offrire un rifugio per missionari “pensionati” come lui, i quali avrebbero potuto servire anche come formatori. Dopo una lunga e sofferta corrispondenza con i superiori, il progetto prese finalmente forma nell’Hogar del Misionero ad Alzuza, a pochi chilometri da Pamplona. La componente vocazionale missionaria non decollò mai, e furono pochissimi i missionari anziani che si unirono effettivamente a Carreño. Il suo principale apostolato in questi ultimi anni rimase quello della penna. Lasciò più di trenta libri, tra i quali cinque dedicati alla Santa Sindone, alla quale era particolarmente devoto.
            Don José-Luis Carreño morì nel 1986 a Pamplona, all’età di 81 anni. Nonostante gli alti e bassi della sua vita, questo grande amante del Sacro Cuore di Gesù poté affermare, nel giubileo d’oro della sua ordinazione sacerdotale: “Se cinquant’anni fa il mio motto da giovane prete era ‘Cristo è tutto’, oggi, vecchio e sopraffatto dal suo amore, lo scriverei in lettere d’oro, perché in realtà CRISTO È TUTTO”.

don Ivo COELHO, sdb




L’oratorio festivo di Valdocco

Nel 1935, a seguito della canonizzazione di don Bosco nel 1934, i salesiani si premurarono di raccogliere testimonianze su di lui. Un certo Pietro Pons, che fanciullo aveva frequentato l’oratorio festivo di Valdocco per una decina di anni (dal 1871 al 1882), e che pure aveva frequentato due anni di scuole elementari (con le aule sotto la basilica di Maria Ausiliatrice) l’8 novembre rilasciò una bella testimonianza di quegli anni. Ne stralciamo alcuni passi, quasi tutti inediti.

La figura di don Bosco
Era il centro di attrazione di tutto l’Oratorio. Così lo ricorda il nostro antico oratoriano Pietro Pons sul finire degli anni settanta: “Non aveva più vigore, ma era sempre pacato e sorridente. Aveva due occhi, che foravano, e penetravano nella mente. Compariva tra di noi: era una gioia per tutti. D. Rua, D. Lazzero gli stavano ai fianchi come se avessero in mezzo a loro il Signore. D. Barberis e tutti i ragazzi gli correvano incontro, lo circondavano, chi camminando sui fianchi, chi dietro per aver la faccia rivolta a lui. Era una fortuna, un ambito privilegio il poter stargli vicino, il parlare con lui. Egli passeggiava adagio parlando, e guardando tutti con quei due occhi che giravano da ogni parte, elettrizzavano di gioia i cuori”.
Fra gli episodi rimasti impressi nella mente a 60 anni di distanza ne ricorda due in particolare: “Un giorno… compare soletto dalla porta d’ingresso presso il santuario. Allora uno stuolo di ragazzi piglia la corsa per investirlo come una folata di vento. Ma egli tiene in mano l’ombrello, che ha il manico ed il fusto grosso come quello dei contadini. Lo alza e servendosene come una spada si destreggia a respingere quell’affettuoso assalto ora a destra ora a sinistra per aprirsi il passo. Tocca uno colla punta, un altro di fianco, ma intanto s’accostano gli altri dall’altra parte. Così il gioco, lo scherzo continua portando la gioia nei cuori, desiderosi di vedere il buon Padre ritornare dal suo viaggio. Sembrava un parroco di paese, ma di quelli alla buona”.

I giochi e il teatrino
Un oratorio salesiano senza gioco è impensabile. Ricorda l’anziano exallievo: “il cortile era occupato da un fabbricato, dalla chiesa di Maria A. e al termine di un muretto… appoggiava all’angolo a sinistra una specie di capanna, presso cui c’era sempre qualcuno a controllare chi entrava… Appena entrato a destra c’era l’altalena con un posto solo, le parallele poi e la sbarra fissa per i più grandicelli, che si divertivano a fare le loro giravolte e capriole, ed anche il trapezio, ed il passo volante unico, che si trovavano però presso le sacrestie oltre la cappella di S. Giuseppe”. Ed ancora: “Questo cortile era di una bella lunghezza e si prestava assai bene a fare le corse di velocità partendo dal lato della chiesa e tornando ivi al ritorno. Si giocava pure a bara rotta, alle corse dei sacchi, alle pignatte. Questi ultimi giochi erano annunziati fin dalla domenica precedente. Così pure la cuccagna; ma l’albero si piantava con la parte sottile in basso perché fosse più difficile l’ascendere. C’erano delle lotterie, ed il biglietto si pagava un soldo o due. Dentro alla casetta c’era una piccola biblioteca contenuta in un armadietto”.

Al gioco si univa il famoso “teatrino” su cui si svolgevano autentici drammi come “il figlio del Crociato”, si cantavano le romanze di don Cagliero e si presentavano “musical” come il Ciabattino personificato dal mitico Carlo Gastini [brillantissimo animatore degli exallievi]. La recita, presenti gratuitamente i genitori, si teneva nel salone sotto la navata centrale della chiesa di Maria A., ma il vecchio ex oratorio ricorda anche che “una volta si recitò presso la casa Moretta [attuale chiesa parrocchiale presso la piazza]. Ivi abitava della povera gente nella più squallida miseria. Nelle cantine che si vedono sotto il poggiolo c’era una povera madre, che sul mezzogiorno portava sulle spalle il suo Carlo, che per un morbo aveva il corpo rigido, a pigliare il sole”.

Le funzioni religiose e le riunioni formative
All’oratorio festivo non mancavano le funzioni religiose della domenica mattina: santa Messa con santa comunione, preghiere del buon cristiano; seguiva al pomeriggio la ricreazione, il catechismo, la predica di don Giulio Barberis. Ormai anziano “D. Bosco non veniva mai a dir messa o a far la predica, ma solo per visitare e trattenersi coi ragazzi durante la ricreazione… I catechisti e assistenti avevano con sé in chiesa durante le funzioni i loro allievi a cui insegnavano il catechismo. La dottrina piccola era regalata a tutti. Si esigeva la lezione a memoria ogni festa e poi anche la spiegazione”. Le feste solenni si concludevano con una processione e una merenda per tutti: “uscendo di chiesa dopo la messa c’era la colazione. Un giovane a destra fuori della porta dava la pagnotta, un altro a sinistra con una forchetta vi metteva sopra due fette di salame”. Si accontentavano di poco quei ragazzi, ma erano contentissimi. Quando poi i ragazzi interni si univano agli oratoriani per il canto dei vespri si potevano udire le loro voci in via Milano e in via Corte d’appello!
All’oratorio festivo si tenevano anche riunioni di gruppi formativi. Nella casetta presso la chiesetta di S. Francesco vi era “una stanza piccola e bassa che poteva contenere circa una ventina di persone…Nella stanza c’era un tavolinetto per il conferenziere, c’erano le panche per le adunanze e conferenze dei più grandi in genere, e della Compagnia di S. Luigi, quasi tutte le domeniche”.

Chi erano gli oratoriani?
Dei suoi circa 200 compagni – ma il loro numero diminuiva in inverno per il ritorno in famiglia degli stagionali – il nostro arzillo vecchietto ricordava che molti erano biellesi “quasi tutti ‘ bic’, portavano cioè la secchia di legno piena di calce e il cesto di vimini pieno di mattoni ai muratori delle costruzioni”. Altri erano “apprendisti muratori, meccanici, lattonieri”. Poveri garzoni: lavoravano da mattina a sera tutti i giorni e solo la domenica si potevano permettere un po’ di svago “da don Bosco” (come veniva definito il suo oratorio): “Si giocava all’Asino vola, sotto la direzione dell’allora sig. Milanesio [futuro sacerdote grande missionario in Patagonia.]. Il sig. Ponzano, poi sacerdote, era maestro di ginnastica. Egli ci faceva fare esercizi a corpo libero, coi bastoni, agli attrezzi”.
I ricordi di Pietro Pons sono molto più ampi, tanto ricchi di suggestioni lontane, quanto pervasi da un’ombra di nostalgia; attendono di essere conosciuti per intero. Speriamo di farlo presto.




Nessuno spaventava le galline (1876)

Ambientato nel gennaio 1876, il brano presenta uno dei più suggestivi «sogni» di Don Bosco, strumento prediletto con cui il santo torinese scuoteva e guidava i giovani dell’Oratorio. La visione si apre su una pianura sterminata in cui fervono i lavori dei seminatori: il grano, simbolo della Parola di Dio, germoglierà solo se protetto. Ma galline voraci piombano sul seme e, mentre i contadini cantano versetti evangelici, i chierici addetti alla custodia restano muti o distratti, lasciando che tutto vada perduto. La scena, animata da dialoghi arguti e citazioni bibliche, diventa parabola della mormorazione che spegne il frutto della predicazione e monito alla vigilanza attiva. Con toni insieme paterni e severi, Don Bosco trasforma l’elemento fantastico in lezione morale incisiva.

            Nella seconda metà di gennaio il Servo di Dio ebbe un sogno simbolico, del quale fece parola con alcuni Salesiani. Don Barberis lo pregò di raccontarlo in pubblico, perché i suoi sogni piacevano molto ai giovani, facevano loro gran bene e li affezionavano all’Oratorio.
            – Sì, questo è vero, rispose il Beato, fanno del bene e sono ascoltati con avidità; il solo che ne riceva nocumento sono io, perché bisognerebbe che avessi polmoni di ferro. Si può ben dire, che nell’Oratorio non ci sia un solo, il quale non si senta scosso da tali narrazioni; poiché per lo più questi sogni toccano tutti, e ciascheduno vuol sapere in quale stato io l’abbia veduto, che cosa debba fare, quale significato abbia questo o quello; ed io sono tormentato giorno e notte. Se poi voglio svegliare il desiderio delle confessioni generali, non ho da far altro che raccontare un sogno… Senti, fa’ una cosa. Domenica andrò a parlare ai giovani, e tu interrogami in pubblico. Io allora conterò il sogno.
            Il 23 gennaio, dopo le orazioni della sera, egli montò in cattedra. Il suo volto raggiante di gioia manifestava, come sempre, la propria contentezza nel trovarsi tra i suoi figli. Fattosi un po’ di silenzio, Don Barberis chiese di parlare e interrogò:
            – Scusi, signor Don Bosco, mi permette che io le faccia una domanda?
            – Di’ pure.
            – Ho sentito a dire che in queste notti scorse ha fatto un sogno di semenza, di seminatore, di galline, e che l’ha già raccontato al chierico Calvi. Vorrebbe favorire di raccontarlo anche a noi? Questo ci farebbe assai piacere.
            – Curioso!! – fece Don Bosco in tono di rimprovero. E qui scoppiò una risata generale.
            – Non importa, sa, che mi dia del curioso; purché ci racconti il sogno. E con questa mia domanda credo d’interpretare la volontà di tutti i giovani, i quali certamente lo ascolteranno tanto volentieri.
            – Se è così ve lo racconto. Non voleva dir nulla, perché ci sono cose che riguardano diversi di voi in particolare, e alcune anche per te, che fanno bruciare un po’ le orecchie; ma poiché me ne richiedi, io racconterò.
            – Ma eh! signor Don Bosco, se c’è qualche bastonata per me, me la risparmi qui in pubblico.
            – Io racconterò le cose come le sognai; ciascuno prenda la parte sua. Ma prima di tutto bisogna che ciascuno tenga bene a mente, che i sogni si fanno dormendo, e dormendo non si ragiona; perciò se vi è qualche cosa di buono, qualche ammonimento da prendere, si prende. Del resto nessuno si metta in apprensione. Ho detto che io sognando di notte dormiva, perché taluni sognano anche di giorno e alcune volte perfino essendo svegliati e con non leggiero disturbo dei professori, per i quali riescono scolari fastidiosi.

            Mi pareva di essere lontano di qui e di trovarmi a Castelnuovo d’Asti, mia patria. Aveva avanti a me una grande estensione di terreno, situata in una vasta e bella pianura; ma quel terreno non era nostro e non sapeva di chi fosse.
            In quel campo vidi molti che lavoravano colle zappe, colle vanghe, coi rastrelli ed altri strumenti. Chi arava, chi seminava il grano, chi spianava la terra, chi faceva altro. Vi erano qua e là i capi preposti a dirigere i lavori e fra costoro mi sembrava di esser anch’io. Cori di contadini stavano in altra parte cantando. Io osservava stupito e non sapeva darmi ragione di quel luogo. Meco stesso andava dicendo: – Ma a che fine costoro lavorano tanto? – E rispondeva a me stesso: – Per provvedere le pagnotte ai miei giovani. – Ed era veramente una meraviglia il vedere come quei buoni agricoltori non desistessero un istante dal lavoro e incessantemente continuassero nel loro uffizio con uno slancio costante e colla stessa solerzia. Solo alcuni stavano ridendo e scherzando fra di loro.
            Mentre io contemplava così bel quadro, mi guardo attorno e vedo che mi circondavano alcuni preti e molti dei miei chierici, parte vicini, parte ad una certa distanza. Diceva tra me: – Ma io sogno; i miei chierici sono a Torino, qui invece siamo a Castelnuovo. E poi come ciò può essere? Io sono vestito da inverno da capo a piedi, solamente ieri io aveva tanto freddo, ed ora qui si semina il grano. – E mi toccava le mani e camminava e diceva: – Ma pure non sogno, questo è proprio un campo; questo chierico che è qui è il chierico A… in persona; quest’altro è il chierico B… E poi come potrei nel sogno vedere questa cosa e quest’altra?
            Intanto vidi lì presso, ma a parte, un vecchio che all’aspetto sembrava molto benevolo ed assennato, intento ad osservare me e gli altri. Mi accostai a lui e gli domandai:
            – Dite, bravo uomo, ascoltate! Che cosa è ciò che io vedo e non ne capisco nulla? Qui dove siamo? Chi sono questi lavoratori? Di chi è questo campo?
            – Oh! mi risponde quell’uomo; belle interrogazioni da farsi! Ella è prete e non sa queste cose?
            – Ma dunque ditemi! Credete voi che io sogni o che sia desto? Poiché a me par di sognare e non mi sembrano possibili le cose che vedo.
            – Possibilissime, anzi reali e a me pare che Lei sia desto affatto. Non se ne avvede? Parla, ride, scherza.
            – Eppure vi son taluni, io soggiunsi, cui sembra nel sogno di parlare, ascoltare, operare, come se fossero desti.
            – Ma no; lasci da parte tutto questo. Lei è qui in corpo ed anima.
            – Ebbene, sia pure; e se son desto, ditemi allora di chi sia questo campo.
            – Ella ha studiato il latino: qual è il primo nome della seconda declinazione che ha studiato nel Donato? Lo sa ancora?
            – Eh! sì che lo so; ma che cosa ha da far questo con ciò che vi domando?
            – Ha da far moltissimo. Dica adunque quale è il primo nome che si studia nella seconda declinazione.
            – È Dominus.
            – E come fa al genitivo?
            – Domini!
            – Bravo, bene, Domini; questo campo adunque è Domini, del Signore.
            – Ah! ora comincio a capire qualche cosa! – esclamai.
            Era meravigliato della conseguenza tratta da quel buon vecchio. Intanto vidi varie persone che venivano con sacchi di grano per seminare, e un gruppo di contadini cantava: Exit, qui seminat, seminare semen suum (Il seminatore uscì a seminare il suo seme, Lc 8,5).
            A me pareva un peccato gettar via quella semente e farla marcire sotterra. Era così bello quel grano! – Non sarebbe meglio, diceva fra me. macinarlo e fame del pane o delle paste? – Ma poi pensava: – Chi non semina, non raccoglie. Se non si getta via la semente e questa non marcisce, che cosa si raccoglierà poi?
            In quel mentre vedo da tutte le parti uscire una moltitudine di galline e andar pel seminato a beccarsi tutto il grano che altri spargeva per seme.
            E quel gruppo di cantori proseguiva nel suo canto: Venerunt aves caeli, sustulerunt frumentum et reliquerunt zizaniam (Gli uccelli del cielo vennero e raccolsero il grano e lasciarono la zizzania).
            Io do uno sguardo attorno e osservo quei chierici che erano con me. Uno colle mani conserte stava guardando con fredda indifferenza; un altro chiacchierava coi compagni; alcuni si stringevano nelle spalle, altri guardavano il cielo, altri ridevano di quello spettacolo, altri tranquillamente proseguivano la loro ricreazione e i loro giuochi, altri sbrigavano alcuna loro occupazione; ma nessuno spaventava le galline per farle andar via. Io mi rivolgo loro tutto risentito e, chiamando ciascuno per nome, diceva:
            – Ma che cosa fate? Non vedete quelle galline che si mangiano tutto il grano? Non vedete che distruggono tutto il buon seme, fanno svanire le speranze di questi buoni contadini? Che cosa raccoglieremo poi? Perché state così muti? perché non gridate, perché non le fate andar via?
            Ma i chierici si stringevano nelle spalle, mi guardavano e non dicevano niente. Alcuni non si volsero neppure: non badavano prima a quel campo, né ci badarono dopo che io ebbi gridato.
            – Stolti che siete! io continuava. Le galline hanno già tutte il gozzo pieno. Non potreste battere le mani e fare così? – E intanto io batteva le mani, trovandomi in un vero imbroglio, poiché a nulla valevano le mie parole. Allora alcuni si misero a fugar le galline, ma io ripeteva tra me: – Eh sì! Ora che tutto il grano fu mangiato, si scacciano le galline.
            In quel mentre mi colpì l’orecchio il canto di quel gruppo di contadini, i quali così cantavano: Canes muti nescientes latrare (I cani muti non sanno abbaiare, Is 56,10).
            Allora io mi rivolsi a quel buon vecchio e tra stupefatto e sdegnato gli dissi:
            – Orsù, datemi una spiegazione di quanto vedo; io ne capisco nulla. Che cosa è quel seme che si getta per terra?
            – Oh bella! Semen est verbum Dei (Il seme è la parola di Dio, Lc 8,11).
            – Ma che cosa vuol dir questo, mentre vedo che là le galline se lo mangiano?
            Il vecchio, cambiando tono di voce, proseguì:
            – Oh! se vuole una più compiuta spiegazione, io gliela do. Il campo è la vigna del Signore, di cui si parla nel Vangelo, e si può anche intendere del cuore dell’uomo. I coltivatori sono gli operai evangelici, che specialmente colla predicazione seminano la parola di Dio. Questa parola produrrebbe molto frutto in quel cuore, terreno ben preparato. Ma che? Vengono gli uccelli del cielo e la portano via.
            – Che cosa indicano questi uccelli?
            – Vuole che le dica che cosa indicano? Indicano le mormorazioni. Sentita quella predica che porterebbe effetto, si va coi compagni. Uno fa la chiosa ad un gesto, alla voce, ad una parola del predicatore, ed ecco portato via tutto il frutto della predica. Un altro accusa il predicatore stesso di qualche difetto o fisico o intellettuale; un terzo ride sul suo italiano, e tutto il frutto della predica è portato via. Lo stesso deve dirsi di una buona lettura, della quale il bene resta tutto impedito da una mormorazione. Le mormorazioni sono tanto più cattive, in quanto che esse generalmente sono segrete, nascoste, e colà vivono e crescono, ove punto noi non ce lo aspettiamo. Il grano sebbene sia in un campo non molto coltivato, tuttavia nasce, cresce, viene su abbastanza alto e produce frutto. Quando in un campo di fresco seminato viene un temporale, allora il campo resta pestato e non porta più tanto frutto, ma pure ne porta. Se anche la semenza non sarà tanto bella, pure crescerà: porterà poco frutto, ma pure ne porterà. Invece quando le galline o gli uccelli si beccano la semente, non c’è più verso: il campo non rende né punto né poco; non porta più frutto di sorta. Così se alle prediche, alle esortazioni, ai buoni propositi terrà dietro qualche altra cosa come distrazione, tentazione, ecc. farà meno frutto; ma quando c’è la mormorazione, il parlar male o simili, qui non c’è poco che tenga, ma c’è subito il tutto che vien portato via. E a chi tocca battere le mani, insistere, gridare, sorvegliare, perché queste mormorazioni, questi discorsi cattivi non si facciano? Lei lo sa!
            – Ma che cosa facevano mai questi chierici? io gli chiesi. Non potevano essi impedire tanto male?
            – Non impedirono nulla, egli proseguì. Taluni stavano ad osservare come statue mute, altri non ci badavano, non ci pensavano, non vedevano e se ne stavano colle braccia conserte, altri non avevano il coraggio d’impedire questo male; alcuni, pochi però, si univano anch’essi ai mormoratori, prendevano parte alle loro maldicenze, facevano il mestiere di distruggitori della parola di Dio. Tu che sei prete insisti su questo; predica, esorta, parla, non aver paura di dir mai troppo; e tutti sappiano che il fare le chiose a chi predica, a chi esorta, a chi dà buoni consigli è ciò che reca più del male. E lo star muti quando si vede qualche disordine e non impedirlo, specialmente chi potrebbe o dovrebbe, questo è al tutto rendersi complice del male degli altri.
            Io tutto compreso da queste parole, voleva ancora guardare, osservare questa e quella cosa, rimproverare i chierici, infiammarli a compiere il proprio dovere. Ed essi già si movevano e cercavano di mettere in fuga le galline. Ma io, avendo fatti alcuni passi, inciampai in un rastrello, destinato a spianar la terra, lasciato in quel campo, e mi svegliai. Ora lasciamo da parte ogni cosa e veniamo alla morale. D. Barberis! Che cosa ne dici di questo sogno?
            – Dico, rispose D. Barberis, che è una buona bastonata, e bazza a chi tocca.
            – Eh certo, riprese D. Bosco, è una lezione la quale bisogna che ci faccia del bene; e tenetelo a mente, o miei cari giovani, di evitare fra voi in ogni modo la mormorazione, come un male straordinario, fuggendola come si fugge dalla peste, e non solo evitarla voi, ma a tutto potere cercare di farla evitare agli altri. Alcune volte santi consigli, opere ottime non fanno il bene, che reca l’impedire una mormorazione e qualunque parola che possa nuocere ad altri. Armiamoci di coraggio e combattiamola francamente. Non v’è peggior disgrazia di quella di far perdere la parola di Dio. E basta un motto, basta uno scherzo.

            Vi ho contato un sogno avvenutomi già sono varie notti, ma in questa notte scorsa ne ho avuto un altro, che eziandio desidero narrarvi. L’ora non è ancora troppo tarda; sono appena le nove e posso esporvelo. Procurerò tuttavia di non andare per le lunghe.
            Mi parve adunque di trovarmi in un luogo che ora non ricordo più quale fosse: non era io più a Castelnuovo, ma mi pare che neppure fossi all’Oratorio. Venne qualcuno con tutta premura a chiamarmi:
            – D. Bosco, venga! D. Bosco, venga!
            – Ma e che cosa c’è di tanta premura? io risposi.
            – È in corrente delle cose avvenute?
            – Io non intendo quello che tu vuoi dire; spiegati chiaramente, risposi ansioso.
            – Non sa, D. Bosco, che il tal giovane così buono, così pieno di brio, è gravemente infermo, anzi moribondo?
            – Io dubito che tu voglia prenderti gioco di me, gli dissi: perché appunto stamane parlai e passeggiai con lo stesso giovane, che ora mi annunzi moribondo.
            – Ah, D. Bosco, io non cerco d’ingannarla e mi credo in debito di narrarle la pura verità. Quel giovane ha sommamente bisogno di lei e desidera di vederla e di parlarle per l’ultima volta. Ma venga presto, perché altrimenti non è più in tempo.
            Io senza sapere il dove, andai in tutta fretta dietro a quel tale. Arrivo in un luogo e vedo gente mesta e piangente che mi dice: Faccia pure presto, che è agli estremi.
            – Ma che cosa è accaduto? – rispondo. Vengo introdotto in una camera, dove vedo un giovane coricato, tutto smorto nel viso, d’un colore quasi cadaverico, con una tosse e un rantolo che lo soffocava e appena a stento gli permetteva di parlare:
            – Ma non sei tu il tale dei tali? io gli dissi.
            – Sì, sono il tale!
            – Come stai?
            – Sto male
            – E come va che ora ti vedo in questo stato? Solamente ieri e stamattina non passeggiavi tranquillo sotto i portici?
            – Sì, rispose il giovane, ieri e stamattina passeggiavo sotto i portici; ma ora faccia presto, che io ho bisogno di confessarmi; vedo che mi resta più poco tempo.
            – Non affannarti, non affannarti; tu ti sei confessato da pochi giorni.
            – È vero e mi pare di non avere nessuna grossa pena sul mio cuore; ma tuttavia desidero ricevere la santa assoluzione prima di presentarmi al Divin Giudice.
            Io ascoltai la sua confessione. Ma intanto osservai che visibilmente peggiorava e un catarro era per soffocarlo. – Ma qui bisogna fare in fretta, dico fra me, se voglio che riceva ancora il santo viatico e l’olio santo. Anzi il viatico non potrà più riceverlo, sia perché ci vuole più tempo per i preparativi, sia perché la tosse potrebbe impedirgli d’inghiottire. Presto l’olio santo!
            Così dicendo, esco dalla camera e mando subito un uomo a prendere la borsa degli olii santi. I giovani che erano in sala mi domandavano:
            – Ma è veramente in pericolo? è proprio moribondo, come si va dicendo?
            – Purtroppo! io rispondeva. Non vedete che il respiro gli si fa ognor più grave e il catarro lo soffoca?
            – Ma sarà meglio portargli anche il viatico e così fortificato mandarlo nelle braccia di Maria!
            Ma mentre io mi affaccendava nel preparar l’occorrente, sento una voce: – è spirato!
            Rientro in camera e trovo l’infermo cogli occhi sbarrati; più non respira; è morto.
            – È morto? io domando a quei due che lo assistevano morto, mi rispondono: è morto!
            – Ma come va, tanto in fretta? Ditemi: non è desso il tale?
            – Sì, è il tale.
            – Non posso credere agli occhi miei! Solo ieri passeggiava con me sotto i portici.
            – Ieri passeggiava ed ora è morto, mi replicarono.
            – Per fortuna che era un giovane buono! esclamai. E diceva ai giovani che aveva attorno:
            – Vedete, vedete? Costui non ha nemmanco più potuto ricevere il viatico e l’estrema unzione. Ringraziamo però il Signore, che gli diede tempo di confessarsi. Questo giovane era buono, frequentava abbastanza i Sacramenti e speriamo che sia andato ad una vita felice, o almeno in purgatorio. Ma se fosse un po’ capitata ad altri la stessa sorte, che cosa ne sarebbe ora di certuni?
            Ciò detto, ci mettemmo tutti in ginocchio e recitammo un De profundis per l’anima del povero defunto.
            Intanto io andava in camera, quando mi vedo giungere Ferraris dalla libreria (coadiutore Giovanni Antonio Ferraris, libraio), il quale tutto affannato mi dice:
            – Sa, D. Bosco, che cosa è avvenuto?
            – Eh! purtroppo lo so! È morto il tale! rispondo.
            – Non è questo che voglio dire; vi sono due altri morti.
            – Come? chi?
            – Il tale ed il tale altro.
            – Ma quando? Non capisco.
            – Sì, due altri, i quali morirono prima che ella giungesse.
            – E perché allora non mi avete chiamato?
            – Mancò il tempo. Ma ella sa dirmi quando è morto questo qui?
            – È morto adesso! io risposi.
            – Sa ella in che giorno siamo e di qual mese? proseguì Ferraris.
            – Sì che lo so; siamo ai 22 di gennaio, secondo giorno della novena di S. Francesco di Sales.
            – No, disse Ferraris. Ella si sbaglia, signor Don Bosco; guardi bene. – Io alzo gli occhi al calendario e vedo: 26 di Maggio.
            – Ma questa è maiuscola! esclamai. Siamo di gennaio, e ben me ne accorgo dal come sono vestito, non si va vestiti così di maggio; di maggio non vi sarebbe il calorifero acceso.
            – Io non so che dirle, o che ragione darle, ma ora siamo ai 26 di maggio.
            – Ma se ieri solamente è morto quel nostro compagno ed eravamo in gennaio.
            – Si sbaglia, insisté Ferraris; eravamo in tempo pasquale.
            – Un’altra ne aggiungi ancor più grossa!
            – Tempo pasquale, sicuro: eravamo in tempo pasquale, e fu ben più fortunato di morire nella Pasqua, che gli altri due, i quali morirono nel mese di Maria.
            – Tu mi burli, io gli dissi. Spiegati meglio, altrimenti io non t’intendo.
            – Io non burlo niente affatto. La cosa è così. Se poi vuole saperne di più, e che io mi spieghi meglio, ecco! Stia attento!
            Aperse le braccia, poi batté le due mani una contro l’altra forte forte: ciac! Ed io mi sono svegliato. Allora esclamai: – Oh per fortuna! Non è una realtà, ma è un sogno. Quanto timore ho avuto!
            Ecco il sogno che ho fatto la notte scorsa. Voi dategli quell’importanza che volete. Io stesso non voglio dargli interamente fede. Oggi però ho voluto vedere se coloro che mi parvero morti in sogno, fossero ancora vivi e li vidi sani e vigorosi. Certamente che non conviene ch’io dica, e non dirò, chi siano costoro. Tuttavia terrò d’occhio quei due: se sarà necessario qualche consiglio per vivere bene, lo darò loro, e li preparerò, facendo le volte larghe senza che se ne accorgano; perché così, se accadesse loro di dover morire, la morte non li trovi impreparati. Ma nessuno vada dicendo: Sarà questi, sarà quegli. Ciascuno pensi a sé.
            E non datevi nessuna apprensione di questo. L’effetto che deve fare in voi è semplicemente quello che ci suggerì il Divin Salvatore nel Vangelo: Estote parati, quia, qua hora non putatis, filius hominis veniet (Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo, Lc 12,40). È questo un grande avvertimento, miei cari giovani, che ci dà il Signore. Stiamo apparecchiati sempre, perché nell’ora in cui meno ce lo aspettiamo, può venire la morte e colui che non è preparato a morir bene, corre grave rischio di morir male. Io mi terrò preparato il meglio che posso e voi fate lo stesso, affinché in qualunque ora piaccia al Signore di chiamarci, possiamo essere pronti a passare nella felice eternità. Buona notte.

            Le parole di Don Bosco si ascoltavano sempre con religioso silenzio; ma quando egli raccontava di queste cose straordinarie, fra le centinaia di ragazzi che gremivano il luogo, non si sentiva un colpo di tosse né il più lieve fruscio di piedi. L’impressione viva durava settimane e mesi e con l’impressione avvenivano mutazioni radicali nella condotta di certi discoli. Si faceva poi ressa intorno al confessionale di Don Bosco. Di supporre che egli inventasse quei racconti per spaventare e migliorare la vita dei giovani, non veniva in capo a nessuno, perché gli annunzi di morti prossime si avveravano sempre e certi stati di coscienza veduti nei sogni rispondevano a realtà.
            Ma il timore prodotto da sì lugubri predizioni non era un incubo opprimente? Non pare. Troppe si presentavano le possibilità e le supposizioni in una moltitudine di più che ottocento giovani, perché i singoli ne potessero essere preoccupati. Inoltre la persuasione realmente diffusa, che chi moriva nell’Oratorio, andava di certo in paradiso, e che Don Bosco preparava i designati senza spaventarli, contribuiva a scacciare dagli animi ogni timore. D’altra parte si sa bene quanto sia grande la volubilità giovanile: sul momento la fantasia dei giovani rimane colpita e scossa; ma poi quel ricordo si libera ben presto da qualsiasi paurosa apprensione. Tanto ci attestavano unanimi i superstiti di quei tempi.
            Andati che furono i giovani a dormire, alcuni confratelli che attorniavano il Beato, lo tempestavano di domande, per sapere se alcuno di loro fosse fra quei che dovevano morire. Il Servo di Dio, sorridendo secondo il suo solito e scuotendo il capo, ripeteva:
            – Già, già! Verrò a dirvi chi è, con pericolo di far morire qualcuno prima del tempo!
            Visto che lì non si spillava nulla, lo interrogarono se nel primo sogno vi fossero anche dei chierici a far la parte delle galline, che, si abbandonassero cioè alla mormorazione. Don Bosco, che passeggiava, si fermò, girò gli occhi su gl’interlocutori e fece un risolino come per dire: – Eh! qualcuno sì; tuttavia pochi, e non aggiungo altro. – Allora gli chiesero che dicesse almeno se essi erano fra i cani muti; il Beato si tenne sulle generali, osservando che bisognava stare attenti a evitare e a far evitare le mormorazioni e in genere tutti i disordini, massime i cattivi discorsi. – Guai al prete e al chierico, disse, il quale, incaricato della vigilanza, vede i disordini e non li impedisce! Desidero si sappia e si ritenga che con la parola “mormorazioni” io non intendo solamente il tagliarci i panni addosso, ma ogni discorso, ogni motto, ogni parola, che possa in un compagno sminuire il frutto della parola di Dio udita. In generale poi intendo di dire che è un gran male starsene quieti, allorché si conosce qualche disordine, non impedendolo o non cercando che lo impedisca chi di ragione.
            Uno più arditelo mosse al Servo di Dio un’interrogazione alquanto azzardata.
            – E Don Barberis per che cosa entra nel sogno? Lei ha detto che ce n’era anche per lui, e Don Barberis stesso sembrava che si aspettasse una buona bastonata per sé. – Don Barberis era presente. Sulle prime Don Bosco accennava a non voler rispondere. Ma poi, essendo rimasti ai suoi fianchi solo alcuni preti e mostrandosi Don Barberis contento che egli palesasse il segreto, il Beato disse:
            – Eh! Don Barberis non predica abbastanza su questo punto; su quest’argomento non insiste quanto bisogna. Don Barberis confermò che né l’anno innanzi né durante l’anno in corso si era mai fermato di proposito: su quelle materie nelle sue conferenze agli ascritti; ebbe perciò molto piacere dell’osservazione e se la legò all’orecchio per l’avvenire.
            Ciò detto, salirono le scale e tutti, baciata la mano a Don Bosco, si allontanarono e andarono a riposo. Tutti, meno Don Barberis, che secondo il consueto lo accompagnò fino all’uscio della sua stanza. Don Bosco, vedendo che era ancora presto e accorgendosi che non avrebbe potuto prender sonno, perché fortemente impressionato dalle cose esposte, contro la sua costante abitudine fece entrare Don Barberis nella camera, dicendo:
            – Giacché abbiamo ancora tempo, possiamo fare due passi su e giù per la stanza.
            Così continuò a discorrere per una mezz’ora. Disse fra l’altro:
            – Io nel sogno ho veduto tutti ed ho veduto lo stato nel quale ognuno si trovava: se gallina, se cane muto, se nel numero di coloro che avvisati si misero all’opera o non si mossero. Di queste cognizioni io mi servo confessando, esortando in pubblico ed in privato, finché vedo che producono del bene. Da principio non faceva gran caso di questi sogni; ma mi accorsi che per lo più valgono a produrre l’effetto di più prediche, anzi per alcuni sono più efficaci che un corso di esercizi spirituali; perciò me ne servo. E perché no? Si legge nella Sacra Scrittura: Probate spiritus (mettete alla prova gli spiriti, 1Gv 4,1); quod bonum est tenete (tenete ciò che è buono, 1Tes 5,21). Vedo che giovano, vedo che piacciono, e perché tenerli segreti? Anzi osservo che contribuiscono ad affezionare molti alla Congregazione.
            – Ho provato io stesso, interruppe Don Barberis, di quanta utilità fossero questi sogni e quanto salutari. Anche narrati altrove, fanno del bene. Dove Don Bosco è conosciuto, si può dire che sono sogni fatti da lui; dove non è conosciuto, si possono presentare come similitudini. Oh, se sì potesse fame una raccolta, esponendoli in forma di similitudini! Sarebbero ricercati e letti da piccoli e da grandi, da giovani e da vecchi, con vantaggio delle anime loro.
            – Già, già! Farebbero del bene, ne sono intimamente convinto.
            – Ma forse, lamentò Don Barberis, nessuno li ha raccolti per iscritto.
            – Io, riprese Don Bosco, non ho tempo, e di molti non mi ricordo più.
            – Quelli dei quali io mi ricordo, replicò Don Barberis, sono i sogni che si riferivano ai progressi della Congregazione, all’estendersi del manto della Madonna…
            – Ah, sì! – esclamò il Beato. E accennò a parecchie visioni di questo genere. Presa quindi un’aria più grave e quasi conturbato proseguì:
            – Quando penso alla mia responsabilità nella posizione in cui io mi trovo, tremo tutto… Che conto tremendo avrò da rendere a Dio di tutte le grazie che ci fa per il buon andamento della nostra Congregazione!
(MB XII, 40-51)

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Casa Salesiana di Castel Gandolfo

Tra le colline verdi dei Castelli Romani e le acque tranquille del Lago Albano, sorge un luogo dove storia, natura e spiritualità si incontrano in modo singolare: Castel Gandolfo. In questo contesto ricco di memoria imperiale, fede cristiana e bellezza paesaggistica, la presenza salesiana rappresenta un punto fermo di accoglienza, formazione e vita pastorale. La Casa Salesiana, con la sua attività parrocchiale, educativa e culturale, continua la missione di san Giovanni Bosco, offrendo ai fedeli e ai visitatori un’esperienza di Chiesa viva e aperta, immersa in un ambiente che invita alla contemplazione e alla fraternità. È una comunità che, da quasi un secolo, cammina al servizio del Vangelo nel cuore stesso della tradizione cattolica.

Un luogo benedetto dalla storia e dalla natura
Castel Gandolfo è un gioiello dei Castelli Romani, situato a circa 25 km da Roma, immerso nella bellezza naturale dei Colli Albani e affacciato sul suggestivo Lago Albano. A circa 426 metri di altitudine, questo luogo si distingue per il suo clima mite e accogliente, un microclima che sembra preparato dalla Provvidenza per accogliere chi cerca ristoro, bellezza e silenzio.

Già in epoca romana questo territorio era parte dell’Albanum Caesaris, un’antica tenuta imperiale frequentata dagli imperatori sin dai tempi di Augusto. Fu però l’imperatore Tiberio il primo a risiedervi stabilmente, mentre più tardi Domiziano vi fece costruire una splendida villa, i cui resti sono oggi visibili nei giardini pontifici. La storia cristiana del luogo ha inizio con la donazione di Costantino alla Chiesa di Albano: un gesto che segna simbolicamente il passaggio dalla gloria imperiale alla luce del Vangelo.

Il nome Castel Gandolfo deriva dal latino Castrum Gandulphi, il castello costruito dalla famiglia Gandolfi nel XII secolo. Quando nel 1596 il castello passò alla Santa Sede, diventò residenza estiva dei Pontefici, e il legame tra questo luogo e il ministero del Successore di Pietro si fece profondo e duraturo.

La Specola Vaticana: contemplare il cielo, lodare il Creatore
Di particolare rilievo spirituale è la Specola Vaticana, fondata da papa Leone XIII nel 1891 e trasferita negli anni ’30 a Castel Gandolfo a causa dell’inquinamento luminoso di Roma. Essa testimonia come anche la scienza, quando orientata al vero, conduca a lodare il Creatore.
Nel corso degli anni, la Specola ha contribuito a progetti astronomici di grande rilievo come la Carte du Ciel e alla scoperta di numerosi oggetti celesti.

Con l’ulteriore peggioramento delle condizioni di osservazione anche nei Castelli Romani, negli anni Ottanta l’attività scientifica si spostò principalmente presso il Mount Graham Observatory in Arizona (USA), dove il Vatican Observatory Research Group prosegue le ricerche astrofisiche. Castel Gandolfo resta però un importante centro di studi: dal 1986 ospita ogni due anni la Vatican Observatory Summer School, dedicata a studenti e laureati in astronomia di tutto il mondo. La Specola organizza anche convegni specialistici, eventi divulgativi, mostre di meteoriti e presentazioni di materiali storici e artistici a tema astronomico, tutto in uno spirito di ricerca, dialogo e contemplazione del mistero della creazione.

Una chiesa nel cuore della città e della fede
Nel XVII secolo, papa Alessandro VII affidò a Gian Lorenzo Bernini la costruzione di una cappella palatina per i dipendenti delle Ville Pontificie. Il progetto, concepito inizialmente in onore di san Nicola di Bari, fu dedicato infine a san Tommaso da Villanova, agostiniano canonizzato nel 1658. La chiesa fu consacrata nel 1661 e affidata agli Agostiniani, che la ressero fino al 1929. Con la firma dei Patti Lateranensi, papa Pio XI affidò agli stessi Agostiniani la cura pastorale della nuova Pontificia Parrocchia di Sant’Anna in Vaticano, mentre la chiesa di San Tommaso da Villanova venne successivamente affidata ai Salesiani.

La bellezza architettonica di questa chiesa, frutto del genio barocco, è al servizio della fede e dell’incontro tra Dio e l’uomo: vi si celebrano oggi numerosi matrimoni, battesimi e liturgie, richiamando fedeli da ogni parte del mondo.

La casa salesiana
I Salesiani sono presenti a Castel Gandolfo dal 1929. In quegli anni il borgo conobbe un notevole sviluppo, sia demografico che turistico, ulteriormente anche grazie all’inizio delle celebrazioni papali nella chiesa di San Tommaso da Villanova. Ogni anno, nella solennità dell’Assunta, il papa celebrava la Santa Messa nella parrocchia pontificia, una tradizione iniziata da san Giovanni XXIII il 15 agosto 1959, quando uscì a piedi dal Palazzo Pontificio per celebrare l’Eucaristia tra la gente. Questa consuetudine si è mantenuta fino al pontificato di papa Francesco, che ha interrotto i soggiorni estivi a Castel Gandolfo. Nel 2016, infatti, l’intero complesso delle Ville Pontificie è stato trasformato in museo e aperto al pubblico.

La casa salesiana ha fatto parte dell’Ispettoria Romana e, dal 2009 al 2021, della Circoscrizione Salesiana Italia Centrale. Dal 2021 è passata sotto la diretta responsabilità della Sede Centrale, con direttore e comunità nominati dal Rettor Maggiore. Attualmente i salesiani presenti provengono da diverse nazioni (Brasile, India, Italia, Polonia) e sono attivi nella parrocchia, nelle cappellanie e nell’oratorio.

Gli spazi pastorali, pur appartenendo allo Stato della Città del Vaticano e quindi considerati zone extraterritoriali, fanno parte della diocesi di Albano, alla cui vita pastorale i Salesiani partecipano attivamente. Sono coinvolti nella catechesi diocesana per adulti, nell’insegnamento presso la scuola teologica diocesana, e nel Consiglio Presbiterale come rappresentanti della vita consacrata.

Oltre alla parrocchia di San Tommaso da Villanova, i Salesiani gestiscono anche due altre chiese: Maria Ausiliatrice (detta anche “San Paolo”, dal nome del quartiere) e Madonna del Lago, voluta da san Paolo VI. Entrambe furono costruite tra gli anni Sessanta e Settanta per rispondere alle esigenze pastorali della crescente popolazione.

La chiesa parrocchiale progettata da Bernini è oggi meta di numerosi matrimoni e battesimi celebrati da fedeli provenienti da tutto il mondo. Ogni anno, con le dovute autorizzazioni, vi si tengono decine, talvolta centinaia, di celebrazioni.

Il parroco, oltre a guidare la comunità parrocchiale, è anche cappellano delle Ville Pontificie e accompagna spiritualmente i dipendenti vaticani che vi lavorano.

L’oratorio, attualmente gestito da laici, vede il coinvolgimento diretto dei Salesiani, specialmente nella catechesi. In occasione di fine settimana, feste e attività estive come l’Estate Ragazzi, vi collaborano anche studenti salesiani residenti a Roma, offrendo un prezioso supporto. Presso la chiesa di Maria Ausiliatrice esiste anche un teatro attivo, con gruppi parrocchiali che organizzano spettacoli, luogo di incontro, cultura e evangelizzazione.

Vita pastorale e tradizioni
La vita pastorale è scandita dalle principali feste dell’anno: san Giovanni Bosco a gennaio, Maria Ausiliatrice a maggio con una processione nel quartiere di San Paolo, la festa della Madonna del Lago – e quindi la festa del Lago – l’ultimo sabato di agosto, con la statua portata in processione su una barca sul lago. Quest’ultima celebrazione sta coinvolgendo sempre più anche le comunità dei dintorni, attirando numerosi partecipanti, tra cui molti motociclisti, con cui sono stati avviati momenti di incontro.

Il primo sabato di settembre si celebra la festa patronale di Castel Gandolfo in onore di san Sebastiano, con una grande processione cittadina. La devozione a san Sebastiano risale al 1867, quando la città fu risparmiata da un’epidemia che colpì duramente i paesi vicini. Sebbene la memoria liturgica cada il 20 gennaio, la festa locale viene celebrata a settembre, sia in ricordo della protezione ottenuta che per ragioni climatiche e pratiche.

L’8 settembre si celebra il patrono della chiesa, san Tommaso da Villanova, in coincidenza con la Natività della Beata Vergine Maria. In questa occasione si tiene anche la festa delle famiglie, rivolta alle coppie che si sono sposate nella chiesa di Bernini: sono invitate a tornare per una celebrazione comunitaria, una processione e un momento conviviale. L’iniziativa ha avuto ottimi riscontri e si sta consolidando nel tempo.

Una curiosità: la buca delle lettere
Accanto all’ingresso della casa salesiana si trova una casella postale, nota come “Buca delle corrispondenze”, considerata la più antica ancora in uso. Risale infatti al 1820, vent’anni prima dell’introduzione del primo francobollo al mondo, il famoso Penny Black (1840). È una cassetta ufficiale delle Poste Italiane tuttora attiva, ma anche un simbolo eloquente: un invito alla comunicazione, al dialogo, all’apertura del cuore. Il ritorno del papa Leone XIV alla sua sede estiva, sicuramente lo aumenterà.

Castel Gandolfo resta un luogo dove il Creatore parla attraverso la bellezza del creato, la Parola proclamata e la testimonianza di una comunità salesiana che, nella semplicità dello stile di Don Bosco, continua a offrire accoglienza, formazione, liturgia e fraternità, ricordando a coloro che si avvicinano a queste terre in cerca di pace e serenità che la vera pace e serenità si trova solo in Dio e nella sua grazia.