La conversione

Dialogo tra un uomo convertito di recente a Cristo e un amico non credente:
«Così ti sei convertito a Cristo?».
«Sì».
«Allora devi sapere un sacco di cose su di lui. Dimmi, in che Paese è nato?».
«Non lo so».
«Quanti anni aveva quand’è morto?».
«Non lo so».
«Quanti libri ha scritto?».
«Non lo so».
«Sai decisamente ben poco per essere un uomo che afferma di essersi convertito a Cristo!».
«Hai ragione. Mi vergogno di quanto poco so di lui. Ma quello che so è questo: tre anni fa ero un ubriacone. Ero pieno di debiti. La mia famiglia cadeva a pezzi. Mia moglie e i miei figli temevano il mio ritorno a casa ogni sera. Ma ora ho smesso di bere; non abbiamo più debiti; la nostra è ora una casa felice; i miei figli attendono con ansia il mio ritorno a casa la sera. Tutto questo ha fatto Cristo per me. E questo è quello che so di Cristo!».

Ciò che conta di più è proprio come Gesù cambia la nostra vita. Lo dobbiamo ribadire con forza: seguire Gesù significa cambiare il modo di vedere Dio, gli altri, il mondo, se stessi. Rispetto a quello sponsorizzato dall’opinione corrente, è un altro modo di vivere e un altro modo di morire. È questo il mistero della «conversione».




Gli esegeti

Un famoso biblista aveva invitato un gruppo di colleghi a casa sua. Si sedettero intorno ad un tavolo che aveva al centro un magnifico vaso di fiori e incominciarono ad accanirsi su una pagina della Bibbia. Discutevano animatamente, scomponevano ogni parola, ipotizzavano radici antiche, congetturavano, postulavano, paragonavano, distillavano, storicizzavano, demitizzavano, psicologizzavano, femminilizzavano…
Non riuscivano ad accordarsi pressoché su nulla.
Improvvisamente il padrone di casa interruppe la discussione e si rivolse a uno degli ospiti che prendeva i fiori dal vaso posto al centro del tavolo e li distruggeva sistematicamente.
«Che cosa fa?».
«Conto i verticilli, divido gli stami e i pistilli, metto da parte peduncoli e filamenti…».
«Questo zelo scientifico le fa onore, ma in questo modo rovina tutta la bellezza di questi stupendi fiori!».
L’uomo sorrise amaramente: «È proprio quello che state facendo voi».

Il rabbino Elimelekh aveva tenuto un sermone meraviglioso sull’arte di vivere. Pieni di entusiasmo gli ascoltatori lo accompagnavano festosi mentre in carrozza prendeva la via del ritorno verso il suo villaggio.
Ad un certo punto, il rabbino fece fermare la carrozza e chiese al conducente di andare avanti senza di lui, mentre si mescolava alla gente.
«Che esempio di umiltà!» disse uno dei suoi discepoli.
«L’umiltà non c’entra» rispose Elimelekh. «Qui la gente passeggia felice, canta, beve vino, chiacchiera, fa nuove amicizie e tutto grazie ad un vecchio rabbi che è venuto a parlare sull’arte di vivere. Perciò preferisco lasciare le mie teorie sulla carrozza e godermi la festa».




Vita di San Pietro, principe degli apostoli

Il momento culminante dell’Anno Giubilare per ogni credente è il passaggio attraverso la Porta Santa, un gesto altamente simbolico che va vissuto con profonda meditazione. Non si tratta di una semplice visita per ammirare la bellezza architettonica, scultorea o pittorica di una basilica: i primi cristiani non si recavano nei luoghi di culto per questo motivo, anche perché all’epoca non c’era molto da ammirare. Essi giungevano invece per pregare davanti alle reliquie dei santi apostoli e martiri, e per ottenere l’indulgenza grazie alla loro potente intercessione.
Recarsi presso le tombe degli apostoli Pietro e Paolo senza conoscerne la loro vita non è un segno di apprezzamento. Per questo, in quest’Anno Giubilare, desideriamo presentare i percorsi di fede di questi due gloriosi apostoli, così come furono narrati da San Giovanni Bosco.

Vita di S. Pietro, principe degli apostoli raccontata al popolo dal sacerdote Giovanni Bosco

Uomo di poca fede, perché hai dubitato? (Matt. XIV, 31).

PREFAZIONE
CAPO I. Patria e professione di S. Pietro. — Suo fratello Andrea lo conduce da Gesù Cristo. Anno 29 di Gesù Cristo
CAPO II. Pietro conduce in nave il Salvatore — Pesca miracolosa. — Accoglie Gesù in sua casa. — Miracoli operati. Anno di Gesù Cristo 30.
CAPO III. S. Pietro capo degli Apostoli è inviato a predicare. — Cammina sopra le onde. — Bella risposta data al Salvatore. Anno 31 di Gesù Cristo.
CAPO IV. Pietro confessa per la seconda volta Gesù Cristo come figlio di Dio. — È costituito capo della Chiesa, e gli sono promesse le chiavi del regno dei Cieli. Anno 32 di Gesù Cristo.
CAPO V. S. Pietro dissuade il divino Maestro dalla passione. — Va con lui sul monte Tabor. Anno di G. C. 32.
CAPO VI. Gesù alla presenza di Pietro risuscita la figlia di Giairo. — Paga per Pietro il tributo. — Ammaestra i suoi discepoli nell’umiltà. Anno di G. C. 32.
CAPO VII. Pietro parla con Gesù del perdono delle ingiurie e del distacco dalle cose terrene. — Rifiuta di lasciarsi lavare i piedi. — Sua amicizia con S. Giovanni. Anno di G. C. 33.
CAPO VIII. Gesù predice la negazione di Pietro e lo assicura che non verrà meno la sua fede. — Pietro lo segue nell’orto di Getsemani. — Taglia l’orecchio a Malco. — Sua caduta, suo ravvedimento. Anno di G. C. 33.
CAPO IX. Pietro al sepolcro del Salvatore. — Gesù gli appare. — Sul lago di Tiberiade dà tre distinti segni di amore verso Gesù che lo costituisce effettivamente capo e pastore supremo della Chiesa.
CAPO X. Infallibilità di S. Pietro e dei suoi successori
CAPO XI. Gesù predice a S. Pietro la morte di croce. — Promette assistenza alla Chiesa sino alla fine del mondo. — Ritorno degli Apostoli nel cenacolo. Anno di G. C. 33.
CAPO XII. S. Pietro surroga Giuda. — Venuta dello Spirito Santo. — Miracolo delle lingue. Anno di G. C. 33.
CAPO XIII. Prima predica di Pietro. Anno di G. C. 33.
CAPO XIV. S. Pietro guarisce uno storpio. — Sua seconda predica. Anno di G. C. 33.
CAPO XV. Pietro è messo con Giovanni in prigione e ne viene liberato.
CAPO XVI. Vita dei primi Cristiani. — Fatto di Anania e Saffira. — Miracoli di S. Pietro. Anno di Gesù Cristo 34.
CAPO XVII. S. Pietro di nuovo messo in prigione. — È da un angelo liberato. Anno di Gesù Cristo 34.
CAPO XVIII. Elezione dei sette diaconi. — S. Pietro resiste alla persecuzione di Gerusalemme. — Va in Samaria. — Suo primo scontro con Simon Mago. Anno di G. C. 35.
CAPO XIX. S. Pietro fonda la cattedra di Antiochia; ritorna in Gerusalemme. — È visitato da S. Paolo. Anno di Gesù Cristo 36.
CAPO XX. S. Pietro visita parecchie Chiese. — Guarisce Enea paralitico. — Risuscita la defunta Tabita. Anno di G. C. 38.
CAPO XXI. Dio rivela a S. Pietro la vocazione dei Gentili. — Va in Cesarea e battezza la famiglia di Cornelio Centurione. Anno di G. C. 39.
CAPO XXII. Erode fa decapitare S. Giacomo il Maggiore e mettere S. Pietro in prigione. — Ma ne è liberato da un Angelo. — Morte di Erode. Anno di G. C. 41.
CAPO XXIII. Pietro a Roma. — Vi trasferisce la cattedra apostolica. — Sua prima lettera. — Progresso del Vangelo. Anno 42 di Gesù Cristo.
CAPO XXIV. San Pietro al concilio di Gerusalemme definisce una questione. — San Giacomo conferma il suo giudizio. Anno di Gesù Cristo 50.
CAPO XXV. San Pietro conferisce a San Paolo e a San Barnaba la pienezza dell’Apostolato. — È avvisato da San Paolo. — Ritorna a Roma. Anno di Gesù Cristo 54.
CAPO XXVI. San Pietro fa risuscitare un morto. Anno di Gesù Cristo 66.
CAPO XXVII. Volo. — Caduta. — Disperata morte di Simone Mago. Anno di Gesù Cristo 67.
CAPO XXVIII. Pietro è cercato a morte. — Gesù gli appare e gli predice imminente il martirio. — Testamento del santo Apostolo.
CAPO XXIX. San Pietro in prigione converte Processo e Martiniano. — Suo martirio. Anno dell’Era Volgare 67.
CAPO XXX. Sepolcro di San Pietro. — Attentato contro il suo corpo.
CAPO XXXI. Tomba e Basilica di San Pietro in Vaticano.
APPENDICE SULLA VENUTA DI S. PIETRO A ROMA

PREFAZIONE
            A chi deve entrare in un palazzo chiuso e prenderne possesso è necessario che si renda propizio chi ne tiene le chiavi.
            Sfortunato colui che, trovandosi su una navicella in alto mare, non è nelle grazie del pilota. La pecorella perduta, che sta lontano dal suo pastore, non ne conosce la voce o non l’ascolta.
            Caro lettore; la tua dimora è il cielo, e tu devi aspirare a giungerne al possesso. Finché vivi quaggiù, stai navigando nel fortunoso mare del mondo, in pericolo di scontrare gli scogli, di naufragare e perderti negli abissi dell’errore.
            Come una pecorella, sei ogni giorno in procinto di essere condotto a pascoli nocivi, di smarrirti per balze e dirupi, e di cadere anche nelle zanne dei lupi rapaci, vale a dire nelle insidie dei nemici dell’anima tua. Ah! Sì, hai bisogno di renderti propizio colui al quale furono consegnate le chiavi del cielo; è necessario che tu confidi la tua vita al gran Pilota della Nave di Cristo, al Noè del nuovo Testamento; devi stringerti intorno al Supremo Pastore della Chiesa, che solo può guidarti ai sani pascoli e condurti alla vita.
            Orbene, il Portinaio del regno dei Cieli, gran Nocchiero e Pastore degli uomini è appunto S. Pietro, principe degli Apostoli, il quale esercita il suo potere nella persona del Sommo Pontefice suo Successore. Egli tuttora apre e schiude, governa la Chiesa, guida le anime alla salvezza.
            Non ti dispiaccia, dunque, pio lettore, scorrere la breve vita che qui ti presento; impara a conoscere chi egli sia, a rispettare la suprema sua autorità di onore e di giurisdizione; impara a riconoscere la voce amorevole del Pastore e ad ascoltarla. Perché chi è con Pietro, è con Dio, cammina nella luce e corre verso la vita; chi non è con Pietro, è contro Dio, va barcollando nelle tenebre e precipita nella perdizione. Dove è Pietro, ivi è la vita; dove Pietro non è, ivi è la morte.

CAPO I. Patria e professione di S. Pietro[1]. — Suo fratello Andrea lo conduce da Gesù Cristo. Anno 29 di Gesù Cristo
            Era S. Pietro di nascita giudeo e figlio di un povero pescatore di nome Giona ossia Giovanni, il quale abitava in una città della Galilea detta Betsaida. Questa città è situata sulla riva occidentale del lago di Genezaret, comunemente detto mare di Galilea o di Tiberiade, che in realtà è un vasto lago di dodici miglia di lunghezza e sei di larghezza.
            Prima che il Salvatore gli cambiasse il nome, Pietro si chiamava Simone. Egli esercitava il mestiere di pescatore, come suo padre; aveva un temperamento robusto, ingegno vivace e spiritoso; era pronto nel rispondere, ma di cuore buono e pieno di riconoscenza verso chi lo beneficava.
            Questa indole vivace lo portava spesso ai più caldi trasporti di affetto verso il Salvatore, dal quale parimenti ebbe a ricevere non dubbi segni di predilezione. In quel tempo, non essendo ancora molto conosciuto il pregio della verginità, Pietro prese moglie nella città di Cafarnao, capitale della Galilea, sulla riva occidentale del Giordano, che è un gran fiume, il quale divide la Palestina da nord a sud.
            Siccome Tiberiade era situata dove il Giordano sbocca nel mare di Galilea, e perciò molto adatta alla pesca, così S. Pietro stabilì in questa città la sua ordinaria dimora e continuò a esercitare il suo solito mestiere. La bontà del suo cuore molto disposto per la verità, l’impiego innocente di pescatore e l’assiduità al lavoro contribuirono assai a fare sì che egli si conservasse nel santo timore di Dio.
            Era in quel tempo diffuso il pensiero nella mente di tutti che fosse imminente la venuta del Messia; anzi, taluno andava dicendo che era già nato fra gli Ebrei. La qual cosa era motivo che S. Pietro usasse la massima diligenza per venirne a conoscenza. Egli aveva un fratello maggiore di nome Andrea, il quale, rapito dalle meraviglie che si raccontavano intorno a S. Giovanni Battista, Precursore del Salvatore, volle farsi suo discepolo, andando a vivere la maggior parte del tempo con lui in un aspro deserto.
            La notizia, che si andava ogni giorno più confermando, che già fosse nato il Messia, faceva sì che molti ricorressero a S. Giovanni, credendo che fosse egli stesso il Redentore. Fra questi vi era S. Andrea, fratello di Simon Pietro. Ma non andò molto che, istruito da Giovanni, venne a conoscere Gesù Cristo e la prima volta che lo udì parlare ne fu talmente rapito che corse immediatamente a darne notizia al fratello.
            Appena lo vide: “Simone,” gli disse, “ho trovato il Messia; vieni con me a vederlo.”
            Simone, che già da altri aveva udito raccontare qualcosa, ma vagamente, partì subito con suo fratello e andò là dove Andrea aveva lasciato Gesù Cristo. Pietro, come ebbe dato uno sguardo al Salvatore, ne fu come rapito d’amore. Il divino Maestro, che aveva concepito alti disegni sopra di lui, lo guardò con aria di bontà e, prima che egli parlasse, gli mostrò di essere pienamente informato del suo nome, della sua nascita, della sua patria, dicendo: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni, ma in seguito ti chiamerai Cefa.” Questa parola vuol dire pietra, donde derivò il nome di Pietro. Gesù comunica a Simone che sarebbe chiamato Pietro, perché egli doveva essere quella pietra sopra cui Gesù Cristo avrebbe fondato la sua Chiesa, come vedremo nel corso di questa vita.
            In questo primo colloquio Pietro riconobbe subito essere di gran lunga inferiore alla realtà quello che gli aveva raccontato suo fratello e, fin da quel momento, divenne affezionatissimo a Gesù Cristo, né sapeva più vivere lontano da lui. Il divino Salvatore, per altro, permise a questo nuovo discepolo di far ritorno al suo precedente mestiere perché voleva predisporlo poco per volta al totale abbandono delle cose terrene, guidarlo ai più sublimi gradi della virtù e così renderlo capace di comprendere gli altri misteri che gli avrebbe rivelato e farlo degno del grande potere di cui lo voleva investire.

CAPO II. Pietro conduce in nave il Salvatore — Pesca miracolosa. — Accoglie Gesù in sua casa. — Miracoli operati. Anno di Gesù Cristo 30.
            Pietro continuava dunque a esercitare la sua prima professione; ma ogni volta che il tempo e le occupazioni glielo permettevano, andava con gioia dal divino Salvatore, per udirlo ragionare delle verità della fede e del regno dei cieli.
            Un giorno, camminando Gesù sulla spiaggia del mare di Tiberiade, vide i due fratelli Pietro e Andrea in atto di gettare le loro reti nell’acqua. Chiamatili a sé, disse loro: “Venite con me e, da pescatori di pesci come siete, vi farò diventare pescatori di uomini.” Essi prontamente ubbidirono ai cenni del Redentore e, abbandonando le loro reti, divennero fedeli e costanti seguaci di lui. Non lontano vi era un’altra barca di pescatori, in cui si trovava un certo Zebedeo con due figli, Giacomo e Giovanni, che riparavano le loro reti. Gesù chiamò a sé anche questi due fratelli. Pietro, Giacomo e Giovanni sono i tre discepoli che ebbero segni di speciale benevolenza dal Salvatore e che, dal loro canto, gli si mostrarono in ogni incontro fedeli e leali.
            Intanto il popolo, avendo saputo che il Salvatore si trovava là, si affollava intorno a lui per ascoltare la sua divina parola. Volendo appagare il desiderio della moltitudine e nel tempo stesso offrire comodità a tutti di poterlo udire, non volle predicare dal lido, ma da una delle due navi che erano vicino alla riva; e per dare a Pietro un nuovo attestato di amore scelse la barca di lui. Salito a bordo e fatto salire anche Pietro, gli comandò di allontanarsi un po’ dalla sponda e, postosi a sedere, si mise a istruire quella devota adunanza. Finita la predica, ordinò a Pietro di condurre la nave in alto mare e di gettare la rete per raccogliere pesci.
            Pietro aveva passato tutta la notte precedente a pescare in quel medesimo luogo e non aveva preso niente; perciò, voltosi a Gesù: “Maestro,” gli disse, “noi ci siamo affaticati tutta la notte pescando e non abbiamo preso neppure un pesce; tuttavia, sulla vostra parola, getterò in mare la rete.” Così fece per ubbidienza e, contro ogni aspettativa, la pesca fu tanto copiosa e la rete così piena di grossi pesci che, tentando di trarla fuori dalle acque, stava per lacerarsi. Pietro, non potendo da solo reggere al grande peso della rete, chiese soccorso a Giacomo e Giovanni, che stavano nell’altra nave, e questi vennero ad aiutarlo. D’accordo e con fatica, tirarono fuori la rete, versarono i pesci sulle navi, le quali rimangono entrambe così piene che minacciano di affondare.
            Pietro, che cominciava a ravvisare qualcosa di sovrumano nella persona del Salvatore, riconobbe subito che quello era un prodigio e, pieno di stupore, reputandosi indegno di stare con lui nella medesima barca, umiliato e confuso, si gettò ai suoi piedi dicendo: “Signore, io sono un miserabile peccatore, perciò vi prego di allontanarvi da me.” Quasi a dire: “Oh! Signore, io non sono degno di stare alla vostra presenza.” Ammirando, dice Sant’Ambrogio, i doni di Dio, tanto più meritava quanto meno di sé presumeva[2].
            Gesù gradì la semplicità di Pietro e l’umiltà del suo cuore e, volendo che egli aprisse l’animo a migliori speranze, per confortarlo gli disse: “Deponi ogni timore; da ora in avanti non sarai pescatore di pesci, ma sarai pescatore di uomini.” A queste parole Pietro prese coraggio e, quasi cambiato in un altro uomo, condusse la nave al lido, abbandonò ogni cosa e si fece indivisibile compagno del Redentore.
            Siccome Gesù Cristo, parlando, indirizzò il cammino verso la città di Cafarnao, così Pietro andò con lui. Là entrarono entrambi nella Sinagoga e l’Apostolo ascoltò la predica che qui fece il Signore e fu testimone della miracolosa guarigione di un indemoniato.
            Dalla Sinagoga Gesù andò nella casa di Pietro dove la suocera di lui era travagliata da una gravissima febbre. Insieme con Andrea, Giacomo e Giovanni, egli pregò Gesù di compiacersi di liberare quella donna dal male che la opprimeva. Il divino Salvatore esaudì le loro preghiere e, avvicinandosi al letto dell’ammalata, la prese per mano, la sollevò ed in quell’istante la febbre scomparve. La donna si trovò così perfettamente guarita che poté alzarsi subito e preparare il pranzo a Gesù e a tutta la sua comitiva. La fama di tali miracoli trasse alla casa di Pietro molti infermi insieme con una folla innumerevole, così che tutta la città sembrava radunata là. Gesù restituì la sanità a quanti erano portati a lui; e tutti, pieni di contentezza, ne partivano lodando e benedicendo il Signore.
            I santi Padri nella nave di Pietro ravvisano la Chiesa, di cui è capo Gesù Cristo, in luogo del quale Pietro doveva essere il primo a farne le veci, e dopo di lui tutti i Papi suoi successori. Le parole dette a Pietro: “Conduci la nave in alto mare,” e le altre dette a lui e ai suoi Apostoli: “Spiegate le vostre reti per prendere pesci,” contengono anche un nobile significato. A tutti gli Apostoli, dice S. Ambrogio, comanda di gettare nelle onde le reti; perché tutti gli Apostoli e tutti i pastori sono tenuti a predicare la divina parola e a custodire nella nave, ovvero nella Chiesa, quelle anime che andranno guadagnate nella loro predicazione. Al solo Pietro poi si ordina di condurre la nave in alto mare, perché egli, a preferenza di tutti, viene fatto partecipe della profondità dei divini misteri e solo riceve da Cristo l’autorità di sciogliere le difficoltà che possono insorgere in cose di fede e di morale. Così, nella venuta degli altri apostoli alla nave di lui, si riconosce il concorso degli altri pastori, i quali, unendosi a Pietro, devono aiutarlo a propagare e conservare la fede nel mondo e guadagnare anime a Cristo[3].

CAPO III. S. Pietro capo degli Apostoli è inviato a predicare. — Cammina sopra le onde. — Bella risposta data al Salvatore. Anno 31 di Gesù Cristo.
            Partito Gesù dalla casa di Pietro, si incamminò verso la solitudine, sopra un monte, per fare orazione. Pietro e gli altri discepoli, che a quel punto erano cresciuti in buon numero, lo seguirono; ma, giunti al luogo stabilito, Gesù comandò loro di fermarsi e, tutto solo, si ritirò in un luogo appartato. Fattosi giorno, ritornò ai discepoli. In quell’occasione il divino Maestro scelse dodici discepoli, cui diede il nome di Apostoli, che vuol dire inviati, poiché gli Apostoli erano veramente inviati a predicare il Vangelo, per allora nei soli paesi della Giudea; poi in tutto il mondo. Fra questi dodici destinò San Pietro a tenere il primo posto e a fare da capo affinché, come dice S. Girolamo, stabilito fra di loro un superiore, si togliesse ogni occasione di discordia e di scisma. Ut capite constituto schismatis tolleretur occasio[4].
            I nuovi predicatori andavano con tutto zelo ad annunciare il Vangelo, predicando ovunque la venuta del Messia e confermando le loro parole con luminosi miracoli. Poi ritornavano al divino Maestro, come per rendere conto di quanto avevano fatto. Egli li accoglieva con bontà e soleva quindi portarsi egli stesso in quel luogo dove gli Apostoli avevano predicato. Avvenne un giorno che le turbe, trasportate da ammirazione e da entusiasmo, volevano farlo re; ma egli, comandando agli Apostoli di fare tragitto all’opposta sponda del lago, si allontanò da quella buona gente e andò a nascondersi nel deserto. Gli Apostoli, secondo gli ordini del Maestro, salirono in barca per attraversare il lago. Già si avanzava la notte ed erano ormai giunti al lido, quando si levò una burrasca così terribile che la nave, agitata dalle onde e dal vento, era in procinto di affondare.
            In mezzo a quella tempesta non si immaginavano certo di poter vedere Gesù Cristo, che avevano lasciato all’opposta sponda del lago. Ma quale non fu la loro sorpresa quando lo videro a poca distanza camminare sopra le acque, con passo franco e veloce, ed avanzare verso di loro! Al primo vederlo tutti si spaventarono, temendo che fosse un qualche spettro o fantasma, e si misero a gridare. Gesù allora fece udire la sua voce e li incoraggiò dicendo: «Sono io, abbiate fede, non temete.»
            A quelle parole nessuno degli Apostoli osò parlare; soltanto Pietro, per l’impeto del suo amore verso Gesù e per accertarsi che non fosse un’illusione, disse: “Signore, se siete voi veramente, comandate che io venga a voi camminando sopra le acque.” Il Divin Salvatore disse di sì; e Pietro, pieno di fiducia, saltò fuori dalla nave e si gettò a camminare sopra le onde, come si farebbe su un selciato. Ma Gesù, che voleva provare la fede di lui e renderla più perfetta, permise di nuovo che si sollevasse un vento impetuoso, il quale, agitando le onde, minacciava di sommergere Pietro. Vedendo i suoi piedi affondare nell’acqua, ne fu spaventato e si mise a gridare: “Maestro, Maestro, aiutatemi, altrimenti io sono perduto.” Allora Gesù lo rimproverò della debolezza della sua fede con queste parole: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?” Così dicendo, camminarono entrambi insieme sopra le onde finché, entrando in barca, cessò il vento e si calmò la tempesta. In questo fatto i santi Padri ravvisano i pericoli in cui si trova talvolta il Capo della Chiesa e il pronto soccorso che gli porta Gesù Cristo, suo Capo invisibile, che permette sì le persecuzioni, ma gli dà sempre vittoria.
            Qualche tempo dopo il Divin Salvatore ritornò nella città di Cafarnao con gli Apostoli, seguito da una gran folla. Mentre si tratteneva in questa città, molti gli si affollavano intorno, pregandolo di voler insegnare loro quali fossero le opere assolutamente necessarie per salvarsi. Gesù si pose a istruirli intorno alla sua celeste dottrina, al mistero della sua Incarnazione, al Sacramento dell’Eucaristia. Ma siccome quegli insegnamenti tendevano a sradicare la superbia dal cuore degli uomini, a ingenerarvi l’umiltà con l’obbligarli a credere altissimi misteri e specialmente il mistero dei misteri, la divina Eucaristia, così i suoi uditori, reputando quei discorsi troppo rigidi e severi, rimasero offesi e la maggior parte lo abbandonò.
            Gesù, vedendosi abbandonato quasi da tutti, si rivolse agli Apostoli e disse: “Vedete come molti se ne vanno? Volete forse andarvene anche voi?” A questa improvvisa interrogazione ognuno tacque. Solamente Pietro, come capo e a nome di tutti, rispose: “Signore, a chi mai andremo noi? Voi avete parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che voi siete Cristo figlio di Dio.” S. Cirillo riflette che questa interrogazione fu fatta da Gesù Cristo al fine di stimolarli a confessare la vera fede, come di fatto avvenne per la bocca di Pietro. Quale differenza fra la risposta del nostro Apostolo e le mormorazioni di certi cristiani che trovano dura e severa la santa legge del Vangelo, perché non si accomoda alle loro passioni (Ciril. in Ioann. lib. 4).

CAPO IV. Pietro confessa per la seconda volta Gesù Cristo come figlio di Dio. — È costituito capo della Chiesa, e gli sono promesse le chiavi del regno dei Cieli. Anno 32 di Gesù Cristo.
            In parecchie occasioni il divino Salvatore aveva reso palesi i disegni particolari che aveva sulla persona di Pietro; ma non si era ancora spiegato così chiaramente, come vedremo nel fatto seguente, che si può dire il più memorabile della vita di questo grande Apostolo. Dalla città di Cafarnao Gesù era andato nei dintorni di Cesarea di Filippo, città non molto distante dal fiume Giordano. Là un giorno, dopo aver pregato, Gesù si volse improvvisamente ai suoi discepoli, che erano ritornati dalla predicazione, e facendo cenno di avvicinarsi a lui prese a interrogarli così: “Chi dicono gli uomini che io sia?” “C’è chi dice,” rispondeva uno degli Apostoli, “che voi siete il profeta Elia.” “A me hanno detto,” soggiunse un altro, “che voi siete il profeta Geremia, o Giovanni Battista o qualcuno degli antichi profeti risuscitati.” Pietro non proferì parola. Riprese Gesù: “Ma voi, chi dite che io sono?” Pietro allora si avanzò e a nome degli altri Apostoli rispose: “Voi siete il Cristo, figlio del Dio vivo.” Allora Gesù: “Beato te, o Simone, figlio di Giovanni, cui non gli uomini rivelarono tali parole, ma il mio Padre celeste. D’ora in poi non ti chiamerai più Simone, ma Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non la potranno vincere. Darò a te le chiavi del regno dei cieli; ciò che tu legherai in terra, sarà legato anche in cielo, e ciò che tu avrai sciolto sulla terra, sarà sciolto anche in cielo.”[5]
            Questo fatto e queste parole meritano di essere un po’ spiegate, affinché siano ben comprese. Pietro tacque finché Gesù dimostrava soltanto di voler sapere quanto dicevano gli uomini intorno alla sua persona; quando poi il divino Salvatore invitò gli Apostoli a esprimere il proprio sentimento, subito Pietro a nome di tutti parlò, perché egli già godeva una primazia, ovvero superiorità, sugli altri suoi compagni.
            Pietro, divinamente ispirato, dice: “Voi siete il Cristo,” ed era lo stesso che dire: “Voi siete il Messia promesso da Dio venuto a salvare gli uomini; siete figlio del Dio vivo,” per significare che Gesù Cristo non era figlio di Dio come le divinità degli idolatri, fatte dalle mani e dal capriccio degli uomini, ma figlio del Dio vivo e vero, cioè figlio del Padre eterno, perciò con Lui creatore e supremo padrone di tutte le cose; con ciò veniva a confessarlo come la seconda persona della SS. Trinità. Gesù, quasi per compensarlo della sua fede, lo chiama Beato, e intanto gli cambia il nome di Simone in quello di Pietro; chiaro segno che lo voleva innalzare a grande dignità. Così aveva fatto Dio con Abramo, quando lo stabilì padre di tutti i credenti; così con Sara quando le promise la prodigiosa nascita di un figlio; così con Giacobbe quando lo chiamò Israele e lo assicurò che dalla sua discendenza sarebbe nato il Messia.
            Gesù disse: “Su questa pietra fonderò la mia Chiesa;” le quali parole vogliono dire: tu, o Pietro, sarai nella Chiesa quello che in una casa è il fondamento. Il fondamento è la parte principale della casa, del tutto indispensabile; tu, o Pietro, sarai il fondamento, ossia la suprema autorità nella mia Chiesa. Sul fondamento si edifica tutta la casa, affinché, sostenendosi, duri ferma e immobile. Sopra di te, che io chiamo Pietro, come sopra una roccia o pietra fermissima, per mia virtù onnipotente io innalzo l’eterno edificio della mia Chiesa, la quale, appoggiata su di te, starà forte e invitta contro tutti gli assalti dei suoi nemici. Non vi è casa senza fondamento, non vi è Chiesa senza Pietro. Una casa senza fondamento non è opera di un sapiente architetto; una Chiesa separata da Pietro non potrà mai essere la mia Chiesa. Nelle case, le parti che non poggiano sul fondamento cadono e vanno in rovina; nella mia Chiesa chiunque si separa da Pietro precipita nell’errore e si perde.
            “Le porte dell’inferno non vinceranno mai la mia Chiesa.” Le porte dell’inferno, come spiegano i Santi Padri, significano le eresie, gli eresiarchi, le persecuzioni, i pubblici scandali e i disordini che il demonio cerca di suscitare contro la Chiesa. Tutte queste potenze infernali potranno bensì, o separatamente o riunite, muovere aspra guerra alla Chiesa e turbarne lo spirito pacifico, ma non la potranno mai vincere.
            Finalmente dice Cristo: “E ti darò le chiavi del regno dei cieli.” Le chiavi sono il simbolo della potestà. Quando il venditore di una casa porge le chiavi al compratore, s’intende che gliene dà pieno ed assoluto possesso. Parimenti quando si presentano le chiavi di una città a un Re, si vuole significare che quella città lo riconosce per suo signore. Così le chiavi del regno dei cieli, cioè della Chiesa, date a Pietro, dimostrano che egli è fatto padrone, principe e governatore della Chiesa. Perciò Gesù Cristo soggiunge a Pietro: “Tutto quello che legherai sulla terra sarà altresì legato nei cieli, e tutto quello che scioglierai in terra sarà pure sciolto in cielo.” Le quali parole indicano manifestamente l’autorità suprema data a Pietro; autorità di legare la coscienza degli uomini con decreti e leggi in ordine al loro bene spirituale ed eterno, e l’autorità di scioglierli dai peccati e dalle pene che impediscono lo stesso bene spirituale ed eterno.
            È bene qui notare che il vero Capo supremo della Chiesa è Gesù Cristo suo fondatore; S. Pietro poi esercita la suprema sua autorità facendo le funzioni, ossia le veci, di lui sulla terra. Gesù Cristo fece con Pietro, come appunto fanno i Re di questo mondo, allorché danno i pieni poteri a qualche loro ministro con ordine che ogni cosa debba dipendere da lui. Così il Re Faraone diede tal potere a Giuseppe che nessuno poteva muovere né mano né piede senza suo permesso[6].
            Si noti anche che gli altri Apostoli ricevettero da Gesù Cristo la facoltà di sciogliere e legare[7], ma questa facoltà fu loro data dopo che S. Pietro l’aveva ricevuta da solo, per indicare che egli solo era il capo destinato a conservare l’unità di fede e di morale. Gli altri Apostoli poi, e tutti i vescovi loro successori, dovevano essere sempre dipendenti da Pietro e dai Papi suoi successori, al fine di stare uniti a Gesù Cristo, che dal cielo assiste il suo Vicario e tutta la Chiesa sino alla fine dei secoli. Pietro ricevette la facoltà di sciogliere e di legare insieme con gli altri Apostoli, e così egli e i suoi successori sono uguali agli Apostoli e ai Vescovi; poi la ricevette da solo, e perciò Pietro e i Papi suoi successori sono i Capi supremi di tutta la Chiesa; non solo dei semplici fedeli, ma dei Sacerdoti e dei Vescovi tutti. Sono vescovi e pastori di Roma, e papi e pastori di tutta la Chiesa.
            Col fatto che abbiamo esposto il divino Salvatore promette di voler costituire S. Pietro capo supremo della sua Chiesa, e gli spiega la grandezza della sua autorità. Noi vedremo il compimento di questa promessa dopo la risurrezione di Gesù Cristo.

CAPO V. S. Pietro dissuade il divino Maestro dalla passione. — Va con lui sul monte Tabor. Anno di G. C. 32.
            Il divino Redentore, dopo aver fatto conoscere ai suoi discepoli come egli edificava la sua Chiesa su basi stabili, incrollabili ed eterne, volle dar loro un ammaestramento affinché ben comprendessero che egli non fondava questo suo regno, ovvero la sua Chiesa, con ricchezze o magnificenza mondana, bensì con l’umiltà, coi patimenti. Con questo proposito dunque manifestò a S. Pietro e a tutti i suoi discepoli la lunga serie dei patimenti e la morte obbrobriosa che gli Ebrei dovevano fargli soffrire in Gerusalemme. Pietro, per il grande amore che nutriva verso il suo divino Maestro, inorridì all’udire i mali cui era per essere esposta la sacra di lui persona, e trasportato dall’affetto che un tenero figlio ha per suo padre, lo trasse in disparte e prese a persuaderlo che si recasse lontano da Gerusalemme per evitare quei mali e concluse: “Lungi da voi, Signore, questi mali.” Gesù lo riprese del suo affetto troppo sensibile dicendogli: “Ritirati da me, o avversario, questo tuo parlare mi dà scandalo: tu non sai ancora gustare le cose di Dio, ma soltanto le cose umane.” “Ecco,” dice S. Agostino, “quel medesimo Pietro che poco innanzi lo aveva confessato per figlio di Dio, qui teme che egli muoia come figlio dell’uomo.”
            Nell’atto che il Redentore manifestò i maltrattamenti che doveva soffrire per mano dei Giudei, promise che alcuni degli Apostoli, prima che egli morisse, avrebbero gustato un saggio della sua gloria, e ciò per confermarli nella fede e affinché non si lasciassero avvilire quando lo vedessero esposto alle umiliazioni della passione. Pertanto, qualche giorno dopo, Gesù scelse tre Apostoli: Pietro, Giacomo e Giovanni, e li condusse sopra un monte detto comunemente Tabor. In presenza di questi tre discepoli Egli si trasfigurò, cioè lasciò trasparire un raggio della sua divinità intorno alla sacrosanta sua persona. Nello stesso momento una luce sfolgorante lo circondò e il suo volto divenne simile al chiarore del sole, e le sue vesti bianche come la neve. Pietro, allorché giunse sul monte, forse stanco del viaggio, si era posto a dormire con gli altri due; ma tutti in quel momento, destandosi, videro la gloria del loro Divino Maestro. Nel tempo stesso comparvero anche presenti Mosè ed Elia. Al vedere risplendente il Salvatore, alla comparsa di quei due personaggi e di quell’insolito splendore, Pietro sbalordito voleva parlare e non sapeva che dire; e quasi fuori di sé, riputando per nulla ogni umana grandezza in confronto di quel saggio di paradiso, si sentì ardere di desiderio di rimanere sempre là insieme con il suo Maestro. Quindi, rivolto a Gesù, disse: “O Signore, quanto è mai cosa buona lo star qui: se così vi piace, facciamo qui tre padiglioni, uno per voi, uno per Mosè e l’altro per Elia.” Pietro, come ci attesta il Vangelo, era fuori di sé e parlava senza sapere cosa dicesse. Era un trasporto d’amore per il suo Maestro e un vivo desiderio della felicità. Egli ancora parlava quando, scomparsi Mosè ed Elia, sopraggiunse una nuvola meravigliosa che avvolse i tre Apostoli. In quel momento, dal mezzo di quella nuvola, fu udita una voce che diceva: “Questi è il mio figlio diletto, in cui ho riposto le mie compiacenze, ascoltatelo.” Allora i tre Apostoli, vieppiù atterriti, caddero a terra come morti; ma il Redentore, avvicinandosi, li toccò con la mano e, facendo loro coraggio, li rialzò in piedi. Alzati gli occhi, non videro più né Mosè né Elia; c’era il solo Gesù nel suo stato naturale. Gesù comandò loro di non manifestare ad alcuno quella visione, se non dopo la sua morte e risurrezione[8]. Dopo tale fatto quei tre discepoli crebbero a dismisura in amore verso Gesù. S. Giovanni Damasceno rende ragione del perché Gesù abbia di preferenza scelto questi tre Apostoli, e dice che Pietro, essendo stato il primo a rendere testimonianza della divinità del Salvatore, meritava di essere anche il primo a poter in modo sensibile rimirare la sua umanità glorificata; Giacomo ebbe anche tale privilegio perché doveva essere il primo a seguire il suo Maestro col martirio; S. Giovanni aveva il merito verginale che lo fece degno di questo onore[9].
            La Chiesa cattolica celebra il venerabile avvenimento della trasfigurazione del Salvatore sul monte Tabor il giorno sei di agosto.

CAPO VI. Gesù alla presenza di Pietro risuscita la figlia di Giairo. — Paga per Pietro il tributo. — Ammaestra i suoi discepoli nell’umiltà. Anno di G. C. 32.
            Intanto si avvicinava il tempo in cui la fede di Pietro doveva essere messa alla prova. Perciò il divino Maestro, per infiammarlo sempre più d’amore per lui, sovente gli dava nuovi segni d’affetto e di bontà. Essendo Gesù venuto in una parte della Palestina detta terra dei Geraseni, gli si fece innanzi un principe della sinagoga di nome Giairo, pregandolo che volesse restituire la vita alla sua figlia unica di 12 anni, morta poc’anzi. Gesù volle esaudirlo; ma giunto alla casa di lui proibì a tutti di entrare, e solo condusse con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, affinché fossero testimoni di quel miracolo.
            Il giorno seguente Gesù, scostandosi alquanto dagli altri discepoli, entrava con Pietro nella città di Cafarnao per recarsi alla casa di lui. Alla porta della città i gabellieri, ossia coloro che dal governo erano posti all’esazione dei tributi e delle imposte, tirarono Pietro in disparte e gli dissero: “Il tuo Maestro paga egli il tributo?” “Certamente che sì,” rispose Pietro. Ciò detto entrò in casa, dove il Signore lo aveva preceduto. Come lo vide il Salvatore, cui ogni cosa era manifesta, lo chiamò a sé e gli disse: “Dimmi, o Pietro, chi sono quelli che pagano il tributo? Sono i figli del re, oppure gli estranei della famiglia reale?” Pietro rispose: “Sono gli estranei.” “Dunque,” riprese a dire Gesù, “i figli del re sono esenti da ogni tributo.” Il che voleva dire: “Dunque io che sono, come tu stesso hai dichiarato, il Figlio di Dio vivo, non sono obbligato a pagare nulla ai principi della terra; tuttavia questa buona gente non mi conosce come tu, e ne potrebbe prendere scandalo; perciò intendo pagare il tributo. Va al mare, getta la rete, e nella bocca del primo pesce che prenderai troverai la moneta per pagare il tributo per me e per te.” L’Apostolo eseguì quanto gli era stato comandato, e dopo qualche intervallo di tempo ritornò pieno di stupore con la moneta indicatagli dal Salvatore; e il tributo fu pagato.
            I Santi Padri ammirarono due cose in questo fatto: l’umiltà e mansuetudine di Gesù, che si sottomette alle leggi degli uomini, e l’onore che si degnò di fare all’Apostolo Pietro, eguagliandolo a sé medesimo e mostrandolo apertamente suo Vicario.
            Gli altri Apostoli, come seppero la preferenza fatta a Pietro, essendo ancora molto imperfetti nella virtù, ne ebbero invidia; perciò andavano tra loro disputando chi fra essi fosse il maggiore. Gesù, che poco per volta voleva correggerli dei loro difetti, giunti che furono alla sua presenza fece loro conoscere come le grandezze del cielo sono ben diverse da quelle della terra, e che colui il quale vuole essere primo in Cielo conviene che si faccia ultimo in terra. Disse loro poi: “Chi è il maggiore? Chi è il primo in una famiglia? Forse colui che sta seduto, o colui che serve a tavola? Certamente chi sta a tavola. Ora che vedete voi in me? Qual personaggio ho io figurato? Certo di un povero che serve a mensa.”
            Questo avviso doveva principalmente valere per Pietro, il quale nel mondo doveva ricevere grandi onori per la sua dignità, e tuttavia conservarsi nell’umiltà e nominarsi servo dei servi del Signore, come appunto sogliono appellarsi i Papi suoi successori.

CAPO VII. Pietro parla con Gesù del perdono delle ingiurie e del distacco dalle cose terrene. — Rifiuta di lasciarsi lavare i piedi. — Sua amicizia con S. Giovanni. Anno di G. C. 33.
            Un giorno il divino Salvatore si mise ad ammaestrare gli Apostoli riguardo al perdono delle offese, e avendo detto che si doveva sopportare qualunque oltraggio e perdonare qualsiasi ingiuria, Pietro rimase pieno di stupore; poiché egli era prevenuto, come tutti gli Ebrei, in favore delle tradizioni giudaiche, le quali permettevano alla persona offesa d’infliggere una pena all’offensore, chiamata la pena del taglione. Si rivolse pertanto a Gesù e disse: “Maestro, se il nemico ci facesse sette volte ingiuria e sette volte mi venisse a chiedere perdono, dovrei perdonarlo sette volte?” Gesù, il quale era venuto per mitigare i rigori della legge antica con la santità e purezza del Vangelo, rispose a Pietro che “non solamente doveva perdonare sette volte, ma settanta volte sette,” espressione che significa doversi perdonare sempre. I Santi Padri in questo fatto riconoscono primariamente l’obbligo che ciascun cristiano ha di perdonare al prossimo ogni affronto, in ogni tempo ed in ogni luogo. In secondo luogo riconoscono la facoltà data da Gesù a S. Pietro e a tutti i sacri ministri di perdonare i peccati degli uomini, qualunque ne sia la gravità e il numero, purché ne siano pentiti e promettano sincera emendazione.
            In un altro giorno Gesù ammaestrava il popolo, parlando della grande ricompensa che avrebbero ricevuto coloro che avessero disprezzato il mondo e fatto buon uso delle ricchezze, distaccando i loro cuori dai beni della terra. Pietro, che non aveva ancora ricevuto i lumi dello Spirito Santo e che più degli altri aveva bisogno di essere istruito, con la sua solita franchezza si rivolse a Gesù e gli disse: “Maestro, noi abbiamo abbandonato ogni cosa e vi abbiamo seguito: abbiamo fatto quello che avete comandato; quale dunque sarà il premio che ci darete?” Il Salvatore gradì la domanda di Pietro e, mentre lodò il distacco degli Apostoli da ogni sostanza terrena, assicurò che a loro era riservato un premio particolare, perché, lasciate le loro sostanze, lo avevano seguito. “Voi,” disse, “che avete seguito me, sederete su dodici troni maestosi e, compagni nella mia gloria, giudicherete con me le dodici tribù d’Israele e con esse tutto il genere umano.”
            Non molto dopo Gesù si recò nel tempio di Gerusalemme e si mise a ragionare con Pietro della struttura di quel grandioso edificio e della preziosità delle pietre che lo adornavano. Il divino Salvatore prese allora occasione di predirne l’intera rovina dicendo: “Di questo magnifico tempio non rimarrà più pietra su pietra.” Uscito quindi Gesù dalla città e passando vicino a una pianta di fico, che era stata da lui maledetta, Pietro, meravigliato, fece notare al divino Maestro come quella pianta era già divenuta arida e secca. Era una prova della veracità delle promesse del Salvatore. Onde Gesù, per incoraggiare gli Apostoli ad avere fede, rispose che in virtù della fede avrebbero ottenuto tutto quello che avrebbero chiesto.
            La virtù, per altro, che Cristo voleva profondamente radicata nel cuore degli Apostoli e specialmente di Pietro, era l’umiltà, e di questa in molte occasioni diede loro luminosi esempi, soprattutto la vigilia della sua passione. Era quello il primo giorno della Pasqua degli Ebrei, che doveva durare sette giorni e che suole chiamarsi degli azzimi. Gesù mandò Pietro e Giovanni a Gerusalemme dicendo: “Andate e preparate le cose necessarie per la Pasqua.” Quelli dissero: “Dove volete che le andiamo a preparare?” Gesù rispose: “Entrando in città incontrerete un uomo che porta una brocca d’acqua; andate con lui, ed egli vi mostrerà un grande cenacolo messo in ordine, e lì preparate quanto occorre a questo bisogno.” Così fecero. Giunta la sera di quella notte, che era l’ultima della vita mortale del Salvatore, volendo Egli istituire il Sacramento dell’Eucaristia, premise un fatto che dimostra la purezza d’anima con cui ogni cristiano deve accostarsi a questo sacramento del divino amore, e nel contempo giova a frenare la superbia degli uomini fino alla fine del mondo. Mentre era a mensa con i suoi discepoli, verso la fine della cena, il Signore si alza da tavola, prende un asciugatoio, se lo cinge ai fianchi e versa dell’acqua in un catino, mostrando di voler lavare i piedi agli Apostoli, che seduti e meravigliati stavano guardando cosa volesse fare il loro Maestro.
            Gesù venne dunque con l’acqua a Pietro ed essendosi inginocchiato davanti a lui, gli chiede il piede da lavare. Il buon Pietro, inorridito di vedere il Figlio di Dio in quell’atto di povero servitore, memore ancora che poco prima l’aveva visto sfolgorante di luce, pieno di vergogna e quasi piangendo, disse: “Che fate, Maestro, che fate? Voi lavare a me i piedi? Non sarà mai: io non potrò mai permettere.” Il Salvatore gli disse: “Ciò che io faccio non lo comprendi ora, ma lo capirai dopo: perciò guardati bene dal contraddirmi; se io non ti laverò i piedi, tu non avrai parte con me,” cioè tu sarai privo di ogni mio bene e diseredato. A queste parole il buon Pietro fu terribilmente turbato; da una parte gli doleva di dover essere separato dal suo Maestro, non voleva disobbedirgli né contristarlo; dall’altra parte gli pareva di non poter permettere a lui un servizio così umile. Tuttavia, quando comprese che il Salvatore voleva ubbidienza, disse: “O Signore, poiché volete così, non devo né voglio resistere alla vostra volontà; fate di me ogni cosa che meglio vi piace; se non basta lavarmi i piedi, lavatemi anche le mani e la testa.”
            Il Salvatore, dopo aver compiuto quell’atto di profonda umiltà, si rivolse ai suoi Apostoli e disse loro: “Avete visto ciò che ho fatto? Se io, che sono vostro Maestro e Signore, vi ho lavato i piedi, voi dovete fare altrettanto tra di voi.” Queste parole significano che un seguace di Gesù Cristo non deve mai rifiutarsi ad alcuna opera anche umile di carità, qualora con essa si promuova il bene del prossimo e la gloria di Dio.
            Durante questa cena avvenne un fatto che riguarda in maniera particolare S. Pietro e S. Giovanni. Si è già potuto osservare come il divino Redentore portasse speciale affetto a questi due Apostoli; all’uno per la sublime dignità a cui era destinato, all’altro per la singolare candidezza dei costumi. Essi poi riamavano il loro Salvatore con il più intenso amore, ed erano stretti tra loro dai vincoli di specialissima amicizia, della quale il medesimo Redentore mostrò di compiacersi, perché fondata sulla virtù.
            Mentre dunque Gesù era a mensa con i suoi Apostoli, a metà della cena predisse che uno di essi lo avrebbe tradito. A questo avviso tutti si spaventarono, ed ognuno temendo per sé, cominciarono a guardarsi l’un l’altro dicendo: “Sono io forse?” Pietro, siccome più fervido nell’amore verso il suo Maestro, desiderava conoscere chi fosse quel traditore; voleva interrogare Gesù, ma farlo in segreto, affinché nessuno degli astanti se ne accorgesse. Quindi, senza proferir parola, fece un cenno a Giovanni perché fosse lui a fare quella domanda. Questo diletto apostolo aveva preso posto vicino a Gesù, e la sua posizione era tale che appoggiava il capo sul petto di lui, mentre il capo di Pietro appoggiava su quello di Giovanni. Giovanni appagò il desiderio del suo amico con tanta segretezza che nessuno degli Apostoli poté intendere né il cenno di Pietro, né l’interrogazione di Giovanni, né la risposta di Cristo; giacché nessuno per allora venne a sapere che il traditore fosse Giuda Iscariota, fuorché i due apostoli privilegiati.

CAPO VIII. Gesù predice la negazione di Pietro e lo assicura che non verrà meno la sua fede. — Pietro lo segue nell’orto di Getsemani. — Taglia l’orecchio a Malco. — Sua caduta, suo ravvedimento. Anno di G. C. 33.
            Si avvicinava il tempo della passione del Salvatore, e la fede degli Apostoli doveva essere messa a dura prova. Dopo l’ultima cena, quando Gesù stava per uscire dal cenacolo, si rivolse ai suoi Apostoli e disse: “Questa notte è assai dolorosa per me e di gran pericolo per tutti voi: avverranno di me tali cose che voi rimarrete scandalizzati, e non vi parrà più vero quello che avete conosciuto e che ora credete di me. Perciò vi dico che in questa notte tutti mi volterete le spalle.” Pietro, seguendo il suo solito ardore, fu il primo a rispondere: “Come? Noi tutti voltarvi le spalle? Anche se tutti costoro fossero così deboli da abbandonarvi, io certamente non lo farò mai, anzi sono pronto a morire con voi.” “Ah Simone, Simone,” rispose Gesù Cristo, “ecco che Satana ha ordito contro di voi una terribile tentazione, e vi crivellerà come si fa del frumento nel vaglio; e tu stesso in questa notte, prima che il gallo abbia cantato due volte, mi rinnegherai tre volte.” Pietro parlava guidato da un sentimento caldo d’affetto e non considerava che senza l’aiuto divino l’uomo cade in deplorevoli eccessi; perciò egli rinnovò le medesime promesse dicendo: “No, certamente; può darsi che tutti vi neghino, ma io mai.” Gesù, che ben conosceva tale presunzione di Pietro venire da inconsiderato ardore e dalla grande tenerezza verso di lui, ne ebbe compassione e gli soggiunse: “Tu cadrai certamente, o Pietro, come ti dissi; tuttavia non perderti d’animo. Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; tu poi, quando ti sarai ravveduto dalla tua caduta, conferma i tuoi fratelli: Rogavi pro te, ut non deficiat fides tua, et tu aliquando conversus, confirma fratres tuos.” Con queste parole il divino Salvatore promise un’assistenza particolare al Capo della sua Chiesa, affinché la sua fede non venga mai meno, vale a dire che come Maestro universale e nelle cose riguardanti la religione e la morale, insegnò e insegnerà sempre la verità, sebbene nella vita privata egli possa cadere in colpa, come infatti avvenne a S. Pietro.
            Intanto Gesù Cristo, dopo quella memorabile Cena Eucaristica, a notte avanzata uscì dal cenacolo con gli undici Apostoli e si avviò al monte degli Ulivi. Arrivato là, prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e si ritirò in una parte di quel monte detta Getsemani, dove era solito recarsi per pregare. Gesù si allontanò ancora dai tre Apostoli quanto un tiro di pietra e si mise a pregare. Prima però, nell’atto di separarsi da loro, li avvisò dicendo: “Vigilate e pregate, perché la tentazione è vicina.” Ma Pietro e i suoi compagni, sia per l’ora tarda, sia per la stanchezza, si sedettero per riposare e si addormentarono.
            Questo fu un nuovo fallo di Pietro, il quale doveva seguire il precetto del Salvatore, vigilando e pregando. In quel frattempo giunsero le guardie nell’orto per catturare Gesù e condurlo in prigione. Pietro, vedendoli appena, corse loro incontro per allontanarli; e vedendo che facevano resistenza, mise mano alla spada che aveva con sé e, vibrando un colpo alla ventura, tagliò l’orecchio a un servo del pontefice Caifa, chiamato Malco.
            Non erano queste le prove di fedeltà che Gesù aspettava da Pietro, né mai gli aveva insegnato di opporre forza a forza. Fu questo un effetto del suo vivo amore al divino Salvatore ma fuor di proposito; onde Gesù disse a Pietro: “Riponi la spada nel fodero, perché chi di spada ferisce, di spada perisce.” Poi, mettendo in pratica quello che aveva tante volte insegnato nelle sue predicazioni, cioè di fare del bene a chi ci fa del male, prese l’orecchio tagliato e con somma bontà lo rimise con le sue sante mani al luogo del taglio, sicché rimase sull’istante guarito.
            Pietro e gli altri Apostoli, scorgendo inutile ogni resistenza e che anzi avrebbero corso pericolo per sé medesimi, messe da parte le promesse fatte poco prima al Maestro, si diedero alla fuga e abbandonarono Gesù, lasciandolo solo nelle mani dei suoi carnefici.
            Pietro, per altro, vergognandosi della sua viltà, confuso e irresoluto, non sapeva dove andare né dove stare; perciò da lontano seguì Gesù fino all’atrio del palazzo di Caifa, capo di tutti i sacerdoti ebrei; e per la raccomandazione di un conoscente, riuscì pure a entrarvi. Gesù era là dentro in potere degli Scribi e dei Farisei, che lo avevano accusato a quel tribunale e cercavano di farlo condannare con qualche apparenza di giustizia.
            Entrato appena in quel luogo, il nostro Apostolo trovò una turba di guardie che stavano riscaldandosi al fuoco ivi acceso, e si pose anch’egli con loro. Al chiarore delle fiamme, la serva che per grazia lo aveva lasciato entrare, vedendolo pensieroso e malinconico, entrò in sospetto che egli fosse un seguace di Gesù. “Ehi,” gli disse, “tu sembri un compagno del Nazareno, non è vero?” L’Apostolo, nel vedersi scoperto in faccia a tanta gente, rimase attonito; e temendo per sé la prigione, forse anche la morte, perduto ogni coraggio, rispose: “Donna, ti sbagli; io non sono di quelli; nemmeno conosco quel Gesù di cui parli.” Ciò detto, il gallo cantò per la prima volta; e Pietro non vi pose mente.
            Dopo essersi trattenuto qualche momento in compagnia di quelle guardie, si portò nel vestibolo. Mentre ritornava presso il fuoco, un’altra serva, indicando Pietro, si fece anch’ella a dire ai circostanti: “Anche costui era con Gesù Nazareno.” Il povero discepolo, a queste parole viepiù spaventato, quasi fuori di sé, rispose di non conoscerlo né di averlo mai visto. Pietro parlava così, ma la coscienza lo rimproverava e provava i più acuti rimorsi; perciò, tutto pensieroso, con occhio torbido e passo incerto, stava, entrava e usciva senza sapere che fare. Ma un abisso conduce a un altro abisso.
            Dopo alcuni istanti, un parente di quel Malco a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio lo vide e, fissandolo bene in faccia, disse: “Certamente costui è uno dei compagni del Galileo! Tu lo sei certamente, la tua pronuncia ti tradisce. E poi non ti ho forse visto nell’orto con lui, quando tagliasti l’orecchio a Malco?” Pietro, vedendosi a così mal partito, non seppe trovare altro scampo che giurare e spergiurare di non conoscerlo. Non aveva ancora bene proferito l’ultima sillaba, quando il gallo cantò per la seconda volta.
            Quando il gallo cantò la prima volta, Pietro non vi aveva fatto attenzione; ma questa seconda volta bada al numero delle sue negazioni, richiama alla memoria la predizione di Gesù Cristo e la vede appuntino avverata. A questo ricordo si turba, si sente tutto amareggiato il cuore e, girando lo sguardo verso il buon Gesù, il suo sguardo s’incontra con quello di lui. Questa occhiata di Cristo fu un atto muto, ma insieme un colpo di grazia, che, a guisa di strale acutissimo, lo andò a ferire nel cuore, non per dargli la morte, ma per restituirgli la vita[10].
            A quel tratto di bontà e di misericordia Pietro, scosso come da un profondo sonno, si sentì gonfiare il cuore e spinto alle lacrime per il dolore. Per dare libero sfogo al pianto, uscì da quel malaugurato luogo e andò a piangere il suo fallo, invocando dalla divina misericordia il perdono. Il Vangelo ci dice solamente che: et egressus Petrus flevit amare: Pietro uscì fuori e pianse amaramente. Di questa caduta il santo Apostolo portò rimorso tutta la vita, e si può dire che da quell’ora fino alla morte non fece che piangere il suo peccato, facendone aspra penitenza. Si dice che egli avesse sempre accanto un pannolino per asciugarsi le lacrime; e che ogni volta che sentiva il gallo cantare, trasaliva e tremava, richiamando alla memoria il doloroso momento della sua caduta. Anzi, le lacrime che aveva continue gli avevano fatto due solchi sulle guance. Beato Pietro che tanto presto abbandonò la colpa e ne fece così lunga ed aspra penitenza! Beato altresì quel cristiano che, dopo aver avuto la disgrazia di seguire Pietro nella colpa, lo segue anche nel pentimento.

CAPO IX. Pietro al sepolcro del Salvatore. — Gesù gli appare. — Sul lago di Tiberiade dà tre distinti segni di amore verso Gesù che lo costituisce effettivamente capo e pastore supremo della Chiesa.
            Mentre il divino Salvatore era trascinato nei vari Tribunali e poi condotto sul Calvario a morire in Croce, Pietro non lo perse di vista, perché desiderava vedere dove andasse a finire quel luttuoso spettacolo.
            E quantunque il Vangelo non lo dica, vi sono ragioni per credere che egli si sia trovato in compagnia dell’amico suo Giovanni ai piedi della croce. Ma dopo la morte del Salvatore, il buon Pietro, tutto umiliato per il modo indegno con cui aveva corrisposto al grande amore di Gesù, pensava continuamente a lui, oppresso dal più amaro dolore e pentimento.
            Se non che questa sua umiliazione era appunto quella che attirava su Pietro la benignità di Gesù. Dopo la sua risurrezione Gesù apparve primariamente alla Maddalena e ad altre pie donne, perché esse sole erano al sepolcro per imbalsamarlo. Dopo essersi loro manifestato, soggiunse: “Andate subito, riferite ai miei fratelli e particolarmente a Pietro che mi avete visto vivo.” Pietro, che si credeva già forse dimenticato dal Maestro, al sentirsi da parte di Gesù annunciare a lui nominatamente la notizia della risurrezione, diede in un torrente di lacrime e non poteva più contenere l’allegrezza nel cuore.
            Trasportato dalla gioia e dal desiderio di vedere il Maestro risorto, egli, in compagnia dell’amico Giovanni, si mise a correre velocemente su per il monte Calvario. Il loro animo, per altro, era allora agitato da due sentimenti contrari: dalla speranza di vedere Gesù risorto e dal timore che la relazione fatta loro dalle pie donne non fosse che effetto della loro fantasia, perché da prima non capivano come egli dovesse veramente risorgere. Correvano intanto entrambi insieme; ma Giovanni, essendo più giovane e più svelto, giunse al sepolcro prima di Pietro. Tuttavia non ebbe ardire di entrare e, chinatosi alquanto all’imboccatura, vide le bende in cui era stato avvolto il corpo di Gesù. Poco dopo sopraggiunse anche Pietro il quale, fosse per l’autorità maggiore che sapeva di godere, fosse perché era di un carattere più risoluto e pronto, senza fermarsi all’esterno, entrò subito nel sepolcro, lo esaminò in tutte le sue parti ricercando e tastando dappertutto, e non vide altro che le bende e il sudario avvolto in disparte. Sull’esempio di Pietro entrò poi anche Giovanni, e furono entrambi del parere che il corpo di Gesù fosse stato tolto dal sepolcro e derubato. Poiché, sebbene desiderassero ardentemente che il divino Maestro fosse risorto, pure non credevano ancora a questa dolcissima verità. I due Apostoli, dopo aver fatto nel sepolcro tali minute osservazioni, ne uscirono e ritornarono là da dove erano partiti. Ma in quel medesimo giorno Gesù volle egli stesso visitare Pietro in persona per consolarlo con la sua presenza e, ciò che è più, apparve appunto a Pietro prima di tutti gli altri Apostoli.
            Più volte il divino Salvatore si manifestò ai suoi Apostoli dopo la risurrezione per istruirli e confermarli nella fede.
            Un giorno Pietro, Giacomo e Giovanni con alcuni altri discepoli, sia per evitare l’ozio, sia per guadagnarsi qualcosa da mangiare, andarono a pescare sul lago di Tiberiade. Salirono tutti su una barca, la allontanarono un po’ dal lido e gettarono le loro reti. Si affaticarono tutta la notte gettando le reti ora di qua, ora di là, ma tutto invano; già spuntava il giorno e nulla avevano preso. Allora comparve il Signore sul lido, dove, senza farsi riconoscere, quasi volesse comprare dei pesci: “Figlioli,” disse loro, “avete qualcosa da mangiare?” “Pueri, numquid pulmentarium habetis?” “No,” risposero; “abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso niente.” Gesù soggiunse: “Gettate la rete alla destra della nave e ne prenderete.” Fossero mossi da impulso interiore, fosse per seguire il consiglio di Colui che ai loro sguardi sembrava un esperto pescatore, gettarono giù la rete e poco dopo se la trovarono piena di tanti e così grossi pesci che a stento poterono trarla fuori. A questa pesca inaspettata Giovanni si rivolse verso colui che dal lido aveva dato quel suggerimento e, avendo riconosciuto che era Gesù, disse subito a Pietro: “È il Signore.” Pietro, udite queste parole, trasportato dal solito fervore, senza altra considerazione si getta nell’acqua e va nuotando fino alla sponda per essere il primo a salutare il Divin Maestro. Mentre Pietro si tratteneva familiarmente con Gesù, si avvicinarono anche gli altri Apostoli trascinando dietro la rete.
            Approdati, trovarono il fuoco acceso per mano stessa del Divino Salvatore e pane preparato con pesce che si arrostiva. Gli Apostoli, mossi dal desiderio di vedere il Signore, lasciarono tutti i pesci nella barca, onde il Salvatore disse loro: “Portate qua quei pesci che avete preso adesso.” Pietro, che in ogni cosa era il più pronto e ubbidiente, udito quell’ordine, salì subito nella barca e da solo tirò a terra la rete piena di 153 grossi pesci.
            Il sacro testo ci avvisa che fu un miracolo il non essersi lacerata la rete, sebbene vi fossero tanti pesci e di tale grossezza. I santi Padri ravvisano in questo fatto la divina potestà del capo della Chiesa, il quale, assistito in modo particolare dallo Spirito Santo, guida la mistica nave piena di anime da condurre ai piedi di Gesù Cristo, che le ha redente e le attende in cielo.
            Intanto Gesù aveva egli stesso preparato la refezione; e invitando gli Apostoli a sedersi sulla nuda sabbia, distribuì a ognuno del pane e del pesce che aveva arrostito. Terminata la refezione, Gesù Cristo si mise di nuovo a discorrere con S. Pietro e a interrogarlo in faccia ai compagni nella maniera seguente: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di costoro?” “Sì,” rispose Pietro, “voi sapete che vi amo.” Gesù gli disse: “Pasci i miei agnelli.” Quindi gli domandò un’altra volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?” “Signore,” replicò Pietro, “voi ben sapete che vi amo.” Gesù ripeté: “Pasci i miei agnelli.” Il Signore soggiunse: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?” Pietro, nel vedersi interrogato tre volte sul medesimo argomento, rimase fortemente turbato; in quel momento gli ritornarono alla mente le promesse già fatte altra volta, e che egli aveva violato, e perciò temeva che Gesù Cristo non vedesse nel suo cuore un amore molto più scarso di quello che a lui pareva di avere, e volesse come predirgli altre negazioni. Pertanto, diffidando delle proprie forze, Pietro con grande umiltà rispose: “Signore, voi sapete tutto, e perciò conoscete che vi amo.” Queste parole significavano che Pietro era sicuro in quel punto della sincerità dei suoi affetti, ma non lo era altrettanto per l’avvenire. Gesù, che conosceva il suo desiderio di amarlo e la schiettezza dei suoi affetti, lo confortò dicendo: “Pasci le mie pecore.” Con queste parole il Figlio di Dio adempiva la promessa fatta a S. Pietro di costituirlo principe degli Apostoli e pietra fondamentale della Chiesa. Infatti, gli agnelli qui significano tutti i fedeli cristiani, sparsi nelle varie parti del mondo, che devono essere sottomessi al Capo della Chiesa, così come fanno gli agnelli al loro pastore. Le pecore poi significano i vescovi e gli altri sacri ministri, i quali danno sì il pascolo della dottrina di Gesù Cristo ai fedeli cristiani, ma sempre d’accordo, sempre uniti e sottomessi al supremo pastore della Chiesa, che è il Romano Pontefice, il Vicario di Gesù Cristo sulla terra.
            Appoggiati a queste parole di Gesù Cristo, i cattolici di tutti i tempi hanno sempre creduto verità di fede che San Pietro fu costituito da Gesù Cristo suo Vicario in terra e capo visibile di tutta la Chiesa, e che ricevette da lui la pienezza di autorità sugli altri apostoli e su tutti i fedeli. Questa autorità passò nei Romani Pontefici suoi successori. Ciò fu definito come dogma di fede nel concilio fiorentino nell’anno 1439, con le seguenti parole: “Noi definiamo che la santa sede Apostolica e il Romano Pontefice è il successore del principe degli Apostoli, il vero Vicario di Cristo e il capo di tutta la Chiesa, il maestro e padre di tutti i cristiani, e che a lui nella persona del beato Pietro fu dato dal nostro Signor Gesù Cristo pieno potere di pascere, reggere e governare la Chiesa Universale.”
            Notano inoltre i santi Padri che il divino Redentore ha voluto che Pietro dicesse tre volte pubblicamente che l’amava, quasi per riparare lo scandalo che aveva dato negandolo tre volte.

CAPO X. Infallibilità di S. Pietro e dei suoi successori
            Il divino Salvatore diede all’Apostolo Pietro il supremo potere nella Chiesa, vale a dire il primato di onore e di giurisdizione, che noi vedremo ben presto da lui esercitato. Ma affinché, quale capo della Chiesa, egli potesse esercitare convenientemente questa suprema autorità, Gesù Cristo lo munì ancora di una prerogativa singolare, cioè dell’infallibilità. Essendo questa una delle più importanti verità, credo bene di aggiungere qualcosa in conferma e dichiarazione della dottrina che in tutti i tempi la Chiesa cattolica ha professato intorno a questo dogma.
            Prima di tutto, è necessario capire cosa si intenda per infallibilità. Per essa si intende che il Papa, quando parla ex cathedra, ossia adempiendo all’ufficio di Pastore o di Maestro di tutti i cristiani, e giudica le cose riguardanti la fede o i costumi, non può, per la divina assistenza, cadere in errore, quindi né ingannarsi né ingannare gli altri. Si noti pertanto che l’infallibilità non si estende a tutte le azioni, a tutte le parole del Papa; non gli compete come uomo privato, ma soltanto come Capo, Pastore, Maestro della Chiesa, e quando definisce qualche dottrina riguardante la fede o la morale e intende obbligare tutti i fedeli. Inoltre, non si deve confondere l’infallibilità con l’impeccabilità; infatti Gesù Cristo a Pietro e ai suoi successori ha promesso la prima nell’istruire gli uomini, ma non la seconda, nella quale non li volle privilegiare.
            Ciò premesso, diciamo che una delle verità meglio provate è proprio quella dell’infallibilità dottrinale, da Dio concessa al Capo della Chiesa. Le parole di Gesù Cristo non possono venir meno, perché sono parole di Dio. Ora, Gesù Cristo disse a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non la potranno vincere. Io ti darò le chiavi del regno dei Cieli, e tutto ciò che avrai legato sulla terra sarà legato anche nei cieli, e tutto ciò che avrai sciolto sulla terra sarà sciolto anche nei cieli.”
            Secondo queste parole, le porte[11], ossia le potenze infernali, tra cui tiene il primo posto l’errore e la menzogna, non potranno mai prevalere né contro la Pietra, né contro la Chiesa che vi è sopra fondata. Ma se Pietro, come Capo della Chiesa, errasse in cose di fede e di costume, sarebbe come se mancasse il fondamento. Mancato questo, cadrebbe l’edificio, ossia la Chiesa stessa, e così il fondamento e la fabbrica dovrebbero dirsi vinti e abbattuti dalle porte infernali. Ora ciò, dopo le suddette parole, non è possibile, eccetto che si voglia bestemmiare affermando che fallaci furono le promesse del divino Fondatore: cosa orribile non solo per i cattolici, ma per gli stessi scismatici ed eretici.
            Inoltre, Gesù Cristo assicurò che sarebbe stato sancito in cielo tutto quello che Pietro, quale Capo della Chiesa, avrebbe legato o sciolto, approvato o condannato in terra. Orbene, siccome in cielo non può essere approvato l’errore, così si deve necessariamente ammettere che il Capo della Chiesa sia infallibile nei suoi giudizi, nelle sue decisioni emanate in qualità di Vicario di Gesù Cristo, così che egli, quale maestro e giudice di tutti i fedeli, non approvi e non condanni se non ciò che può essere egualmente approvato o condannato in cielo; e questo porta all’infallibilità.
            La quale appare ancora più manifesta nelle parole che Gesù Cristo rivolse a Pietro quando gli comandò di confermare nella fede gli altri Apostoli: “Simone, Simone,” gli disse, “ecco che Satana ha chiesto di vagliarvi come si fa con il grano; ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; e tu, quando sarai tornato, conferma i tuoi fratelli.” Gesù Cristo dunque prega che la fede del Papa non venga meno; ora è impossibile che la preghiera del Figlio di Dio non sia esaudita. Ancora: Gesù comandò a Pietro di confermare nella fede gli altri pastori e a questi di ascoltarlo; ma se non gli avesse comunicato anche l’infallibilità dottrinale, lo avrebbe messo nel pericolo di ingannarli e trascinarli nel baratro dell’errore. Può credersi che Gesù Cristo abbia voluto lasciare la Chiesa e il suo Capo in tanto pericolo?
            Infine, il divino Redentore dopo la sua Risurrezione stabilì Pietro Pastore supremo del suo gregge, cioè della sua Chiesa, affidandogli in cura gli agnelli e le pecore: “Pasci i miei agnelli,” gli disse, “pasci le mie pecore.” Istruisci, ammaestra gli uni e le altre guidandoli a pascoli di vita eterna. Ma se Pietro in materia di dottrina errasse, o per ignoranza o per malizia, allora egli sarebbe come un pastore che conduce gli agnelli e le pecore a pascoli avvelenati, che invece della vita darebbe loro la morte. Ora, può supporsi che Gesù Cristo, il quale per salvare le sue pecorelle diede tutto sé stesso, abbia voluto stabilire loro un pastore simile?
            Dunque, secondo il Vangelo, l’Apostolo Pietro ebbe il dono dell’infallibilità:
            I. Perché è Pietra fondamentale della Chiesa di Gesù Cristo;
            II. Perché i suoi giudizi devono essere confermati anche nel cielo;
            III. Perché Gesù Cristo pregò per la sua infallibilità, e la sua preghiera non può fallire;
            IV. Perché deve confermare nella fede, pascere e governare non solo i semplici fedeli, ma gli stessi pastori.
            È utile ora aggiungere che insieme con l’autorità suprema sopra tutta la Chiesa, il dono dell’infallibilità passò da Pietro nei suoi successori, cioè nei Romani Pontefici.
            Anche questa è una verità di fede.
            Gesù Cristo, come abbiamo visto, diede più ampio potere e munì del dono dell’infallibilità San Pietro, al fine di provvedere all’unità e all’integrità della fede nei suoi seguaci. “Fra dodici uno viene eletto,” riflette il massimo dottore San Girolamo, “affinché, stabilito un Capo, sia tolta ogni occasione di scisma: Inter duodecim unus eligitur, ut, capite constituto, schismatis tolleretur occasio.”[12] “Il primato si conferisce a Pietro,” scrisse San Cipriano, “affinché una si dimostri la Chiesa, ed una la cattedra di verità.[13]
            Ciò posto, diciamo: il bisogno di unità e di verità non esisteva solamente al tempo degli Apostoli, ma anche nei secoli successivi; anzi, si accrebbe vieppiù questo bisogno con l’estendersi della Chiesa stessa e con il venir meno degli Apostoli, privilegiati da Gesù Cristo di doni straordinari per la promulgazione del Vangelo. Secondo dunque l’intenzione del divino Salvatore, l’autorità e l’infallibilità del primo Papa non doveva cessare alla sua morte, ma trasmettersi a un altro, così perpetuarsi nella Chiesa.
            Questa trasmissione appare chiarissima soprattutto dalle parole di Gesù Cristo a Pietro, con le quali lo stabiliva base, fondamento della Chiesa. È manifesto che il fondamento deve durare tanto quanto l’edificio; essendo impossibile questo senza quello. Ma l’edificio, che è la Chiesa, deve durare sino alla fine del mondo, avendo promesso lo stesso Gesù di essere con la sua Chiesa sino alla consumazione dei secoli: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.” Dunque sino alla consumazione dei secoli deve durare il fondamento che è Pietro; ma poiché Pietro è morto, l’autorità e l’infallibilità devono ancora sussistere in qualcun altro. Esse di fatto sussistono nei suoi successori nella Sede di Roma, cioè sussistono nei Romani Pontefici. Perciò si può dire che Pietro vive tuttora e giudica nei suoi successori. Così infatti si esprimevano i legati della Sede Apostolica, con l’applauso del generale Concilio di Efeso nell’anno 431: “Chi fino a questo tempo, e sempre nei suoi successori, vive ed esercita il giudizio.”
            Per questa ragione fin dai primi secoli della Chiesa, sorgendo questioni religiose, si faceva ricorso alla Chiesa di Roma, e le sue decisioni e i suoi giudizi si tenevano per regola di fede. Basti per ogni prova le parole di Sant’Ireneo, Vescovo di Lione, morto martire nell’anno 202. “A confondere,” egli scrisse, “tutti coloro che in qualsiasi modo per vana gloria, per cecità o per malizia si radunano in conciliaboli, ci basterà loro indicare la tradizione e la fede che la maggiore e la più antica di tutte le chiese, la Chiesa nota a tutto il mondo, la Chiesa Romana, fondata e costituita dai gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo, ha annunciato agli uomini e trasmesso fino a noi per mezzo della successione dei suoi vescovi. Infatti, a questa Chiesa, a causa del suo preminente principato, deve ricorrere ogni Chiesa, ossia tutti i fedeli di qualunque parte essi siano.[14]
            Riguardo all’infallibilità del Papa, alcuni eretici, tra cui i protestanti e i cosiddetti vecchi cattolici, la negano dicendo che solo Dio è infallibile.
            Noi non neghiamo che Dio solo è infallibile per natura; ma diciamo che egli può concedere il dono dell’infallibilità anche a un uomo, assistendolo in modo che non prenda abbaglio. Dio solo può fare veri miracoli; eppure sappiamo dalla stessa Sacra Scrittura che molti uomini ne fecero, e di strepitosi. Essi li operarono non per virtù propria, ma per virtù divina loro comunicata. Così il Papa non è infallibile per natura sua, ma per virtù di Gesù Cristo che ha voluto così per il bene della Chiesa.
            Del resto, poi, i protestanti e i loro seguaci, che credono ancora al Vangelo, non devono fare tanto rumore perché noi cattolici teniamo per infallibile un uomo, quando ci fa da supremo ed universale maestro; infatti essi ancora con noi, senza credere di far torto a Dio, ne ritengono per infallibili almeno quattro, che sono gli Evangelisti Matteo, Marco, Luca e Giovanni; anzi, ritengono per infallibili tutti gli scrittori sacri tanto del Nuovo quanto del Vecchio Testamento. Ora, se si può, anzi si deve, credere all’infallibilità di quegli uomini che ci tramandarono per iscritto la parola di Dio, che cosa può impedirci dal credere all’infallibilità di un altro uomo destinato a conservarcela intatta e spiegarcela a nome di Dio medesimo?
            La ragione stessa ci suggerisce che è cosa convenientissima che Gesù Cristo concedesse il dono dell’infallibilità al suo Vicario, al Maestro di tutti i fedeli. E che? Se un padre saggio e amorevole ha figli da far istruire, non è vero che sceglie il maestro più dotto e più sapiente che possa trovare? Non è vero ancora che, se questo padre potesse dare a quel maestro il dono di non ingannare mai il figlio né per ignoranza né per malizia, glielo comunicherebbe di cuore? Orbene, tutti gli uomini, specialmente i cristiani, sono figli di Dio; il Papa ne è il gran Maestro da lui stabilito. Ora, Dio poteva conferirgli il dono di non cadere mai in errore quando li istruisce. Chi dunque può ragionevolmente ammettere che questo ottimo Padre non abbia fatto ciò che faremmo noi miseri?
            In tutti i secoli e da tutti i veri cattolici fu costantemente creduta l’infallibilità del successore di Pietro. Ma in questi ultimi tempi sorsero alcuni eretici a impugnarla; anzi, dalla mancanza di una espressa definizione presero occasione di porla in dubbio anche alcuni cattolici male avvisati. Pertanto, il 18 luglio 1870, il Concilio Vaticano, composto da oltre 700 Vescovi presieduti dall’immortale Pio IX, per premunire i fedeli da ogni errore, definì solennemente l’infallibilità pontificia come dogma di fede con queste parole: “Noi definiamo che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, ossia adempiendo all’ufficio di Pastore e Maestro di tutti i cristiani, e per la sua suprema autorità apostolica definisce qualche dottrina della fede e dei costumi da tenersi da tutta la Chiesa, a causa della divina assistenza a lui promessa nella persona del Beato Pietro, gode della stessa infallibilità della quale il divin Redentore volle fornire la sua Chiesa nel definire le dottrine della fede e dei costumi. Perciò, queste definizioni del Romano Pontefice sono per sé stesse, e non per il consenso della Chiesa, irriformabili. Se qualcuno oserà contraddire a questa nostra definizione, sia scomunicato.”
            Dopo questa definizione, chi negasse l’infallibilità pontificia commetterebbe grave disobbedienza alla Chiesa, e se fosse ostinato nel suo errore egli non apparterrebbe più alla Chiesa di Gesù Cristo, e noi dovremmo evitarlo come eretico. “Chi non ascolta la Chiesa,” dice il Vangelo, “sia per te come un pagano e un pubblicano,” cioè scomunicato.

CAPO XI. Gesù predice a S. Pietro la morte di croce. — Promette assistenza alla Chiesa sino alla fine del mondo. — Ritorno degli Apostoli nel cenacolo. Anno di G. C. 33.
            Dopo che S. Pietro comprese che le ripetute domande del Salvatore non erano presagio di caduta, ma erano la conferma dell’alta autorità che gli aveva promessa, ne fu consolato. E siccome Gesù sapeva che a Pietro stava molto a cuore di glorificare il suo divino Maestro, volle predirgli il genere di supplizio con cui avrebbe terminato la sua vita.
            Perciò, immediatamente dopo le tre proteste di amore che gli aveva fatto, prese a parlargli così: “In verità, in verità, ti dico, quando eri più giovane ti vestivi da te e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, un altro, cioè il carnefice, ti cingerà, vale a dire ti legherà, e tu stenderai le mani ed egli ti condurrà dove non vuoi.” Con queste parole, dice il Vangelo, veniva a significare con quale morte avrebbe Pietro glorificato Dio, cioè con l’essere legato a una croce e coronato del martirio. Pietro, vedendo che Gesù gli dava un’autorità suprema e a lui solo prediceva il martirio, si dimostrò sollecito di domandare che ne sarebbe stato del suo amico Giovanni e disse: “E di costui che ne sarà?” A cui Gesù rispose: “Che importa a te di costui? Se io volessi che rimanesse fino al mio ritorno, a te che importa? Tu fa’ ciò che ti dico e seguimi.” Allora Pietro adorò i decreti del Salvatore e non osò fare ulteriori domande a quel proposito.
            Gesù Cristo apparve molte volte a San Pietro e agli altri Apostoli; e un giorno si manifestò sopra un monte dove erano presenti più di 500 discepoli. In un’altra occasione, dopo aver dato loro a conoscere il supremo ed assoluto potere che egli aveva in cielo e in terra, conferì a S. Pietro e a tutti gli Apostoli la facoltà di rimettere i peccati dicendo: “Come il Padre mio ha mandato me, così io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo: saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saranno ritenuti a chi li riterrete. Quorum remiseritis peccata, remittuntur eis; quorum retinueritis, retenta sunt. Andate, predicate il Vangelo a tutte le creature; ammaestratele e battezzatele nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Chi crederà e riceverà il battesimo sarà salvo, chi non crederà sarà condannato. Ho ancora molte cose da dirvi, che al presente non potete ancora comprendere. Ma lo Spirito Santo, che manderò su di voi tra pochi giorni, vi insegnerà ogni cosa. Non perdetevi d’animo. Voi sarete condotti dinanzi ai tribunali, dinanzi ai magistrati e ai medesimi re. Non datevi pena di ciò che dovrete rispondere; lo Spirito di verità, che il Padre celeste vi manderà in mio nome, vi metterà le parole in bocca e vi suggerirà ogni cosa. Tu poi, o Pietro, e voi tutti miei Apostoli, non pensate che io vi lasci orfani; no, io sarò con voi tutti i giorni sino alla fine dei secoli: Et ecce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consummationem saeculi.”
            Disse ancora molte cose ai suoi Apostoli; poi, nel quarantesimo giorno dalla sua risurrezione, raccomandando loro di non partire da Gerusalemme fin dopo la venuta dello Spirito Santo, li condusse sul monte degli Ulivi. Là li benedisse e cominciò a sollevarsi in alto. In quel momento comparve una risplendente nuvola che lo circondò e lo tolse ai loro sguardi.
            Stavano ancora gli Apostoli con gli occhi rivolti al cielo, come chi è rapito in dolce estasi, quando due Angeli in sembianze umane, magnificamente vestiti, si avvicinarono e dissero: “Uomini di Galilea, perché state qui guardando il cielo? Quel Gesù, che partendo ora da voi è andato in cielo, ritornerà nella stessa maniera in cui l’avete visto salire.” Ciò detto, disparvero; e quella devota schiera partì dal monte degli Ulivi e rientrò in Gerusalemme per aspettare la venuta dello Spirito Santo, secondo il comando del divino Salvatore.

CAPO XII. S. Pietro surroga Giuda. — Venuta dello Spirito Santo. — Miracolo delle lingue. Anno di G. C. 33.
            Abbiamo finora considerato Pietro solamente nella sua vita privata; ma presto lo vedremo percorrere una carriera assai più gloriosa, dopo che avrà ricevuto i doni dello Spirito Santo. Ora osserviamo come egli cominciò a esercitare l’autorità di Sommo Pontefice, di cui era stato investito da Gesù Cristo.
            Dopo l’ascensione del divino Maestro, S. Pietro, gli Apostoli e molti altri discepoli si ritirarono nel cenacolo, che era un’abitazione situata sulla parte più elevata di Gerusalemme, detta monte Sion. Qui, in numero di circa 120 persone, con Maria Madre di Gesù, passavano le giornate in orazione, attendendo la venuta dello Spirito Santo.
            Un giorno, mentre erano impegnati nelle sacre funzioni, Pietro si levò in mezzo a loro e, intimando silenzio con la mano, disse: “Fratelli, è necessario che si adempia ciò che lo Spirito Santo predisse per bocca del profeta Davide intorno a Giuda, il quale fu guida di quelli che arrestarono il Divin Maestro. Egli, al pari di voi, era stato eletto allo stesso ministero; ma prevaricò, e con il prezzo delle sue iniquità fu comprato un campo; ed egli si impiccò, e squarciandosi per mezzo versò le viscere sulla terra. Il fatto si rese pubblico a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e quel campo ricevette il nome di Aceldama, cioè campo di sangue. Ora, di lui appunto fu scritto nel libro dei Salmi: ‘Divenga la sua dimora deserta, e non vi sia chi abiti in essa; e in luogo di lui un altro gli subentri nel vescovado.[15]’ Perciò è necessario che tra coloro i quali furono insieme con noi per tutto il tempo che dimorò con noi Gesù Cristo, cominciando dal battesimo di Giovanni fino a quel giorno in cui, partendo da noi, è salito al cielo, è necessario, dico, che tra costoro se ne scelga uno, il quale sia con noi testimone della sua risurrezione per l’opera a cui siamo mandati.”
            Tutti tacquero alle parole di Pietro, poiché tutti lo consideravano come capo della Chiesa ed eletto da Gesù Cristo a fare le sue veci in terra. Pertanto furono presentati due, cioè Giuseppe, chiamato anche Barsabba (che aveva per soprannome il Giusto), e Mattia. Ravvisando in entrambi egual merito ed eguale virtù, i sacri elettori rimisero a Dio la scelta. Prostrati dunque si misero a pregare così: “Voi, Signore, che conoscete il cuore di tutti, mostrateci quale dei due avete eletto per occupare il posto di Giuda prevaricatore.” In quel caso fu giudicato bene di usare con l’orazione anche la sorte per conoscere la volontà di Dio. Al presente la Chiesa non adopera più questo mezzo, avendo moltissime altre vie per riconoscere coloro che sono chiamati al ministero dell’altare. Gettarono dunque la sorte e questa cadde su Mattia, il quale fu annoverato con gli altri undici Apostoli, e riempì così il dodicesimo posto che era rimasto vacante.
            Questo è il primo atto di autorità Pontificia che esercitò S. Pietro; autorità non solo di onore, ma di giurisdizione, quale esercitarono in ogni tempo i Papi suoi successori.
            Abbiamo considerato in Pietro una fede viva, umiltà profonda, ubbidienza pronta, carità fervente e generosa; ma queste belle qualità erano ancora ben lontane dal metterlo in grado di esercitare l’alto ministero a cui era destinato. Egli doveva vincere l’ostinazione degli Ebrei, distruggere l’idolatria, convertire uomini dati a tutti i vizi, e stabilire in tutta la terra la fede di un Dio Crocifisso. Il conferimento di questa forza, di cui Pietro abbisognava per una così grande impresa, era riservato a una grazia speciale da infondersi mediante i doni dello Spirito Santo, che doveva scendere su di lui, per illuminargli la mente e infiammargli il cuore con un inaudito prodigio.
            Questo miracoloso avvenimento è dai Sacri libri riferito come segue: era il giorno di Pentecoste, cioè il cinquantesimo dopo la risurrezione di Gesù Cristo, il decimo da che Pietro era nel cenacolo in orazione con gli altri discepoli, quando improvvisamente all’ora terza, circa le nove del mattino, si udì sul monte Sion un grande strepito simile al rumoreggiare del tuono accompagnato da un vento gagliardo. Quel vento investì la casa dove erano i discepoli, che ne fu per ogni parte ripiena. Mentre ognuno andava ripensando la causa di quel fragore, apparvero fiammelle che, a guisa di lingue di fuoco, andavano a posarsi sul capo di ciascuno dei presenti. Erano quelle fiamme simbolo del coraggio e dell’infiammata carità con cui gli Apostoli avrebbero dato mano alla predicazione del Vangelo.
            In questo momento Pietro divenne un uomo nuovo; si trovò illuminato a tal punto da conoscere i più alti misteri, e provò in sé stesso un coraggio e una forza tali che le più grandi imprese gli sembravano un nulla.
            In quel giorno si celebrava a Gerusalemme una grande festa dagli Ebrei, e moltissimi vi erano accorsi dalle più svariate parti del mondo. Alcuni di loro parlavano latino, altri greco, altri egiziano, arabo, siriaco, altri ancora persiano e così via.
            Ora, al rumore del gagliardo vento, corse intorno al cenacolo una grande moltitudine di quella gente di tante lingue e nazioni, per sapere che cosa fosse accaduto. A quella vista escono gli Apostoli e si fanno loro incontro per parlare.
            E qui cominciò a operarsi un miracolo mai udito; infatti, gli Apostoli, umanamente rozzi, in modo che sapevano appena la lingua del paese, si misero a parlare delle grandezze di Dio nelle lingue di tutti coloro che erano accorsi. Un tale fatto riempì di alto stupore gli uditori, i quali, non sapendosene dare ragione, andavano dicendosi l’un l’altro: “Che sarà mai questo?”

CAPO XIII. Prima predica di Pietro. Anno di G. C. 33.
            Mentre la maggior parte ammirava l’intervento della potenza divina, non mancarono alcuni maligni che, soliti disprezzare ogni cosa santa, non sapendo più che dire, andavano chiamando gli Apostoli ubriachi. Sciocchezza veramente ridicola; poiché l’ubriachezza non fa parlare la lingua ignota, ma fa dimenticare o bistrattare la propria lingua. Fu allora che San Pietro, pieno di santo ardore, cominciò a predicare per la prima volta Gesù Cristo.
            A nome di tutti gli altri Apostoli si avanza di fronte alla moltitudine, alza la mano, intima silenzio e comincia a parlare così: “Uomini Giudei e voi tutti che abitate Gerusalemme, aprite le orecchie alle mie parole e sarete illuminati su questo fatto. Questi uomini non sono affatto ubriachi come voi pensate, perché siamo soltanto alla terza ora del mattino, in cui siamo soliti essere digiuni. Ben altra è la causa di quanto vedete. Oggi si è in noi verificata la profezia del profeta Gioele, il quale disse così: ‘Avverrà negli ultimi giorni, dice il Signore, che io spanderò il mio Spirito sugli uomini; e i vostri figli e le vostre figlie profeteranno; i vostri giovani avranno delle visioni e i vostri vecchi dei sogni. Anzi, in quei giorni spanderò il mio spirito sui miei servi e sulle mie serve, e diventeranno profeti, e farò prodigi in cielo e in terra. Ed avverrà che chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvo.’
            “Ora,” continuò Pietro, “ascoltate, o figli di Giacobbe: quel Signore, nel cui nome chi crederà sarà salvo, è quel medesimo Gesù Nazareno, quell’uomo grande a cui Dio rendeva testimonianza con una moltitudine di miracoli che operò, come voi stessi avete visto. Voi faceste morire quell’uomo per mano degli empi e così, senza saperlo, serviste ai decreti di Dio, che voleva salvare il mondo con la sua morte. Dio, peraltro, lo ha risuscitato dalla morte, come aveva predetto il profeta Davide con queste parole: ‘Tu non mi lascerai nel sepolcro, né permetterai che il tuo santo provi la corruzione.’
            “Notate,” soggiunse Pietro, “notate, o Giudei, che Davide non intendeva parlare di sé, perché voi ben sapete che egli è morto e il suo sepolcro è rimasto fra noi fino al giorno d’oggi; ma essendo egli profeta e sapendo che Dio gli aveva promesso con giuramento che dalla sua discendenza sarebbe nato il Messia, profetizzò anche la sua risurrezione, dicendo che egli non sarebbe lasciato nel sepolcro e che il suo corpo non avrebbe provato la corruzione. Questi dunque è Gesù Nazareno, che Dio ha risuscitato dalla morte, di cui noi siamo testimoni. Sì, noi l’abbiamo visto tornato in vita, l’abbiamo toccato e abbiamo mangiato con lui.
            “Egli dunque, essendo stato innalzato dalla virtù del Padre nel cielo ed avendo ricevuto da lui l’autorità di mandare lo Spirito Santo, secondo la sua promessa poco fa ha mandato su di noi questo divino Spirito, della cui virtù vedete in noi una prova così manifesta. Che poi Gesù sia salito al cielo, lo dice lo stesso Davide con queste parole: ‘Il Signore disse al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io abbia messo i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi.’ Ora voi ben sapete che Davide non salì al cielo per regnare. È Gesù Cristo che salì al cielo: a lui dunque, e non a Davide, furono appropriate quelle parole. Sappia dunque tutto il popolo d’Israele che quel Gesù che avete crocifisso fu da Dio costituito Signore di tutte le cose, re e Salvatore del suo popolo, e nessuno può salvarsi senza avere fede in lui.”
            Tale predicazione di Pietro avrebbe dovuto inasprire gli animi dei suoi uditori, a cui rimproverava l’enorme delitto commesso contro la persona del divino Salvatore. Ma era Dio che parlava per bocca del suo ministro, e perciò la predicazione di lui produsse effetti meravigliosi. Quindi, agitati come da un fuoco interno, effetto della grazia di Dio, da tutte le parti andavano esclamando con cuore veramente contrito: “Che cosa dobbiamo fare?” S. Pietro, osservando che la grazia del Signore operava nei loro cuori e che già essi credevano in Gesù Cristo, disse loro: “Fate penitenza e ognuno, in nome di Gesù Cristo, riceva il battesimo; così otterrete la remissione dei peccati e riceverete lo Spirito Santo.”
            L’Apostolo continuò a istruire quella moltitudine, animando tutti a confidare nella misericordia e bontà di Dio, che desidera la salvezza degli uomini. Il frutto di questa prima predica corrispose all’ardente carità del predicatore. Circa 3.000 persone si convertirono alla fede di Gesù Cristo e furono dagli Apostoli battezzate. Così cominciavano a compiersi le parole del Salvatore quando disse a Pietro che per l’avvenire non sarebbe più pescatore di pesci, ma pescatore di uomini. Sant’Agostino assicura che Santo Stefano protomartire fu convertito in questa predica.

CAPO XIV. S. Pietro guarisce uno storpio. — Sua seconda predica. Anno di G. C. 33.
            Poco dopo questa predica, all’ora nona, cioè alle tre del pomeriggio, Pietro e il suo amico Giovanni, come per ringraziare Dio dei benefici ricevuti, andavano insieme al tempio per fare orazione. Giunti a una porta del tempio detta “Speciosa” ovvero “Bella”, trovarono un uomo storpio di entrambi i piedi fin dalla nascita. Non potendosi reggere, egli era lì trasportato per vivere chiedendo elemosina a coloro che venivano nel luogo santo. Quello sfortunato, quando vide i due Apostoli vicini a lui, chiese loro la carità, come faceva con tutti. Pietro, così ispirato da Dio, guardandolo fisso, gli disse: “Guarda verso di noi.” Egli guardava, e nella speranza di avere qualcosa non batteva palpebra. Allora Pietro: “Ascolta, o buon uomo, io non ho né oro né argento da darti; quello che ho te lo do. Nel nome di Gesù Nazareno alzati e cammina.” Quindi lo prese per mano al fine di sollevarlo, come in simili casi aveva visto fare dal divino Maestro. In quel momento lo storpio si sentì rafforzare le gambe, irrobustire i nervi e acquistare forze al pari di qualunque altro uomo più sano. Sentendosi guarito, fece un salto, si mise a camminare e, saltellando di gioia e lodando Dio, entrò con i due Apostoli nel tempio. Tutta la gente, che era stata testimone del fatto e vedeva lo storpio camminare da sé, non poté non riconoscere in quella guarigione un vero miracolo. Il linguaggio dei fatti è più efficace di quello delle parole. Perciò la moltitudine, avendo saputo che era stato S. Pietro a restituire la sanità a quel miserabile, in gran folla si strinse intorno a lui e a Giovanni, desiderando tutti di ammirare con i propri occhi chi sapeva fare opere così stupende.
            È questo il primo miracolo che, dopo l’Ascensione di Gesù Cristo, venne operato dagli Apostoli, ed era conveniente che lo facesse Pietro, poiché egli teneva fra tutti la prima dignità nella Chiesa. Ma Pietro, nel vedersi circondato da tanta gente, stimò bella occasione di rendere a Dio la gloria dovuta e di glorificare nel contempo Gesù Cristo nel cui nome era stato operato il prodigio.
            “Figli d’Israele,” disse loro, “perché tanto vi meravigliate di questo fatto? Perché tenete così fissi gli occhi su di noi, quasi che per nostra virtù avessimo fatto camminare quest’uomo? Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri, ha glorificato il suo Figlio Gesù, quel Gesù che voi avete tradito e negato di fronte a Pilato, quando egli giudicava di rilasciarlo come innocente. Voi dunque avete avuto l’ardire di negare il Santo e il Giusto, e avete fatto istanza che fosse liberato dalla morte Barabba, ladro e omicida, e rinnegando il Giusto, il Santo, e l’autore della vita lo avete fatto morire. Ma Dio lo ha risuscitato dalla morte, e noi ne siamo testimoni, poiché l’abbiamo visto più volte, l’abbiamo toccato e abbiamo mangiato con lui. Ora, in virtù del suo nome, in forza di quella fede che viene da lui, è stato guarito questo zoppo che voi vedete e conoscete; è Gesù che l’ha restituito in perfetta sanità davanti a tutti voi. Ora io so bene che il vostro delitto e quello dei vostri capi, quantunque non abbia scusa sufficiente, fu commesso per ignoranza. Ma Dio, che aveva fatto predire dai suoi profeti che il Messia doveva patire tali cose, ha permesso che ciò voi verificaste senza volerlo, così che il decreto della misericordia di Dio ha avuto il suo compimento. Rientrate in voi stessi dunque e fate penitenza, affinché vi siano cancellati i vostri peccati e così possiate poi presentarvi con sicurezza della vostra salvezza davanti al tribunale di questo stesso Gesù Cristo che io vi ho predicato, e da cui tutti dovremo essere giudicati.
            “Queste cose,” proseguì Pietro, “furono da Dio predette; credete dunque ai suoi profeti e fra tutti credete a Mosè, che è il maggiore di essi. Che dice egli? ‘Il Signore,’ dice Mosè, ‘farà sorgere un profeta come me, e a lui crederete in tutto quello che vi dirà. Chiunque non ascolterà ciò che dice questo profeta sarà sterminato dal suo popolo.’
            “Questo diceva Mosè e parlava di Gesù. Dopo Mosè, a cominciare da Samuele, tutti i profeti che vennero predissero questo giorno e le cose che sono avvenute. Tali cose e le grandi benedizioni che sono predette appartengono a voi. Voi siete i figli dei profeti, delle promesse e delle alleanze che Dio fece già con i nostri padri dicendo ad Abramo, che è il ceppo della discendenza dei giusti: ‘In te e nella tua stirpe saranno benedette tutte le generazioni del mondo.’ Egli parlava del Redentore, di quel Gesù Figlio di Dio discendente da Abramo; quel Gesù che Dio ha risuscitato dalla morte e che ci comanda di predicarvi la sua parola prima che la predichiamo a ogni altro popolo, portandovi per mezzo nostro la promessa benedizione, affinché vi convertiate dai vostri peccati e abbiate la vita eterna.”
            A questa seconda predica di S. Pietro seguirono numerosissime conversioni alla fede. Cinquemila uomini chiesero il battesimo, sicché il numero dei convertiti in due sole prediche ascendeva già a ottomila persone, senza contare le donne e i fanciulli.

CAPO XV. Pietro è messo con Giovanni in prigione e ne viene liberato.
            Il nemico del genere umano, che vedeva distruggersi il suo regno, cercò di suscitare una persecuzione contro la Chiesa nel medesimo suo inizio. Mentre Pietro predicava, sopraggiunsero i sacerdoti, i magistrati del tempio e i sadducei, i quali negavano la risurrezione dei morti. Costoro si mostravano sommamente infuriati perché Pietro predicava al popolo la risurrezione di Gesù Cristo.
            Impazienti e pieni di collera interruppero la predica di Pietro, gli misero le mani addosso e lo condussero insieme con Giovanni in prigione, con l’intento di discutere con l’uno e con l’altro il giorno seguente. Ma temendo le proteste del popolo, non fecero loro alcun male.
            Fattosi giorno, si radunarono tutti i principali della città; cioè tutto il supremo magistrato della nazione si raccolse a concilio per giudicare i due Apostoli, come se fossero i più scellerati e i più formidabili uomini del mondo. In mezzo a quella imponente assemblea furono introdotti Pietro e Giovanni, e con essi lo storpio da loro guarito.
            Fu dunque loro fatta solennemente questa domanda: “Con quale potere e in nome di chi avete voi guarito quello storpio?” Allora Pietro, pieno dello Spirito Santo, con un coraggio veramente degno del capo della Chiesa, prese a parlare nella seguente maniera:
            “Principi del popolo, e voi dottori della legge, ascoltate. Se in questo giorno veniamo accusati e ci si forma un processo per un’opera ben fatta quale è la guarigione di quest’infermo, sappiate tutti, e lo sappia tutto il popolo d’Israele, che costui, il quale vedete qui alla vostra presenza sano e salvo, ha ottenuto la sanità nel nome del Signore Gesù Nazareno; quel medesimo che voi metteste in croce e che Dio ha fatto risorgere dalla morte a vita. Questa è quella pietra della fabbrica che da voi fu rigettata e che ora è divenuta la Pietra angolare. Nessuno può avere salvezza se non in lui, né vi è altro nome sotto il cielo dato agli uomini fuori di questo, nel quale si possa avere salvezza.”
            Questo parlare franco e risoluto del principe degli Apostoli produsse profonda impressione nell’animo di tutti coloro che componevano l’assemblea, in modo che, ammirando il coraggio e l’innocenza di Pietro, non sapevano a quale partito appigliarsi. Volevano punirli, ma il grande credito che il miracolo poco prima operato aveva loro fatto acquistare in tutta la città faceva temere tristi conseguenze.
            Tuttavia, volendo prendere qualche risoluzione, fecero uscire i due Apostoli dal luogo del concilio e convennero di proibire loro, sotto pene severissime, di non parlare mai più in futuro delle cose passate, né mai più nominare Gesù Nazareno, affinché venisse a perdersene perfino la memoria. Ma sta scritto che sono inutili gli sforzi degli uomini quando sono contrari al volere di Dio.
            Pertanto, ricondotti i due Apostoli in mezzo al concilio, come udirono intimarsi quella severa minaccia, lungi dallo spaventarsi, con fermezza e costanza maggiore di prima Pietro rispose:
            “Orsù, decidete voi stessi se la giustizia e la ragione permettano di obbedire piuttosto a voi che a Dio. Noi non possiamo fare a meno di palesare quello che abbiamo udito e visto.”
            Allora quei giudici, vieppiù confusi, non sapendo né che rispondere né che fare, presero la risoluzione di mandarli per questa volta impuniti, proibendo loro soltanto di non predicare più Gesù Nazareno.
            Appena lasciati liberi, Pietro e Giovanni andarono subito a trovare gli altri discepoli, i quali erano in grande inquietudine per la loro prigionia. Come poi ebbero udito il racconto di quanto era avvenuto, ognuno rese grazie a Dio, pregandolo di voler dare forza e virtù di predicare la divina parola a fronte di qualsiasi pericolo.
            Se i cristiani dei giorni nostri avessero tutti il coraggio dei fedeli dei primi tempi e, superando ogni rispetto umano, professassero intrepidi la loro fede, certamente non si vedrebbe tanto disprezzo della nostra santa religione, e forse tanti che cercano di mettere in burla la religione e i sacri ministri sarebbero costretti a venerarla insieme con i suoi ministri.

CAPO XVI. Vita dei primi Cristiani. — Fatto di Anania e Saffira. — Miracoli di S. Pietro. Anno di Gesù Cristo 34.
            Per le prediche di S. Pietro e per lo zelo degli altri Apostoli, il numero dei fedeli era grandemente cresciuto.
            Nei giorni stabiliti si radunavano insieme per le sacre funzioni. E la Sacra Scrittura dice precisamente che quei fedeli erano perseveranti nella preghiera, nell’ascoltare la parola di Dio e nel ricevere con frequenza la santa comunione, a segno che fra tutti formavano un cuor solo e un’anima sola per amare e servire Dio Creatore.
            Molti poi, per il desiderio di staccare interamente il cuore dai beni della terra e pensare unicamente al cielo, vendevano le loro sostanze e le portavano ai piedi degli Apostoli, affinché ne facessero quell’uso che meglio credevano a favore dei poveri. La Sacra Scrittura fa uno speciale encomio di un certo Giuseppe, soprannominato Barnaba, che fu poi fedele compagno di S. Paolo Apostolo. Costui vendette un campo che possedeva e ne portò generosamente il prezzo intero agli Apostoli. Molti, seguendo l’esempio di lui, andavano a gara per dare segno del loro distacco dalle cose terrene, in maniera che in breve quei fedeli formavano una sola famiglia, di cui Pietro era capo visibile. Tra di loro non vi erano poveri, perché i ricchi condividevano le loro sostanze con i bisognosi.
            Tuttavia, anche in quei tempi felici vi furono dei fraudolenti, i quali, guidati da spirito di ipocrisia, tentarono di ingannare S. Pietro e mentire allo Spirito Santo. La qual cosa ebbe le più funeste conseguenze. Ecco come il sacro testo ci espone il terribile avvenimento.
            Certo Anania con sua moglie Saffira fecero a Dio promessa di vendere un loro podere e, al pari degli altri fedeli, portarne il prezzo agli Apostoli affinché lo distribuissero secondo i vari bisogni. Eseguirono essi puntualmente la prima parte della promessa, ma l’amore dell’oro li condusse a violare la seconda.
            Essi erano padroni di tenersi il campo oppure il prezzo, ma fatta la promessa erano obbligati a mantenerla, poiché le cose che si consacrano a Dio o alla Chiesa diventano sacre e inviolabili.
            D’accordo pertanto tra di loro, ritennero per sé una parte del prezzo e portarono l’altra a S. Pietro con l’intenzione di fargli credere che questa fosse l’intera somma ricavata dalla vendita. Pietro ebbe speciale rivelazione dell’inganno e, appena Anania comparve al suo cospetto, senza dargli tempo di proferire parola, con tono autorevole e grave si fece a rimproverarlo così: “Perché ti sei lasciato sedurre dallo spirito di Satana fino a mentire allo Spirito Santo, trattenendo una porzione del prezzo di quel tuo campo? Non era esso in tuo potere prima di venderlo? E dopo averlo venduto, non era a tua disposizione tutta la somma ricavata? Perché dunque hai concepito questo malvagio disegno? Devi perciò sapere che hai mentito non agli uomini, ma a Dio.” A quel tono di voce, a quelle parole, Anania, come colpito da un fulmine, cadde morto sull’istante.
            Appena passate tre ore, venne anche a presentarsi a Pietro Saffira, senza nulla sapere della luttuosa fine del marito. L’Apostolo usò maggiore compassione verso di costei e volle darle spazio di penitenza interrogandola se quella somma fosse l’intero prodotto della vendita di quel campo. La donna, con intrepidezza e temerità uguale a quella di Anania, con un’altra bugia confermò la bugia di suo marito. Perciò, ripresa da S. Pietro con lo stesso zelo e con la medesima forza, cadde anch’ella sull’istante e spirò. Giova sperare che un così terribile castigo temporale avrà contribuito a far loro risparmiare il castigo eterno nell’altra vita. Una pena così esemplare era necessaria per insinuare venerazione per il cristianesimo a tutti quelli che venivano alla fede e procurare rispetto al principe degli Apostoli, come anche per dare un esempio del modo terribile con cui Dio punisce lo spergiuro e nello stesso tempo ammaestrarci a essere fedeli alle promesse fatte a Dio.
            Questo fatto, unitamente ai molti miracoli che Pietro operava, fece sì che si raddoppiasse il fervore tra i fedeli e si dilatasse la fama delle sue virtù.
            Tutti gli Apostoli operavano miracoli. Un ammalato che fosse stato in contatto con alcuno degli Apostoli era subito guarito. S. Pietro poi spiccava sopra ogni altro. Era tale la fiducia che tutti avevano in lui e nelle sue virtù, che da tutte le parti, anche da paesi lontani, venivano a Gerusalemme per essere spettatori dei suoi miracoli. Talvolta avveniva che egli era attorniato da tale quantità di storpi e da tanti ammalati che non era più possibile poterglisi avvicinare. Perciò portavano gli infermi su lettucci nelle pubbliche piazze e nelle strade, in modo che, passando di là S. Pietro, almeno l’ombra del suo corpo giungesse a toccarli: la qual cosa era sufficiente per far guarire ogni genere di infermità. Sant’Agostino assicura che un morto, sul quale era passata l’ombra di Pietro, immediatamente risuscitò.
            I Santi Padri ravvisano in questo fatto l’adempimento della promessa del Redentore ai suoi Apostoli, dicendo che essi avrebbero operato miracoli anche maggiori di quelli che egli stesso aveva giudicato opportuno operare nel corso della sua vita mortale[16].

CAPO XVII. S. Pietro di nuovo messo in prigione. — È da un angelo liberato. Anno di Gesù Cristo 34.
            La Chiesa di Gesù Cristo acquistava ogni giorno nuovi fedeli. La moltitudine dei miracoli unita alla santa vita di quei primi cristiani faceva sì che persone di ogni grado, età e condizione corressero in folla per chiedere il Battesimo e così assicurare la loro eterna salvezza. Ma il principe dei sacerdoti e i sadducei si rodevano di rabbia e di gelosia; né sapendo quale mezzo usare per impedire la propagazione del Vangelo, presero Pietro e gli altri Apostoli e li chiusero in prigione. Ma Dio, per dimostrare anche questa volta che sono vani i progetti degli uomini quando sono contrari ai voleri del Cielo, e che Egli può fare quel che vuole e quando lo vuole, mandò in quella notte medesima un angelo che, aperte le porte della prigione, li trasse fuori dicendo loro: “In nome di Dio andate e con sicurezza predicate nel tempio, in presenza del popolo, le parole di vita eterna. Non temete né i comandi né le minacce degli uomini.”
            Gli Apostoli, vedutisi così prodigiosamente favoriti e difesi da Dio, secondo l’ordine avuto, di buon mattino si recarono al tempio a predicare e ammaestrare il popolo. Il principe dei sacerdoti, che desiderava castigare severamente gli Apostoli, per dare una solennità al processo, convocò il Sinedrio, gli anziani, gli scribi e tutti quelli che avevano qualche autorità sul popolo. Poi mandò a prendere gli Apostoli perché dalla prigione fossero condotti lì.
            I ministri, ovvero gli sgherri, ubbidirono agli ordini dati. Vanno, aprono il carcere, entrano, e non vi trovano anima viva. Fanno immediatamente ritorno all’assemblea e, pieni di meraviglia, annunciano la cosa così: “Abbiamo trovato il carcere chiuso e guardato con tutta diligenza; le guardie tenevano fedelmente il loro posto, ma, avendolo aperto, non vi abbiamo trovato alcuno.” Udito ciò, non sapevano più a quale partito appigliarsi.
            Mentre stavano consultando su ciò che dovessero deliberare, sopraggiunge uno dicendo: “Non lo sapete? Quegli uomini che metteste ieri in prigione sono ora nel tempio a predicare con maggior fervore di prima.” Allora si sentirono più che mai ardere di rabbia contro gli Apostoli; ma il timore di inimicarsi il popolo li trattenne, perché avrebbero corso il rischio di essere lapidati.
            Il prefetto del tempio si offrì di aggiustare egli stesso tale faccenda col migliore espediente possibile. Andò là dove erano i predicatori e con buone maniere, senza usare violenza alcuna, li invitò a venire con sé e li condusse nel mezzo dell’assemblea.
            Il sommo sacerdote, rivolgendosi a loro, disse: “Sono appena alcuni giorni che noi vi abbiamo strettamente proibito di parlare di questo Gesù Nazareno, e intanto voi avete riempito la città di questa nuova dottrina. Sembra che vogliate riversare su di noi la morte di quell’uomo e farci odiare da tutta la gente come colpevoli di quel sangue. Come osaste fare ciò?”
            “Ottimamente ci pare aver fatto,” rispose Pietro anche a nome degli altri Apostoli, “perché bisogna piuttosto ubbidire a Dio che agli uomini. Quello che predichiamo è una verità a noi messa in bocca da Dio, e noi non temiamo di dirla a voi in questa veneranda assemblea.” Qui Pietro ripeté quello che altre volte aveva detto intorno alla vita, passione e morte del Salvatore; concludendo sempre che era loro impossibile tacere quelle cose che, secondo gli ordini ricevuti da Dio, dovevano predicare.
            A quelle parole degli Apostoli, pronunciate con tanta fermezza, non avendo che opporre, smaniavano di rabbia e già pensavano di farli morire. Ma ne furono distolti da un certo Gamaliele, che era uno dei dottori della legge lì radunati. Costui, considerato bene ogni cosa, fece uscire per breve tempo gli Apostoli, poi, levatosi in piedi, disse in piena assemblea: “O Israeliti, ponete bene mente a ciò che state per fare riguardo a questi uomini; perché se questa è opera degli uomini, cadrà da sé stessa, come avvenne con tanti altri; ma se l’opera è di Dio, potrete voi forse impedirla e distruggerla, o vorrete opporvi a Dio?” Tutta l’assemblea si acquietò e seguì il suo consiglio.
            Fatti dunque rientrare gli Apostoli, prima li fecero battere; poi ordinarono loro che assolutamente non parlassero più di Gesù Cristo. Ma essi partirono dal concilio pieni di allegria, perché erano stati fatti degni di patire qualcosa per il nome di Gesù Cristo.

CAPO XVIII. Elezione dei sette diaconi. — S. Pietro resiste alla persecuzione di Gerusalemme. — Va in Samaria. — Suo primo scontro con Simon Mago. Anno di G. C. 35.
            La moltitudine dei fedeli che abbracciavano la fede occupava talmente lo zelo degli Apostoli, che essi, dovendo attendere alla predicazione della divina parola, all’istruzione dei nuovi convertiti, all’orazione, all’amministrazione dei sacramenti, non potevano più occuparsi degli affari temporali. Tale cosa era causa di malcontento presso alcuni cristiani, quasi che nella distribuzione delle sovvenzioni fossero tenuti in poca considerazione o disprezzati. Di ciò informati S. Pietro e gli altri Apostoli, risolsero di porvi rimedio.
            Convocarono pertanto una numerosa assemblea di fedeli e, facendo loro intendere come essi non dovevano tralasciare le cose del sacro loro ministero per occuparsi dei sussidi temporali, proposero l’elezione di sette diaconi, i quali, conosciuti per il loro zelo e per la loro virtù, attendessero all’amministrazione di certe cose sacre, come l’amministrazione del Battesimo, dell’Eucaristia; e nello stesso tempo avessero cura della distribuzione delle elemosine e delle altre cose materiali.
            Tutti approvarono quel proposito; quindi S. Pietro e gli altri Apostoli imposero le mani ai nuovi eletti e li destinarono ciascuno ai propri uffici. Con l’aggiunta di questi sette diaconi, oltre ad aver provveduto ai bisogni temporali, si moltiplicarono anche gli operai evangelici, e quindi maggiori conversioni. Dei sette diaconi fu celebre santo Stefano, che per la sua intrepidezza a sostenere la verità del Vangelo, fu ucciso con la lapidazione fuori della città. Egli è comunemente appellato Protomartire, cioè primo martire, che dopo Gesù Cristo abbia dato la vita per la fede. La morte di santo Stefano fu l’inizio di una grande persecuzione suscitata dagli Ebrei contro tutti i seguaci di Gesù Cristo, la quale cosa obbligò i fedeli a disperdersi qua e là per varie città e in diversi paesi.
            Pietro con gli altri Apostoli rimase in Gerusalemme sia per confermare i fedeli nella fede, sia per mantenere viva relazione con quelli che erano in altri paesi dispersi. Al fine poi di evitare il furore dei Giudei, egli si teneva nascosto, noto solamente ai seguaci del Vangelo, uscendo peraltro dalla sua segreta abitazione qualora ne scorgesse il bisogno. Intanto un editto dell’imperatore Tiberio Augusto in favore dei cristiani e la conversione di S. Paolo fecero cessare la persecuzione. E fu allora che si conobbe come la provvidenza di Dio non permetta alcun male senza ricavarne del bene; poiché si servì della persecuzione per diffondere il Vangelo in altri luoghi, e si può dire che ciascun fedele era un predicatore di Gesù Cristo in tutti quei paesi dove andava a rifugiarsi. Fra quelli che furono costretti a fuggire da Gerusalemme, vi fu uno dei sette diaconi di nome Filippo.
            Egli andò nella città di Samaria, dove con la predicazione e con i miracoli fece molte conversioni. Giunta a Gerusalemme la notizia che un numero straordinario di Samaritani erano venuti alla fede, gli Apostoli risolsero di inviare là alcuni che amministrassero il Sacramento della Cresima e supplissero a quelli che i Diaconi non avevano l’autorità di amministrare. Furono quindi destinati per quella missione Pietro e Giovanni: Pietro perché, come capo della Chiesa, ricevesse nel grembo di essa quella straniera nazione e unisse i Samaritani ai Giudei; Giovanni poi come speciale amico di S. Pietro e illustre fra gli altri per miracoli e santità.
            C’era in Samaria un certo Simone di Gitone, soprannominato Mago, vale a dire stregone. Costui, a forza di ciance e di incantesimi, aveva ingannato molti, millantandosi di essere qualcosa di straordinario. Affermando blasfemamente, diceva che egli era la virtù di Dio, la quale si dice grande. La gente pareva impazzita per lui e gli correva dietro acclamandolo quasi fosse una cosa divina. Essendosi un giorno trovato presente alla predicazione di Filippo ne fu commosso, e domandò il Battesimo per operare anche egli le meraviglie che generalmente i fedeli operavano dopo aver ricevuto questo Sacramento.
            Giunti là Pietro e Giovanni si misero ad amministrare il Sacramento della Confermazione, imponendo le mani come fanno i Vescovi d’oggigiorno. Simone, vedendo che con l’imposizione delle mani ricevevano anche il dono delle lingue e di fare miracoli, pensò che sarebbe stato per lui gran fortuna se avesse potuto operare le medesime cose. Fattosi dunque vicino a Pietro tirò fuori una borsa di denaro e gliela offrì pregandolo che gli volesse anche concedere la potestà di fare miracoli e di dare lo Spirito Santo a coloro cui egli avesse imposto le mani.
            S. Pietro, vivamente sdegnato di tale empietà, e rivolto a lui: “Scellerato,” gli disse, “sia con te il tuo denaro in perdizione, poiché tu hai creduto che per denaro si possano comprare i doni dello Spirito Santo. Affrettati a far penitenza di questa tua malvagità e prega Dio che ti voglia concedere il perdono.”
            Simone, temendo che accadesse a lui ciò che era accaduto ad Anania e Saffira, tutto spaventato rispose: “È vero: pregate anche voi per me affinché in me non si verifichi tale minaccia.” Queste parole sembrano dimostrare che egli fosse pentito, ma non era: non pregò gli Apostoli di impetrargli da Dio misericordia, bensì di tenere da lui lontano il flagello. Passato il timore del castigo, egli ritornò ad essere quel di prima, cioè mago, seduttore, amico del demonio. Noi lo vedremo in altri scontri con Pietro.
            I due Apostoli Pietro e Giovanni, come ebbero amministrato il Sacramento della Cresima ai nuovi fedeli della Samaria e li ebbero rafforzati nella fede che poco prima avevano ricevuto, dato loro il saluto di pace, partirono da quella città. Passarono per molti luoghi predicando Gesù Cristo, reputando poca ogni fatica purché contribuisse a propagare il Vangelo e guadagnare anime al cielo.

CAPO XIX. S. Pietro fonda la cattedra di Antiochia; ritorna in Gerusalemme. — È visitato da S. Paolo. Anno di Gesù Cristo 36.
            S. Pietro, ritornato da Samaria, dimorò qualche tempo in Gerusalemme, poi andò a predicare la grazia del Signore in vari paesi. Mentre con zelo degno del principe degli Apostoli visitava le chiese che si andavano qua e là fondando, venne a sapere che Simon Mago da Samaria si era recato ad Antiochia per spargere là le sue imposture. Egli allora risolse di portarsi in quella città per dissipare gli errori di quel nemico di Dio e degli uomini. Giunto in quella capitale, diede subito mano a predicare il Vangelo con grande zelo, e riuscì a convertire tal numero di gente alla fede, che i fedeli cominciarono là ad essere chiamati cristiani, vale a dire seguaci di Gesù Cristo.
            Fra i personaggi illustri che per le prediche di S. Pietro si convertirono fu S. Evodio. Al primo arrivo di Pietro egli lo invitò a casa sua, e il santo Apostolo gli si affezionò, gli procurò la necessaria istruzione e, vedendolo adorno delle necessarie virtù, lo consacrò sacerdote, poi vescovo, perché facesse le sue veci in tempo di sua assenza, e perché gli succedesse poi in quella sede vescovile.
            Quando Pietro voleva dare inizio alla predicazione in quella città incontrava grave ostacolo da parte del governatore, che era un principe di nome Teofilo. Costui fece mettere in prigione il santo Apostolo come inventore di una religione contraria alla religione dello stato. Volle pertanto venire a disputa intorno alle cose che predicava, e sentendolo dire che Gesù Cristo, per amore degli uomini, era morto in croce, disse: “Costui è matto, non bisogna più ascoltarlo.” Affinché poi fosse reputato come tale, per scherno gli fece tagliare i capelli per metà, lasciandogli un cerchio intorno al capo in modo di corona. Quello che allora fu fatto per disprezzo, ora gli ecclesiastici lo usano per onore, e si chiama chierica o tonsura, che ricorda la corona di spine posta sul capo al Divin Salvatore.
            Quando Pietro si vide trattato a quel modo pregò il governatore che si degnasse ascoltarlo un’altra volta. Essendogli tale cosa concessa, Pietro gli disse: “Tu, o Teofilo, ti scandalizzi per avermi udito dire che il Dio che io adoro morì in croce. Già ti avevo detto che si era fatto uomo, ed essendo uomo non dovevi tanto meravigliarti che egli fosse morto, poiché il morire è proprio dell’uomo. Sappi per altro che egli morì in croce di sua volontà, perché con la sua morte voleva dare la vita a tutti gli uomini facendo pace fra il suo Eterno Padre e il genere umano. Ma siccome ti dico che egli morì, così ti assicuro che egli risuscitò per virtù propria, avendo prima risuscitato molti altri morti.” Teofilo, udendo dire che aveva fatto risuscitare dei morti, si acquietò e, con aria di meraviglia, soggiunse: “Tu dici che questo tuo Dio risuscitò dei morti; ora, se tu in suo nome farai risuscitare un mio figlio, che morì alcuni giorni fa, io crederò a quanto mi predichi.” L’Apostolo accettò l’invito, andò alla tomba del giovane e, in presenza di molto popolo, fece una preghiera e in nome di Gesù Cristo lo richiamò a vita[17]. La qual cosa fu causa che il governatore e tutta la città credessero in Gesù Cristo.
            Teofilo divenne in breve fervoroso cristiano e, in segno di stima e venerazione verso S. Pietro, gli offrì la sua casa perché ne facesse quell’uso che meglio desiderava. Quell’edificio fu ridotto a forma di chiesa, dove si radunava il popolo per assistere al divino sacrificio e per udire le prediche del santo Apostolo. Al fine poi di poterlo ascoltare con maggiore comodità e profitto gli alzarono lì una cattedra dalla quale il santo dava le sacre lezioni.
            È bene qui notare che S. Pietro per lo spazio di tre anni, per quanto poteva, risiedeva in Gerusalemme come capitale della Palestina, dove i Giudei potevano più facilmente avere con lui relazione. L’anno trentaseiesimo di Gesù Cristo, sia per la persecuzione di Gerusalemme, sia per preparare la strada alla conversione dei Gentili, venne a stabilire la sua sede in Antiochia: cioè stabilì la città di Antiochia come sua ordinaria dimora e come centro di comunione con le altre Chiese cristiane.
            Pietro governò questa Chiesa di Antiochia sette anni, finché, così ispirato da Dio, trasferì la sua cattedra a Roma, come noi racconteremo a suo tempo.
            Lo stabilimento della santa Sede in Antiochia è particolarmente narrato da Eusebio di Cesarea, da S. Girolamo, da S. Leone il Grande e da un gran numero di scrittori ecclesiastici. La Chiesa cattolica celebra questo avvenimento con una particolare solennità il 22 febbraio.
            Mentre S. Pietro da Antiochia si era recato a Gerusalemme, ricevette una visita che certamente gli fu di grande consolazione. S. Paolo, che era stato convertito alla fede con uno strepitoso miracolo, sebbene fosse stato istruito da Gesù Cristo e da lui stesso mandato a predicare il Vangelo, tuttavia volle recarsi da S. Pietro per venerare in lui il capo della Chiesa e da lui ricevere quegli avvisi e quelle istruzioni che fossero state opportune. S. Paolo stette in Gerusalemme con il principe degli Apostoli quindici giorni. Il quale tempo bastò per lui, giacché oltre alle rivelazioni ricevute da Gesù Cristo aveva passato la sua vita nello studio delle sante Scritture e dopo la sua conversione si era indefessamente occupato nella meditazione e nella predicazione della parola di Dio.

CAPO XX. S. Pietro visita parecchie Chiese. — Guarisce Enea paralitico. — Risuscita la defunta Tabita. Anno di G. C. 38.
            San Pietro era stato dal divino Salvatore incaricato di conservare nella fede tutti i cristiani; e siccome molte Chiese si andavano fondando ora qua ora là dagli Apostoli, dai Diaconi e da altri discepoli, così San Pietro, per mantenere l’unità di fede e per esercitare la potestà suprema conferitagli dal Salvatore, mentre teneva la sua ordinaria dimora ad Antiochia, andava a visitare personalmente le chiese che in quel tempo erano già state fondate e si andavano fondando. In certi luoghi confermava i fedeli nella fede, altrove consolava quelli che avevano sofferto nella passata persecuzione, qua amministrava il sacramento della Cresima, dappertutto poi ordinava pastori e vescovi, i quali, dopo la sua partenza, continuassero ad aver cura delle chiese e del gregge di Gesù Cristo.
            Passando da una città all’altra pervenne ai santi che abitavano in Lidda, città distante circa venti miglia da Gerusalemme. I cristiani dei primi tempi, per la vita virtuosa e mortificata che tenevano, erano chiamati santi, e con questo nome dovrebbero potersi chiamare i cristiani d’oggigiorno che, al pari di quelli, sono chiamati alla santità.
            Giunto alle porte della città di Lidda, Pietro incontrò un paralitico di nome Enea. Costui era colpito da paralisi e completamente immobile nelle membra, e da otto anni non si era più mosso dal suo lettuccio. Pietro, come lo vide, senza essere affatto pregato, rivolgendosi a lui disse: “Enea, il Signore Gesù Cristo ti ha guarito; alzati e da te stesso rifatti il letto.” Enea si levò in piedi sano e robusto come se non fosse mai stato infermo. Molti si trovarono presenti a questo miracolo, che in breve si divulgò per tutta la città e nel vicino paese detto Saron. Tutti quegli abitanti, mossi dalla bontà divina che in maniera sensibile dava segni della sua potenza infinita, credettero in Gesù Cristo ed entrarono nel grembo della Chiesa.
            A poca distanza da Lidda vi era Ioppe, un’altra città posta sulle rive del mar Mediterraneo. Qui dimorava una vedova cristiana di nome Tabita, la quale, per le sue elemosine e per molte opere di carità, era universalmente chiamata la madre dei poveri. Avvenne in quei giorni che ella cadde ammalata e, dopo breve malattia, morì, lasciando in tutti il più vivo dolore. Secondo l’uso di quei tempi, le donne lavarono il suo cadavere e lo posarono sopra il terrazzo per fargli a suo tempo la sepoltura.
            Ora, per la vicinanza di Lidda, essendosi in Ioppe sparsa la notizia del miracolo operato nella guarigione di Enea, furono là mandati due uomini a pregare Pietro che volesse venire a vedere la defunta Tabita. Intesa la morte di quella virtuosa discepola di Gesù Cristo e il desiderio dei cristiani che andasse là per farla risuscitare, Pietro partì subito con loro. Giunto a Ioppe, i discepoli lo condussero sul terrazzo e, mostrandogli il cadavere di Tabita, gli raccontavano le molte buone opere di quella santa donna e lo pregavano che la volesse risuscitare.
            I poveri e le vedove, come seppero la venuta di Pietro, corsero piangendo a pregarlo che volesse restituire loro la buona madre. “Vedi,” dice una, “questo abito fu opera della sua carità”; “questa tunica, i calzari di quel ragazzo,” altre soggiungevano, “sono tutte cose donate da lei.” Alla vista di tanta gente che piangeva, di tante opere di carità che si andavano raccontando, Pietro ne fu intenerito. Si alzò in piedi e, voltosi al cadavere, disse: “Tabita, io ti comando in nome di Dio, alzati.” Tabita in quell’istante aprì gli occhi e, avendo visto Pietro, si mise a sedere e a parlare con lui. Pietro, presala per mano, la rialzò e, chiamati i discepoli, restituì loro la sospirata madre sana e salva. Grandissimo fu il giubilo che si levò in tutta la casa; da tutte le parti piangevano di gioia, parendo a quei buoni cristiani di aver riacquistato un tesoro in quella sola donna, che veramente era la consolazione di tutti. Da questo fatto imparino i poveri ad essere riconoscenti a chi porge loro elemosina. Imparino i ricchi che cosa voglia dire essere pietosi e generosi verso i poveri.

CAPO XXI. Dio rivela a S. Pietro la vocazione dei Gentili. — Va in Cesarea e battezza la famiglia di Cornelio Centurione. Anno di G. C. 39.
            Iddio aveva più volte fatto predire dai suoi profeti che alla venuta del Messia tutte le nazioni sarebbero state chiamate alla conoscenza del vero Dio.
            Lo stesso divin Salvatore aveva dato espresso comando ai suoi Apostoli, dicendo: “Ite, docete omnes gentes” (andate, ammaestrate tutte le nazioni). Gli stessi predicatori del Vangelo avevano già ricevuto alcuni non giudei alla fede, come avevano fatto con l’Eunuco della regina Candace e con Teofilo governatore d’Antiochia; ma questi erano fatti particolari, e gli Apostoli fino allora avevano quasi esclusivamente predicato il Vangelo agli Ebrei, aspettando dal Signore avviso speciale dell’epoca in cui dovessero senza eccezione ricevere alla fede anche i gentili e i pagani. Tale rivelazione doveva certamente esser fatta a San Pietro, capo della Chiesa. Ecco come il sacro testo espone questo memorabile avvenimento.
            In Cesarea, città della Palestina, abitava un certo Cornelio, centurione, ovvero ufficiale di una coorte, corpo di 100 soldati, che apparteneva alla legione italica, così chiamata perché composta di soldati italiani.
            La Sacra Scrittura gli fa un elogio dicendo che egli era un uomo religioso e timorato di Dio; queste parole vogliono dire che egli era gentile, ma che aveva abbandonato l’idolatria nella quale era nato, adorava il vero Dio, faceva molte elemosine e orazioni, e viveva religiosamente secondo il dettame della retta ragione.
            Iddio, infinitamente misericordioso, che non manca mai, con la sua grazia, di venire in soccorso di chi fa quel che può dal canto suo, mandò un angelo a Cornelio per istruirlo su ciò che doveva fare. Stava questo buon soldato facendo orazione quando vide comparirsi dinanzi un angelo sotto la sembianza di un uomo vestito di bianco. “Cornelio,” disse l’angelo. Egli, preso da paura, fissò in lui gli sguardi dicendo: “Chi siete voi, o Signore; che volete?” Allora l’angelo: “Iddio si è ricordato delle tue elemosine; le tue orazioni sono giunte al suo trono; e volendo appagare i tuoi desideri, mi ha mandato per indicarti la via della salvezza. Perciò manda a Ioppe e cerca di un tale Simone soprannominato Pietro. Egli dimora presso un altro Simone, conciatore di pelli, che ha la casa vicino al mare. Da questo Pietro saprai tutto ciò che è necessario per salvarti.” Non tardò Cornelio a obbedire alla voce del Cielo e, chiamati a sé due domestici e un soldato, persone tutte che temevano Iddio, raccontò la visione e comandò che si recassero immediatamente a Ioppe per il fine indicatogli dall’angelo.
            Partirono costoro sull’istante e, camminando tutta la notte, giunsero a Ioppe sul mezzogiorno del giorno seguente, poiché la distanza fra queste due città è di circa 40 miglia. Poco prima che vi giungessero, S. Pietro ebbe anch’egli una meravigliosa rivelazione, con la quale veniva confermato che anche i gentili erano chiamati alla fede. Stanco dalle sue fatiche, il santo Apostolo in quel giorno era venuto a casa del suo ospite per ristorarsi e, secondo il solito, si recò prima in una camera posta nel piano superiore per fare orazione. Mentre pregava, gli parve di vedere il cielo aperto e dal mezzo calare giù fino a terra un certo arnese a guisa di ampio lenzuolo, che, sostenuto nelle sue quattro estremità, formava come un grande vaso pieno d’ogni sorta di animali quadrupedi, serpenti e volatili, i quali tutti, secondo la legge di Mosè, erano considerati immondi; cioè non potevano essere mangiati né offerti a Dio.
            Nello stesso tempo udì una voce che disse: “Su, Pietro, uccidi e mangia.” Attonito l’Apostolo a quel comando, rispose: “Non sia mai che io mangi animali immondi, dai quali mi sono sempre astenuto.” La voce soggiunse: “Non chiamare immondo ciò che Iddio ha purificato.” Dopo essergli stata per tre volte ripetuta la stessa visione, quel vaso misterioso si alzò verso il cielo e disparve.
            I Santi Padri riconoscono figurati in questi animali immondi i peccatori e tutti quelli che, invischiati nel vizio e nell’errore, per mezzo del sangue di Gesù Cristo sono purificati e ricevuti in grazia.
            Mentre Pietro stava meditando quale cosa volesse mai significare quella visione, giunsero i tre messaggeri. In quel momento Dio glieli fece conoscere e gli comandò di scendere a incontrarli, mettersi in loro compagnia e andare con loro senza alcun timore. Sceso egli dunque e vedutoli, disse: “Eccomi, io sono colui che voi cercate. Qual è il motivo della vostra venuta?”
            Udita la visione di Cornelio e la ragione del loro viaggio, comprese subito il significato di quel misterioso lenzuolo; perciò li accolse benignamente e li fece dimorare con sé quella notte. La mattina seguente, accompagnato da sei discepoli, partì da Ioppe con i messaggeri ed, in numero di dieci, presero il cammino verso Cesarea.
            Dopo due giorni Pietro, con tutta la sua comitiva, giunse in quella città dove con grande ansia lo attendeva il centurione. Questi, per maggiormente onorare il suo ospite, aveva convocato i suoi parenti e amici, affinché potessero anch’essi partecipare delle celesti benedizioni che all’arrivo di Pietro sperava di ottenere dal Cielo. Quando il buon centurione, secondo l’ordine di Dio, mandò a chiamare Pietro per intendere da lui i divini voleri, dovette certamente formarsi una grande idea di lui, reputandolo un personaggio sublime e non simile agli altri uomini. Perciò, entrando Pietro in casa sua, gli si fece incontro e gli si gettò ai piedi in atto di adorarlo. Pietro, pieno di umiltà, lo rialzò immediatamente, avvisandolo che egli era al pari di lui un semplice uomo. Continuando poi a parlare, entrarono nel luogo dell’adunanza.
            Là, alla presenza di tutti, Pietro raccontò l’ordine da Dio ricevuto di conversare con i gentili e di non più giudicarli come abominevoli e profani. “Ora io sono qui da voi,” concluse; “ditemi pertanto quale sia la ragione per cui mi avete chiamato.” Cornelio obbedì all’invito di Pietro, si alzò in piedi e raccontò quanto gli era accaduto quattro giorni prima, protestando che egli e tutti quelli lì radunati erano prontissimi ad eseguire ogni cosa che, per commissione divina, avesse loro comandato. Allora Pietro, spiegando il carattere di Apostolo del Signore, depositario fedele della religione e della fede, prese a istruire nei principali misteri del Vangelo tutta quella onorevole assemblea.
            Continuava Pietro il suo discorso quando lo Spirito Santo scese visibilmente su Cornelio e i suoi familiari, e in maniera sensibile comunicò loro il dono delle lingue, per cui essi cominciarono a magnificare Iddio cantandone le lodi. S. Pietro, vedendo operarsi lì quasi lo stesso prodigio avvenuto nel cenacolo di Gerusalemme, esclamò: “Vi è forse alcuno che possa impedire che noi battezziamo costoro, i quali hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?” Quindi, rivolto ai suoi discepoli, ordinò che li battezzassero tutti. La famiglia di Cornelio fu la prima di Roma e d’Italia che abbracciò la fede.
            S. Pietro, dopo averli tutti battezzati, ritardò la sua partenza da Cesarea; si fermò qualche tempo per appagare le pie istanze di Cornelio e di tutti quei nuovi battezzati che di ciò lo pregavano insistentemente. Pietro approfittò di quel tempo per predicare il Vangelo in quella città, e tale ne fu il frutto che egli risolse di assegnare un pastore a quella moltitudine di fedeli. Questi fu S. Zaccheo, di cui si parla nel Vangelo, il quale perciò fu consacrato primo vescovo di Cesarea[18].
            Questo fatto, cioè l’aver ammesso alla fede i gentili, cagionò una certa gelosia tra i fedeli di Gerusalemme, né mancarono quelli che disapprovarono pubblicamente quanto aveva fatto S. Pietro. Per la qual cosa egli giudicò bene di recarsi in quella città, per disingannare gli illusi e far conoscere che quanto aveva operato era per ordine di Dio. Giunto a Gerusalemme, alcuni si presentarono a lui parlandogli arditamente così: “Perché sei andato da uomini non circoncisi ed hai mangiato con essi?” Pietro, alla presenza di tutti i fedeli radunati, senza far conto di quella interrogazione, diede loro ragione di quanto aveva fatto, cominciando dalla visione avuta in Ioppe, del vaso ripieno di ogni sorta di animali immondi, dell’ordine ricevuto da Dio di cibarsi di essi, della ripugnanza che mostrò a obbedire per timore di contraddire alla legge, e della voce che si fece di nuovo udire di non più chiamare immondo ciò che era stato da Dio purificato. Poi espose minutamente quanto era avvenuto in casa di Cornelio e come, in presenza di molti, era disceso lo Spirito Santo. Allora tutta quell’assemblea, riconoscendo la voce del Signore in quella di Pietro, si acquietò e lodò Iddio che avesse esteso i limiti della sua misericordia.

CAPO XXII. Erode fa decapitare S. Giacomo il Maggiore e mettere S. Pietro in prigione. — Ma ne è liberato da un Angelo. — Morte di Erode. Anno di G. C. 41.
            Mentre la parola di Dio, predicata con tanto zelo dagli Apostoli e dai discepoli, produceva frutti di vita eterna fra gli Ebrei e fra i Gentili, la Giudea era governata da Erode Agrippa, nipote di quell’Erode che aveva comandato la strage degli innocenti.
            Dominato da spirito di ambizione e di vanagloria, desiderava perdutamente di guadagnarsi l’affetto del popolo. Gli Ebrei, e specialmente quelli che erano in qualche autorità, seppero valersi di questa sua propensione per muoverlo a perseguitare la Chiesa e cercare gli applausi dei perversi Giudei nel sangue dei cristiani. Cominciò egli col far mettere in prigione l’Apostolo S. Giacomo per farlo poi condannare al patibolo. Questi è S. Giacomo Maggiore, fratello di S. Giovanni Evangelista, fedele amico di Pietro, che ebbe con lui molti segni speciali di benevolenza dal Salvatore.
            Questo coraggioso Apostolo, dopo la discesa dello Spirito Santo, predicò il Vangelo nella Giudea; poi (come narra la tradizione) andò in Spagna, dove convertì alcuni alla fede. Ritornato in Palestina, fra gli altri convertì un certo Ermogene, uomo celebre; la qual cosa dispiacque molto a Erode, e gli servì di pretesto per farlo mettere in prigione. Condotto innanzi ai tribunali, dimostrò tanta fermezza nel rispondere e confessare Gesù Cristo che il giudice ne rimase meravigliato. Il suo stesso accusatore, commosso da tanta costanza, rinunciò al giudaismo e si dichiarò pubblicamente cristiano, e come tale venne anch’egli condannato a morte. Mentre entrambi erano condotti al supplizio, egli si rivolse a San Giacomo e gli domandò perdono di ciò che aveva detto e fatto contro di lui. Il santo Apostolo, dandogli un’affettuosa occhiata, gli disse “pax tecum” (la pace sia con te). Quindi lo abbracciò e lo baciò protestando che di tutto cuore lo perdonava, anzi che come fratello lo amava. Di qui si vuole che abbia avuto origine il segno di pace e di perdono, che suole usarsi fra i cristiani e specialmente nel sacrificio della santa Messa.
            Dopo di che quei due generosi confessori della fede ebbero tagliata la testa, e andarono a congiungersi eternamente in Cielo.
            Una tale morte contristò molto i fedeli, ma rallegrò al sommo i Giudei, i quali, con la morte dei capi della religione, pensavano di porre fine alla religione stessa. Erode, vedendo che la morte di S. Giacomo era piaciuta ai Giudei, pensò di procurare loro un più dolce spettacolo col fare imprigionare S. Pietro, per poi lasciarlo in balia del loro cieco furore. E poiché correva la settimana degli azzimi, che per gli Ebrei è tempo di giubilo e di preparazione alla Pasqua, non volle funestare la pubblica gioia col supplizio di un uomo preteso reo. Carico perciò di catene lo fece condurre in mezzo a due custodi e ordinò che fosse con tutta cautela custodito dentro un’oscura prigione fino al termine di quella solennità. Diede poi ordine rigoroso che fossero posti a guardia sedici soldati, i quali notte e giorno vegliassero alternativamente a custodia della prigione di ferro che si apriva su un viottolo della città. Certamente sapeva quel re come Pietro fosse già stato altre volte posto in prigione e uscitone in maniera del tutto meravigliosa, e non voleva che gli accadesse di nuovo una cosa simile. Ma tutte queste cautele, porte ferrate, catene, custodi e guardie non servirono ad altro che a dar maggior risalto all’opera di Dio.
            Siccome l’arma più potente lasciata dal Salvatore ai cristiani è la preghiera, così i fedeli, privati del loro comune padre e pastore, si radunarono insieme piangendo la prigionia di S. Pietro e porgendo di continuo preghiere a Dio, affinché lo liberasse dall’imminente pericolo. Sebbene queste loro orazioni fossero ferventissime, nondimeno piacque al Signore di esercitare per qualche giorno la loro fede e la pazienza per far vieppiù conoscere gli effetti della onnipotenza divina.
            Era già la notte precedente al giorno fissato per la morte di Pietro. Egli era tutto rassegnato alle divine disposizioni, egualmente preparato a vivere o a morire per la gloria del suo Signore; perciò, nel buio di quell’orrida prigione, dimorava con la maggior tranquillità dell’animo suo. Dormiva Pietro, ma per lui vegliava Colui che ha promesso di assistere la sua Chiesa. Era mezzanotte ed ogni cosa era in profondo silenzio, quando improvvisamente una luce sfolgorante illumina tutto quel carcere. Ed ecco un angelo mandato da Dio scuote Pietro, lo risveglia dicendogli: “Presto, alzati.” A tali parole entrambe le catene si sciolsero e gli caddero dalle mani. Allora l’angelo continuò: “Mettiti subito gli abiti addosso e i calzari ai piedi.” S. Pietro fece ogni cosa, e l’angelo proseguì dicendogli: “Mettiti ancora sulle spalle il mantello e seguimi.” Pietro obbedì; ma gli pareva che tutto fosse un sogno e che egli fosse fuori di sé. Intanto, le porte della prigione trovandosi aperte, egli ne usciva seguendo l’angelo che gli andava innanzi. Passate le prime e le seconde guardie, senza che dessero il minimo segno di vederli, giunsero alla porta di ferro di enorme grossezza, che, uscendo dall’edificio delle carceri, dava adito in città. Quella porta si aprì da sé medesima. Usciti dunque, camminarono un poco insieme finché l’angelo disparve. Allora Pietro, riflettendo su sé stesso: “Ora,” disse, “mi accorgo che il Signore ha veramente mandato il suo angelo a liberarmi dalle mani di Erode e dal giudizio che gli Ebrei aspettavano che egli facesse di me.” Considerato poi bene il luogo dove era, andò direttamente alla casa di una certa Maria, madre di Giovanni, soprannominato Marco, dove molti fedeli stavano radunati in orazione supplicando Iddio che si degnasse di venire in soccorso del capo della sua Chiesa.
            Giunto San Pietro a quella casa, si mise a bussare alla porta. Una fanciulla, di nome Rosa, andò per vedere chi fosse. “Chi c’è?” disse lei. E Pietro: “Sono io, apri.” La fanciulla, riconoscendone bene la voce, quasi fuor di sé per la gioia, non badò più ad aprire la porta e, lasciandolo fuori, corse a darne avviso ai padroni. “Non sapete? È Pietro.” Ma essi dissero: “Tu vaneggi, Pietro è in prigione e non può trovarsi qui a quest’ora.” Ma lei continuava ad asserire che era veramente lui. Essi allora soggiunsero: “Colui che hai visto o udito sarà forse il suo angelo, che nella sua forma è venuto a darci qualche notizia.” Mentre costoro discutevano con la fanciulla, Pietro continuava a bussare più forte dicendo: “Ehi, aprite.” Questo li spinse a correre in fretta ad aprire, e si accorsero che era veramente Pietro.
            A tutti sembrava un sogno, e ciascuno pensava di vedere un morto risuscitato. Alcuni chiedevano chi l’avesse liberato, altri quando, alcuni erano impazienti di sapere se si fosse operato qualche prodigio.
            Allora Pietro, per appagarli tutti, fatto cenno con la mano che stessero in silenzio, raccontò per ordine quanto era avvenuto con l’angelo e come lo aveva liberato dalla prigione. Ognuno piangeva di tenerezza e, lodando Dio, lo ringraziavano del favore che aveva fatto loro.
            Pietro, non ritenendo più sicura la sua vita a Gerusalemme, disse a quei discepoli: “Andate e riferite queste cose a Giacomo (il Minore, vescovo di Gerusalemme) e agli altri fratelli, e liberateli dalla preoccupazione in cui si trovano a causa mia. Per quanto mi riguarda, ritengo opportuno partire da questa città e andarmene altrove.”
            Quando fu sparsa la notizia che Dio aveva così prodigiosamente salvato il capo della Chiesa, tutti i fedeli ne furono vivamente consolati.
            La Chiesa cattolica celebra la memoria di questo glorioso avvenimento il primo di agosto sotto il titolo di Festa di San Pietro in Vincoli.
            Ma che ne fu di Erode e delle sue guardie? Quando si fece giorno, le guardie che nulla avevano né udito né visto, andarono di buon mattino a visitare la prigione; quando poi non trovarono più Pietro, rimasero presi dal più profondo sbigottimento. La cosa fu subito riferita a Erode, il quale ordinò di cercare San Pietro, ma non gli fu possibile trovarlo. Allora, sdegnato, fece processare i soldati e li fece tutti condannare a morte, forse per sospetto di negligenza o di infedeltà, avendo trovate aperte tutte le porte della prigione.
            Ma l’infelice Erode non tardò molto a pagare il prezzo delle ingiustizie e dei tormenti fatti patire ai seguaci di Gesù Cristo. Per alcuni affari politici egli era andato da Gerusalemme nella città di Cesarea, e mentre godeva degli applausi con cui il popolo follemente lo adulava, chiamandolo Dio, in quell’istante medesimo fu colpito da un angelo del Signore; venne portato fuori della piazza e, fra indicibili dolori, divorato dai vermi, spirò.
            Questo fatto dimostra con quanta sollecitudine Dio viene in aiuto dei suoi servi fedeli, e dà un terribile avvertimento ai malvagi. Questi devono grandemente temere la mano di Dio, che severamente punisce anche nella presente vita coloro che disprezzano la religione o nelle cose sacre o nella persona dei suoi ministri.

CAPO XXIII. Pietro a Roma. — Vi trasferisce la cattedra apostolica. — Sua prima lettera. — Progresso del Vangelo. Anno 42 di Gesù Cristo.
            L’Apostolo San Pietro, dopo essere fuggito da Gerusalemme seguendo gli impulsi dello Spirito Santo, decise di trasferire la Santa Sede a Roma.
            Pertanto, dopo aver tenuto la sua cattedra in Antiochia sette anni, partì alla volta di Roma. Nel suo viaggio predicò Gesù Cristo nel Ponto e nella Bitinia, che sono due vaste province dell’Asia Minore. Proseguendo il suo viaggio, predicò il santo Vangelo in Sicilia e a Napoli, dando a questa città per vescovo Sant’Aspreno. Finalmente giunse a Roma nell’anno quarantadue di Gesù Cristo, mentre regnava un imperatore di nome Claudio.
            Pietro trovò quella città in uno stato veramente deplorevole. Era, dice San Leone, un immenso mare d’iniquità, una sentina di tutti i vizi, una selva di bestie frementi. Le strade, le piazze erano seminate di statue di bronzo e di pietra adorate come Dei, e dinanzi a quegli orridi simulacri si bruciavano incensi e si facevano sacrifici. Il demonio stesso era onorato con nefande sozzure; le azioni più vergognose erano reputate atti di virtù. Si aggiungano le leggi che proibivano ogni nuova religione. I sacerdoti idolatri e i filosofi erano anche gravi ostacoli. Inoltre, si trattava di predicare una religione che disapprovava il culto di tutti gli Dei, condannava ogni sorta di vizi e comandava le più sublimi virtù.
            Tutte queste difficoltà, anziché arrestare lo zelo del Principe degli Apostoli, lo accesero ancor più nel desiderio di liberare quella miserabile città dalle tenebre di morte. San Pietro dunque, appoggiato al solo aiuto del Signore, entrò in Roma per formare della metropoli dell’impero la prima sede del sacerdozio, il centro del Cristianesimo.
            La fama, peraltro, delle virtù e dei miracoli di Gesù Cristo era già ivi pervenuta. Pilato ne aveva mandato relazione all’imperatore Tiberio, il quale, commosso nel leggere la santa vita e la morte del Salvatore, aveva deciso di annoverarlo fra gli Dei Romani. Ma il Signore del cielo e della terra non volle essere confuso con le stupide divinità dei pagani; e dispose che il senato romano respingesse la proposta di Tiberio come opposta alle leggi dell’impero[19].
            Pietro cominciò a predicare il Vangelo agli Ebrei che abitavano allora in Trastevere, cioè in una parte della città di Roma posta al di là del Tevere. Dalla sinagoga degli Ebrei passò a predicare ai Gentili, i quali con trasporto di vera gioia correvano ansiosi per ricevere il Battesimo. Il loro numero divenne così grande, e la loro fede così viva, che San Paolo poco dopo ebbe a consolarsi con i Romani scrivendo queste parole: “La vostra fede è annunziata”, cioè fa parlar di sé, estende la sua fama per tutto il mondo[20]. Né solamente sul basso popolo cadevano le benedizioni del cielo, ma anche su persone di prima nobiltà. Si vedevano uomini elevati alle prime cariche di Roma abbandonare il culto dei falsi Dei per mettersi sotto il soave giogo di Gesù Cristo. Eusebio, vescovo di Cesarea, dice che i ragionamenti di Pietro erano così robusti e si insinuavano con tanta dolcezza negli animi degli uditori, che diveniva padrone dei loro affetti e tutti rimanevano come incantati dalle parole di vita che gli uscivano dalla bocca e non si saziavano di ascoltarlo. Così grande era il numero di quelli che chiedevano il Battesimo, che Pietro, aiutato da altri suoi compagni, lo amministrava sulle rive del Tevere, nello stesso modo in cui San Giovanni Battista lo aveva amministrato su quelle del Giordano[21].
            Giunto a Roma, Pietro abitò il sobborgo detto Trastevere, a poca distanza dal luogo dove fu poi edificata la Chiesa di Santa Cecilia. Di qui nacque la speciale venerazione che i Trasteverini tuttora conservano verso la persona del Sommo Pontefice. Fra i primi a ricevere la fede vi fu un senatore di nome Pudente, che aveva occupato le più sublimi cariche dello Stato. Egli diede in sua casa ospitalità al Principe degli Apostoli, ed egli ne approfittava per celebrare i divini Misteri, amministrare ai fedeli la Santa Eucaristia e spiegare le verità della fede a quelli che lo venivano ad ascoltare. Quella casa fu ben presto cambiata in un tempio consacrato a Dio sotto il titolo del Pastore; è il più antico tempio cristiano di Roma, e si crede che sia quel medesimo che attualmente è detto di San Pudenziana. Quasi contemporaneamente fu fondata un’altra Chiesa dal medesimo Apostolo, che si vuole essere quella che oggigiorno si chiama San Pietro in Vincoli.
            San Pietro, vedendo come Roma fosse così ben disposta a ricevere la luce del Vangelo, e nel tempo stesso un luogo molto adatto per tenere relazione con tutti i paesi del mondo, stabilì la sua cattedra in Roma, vale a dire stabilì che Roma fosse centro e luogo di sua speciale dimora, ove dalle varie nazioni cristiane potessero e dovessero ricorrere nei dubbi di religione e nei vari loro bisogni spirituali. La Chiesa cattolica celebra la festa dello stabilimento della cattedra di San Pietro in Roma il 18 gennaio.
            Bisogna qui ricordare bene che per sede o cattedra di San Pietro non si intende la sedia materiale, ma si intende l’esercizio di quella suprema autorità che egli aveva ricevuto da Gesù Cristo, specialmente quando gli disse che quanto egli avrebbe legato o sciolto sopra la terra, sarebbe altresì stato legato o sciolto in cielo. Si intende l’esercizio di quell’autorità conferitagli da Gesù Cristo di pascolare il gregge universale dei fedeli, sostenere e conservare gli altri pastori nell’unità di fede e di dottrina come hanno sempre fatto i sommi pontefici da San Pietro fino al regnante Leone XIII.
            Poiché le occupazioni che San Pietro aveva a Roma non gli permettevano più di potersi recare a visitare le chiese che in vari paesi aveva fondato, scrisse una lunga e sublime lettera indirizzata specialmente ai cristiani che abitavano nel Ponto, nella Galazia, nella Bitinia e nella Cappadocia, che sono province dell’Asia Minore. Egli, come padre amoroso, dirige il discorso ai suoi figli per animarli ad essere costanti nella fede che aveva loro predicato e li avvisa specialmente di guardarsi dagli errori che gli eretici, fin da quei tempi, andavano spargendo contro la dottrina di Gesù Cristo.
            Conclude poi questa lettera con le seguenti parole: “Voi, o seniori, cioè vescovi e sacerdoti, io vi scongiuro di pascere il gregge di Dio, che da voi dipende, governandolo non forzatamente, ma di buona voglia; non per amor di vile guadagno, ma con animo volenteroso e facendovi modello del vostro gregge. Voi poi, o giovani, voi tutti o cristiani, siate soggetti ai sacerdoti con vera umiltà, perché Dio resiste ai superbi e dà grazia agli umili. Siate temperanti e vegliate perché il demonio vostro nemico, come leone che rugge, va in giro cercando chi divorare, ma voi resistetegli coraggiosamente nella fede.
            Vi salutano i cristiani che sono in Babilonia (cioè in Roma) e vi saluta poi in modo particolare Marco, mio figlio in Cristo.
            La grazia del Signore a tutti voi che vivete in Gesù Cristo. Così sia.[22]
            I Romani che avevano con gran fervore abbracciato la fede predicata da Pietro, manifestarono a San Marco, fido discepolo dell’Apostolo, il vivo desiderio che mettesse per iscritto quello che Pietro predicava. San Marco di fatto aveva accompagnato il Principe degli Apostoli in parecchi viaggi e lo aveva udito a predicare in molti paesi. Pertanto, da quanto aveva udito nelle prediche e nei familiari colloqui dal suo maestro, ed in modo tutto speciale illuminato e ispirato dallo Spirito Santo, era realmente in grado di appagare i pii desideri di quei fedeli. Perciò si accinse a scrivere il Vangelo, vale a dire un fedele racconto delle azioni del Salvatore; ed è quello che abbiamo oggi sotto il nome di Vangelo secondo San Marco.
            San Pietro da Roma mandò vari suoi discepoli in diverse parti d’Italia e in molti paesi del mondo. Inviò Sant’Apollinare a Ravenna, San Trofimo in Gallia e precisamente nella città di Arles, donde il Vangelo si propagò negli altri paesi della Francia; mandò San Marco ad Alessandria d’Egitto a fondare in suo nome quella chiesa. Così la città di Roma, capitale di tutto il Romano Impero, la città di Alessandria, che era la prima dopo Roma, quella di Antiochia, capitale di tutto l’Oriente, ebbero per fondatore il Principe degli Apostoli, e divennero perciò le tre prime sedi patriarcali, tra cui fu per più secoli ripartito il dominio del mondo cattolico, salva sempre la dipendenza dei patriarchi alessandrino e antiocheno dal Pontefice Romano, capo di tutta la Chiesa, pastore universale, centro di unità. Mentre San Pietro mandava tanti suoi discepoli a predicare altrove il Vangelo, egli a Roma ordinava sacerdoti, consacrava vescovi, tra cui aveva scelto San Zino per vicario a fare le sue veci nelle occasioni in cui qualche grave affare lo avesse obbligato ad allontanarsi da quella città.

CAPO XXIV. San Pietro al concilio di Gerusalemme definisce una questione. — San Giacomo conferma il suo giudizio. Anno di Gesù Cristo 50.
            Roma era l’ordinaria dimora del Principe degli Apostoli, ma le sue cure dovevano estendersi a tutti i fedeli cristiani. Perciò, qualora fossero insorte difficoltà o questioni riguardo a cose di religione, mandava qualche suo discepolo, o scriveva lettere in proposito e talvolta andava egli stesso di persona, come appunto fece nell’occasione in cui ad Antiochia nacque una questione tra i Giudei e i Gentili.
            Gli Ebrei credevano che, per essere buoni cristiani, fosse necessario ricevere la circoncisione e osservare tutte le cerimonie di Mosè. I Gentili rifiutavano di sottomettersi a questa pretesa degli Ebrei, e la cosa venne a tal punto che ne derivava grave danno e scandalo tra i semplici fedeli e tra gli stessi predicatori del Vangelo. Pertanto, San Paolo e San Barnaba giudicarono bene di ricorrere al giudizio del capo della Chiesa e degli altri Apostoli, affinché con la loro autorità sciogliessero ogni dubbio.
            San Pietro pertanto si recò da Roma a Gerusalemme per convocare un concilio generale. Poiché se il Signore ha promesso la sua assistenza al capo della Chiesa, affinché la sua fede non venga meno, lo assiste certamente anche quando sono riuniti con lui i principali pastori della Chiesa; tanto più che Gesù Cristo ci assicurò di trovarsi di fatto in mezzo a quelli che, in numero anche solo di due, si fossero radunati nel suo nome. Giunto dunque il Principe degli Apostoli in quella città, invitò tutti gli altri Apostoli e tutti quei primari pastori che poté avere; quindi Paolo e Barnaba, accolti in concilio, esposero in piena assemblea la loro ambasciata a nome dei Gentili di Antiochia; mostrarono le ragioni e i timori di una parte e dell’altra, chiedendo la loro deliberazione per la quiete e la sicurezza delle coscienze. “Vi sono”, diceva San Paolo, “alcuni della setta dei Farisei, i quali hanno creduto e asseriscono essere necessario che, come gli Ebrei, anche i Gentili siano circoncisi e debbano osservare la legge di Mosè, se vogliono ottenere la salvezza.”
            Quella veneranda assemblea prese ad esaminare questo punto; e dopo matura discussione sulla materia proposta, levatosi Pietro prese a parlare così: “Fratelli, ben sapete come Dio elesse me per far conoscere ai Gentili la luce del Vangelo e le verità della fede, come avvenne di Cornelio Centurione e di tutta la sua famiglia. Ora, Dio che conosce i cuori degli uomini ha reso testimonianza a quei buoni Gentili mandando su di loro lo Spirito Santo, come aveva fatto su di noi, e nessuna differenza ha fatto tra noi e loro, mostrando che la fede li aveva purificati dalle impurità che prima li escludevano dalla grazia. Dunque, la cosa è chiara: senza circoncisione i Gentili sono giustificati per la fede in Gesù Cristo. Perché pertanto vogliamo tentare Dio, quasi provocandolo a darci una prova più sicura della sua volontà? Perché imporre a questi nostri fratelli Gentili un giogo che con fatica noi e i nostri padri abbiamo potuto portare? Quindi noi crediamo che per la sola grazia del nostro Signore Gesù Cristo tanto gli Ebrei quanto i Gentili debbano essere salvati.”
            Dopo la sentenza del Vicario di Gesù Cristo, tacque e si acquietò tutta quell’assemblea. Paolo e Barnaba confermarono quanto aveva detto Pietro, raccontando le conversioni e i miracoli che Dio si era compiaciuto di operare per mano loro fra i Gentili che avevano convertito al Vangelo.
            Come Paolo e Barnaba ebbero finito di parlare, San Giacomo, vescovo di Gerusalemme, confermò il giudizio di Pietro dicendo: “Fratelli, ora prestate attenzione anche a me. Ben disse Pietro che da principio Dio fece grazia ai Gentili, formando un popolo solo che glorificasse il suo santo nome. Ora ciò è confermato dalle parole dei profeti, le quali noi vediamo in questi fatti avverate. Per la qual cosa io giudico con Pietro che i Gentili non debbano essere inquietati dopo che si sono convertiti a Gesù Cristo; solamente mi pare doversi ordinare loro che, per riguardo alla debole coscienza dei fratelli Ebrei e per agevolare l’unione fra questi due popoli, venga proibito di mangiare cose sacrificate agli idoli, carni soffocate, il sangue; e proibita sia altresì la fornicazione.”
            Quest’ultima cosa, cioè la fornicazione, non occorreva proibirla essendo affatto contraria ai dettami della ragione e vietata dal sesto articolo del Decalogo. Fu peraltro rinnovata tale proibizione riguardo ai Gentili, perché nel culto alle loro false divinità pensavano che fosse cosa lecita, anzi gradita, fare offerte di cose immonde e oscene.
            Il giudizio di San Pietro così confermato da San Giacomo piacque a tutto il concilio; perciò di comune accordo determinarono di eleggere persone autorevoli da mandare ad Antiochia con Paolo e Barnaba. A questi, in nome del concilio, furono consegnate lettere che contenevano le decisioni prese. Le lettere erano di questo tenore: “Gli Apostoli e sacerdoti fratelli ai fratelli Gentili che sono in Antiochia, in Siria, in Cilicia, salute. Avendo noi inteso che alcuni venendo da qui hanno turbato e angustiato le vostre coscienze con idee arbitrarie, è parso bene a noi qui riuniti di scegliere e mandare a voi Paolo e Barnaba, uomini a noi carissimi, che la loro vita sacrificarono ed esposero a pericolo per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. Con essi mandiamo Sila e Giuda, i quali consegnandovi le nostre lettere vi confermeranno a voce le medesime verità. Infatti è stato giudicato dallo Spirito Santo e da noi di non imporvi alcun altro obbligo, eccetto quello che dovete osservare, cioè di astenervi dalle cose sacrificate agli idoli, dalle carni soffocate, dal sangue e dalla fornicazione. Dalle quali cose astenendovi farete bene. State in pace.”
            Questo fu il primo concilio generale a cui presiedette San Pietro, dove, come Principe degli Apostoli e capo della Chiesa, definì la questione con l’assistenza dello Spirito Santo. Così da ogni fedele cristiano deve credersi che le cose definite dai concili generali riuniti e confermati dal Sommo Pontefice, Vicario di Gesù Cristo e successore di San Pietro, sono verità certissime, che danno i medesimi motivi di credibilità come se uscissero dalla bocca dello Spirito Santo, perché essi rappresentano la Chiesa con il suo capo, a cui Dio ha promesso la sua infallibilità sino alla fine dei secoli.

CAPO XXV. San Pietro conferisce a San Paolo e a San Barnaba la pienezza dell’Apostolato. — È avvisato da San Paolo. — Ritorna a Roma. Anno di Gesù Cristo 54.
            Dio aveva già fatto conoscere più volte che voleva mandare San Paolo e San Barnaba a predicare ai Gentili. Ma fino ad allora esercitavano il loro sacro ministero come semplici sacerdoti, e forse anche come vescovi, senza che fosse loro ancora conferita la pienezza dell’apostolato. Quando poi andarono a Gerusalemme a causa del concilio e raccontarono le meraviglie operate da Dio per mezzo loro fra i Gentili, si trattennero anche in speciali colloqui con San Pietro, Giacomo e Giovanni. Raccontarono, dice il sacro testo, grandi meraviglie a quelli che tenevano le prime cariche nella Chiesa, tra le quali erano certamente i tre Apostoli nominati, i quali si consideravano come le tre colonne principali della Chiesa. Fu in questa occasione, dice Sant’Agostino, che San Pietro, come capo della Chiesa, Vicario di Gesù Cristo e divinamente ispirato, conferì a Paolo e a Barnaba la pienezza dell’apostolato, con l’incarico di portare la luce del Vangelo ai Gentili. Così San Paolo fu elevato alla dignità di Apostolo, con la stessa pienezza di poteri che godevano gli altri Apostoli stabiliti da Gesù Cristo.
            Mentre San Pietro e San Paolo dimoravano ad Antiochia, avvenne un fatto che merita di essere riferito. San Pietro era certamente persuaso che le cerimonie della legge di Mosè non fossero più obbligatorie per i Gentili; tuttavia, quando si trovava con gli Ebrei, mangiava all’uso giudaico, temendo di disgustarli se avesse operato altrimenti. Tale condiscendenza era causa che molti Gentili si raffreddassero nella fede; quindi nasceva avversione tra Gentili ed Ebrei, e veniva a rompersi quel vincolo di carità che forma il carattere dei veri seguaci di Gesù Cristo. San Pietro ignorava le dicerie che avevano luogo per questo fatto. Ma San Paolo, accorgendosi che tale condotta di Pietro poteva generare scandalo nella comunità dei fedeli, pensò di correggerlo pubblicamente, dicendo: “Se tu, essendo Giudeo, hai conosciuto per la fede di poter vivere come i Gentili e non come i Giudei, perché con il tuo esempio vuoi costringere i Gentili all’osservanza della legge giudaica?” San Pietro fu molto contento di tale avviso, poiché con quel fatto veniva pubblicato di fronte a tutti i fedeli che la legge cerimoniale di Mosè non era più obbligatoria, e come colui che ad altri predicava l’umiltà di Cristo Gesù, seppe praticarla egli stesso, non dando il minimo segno di risentimento. Da allora in poi non ebbe più alcun riguardo per la legge cerimoniale di Mosè.
            Bisogna qui tuttavia notare con i Santi Padri che quanto faceva San Pietro non era male in sé, ma forniva ai cristiani motivo di discordia. Si vuole inoltre che San Pietro sia stato d’accordo con San Paolo riguardo alla correzione da farsi pubblicamente, affinché fosse viepiù conosciuta la cessazione della legge cerimoniale di Mosè.
            Da Antiochia andò a predicare in varie città, finché fu avvisato da Dio di ritornare a Roma, per assistere i fedeli in una feroce persecuzione eccitata contro i cristiani. Quando San Pietro giunse in quella città, governava l’impero Nerone, uomo pieno di vizi e per conseguenza il più avverso al cristianesimo. Egli aveva appositamente fatto appiccare il fuoco in vari punti di quella capitale, in modo che con molti cittadini rimase in gran parte consumata dalle fiamme; e rigettava poi la colpa di quella malvagia azione sui cristiani.
            Nella sua crudeltà, Nerone aveva fatto mettere a morte un virtuoso filosofo, di nome Seneca, che era stato suo maestro. La stessa sua madre perì vittima di quel figlio snaturato. Ma la gravità di questi misfatti fece una terribile impressione anche sul cuore abbrutito di Nerone, tanto che gli sembrava di vedere spettri che l’accompagnassero giorno e notte. Pertanto, cercava di placare le ombre infernali, o meglio i rimorsi della coscienza, con sacrifici. Volendo poi procurarsi qualche sollievo, fece ricercare i maghi più accreditati, per far uso della loro magia e dei loro incantesimi. Il mago Simone, quello stesso che aveva cercato di comprare da San Pietro i doni dello Spirito Santo, approfittò dell’assenza del Santo Apostolo per recarsi là e, a forza di adulazioni verso l’imperatore, mettere in discredito la religione cristiana.

CAPO XXVI. San Pietro fa risuscitare un morto. Anno di Gesù Cristo 66.
            Il mago Simone sapeva che, se avesse potuto fare qualche miracolo, si sarebbe acquistato grande credito. Quelli che San Pietro andava da ogni parte operando servivano ad accenderlo viepiù di invidia e di rabbia; perciò andava studiando qualche prestigio per farsi vedere superiore a San Pietro. Venne più volte con lui a confronto, ma ne uscì sempre pieno di confusione. E poiché si vantava di saper guarire le infermità, allungare la vita, risuscitare i morti, cose tutte che egli vedeva fatte da San Pietro, avvenne che fu invitato a fare altrettanto. Era morto un giovane di nobile famiglia e parente dell’imperatore. I suoi genitori, essendone inconsolabili, furono consigliati di ricorrere a San Pietro perché venisse a richiamarlo in vita. Altri invece invitarono Simone.
            Giunsero entrambi nello stesso momento alla casa del defunto. San Pietro di buon grado acconsentì che Simone facesse le sue prove per ridare la vita al morto; poiché sapeva che solo Dio può operare veri miracoli, né mai alcuno può vantarsi di averne operati se non per virtù divina e in conferma della religione cattolica, e che perciò sarebbero tornati inutili tutti gli sforzi dell’empio Simone. Pieno di boria e spinto dallo spirito maligno, Simone accettò pazzamente la prova; e, persuaso di vincere, propose la seguente condizione: se Pietro riesce a risuscitare il morto, io sarò condannato a morte; ma se io darò vita a questo cadavere, Pietro la paghi con la testa. Non essendoci tra gli astanti chi rifiutasse quella proposta, anzi di buon grado accettandola San Pietro, il mago si accinse all’opera.
            Si accostò al feretro del defunto e, invocando il demonio e compiendo mille altri incantesimi, parve ad alcuni che quel freddo cadavere desse qualche segno di vita. Allora i partigiani di Simone si misero a gridare che Pietro doveva morire.
            Il Santo Apostolo rideva di quella impostura e, con modestia pregando tutti a voler tacere un momento, disse: “Se il morto è risuscitato, si alzi, cammini e parli; si resuscitatus est, surgat, ambulet, fabuletur. Non è vero che egli muova il capo o dia segno di vita, è la vostra fantasia che vi fa pensare così. Comandate a Simone che si allontani dal letto; e subito vedrete svanire dal morto ogni speranza di vita.[23]
            Così fu fatto, e colui che prima era estinto continuava a giacere come un sasso privo di spirito e di moto. Allora il Santo Apostolo si inginocchiò a poca distanza dal feretro e si mise a pregare fervorosamente il Signore, supplicandolo di glorificare il suo santo nome a confusione dei malvagi e a conforto dei buoni. Dopo breve orazione, rivolto al cadavere disse ad alta voce: “Giovane, alzati; Gesù Signore ti dà la vita e la salute.”
            Al comando di questa voce, a cui la morte era avvezza a obbedire, lo spirito tornò prontamente a vivificare quel freddo corpo; e perché non sembrasse un’illusione, si alzò in piedi, parlò, camminò e gli fu fatto prendere cibo. Anzi, Pietro lo prese per mano e vivo e sano lo restituì alla madre. Quella buona donna non sapeva come esprimere la sua gratitudine verso il Santo, e lo pregò umilmente di non voler lasciare la sua casa, perché non fosse abbandonato chi era risorto per le sue mani. San Pietro la confortò dicendo: “Noi siamo servi del Signore, egli lo ha risuscitato e non lo abbandonerà mai. Non temere per tuo figlio, poiché egli ha il suo custode.”
            Rimaneva ora che il mago fosse condannato a morte, e già una folla di popolo era pronta a lapidarlo sotto una pioggia di pietre, se l’Apostolo, mosso a pietà di lui, non avesse chiesto che fosse lasciato in vita, dicendo che per lui era castigo abbastanza grande la vergogna che aveva provato. “Viva pure”, disse, “ma viva per vedere crescere e dilatarsi sempre più il regno di Gesù Cristo.”

CAPO XXVII. Volo. — Caduta. — Disperata morte di Simone Mago. Anno di Gesù Cristo 67.
            Nella risurrezione di quel giovane, il mago Simone avrebbe dovuto ammirare la bontà e la carità di Pietro, e riconoscere al contempo l’intervento della potenza divina, quindi abbandonare il demonio cui da tanto tempo serviva; ma la superbia lo rese ancor più ostinato. Animato dallo spirito di Satana, s’infuriò più che mai e risolse a qualunque costo di vendicarsi contro San Pietro. Con questo pensiero si recò un giorno da Nerone e gli disse che era disgustato dei Galilei, cioè dei cristiani, che era deciso ad abbandonare il mondo e che, per dare a tutti una prova infallibile della sua divinità, voleva salire da sé stesso al Cielo.
            A Nerone piacque assai la proposta; e poiché desiderava trovare sempre nuovi pretesti per perseguitare i cristiani, fece avvisare San Pietro, il quale secondo lui passava per un grande conoscitore di magia, e lo sfidò a fare altrettanto e a dimostrare che Simone era un bugiardo; che se ciò non avesse fatto, sarebbe egli stesso giudicato bugiardo e impostore, e come tale condannato alla decapitazione. L’Apostolo, appoggiato alla protezione del Cielo, che non manca mai di venire in difesa della verità, accettò l’invito. San Pietro dunque, senza alcun soccorso umano, si armò dello scudo inespugnabile della preghiera. Ordinò anche a tutti i fedeli che con digiuno unissero le loro preghiere alle sue. Ordinò anche a tutti i fedeli che con digiuno universale e con preghiere continue invocassero la divina misericordia. Il giorno in cui si facevano queste pratiche religiose era sabato e di qui è venuto il digiuno del sabato, che ai tempi di S. Agostino si praticava ancora a Roma in memoria di questo avvenimento.
            Al contrario il Mago Simone tutto imbaldanzito per il favore promessogli dai suoi demoni, si apparecchiava ad ordire e terminare con loro la frode, e nella sua pazzia credeva di abbattere con questo colpo la Chiesa di Gesù Cristo. Venne il giorno fissato. Immensa folla di popolo era radunata in una gran piazza di Roma. Nerone stesso con tutta la corte, abbigliato di vesti lucenti di oro e di gemme, stava seduto sopra una tribuna sotto a ricchissimo padiglione mirando e confortando quel suo campione. Si fa profondo silenzio. Appare Simone vestito come se fosse un Dio ed fingendo tranquillità mostra sicurezza di portare vittoria. Mentre si diffondeva in pomposi discorsi, improvvisamente apparve in aria un carro di fuoco, (era tutto illusione diabolica e gioco di fantasia) e ricevuto dentro il mago alla vista di tutto il popolo, il demonio lo sollevò di terra, e lo trasportò su per l’aria. Già toccava le nubi e cominciava a dileguarsi dalla vista del popolo, il quale con gli occhi levati all’insù giubilando di meraviglia e battendo le palme gridava: Vittoria! miracolo! Gloria ed onore a Simone vero figlio degli Dei!
            Pietro in compagnia di S. Paolo, senz’alcuna ostentazione si inginocchia a terra e, con le mani levate al Cielo, fervorosamente prega Gesù Cristo che voglia venire in aiuto della sua Chiesa per fare trionfare la verità davanti a quel popolo illuso. Detto, fatto: la mano di Dio onnipotente, che aveva permesso agli spiriti maligni di sollevare Simone sino a quell’altezza, tolse loro all’improvviso ogni potere, così che privi di forza dovettero abbandonarlo nel più grave pericolo e nel colmo di sua gloria. Sottratta a Simone la virtù diabolica, abbandonato al peso del pingue suo corpo si rovesciò con rovinosa caduta, e piombò giù con tale impeto a terra che sfracellandosi tutte le membra, schizzò il sangue fino sul tribunale di Nerone. Tale caduta avvenne vicino a un tempio dedicato a Romolo, dove oggi esiste la chiesa dei santi Cosma e Damiano.
            L’infelice Simone avrebbe certamente dovuto perdere la vita se San Pietro non avesse invocato Dio a suo favore. Pietro, dice San Massimo, pregò il Signore di liberarlo dalla morte sia per far conoscere a Simone la debolezza dei suoi demoni, sia perché confessando la potenza di Gesù Cristo implorasse da Lui il perdono delle sue colpe. Ma colui che da lungo tempo faceva professione di disprezzare le grazie del Signore, era troppo ostinato per arrendersi anche in questo caso in cui Dio abbondava nella Sua misericordia. Simone, divenuto l’oggetto delle beffe di tutto il popolo, pieno di confusione, pregò alcuni suoi amici di portarlo via di lì. Portato in una casa vicina, sopravvisse ancora qualche giorno; finché, oppresso dal dolore e dalla vergogna, si appigliò al disperato partito di togliersi quei miseri avanzi di vita e, gettandosi giù da una finestra, si diede così volontariamente la morte[24].
            La caduta di Simone è viva immagine della caduta di quei cristiani i quali, o rinnegando la religione cristiana o trascurando di osservarla, cadono dal grado sublime di virtù cui la fede cristiana li ha innalzati, e rovinano miseramente nei vizi e nei disordini, con disonore del carattere cristiano e della religione che professano e con danno talvolta irreparabile della loro anima.

CAPO XXVIII. Pietro è cercato a morte. — Gesù gli appare e gli predice imminente il martirio. — Testamento del santo Apostolo.
            Il supplizio toccato a Simone Mago, mentre rendeva evidente la vendetta del Cielo, contribuì assai ad accrescere il numero dei cristiani. Nerone, peraltro, vedendo una moltitudine di persone abbandonare il profano culto degli Dei per professare la religione predicata da San Pietro, ed essendosi accorto che il Santo Apostolo con la predicazione era riuscito a guadagnare persone da lui molto favorite, e quelle stesse che in corte erano strumento d’iniquità, sentì raddoppiare la rabbia contro i cristiani e prese a incrudelire vieppiù contro di loro.
            In mezzo al furore di quella persecuzione, Pietro era instancabile nell’animare i fedeli ad essere costanti nella fede fino alla morte e nel convertire nuovi Gentili, sicché il sangue dei martiri, ben lungi dall’atterrire i cristiani e diminuirne il numero, era un seme fecondo che ogni giorno li moltiplicava. Solamente gli Ebrei di Roma, forse stimolati dagli Ebrei della Giudea, si mostravano ostinati. Perciò Dio, volendo venire all’ultima prova per vincere la loro ostinazione, fece pubblicamente predire dal suo Apostolo che fra breve avrebbe suscitato un re contro quella nazione, il quale, dopo averla ridotta alle più gravi angustie, avrebbe livellato al suolo la loro città, costringendone i cittadini a morire di fame e di sete. Allora, diceva loro, si vedranno gli uni mangiare i corpi degli altri e consumarsi a vicenda, finché, venuti in preda ai vostri nemici, vedrete sotto i vostri occhi straziare crudelmente le vostre mogli, le vostre figlie e i vostri fanciulli percossi e messi a morte sopra le pietre; le vostre stesse contrade saranno dal ferro e dal fuoco ridotte in desolazione e rovina. Quelli poi che sfuggiranno alla comune sciagura saranno venduti come animali da soma e soggetti a perpetua servitù. Tali mali verranno sopra di voi, o figli di Giacobbe, perché avete gioito della morte del Figlio di Dio ed ora rifiutate di credere in Lui[25].
            Ma sapendo bene i ministri della persecuzione che si sarebbero affaticati inutilmente se non toglievano di mezzo il capo dei cristiani, si volsero contro di lui per averlo nelle mani e metterlo a morte. I fedeli, considerando la perdita che avrebbero fatto con la sua morte, studiavano ogni mezzo per impedire che egli cadesse nelle mani dei persecutori. Quando poi si accorsero che era impossibile che potesse più a lungo restare nascosto, lo consigliarono ad uscire da Roma e ritirarsi in un luogo dove fosse meno conosciuto. Pietro si rifiutava a tali consigli suggeriti dall’amor filiale e anzi ardentemente desiderava la corona del martirio. Ma, continuando i fedeli a pregarlo di far ciò per il bene della Chiesa di Dio, cioè cercare di conservarsi in vita per istruire, confermare nella fede i credenti e guadagnare anime a Cristo, infine egli acconsentì e stabilì di partire.
            Di notte prese congedo dai fedeli per sfuggire al furore degli idolatri. Ma giunto fuori della città, per la Porta Capena, detta oggi Porta San Sebastiano, gli apparve Gesù Cristo nello stesso sembiante in cui l’aveva conosciuto e per più anni frequentato. L’Apostolo, benché sorpreso da questa inaspettata apparizione, nondimeno secondo la sua prontezza di spirito si fece animo di interrogarlo dicendo: “O Signore, dove andate?” Domine, quo vadis? Rispose Gesù: “Io vengo a Roma per essere di nuovo crocifisso.” Ciò detto, disparve.
            Da quelle parole Pietro comprese che era imminente la propria crocifissione, poiché sapeva che il Signore non poteva più essere nuovamente crocifisso per sé medesimo, ma doveva essere crocifisso nella persona del suo Apostolo. In memoria di questo avvenimento, fuori della Porta San Sebastiano fu edificata una chiesa detta ancora oggi “Domine, quo vadis”, oppure “Santa Maria ad Passus”, ossia Santa Maria ai Piedi, perché il Salvatore in quel luogo, dove parlò a San Pietro, lasciò impressa su una pietra la sacra impronta dei suoi piedi. Questa pietra si conserva tuttora nella chiesa di San Sebastiano.
            Dopo quell’avviso, San Pietro tornò indietro e, interrogato dai cristiani di Roma sulla ragione del suo così pronto ritorno, raccontò loro ogni cosa. Nessuno ebbe più alcun dubbio che Pietro sarebbe stato incarcerato ed avrebbe glorificato il Signore dando per Lui la vita. Nel timore pertanto di cadere da un momento all’altro nelle mani dei persecutori e che in quei calamitosi momenti la Chiesa rimanesse priva del suo supremo pastore, Pietro pensò di nominare alcuni vescovi più zelanti, affinché uno di loro subentrasse nel Pontificato dopo la sua morte. Furono questi San Lino, San Cleto, San Clemente e Sant’Anacleto, i quali lo avevano già aiutato nell’ufficio di suoi vicari nei vari bisogni della Chiesa.
            Non contento San Pietro di aver così provveduto ai bisogni della Sede Pontificia, volle altresì indirizzare uno scritto a tutti i fedeli, come per suo testamento, cioè una seconda lettera. Questa lettera è diretta al corpo universale dei cristiani, nominando in particolare quelli del Ponto, della Galazia e di altre province dell’Asia cui aveva predicato.
            Dopo aver di nuovo accennato alle cose già dette nella sua prima lettera, raccomanda di avere sempre gli occhi su Gesù Salvatore, guardandosi dalla corruzione di questo secolo e dai piaceri mondani. Per risolverli poi a tenersi fermi nella virtù, mette loro in vista i premi che il Salvatore tiene preparati nel regno eterno del Cielo; e al contempo richiama alla memoria i terribili castighi con i quali suole Dio punire i peccatori bene spesso anche in questa vita, ma infallibilmente nell’altra con la pena eterna del fuoco. Portandosi poi col suo pensiero nel futuro, predice gli scandali che molti uomini perversi avrebbero suscitato, gli errori che avrebbero disseminato e le astuzie delle quali si sarebbero serviti per propagarli. “Ma sappiate”, egli dice, “che costoro, a somiglianza di fonti senz’acqua e di nebbie oscure agitate dai venti, sono tutti impostori e seduttori delle anime, che promettono una libertà, la quale va sempre a finire in una miserabile schiavitù, in cui si trovano avvolti essi stessi; dopo di che a loro è riservato il giudizio, la perdizione e il fuoco.”
            “Per me”, egli continua, “sono certo, secondo la rivelazione avuta da Nostro Signore Gesù Cristo, che fra poco tempo devo abbandonare questo tabernacolo del mio corpo; ma non mancherò di fare in modo che anche dopo la mia morte abbiate i mezzi per richiamare tali cose alla vostra mente. Siate certi, le promesse del Signore non mancheranno mai: verrà il giorno estremo in cui cesseranno di essere i cieli, gli elementi saranno disciolti o divorati dal fuoco, sarà consumata la terra con tutto ciò che contiene. Occupati dunque nelle opere di pietà, aspettiamo con pazienza e con piacere la venuta del giorno del Signore e, secondo le sue promesse, viviamo in modo da poter passare alla contemplazione dei cieli e al possesso di un’eterna gloria.”
            Di poi li esorta a conservarsi mondi dal peccato e a credere costantemente che la lunga pazienza che usa spesso il Signore con noi è per il nostro comune bene. Quindi raccomanda caldamente di non interpretare le Sacre Scritture con privato intendimento di ciascuno, e nota particolarmente le lettere di San Paolo, che egli chiama suo fratello carissimo, di cui dice così: “Gesù Cristo differisce la sua venuta per darvi tempo a convertirvi; le quali cose vi scrisse Paolo, nostro carissimo fratello, secondo la sapienza che gli è stata data da Dio. Così fa anche in tutte le sue lettere, ove egli parla di queste medesime cose. State però bene attenti che in queste lettere vi sono alcune cose difficili da intendere, le quali gli uomini ignoranti e instabili spiegano in senso perverso, come fanno anche delle altre parti della Sacra Scrittura, di cui si abusano a loro propria perdizione.” Le quali parole meritano di essere attentamente considerate dai protestanti, i quali vogliono affidare l’interpretazione della Bibbia a qualsiasi uomo del popolo, comunque sia rozzo e ignorante. A questi si può applicare quanto dice San Pietro, cioè che la capricciosa spiegazione della Bibbia riuscì a loro propria perdizione: ad suam ipsorum perditionem[26].

CAPO XXIX. San Pietro in prigione converte Processo e Martiniano. — Suo martirio[27]. Anno dell’Era Volgare 67.
            Finalmente era giunto il momento in cui si dovevano compiere le predizioni fatte da Gesù Cristo riguardo alla morte del suo Apostolo. Tante fatiche meritavano di essere coronate dalla palma del Martirio. Mentre un giorno si sentiva tutto ardere d’amore verso la persona del Divino Salvatore e vivamente desiderava potersi quanto prima congiungere a Lui, viene sorpreso da persecutori che subito lo legano e lo conducono in una profonda e tetra prigione detta Mamertina, dove erano soliti racchiudere i più famosi scellerati[28]. La divina provvidenza dispose che Nerone dovesse per affari di governo allontanarsi qualche tempo da Roma; così San Pietro rimase circa nove mesi in prigione. Ma i veri servi del Signore sanno promuovere la gloria di Dio in ogni tempo e in ogni luogo.
            Nell’oscurità della prigione, Pietro, esercitando le cure del suo apostolato e specialmente il ministero della divina parola, ebbe la consolazione di conquistare a Gesù Cristo i due custodi della prigione, di nome Processo e Martiniano, con altre 47 persone che si trovavano rinchiuse nel medesimo luogo.
            È fama, confermata dall’autorità di accreditati scrittori, che non essendoci là acqua per amministrare il battesimo a quei nuovi convertiti, Dio fece scaturire in quell’istante una fonte perenne, le cui acque continuano a scaturire ancora oggi. I viaggiatori che vanno a Roma si premurano di visitare la prigione Mamertina, che è ai piedi del Campidoglio, nel cui fondo scaturisce tuttora la prodigiosa fontana. Quell’edificio, tanto nella parte sotterranea quanto in quella che si eleva sopra terra, è oggetto di grande venerazione presso i cristiani.
            I ministri dell’imperatore tentarono più volte di vincere la costanza del santo Apostolo; ma, rendendosi inutile ogni loro sforzo, e per di più vedendo che, anche in catene, non cessava di predicare Gesù Cristo e così accrescere il numero dei cristiani, decisero di farlo tacere con la morte. Era un mattino quando Pietro vide aprirsi la prigione. Entrano i carnefici, lo legano strettamente e gli annunciano che doveva essere condotto al supplizio. Oh! Allora il suo cuore fu pieno di gioia. “Io godo”, esclamava, “perché presto vedrò il mio Signore. Presto andrò a trovare Colui che ho amato e da cui ho ricevuto tanti segni d’affetto e di misericordia.”
            Prima di essere condotto al supplizio, il santo Apostolo, secondo le leggi romane, dovette sottoporsi a dolorosa flagellazione; la quale cosa gli causò grande gioia, perché così diventava sempre più fedele seguace del suo divino Maestro, il quale prima di essere crocifisso fu sottoposto a simile pena.
            Anche la strada da lui percorsa andando al supplizio merita di essere notata. I Romani, conquistatori del mondo, dopo aver soggiogato qualche nazione, preparavano la pompa del trionfo su un magnifico carro nella valle o meglio nella pianura ai piedi del colle Vaticano. Di là, per la via sacra, detta anche trionfale, i vincitori ascendevano trionfanti al Campidoglio. San Pietro, dopo aver sottomesso il mondo al soave giogo di Cristo, viene anch’egli tratto fuori dal carcere e per la medesima strada condotto al luogo dove si preparavano quelle grandi solennità.
            Così celebrava anche la cerimonia del trionfo ed offriva sé stesso in olocausto al Signore, fuori della porta di Roma, come fuori di Gerusalemme era stato crocifisso il suo divino Maestro.
            Tra il colle Gianicolo[29] e il Vaticano vi era una valle dove, raccogliendosi le acque, si formava una palude. Sull’altra vetta del monte che guardava la palude, era il luogo destinato al martirio del più grande uomo del mondo. L’intrepido atleta, quando giunse al luogo del patibolo e vide la croce sulla quale era condannato a morire, pieno di coraggio e di gioia esclamò: “Salve, o croce, salvezza delle nazioni, stendardo di Cristo, o carissima croce, salve, o conforto dei cristiani. Tu sei quella che mi assicuri la via del cielo, sei quella che mi assicuri l’entrata nel regno della gloria. Tu, che un tempo vidi rosseggiante del santissimo sangue del mio Maestro, oggi sii il mio aiuto, il mio conforto, la mia salvezza.”[30]
            Tuttavia San Pietro giudicava per sé un onore troppo grande il fare una morte simile a quella del suo divino Maestro; quindi pregò i suoi crocifissori che per grazia volessero farlo morire con il capo all’ingiù. Siccome tale maniera di morire veniva a farlo patire di più, così la grazia gli fu facilmente concessa. Ma il suo corpo naturalmente non poteva tenersi sulla croce se le mani e i piedi fossero stati unicamente conficcati con i chiodi; perciò le sue sante membra furono strette con funi a quel duro tronco.
            Era stato accompagnato al luogo del supplizio da una turba infinita di cristiani e di infedeli. Quell’uomo di Dio, in mezzo agli stessi tormenti, quasi dimentico di sé stesso, consolava i primi perché non si affliggessero per lui; si adoperava per salvare i secondi esortandoli a lasciare il culto degli idoli e abbracciare il Vangelo, affinché potessero conoscere l’unico vero Dio, creatore di tutte le cose. Il Signore, che dirigeva sempre lo zelo di sì fedele ministro, lo consolò in quelle ultime agonie con la conversione di un gran numero di idolatri d’ogni condizione e d’ogni sesso[31].
            Mentre San Pietro pendeva in croce, Dio volle altresì consolarlo con una celeste visione. Gli apparvero due angeli con due corone di gigli e di rose, per indicargli che i suoi patimenti erano giunti al termine e che egli doveva essere coronato di gloria nella beata eternità[32].
            San Pietro riportava sulla croce così nobile trionfo il 29 giugno, l’anno settantesimo di Gesù Cristo e sessantasettesimo dell’era volgare. Nello stesso giorno in cui San Pietro moriva in croce, San Paolo, sotto la spada dello stesso tiranno, glorificava Gesù Cristo essendo stato decapitato. Giorno veramente glorioso per tutte le Chiese della Cristianità, ma specialmente per quella di Roma, la quale dopo essere stata fondata da Pietro e lungamente nutrita con la dottrina di entrambi questi Principi degli Apostoli, è ora consacrata dal loro martirio, dal loro sangue, e sublimata sopra tutte le chiese del mondo.
            Così, mentre era imminente la distruzione della città santa di Gerusalemme, e doveva essere arso il suo tempio, Roma, che era la capitale e la padrona di tutte le nazioni, diventava per mezzo di quei due Apostoli la Gerusalemme della nuova alleanza, la città eterna, e tanto più gloriosa della vecchia Gerusalemme, quanto la grazia del Vangelo e il sacerdozio della nuova legge sono più grandi del sacerdozio, di tutte le cerimonie e figure della legge antica.
            San Pietro fu martirizzato all’età di 86 anni, dopo un pontificato di 35 anni, 3 mesi e 4 giorni. Tre anni li trascorse specialmente in Gerusalemme. Tenne poi la sua cattedra sette anni in Antiochia, il rimanente a Roma.

CAPO XXX. Sepolcro di San Pietro. — Attentato contro il suo corpo.
            Appena San Pietro emise l’ultimo respiro, molti cristiani partirono dal luogo del supplizio piangendo la morte del supremo Pastore della Chiesa. Peraltro, San Lino, suo discepolo ed immediato successore, due sacerdoti fratelli San Marcello e Sant’Apuleio, Sant’Anacleto ed altri fervorosi cristiani si raccolsero intorno alla croce di San Pietro. Quando poi i carnefici si allontanarono dal luogo del martirio, essi deposero il corpo del santo Apostolo, lo unsero con preziosi aromi, lo imbalsamarono e lo portarono a seppellire vicino al Circo, ossia presso gli orti di Nerone sul monte Vaticano, propriamente nel luogo ove oggi tuttora si venera. Il suo corpo fu posto in un sito dove erano già stati sepolti molti martiri, discepoli dei santi Apostoli e primizie della Chiesa cattolica, i quali per ordine di Nerone erano stati esposti alle fiere, o crocifissi, o bruciati, o uccisi a forza di inauditi tormenti. San Anacleto aveva colà eretto un piccolo cimitero, in un angolo del quale innalzò una specie di oratorio ove riposa il corpo di San Pietro. Questo sito divenne celebre e tutti i papi successori di San Pietro dimostrarono sempre vivo desiderio di essere ivi sepolti.
            Poco dopo la morte di San Pietro, vennero a Roma alcuni cristiani dall’Oriente, i quali, reputando essere per loro un gran tesoro possedere le reliquie del santo Apostolo, risolsero di farne acquisto. Ma, sapendo che sarebbe stato inutile cercare di comprarle con denaro, pensarono di rubarle, quasi come cosa loro propria, e riportarle in quei luoghi da dove il santo era venuto. Andarono perciò coraggiosamente al sepolcro, estrassero di là il corpo e lo portarono alle catacombe, che sono un luogo scavato sottoterra, detto attualmente di San Sebastiano, con l’intento di mandarlo in Oriente appena si fosse presentata l’opportunità.
            Dio, peraltro, che aveva chiamato quel grande Apostolo a Roma perché la rendesse gloriosa col martirio, dispose anche che il suo corpo fosse conservato in quella città e rendesse quella chiesa la più gloriosa del mondo. Pertanto, quando quegli Orientali andarono per compiere il loro disegno, si sollevò un temporale con un turbine così gagliardo, che per il rumoreggiare dei tuoni e per il saettare dei fulmini furono costretti ad interrompere la loro opera.
            Si accorsero dell’accaduto i cristiani di Roma, ed in gran folla, usciti dalla città, ripresero il corpo del santo Apostolo e lo portarono nuovamente sul monte Vaticano da dove era stato tolto[33].
            Nell’anno 103, San Anacleto, divenuto Sommo Pontefice, vedendo alquanto calmate le persecuzioni contro i cristiani, a sue spese innalzò un tempietto, in modo che racchiudesse le reliquie e tutto il sepolcro lì esistente. Questa è la prima chiesa dedicata al Principe degli Apostoli.
            Questo sacro deposito rimase esposto alla venerazione dei fedeli fino alla metà del terzo secolo. Soltanto nell’anno 221, per la ferocia con cui erano perseguitati i cristiani, temendo che i corpi dei santi Apostoli Pietro e Paolo fossero profanati dagli infedeli, furono trasportati dal Pontefice nelle catacombe dette Cimitero di San Callisto, in quella parte che oggi si chiama cimitero di San Sebastiano. Ma nell’anno 255 il papa San Cornelio, a preghiera ed istanza di Santa Lucina e di altri cristiani, riportò il corpo di San Paolo sulla via di Ostia, nel sito dove era stato decapitato. Il corpo di San Pietro fu di nuovo trasportato e riposto nella primitiva tomba ai piedi del colle Vaticano.

CAPO XXXI. Tomba e Basilica di San Pietro in Vaticano.
            Nei primi secoli della Chiesa i fedeli per lo più non potevano recarsi alla tomba di San Pietro, se non con grave pericolo di essere accusati come cristiani e condotti davanti ai tribunali dei persecutori. Tuttavia vi fu sempre grande concorso di popolo, che dai più lontani paesi veniva ad invocare la protezione del Cielo alla tomba di San Pietro. Ma quando Costantino divenne padrone del Romano Impero e pose fine alle persecuzioni, allora ognuno poté liberamente mostrarsi seguace di Gesù Cristo, e la tomba di San Pietro divenne il santuario del mondo cristiano, dove da ogni angolo si veniva per venerare le reliquie del primo Vicario di Gesù Cristo. Lo stesso imperatore professava pubblicamente il Vangelo, e fra i molti segni che diede di attaccamento alla religione cattolica uno fu quello di aver fatto edificare varie chiese, e tra le altre quella in onore del Principe degli Apostoli; la quale perciò talora porta anch’essa il nome di Basilica Costantiniana, conosciuta più comunemente col nome di Basilica Vaticana.
            Pertanto, nell’anno 319, Costantino e per suo impulso e su invito di San Silvestro stabilì che il sito della nuova Chiesa fosse ai piedi del Vaticano, con il disegno che racchiudesse tutto il piccolo tempio edificato da San Anacleto e che fino a quell’epoca era stato oggetto della comune venerazione. Nel giorno in cui l’Imperatore Costantino voleva dare inizio alla santa impresa, depose sul luogo il diadema imperiale e tutte le regie insegne, quindi si prostrò a terra e sparse molte lacrime per devota tenerezza. Presa quindi la zappa si accinse a scavare con le proprie mani il terreno, dando così inizio allo scavo delle fondamenta della nuova basilica. Volle egli stesso formare il disegno e stabilire lo spazio che doveva abbracciare il nuovo tempio; e per animare a dare mano all’opera con alacrità, volle portare sulle proprie spalle dodici cofanetti di terra in onore dei dodici Apostoli. Allora fu dissotterrato il corpo di San Pietro, e alla presenza di molti fedeli e di molto clero fu collocato da San Silvestro in una grande cassa d’argento, con sopra un’altra cassa di bronzo dorato, piantata immobilmente nel suolo. L’urna che racchiudeva il sacro deposito era alta, larga e lunga cinque piedi; sopra fu posta una grande croce d’oro purissimo del peso di libbre centocinquanta, in cui erano incisi i nomi di Santa Elena e del suo figlio Costantino. Terminato quel maestoso edificio, preparata una cripta o camera sotterranea tutta ornata d’oro e di gemme preziose, circondata da una quantità di lampade d’oro e d’argento, vi collocò il prezioso tesoro: il capo di San Pietro. San Silvestro invitò molti vescovi; e i fedeli cristiani di ogni parte del mondo intervennero a questa solennità. Per incoraggiarli vie più aprì il tesoro della Chiesa, e concedette molte indulgenze. Il concorso fu straordinario; la solennità fu maestosa; era la prima consacrazione che si faceva pubblicamente con riti e cerimonie tali quali si praticano ancora oggidì nella consacrazione dei sacri edifici. La funzione si compiva nell’anno 324 al diciotto di novembre. L’urna di San Pietro così chiusa non si riaprì mai più, e fu sempre oggetto di venerazione presso tutta la cristianità. Costantino donò molte sostanze per il decoro e la conservazione di quell’augusto edificio. Tutti i sommi Pontefici gareggiarono per rendere glorioso il sepolcro del Principe degli Apostoli.
Ma tutte le cose umane si vanno consumando col tempo, e la basilica Vaticana nel secolo XVI si trovò in pericolo di rovinare. Perciò i Pontefici stabilirono di rifarla interamente. Dopo molti studi, dopo gravi fatiche e grandi spese si poté collocare la pietra fondamentale del nuovo tempio nell’anno 1506. Il grande papa Giulio II, nonostante la sua avanzata età e la profonda voragine in cui doveva discendere per giungere alla base del pilastro della cupola, volle tuttavia discendervi in persona per stabilirvi e collocare con solenne cerimonia la prima pietra. È difficile descrivere le fatiche, il lavoro, il denaro, il tempo, gli uomini che si impiegarono in questa meravigliosa costruzione.
            Il lavoro fu condotto a termine nello spazio di centoventi anni, e finalmente Urbano VIII, assistito da 22 cardinali e da tutte quelle dignità che sogliono prendere parte alle funzioni pontificie, consacrò solennemente la maestosa basilica il 18 novembre 1626, cioè nello stesso giorno in cui San Silvestro aveva consacrato l’antica basilica eretta da Costantino. In tutto questo tempo, in mezzo a tanti restauri e a tanti lavori di costruzione, le reliquie di San Pietro non subirono alcuna traslazione; né l’urna, né la sopracassa di bronzo furono smosse, neppure la cripta fu aperta. Il pavimento nuovo essendosi dovuto alquanto elevare sopra l’antico, fu disposto che esso racchiudesse la cappella primitiva e lasciasse così intatto l’altare consacrato da San Silvestro. A questo proposito si nota che, quando l’architetto Giacomo della Porta sollevava gli strati del pavimento intorno al vecchio altare per sovrapporvi il nuovo, vi scoprì la finestra che corrispondeva alla sacra urna. Calatovi dentro il lume, ravvisò la croce d’oro sovrappostavi da Costantino e da Sant’Elena sua madre. Fece subito di ogni cosa relazione al Papa, che nel 1594 era Clemente VIII, il quale in compagnia dei cardinali Bellarmino e Antoniano, si recò personalmente sul luogo e trovò quanto aveva riferito l’architetto. Il Pontefice non volle aprire né il sepolcro né l’urna; nemmeno acconsentì che alcuno si avvicinasse, anzi ordinò che l’apertura fosse chiusa con cementi. Da allora in poi non fu mai più né aperta la tomba, né alcuno si è più avvicinato a quelle reliquie venerande.
            I viaggiatori che si recano a Roma per visitare la grande basilica di San Pietro in Vaticano, al primo vederla restano come incantati; e i personaggi più celebri per ingegno e scienza, giunti nei loro paesi, non sanno darne se non una debole idea.
            Ecco quel tanto che si può con qualche facilità comprendere. Quella chiesa è abbellita dei marmi più squisiti che si siano potuti avere; la sua ampiezza e la sua elevazione giungono a un punto che sorprende l’occhio che la rimira; il pavimento, le mura, la volta sono ornati con tale maestria, che sembrano aver esausto tutti i ritrovati dell’arte. La cupola che, per così dire, sale fino alle nuvole, è un compendio di tutte le bellezze della pittura, della scultura e dell’architettura. Sopra la cupola, anzi sopra lo stesso cupolino, vi è una sfera o palla di bronzo dorato che, guardata da terra, sembra una pallottola da gioco; ma chi vi sale e vi penetra dentro vede un globo entro cui sedici persone possono comodamente stare sedute. In una parola, in questa basilica tutto è così bello, così raro e così ben lavorato che supera quanto si può immaginare nel mondo. Principi, re, monarchi e imperatori hanno contribuito ad ornare questo edificio meraviglioso, con magnifici doni da loro inviati alla tomba di San Pietro, e spesso da loro stessi portati colà dai più lontani paesi.
            Ed è appunto nel centro di un edificio così magnifico che riposano le preziose ceneri di un povero pescatore, di un uomo senza erudizione umana e senza ricchezze, la cui fortuna consisteva in una rete. E ciò fu voluto da Dio affinché gli uomini comprendano come Dio nella sua onnipotenza prende l’uomo più umile agli occhi del mondo per collocarlo sul trono glorioso a governare il suo popolo; comprenderanno anche quanto Egli onori, anche nella presente vita, i suoi servi fedeli, e si facciano così una qualche idea della gloria immensa riservata in Cielo a chi vive e muore nel suo divino servizio. Re, principi, imperatori, e i più grandi monarchi della terra sono venuti ad implorare la protezione di colui che fu tolto da una barca per essere fatto pastore supremo della Chiesa; gli eretici e gli infedeli stessi furono costretti a rispettarlo. Dio avrebbe potuto scegliere il supremo pastore della sua Chiesa fra i più grandi e i più sapienti della terra; ma allora si sarebbero forse attribuite alla loro sapienza e potenza quelle meraviglie, che Dio voleva che fossero interamente riconosciute venire dalla sua onnipotente mano.
            Solo in rarissimi casi i papi hanno permesso che le reliquie di questo grande protettore di Roma fossero trasportate altrove; perciò pochi luoghi della cristianità possono vantare di possederne: tutta la gloria è in Roma.
            Chi mai volesse scrivere i molti pellegrinaggi ivi fatti in ogni tempo, da tutte le parti del mondo e da ogni ceto di persone, la moltitudine di grazie ivi ricevute, gli strepitosi miracoli ivi operati, dovrebbe farne molti e grossi volumi.
            Intanto noi, compresi da sentimenti di sincera gratitudine, come conclusione e frutto di quanto abbiamo detto intorno alle azioni del Principe degli Apostoli, innalziamo fervorose preghiere al trono dell’Altissimo Dio; preghiamo questo suo fortunato Vicario e martire glorioso, affinché si degni volger dal Cielo uno sguardo pietoso sui presenti bisogni della sua Chiesa, si degni proteggerla e sostenerla nei gagliardi assalti che ogni giorno deve sostenere da parte dei suoi nemici, ottenga forza e coraggio ai suoi successori, a tutti i vescovi, ed a tutti i sacri ministri, affinché tutti si rendano degni del ministero da Cristo loro affidato; cosicché, dal suo celeste aiuto confortati, possano riportare copiosi frutti delle loro fatiche, promovendo la gloria di Dio e la salvezza delle anime fra i popoli cristiani.
            Fortunati quei popoli che sono uniti a Pietro nella persona dei Papi suoi successori. Essi camminano per la strada della salvezza; mentre tutti coloro che si trovano fuori di questa strada e non appartengono all’unione di Pietro non hanno speranza alcuna di salvezza. Gesù Cristo stesso ci assicura che la santità e la salvezza non possono trovarsi se non nell’unione con Pietro, sopra cui poggia l’immobile fondamento della sua Chiesa. Ringraziamo di cuore la bontà divina che ci ha fatti figli di Pietro.
            E poiché egli ha le chiavi del regno dei Cieli, preghiamolo di essere nostro protettore nei presenti bisogni, e così nell’ultimo giorno della nostra vita egli si degni di aprirci la porta della beata eternità.

APPENDICE SULLA VENUTA DI S. PIETRO A ROMA
            Sebbene le discussioni su fatti particolari possano essere considerate estranee allo storico, tuttavia la venuta di S. Pietro a Roma, che è uno dei punti più importanti della storia ecclesiastica, essendo caldamente combattuta dagli eretici di oggi, mi sembra materia di tale importanza da non dover essere omessa.
            Ciò sembra tanto più opportuno perché i Protestanti da qualche tempo nei loro libri, giornali e conversazioni cercano di farne oggetto di ragionamento, sempre con lo scopo di metterla in dubbio e screditare la nostra santa religione cattolica. Ciò essi fanno per diminuire, anzi per distruggere, se potessero, l’autorità del Papa poiché, dicono, se Pietro non è venuto a Roma, i Pontefici Romani non sono suoi successori, e perciò non eredi dei suoi poteri. Ma gli sforzi degli eretici mostrano solo quanto sia potente contro di loro l’autorità del Papa; per liberarsi della quale non si vergognano di fabbricare menzogne, pervertendo e negando la storia. Noi crediamo che questo solo fatto varrà a far conoscere la grande malafede che regna presso costoro; poiché mettere in dubbio la venuta di S. Pietro a Roma è lo stesso che dubitare se vi sia luce quando il sole risplende in pieno mezzogiorno.
            Ritengo opportuno far notare qui che fino al secolo quattordicesimo, nello spazio di circa millequattrocento anni, non si trova un autore né cattolico né eretico, il quale abbia mosso il minimo dubbio sulla venuta di S. Pietro a Roma; e noi invitiamo gli avversari a citarne uno solo. Il primo che abbia sollevato questo dubbio fu Marsilio da Padova, che vendette la sua penna all’imperatore Ludovico il Bavaro; e tutti e due, uno con le armi, l’altro con perverse dottrine, si scatenarono contro il primato del Sommo Pontefice. Tale dubbio peraltro fu da tutti considerato come ridicolo, e svanì con la morte del suo autore.
            Duecento anni dopo, nel sedicesimo secolo, sorsero gli spiriti turbolenti di Lutero e di Calvino, e dalla scuola di costoro uscirono parecchi, i quali, superando la malafede degli stessi loro maestri, cercarono di suscitare lo stesso dubbio per meglio ingannare i semplici e gli ignoranti. Chi è un po’ pratico di storia sa quale credito meriti colui che, appoggiato unicamente al suo capriccio, si mette a contraddire un fatto riferito con unanime consenso dagli scrittori di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Questa sola osservazione basterebbe da sé a rendere manifesta l’insussistenza di tale dubbio; tuttavia, affinché il lettore conosca gli autori che con la loro autorità vengono a confermare quanto asseriamo, ne citeremo alcuni. Poiché i protestanti ammettono l’autorità della chiesa dei primi quattro secoli, noi, desiderosi di compiacerli in tutto ciò che è possibile, ci serviremo di scrittori che siano vissuti in quel tempo. Alcuni di essi asseriscono che Pietro fu a Roma, ed altri attestano che vi fondò la sua sede episcopale e vi subì il martirio.
            S. Clemente Papa, discepolo di San Pietro e suo successore nel pontificato, nella sua prima lettera scritta ai Corinzi, dà come pubblica e certa la venuta di San Pietro a Roma, la sua lunga dimora lì, il martirio sofferto lì insieme con S. Paolo. Ecco le sue parole: «L’esempio di questi uomini, i quali, vivendo santamente, aggregarono una gran moltitudine di eletti e soffrirono molti supplizi e tormenti, è rimasto ottimo presso di noi.»
            S. Ignazio martire, anch’egli discepolo di S. Pietro e suo successore nel vescovado di Antiochia, venendo condotto a Roma per essere lì martirizzato, scrive ai Romani pregandoli che non vogliano impedire il suo martirio e dice:
            «Vi prego, non vi comando, come hanno fatto Pietro e Paolo: Non ut Petrus et Paulus praecipio vobis
            Lo stesso afferma Papia, coetaneo dei suddetti e discepolo di S. Giovanni Evangelista, come si può vedere in Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica, libro 2, capitolo 15.
            A poca distanza da costoro abbiamo le illustri testimonianze di S. Ireneo e di S. Dionigi, i quali hanno lungamente conosciuto e conversato con i discepoli degli Apostoli, ed erano informatissimi delle cose avvenute in seno alla Chiesa di Roma.
            S. Ireneo, vescovo di Lione e morto martire nell’anno 202, attesta che S. Matteo divulgò il suo Vangelo agli Ebrei nella loro propria lingua, mentre Pietro e Paolo predicavano a Roma e vi stabilivano la Chiesa: Petro et Paulo Romae evangelizantibus et constituentibus Ecclesiam[34]. Dopo tali testimonianze non sappiamo come osino gli eretici negare la venuta di S. Pietro a Roma. Quasi nello stesso tempo fiorirono Clemente Alessandrino, S. Caio prete di Roma, Tertulliano di Cartagine, Origene, S. Cipriano e moltissimi altri, i quali vanno d’accordo nel riferire il gran concorso dei fedeli alla tomba di S. Pietro martirizzato a Roma; e tutti, pieni di venerazione per il primato che godeva la Chiesa di Roma, dicono che da essa si devono attendere gli oracoli della eterna salvezza, perché Gesù Cristo ha promesso la conservazione della fede al suo fondatore S. Pietro[35].
            E se da questi scrittori passiamo ai luminari della Chiesa, S. Pietro di Alessandria, S. Asterio Amaseno, S. Ottato Milevitano, S. Ambrogio, S. Giovanni Crisostomo, S. Epifanio, S. Massimo Torinese, S. Agostino, S. Cirillo d’Alessandria ed altri molti, troviamo le loro testimonianze pienamente unanimi e concordi sulla verità che asseriamo; cioè che Pietro fu a Roma e vi subì il martirio. S. Ottato, vescovo di Milevi in Africa, scrivendo contro i Donatisti dice: «Non puoi negare, tu lo sai, che nella città di Roma da Pietro fu tenuta da principio la cattedra episcopale.» Per amor di brevità riportiamo solamente le parole del Dottore S. Girolamo, che fiorì nel IV secolo della Chiesa. «Pietro, principe degli Apostoli,» egli scrive, «va a Roma nel secondo anno dell’imperatore Claudio, e lì tenne la cattedra sacerdotale fino all’ultimo anno di Nerone. Seppellito a Roma nel Vaticano, presso la Via Trionfale, è celebre per la venerazione che gli rende l’universo[36].» Si aggiungano i molti martirologi delle diverse Chiese latine, che dalla più remota antichità sono pervenuti fino a noi, i diversi Calendari degli Etiopi, degli Egiziani, dei Siri, i menologi dei Greci; le stesse liturgie di tutte le Chiese cristiane sparse nei vari paesi della cristianità; dappertutto si trova registrata la verità di questo racconto.
            Che altro? Gli stessi protestanti alquanto celebri in dottrina, come il Gave, Ammendo, Pearsonio, Grozio, Usserio, Biondello, Scaligero, Basnagio e Newton con moltissimi altri, concordano che la venuta del principe degli Apostoli a Roma e la sua morte avvenuta in quella metropoli dell’universo siano un fatto incontestabile.
            È vero che né gli Atti degli Apostoli, né S. Paolo nella sua lettera ai Romani fanno menzione di questo fatto. Ma oltre che scrittori accreditati riconoscono in questi autori abbastanza chiaramente accennato tale avvenimento[37], noi osserviamo che l’autore degli Atti degli Apostoli non aveva lo scopo di scrivere le azioni di S. Pietro né degli altri Apostoli, ma soltanto quelle di S. Paolo suo compagno e maestro; e ciò quasi per fare l’apologia di questo Apostolo delle genti fra tutti il più disprezzato e calunniato dagli Ebrei. Quindi è che S. Luca, dopo aver narrato i principi della Chiesa dal capitolo XVI sino alla fine del suo libro, non scrive più di altri fuorché di Paolo e dei suoi compagni di missione. Anzi, nei suoi Atti Luca non ci narra nemmeno tutte le cose operate da Paolo, cose che sappiamo solamente dalle lettere di questo Apostolo. Infatti, ci parla egli forse dei tre naufragi sofferti dal suo maestro, della lotta che a Efeso ebbe a sostenere con le bestie, e di altre gesta di cui si fa cenno nella sua seconda lettera ai Corinzi e in quella ai Galati[38]? Ci parla forse S. Luca del martirio di Paolo, o anche solo di quelle cose che egli fece dopo la sua prima prigionia a Roma? Fa egli forse parola anche di una sola delle 14 lettere? Niente di tutto questo. Ora, quale meraviglia se lo stesso scrittore tacque molte cose operate da Pietro, tra cui la sua venuta a Roma?
            Quello che abbiamo detto sul silenzio di S. Luca vale per il silenzio di S. Paolo nella sua lettera ai Romani. Paolo, scrivendo ai Romani, non saluta Pietro; dunque, concludono i Protestanti, Pietro non fu mai a Roma. Quale stranezza di ragionamento! Tutt’al più si potrebbe dedurre che Pietro in quel tempo non si trovava a Roma; e non di più. E chi non sa che Pietro, mentre teneva la sede di Roma, se ne allontanava spesso per recarsi altrove a fondare altre Chiese nelle varie parti d’Italia? Non aveva egli fatto lo stesso quando teneva la sua sede a Gerusalemme ed ad Antiochia? Fu appunto in quell’epoca che egli viaggiò in varie parti della Palestina, e poi nell’Asia Minore, nella Bitinia, nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, ai quali tutti indirizzò specialmente la sua prima lettera. Quindi non è da supporre che egli non facesse altrettanto in Italia, la quale gli offriva una copiosissima messe. Del resto, che Pietro in Italia non si occupasse solamente di Roma, lo sappiamo da Eusebio, storico del IV secolo, il quale, scrivendo delle principali cose da lui operate, così si esprime: «Delle cose fatte da Pietro, le prove sono quelle medesime Chiese che poco dopo rifulsero, quale è per esempio la Chiesa di Cesarea in Palestina, quella di Antiochia in Siria e la Chiesa della stessa città di Roma. Perché è stato tramandato ai posteri che lo stesso Pietro costituì queste Chiese e tutte le circostanti. E così anche quelle dell’Egitto e della stessa Alessandria, benché queste non per sé stesso, ma per mezzo di Marco suo discepolo, mentre egli si occupava nell’Italia e tra le genti circostanti.[39]»
            Paolo dunque nella sua lettera ai Romani non saluta Pietro, perché sapeva che in quel tempo egli forse non si trovava a Roma. Certamente, se Pietro vi si fosse trovato, avrebbe potuto egli stesso comporre la questione sorta tra quei fedeli, la quale diede occasione a Paolo di scrivere la celebre sua lettera.
            E poi, anche se Pietro si fosse trovato in città, ben si può dire che Paolo nella sua lettera non lasciò ai fedeli di salutarlo insieme con gli altri, perché lo fece salutare a parte dal latore della medesima, o gli scrisse individualmente come usiamo noi tuttora con le persone di riguardo. Del resto, se il non aver Paolo, scrivendo ai Romani, fatto salutare Pietro provasse che Pietro non fu mai a Roma, allora dovremmo anche dire che S. Giacomo Minore non fu mai vescovo di Gerusalemme, perché Paolo, scrivendo agli Ebrei, non lo saluta affatto. Ora, tutta l’antichità proclama S. Giacomo vescovo di Gerusalemme. Nulla dunque conclude il silenzio di Paolo contro la venuta di S. Pietro a Roma.
Aggiungiamo: se dal silenzio della Sacra Scrittura riguardo alla venuta di S. Pietro a Roma si potesse ragionevolmente inferire che Pietro non è venuto a Roma, allora si potrebbe anche argomentare così: la Santa Scrittura non dice che S. Pietro sia morto; dunque S. Pietro è ancora vivo, e voi protestanti cercatelo in qualche angolo della terra.
            Vi è poi una ragione del silenzio della Sacra Scrittura sulla venuta e morte di S. Pietro a Roma, e non vogliamo tacerla. Che Pietro sia il capo della Chiesa, il pastore supremo, il maestro infallibile di tutti i fedeli, e che queste sue prerogative dovessero tramandarsi ai suoi successori fino alla fine del mondo, questo è dogma di fede, e doveva perciò essere o per mezzo della Sacra Scrittura o per mezzo della Tradizione divina rivelato, come fu; ma che egli sia venuto e morto a Roma è un fatto storico, un fatto che si poteva vedere con gli occhi, toccare con le mani; e quindi non era necessaria una testimonianza della Sacra Scrittura per accertarlo, bastando a ciò quelle prove che annunciano e accertano all’uomo tutti gli altri fatti. I protestanti che pretendono di negare la venuta di S. Pietro a Roma perché non si può provare con argomenti biblici cadono nel ridicolo. Che direbbero essi stessi di colui che negasse la venuta e la morte dell’imperatore Augusto nella città di Nola perché la Scrittura non lo dice? Se vogliamo fermarci su questo silenzio degli Atti degli Apostoli e della lettera di S. Paolo, diciamo che ciò non prova né per noi né per i protestanti. Perché la sana logica e la semplice ragione naturale ci insegnano che, quando si cerca la verità di un fatto taciuto da un autore, si deve cercare presso altri a cui spetta il parlarne. Cosa che noi abbiamo fatto abbondantemente.
            Neppure ignoriamo che Giuseppe Flavio non parla di questa venuta di S. Pietro a Roma; come neppure parla di S. Paolo. Ma che importa a lui di parlare dei cristiani? Il suo scopo era di scrivere la storia del popolo ebreo e della guerra giudaica, e non i fatti particolari avvenuti altrove. Egli parla sì di Gesù Cristo, di S. Giovanni Battista, di S. Giacomo, la cui morte è avvenuta in Palestina; ma parla forse di S. Paolo, di S. Andrea o degli altri Apostoli, che furono coronati del martirio fuori della Palestina? E non dice egli stesso di voler passare sotto silenzio molti fatti avvenuti ai suoi tempi[40]?
            E poi non è una follia fidarsi più di un ebreo che non parla, che dei primi cristiani i quali proclamano tutti a una voce S. Pietro morto a Roma, dopo avervi dimorato molti anni?
            Non vogliamo neppure omettere la difficoltà che taluno solleva sul disaccordo degli scrittori nel fissare l’anno della venuta di S. Pietro a Roma. Perché ai nostri tempi gli eruditi vanno comunemente d’accordo nella cronologia da noi seguita. Ma noi diciamo che quel disaccordo degli scrittori antichi dimostra la verità del fatto: dimostra che uno scrittore non ha copiato dall’altro, che ciascuno si serviva di quei documenti o di quelle memorie che aveva nei rispettivi paesi e che erano pubblicamente conosciuti come certi; né deve sorprenderci tal disaccordo cronologico (che è di uno o due anni più o meno) in quei tempi remoti in cui ogni nazione aveva un modo proprio di computare gli anni. Ma tutti questi autori riferiscono con franchezza tale venuta di S. Pietro a Roma e ne accennano le minute circostanze riguardanti la sua dimora e morte in quella città.
            Soggiungono ancora gli avversari contro la venuta di S. Pietro a Roma: dalla prima lettera di S. Pietro ai fedeli dell’Asia si ricava che egli fu a Babilonia. Così infatti egli si esprime nei suoi saluti: «Vi saluta la Chiesa che è raccolta in Babilonia, e Marco mio figlio». Dunque è impossibile la sua venuta a Roma. Cominciamo a dire che, anche se per Babilonia, di cui parla Pietro, si intendesse la metropoli dell’Assiria, tuttavia non si potrebbe ancora inferire che egli non abbia potuto venire, e non sia venuto a Roma. Assai lungo fu il suo pontificato, e i critici concordano nel dire che la suddetta lettera fu scritta prima dell’anno 43, o in quel torno. Difatti egli saluta ancora i fedeli a nome di Marco, il quale sappiamo da Eusebio essere stato inviato da Pietro a fondare la Chiesa di Alessandria nell’anno 43 di Gesù Cristo. Risulta perciò che Pietro, dalla data della sua lettera fino alla sua morte, ebbe per lo meno ancora 24 anni di vita. In così lungo intervallo di tempo non avrebbe potuto fare il viaggio a Roma?
            Ma abbiamo un’altra risposta da dare; ed è che Pietro parlò metaforicamente e con il nome di Babilonia intese la città di Roma, dove appunto si trovava scrivendo la sua lettera. Ciò si ricava da tutta l’antichità. Papia, discepolo degli Apostoli, dice in chiari termini che Pietro mostrò di aver scritto la sua prima lettera a Roma, mentre con traslazione di vocabolo le dà il nome di Babilonia[41]. S. Girolamo dice parimenti che Pietro, nella prima sua lettera, sotto il nome di Babilonia significò la città di Roma: Petrus in epistola prima sub nomine Babylonis figurative Romam significans, salutat vos, inquit, ecclesia quae est in Babylone collecta[42]. Né questo linguaggio era inusitato presso i cristiani. S. Giovanni dà a Roma il medesimo nome di Babilonia. Egli nella sua Apocalisse, dopo aver chiamato Roma la città dei sette colli, la città grande che regna sopra i re della terra, ne annuncia la caduta, scrivendo: Cecidit, cecidit Babylon magna: cadde, cadde la grande Babilonia[43]. Ben a ragione poi Roma poteva chiamarsi una Babilonia, perché racchiudeva nel suo seno tutti gli errori sparsi nelle varie parti del mondo che dominava.
            Pietro inoltre aveva buoni motivi per tacere il nome letterale del luogo da cui scriveva; perché essendo fuggito poco prima dalle mani di Erode Agrippa, e sapendo come tra questo re e l’imperatore Claudio passasse stretta amicizia, poteva giustamente temere qualche insidia da questi due nemici del nome cristiano, qualora la sua lettera fosse andata smarrita. Per evitare questo pericolo, dunque, la prudenza voleva che egli nel suo scritto usasse una parola nota ai cristiani e sconosciuta agli Ebrei e ai gentili. Così egli fece.
            Oltre a ciò, dalle stesse parole di Pietro si ricava un’altra prova della sua venuta a Roma. Infatti, Pietro concludendo la sua lettera dice: «Vi saluta la Chiesa… e Marco mio figlio». Dunque Marco si trovava con Pietro. Ciò posto, tutta la tradizione proclama concordemente che Marco, figlio spirituale di Pietro, suo discepolo, suo interprete, suo amanuense e direi suo segretario, fu a Roma e in questa città scrisse il Vangelo che udì predicare dallo stesso Maestro[44]. Dunque è necessario ammettere parimenti che Pietro fu a Roma con il discepolo.
            Ora possiamo giungere a questa conclusione. Per lo spazio di millequattrocento anni non vi fu mai alcuno che abbia mosso il minimo dubbio contro la venuta di S. Pietro a Roma. Al contrario, abbiamo una lunga serie di uomini celebri per santità e dottrina, che dai tempi apostolici fino a noi con la loro autorità l’hanno sempre accettata. Le liturgie, i martirologi, gli stessi nemici del cristianesimo sono d’accordo con la maggior parte dei protestanti su questo fatto.
            Dunque voi, o protestanti di oggi, contrastando la venuta di S. Pietro a Roma, vi opponete a tutta l’antichità, vi opponete all’autorità degli uomini più dotti e pii dei tempi passati; vi opponete ai martirologi, ai menologi, alle liturgie, ai calendari dell’antichità; vi opponete a quanto scrissero i vostri stessi maestri.
            Deh, protestanti, aprite gli occhi; ascoltate le parole di un amico che vi parla mosso unicamente dal desiderio del vostro bene. Molti pretendono di farsi vostra guida nella verità; ma o per malizia o per ignoranza vi ingannano. Ascoltate la voce di Dio che vi chiama al suo ovile, sotto la custodia del pastore supremo da Lui stabilito. Abbandonate ogni impegno, superate l’ostacolo del rispetto umano, rinunciate agli errori in cui uomini illusi vi hanno precipitato. Ritornate alla religione dei vostri avi, che alcuni vostri antenati abbandonarono; invitate tutti i seguaci della Riforma ad ascoltare quanto diceva ai suoi tempi Tertulliano: «Orsù dunque, o cristiano, se vuoi assicurarti nel grande affare della salvezza, fa ricorso alle Chiese fondate dagli Apostoli. Va a Roma, donde emana la nostra autorità. O Chiesa felice, dove con il loro sangue sparsero tutta la loro dottrina, dove Pietro patì un martirio simile alla passione del suo divin Maestro, dove Paolo fu coronato del martirio con aver la testa troncata, dove Giovanni, dopo essere stato immerso in una caldaia d’olio bollente, nulla patì e quindi venne esiliato nell’isola di Patmos[45]».

Terza Edizione
Torino
Libreria Salesiana Editrice 1899
[1a ed., 1856; ristamp. 1867 e 1869; 2° ed., 1884]

PROPRIETÀ DELL’EDITORE
S. Pier d’Arena – Scuola Tip. Salesiana
Ospizio S. Vincenzo de’ Paoli
(N. 1265 — M)

Visto: nulla osta per la stampa
Genova, 12 Giugno 1899
AGOSTINO Can. MONTALDO
V. Se ne permette la stampa
Genova, 15 Giugno 1899
Can. PAOLO CANEVELLO Prov. Gen.


[1] Le notizie riguardanti la vita di San Pietro sono state ricavate dal Vangelo, dagli Atti e da alcune lettere degli Apostoli, nonché da vari altri autori, le cui memorie sono riferite da Cesare Baronio nel primo volume dei suoi annali, dai Bollandisti il 18 gennaio, 22 febbraio, 29 giugno, 1º agosto e altrove. Della vita di San Pietro hanno trattato ampiamente Antonio Cesari negli Atti degli Apostoli e anche in un volume separato, Luigi Cuccagni in tre volumi consistenti, e molti altri.

[2] Sant’Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca, libro 4.

[3] Sant’Ambrogio, opera citata.

[4] San Girolamo, Contro Gioviniano, capitolo 1, 26.

[5] Vangelo secondo Matteo, capitolo 16.

[6] Genesi, capitolo 41.

[7] Vangelo secondo Matteo, capitolo 18.

[8] Vangelo secondo Matteo, capitolo 15.

[9] San Giovanni Damasceno, Omelia sulla Trasfigurazione.

[10] San Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo di Matteo.

[11] Il traslato di “porta” per “potenza”, quindi il segno per la cosa significata, deriva dal fatto che nell’antica legge e presso i popoli orientali, i principi e i giudici esercitavano generalmente il loro potere legislativo e giudiziario davanti alle porte della città (vedi III, pag. XXII, 2). Inoltre, questa parte della città era tenuta in uno stato continuo di presidio e munizione, tanto che, espugnate le porte, il resto era facilmente conquistato. Ancora oggi si dice “Porta Ottomana” o “Sublime Porta” per indicare la potenza dei Turchi.

[12] San Girolamo, Contro Gioviniano, capitolo 1, 26.

[13] Sant’Agostino, Sull’Unità della Chiesa.

[14] Sant’Ireneo, Contro le Eresie, libro III, n. 3.

[15] Salmi 68, 108.

[16] Vangelo secondo Giovanni, 14, 12.

[17] Vedi San Basilio di Seleucia e le Ricognizioni di San Clemente.

[18] Vedi Teodoreto, San Giovanni Crisostomo, San Clemente, ecc.

[19] Benedetto XIV, De Servorum Dei Beatificatione, libro I, capitolo I.

[20] Lettera ai Romani, capitolo I.

[21] Eusebio, Storia Ecclesiastica, libro II, capitolo 15.

[22] Prima Lettera di Pietro, capitolo 5.

[23] San Paciano, lettera 2.

[24] I santi Padri che raccontano il fatto di Simon Mago, tra gli altri, sono: San Massimo di Torino, San Cirillo di Gerusalemme, San Sulpicio Severo, San Gregorio di Tours, San Clemente Papa, San Basilio di Seleucia, Sant’Epifanio, Sant’Agostino, Sant’Ambrogio, San Girolamo e molti altri.

[25] Lattanzio, libro 4.

[26] Epistola 2, capitolo 3.

[27] Le opinioni degli studiosi variano nel fissare l’anno del martirio del Principe degli Apostoli; ma la più probabile è quella che lo assegna all’anno 67 dell’era volgare. Infatti, San Girolamo, infaticabile indagatore e conoscitore delle cose sacre, ci informa che San Pietro e San Paolo furono martirizzati due anni dopo la morte di Seneca, maestro di Nerone. Ora, da Tacito, storico di quei tempi, sappiamo che i consoli sotto cui morì Seneca furono Silio Nerva e Attico Vestino, che tennero il consolato nell’anno 65; dunque, i due Apostoli subirono il martirio nel 67. A questo computo di anni, per il quale viene fissato il martirio in quel tempo, corrispondono i 25 anni e quasi due mesi durante i quali San Pietro tenne la sua Cattedra a Roma; numero di anni che è sempre stato riconosciuto da tutta l’antichità (vedi “Osservazioni storico-cronologiche” di Monsignor Domenico Bartolini, cardinale di Santa Chiesa: “Se l’anno 67 dell’era volgare sia l’anno del martirio dei gloriosi Principi degli Apostoli Pietro e Paolo”, Roma, Tipografia Scalvini, 1866).

[28] La catena con cui fu legato San Pietro si conserva tuttora a Roma nella chiesa detta San Pietro in Vincoli (Artano, “Vita di San Pietro”).

[29] Sulla punta più alta del Monte Gianicolo, dove Anco Marzio, quarto re di Roma, fondò la rocca gianicolense, fu edificata la chiesa di San Pietro in Montorio, nel luogo dove il santo Apostolo compì il martirio. Questo monte fu detto Gianicolo perché dedicato a Giano, custode delle porte che in latino si dicono ianuae. Si vuole che qui sia stato sepolto anche Giano, che edificò quella parte di Roma di fronte al Campidoglio. Fu detto anche Monte Aureo, dalla vicina e antica Porta Aurelia. Ora si chiama Montorio, ovvero Monte d’Oro, dal colore giallo della terra che copre questo colle, uno dei sette colli dell’antica Roma (vedi Moroni, “Chiese di San Pietro”).

[30] Bollandisti, giorno 29 giugno.

[31] Sant’Efrem Siro.

[32] Vedi Piazza Emanuele.

[33] Vedi San Gregorio Magno, epistola 30. Baronio all’anno 284.

[34] Sant’Ireneo, Contro le Eresie, libro III, capitolo 1.

[35] Caio Romano presso Eusebio; Clemente Alessandrino, Stromata, libro 7; Tertulliano, De persecutionibus; Origene presso Eusebio, libro 3; San Cipriano, lettera 52 ad Antoniano e lettera 55 a Cornelio.

[36] San Girolamo, De viris illustribus, capitolo 1.

[37] Teodoreto, vescovo di Cirro, uomo versatissimo nella storia ecclesiastica, morto nell’anno 450, commentando la Lettera di San Paolo ai Romani, laddove l’Apostolo scrive: “Desidererei vedervi, per comunicarvi qualche dono spirituale affinché siate fortificati” (Romani 1,11), aggiunge che Paolo non ha detto di volerli confermare se non perché il grande San Pietro aveva già per primo comunicato loro il Vangelo: “Perché Pietro per primo ha dato loro la dottrina evangelica, ha necessariamente aggiunto ‘per confermarvi’“ (Commento alla Lettera ai Romani).

[38] 1 Corinzi 11, 23-24; Galati 1, 17-18.

[39] Vedi Teofania.

[40] Antichità Giudaiche, libro 20, capitolo 5.

[41] Presso Eusebio, libro II, 14.

[42] San Girolamo, De viris illustribus.

[43] Apocalisse 17,5; 18,2.

[44] Vedi San Girolamo, De viris illustribus, capitolo 8.

[45] Tertulliano, De praescriptione haereticorum, capitolo 36.




Vita di san Paolo Apostolo dottore delle genti

Il momento culminante dell’Anno Giubilare per ogni credente è il passaggio attraverso la Porta Santa, un gesto altamente simbolico che va vissuto con profonda meditazione. Non si tratta di una semplice visita per ammirare la bellezza architettonica, scultorea o pittorica di una basilica: i primi cristiani non si recavano nei luoghi di culto per questo motivo, anche perché all’epoca non c’era molto da ammirare. Essi giungevano invece per pregare davanti alle reliquie dei santi apostoli e martiri, e per ottenere l’indulgenza grazie alla loro potente intercessione.
Recarsi presso le tombe degli apostoli Pietro e Paolo senza conoscerne la loro vita non è un segno di apprezzamento. Per questo, in quest’Anno Giubilare, desideriamo presentare i percorsi di fede di questi due gloriosi apostoli, così come furono narrati da San Giovanni Bosco.

Vita di san Paolo Apostolo dottore delle genti raccontata al popolo dal sacerdote Giovanni Bosco

PREFAZIONE

CAPO I. Patria, educazione di San Paolo, suo odio contro i Cristiani

CAPO II. Conversione e Battesimo di Saulo — Anno di Cristo 34

CAPO III. Primo viaggio di Saulo — Ritorna a Damasco; gli sono tese insidie — Va a Gerusalemme; si presenta agli Apostoli — Gli appare Gesù Cristo — Anno di Gesù Cristo 35-36-37

CAPO IV. Profezie di Agabo — Saulo e Barnaba ordinati vescovi — Vanno nell’isola di Cipro — Conversione del proconsole Sergio — Castigo del mago Elima — Giovanni Marco ritorna a Gerusalemme — Anno di Gesù Cristo 40-43

CAPO V. San Paolo predica in Antiochia di Pisidia — Anno di Gesù Cristo 44

CAPO VI. San Paolo predica in altre città — Opera un miracolo a Listra, dove poi viene lapidato e lasciato per morto — Anno di Gesù Cristo 45

CAPO VII. Paolo miracolosamente risanato — Altre sue fatiche apostoliche — Conversione di Santa Tecla

CAPO VIII. San Paolo va a conferire con San Pietro — Assiste al Concilio di Gerusalemme — Anno di Cristo 50

CAPO IX. Paolo si separa da Barnaba — Percorre varie città dell’Asia — Dio lo manda in Macedonia — A Filippi converte la famiglia di Lidia — Anno di Cristo 51

CAPO X. San Paolo libera una fanciulla dal demonio — È battuto con verghe — Viene posto in prigione — Conversione del carceriere e della sua famiglia — Anno di Cristo 51

CAPO XI. San Paolo predica a Tessalonica — Affare di Giasone — Va a Berea dove è di nuovo disturbato dagli Ebrei — Anno di Cristo 52

CAPO XII. Stato religioso degli Ateniesi — San Paolo nell’Areopago — Conversione di San Dionigi — Anno di Cristo 52

CAPO XIII. San Paolo a Corinto — Sua dimora in casa di Aquila — Battesimo di Crispo e di Sostene — Scrive ai Tessalonicesi — Ritorno ad Antiochia — Anno di Gesù Cristo 53-54

CAPO XIV. Apollo a Efeso — Il sacramento della Cresima — San Paolo opera molti miracoli — Fatto di due esorcisti Ebrei — Anno di Cristo 55

CAPO XV. Sacramento della Confessione — Libri perversi bruciati — Lettera ai Corinzi — Sollevazione per la dea Diana — Lettera ai Galati — Anno di Cristo 56-57

CAPO XVI. San Paolo ritorna a Filippi — Seconda Lettera ai fedeli di Corinto — Va in questa città — Lettera ai Romani — Sua predica prolungata a Troade — Risuscita un morto — Anno di Cristo 58

CAPO XVII. Predica di San Paolo a Mileto — Suo viaggio fino a Cesarea — Profezia di Agabo — Anno di Cristo 58

CAPO XVIII. San Paolo si presenta a San Giacomo — Gli Ebrei gli tendono insidie — Parla al popolo — Rimprovera il sommo sacerdote — Anno di Cristo 59

CAPO XIX. Quaranta Giudei si obbligano con voto di uccidere San Paolo — Un suo nipote scopre la trama — È trasferito a Cesarea — Anno di Cristo 59

CAPO XX. Paolo davanti al governatore — I suoi accusatori e la sua difesa — Anno di Cristo 59

CAPO XXI. Paolo davanti a Festo — Sue parole al re Agrippa — Anno di Cristo 60

CAPO XXII. San Paolo è imbarcato per Roma — Soffre una terribile tempesta, da cui è salvato con i suoi compagni — Anno di Gesù Cristo 60

CAPO XXIII. San Paolo nell’isola di Malta — È liberato dal morso di una vipera — È accolto in casa di Publio, di cui guarisce il padre — Anno di Cristo 60

CAPO XXIV. Viaggio di San Paolo da Malta a Siracusa — Predica a Reggio — Suo arrivo a Roma — Anno di Cristo 60

CAPO XXV. Paolo parla agli Ebrei e predica loro Gesù Cristo — Progresso del Vangelo a Roma — Anno di Cristo 61

CAPO XXVI. San Luca — I Filippesi mandano aiuti a San Paolo — Malattia e guarigione di Epafrodito — Lettera ai Filippesi — Conversione di Onesimo — Anno di Gesù Cristo 61

CAPO XXVII. Lettera di San Paolo a Filemone — Anno di Gesù Cristo 62

CAPO XXVIII. San Paolo scrive ai Colossesi, agli Efesini e agli Ebrei — Anno di Cristo 62

CAPO XXIX. San Paolo è liberato — Martirio di San Giacomo il Minore — Anno di Cristo 63

CAPO XXX. Altri viaggi di San Paolo — Scrive a Timoteo e a Tito — Suo ritorno a Roma — Anno di Cristo 68

CAPO XXXI. San Paolo è di nuovo imprigionato — Scrive la seconda lettera a Timoteo — Suo martirio — Anno di Cristo 69-70

CAPO XXXII. Sepoltura di San Paolo — Meraviglie operate presso la sua tomba — Basilica a lui dedicata

CAPO XXXIII. Ritratto di San Paolo — Immagine del suo spirito — Conclusione

PREFAZIONE

            San Pietro è il principe degli Apostoli, primo Papa, Vicario di Gesù Cristo sopra la terra. Egli fu stabilito capo della Chiesa; ma la sua missione era particolarmente diretta alla conversione degli Ebrei. San Paolo poi è quell’Apostolo che fu da Dio in maniera straordinaria chiamato a portare la Luce del Vangelo ai Gentili. Questi due grandi Santi sono dalla Chiesa nominati le colonne e le fondamenta della Fede, principi degli Apostoli, i quali con le loro fatiche, con i loro scritti e col loro sangue c’insegnarono la legge del Signore; Ipsi nos docuerunt legem tuam, Domine (Essi ci hanno insegnato la tua legge, Signore). Per questo motivo alla vita di San Pietro facciamo succedere quella di San Paolo.
            È vero che questo apostolo non è da annoverarsi nella serie dei Papi; ma le fatiche straordinarie da lui sostenute per aiutare San Pietro a propagare il Vangelo, lo zelo, la carità, la dottrina lasciataci nei sacri libri, ce lo fanno parere degno di essere posto a lato della vita del primo Papa, come forte colonna su cui si appoggia la Chiesa di Gesù Cristo.

CAPO I. Patria, educazione di San Paolo, suo odio contro i Cristiani

            San Paolo era Giudeo della tribù di Beniamino. Otto giorni dopo la sua nascita fu circonciso, e gli fu imposto il nome di Saulo, che fu poi cambiato in quello di Paolo. Suo padre dimorava a Tarso, città di Cilicia, provincia dell’Asia Minore. L’imperatore Cesare Augusto concedette molti favori a questa città e fra gli altri il diritto di cittadinanza romana. Quindi San Paolo, essendo nato a Tarso, era cittadino romano, qualità che portava con sé molti vantaggi, perché si poteva godere dell’immunità dalle leggi particolari di tutti i paesi soggetti o alleati al romano impero, ed in qualunque luogo un cittadino romano poteva appellarsi al senato o all’imperatore per essere giudicato.
            I suoi parenti, essendo agiati, lo mandarono a Gerusalemme per dargli un’educazione conveniente al loro stato. Il suo maestro fu un dottore di nome Gamaliele, uomo di grande virtù, di cui abbiamo già parlato nella vita di San Pietro. In quella città ebbe la fortuna di trovare un buon compagno di Cipro, chiamato Barnaba, giovane di grande virtù, la cui bontà di cuore contribuì molto a temperare l’animo focoso del condiscepolo. Questi due giovani si conservarono sempre leali amici, e noi li vedremo diventare colleghi nella predicazione del Vangelo.
            Il padre di Saulo era Fariseo, vale a dire professava la setta più severa fra gli Ebrei, la quale faceva consistere la virtù in una grande esterna apparenza di rigore, massima del tutto contraria allo spirito di umiltà del Vangelo. Saulo seguì le massime di suo padre, e poiché il suo maestro era anche Fariseo, così egli divenne pieno di entusiasmo per accrescerne il numero e togliere di mezzo ogni ostacolo che si opponesse a tale scopo.
            Era costume presso gli Ebrei far imparare ai loro figli un mestiere mentre attendevano allo studio della Bibbia. Ciò facevano al fine di preservarli dai pericoli che con sé porta l’oziosità; ed anche per occupare il corpo e lo spirito in qualcosa che potesse somministrare di che guadagnarsi il pane nelle gravi circostanze della vita. Saulo imparò il mestiere di conciatore di pelli e specialmente a cucire tende. Egli si segnalava sopra tutti quelli della sua età per il suo zelo verso la legge di Mosè e le tradizioni dei Giudei. Questo zelo poco illuminato lo rese bestemmiatore, persecutore e feroce nemico di Gesù Cristo.
            Egli eccitò i Giudei a condannare Santo Stefano, e fu presente alla sua morte. E poiché la sua età non gli permetteva di prendere parte all’esecuzione della sentenza, così egli, quando Stefano era per essere lapidato, custodiva i vestiti dei suoi compagni e li incitava con furia a scagliare pietre contro di lui. Ma Stefano, vero seguace del Salvatore, fece la vendetta dei santi, cioè si mise a pregare per coloro che lo lapidavano. Questa preghiera fu il principio della conversione di Saulo; e Sant’Agostino dice precisamente che la Chiesa non avrebbe avuto in Paolo un apostolo, se il diacono Stefano non avesse pregato.
            In quei tempi fu suscitata una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme, e Saulo era colui che mostrava una smania feroce per disperdere e mandare a morte i discepoli di Gesù Cristo. Al fine di fomentare meglio la persecuzione in pubblico e in privato, si fece a tal uopo autorizzare dal principe dei sacerdoti. Allora egli divenne come un lupo affamato che non si sazia di sbranare e divorare. Entrava nelle case dei Cristiani, li insultava, li malmenava, li legava o li faceva caricare di catene perché fossero poi trascinati in prigione, li faceva battere con verghe; insomma, adoperava ogni mezzo per costringerli a bestemmiare il santo nome di Gesù Cristo. La notizia delle violenze di Saulo si sparse anche in paesi lontani, di modo che il solo suo nome incuteva spavento fra i fedeli.
            I persecutori non si contentavano di incrudelire contro le persone dei Cristiani; ma, come fu sempre usato dai persecutori, li spogliavano anche dei loro beni e di quanto possedevano in comune. Il che faceva sì che molti erano indotti a campare la vita con le elemosine che i fedeli delle Chiese lontane loro inviavano. Ma vi è un Dio che assiste e governa la sua Chiesa, e quando meno ci pensiamo egli viene in soccorso di chi in lui confida.

CAPO II. Conversione e Battesimo di Saulo — Anno di Cristo 34

            Il furore di Saulo non poteva saziarsi; egli non respirava che minacce e stragi contro i discepoli del Signore. Avendo inteso che a Damasco, città distante circa cinquanta miglia da Gerusalemme, molti Giudei avevano abbracciato la fede, si sentì ardere di furibondo desiderio di recarsi là a farne strage. Per fare liberamente quanto gli suggeriva il suo odio contro i Cristiani, andò dal principe dei sacerdoti e dal senato, che con lettere lo autorizzarono ad andare a Damasco, incatenare tutti i Giudei che si dichiarassero Cristiani e quindi condurli a Gerusalemme ed ivi punirli con una severità capace di arrestare quelli che fossero stati tentati di imitarli.
            Ma sono vani i progetti degli uomini quando sono contrari a quelli del Cielo! Dio, mosso dalle preghiere di Santo Stefano e degli altri fedeli perseguitati, volle manifestare in Saulo la sua potenza e la sua misericordia. Saulo, con le sue lettere commendatizie, pieno di ardore, divorando la strada, era vicino alla città di Damasco, e già gli sembrava di avere i Cristiani fra le mani. Ma quello era il luogo della divina misericordia.
            Nell’impeto del suo cieco furore, verso il mezzogiorno, una gran luce, più risplendente di quella del sole, lo circonda con tutti quelli che l’accompagnavano. Sbalorditi da quello splendore celeste, caddero tutti a terra come morti; nello stesso tempo intesero il rumore di una voce, compresa solamente da Saulo. “Saulo, Saulo”, disse la voce, “perché mi perseguiti?” Allora Saulo, ancora più spaventato, riprese: “Chi siete voi che parlate?” “Io sono”, continuò la voce, “quel Gesù che tu perseguiti. Ricordati che è cosa troppo dura dare calci contro lo sprone, il che tu fai resistendo a uno più potente di te. Perseguitando la mia Chiesa, tu perseguiti me stesso; ma questa diverrà più fiorente, e non farai male che a te stesso.”
            Questo dolce rimprovero del Salvatore, accompagnato dall’unzione interna della sua grazia, addolcì la durezza del cuore di Saulo e lo cambiò in un uomo completamente nuovo. Pertanto, tutto umiliato, esclamò: “Signore, che volete che io faccia?” Come se dicesse: Qual è il mezzo di procurare la vostra gloria? Io mi offro a voi per fare la vostra santissima volontà.
            Gesù Cristo ordinò a Saulo di alzarsi e andare nella città dove un discepolo l’avrebbe istruito intorno a ciò che doveva fare. Dio, dice Sant’Agostino, rimettendo ai suoi ministri l’istruzione di un apostolo chiamato in una maniera così straordinaria, ci insegna che bisogna cercare la sua santa volontà nell’insegnamento dei Pastori, che egli ha rivestito della sua autorità per essere nostre guide spirituali sulla terra.
            Saulo, essendosi alzato, non vedeva più nulla, sebbene tenesse gli occhi aperti. Quindi fu necessario dargli la mano e condurlo a Damasco, come se Gesù Cristo volesse condurlo in trionfo. Egli prese alloggio nella casa di un negoziante chiamato Giuda; ivi dimorò tre giorni senza vedere, senza bere e senza mangiare, ignorando tuttora ciò che Dio volesse da lui.
            Vi era a Damasco un discepolo chiamato Anania, molto stimato dai Giudei per la sua virtù e santità. Gesù Cristo gli apparve e gli disse: “Anania!” Ed egli a lui: “Eccomi, o Signore.” Il Signore soggiunse: “Alzati e va nella via chiamata Diritta, e cerca un certo Saulo nativo di Tarso; tu lo troverai mentre fa orazione.” Anania, sentito il nome di Saulo, tremò e disse: “O Signore, dove mai mi mandate? Voi ben sapete il gran male che ha fatto ai fedeli in Gerusalemme; ora si sa da tutti che egli è venuto qua con pieno potere di legare tutti coloro che credono nel vostro Nome.” Il Signore replicò: “Va pure tranquillo, non temere, perché quest’uomo è uno strumento scelto da me per portare il mio nome ai gentili, davanti ai re e davanti ai figli d’Israele; perché io gli farò vedere quanto egli debba patire per il mio nome.” Mentre Gesù Cristo parlava ad Anania, mandò a Saulo un’altra visione, in cui gli apparve un uomo chiamato Anania che, avvicinandosi a lui, gli imponeva le mani per ridonargli la vista. Il che fece il Signore per assicurare Saulo che Anania era colui che mandava per manifestargli i suoi voleri.
            Anania obbedì, andò a trovare Saulo, gli impose le mani e gli disse: “Saulo fratello, il Signore Gesù che ti apparve nella strada per la quale venivi a Damasco, mi ha mandato a te affinché tu recuperi la vista e sia ripieno dello Spirito Santo.” Parlando così Anania e tenendo le mani sul capo di Saulo, aggiunse: “Apri gli occhi.” In quel momento caddero dagli occhi di Saulo certe scaglie come squame, ed egli recuperò perfettamente la vista.
            Quindi Anania soggiunse: “Ora alzati e ricevi il Battesimo, e lava i tuoi peccati invocando il nome del Signore.” Saulo si alzò subito per ricevere il Battesimo; quindi, tutto pieno di gioia, ristorò la sua stanchezza con un po’ di cibo. Passati appena alcuni giorni con i discepoli di Damasco, si mise a predicare il Vangelo nelle sinagoghe, dimostrando con le Sacre Scritture che Gesù era Figlio di Dio. Tutti quelli che lo ascoltavano erano pieni di stupore, e andavano dicendo: “Non è egli costui che in Gerusalemme perseguitava coloro che invocavano il nome di Gesù e che è venuto apposta a Damasco per condurli là prigionieri?”
            Ma Saulo aveva già superato ogni rispetto umano; egli nulla più desiderava che promuovere la gloria di Dio e riparare lo scandalo dato; perciò, lasciando che ognuno dicesse di lui quel che voleva, confondeva gli Ebrei e con intrepidezza predicava Gesù Crocifisso.

CAPO III. Primo viaggio di Saulo — Ritorna a Damasco; gli sono tese insidie — Va a Gerusalemme; si presenta agli Apostoli — Gli appare Gesù Cristo — Anno di Gesù Cristo 35-36-37

            Saulo, alla vista delle gravi opposizioni che gli si facevano da parte degli Ebrei, ritenne opportuno allontanarsi da Damasco per passare qualche tempo con gli uomini semplici della campagna e anche per recarsi in Arabia a cercare altri popoli meglio disposti a ricevere la fede.
            Dopo tre anni, credendo cessata la tempesta, ritornò a Damasco, dove con zelo e forza si diede a predicare Gesù Cristo; ma gli Ebrei, non potendo resistere alle parole di Dio che per mezzo del suo ministro venivano loro predicate, decisero di farlo morire. Per meglio riuscire nel loro intento, lo denunciarono ad Areta, re di Damasco, rappresentandogli Saulo come perturbatore della pubblica tranquillità. Quel re, troppo credulo, ascoltò la calunnia e comandò che Saulo fosse condotto in prigione, e perché non fuggisse pose guardie a tutte le porte della città. Queste insidie però non poterono tenersi così occulte che non ne venisse notizia ai discepoli e allo stesso Saulo. Ma come mai poterlo liberare? Quei buoni discepoli lo condussero in una casa che dava sulle mura della città e, messolo in una cesta, lo calarono giù dalla muraglia. Così, mentre le guardie vegliavano a tutte le porte e si faceva rigorosissima ricerca in ogni angolo di Damasco, Saulo, liberato dalle loro mani, sano e salvo prende la via per Gerusalemme.
            Sebbene la Giudea non fosse il campo affidato al suo zelo, era però santo il motivo di questo suo viaggio. Egli considerava come suo indispensabile dovere il presentarsi a Pietro, dal quale non era ancora conosciuto, e così dar conto della sua missione al Vicario di Gesù Cristo. Saulo aveva impresso terrore così grande del suo nome ai fedeli di Gerusalemme che non potevano credere alla sua conversione. Cercava di accostarsi ora agli uni, ora agli altri; ma tutti, paurosi, lo fuggivano senza dargli tempo di spiegarsi. Fu in quella congiuntura che Barnaba si dimostrò vero amico. Appena udì raccontare la prodigiosa conversione di questo suo condiscepolo, si recò subito da lui per consolarlo; andato poi dagli Apostoli, raccontò loro la prodigiosa apparizione di Gesù Cristo a Saulo e come egli, istruito direttamente dal Signore, non desiderava altro che pubblicare il santo nome di Dio a tutti i popoli della terra. A così liete notizie i discepoli lo accolsero con gioia e San Pietro lo tenne parecchi giorni in casa sua, dove non lasciò di farlo conoscere ai più zelanti fedeli; né lasciava sfuggire occasione alcuna per rendere testimonianza a Gesù Cristo in quei luoghi stessi in cui l’aveva bestemmiato e fatto bestemmiare.
            E siccome egli troppo caldamente stringeva gli Ebrei e li confondeva in pubblico e in privato, questi gli si levarono contro, risoluti a togliergli la vita. Perciò i fedeli lo consigliarono a partire da quella città. La medesima cosa gli fece conoscere Dio per mezzo di una visione. Un giorno, mentre Saulo pregava nel tempio, gli apparve Gesù Cristo e gli disse: “Parti subito da Gerusalemme, perché questo popolo non crederà a quello che tu sei per dire di me.” Paolo rispose: “Signore, essi sanno come io fui persecutore del vostro santo nome; se sapranno che io mi sono convertito, certo seguiranno il mio esempio e si convertiranno anch’essi.” Gesù soggiunse: “Non è così: essi non presteranno fede alcuna alle tue parole. Va’, io ti ho scelto per portare il mio Vangelo in lontani paesi fra i gentili” (Atti degli Apostoli, cap. 22).
            Deliberata così la partenza di Paolo, i discepoli lo accompagnarono a Cesarea e di là lo inviarono a Tarso, sua patria, con la speranza che avrebbe potuto vivere con minor pericolo tra i parenti e gli amici e cominciare anche in quella città a far conoscere il nome del Signore.

CAPO IV. Profezie di Agabo — Saulo e Barnaba ordinati vescovi — Vanno nell’isola di Cipro — Conversione del proconsole Sergio — Castigo del mago Elima — Giovanni Marco ritorna a Gerusalemme — Anno di Gesù Cristo 40-43

            Mentre Saulo a Tarso predicava la divina parola, Barnaba si mise a predicarla con gran frutto ad Antiochia. Alla vista poi del gran numero di quelli che ogni giorno venivano alla fede, Barnaba ritenne opportuno recarsi a Tarso per invitare Saulo a venire a coadiuvarlo. Vennero infatti entrambi ad Antiochia, e qui con la predicazione e con i miracoli guadagnarono un gran numero di fedeli.
            In quei giorni alcuni profeti, cioè alcuni fervorosi cristiani che, illuminati da Dio, predicevano l’avvenire, vennero da Gerusalemme ad Antiochia. Uno di essi, di nome Agabo, ispirato dallo Spirito Santo, predisse una grande carestia che doveva desolare tutta la terra, come infatti avvenne sotto l’impero di Claudio. I fedeli, per prevenire i mali che questa carestia avrebbe cagionato, risolsero di fare una colletta e così ciascuno, secondo le proprie forze, mandare qualche soccorso ai fratelli della Giudea. La qual cosa fecero con ottimi risultati. Per avere poi una persona di credito presso tutti, scelsero Saulo e Barnaba e li mandarono a portare tale elemosina ai sacerdoti di Gerusalemme, perché ne facessero la distribuzione secondo il bisogno. Compiuta la loro missione, Saulo e Barnaba ritornarono ad Antiochia.
            Dimoravano pure in questa città altri profeti e dottori, tra i quali un certo Simone soprannominato il Nero, Lucio da Cirene e Manaen, fratello di latte di Erode. Un giorno, mentre essi offrivano i Santi Misteri e digiunavano, apparve lo Spirito Santo in maniera straordinaria e disse loro: “Separatemi Saulo e Barnaba per l’opera del sacro ministero a cui li ho eletti.” Allora fu ordinato un digiuno con pubbliche preghiere e, avendo loro imposto le mani, li consacrarono vescovi. Questa ordinazione fu modello di quelle che la Chiesa Cattolica suole fare ai suoi ministri: di qui ebbero origine i digiuni delle quattro tempora, le preghiere e altre cerimonie che sogliono aver luogo nella sacra ordinazione.
            Saulo era ad Antiochia quando ebbe una meravigliosa visione, nella quale fu rapito al terzo cielo, cioè fu sollevato da Dio a contemplare le cose del Cielo più sublimi di cui sia capace un uomo mortale. Egli stesso lasciò scritto di aver visto cose che non si possono esprimere con parole, cose mai viste, mai udite, e che il cuore dell’uomo non può nemmeno immaginare. Da questa celeste visione, Saulo, confortato, partì con Barnaba e andò direttamente a Seleucia di Siria, così chiamata per distinguerla da un’altra città dello stesso nome situata in vicinanza del Tigri verso la Persia. Avevano anche con loro un certo Giovanni Marco, non Marco l’Evangelista. Egli era figlio di quella pia vedova nella cui casa si era rifugiato San Pietro quando fu miracolosamente liberato di prigione da un angelo. Era cugino di Barnaba ed era stato condotto da Gerusalemme ad Antiochia nell’occasione in cui andarono là a portare le elemosine.
            Seleucia aveva un porto sul Mediterraneo: di là i nostri operai evangelici si imbarcarono per andare all’isola di Cipro, patria di San Barnaba. Giunti a Salamina, città e porto considerevole di quell’isola, cominciarono ad annunciare il Vangelo ai Giudei e poi ai Gentili, che erano più semplici e meglio disposti a ricevere la fede. I due Apostoli, predicando per tutta quell’isola, vennero a Pafo, capitale del paese, dove risiedeva il proconsole ossia il governatore romano di nome Sergio Paolo. Qui lo zelo di Saulo ebbe occasione di esercitarsi a motivo di un mago chiamato Bar-Jesus o Elima. Costui, fosse per guadagnarsi il favore del proconsole o trarre denaro dalle sue truffe, seduceva la gente e allontanava Sergio dal seguire i pii sentimenti del suo cuore. Il proconsole, avendo udito parlare dei predicatori che erano venuti nel paese da lui governato, li mandò a chiamare affinché andassero a fargli conoscere la loro dottrina. Andarono subito Saulo e Barnaba ad esporgli le verità del Vangelo; ma Elima, al vedersi togliere la materia dei suoi guadagni, temendo forse peggio, si mise a ostacolare i disegni di Dio, contraddicendo alla dottrina di Saulo e screditandolo presso il proconsole per tenerlo lontano dalla verità. Allora Saulo, tutto acceso di zelo e di Spirito Santo, gli gettò addosso gli sguardi: “Scellerato”, gli disse, “arca di empietà e di frode, figlio del diavolo, nemico d’ogni giustizia, non ti arresti ancora dal pervertire le diritte vie del Signore? Ora ecco la mano di Dio pesare su di te: fin da questo momento tu sarai cieco e per il tempo che Dio vorrà non vedrai la luce del sole.” All’istante gli cadde sugli occhi una caligine, da cui, toltagli la facoltà di vedere, egli andava attorno tentoni cercando chi gli desse la mano.
            A quel fatto terribile Sergio riconobbe la mano di Dio e, mosso dalle prediche di Saulo e da quel miracolo, credette in Gesù Cristo ed abbracciò la fede con tutta la sua famiglia. Anche il mago Elima, atterrito da questa repentina cecità, riconobbe la potenza divina nelle parole di Paolo e, rinunciando all’arte magica, si convertì, fece penitenza ed abbracciò la fede. In questa occasione Saulo prese il nome di Paolo, sia in memoria della conversione di quel governatore, sia per essere meglio accolto fra i Gentili, poiché Saulo era nome ebreo, Paolo invece era nome romano.
            Raccolto a Pafo non piccolo frutto della loro predicazione, Paolo e Barnaba con altri compagni s’imbarcarono alla volta di Perge, città della Panfilia. Ivi rimandarono a casa Giovanni Marco, che fino allora si era adoperato in loro aiuto. Barnaba lo avrebbe volentieri tenuto ancora; ma Paolo, scorgendo in lui una certa pusillanimità ed incostanza, pensò di rimandarlo a sua madre a Gerusalemme. Vedremo fra breve questo discepolo riparare la debolezza or ora dimostrata e divenire fervoroso predicatore.

CAPO V. San Paolo predica in Antiochia di Pisidia — Anno di Gesù Cristo 44

            Da Perga, San Paolo andò con San Barnaba ad Antiochia di Pisidia, così chiamata per distinguerla da Antiochia di Siria, che era la grande capitale dell’Oriente. Lì i Giudei, come in molte altre città dell’Asia, avevano la loro sinagoga dove nei giorni di sabato si riunivano per ascoltare la spiegazione della Legge di Mosè e dei Profeti. Intervennero anche i due apostoli e con essi molti Ebrei e Gentili che già adoravano il vero Dio. Secondo l’uso degli Ebrei, i dottori della legge lessero un brano della Bibbia che poi diedero a Paolo con la preghiera di dire loro qualcosa di edificante. Paolo, che non aspettava altro che l’opportunità di parlare, si alzò in piedi, indicò con la mano che facessero tutti silenzio, e prese a parlare così: «Figli d’Israele, e voi tutti che temete il Signore, poiché mi invitate a parlare, vi prego di ascoltarmi con quell’attenzione che merita la dignità delle cose che sto per dirvi.
            «Quel Dio che ha scelto i nostri padri quando erano in Egitto e con una lunga serie di prodigi ne ha fatto una nazione privilegiata, ha in particolare modo onorato la stirpe di Davide promettendo che da questa avrebbe fatto nascere il Salvatore del mondo. Quella grande promessa, confermata da tante profezie, si è finalmente adempiuta nella persona di Gesù di Nazareth. Giovanni, al quale certamente voi credete, quel Giovanni le cui sublimi virtù fecero credere per Messia, gli ha reso la più autorevole testimonianza dicendo che egli non si giudicava degno di sciogliere nemmeno i legacci dei suoi calzari. Voi oggi, fratelli, voi degni figli di Abramo, e voi tutti adoratori del vero Dio, di qualunque nazione o stirpe siate, siete quelli ai quali è particolarmente indirizzata la parola di salvezza. Gli abitanti di Gerusalemme, ingannati dai loro capi, non hanno voluto riconoscere il Redentore che vi predichiamo. Anzi, gli hanno dato la morte; ma Dio onnipotente non ha permesso, come aveva predetto, che il corpo del suo Cristo subisse la corruzione nel sepolcro. Pertanto, nel terzo giorno dopo la morte, lo fece risorgere glorioso e trionfante.
            «Fino a questo punto voi non avete colpa alcuna, perché la luce della verità non era ancora giunta fino a voi. Ma tremate d’ora in avanti se mai chiuderete gli occhi; tremate di provocare sopra di voi la maledizione fulminata dai profeti contro chiunque non vuole riconoscere la grande opera del Signore, il cui compimento deve aver luogo in questi giorni».
            Finito il discorso, tutti gli uditori si ritirarono in silenzio meditando sulle cose ascoltate da San Paolo.
            Erano però diversi i pensieri che occupavano le loro menti. I buoni erano pieni di gioia alle parole di salvezza loro annunciate, ma gran parte dei Giudei, sempre persuasi che il Messia dovesse ristabilire la potenza temporale della loro nazione e vergognandosi di riconoscere per Messia colui che i loro principi avevano condannato a morte ignominiosa, accolsero con dispetto la predica di Paolo. Tuttavia si mostrarono soddisfatti ed invitarono l’Apostolo a ritornare nel sabato seguente, con animo però ben diverso: i malevoli per prepararsi a contraddirlo, e quelli che temevano il Signore, Israeliti e Gentili, per meglio istruirsi e confermarsi nella fede. Nel giorno convenuto si radunò un immenso popolo per udire questa nuova dottrina. Appena San Paolo si pose a predicare, subito i dottori della sinagoga si levarono contro di lui. Opposero dapprima delle difficoltà; quando poi si accorsero di non poter resistere alla forza delle ragioni con cui San Paolo provava le verità della fede, si abbandonarono agli schiamazzi, alle ingiurie, alle bestemmie. I due apostoli, vedendosi soffocare la parola in bocca, con forte animo ad alta voce esclamarono: «A voi si doveva in primo luogo annunciare la divina parola; ma giacché vi tappate dispettosamente le orecchie e con furore la respingete, vi rendete indegni dell’eterna vita. Noi pertanto ci rivolgiamo ai Gentili per compiere la promessa fatta da Dio per bocca del suo profeta quando disse: “Io ti ho destinato per luce dei Gentili e per la salvezza di essi fino all’estremità della terra”».
            I Giudei allora, ancor più mossi da invidia e sdegno, eccitarono contro gli Apostoli una fiera persecuzione.
            Si servirono di alcune donne che godevano credito di essere pie ed oneste, e con esse incitarono i magistrati della città, e tutti insieme, gridando e schiamazzando, costrinsero gli Apostoli a uscire dai loro confini. Così costretti, Paolo e Barnaba partirono da quello sventurato paese e, nell’atto della loro partenza, secondo il comandamento di Gesù Cristo, scossero la polvere dai loro piedi in segno di rinunciare per sempre ad ogni rapporto con essi, come uomini riprovati da Dio e colpiti dalla divina maledizione.

CAPO VI. San Paolo predica in altre città — Opera un miracolo a Listra, dove poi viene lapidato e lasciato per morto — Anno di Gesù Cristo 45

            Paolo e Barnaba, cacciati dalla Pisidia, si recarono nella Licaonia, altra provincia dell’Asia Minore, e si portarono a Iconio, che ne era la capitale. I santi Apostoli, cercando solo la gloria di Dio, dimenticando i maltrattamenti che avevano ricevuto in Antiochia dagli Ebrei, si diedero subito a predicare il Vangelo nella sinagoga. Qui Dio benedisse le loro fatiche, ed una moltitudine di Ebrei e di Gentili abbracciò la fede. Ma quelli tra gli Ebrei che restarono increduli e si ostinarono nell’empietà, mossero un’altra persecuzione contro gli Apostoli. Alcuni li accoglievano come uomini mandati da Dio, altri li proclamavano impostori. Perciò, essendo stati avvisati che molti di loro, protetti dai capi della sinagoga e dai magistrati, volevano lapidarli, andarono a Listra e poi a Derbe, città non molto distante da Iconio. Queste città e i paesi vicini furono il campo dove i nostri zelanti operai si diedero a seminare la parola del Signore. Fra i molti miracoli che Dio operò per mano di San Paolo in questa missione, fu luminoso quello che stiamo per riferire.
            A Listra vi era un uomo storpio fin dalla nascita, che non aveva mai potuto fare un passo con i suoi piedi. Avendo udito che San Paolo operava miracoli strepitosi, sentì nascere in cuore viva fiducia di poter anche egli per tal mezzo ottenere la salute come tanti altri l’avevano già ottenuta. Ascoltava le prediche dell’Apostolo, quando egli, mirando fissamente quell’infelice e dal volto penetrando le buone disposizioni dell’animo, gli disse ad alta voce: “Alzati e sta diritto sui tuoi piedi”. A un tal comando lo storpio si alzò e cominciò a camminare speditamente. La moltitudine che era stata presente a tal miracolo si sentì trasportata da entusiasmo e meraviglia. “Costoro non sono uomini”, si andava da tutte le parti esclamando, “ma sono dèi rivestiti di sembianze umane, discesi dal cielo in mezzo a noi”. E secondo tale erronea supposizione chiamavano Barnaba Giove, perché lo scorgevano di sembiante più maestoso, e Paolo, che parlava con meravigliosa facondia, chiamavano Mercurio, il quale presso i Gentili era l’interprete e messaggero di Giove e il dio dell’eloquenza. Giunta la notizia del fatto al sacerdote del tempio di Giove, che era fuori della città, egli giudicò suo dovere offrire ai grandi ospiti un solenne sacrificio ed invitare tutto il popolo a prendervi parte. Preparate le vittime, le corone e quanto facesse d’uopo per la funzione, portarono ogni cosa davanti alla casa dove alloggiavano Paolo e Barnaba, volendo in tutti i modi fare loro un sacrificio. I due Apostoli, accesi di santo zelo, si gettarono nella folla e, in segno di dolore, lacerandosi le vesti, gridavano: “Oh, che fate, o miseri? Noi siamo uomini mortali simili a voi; noi appunto con tutto lo spirito vi esortiamo a convertirvi dal culto degli dèi al culto di quel Signore che ha creato il cielo e la terra, e che sebbene in passato abbia tollerato che i Gentili seguissero le loro follie, ha però fornito chiari argomenti del suo essere e della sua infinita bontà con opere che lo fanno conoscere supremo padrone di ogni cosa”.
            A così franco parlare gli animi si calmarono e abbandonarono l’idea di fare quel sacrificio. I sacerdoti non avevano ancora totalmente ceduto e stavano perplessi se dovessero desistere quando sopraggiunsero da Antiochia e da Iconio alcuni Ebrei, deputati dalle sinagoghe per venire a turbare le sante imprese degli Apostoli. Quei maligni tanto fecero e tanto dissero che riuscirono a rivoltare tutto il popolo contro i due Apostoli. Così coloro che pochi giorni prima li veneravano come dèi, ora li gridano malfattori; e poiché San Paolo aveva singolarmente parlato, perciò la rabbia fu tutta rivolta contro di lui.
            Gli scaricarono addosso tale tempesta di sassi che, credendolo morto, lo trascinarono fuori della città. Vedi, o lettore, quale conto devi fare della gloria del mondo! Coloro che oggi ti vorrebbero innalzare al di sopra delle stelle, domani forse ti vogliono nel più profondo degli abissi! Beati coloro che ripongono in Dio la loro fiducia.

CAPO VII. Paolo miracolosamente risanato — Altre sue fatiche apostoliche — Conversione di Santa Tecla

            I discepoli con altri fedeli, avendo saputo o forse visto ciò che era stato fatto a Paolo, si radunarono intorno al corpo di lui piangendolo come morto. Ma ne furono presto consolati; poiché, sia che Paolo fosse veramente morto, sia che fosse soltanto tutto pesto nella persona, Dio in un istante lo fece ritornare sano e vigoroso come prima, a tal punto che egli poté alzarsi da sé stesso e, attorniato dai discepoli, ritornare alla città di Listra tra quei medesimi che poco prima l’avevano lapidato.
            Ma il giorno seguente, uscito da quella città, passò a Derbe, altra città della Licaonia. Qui predicò Gesù Cristo e fece molte conversioni. Paolo e Barnaba visitarono molte città dove avevano già predicato e, osservando i gravi pericoli cui si trovavano esposti coloro che da poco tempo erano venuti alla fede, ordinarono Vescovi e Sacerdoti che avessero cura di quelle chiese.
            Fra le conversioni operate in questa terza missione di Paolo è molto celebre quella di Santa Tecla. Mentre egli predicava a Iconio, questa giovane andò ad ascoltarlo. In precedenza ella si era dedicata alle belle lettere e allo studio della filosofia profana. Già i suoi parenti l’avevano promessa a un giovane nobile, ricco e molto potente. Trovatasi un giorno ad ascoltare San Paolo mentre predicava intorno al pregio della verginità, si sentì innamorare di questa preziosa virtù. All’udire poi la grande stima che ne aveva fatto il Salvatore e il gran premio che era riservato in cielo a coloro che hanno la bella sorte di conservarla, si sentì ardere dal desiderio di consacrarsi a Gesù Cristo e rinunciare a tutti i vantaggi delle nozze terrene. Al rifiuto di quelle nozze, agli occhi del mondo vantaggiose, i suoi parenti fortemente se ne sdegnarono e, d’accordo con lo sposo, tentarono ogni strada, ogni lusinga per farle cambiare proposito. Tutto inutile: quando un’anima è ferita dall’amore di Dio, ogni sforzo umano non riesce più ad allontanarla dall’oggetto che ama. Infatti i parenti, lo sposo, gli amici, cambiando l’amore in furore, eccitarono i giudici e i magistrati di Iconio contro la santa vergine e dalle minacce passarono ai fatti.
            Ella viene gettata in un serraglio di bestie affamate e feroci; Tecla, unicamente armata della confidenza in Dio, fa il segno della Santa Croce, e quegli animali depongono la loro ferocia e rispettano la sposa di Gesù Cristo. Si accende un rogo entro cui ella è precipitata; ma fatto appena il segno della Croce si estinguono le fiamme ed essa si conserva illesa. Insomma, fu esposta a ogni genere di tormenti e da tutti fu prodigiosamente liberata. Per queste cose le fu dato il nome di protomartire, cioè prima martire tra le donne, come Santo Stefano fu il primo martire tra gli uomini. Ella visse ancora molti anni nell’esercizio delle più eroiche virtù, e morì in pace in età molto avanzata.

CAPO VIII. San Paolo va a conferire con San Pietro — Assiste al Concilio di Gerusalemme — Anno di Cristo 50

            Dopo le fatiche e i patimenti sofferti da Paolo e da Barnaba nella loro terza missione, contenti delle anime che erano riusciti a condurre all’ovile di Gesù Cristo, ritornarono ad Antiochia di Siria. Là raccontarono ai fedeli di quella città le meraviglie operate da Dio nella conversione dei Gentili. Il Santo Apostolo fu ivi consolato con una rivelazione, nella quale Dio gli comandò di recarsi a Gerusalemme per conferire con San Pietro intorno al Vangelo da lui predicato. Dio aveva ciò comandato affinché San Paolo riconoscesse in San Pietro il Capo della Chiesa, e così tutti i fedeli comprendessero come i due principi degli Apostoli predicavano una medesima fede, un solo Dio, un solo battesimo, un solo Salvatore Gesù Cristo.
            Paolo partì in compagnia di Barnaba, conducendo con sé un discepolo di nome Tito, guadagnato alla fede nel corso di questa terza missione. Questi è quel famoso Tito, che divenne modello di virtù, fedele seguace e collaboratore del nostro santo Apostolo e di cui pure avremo molte volte da parlare. Giunti a Gerusalemme si presentarono agli Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, che erano considerati come le principali colonne della Chiesa. Fra le altre cose fu lì convenuto che Pietro con Giacomo e Giovanni si sarebbe applicato in maniera speciale per condurre i Giudei alla fede; Paolo e Barnaba invece si sarebbero dedicati principalmente alla conversione dei Gentili.
            Paolo dimorò quindici giorni in quella città, dopo di che ritornò con i suoi compagni ad Antiochia. Lì trovarono i fedeli molto agitati per una questione derivata dal fatto che i Giudei volevano obbligare i Gentili a sottomettersi alla circoncisione e alle altre cerimonie della legge di Mosè, che era lo stesso che dire che era necessario divenire buon Ebreo per divenire poi buon Cristiano. Le contese andarono tanto oltre che, non potendosi altrimenti acquietare, fu deciso di inviare Paolo e Barnaba a Gerusalemme per consultare il Capo della Chiesa affinché da lui fosse decisa la questione.
            Noi abbiamo già raccontato nella vita di San Pietro come Dio, con una meravigliosa rivelazione, aveva fatto conoscere a questo principe degli Apostoli che i Gentili, venendo alla fede, non erano obbligati alla circoncisione né alle altre cerimonie della legge di Mosè; tuttavia, affinché la volontà di Dio fosse da tutti conosciuta e fosse in modo solenne sciolta ogni difficoltà, Pietro radunò un concilio universale, che fu il modello di tutti i concili che vennero celebrati nei tempi futuri. Lì Paolo e Barnaba esposero lo stato della questione, che fu da San Pietro definita e confermata dagli altri Apostoli nella maniera seguente:
            «Gli Apostoli e gli anziani ai fratelli convertiti dal paganesimo, che dimorano in Antiochia e nelle altre parti della Siria e della Cilicia. Avendo noi inteso che alcuni venuti di qua hanno turbato e angustiato le vostre coscienze con idee arbitrarie, è sembrato bene a noi qui radunati di scegliere e mandare a voi Paolo e Barnaba, uomini a noi carissimi, che hanno sacrificato la loro vita per il nome di nostro Signore Gesù Cristo. Con essi mandiamo Sila e Giuda, i quali consegnandovi le nostre lettere vi confermeranno a voce le medesime verità. Infatti è stato giudicato dallo Spirito Santo e da noi di non imporvi altra legge, eccetto quelle che dovete osservare, cioè astenervi dalle cose sacrificate agli idoli, dalle carni soffocate, dal sangue e dalla fornicazione, dalle quali cose astenendovi farete bene. State in pace.»
            Quest’ultima cosa, cioè la fornicazione, non occorreva proibirla essendo affatto contraria ai dettami della ragione e proibita dal sesto precetto del Decalogo. Fu però rinnovata tale proibizione riguardo ai Gentili, i quali nel culto dei loro falsi dèi pensavano che fosse lecito, anzi cosa gradita a quelle immonde divinità.
            Giunti Paolo e Barnaba con Sila e Giuda ad Antiochia, pubblicarono la lettera con il decreto del concilio, con cui non solo acquietarono il tumulto, ma riempirono i fratelli di allegrezza, riconoscendo ognuno la voce di Dio in quella di San Pietro e del concilio. Sila e Giuda contribuirono molto a quella comune gioia, poiché essendo essi profeti, cioè ripieni dello Spirito Santo e dotati del dono della divina parola e di una grazia particolare per interpretare le divine Scritture, ebbero molta efficacia nel confermare i fedeli nella fede, nella concordia e nei buoni propositi.
            San Pietro, essendo stato informato dei progressi straordinari che il Vangelo faceva in Antiochia, volle anch’egli venire a visitare quei fedeli, cui aveva già per più anni predicato e tra cui aveva per sette anni tenuto la Sede Pontificia. Mentre i due principi degli Apostoli dimoravano in Antiochia, avvenne che Pietro, per compiacere agli Ebrei, praticava alcune cerimonie della legge mosaica; il che era causa di una certa avversione da parte dei Gentili, senza che San Pietro ne fosse consapevole. San Paolo, venuto a conoscenza di questo fatto, avvisò pubblicamente San Pietro, il quale con ammirabile umiltà ricevette l’avviso senza proferire parole di scusa; anzi da allora in poi divenne amicissimo di San Paolo, e nelle sue lettere non soleva chiamarlo con altro nome se non con quello di fratello carissimo. Esempio degno di essere imitato da coloro che in qualche maniera sono avvisati dei loro difetti.

CAPO IX. Paolo si separa da Barnaba — Percorre varie città dell’Asia — Dio lo manda in Macedonia — A Filippi converte la famiglia di Lidia — Anno di Cristo 51

            Paolo e Barnaba predicarono per qualche tempo il Vangelo nella città di Antiochia, adoperandosi persino per diffonderlo nei paesi vicini. Non molto dopo venne a Paolo in mente di visitare le Chiese a cui aveva predicato. Disse pertanto a Barnaba: «Mi pare bene che ritorniamo a rivedere i fedeli di quelle città e terre dove abbiamo predicato, per vedere come vadano le cose di religione tra loro». Nulla stava più a cuore a Barnaba, e perciò fu subito d’accordo con il Santo Apostolo; ma gli propose di condurre con sé anche quel Giovanni Marco che li aveva seguiti nella precedente missione e li aveva poi lasciati a Perga. Forse egli desiderava cancellare la macchia che si era fatto in quell’occasione, perciò voleva di nuovo essere in loro compagnia. San Paolo non giudicava così: «Tu vedi», diceva a Barnaba, «che costui non è uomo da potersi fidare: certamente ti ricordi come, giunti a Perga della Panfilia, ci abbandonò». Barnaba insisteva dicendo che si poteva accogliere, e adduceva buone ragioni. Non potendo i due Apostoli andare d’accordo, decisero di separarsi l’uno dall’altro e andare per strade diverse.
            Così Dio fece servire questa diversità di sentimento a sua maggior gloria; perché, separati, portavano la luce del Vangelo in più luoghi, cosa che non avrebbero fatto andando entrambi insieme.
            Barnaba andò con Giovanni Marco nell’isola di Cipro e visitò quelle Chiese dove aveva con San Paolo predicato nella precedente missione. Questo Apostolo lavorò molto per diffondere la fede di Gesù Cristo e finalmente fu coronato del martirio in Cipro, sua patria. Giovanni Marco questa volta fu costante, e lo vedremo poi fedele compagno di San Paolo, che ebbe a lodare molto lo zelo e la carità di lui.
            San Paolo prese con sé Sila, colui che gli era stato posto per compagno a portare gli atti del concilio di Gerusalemme ad Antiochia, intraprese il suo quarto viaggio e andò a visitare varie Chiese da lui fondate. Si recò dapprima a Derbe, poi a Listra, dove qualche tempo addietro il Santo Apostolo era stato lasciato per morto. Ma Dio volle questa volta compensarlo di quanto aveva prima sofferto.
            Egli trovò lì un giovane da lui convertito nell’altra missione, di nome Timoteo. Paolo aveva già conosciuto la bell’indole di questo discepolo e nell’animo suo aveva deciso di farne un collaboratore del Vangelo, cioè consacrarlo sacerdote e prenderlo come compagno nei suoi lavori apostolici. Prima però di conferirgli la sacra ordinazione, Paolo chiese informazioni ai fedeli di Listra e trovò che tutti elogiavano questo buon giovane magnificando la sua virtù, la modestia, il suo spirito di preghiera; e ciò dicevano non solo quelli di Listra, ma perfino quelli di Iconio e delle altre città vicine, e tutti presagivano in Timoteo uno zelante sacerdote e un santo vescovo.
            A queste luminose testimonianze Paolo non ebbe più alcuna difficoltà nel consacrarlo sacerdote. Paolo dunque, preso con sé Timoteo e Sila, continuò la visita delle Chiese, raccomandando a tutti di osservare e tenersi fermi alle decisioni del concilio di Gerusalemme. Così avevano fatto quelli di Antiochia, e così fecero in ogni tempo i predicatori del Vangelo per assicurare i fedeli di non cadere in errore: stare ai decreti, agli ordini dei concili e del Romano Pontefice successore di San Pietro.
            Paolo con i suoi compagni attraversò la Galazia e la Frigia per portare il Vangelo in Asia, ma lo Spirito Santo glielo vietò.
            Per facilitare la comprensione delle cose che stiamo per raccontare, è bene qui notare di passaggio come per la parola Asia in senso largo si intenda una delle tre parti del mondo. Si suole poi appellare Asia Maggiore tutta l’estensione dell’Asia, ad eccezione di quella parte che si chiama Asia Minore, oggi Anatolia, che è quella penisola compresa fra il Mar di Cipro, l’Egeo e il Mar Nero. Fu anche chiamata Asia Proconsolare una parte dell’Asia Minore più o meno estesa secondo il numero delle province affidate al governo del proconsole romano. Qui per Asia, dove progettava di andare San Paolo, si intende una porzione dell’Asia Proconsolare, posta attorno a Efeso e compresa fra il monte Tauro, il Mar Nero e la Frigia.
            San Paolo allora pensò di andare in Bitinia, che è un’altra provincia dell’Asia Minore un po’ più verso il Mar Nero; ma neppure ciò gli fu permesso da Dio. Perciò ritornò indietro e andò a Troade, che è una città e provincia dove anticamente era una famosa città chiamata Troia. Dio aveva riservato ad altro tempo la predicazione del Vangelo a quei popoli; per ora lo voleva inviare ad altri paesi.
            Mentre San Paolo era a Troade, gli apparve un angelo vestito da uomo secondo l’uso dei Macedoni, il quale, stando in piedi davanti a lui, si mise a pregarlo così: «Deh! abbi pietà di noi; passa in Macedonia e vieni in nostro soccorso». Da questa visione San Paolo conobbe la volontà del Signore e senza indugio si preparò a passare il mare per recarsi in Macedonia.
            A Troade si unì a San Paolo un suo cugino di nome Luca, che gli riuscì di grande aiuto nelle sue fatiche apostoliche. Egli era un medico di Antiochia, di grande ingegno, che scriveva con purezza ed eleganza il greco. Egli fu per Paolo quello che San Marco era per San Pietro; e al pari di lui scrisse il Vangelo che noi leggiamo sotto il nome di Vangelo secondo Luca. Anche il libro intitolato Atti degli Apostoli, da cui noi ricaviamo quasi tutte le cose che diciamo di San Paolo, è opera di San Luca. Da quando si unì come compagno del nostro Apostolo, non vi fu più né pericolo, né fatica, né patimento che abbia potuto scuotere la sua costanza.
            Paolo dunque, secondo l’avviso dell’angelo, insieme con Sila, Timoteo e Luca, s’imbarcò da Troade, navigò l’Egeo (che divide l’Europa dall’Asia) e con prospera navigazione arrivò all’isola di Samotracia, quindi a Neapoli, non la capitale del Regno di Napoli ma una piccola città sul confine della Tracia e della Macedonia. Senza arrestarsi, l’Apostolo andò direttamente a Filippi, città principale, così nominata perché fu edificata da un re di quel paese chiamato Filippo. Lì si fermarono per qualche tempo.
            In quella città gli Ebrei non avevano sinagoga, sia perché ne fossero proibiti, sia perché fossero troppo pochi di numero. Avevano solo una proseuca, ovvero luogo di preghiera, che noi chiamiamo oratorio. In giorno di sabato Paolo con i suoi compagni uscì dalla città sulla riva di un fiume dove trovarono una proseuca con dentro alcune donne. Si misero subito a predicare il regno di Dio a quella semplice udienza. Una mercante di nome Lidia fu la prima ad essere chiamata da Dio; così essa e la sua famiglia ricevettero il Battesimo.
            Questa pia donna, grata ai benefici ricevuti, così pregò i maestri e i padri dell’anima sua: «Se voi mi giudicate fedele a Dio, non mi negate una grazia dopo quella del Battesimo che da voi riconosco. Venite in casa mia, dimorate quanto vi piace e consideratela come vostra». Paolo non voleva acconsentire; ma ella fece tali insistenze che egli dovette accettare. Ecco il frutto che produce la parola di Dio, quando è bene ascoltata. Essa genera la fede; ma deve essere udita e spiegata dai sacri ministri, come diceva lo stesso San Paolo: «Fides ex auditu, auditus autem per verbum Christi» (La fede viene dall’ascolto, e l’ascolto riguarda la parola di Cristo).

CAPO X. San Paolo libera una fanciulla dal demonio — È battuto con verghe — Viene posto in prigione — Conversione del carceriere e della sua famiglia — Anno di Cristo 51

            San Paolo con i suoi compagni andavano qua e là spargendo il seme della parola di Dio per la città di Filippi. Un giorno, andando alla proseuca, incontrarono una pitonessa, che noi diremmo maga o strega. Ella aveva addosso un demonio che parlava per bocca sua e indovinava molte cose straordinarie; il che dava molto vantaggio ai suoi padroni, poiché la gente ignorante andava a consultarla e per farsi predire il futuro doveva pagare bene i consulti. Costei dunque si mise a seguire San Paolo e i suoi compagni, gridando loro dietro così: “Questi uomini sono servi dell’Altissimo Dio; essi vi mostrano la strada della salvezza.” San Paolo la lasciò dire senza dir nulla, finché, annoiato e sdegnato, si volse a quello spirito maligno che parlava per bocca di lei e disse in tono minaccioso: “In nome di Gesù Cristo ti comando che tu esca immediatamente da questa fanciulla.” Il dire e il fare fu una cosa sola, perché, costretto dalla potente virtù del nome di Gesù Cristo, dovette uscire da quel corpo, e per la sua partenza la maga rimase senza magia.
            Voi, o lettori, comprenderete la ragione per cui il demonio lodava San Paolo, e questo santo Apostolo ne abbia rifiutato le lodi. Lo spirito maligno voleva che San Paolo lo lasciasse in pace, e così la gente credesse che fosse la medesima dottrina quella di San Paolo e le indovinazioni di quella indemoniata. Il santo Apostolo volle dimostrare che non vi era alcun accordo tra Cristo e il demonio, e rifiutando le sue adulazioni dimostrò quanto fosse grande la potenza del nome di Gesù Cristo sopra tutti gli spiriti dell’inferno.
            I padroni di quella fanciulla, avendo visto che con il demonio era andata ogni speranza di guadagno, si sdegnarono fortemente contro San Paolo e, senza aspettare sentenza alcuna, presero lui e i suoi compagni e li condussero al Palazzo della Giustizia. Giunti alla presenza dei giudici dissero: “Questi uomini di razza ebrea mettono sottosopra la nostra città per introdurre una religione nuova, che certamente è un sacrilegio.” Il popolo, sentendo che era offesa la religione, montò in furore e si scagliò contro di loro da tutte le parti.
            I giudici si mostrarono pieni di sdegno e, stracciandosi di dosso le vesti, senza fare alcun processo, senza esaminare se vi fosse delitto o no, li fecero battere fieramente con verghe e, quando furono o sazi o stanchi di batterli, ordinarono che Paolo e Sila venissero condotti in prigione, imponendo al carceriere di guardarli con la massima diligenza. Costui non solo li rinchiuse nella prigione, ma per maggior sicurezza strinse i loro piedi tra i ceppi. Quei santi uomini, nell’orrore del carcere, coperti di piaghe, lungi dal lamentarsi, giubilavano di allegrezza e durante la notte andavano cantando lodi a Dio. Gli altri prigionieri ne erano meravigliati.
            Era la mezzanotte e cantavano tuttora e benedicevano Dio, quando d’improvviso si sente un fortissimo terremoto, che con orribile scroscio fa tremare fin dalle fondamenta quell’edificio. A questa scossa cadono le catene ai prigionieri, si rompono i loro ceppi, le porte delle prigioni si aprono e tutti i detenuti si trovano posti in libertà. Si destò il carceriere e, correndo per sapere cosa fosse avvenuto, trovò aperte le porte. Allora egli, non dubitando che i prigionieri fossero fuggiti, e perciò forse egli stesso dovesse pagarla con la testa, nell’eccesso della disperazione corre, sfodera una spada, l’appunta al petto e già sta per uccidersi. Paolo, o per il chiarore della luna o al lume di qualche lampada, veduto quell’uomo in tal atto di disperazione, “Fermati!”, si pose a gridare, “Non farti alcun male, eccoci siamo qui tutti.” Rassicurato a queste parole si tranquillizza un po’ e, fattosi portare lume, entrò nel carcere e trova i prigionieri ciascuno al suo posto. Preso da meraviglia e mosso da un interiore lume della grazia di Dio, tutto tremante si getta ai piedi di Paolo e di Sila dicendo: “Signori, che devo fare per essere salvato?”
            Ognuno può immaginarsi quanta allegrezza abbia provato Paolo nel suo cuore a tali parole! Egli si volse a lui e rispose: “Credi nel Figlio di Dio Gesù Cristo, e sarai salvo tu e tutta la tua famiglia.”
            Quel buon uomo, senza indugio, condusse in casa i santi prigionieri, lavò loro le piaghe con quell’amore e riverenza che avrebbe fatto a suo padre. Radunata poi la sua famiglia, furono ammaestrati nella verità della fede. Ascoltando essi con umiltà di cuore la parola di Dio, impararono in breve quanto era necessario per diventare cristiani. Così San Paolo, vedendoli pieni di fede e della grazia dello Spirito Santo, tutti li battezzò. Quindi si posero a ringraziare Dio dei benefici ricevuti. Quei nuovi fedeli, vedendo Paolo e Sila sfiniti e cadenti per le battiture e per il lungo digiuno, corsero subito a preparare loro la cena con la quale furono ristorati. I due Apostoli provarono maggior conforto per le anime che avevano guadagnate a Gesù Cristo; perciò, pieni di gratitudine verso Dio, ritornarono in prigione aspettando quelle disposizioni che la divina Provvidenza avrebbe fatto conoscere a loro riguardo.
            Intanto i magistrati si pentirono di aver fatto battere e chiudere in prigione coloro ai quali non avevano potuto trovare colpa di sorta, e mandarono alcuni uscieri a dire al carceriere che lasciasse in libertà i due prigionieri. Lietissimo di tale notizia, il carceriere corse subito a comunicarla agli Apostoli. “Voi”, disse, “potete sicuramente andarvene in pace.” Ma a Paolo sembrò doversi fare altrimenti. Se fossero così di nascosto fuggiti, si sarebbe creduto essere loro colpevoli di grave misfatto, e ciò con danno del Vangelo. Egli pertanto chiamò a sé gli uscieri e disse loro: “I vostri magistrati, senza aver cognizione di questa causa, senza alcuna forma di giudizio, hanno pubblicamente fatto battere noi che siamo cittadini romani; ed ora di nascosto ci vogliono mandar via. Certo non sarà così: vengano essi stessi e ci conducano fuori della prigione.” Quei messi portarono ai magistrati questa risposta; i quali, avendo inteso che erano cittadini romani, furono presi da forte timore, perché il battere un cittadino romano era delitto capitale. Per la qual cosa vennero subito alla prigione e con benigne parole si scusarono di quanto avevano fatto e, traendoli onoratamente dalla prigione, li pregarono di voler uscire dalla città. Gli Apostoli si recarono subito alla casa di Lidia, dove trovarono i compagni immersi in costernazione a causa loro; e ne furono grandemente consolati al vederli posti in libertà. Dopo di che partirono dalla città di Filippi. Così quei cittadini rigettarono le grazie del Signore per le grazie degli uomini.

CAPO XI. San Paolo predica a Tessalonica — Affare di Giasone — Va a Berea dove è di nuovo disturbato dagli Ebrei — Anno di Cristo 52

            Paolo con i suoi compagni partì da Filippi lasciando lì le due famiglie di Lidia e del carceriere guadagnate a Gesù Cristo. Passando per le città di Anfipoli e di Apollonia pervenne a Tessalonica, città principale della Macedonia, molto famosa per il suo commercio e per il suo porto sull’Egeo. Oggigiorno è detta Salonicco.
            Lì Dio aveva preparato al santo Apostolo molti patimenti e molte anime da guadagnare a Cristo. Egli si mise a predicare e per tre sabati continuò a provare con le Sacre Scritture che Gesù Cristo era il Messia, il Figlio di Dio, che le cose a lui avvenute erano state annunciate dai Profeti; perciò doveva o rinunciare alle profezie o credere alla venuta del Messia. A tale predicazione alcuni credettero ed abbracciarono la fede; ma altri, specialmente Ebrei, si mostrarono ostinati e con grande odio si levarono contro San Paolo. Postisi alla testa di alcuni malvagi della feccia del popolo, si radunarono e, a gruppi, misero a rumore tutta la città. E poiché Sila e Paolo avevano preso alloggio presso un certo Giasone, corsero tumultuando alla casa di lui per trarli fuori e condurli dinanzi al popolo. I fedeli se ne accorsero per tempo e riuscirono a farli fuggire. Non potendoli più trovare, presero Giasone insieme con alcuni fedeli e li trascinarono dinanzi ai magistrati della città, gridando a gran voce: “Questi turbatori del genere umano sono venuti anche qua da Filippi; e Giasone li ha accolti in casa sua; ora costoro trasgrediscono i decreti e violano la maestà di Cesare affermando esservi un altro Re, cioè Gesù Nazareno.” Queste parole riscaldarono i Tessalonicesi e fecero montare in furore i medesimi magistrati. Ma Giasone, avendoli assicurati che non si volevano fare tumulti e che, qualora avessero chiesto quei forestieri, egli li avrebbe loro presentati, si mostrarono soddisfatti e si placò il tumulto. Ma Sila e Paolo, vedendo inutile ogni fatica in quella città, seguirono i consigli dei fratelli e si recarono a Berea, altra città di quella provincia.
            A Berea Paolo si mise a predicare nella sinagoga degli Ebrei, cioè si pose nello stesso pericolo da cui poco prima era stato quasi per miracolo liberato. Ma questa volta il suo coraggio fu largamente ricompensato. I Bereani con grandissima avidità ascoltarono la parola di Dio. Paolo allegava sempre quei passi della Bibbia che riguardavano Gesù Cristo, e gli uditori correvano subito a riscontrarli e a verificare i testi da lui citati; e trovandoli corrispondere con esattezza, si piegavano alla verità e credevano al Vangelo. Così faceva il Salvatore con gli Ebrei della Palestina quando li invitava a leggere attentamente le Sacre Scritture: Scrutamini Scripturas, et ipsae testimonium perhibent de me (Esaminate le Scritture, e esse stesse testimoniano di me).
            Tuttavia, le conversioni avvenute a Berea non poterono rimanere nascoste tanto che non ne pervenisse notizia a quelli di Tessalonica. Gli ostinati Ebrei di questa città corsero in gran numero a Berea per guastare l’opera di Dio e impedire la conversione dei Gentili. San Paolo era principalmente cercato come colui che sosteneva in particolare la predicazione. I fratelli, vedendolo in pericolo, lo fecero accompagnare segretamente fuori della città da persone fidate e, per vie sicure, lo condussero ad Atene. Rimasero però a Berea Sila e Timoteo. Ma Paolo, nel congedare coloro che l’avevano accompagnato, raccomandò loro con premura che dicessero a Sila e a Timoteo di raggiungerlo il più presto possibile. I santi Padri, nell’ostinazione degli Ebrei di Tessalonica, ravvisano quei Cristiani i quali, non paghi di non approfittare essi stessi dei benefici della religione, cercano allontanarne gli altri, cosa che fanno o calunniando i sacri ministri o disprezzando le cose della medesima religione. Il Salvatore dice a costoro: “A voi sarà tolta la mia vigna”, cioè la mia religione, “e sarà data ad altri popoli che la coltiveranno meglio di voi e riporteranno frutti a suo tempo.” Minaccia terribile, ma che purtroppo si è già avverata e si va avverando in molti paesi, dove un tempo fioriva la cristiana religione, i quali presentemente vediamo immersi nelle folte tenebre dell’errore, del vizio e del disordine. — Dio ci scampi da questo flagello!

CAPO XII. Stato religioso degli Ateniesi — San Paolo nell’Areopago — Conversione di San Dionigi — Anno di Cristo 52

            Atene era una delle più antiche, più ricche, più commercianti città del mondo. Lì la scienza, il valore militare, i filosofi, gli oratori, i poeti furono sempre i maestri del genere umano. Gli stessi Romani avevano mandato in Atene per raccogliere leggi che portarono a Roma come oracoli di saggezza. Vi era inoltre un senato di uomini considerati specchio di virtù, giustizia e prudenza; essi erano chiamati Areopagiti, dall’Areopago, luogo dove avevano il tribunale. Ma con tanta scienza giacevano immersi nella vergognosa ignoranza delle cose di religione. Le sette dominanti erano quelle degli Epicurei e quella degli Stoici. Gli Epicurei negavano a Dio la creazione del mondo e la provvidenza, né ammettevano premio o pena nell’altra vita, perciò ponevano la beatitudine nei piaceri della terra. Gli Stoici riponevano il sommo bene nella sola virtù e facevano l’uomo in alcune cose maggiore del medesimo Dio, perché credevano di avere la virtù e la sapienza da sé stessi. Tutti poi adoravano più dèi, e non vi era delitto che non fosse favorito da qualche insensata divinità.
            San Paolo, uomo oscuro, tenuto a vile perché Giudeo, doveva a costoro predicare Gesù Cristo, anche Giudeo morto in croce, e ridurli ad adorarlo come vero Dio. Perciò solo Dio poteva fare che le parole di San Paolo potessero cambiare cuori così inveterati nel vizio e alieni dalla vera virtù, e fare che abbracciassero e professassero la santa religione cristiana.
            Mentre Paolo stava aspettando Sila e Timoteo, provava nel suo cuore compassione per quei miseri ingannati e, secondo il solito, si metteva a disputare con gli Ebrei e con tutti quelli che si abbattevano in lui ora nelle sinagoghe, ora nelle piazze. Gli Epicurei e gli Stoici vennero anch’essi con lui a disputare e, non potendo resistere alle ragioni, andavano dicendo: “Che vorrà dire questo ciurmatore?” Altri dicevano: “Pare che costui ci voglia mostrare qualche nuovo Dio.” Il che dicevano perché udivano nominare Gesù Cristo e la resurrezione. Alcuni altri, volendo operare con maggior prudenza, invitarono Paolo a recarsi nell’Areopago. Come giunse in quel magnifico senato, gli dissero: “Si potrebbe sapere qualcosa di questa tua nuova dottrina? Poiché tu ci suoni all’orecchio cose mai da noi udite. Desideriamo sapere la realtà di quanto insegni.”
            Alla notizia che un forestiero doveva parlare nell’Areopago accorse gran calca di gente.
            Conviene qui notare che fra gli Ateniesi era severamente proibito dire la minima parola contro le loro innumerevoli e stupide divinità, e reputavano delitto capitale il ricevere o aggiungere tra di loro qualche dio forestiero, che non fosse attentamente esaminato e proposto dal senato. Due filosofi, di nome Anassagora l’uno, Socrate l’altro, solo per aver lasciato intendere che non potevano ammettere tante ridicole divinità, dovettero perdere la vita. Da queste cose si intende facilmente il pericolo in cui era San Paolo predicando il vero Dio a quella terribile assemblea e cercando di atterrare tutti i loro dèi.
            Il santo Apostolo, dunque, vedendosi in quell’augusto senato e dovendo parlare ai più sapienti degli uomini, giudicò bene di prendere uno stile e un modo di ragionare assai più elegante che non faceva. E poiché quei senatori non ammettevano l’argomento delle Scritture, egli pensò di farsi strada a parlare con la forza della ragione. Levatosi pertanto in piedi e fattosi da tutti silenzio, incominciò:
            «Uomini Ateniesi, io vi vedo in tutte le cose religiosi fino allo scrupolo. Perché, passando per questa città e considerando i vostri simulacri, ho trovato anche un altare con questa iscrizione: Al Dio Ignoto. Io dunque vengo ad annunciarvi quel Dio che voi adorate senza conoscere. Egli è quel Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che in esso esistono. Egli è il padrone del cielo e della terra, perciò non abita in templi fatti dagli uomini. Né egli è servito dalle mani dei mortali quasi avesse bisogno di loro; che anzi egli è colui che dà a tutti la vita, il respiro e tutte le cose. Egli fece che da un uomo solo discendessero tutti gli altri, la cui discendenza si estese ad abitare tutta la terra; Egli fissò i tempi e i confini della loro abitazione, perché cercassero Dio se mai lo avessero potuto trovare, quantunque Egli non sia lontano da noi.
            «Perché in lui viviamo, ci muoviamo e siamo, come anche taluno dei vostri poeti (Arato, famoso poeta della Cilicia) ha detto: “Perché siamo anche sua discendenza”. Essendo dunque noi discendenza di Dio, non dobbiamo stimare che Egli sia simile all’oro o all’argento o alla pietra scolpita dall’arte o dall’invenzione degli uomini. Dio però nella sua misericordia chiuse gli occhi per il passato sopra tale ignoranza; ma adesso intima che facciamo penitenza. Poiché Egli ha fissato un giorno in cui giudicherà con giustizia tutto il mondo per mezzo di un uomo stabilito da Lui, come ne ha dato prova a tutti risuscitandolo dai morti».
            Fino a questo punto quegli uditori leggeri, i cui vizi ed errori erano stati attaccati con molta finezza, avevano serbato buon contegno. Ma al primo annuncio del dogma straordinario della resurrezione, gli Epicurei si alzarono e in gran parte uscirono beffandosi di quella dottrina che certamente a loro incuteva terrore. Altri più discreti gli dissero che per quel giorno bastava, e che lo avrebbero ascoltato un’altra volta sul medesimo argomento. A questo modo fu accolto il più eloquente degli Apostoli da quella superba assemblea. Differirono di approfittare della grazia di Dio; questa grazia non leggiamo che sia poi stata da Dio loro concessa un’altra volta.
            Dio però non lasciò di consolare il suo servo col guadagno di alcune anime privilegiate. Fra le altre fu Dionigi, uno dei giudici dell’Areopago, e una donna di nome Damaris che si crede sua moglie. Di questo Dionigi si racconta che alla morte del Salvatore, rimirando quell’eclisse per cui le tenebre si erano sparse sopra tutta la terra, esclamò: “O il mondo si sfascia, o l’autore della natura patisce violenza.” Appena egli poté conoscere la causa di quell’avvenimento, si arrese subito alle parole di San Paolo. Si racconta pure che, essendo andato a visitare la Madre di Dio, ne fu così sorpreso da tanta bellezza e maestà, che si prostrò a terra per venerarla, asserendo che l’avrebbe adorata come una divinità se la fede non lo avesse accertato esserci un solo Dio. Egli venne poi da San Paolo consacrato vescovo di Atene e morì coronato del martirio.

CAPO XIII. San Paolo a Corinto — Sua dimora in casa di Aquila — Battesimo di Crispo e di Sostene — Scrive ai Tessalonicesi — Ritorno ad Antiochia — Anno di Gesù Cristo 53-54

            Se Atene era la città più celebre per la scienza, Corinto era considerata la prima per il commercio. Là convergevano mercanti da tutte le parti. Aveva due porti sull’istmo del Peloponneso: uno chiamato Cencrea che guardava l’Egeo, l’altro detto Lecheo che si affacciava sull’Adriatico. Il disordine e l’immoralità vi erano portati al trionfo. Nonostante tali ostacoli, San Paolo, appena giunto in questa città, si mise a predicare in pubblico e in privato.
            Egli prese alloggio in casa di un Giudeo di nome Aquila. Costui era un fervente cristiano che, per evitare la persecuzione pubblicata dall’imperatore Claudio contro i Cristiani, era fuggito dall’Italia con sua moglie di nome Priscilla ed era venuto a Corinto. Esercitavano l’arte medesima che Paolo da giovane aveva appreso, cioè fabbricavano tende per uso dei soldati. Per non essere di nuovo di peso ai suoi ospiti, il santo Apostolo si dedicava anch’egli al lavoro e trascorreva nella bottega tutto il tempo che gli rimaneva libero dal sacro ministero. Ogni sabato, però, si recava alla sinagoga e si sforzava di far conoscere agli Ebrei che le profezie riguardanti il Messia avevano avuto adempimento nella persona di Gesù Cristo.
            Giunsero frattanto Sila e Timoteo da Berea. Essi erano partiti per Atene, dove avevano appreso che Paolo ne era già partito, e lo raggiunsero a Corinto. Al loro arrivo, Paolo si diede con maggior coraggio a predicare agli Ebrei; ma crescendo ogni giorno la loro ostinazione, Paolo, non potendo più sopportare tante bestemmie e tale abuso di grazie, così mosso da Dio annunciò loro imminenti i divini flagelli con queste parole: «Il vostro sangue ricada su di voi; io ne sono innocente. Ecco che io mi rivolgo ai Gentili, e in avvenire sarò tutto per essi».
            Tra gli Ebrei che bestemmiavano Gesù Cristo, forse vi erano alcuni che lavoravano nella bottega di Aquila; perciò l’Apostolo, al fine di evitare la compagnia dei malvagi, abbandonò la casa di lui e si trasferì presso un certo Tito Giusto, da poco tempo convertito dal paganesimo alla fede. Vicino a Tito dimorava un certo Crispo, capo della sinagoga. Costui, istruito dall’Apostolo, abbracciò la fede con tutta la sua famiglia.
            Le grandi occupazioni di Paolo a Corinto non gli fecero dimenticare i suoi diletti fedeli di Tessalonica. Quando Timoteo giunse da lì, gli aveva raccontato grandi cose del fervore di quei cristiani, della loro grande carità, della buona memoria che conservavano di lui e dell’ardente desiderio di rivederlo. Non potendo Paolo recarsi di persona, come desiderava, scrisse loro una lettera, che si crede essere la prima lettera scritta da San Paolo.
            In questa lettera egli si rallegra molto con i Tessalonicesi della loro fede e della loro carità, poi li esorta a guardarsi dai disordini sensuali e da ogni frode. E siccome l’ozio è la sorgente di tutti i vizi, così egli li incoraggia a dedicarsi seriamente al lavoro, reputando indegno di mangiare chi non vuole lavorare: Si quis non vult operari nec manducet. (Se qualcuno non vuole lavorare, neppure mangi). Conclude poi ricordando loro il grande premio che Dio tiene preparato in cielo per la minima fatica sopportata nella vita presente per amore di Lui.
            Poco dopo questa lettera ebbe altre notizie dei medesimi fedeli di Tessalonica. Erano essi grandemente inquieti per alcuni impostori che andavano predicando imminente il giudizio universale. L’Apostolo scrisse loro una seconda lettera, avvisandoli di non lasciarsi ingannare dai loro fallaci discorsi. Nota essere certo il giorno del giudizio universale, ma prima devono apparire moltissimi segni, tra i quali la predicazione del Vangelo in tutta la terra. Li esorta a tenersi fermi alle tradizioni che aveva loro comunicate per lettera e a viva voce. Infine si raccomanda alle loro preghiere e insiste molto nel fuggire i curiosi e gli oziosi, che sono considerati come la peste della religione e della società.
            Mentre San Paolo confortava i fedeli di Tessalonica, insorsero contro di lui tali persecuzioni che si sarebbe indotto a fuggire da quella città se non fosse stato da Dio confortato con una visione. Gli apparve Gesù Cristo e gli disse: «Non temere, io sono con te, nessuno potrà farti alcun male; in questa città è grande il numero di coloro che per tuo mezzo si convertiranno alla fede». Incoraggiato da tali parole, l’Apostolo dimorò a Corinto diciotto mesi.
            La conversione di Sostene fu tra quelle che recarono grande consolazione all’animo di Paolo. Egli era succeduto a Crispo nella carica di capo della sinagoga. La conversione di questi due principali esponenti della loro setta irritò fieramente i Giudei, e nel loro furore presero l’Apostolo e lo condussero dal proconsole, accusandolo d’insegnare una religione contraria a quella dei Giudei. Gallione, tale è il nome di quel governatore, udendo che si trattava di cose di religione, non volle mischiarsi a farla da giudice. Si limitò a rispondere così: «Se si trattasse di qualche ingiustizia o di qualche pubblico misfatto, vi ascolterei volentieri; ma trattandosi di questioni appartenenti alla religione, pensateci voi altri, io non intendo giudicare in queste materie». Quel proconsole riteneva che le questioni e le differenze riguardanti la religione dovessero essere discusse dai sacerdoti e non dalle autorità civili, e per questo fu saggia la sua risposta.
            Sdegnati i Giudei di tale ripulsa, si rivolsero contro Sostene, eccitarono anche i ministri del tribunale a unirsi con loro per batterlo sotto gli occhi del medesimo Gallione, senza che egli li proibisse. Sostene tollerò con invitta pazienza quell’affronto e, appena lasciato in libertà, si unì a Paolo e gli divenne compagno fedele nei suoi viaggi.
            Vedendosi Paolo come per miracolo liberato da così grave burrasca, fece a Dio un voto in rendimento di grazie. Quel voto era simile a quello dei Nazirei, il quale consisteva particolarmente nell’astenersi per un dato tempo dal vino e da qualunque altra cosa atta a ubriacare, e nel lasciarsi crescere i capelli, il che presso gli antichi era segno di lutto e di penitenza. Quando era per terminare il tempo del voto, si doveva fare un sacrificio nel tempio con varie cerimonie prescritte dalla legge di Mosè.
            Adempiuta una parte del suo voto, San Paolo, in compagnia di Aquila e Priscilla, si imbarcò alla volta di Efeso, città dell’Asia Minore. Secondo il suo costume, Paolo andò a visitare la sinagoga e disputò più volte con gli Ebrei. Pacifiche furono queste dispute, anzi gli Ebrei lo invitarono a fermarsi di più; ma Paolo voleva proseguire il suo viaggio per trovarsi a Gerusalemme e compiere il suo voto. Diede però parola a quei fedeli di ritornarvi, e quasi per caparra del suo ritorno lasciò presso di loro Aquila e Priscilla. Da Efeso, San Paolo si imbarcò per la Palestina e giunse a Cesarea, dove sbarcando si incamminò a piedi verso Gerusalemme. Andò a visitare i fedeli di questa Chiesa e, adempiute le cose per le quali aveva intrapreso il viaggio, venne ad Antiochia, dove fece qualche tempo di dimora.
            Tutto è degno di ammirazione in questo grande Apostolo. Notiamo qui solamente una cosa che egli caldamente raccomanda ai fedeli di Corinto. Per dare loro un importante avviso su come mantenersi fermi nella fede, scrive: Itaque, fratres, state, et tenete traditiones quas didicistis sive per sermonem sive per epistolam nostram (Fratelli, per non cadere nell’errore, tenetevi alle tradizioni imparate dal mio discorso e dalla mia lettera). Con queste parole, San Paolo comandava di avere la medesima riverenza per la parola di Dio scritta e per la parola di Dio tramandata per tradizione, come insegna la Chiesa Cattolica.

CAPO XIV. Apollo a Efeso — Il sacramento della Cresima — San Paolo opera molti miracoli — Fatto di due esorcisti Ebrei — Anno di Cristo 55

            San Paolo dimorò qualche tempo ad Antiochia, ma vedendo quei fedeli abbastanza provvisti di sacri pastori, decise di partire per visitare di nuovo i paesi dove aveva già predicato. Questo è il quinto viaggio del nostro santo Apostolo. Egli andò in Galazia, nel Ponto, in Frigia e in Bitinia; poi, secondo la promessa fatta, ritornò a Efeso dove Aquila e Priscilla lo aspettavano. Ovunque fu accolto, come scrive egli stesso, quale angelo di pace.
            Tra la partenza e il ritorno di Paolo a Efeso, si recò in questa città un Giudeo di nome Apollo. Egli era un uomo eloquente e profondamente istruito nella Sacra Scrittura. Adorava il Salvatore e lo predicava anche con zelo, ma non conosceva altro battesimo se non quello predicato da San Giovanni Battista. Aquila e Priscilla si accorsero che aveva un’idea assai confusa dei Misteri della Fede e, chiamandolo a sé, lo istruirono meglio nella dottrina, vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo.
            Desideroso di portare la parola di salvezza ad altri popoli, decise di passare in Acaia, cioè in Grecia. Gli Efesini, che da qualche tempo ammiravano le sue virtù e cominciavano ad amarlo come padre, vollero accompagnarlo con una lettera in cui lodavano molto il suo zelo e lo raccomandavano ai Corinzi. Egli infatti fece gran bene a quei cristiani. Quando l’Apostolo giunse a Efeso, trovò parecchi fedeli istruiti da Apollo e, volendo conoscere lo stato di queste anime, domandò se avevano ricevuto lo Spirito Santo; vale a dire se avevano ricevuto il sacramento della Cresima, che si soleva in quei tempi amministrare dopo il battesimo, e in cui si conferiva la pienezza dei doni dello Spirito Santo. Ma quella buona gente rispose: «Noi non sappiamo nemmeno che vi sia uno Spirito Santo». Meravigliato l’Apostolo di tale risposta e, avendo inteso che avevano ricevuto soltanto il battesimo di San Giovanni Battista, comandò che fossero nuovamente battezzati col battesimo di Gesù Cristo, cioè nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Dopo di che, Paolo, imponendo le mani, amministrò loro il sacramento della Cresima, e quei nuovi fedeli ricevettero non solo gli effetti invisibili della grazia, ma anche segni particolari e manifesti dell’onnipotenza divina, il che rendevano manifesto parlando speditamente le lingue che prima non intendevano, predicendo le cose future e interpretando la Sacra Scrittura.
            San Paolo predicò per tre mesi nella sinagoga, esortando gli Ebrei a credere in Gesù Cristo. Molti credettero, ma parecchi, mostrandosi ostinati, bestemmiavano perfino il santo nome di Gesù Cristo. Paolo, per l’onore del Vangelo deriso da questi empi e per fuggire la compagnia dei malvagi, cessò di predicare nella sinagoga, ruppe ogni comunicazione con loro e si ritirò a casa di un gentile cristiano di nome Tiranno, che faceva il maestro di scuola. San Paolo fece di quella scuola una Chiesa di Gesù Cristo, dove, predicando e spiegando le verità della fede, attirava Gentili ed Ebrei da tutte le parti dell’Asia.
            Dio aiutava la sua opera confermando con prodigi inauditi la dottrina predicata dal suo servo. I panni, i fazzoletti e le fasce che avevano toccato il corpo di Paolo venivano portati qua e là e posti sugli infermi e sugli indemoniati, e ciò bastava perché subito fuggissero le malattie e gli spiriti immondi. Fu questa una meraviglia mai udita, e Dio volle certamente che un tal fatto fosse registrato nella Bibbia per confondere coloro che hanno tanto declamato e tuttora declamano contro la venerazione che i Cattolici prestano alle sacre reliquie. Forse vogliono essi condannare di superstizione quei primi cristiani, i quali applicavano sugli ammalati i fazzoletti che avevano toccato il corpo di Paolo? Cose che San Paolo non aveva mai proibito e che Dio dimostrava di approvare con miracoli?
            A proposito dell’invocazione del nome di Gesù Cristo per fare miracoli, avvenne un fatto assai curioso. Tra gli Efesini vi erano molti che pretendevano di cacciare i demoni dai corpi con certe parole magiche oppure usando radici di erbe o profumi. Ma i loro risultati riuscivano sempre poco favorevoli. Anche alcuni esorcisti Ebrei, vedendo che perfino le vesti di Paolo cacciavano i demoni, ne furono presi da invidia e si provarono, come faceva San Paolo, a usare il nome di Gesù Cristo per cacciare il demonio da un uomo. «Io ti scongiuro», andavano dicendo, «e ti comando di uscire da questo corpo per quel Gesù che è predicato da Paolo». Il demonio, che sapeva le cose meglio di loro, per bocca dell’indemoniato rispose: «Io conosco Gesù e so anche chi è Paolo; ma voi siete impostori. Qual diritto avete voi sopra di me?» Ciò detto, si avventò su di loro, li malmenò e li percosse in modo che due di loro a stento poterono fuggire tutti feriti e con gli abiti fatti a pezzi. Questo fatto strepitoso, essendosi divulgato per tutta la città, causò gran timore, e nessuno più osava nominare il santo nome di Gesù Cristo se non con rispetto e venerazione.

CAPO XV. Sacramento della Confessione — Libri perversi bruciati — Lettera ai Corinzi — Sollevazione per la dea Diana — Lettera ai Galati — Anno di Cristo 56-57

            Dio, sempre misericordioso, sa ricavare il bene perfino dai peccati stessi. Il fatto dei due esorcisti così malmenati da quell’indemoniato, mise gran paura in tutti gli Efesini, e tanto gli Ebrei quanto i Gentili si affrettarono a rinunciare al demonio e ad abbracciare la fede. Fu allora che molti di quelli che avevano creduto venivano in gran numero a confessare e a dichiarare il male commesso nella loro vita per ottenere il perdono: Veniebant confitentes et annuntiantes actus suos. Ad. 19 (Venivano confessando e dichiarando i loro atti). È questa una chiara testimonianza della confessione sacramentale comandata dal Salvatore e praticata fin dai tempi apostolici.
            Primo frutto della confessione e del pentimento di quei fedeli fu di allontanare da sé le occasioni del peccato. Perciò tutti quelli che possedevano libri perversi, cioè contrari ai buoni costumi o alla religione, li consegnavano perché fossero bruciati. Tanti ne portarono che, fattone un mucchio sulla piazza, ne fecero un falò alla presenza di tutto il popolo, reputando cosa migliore bruciare quei libri nella vita presente per evitare il fuoco eterno dell’inferno. Il valore di quei libri formava una somma che corrispondeva quasi a centomila franchi. Nessuno però cercò di venderli, perché sarebbe stato un porgere ad altri occasione di far male, cosa che non è mai permessa. Mentre queste cose accadevano, giunse da Corinto a Efeso Apollo con altri, annunciando che erano nate discordie tra quei fedeli. Il santo Apostolo si adoperò a porvi rimedio con una lettera, in cui raccomanda loro l’unità di fede, l’obbedienza ai propri pastori, la carità vicendevole e specialmente verso i poveri; inculca ai ricchi di non imbandire lauti banchetti e abbandonare i poveri nella miseria. Insiste poi che ciascuno purifichi la sua coscienza prima di accostarsi al Corpo e al Sangue di Gesù Cristo, dicendo: «Colui che mangia quel Corpo e beve quel Sangue indegnamente, mangia il proprio giudizio e la propria condanna». Era pure accaduto che un giovane aveva commesso grave peccato con la sua matrigna. Il santo, per farne comprendere il dovuto orrore, comandò che quello fosse per qualche tempo separato dagli altri fedeli affinché tornasse in sé stesso. È questo un vero esempio di scomunica, come appunto pratica ancora la Chiesa Cattolica, quando per gravi delitti scomunica, ossia dichiara separati dagli altri quei cristiani che ne sono colpevoli. Paolo mandò il suo discepolo Tito a portare questa lettera a Corinto. Il frutto pare che ne sia stato molto copioso.
            Egli era a Efeso quando si scatenò contro di lui una terribile persecuzione per opera di un orefice chiamato Demetrio. Costui fabbricava piccoli templi d’argento entro cui si poneva una statuetta della dea Diana, divinità venerata a Efeso e in tutta l’Asia. Ciò gli produceva commercio e gran guadagno, poiché la maggior parte dei forestieri che venivano alle feste di Diana portavano via con sé questi segni di devozione. Demetrio ne era l’artefice principale e con ciò forniva lavoro e sostentamento alle famiglie di molti operai.
            Man mano che cresceva il numero dei cristiani, diminuiva quello dei compratori delle statuette di Diana. Così, un giorno, Demetrio radunò un gran numero di cittadini e dimostrò come, non avendo essi altri mezzi per vivere, Paolo li avrebbe tutti fatti morire di fame. «Almeno», soggiungeva, «non si trattasse che del nostro privato interesse; ma il tempio della nostra gran dea, così celebrato in tutto il mondo, è per essere abbandonato». A queste parole fu interrotto da mille diverse voci che gridavano con la più furiosa confusione: «La grande Diana degli Efesini! La grande Diana degli Efesini!» Tutta la città si mise sottosopra; corsero schiamazzando in cerca di Paolo e, non potendolo trovare subito, trascinarono con sé due suoi compagni di nome Gaio e Aristarco. Un Giudeo di nome Alessandro volle parlare. Ma appena poté aprire bocca, da tutte le parti si misero a gridare con voce ancor più forte: «La grande Diana degli Efesini! Quanto è grande la Diana degli Efesini!» Questo grido fu ripetuto per due ore intere.
            Paolo voleva avanzarsi in mezzo al tumulto per parlare, ma alcuni fratelli, sapendo che si sarebbe esposto a morte certa, glielo impedirono. Dio però, che ha in mano il cuore degli uomini, restituì piena calma tra quel popolo in un modo inaspettato. Un uomo saggio, un semplice segretario e, da quanto appare, amico di Paolo, riuscì a calmare quel furore. Appena poté parlare, disse: «E chi è che non sappia che la città di Efeso ha una devozione e un culto particolare verso la grande Diana, figlia di Giove? Essendo tale cosa da tutti creduta, voi non dovete turbarvi né appigliarvi a così temerario rimedio, quasi possa cadere in dubbio tale devozione da tutti i secoli stabilita. Quanto a Gaio e Aristarco, vi dirò che essi non sono convinti di alcuna bestemmia contro Diana. Se Demetrio e i suoi compagni hanno qualcosa contro di essi, portino la causa dinanzi al tribunale. Se continuiamo in queste pubbliche dimostrazioni, saremo accusati di sedizione». A quelle parole il tumulto si placò e ognuno tornò alle proprie occupazioni.
            Dopo questa sommossa, Paolo voleva subito partire per la Macedonia, ma dovette ancora sospendere la sua partenza a motivo di alcuni disordini avvenuti tra i fedeli della Galazia. Alcuni falsi predicatori si diedero a screditare San Paolo e le sue predicazioni, asserendo che la dottrina di lui era diversa da quella degli altri Apostoli e che la circoncisione e le cerimonie della legge di Mosè erano assolutamente necessarie.
            Il santo Apostolo scrisse una lettera in cui dimostra la conformità di dottrina fra lui e gli Apostoli; prova che molte cose della legge di Mosè non erano più necessarie per salvarsi; raccomanda di guardarsi bene dai falsi predicatori e di gloriarsi solamente in Gesù, nel cui nome augura pace e benedizioni.
            Spedita la lettera ai fedeli della Galazia, egli partì per la Macedonia dopo essere rimasto tre anni a Efeso, cioè dall’anno cinquantaquattro all’anno cinquantasette di Gesù Cristo. Durante il soggiorno di San Paolo a Efeso, Dio gli fece conoscere in spirito che lo chiamava in Macedonia, in Grecia, a Gerusalemme e a Roma.

CAPO XVI. San Paolo ritorna a Filippi — Seconda Lettera ai fedeli di Corinto — Va in questa città — Lettera ai Romani — Sua predica prolungata a Troade — Risuscita un morto — Anno di Cristo 58

            Prima di partire da Efeso, Paolo convocò i discepoli e, fatta loro una paterna esortazione, li abbracciò teneramente; poi si mise in viaggio verso la Macedonia. Desiderava fermarsi qualche tempo a Troade, dove sperava di incontrare il suo discepolo Tito; ma, non avendolo trovato e desiderando sapere presto lo stato della Chiesa di Corinto, partì da Troade, attraversò l’Ellesponto, che oggi si chiama stretto dei Dardanelli, e passò in Macedonia, dove dovette molto patire per la fede.
            Ma Dio gli preparò una grande consolazione con l’arrivo di Tito, che lo raggiunse nella città di Filippi. Quel discepolo espose al santo Apostolo come la sua lettera aveva prodotto salutari effetti tra i cristiani di Corinto, che il nome di Paolo era carissimo a tutti e che ognuno ardeva dal desiderio di rivederlo presto.
            Per dare sfogo ai paterni sentimenti del suo cuore, l’Apostolo scrisse da Filippi una seconda lettera nella quale si dimostra tutto tenerezza verso coloro che si conservavano fedeli e riprende alcuni che cercavano di pervertire la dottrina di Gesù Cristo. Avendo poi inteso che quel giovane, scomunicato nella sua prima lettera, si era sinceramente convertito, anzi, udendo da Tito che il dolore lo aveva quasi spinto alla disperazione, il santo Apostolo raccomandò di usargli riguardo, lo assolse dalla scomunica e lo restituì alla comunione dei fedeli. Con la lettera raccomandò molte cose a viva voce da comunicarsi per mezzo di Tito, che ne era il portatore. Accompagnarono Tito in questo viaggio altri discepoli, tra i quali San Luca, da alcuni anni vescovo di Filippi. San Paolo consacrò San Epafrodito vescovo per quella città e così San Luca divenne nuovamente compagno del santo maestro nelle fatiche dell’apostolato.
            Dalla Macedonia Paolo si recò a Corinto, dove ordinò quanto riguardava la celebrazione dei santi misteri, come aveva promesso nella sua prima lettera, il che si deve intendere di quei riti che in tutte le Chiese comunemente si osservano, come sarebbe il digiuno prima della Santa Comunione ed altre cose simili che riguardano l’amministrazione dei Sacramenti.
            L’Apostolo passò l’inverno in questa città, adoperandosi a consolare i suoi figli in Gesù Cristo, che non si saziavano di ascoltarlo e di ammirare in lui uno zelante pastore ed un tenero padre.
            Da Corinto estese pure le sue sollecitudini ad altri popoli e specialmente ai Romani, già convertiti alla fede da San Pietro con anni di fatiche e di patimenti. Aquila, con altri suoi amici, avendo inteso che era cessata la persecuzione, si era di nuovo recato a Roma. Paolo seppe da loro che in quella metropoli dell’impero erano insorte dissensioni tra Gentili ed Ebrei. I Gentili rimproveravano gli Ebrei perché non avevano corrisposto ai benefici ricevuti da Dio, avendo ingratamente messo in croce il Salvatore; gli Ebrei, dal loro canto, facevano rimproveri ai Gentili perché avevano seguito l’idolatria e venerato le più infami divinità. Il santo Apostolo scrisse la sua famosa Lettera ai Romani, tutta piena di sublimi argomenti, che egli tratta con quell’acutezza d’ingegno propria di un uomo dotto e santo, che scrive ispirato da Dio. Non è possibile abbreviarla senza pericolo di variarne il senso. Essa è la più lunga, la più elegante di tutte le altre e la più piena di erudizione. Ti esorto, o lettore, a leggerla attentamente, ma con le debite interpretazioni che si sogliono unire alla Vulgata. Essa è la sesta lettera di San Paolo e fu scritta dalla città di Corinto nell’anno 58 di Gesù Cristo. Ma, per il grande rispetto che in ogni tempo si ebbe per la dignità della Chiesa di Roma, è annoverata la prima tra le quattordici lettere di questo santo Apostolo. In questa lettera San Paolo non parla di San Pietro, perché egli era occupato nella fondazione di altre Chiese. Essa era portata da una diaconessa, ovvero monaca, di nome Febe, che l’Apostolo raccomanda molto presso i fratelli di Roma.
            Volendo San Paolo partire da Corinto per avviarsi a Gerusalemme, venne a sapere che gli Ebrei studiavano di tendergli insidie lungo il cammino; perciò, invece di imbarcarsi nel porto di Cencrea per Gerusalemme, Paolo tornò indietro e continuò il viaggio per la Macedonia. Lo accompagnarono Sosipatro, figlio di Pirro di Berea, Aristarco e Secondo di Tessalonica, Gaio di Derbe e Timoteo di Listra, Tichico e Trofimo di Asia. Costoro vennero in compagnia di lui fino a Filippi; poi, ad eccezione di Luca, passarono a Troade con ordine di aspettarlo là, mentre egli si sarebbe trattenuto in questa città fino dopo le feste pasquali. Passata tale solennità, Paolo e Luca in cinque giorni di navigazione giunsero a Troade e vi si fermarono sette giorni.
            Accadde che, alla vigilia della partenza di Paolo, era il primo giorno della settimana, cioè giorno di domenica, in cui i fedeli solevano radunarsi per ascoltare la parola di Dio ed assistere ai divini sacrifici. Fra le altre cose facevano lo spezzamento del pane, cioè celebravano la Santa Messa, a cui partecipavano i fedeli, ricevendo il Corpo del Signore sotto la specie del pane. Fin da allora la Messa si giudicava l’atto più sacro e più solenne per la santificazione del giorno festivo.
            Paolo, che era per partire l’indomani, prolungò il discorso a notte avanzata e, per illuminare il cenacolo, erano state accese molte lampade. Il giorno di domenica, l’ora notturna, il cenacolo al terzo piano della casa, le molte lampade accese, attrassero immensa folla di gente. Mentre tutti erano intenti al ragionamento di Paolo, un giovanetto di nome Eutico, o per desiderio di vedere l’Apostolo o per poterlo meglio ascoltare, era salito sopra una finestra e si era seduto sul davanzale. Ora, sia per il caldo che faceva, sia per l’ora tarda o forse per la stanchezza, fatto sta che quel giovinetto si addormentò; e nel sonno, abbandonandosi al peso del proprio corpo, cadde giù sul lastrico della pubblica strada. Si ode un lamento risuonare per l’assemblea; corrono e trovano il giovane senza vita.
            Paolo scende subito in basso, e, postosi con il corpo sopra il cadavere, lo benedice, lo abbraccia e, con il suo soffio o piuttosto con la viva fede in Dio, lo restituisce a nuova vita. Operato questo miracolo, senza badare agli applausi che da tutte le parti si facevano, risalì di nuovo nel cenacolo e continuò a predicare fino al mattino.
            La grande sollecitudine dei fedeli di Troade per assistere alle sacre funzioni deve servire da stimolo a tutti i cristiani a santificare i giorni festivi con opere di pietà, specialmente con l’udire devotamente la Santa Messa e con l’ascoltare la parola di Dio anche con qualche incomodo.

CAPO XVII. Predica di San Paolo a Mileto — Suo viaggio fino a Cesarea — Profezia di Agabo — Anno di Cristo 58

            Terminata quell’adunanza, che era durata circa ventiquattro ore, l’instancabile Apostolo partì con i suoi compagni per Mitilene, nobile città dell’isola di Lesbo. Di qui, proseguendo il viaggio, in pochi giorni giunse a Mileto, città della Caria, provincia dell’Asia Minore. L’Apostolo non aveva voluto fermarsi a Efeso per non essere obbligato da quei cristiani, che teneramente lo amavano, a sospendere troppo il suo cammino. Egli si affrettava con il fine di giungere a Gerusalemme per la festa di Pentecoste. Da Mileto Paolo mandò a Efeso per partecipare il suo arrivo ai vescovi e ai preti di quella città e delle province vicine, invitandoli a venirlo a trovare e anche a conferire con lui intorno alle cose della fede, se mai fosse stato necessario. Vennero in gran numero.
            Quando San Paolo si vide circondato da quei venerandi predicatori del Vangelo, cominciò ad esporre loro le tribolazioni sofferte giorno e notte per le insidie dei Giudei. «Ora io vado a Gerusalemme», diceva, «guidato dallo Spirito Santo, il quale, in tutti i luoghi dove passo, mi fa conoscere le catene e le tribolazioni che in quella città mi aspettano. Ma nulla di ciò mi spaventa, né tengo la mia vita più preziosa del mio dovere. A me poco importa vivere o morire, purché io termini la mia corsa rendendo gloriosa testimonianza al Vangelo che Gesù Cristo mi ha affidato. Voi non vedrete più il mio volto, ma badate a voi stessi e a tutto il gregge, sopra cui lo Spirito Santo vi ha costituiti vescovi per governare la Chiesa di Dio, da lui acquistata col prezioso suo sangue». Quindi passò ad avvisarli che dopo la sua partenza sarebbero insorti lupi rapaci e uomini perversi per guastare la dottrina di Gesù Cristo. Dette queste parole, si posero tutti in ginocchio e fecero insieme orazione. Nessuno poteva trattenere le lacrime, e tutti si gettavano sul collo di Paolo, imprimendogli mille baci. Erano specialmente inconsolabili per quelle parole che non avrebbero più visto il suo volto. Per godere ancora alcuni momenti della sua dolce compagnia, lo accompagnarono fino alla nave e non senza una specie di violenza si separarono dal loro caro maestro.
            Paolo insieme ai suoi compagni, da Mileto passò all’isola di Coo, molto rinomata per un tempio dei Gentili dedicato a Giunone e ad Esculapio. Il giorno dopo giunsero a Rodi, isola molto celebre specialmente per il suo Colosso, che era una statua di straordinaria altezza e grandezza. Di là vennero a Patara, città capitale della Licia, molto rinomata per un gran tempio dedicato al dio Apollo. Di qui navigarono fino a Tiro, dove la nave doveva lasciare il suo carico.
            Tiro è la città principale della Fenicia, ora detta Sur, sulle rive del Mediterraneo. Appena sbarcati, trovarono alcuni profeti che andavano pubblicando i mali che al santo Apostolo sovrastavano a Gerusalemme, e lo volevano distogliere da quel viaggio. Ma egli, dopo sette giorni, volle partire. Quei buoni cristiani, con le mogli e i loro bambini, lo accompagnarono fuori della città, dove, piegate le ginocchia sulla spiaggia, fecero con lui orazione. Quindi, scambiatisi i più cordiali saluti, s’imbarcarono e vennero accompagnati dagli sguardi dei sidoni fino a che la lontananza della nave li tolse di vista. Giunti a Tolemaide si fermarono un giorno per salutare e confortare quei cristiani nella fede; continuando poi il loro cammino, giunsero a Cesarea.
            Ivi Paolo fu accolto con giubilo dal diacono Filippo. Questo santo discepolo, dopo aver predicato ai Samaritani, all’eunuco della regina Candace e in molte città della Palestina, aveva fissato il suo domicilio a Cesarea per attendere alla cura di quelle anime che egli aveva rigenerato in Gesù Cristo.
            Venne in quei tempi a Cesarea il profeta Agabo e, andato a far visita al santo Apostolo, gli tolse da dosso la cintura e, legatosi con essa i piedi e le mani, disse: «Ecco quanto lo Spirito Santo apertamente mi dice: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà in questa guisa legato dai Giudei a Gerusalemme».
            La profezia di Agabo commosse tutti i presenti, poiché venivano sempre più resi manifesti i mali che erano preparati al santo Apostolo a Gerusalemme; perciò gli stessi compagni di Paolo, piangendo, lo pregavano di non andarvi. Ma Paolo coraggiosamente rispondeva: «Deh! Vi prego, non piangete. Con queste vostre lacrime non fate altro che accrescere afflizione al mio cuore. Sappiate che io sono pronto non solo a patire le catene, ma ad affrontare anche la morte per il nome di Gesù Cristo».
            Allora tutti, ravvisando la volontà di Dio nella fermezza del santo Apostolo, dissero ad una voce: «Sia fatta la volontà del Signore». Ciò detto, partirono alla volta di Gerusalemme con un certo Mnasone, che era stato discepolo e seguace di Gesù Cristo. Egli aveva dimora fissa a Gerusalemme e andava con loro per ospitarli in casa sua.

CAPO XVIII. San Paolo si presenta a San Giacomo — Gli Ebrei gli tendono insidie — Parla al popolo — Rimprovera il sommo sacerdote — Anno di Cristo 59

            Ci accingiamo ora a raccontare una lunga serie di patimenti e di persecuzioni che il santo Apostolo tollerò in quattro anni di prigionia. Dio volle preparare il suo servo a questi combattimenti facendoglieli conoscere molto prima; infatti, i mali previsti causano minore spavento, e l’uomo è più disposto a sostenerli. Giunto Paolo con i suoi compagni a Gerusalemme, furono accolti dai cristiani di questa città con i segni della più grande benevolenza. Il giorno dopo andarono a visitare il vescovo della città, che era San Giacomo il Minore, presso cui si erano pure radunati i sacerdoti principali della diocesi. Paolo raccontò le meraviglie che Dio aveva operato per il suo ministero presso i Gentili, di che tutti ringraziarono di cuore il Signore.
            Si premurarono però di avvisare Paolo del pericolo che gli sovrastava. «Molti Ebrei», gli dissero, «si sono convertiti alla fede e parecchi di costoro sono tenacissimi della circoncisione e delle cerimonie legali. Ora, sapendosi che tu dispensi i Gentili da queste osservanze, c’è un astio terribile contro di te. È necessario dunque che tu dimostri di non essere nemico degli Ebrei. Fa in questa maniera: nell’occasione in cui quattro Ebrei devono in questi giorni compiere un voto, tu prenderai parte alla funzione e farai per loro le spese che occorrono per questa solennità».
            Aderì prontamente Paolo al saggio consiglio e prese parte a quell’opera di pietà. Si recò nel tempio e la funzione era sul finire, quando alcuni Giudei venuti dall’Asia eccitarono il popolo contro di lui gridando: «Aiuto, Israeliti, aiuto! Quest’uomo è colui che va per tutto il mondo predicando contro il popolo, contro la legge e contro questo medesimo tempio. Egli non ha dubitato di violarne la santità introducendovi dentro dei Gentili».
            Sebbene tali accuse fossero calunnie, tuttavia si mise a rumore tutta la città e, fattosi un gran concorso di popolo, presero San Paolo, lo trascinarono fuori del tempio per metterlo a morte come bestemmiatore. Ma il rumore del tumulto essendo giunto al tribuno romano, questi accorse subito con le guardie. I sediziosi, vedendo le guardie, cessarono di percuotere Paolo e lo consegnarono al tribuno, che, fattolo legare, ordinò che fosse condotto nella torre Antonia, che era una fortezza ed un quartiere di soldati vicino al tempio. Lisia, tale era il nome del tribuno, desiderava sapere il motivo di quel tumulto ma nulla poté sapere, perché le grida e gli schiamazzi del popolo soffocavano ogni voce. Mentre Paolo saliva i gradini della fortezza, fu necessario che i soldati lo portassero sulle braccia per toglierlo dalle mani dei Giudei, i quali, non potendolo avere in loro potere, andavano schiamazzando: «Uccidilo, toglilo dal mondo».
            Quando stava per entrare nella torre, parlò così in greco al tribuno: «Mi è permesso dirti una parola?» Il tribuno si meravigliò che egli parlasse greco e gli disse: «Sai tu il greco? Non sei tu quell’Egiziano che poco fa eccitasti una ribellione e conducesti con te nel deserto quattromila assassini?» «No certamente», rispose Paolo, «io sono Giudeo, cittadino di Tarso, città della Cilicia. Ma, di grazia, mi permetti parlare al popolo?» La qual cosa essendogli stata concessa, Paolo, dai gradini della torre, alzò alquanto la mano aggravata dal peso delle catene, diede segno al popolo di tacere e si mise ad esporre quello che riguardava la sua patria, la sua conversione e la sua predicazione, e come Dio lo aveva destinato a portare la fede tra i Gentili.
            Il popolo lo aveva ascoltato con profondo silenzio fino a queste ultime parole; ma quando intese parlare dei Gentili, come agitato da mille furie, proruppe in grida forsennate, e chi per sdegno gettava a terra le proprie vesti, chi spargeva in aria la polvere, e tutti gridavano: «Costui è indegno di vivere, sia tolto dal mondo!»
            Il tribuno, che nulla aveva capito del discorso di San Paolo, perché aveva parlato in lingua ebraica, temendo che il popolo venisse a gravi eccessi, comandò ai suoi di condurre Paolo nella fortezza, di poi flagellarlo e metterlo alla tortura per costringerlo così a svelare la causa della sedizione. Ma Paolo, che sapeva non essere ancora venuta l’ora in cui dovesse patire simili mali per Gesù Cristo, si volse al centurione incaricato di far eseguire quell’ordine ingiusto e gli disse: «Ti pare che sia lecito flagellare un cittadino romano, senza che sia condannato?» Udendo ciò, il centurione corse dal tribuno dicendogli: «Che cosa sei per fare? Non sai che quest’uomo è cittadino romano?»
            Il tribuno ebbe paura, perché aveva fatto legare Paolo, la qual cosa portava pena di morte. Si recò egli stesso da Paolo e gli disse: «Sei tu veramente cittadino romano?» Egli rispose: «Lo sono veramente». «Io», soggiunse il tribuno, «ho acquistato a caro prezzo tale diritto di cittadinanza romana». «Ed io», replicò Paolo, «ne godo per la mia nascita». Saputo ciò, fece sospendere l’ordine di mettere Paolo alla tortura, ed il tribuno stesso ne fu in apprensione, e studiò un altro mezzo per sapere le accuse che i Giudei facevano contro di lui. Ordinò che il giorno seguente si radunassero il Sinedrio e tutti i sacerdoti Ebrei; poi, fatte togliere le catene a Paolo, lo fece venire in mezzo al concilio.
            L’Apostolo, fissati gli occhi su quell’assemblea, disse: «Io, fratelli, fino a questo giorno ho camminato davanti a Dio con buona coscienza». Appena udite queste parole, il sommo sacerdote, di nome Anania, comandò a uno degli astanti di dare a Paolo una forte percossa. L’Apostolo non giudicò di tollerare sì grave ingiuria e, con la libertà e lo zelo che usavano gli antichi profeti, disse: «Muraglia imbiancata, Dio percuoterà te, così come tu hai fatto percuotere me, perché, fingendo di giudicare secondo la legge, mi fai percuotere contro la legge stessa». Udite queste parole, tutti si risentirono: «Olà», gli dissero, «hai tu l’ardire di insultare il sommo sacerdote?» «Perdonatemi, fratelli», rispose Paolo, «io non sapevo che questi fosse il principe dei sacerdoti, poiché ben conosco la legge che proibisce di maledire il principe del popolo».
            Paolo non aveva riconosciuto il sommo sacerdote o perché egli non aveva le insegne del suo grado, o non parlava e non agiva con la dignità che a tale persona si conveniva. Né San Paolo malediceva Anania, ma prediceva i mali che sarebbero piombati su di lui, come di fatto avvenne. Per cavarsi in qualche maniera dalle mani dei suoi nemici, Paolo unì la semplicità della colomba alla prudenza del serpente e, sapendo che l’assemblea era composta di Sadducei e di Farisei, pensò di mettere divisione tra di loro esclamando: «Io, fratelli, sono Fariseo, figlio ed allievo di Farisei. Il motivo per cui sono chiamato in giudizio è la mia speranza nella resurrezione dei morti». Queste parole fecero nascere gravi dissensioni tra gli uditori; chi era contro Paolo, chi a favore di lui.
            Intanto si alzò un clamore che faceva temere gravi disordini. Il tribuno, temendo che i più arrabbiati si avventassero contro Paolo e lo facessero a pezzi, ordinò ai soldati che lo togliessero dalle loro mani e lo riconducessero nella torre. Dio però volle consolare il suo servo per quanto aveva patito in quella giornata. Nella notte gli apparve e gli disse: «Fatti animo: dopo avermi reso testimonianza a Gerusalemme, tu farai altrettanto a Roma».

CAPO XIX. Quaranta Giudei si obbligano con voto di uccidere San Paolo — Un suo nipote scopre la trama — È trasferito a Cesarea — Anno di Cristo 59

            I Giudei, vedendo fallito il loro disegno, passarono la notte seguente elaborando vari progetti. Quaranta di loro presero la disperata risoluzione di obbligarsi con voto a non mangiare né bere prima di aver ucciso Paolo. Ordita questa congiura, si recarono dai principi dei sacerdoti e dagli anziani, raccontando loro il proposito. «Per avere quel ribaldo nelle mani», soggiunsero, «abbiamo trovato una via sicura; resta solo che voi ci diate una mano. Fate sapere al tribuno, in nome del Sinedrio, che desiderate ulteriormente esaminare alcuni punti della causa di Paolo e che quindi ve lo presenti nuovamente domani. Egli certamente acconsentirà alla richiesta. Ma state certi che, prima che Paolo sia condotto dinanzi a voi, noi lo faremo a pezzi con queste mani». Gli anziani lodarono il progetto e promisero di collaborare.
            O perché qualcuno dei congiurati non mantenne il segreto, o perché non badarono a chiudere la porta quando ordirono il loro piano, certo è che furono scoperti. Un figlio della sorella di Paolo seppe ogni cosa e, corso alla torre, riuscì a passare in mezzo alle guardie, presentarsi allo zio e raccontargli l’intera trama. Paolo istruì bene il nipote sulla maniera di agire. Chiamato poi un ufficiale che gli stava di guardia, gli disse: «Ti prego di condurre questo giovanetto dal capitano; ha qualcosa da comunicargli».
            Il centurione lo condusse dal capitano e gli disse: «Quel Paolo che è in prigione mi ha pregato di condurti questo giovanetto, perché ha qualcosa da dirti». Il capitano prese per mano il giovanetto e, portatolo in disparte, gli chiese cosa avesse da riferire. «I Giudei», rispose, «si sono accordati per chiederti domani di far condurre Paolo nel Sinedrio, sotto pretesto di voler esaminare più a fondo la sua causa. Ma tu non dar loro retta: sappi che gli tendono un agguato e quaranta di loro si sono obbligati con un voto terribile a non mangiare né bere finché non l’abbiano ucciso. Ora sono pronti ad agire, aspettando solo il tuo consenso». «Bravo», disse il capitano, «hai fatto bene a dirmi queste cose. Ora vai pure, ma non dire a nessuno che me le hai rivelate».
            Da questa disperata risoluzione, Lisia comprese che trattenere più a lungo Paolo a Gerusalemme equivaleva a lasciarlo in pericolo, da cui forse non avrebbe potuto salvarlo. Perciò, senza indugio, chiamò due centurioni e disse loro: «Mettete all’ordine duecento soldati di fanteria e altrettanti armati di lancia, con settanta uomini a cavallo, ed accompagnino Paolo fino a Cesarea. Preparate anche una cavalcatura per lui affinché sia condotto là sano e salvo e si presenti al governatore Felice». Il tribuno accompagnò Paolo con una lettera al governatore, che diceva:
            «Claudio Lisia all’eccellentissimo governatore Felice, salute. Ti mando quest’uomo che, preso dai Giudei, era sul punto di essere da loro ucciso. Sopraggiunto con i miei soldati, lo tolsi dalle loro mani, avendo saputo che è cittadino romano. Volendo poi informarmi di quale delitto fosse accusato, lo condussi nel Sinedrio e trovai che era accusato per questioni riguardanti la loro legge, ma senza alcuna colpa che meritasse morte o prigione. Ma essendomi stato riferito che gli è tesa una trama di morte, ho deciso di mandarlo a te, invitando nel contempo i suoi accusatori a presentarsi davanti al tuo tribunale per esporre le loro accuse contro di lui. Stammi bene».
            In esecuzione degli ordini ricevuti, quella stessa notte i soldati partirono con Paolo e lo condussero ad Antipatride, città posta a metà strada tra Gerusalemme e Cesarea. A quel punto del percorso, non temendo più di essere assaliti dai Giudei, rimandarono i quattrocento soldati a Gerusalemme, e Paolo, accompagnato dai soli settanta cavalieri, giunse il giorno seguente a Cesarea.
            Così Dio, nel modo più semplice, liberava il suo Apostolo da un grave pericolo e faceva conoscere che i progetti degli uomini tornano sempre vani quando sono contrari al volere divino.

CAPO XX. Paolo davanti al governatore — I suoi accusatori e la sua difesa — Anno di Cristo 59

            Il giorno seguente Paolo giunse a Cesarea e fu presentato al governatore con la lettera del capitano Lisia. Letta la lettera, il governatore chiamò Paolo in disparte e, saputo che era di Tarso, gli disse: «Ti ascolterò quando saranno giunti i tuoi accusatori». Intanto lo fece custodire nella prigione del suo palazzo.
            I quaranta congiurati, quando si videro fallire il colpo, rimasero sbalorditi. Si può credere che, senza badare al voto fatto, si siano posti a mangiare e bere per continuare la loro trama. D’accordo con il sommo sacerdote, con gli anziani e con un certo Tertullo, famoso oratore, partirono alla volta di Cesarea, dove giunsero cinque giorni dopo l’arrivo di Paolo. Venuti tutti alla presenza del governatore, Tertullo prese a parlare così contro Paolo: «Abbiamo trovato quest’uomo pestilenziale, che suscita rivolte tra tutti i Giudei del mondo. Egli è capo della setta dei Nazarei. Ha tentato anche di profanare il nostro tempio, e noi lo abbiamo arrestato. Volevamo giudicarlo secondo la nostra legge, ma intervenne il capitano Lisia, che ce lo tolse con la forza. Egli ha ordinato che i suoi accusatori si presentino davanti a te. Ora siamo qui. Esaminandolo, potrai tu stesso accertare le colpe di cui lo accusiamo». Quanto aveva asserito Tertullo fu confermato dai Giudei presenti.
            Paolo, avuta dal governatore la possibilità di rispondere, prese a difendersi così: «Poiché, eccellentissimo Felice, da molti anni governi questo paese, sei certamente in grado di conoscere le cose qui avvenute. Di buon grado mi difendo davanti a te. Come puoi accertare, non sono più di dodici giorni che sono salito a Gerusalemme per adorare. In questo breve tempo, nessuno può dire di avermi trovato nel tempio o nelle sinagoghe o in altro luogo pubblico o privato a discutere con qualcuno, né a radunare folle o fomentare disordini. Non possono provare alcuna delle accuse che mi muovono. Ma ti confesso che seguo la Via che essi chiamano setta, servendo così il Dio dei nostri padri, credendo in tutto ciò che è conforme alla Legge e sta scritto nei Profeti. Ho in Dio la stessa speranza che nutrono anch’essi, che ci sarà una risurrezione dei giusti e degli ingiusti. Per questo anch’io mi sforzo di avere sempre una coscienza irreprensibile davanti a Dio e agli uomini. Dopo molti anni sono venuto a portare elemosine alla mia nazione e a presentare offerte. Mentre ero impegnato in questi riti di purificazione, senza folla né tumulto, alcuni Giudei dell’Asia mi hanno trovato nel tempio. Essi avrebbero dovuto comparire davanti a te per accusarmi, se avessero qualcosa contro di me. Oppure dicano questi stessi se hanno trovato qualche colpa in me, quando sono comparso davanti al Sinedrio, a parte questa sola dichiarazione che feci ad alta voce in mezzo a loro: “È a motivo della risurrezione dei morti che io sono giudicato oggi davanti a voi”».
            I suoi accusatori rimasero confusi e, guardandosi l’un l’altro, non trovavano parole da proferire. Lo stesso governatore, già incline a favore dei cristiani, sapeva che essi, ben lungi dall’essere sediziosi, erano i più docili e fedeli tra i suoi sudditi. Ma non volle pronunciare sentenza e si riservò di udirlo nuovamente quando il capitano Lisia fosse venuto da Gerusalemme a Cesarea. Frattanto ordinò che Paolo fosse custodito, ma concedendogli una certa libertà e permettendo ai suoi amici di servirlo.
            Qualche tempo dopo, il governatore, forse per accontentare sua moglie, che era Giudea, fece venire Paolo alla sua presenza per udirlo parlare di religione. L’Apostolo espose con vividezza le verità della fede, il rigore dei giudizi che Dio riserverà agli empi nell’altra vita, tanto che Felice, spaventato e turbato, disse: «Per ora basta; ti ascolterò di nuovo quando ne avrò l’occasione». In realtà, lo fece chiamare più volte, ma non per istruirsi nella fede, bensì sperando che Paolo gli offrisse del denaro in cambio della libertà. Perciò, sebbene conoscesse l’innocenza di Paolo, lo tenne in prigione a Cesarea per due anni. Così fanno quei cristiani che, per guadagno temporale o per piacere agli uomini, vendono la giustizia e violano i più sacri doveri della coscienza e della religione.

CAPO XXI. Paolo davanti a Festo — Sue parole al re Agrippa — Anno di Cristo 60

            Erano ormai due anni che il santo Apostolo era tenuto prigioniero, quando a Felice succedette un altro governatore di nome Festo. Tre giorni dopo aver assunto la carica, il nuovo governatore andò a Gerusalemme e subito i capi dei sacerdoti e i principali Giudei si presentarono a lui per rinnovare le accuse contro il santo Apostolo. Gli chiesero come favore particolare di far condurre Paolo a Gerusalemme, per essere giudicato nel Sinedrio; ma in realtà avevano l’intenzione di assassinarlo lungo la strada. Festo, forse già avvisato di non fidarsi di loro, rispose che presto sarebbe tornato a Cesarea; «Quelli tra di voi», disse, «che hanno qualcosa contro Paolo, vengano con me e ascolterò le loro accuse».
            Dopo alcuni giorni Festo tornò a Cesarea e con lui i Giudei accusatori di Paolo. Il giorno seguente fece venire il santo Apostolo davanti al suo tribunale, e i Giudei gli mossero molte gravi accuse, senza però poterle provare. Paolo rispose loro con poche parole, e i suoi accusatori tacquero. Tuttavia, Festo, desiderando acquistare la benevolenza degli Ebrei, gli chiese se volesse andare a Gerusalemme per essere giudicato nel Sinedrio, in sua presenza. Accortosi Paolo che Festo inclinava a rimetterlo nelle mani dei Giudei, rispose: «Io sto davanti al tribunale di Cesare, dove devo essere giudicato. Non ho fatto alcun torto ai Giudei, come tu ben sai. Se dunque sono colpevole e ho commesso qualcosa che merita la morte, non rifiuto di morire; ma se non vi è nulla di vero nelle accuse che questi muovono contro di me, nessuno ha il diritto di consegnarmi a loro. Mi appello a Cesare». Questo appello del nostro Apostolo era giusto e conforme alle leggi romane, poiché il governatore si dimostrava disposto a consegnare un cittadino romano, riconosciuto innocente, in potere dei Giudei che volevano la sua morte a ogni costo. I santi Padri riflettono che non il desiderio della vita, ma il bene della Chiesa lo spinse ad appellarsi a Roma, dove per divina rivelazione sapeva quanto doveva lavorare per la gloria di Dio e la salvezza delle anime.
            Festo, dopo aver consultato il suo consiglio, rispose: «Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai».
            Non molti giorni dopo venne a Cesarea il re Agrippa, figlio di quell’Agrippa che aveva fatto morire San Giacomo il Maggiore e imprigionare San Pietro. Era venuto con sua sorella Berenice per fare i dovuti omaggi al nuovo governatore della Giudea. Essendosi trattenuti vari giorni, Festo parlò loro del processo di Paolo. Agrippa manifestò il desiderio di udirlo. Per accontentarlo, Festo fece allestire una sala con grande pompa e, invitando all’udienza i tribuni e gli altri magistrati, fece condurre Paolo alla presenza di Agrippa e Berenice. «Ecco», disse Festo, «quell’uomo contro cui è ricorsa a me tutta la moltitudine dei Giudei, protestando con grandi clamori che non doveva più vivere. Io però non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Tuttavia, essendosi egli appellato al tribunale dell’imperatore, devo mandarlo a Roma. Ma poiché non ho nulla di certo da scrivere al nostro sovrano, ho ritenuto opportuno presentarlo davanti a voi e specialmente a te, o re Agrippa, affinché, dopo averlo interrogato, mi diciate cosa devo scrivere, non sembrandomi conveniente mandare un prigioniero senza specificare le accuse contro di lui».
            Agrippa, rivolgendosi a Paolo, disse: «Ti è permesso parlare in tua difesa». Paolo cominciò a parlare così: «Mi ritengo fortunato, o re Agrippa, di potermi oggi difendere davanti a te contro tutte le accuse dei Giudei, soprattutto perché sei esperto di tutte le usanze e le questioni che li riguardano. Ti prego dunque di ascoltarmi con pazienza. Tutti i Giudei conoscono la mia vita fin dalla giovinezza, trascorsa tra il mio popolo e a Gerusalemme. Sanno che ho vissuto secondo la setta più rigida della nostra religione, quella dei Farisei. E ora sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri, quella che le nostre dodici tribù sperano di vedere compiuta servendo Dio notte e giorno. È per questa speranza, o re, che sono accusato dai Giudei. Perché è considerato inconcepibile tra di voi che Dio risusciti i morti?
            Anch’io ritenevo mio dovere fare molte cose contro il nome di Gesù Nazareno. Così feci a Gerusalemme: ottenni dai capi dei sacerdoti l’autorizzazione di imprigionare molti santi e, quando erano messi a morte, esprimevo il mio voto. Spesso, andando di sinagoga in sinagoga, cercavo di costringerli a bestemmiare; e nel mio furore accanito li perseguitavo fin nelle città straniere.
            In tali circostanze, mentre andavo a Damasco con l’autorizzazione e il mandato dei capi dei sacerdoti, a mezzogiorno, o re, vidi sulla strada una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e quelli che erano con me. Tutti caddero a terra e io udii una voce che mi diceva in lingua ebraica: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? È duro per te recalcitrare contro il pungolo”. Io dissi: “Chi sei, Signore?” E il Signore rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti. Ma alzati e sta’ in piedi; perché ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di ciò che hai visto di me e di ciò che ti mostrerò. Ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando per aprire loro gli occhi, affinché si convertano dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, e ottengano, mediante la fede in me, la remissione dei peccati e la sorte tra i santificati”.
            Perciò, o re Agrippa, non ho disobbedito alla visione celeste; ma prima a quelli di Damasco, poi a Gerusalemme e in tutta la Giudea, e infine ai pagani, ho annunziato di ravvedersi e convertirsi a Dio, facendo opere degne di pentimento. Per questo i Giudei, avendomi catturato nel tempio, tentarono di uccidermi. Ma, grazie all’aiuto di Dio, fino a questo giorno sto qui a testimoniare davanti ai piccoli e ai grandi, non dicendo altro se non ciò che i profeti e Mosè dichiararono che doveva avvenire: che il Cristo avrebbe sofferto e, come primo tra i risorti dai morti, avrebbe annunciato la luce al popolo e ai pagani».
            Festo interruppe il discorso dell’Apostolo e ad alta voce esclamò: «Tu sei pazzo, Paolo; la troppa scienza ti ha dato alla testa». Al che Paolo rispose: «Non sono pazzo, eccellentissimo Festo, ma sto dicendo parole di verità e di buon senso. Il re, al quale parlo con franchezza, conosce queste cose; credo infatti che nulla di ciò gli sia ignoto, poiché non sono fatti accaduti in segreto. Credi tu ai profeti, o re Agrippa? So che ci credi». Agrippa disse a Paolo: «Ancora un po’ e mi convinci a farmi cristiano». E Paolo replicò: «Che piaccia a Dio che, sia in poco tempo sia in molto, non solo tu, ma anche tutti coloro che oggi mi ascoltano diventino tali quale sono io, eccetto queste catene».
            Allora il re, il governatore, Berenice e gli altri si alzarono e, ritiratisi in disparte, si dissero l’un l’altro: «Quest’uomo non ha fatto nulla che meriti morte o prigione». E Agrippa disse a Festo: «Quest’uomo poteva essere liberato, se non si fosse appellato a Cesare».
            Così il discorso di Paolo, che avrebbe dovuto convertire tutti quei giudici, non servì a nulla, perché essi chiusero il cuore alle grazie che Dio voleva loro concedere. È questa un’immagine di quei cristiani che ascoltano la parola di Dio, ma non si risolvono a mettere in pratica le buone ispirazioni che talora sentono nascere nel cuore.

CAPO XXII. San Paolo è imbarcato per Roma — Soffre una terribile tempesta, da cui è salvato con i suoi compagni — Anno di Gesù Cristo 60

            Quando Festo decise che Paolo sarebbe stato condotto a Roma per mare, egli, insieme con molti altri prigionieri, fu affidato a un centurione di nome Giulio. Con lui c’erano i suoi due fedeli discepoli Aristarco e Luca. Si imbarcarono su una nave proveniente da Adramitto, città marittima dell’Africa. Costeggiando la Palestina, giunsero a Sidone il giorno seguente. Il centurione, che li accompagnava, si accorse presto che Paolo non era un uomo comune e, ammirandone le virtù, iniziò a trattarlo con riguardo. Sbarcati a Sidone, gli diede piena libertà di visitare gli amici, trattenersi con essi e ricevere qualche ristoro.
            Da Sidone navigarono lungo le coste dell’isola di Cipro e, poiché il vento era alquanto contrario, attraversarono il mare della Cilicia e della Panfilia, che è una parte del Mediterraneo, e giunsero a Mira, città della Licia. Qui il centurione, avendo trovato una nave che da Alessandria andava in Italia con carico di frumento, trasferì su di essa i suoi passeggeri. Ma navigando assai lentamente, faticarono molto per giungere fino all’isola di Creta, oggi chiamata Candia. Si fermarono in un luogo detto Buoni Porti, vicino a Salmone, città di quell’isola.
            Essendo la stagione molto avanzata, Paolo, certamente ispirato da Dio, esortava i marinai a non arrischiarsi a continuare la navigazione in un tempo così pericoloso. Ma il pilota e il padrone della nave, non dando peso alle parole di Paolo, affermavano che non vi era nulla da temere. Partirono dunque con l’intento di raggiungere un altro porto di quell’isola detto Fenice, sperando di poter lì passare con maggior sicurezza l’inverno. Ma dopo un breve tratto, la nave fu scossa da un forte vento, al quale non potendo resistere, i naviganti si videro costretti ad abbandonare sé stessi e la nave alla mercé delle onde. Giunti a Cauda, un’isoletta poco distante da Creta, si accorsero di essere vicini a un banco di sabbia e, temendo di rompere la nave contro di esso, si sforzarono di prendere un’altra direzione. Ma infuriando sempre più la tempesta e agitandosi sempre più la nave, si trovarono tutti in gran pericolo. Gettarono in mare le merci, poi gli arredi e gli armamenti della nave per alleggerirla. Tuttavia, dopo parecchi giorni, non apparendo più né sole né stelle e con la tempesta che infuriava maggiormente, pareva perduta ogni speranza di salvezza. A questi mali si aggiungeva che, o per la nausea del mare in tempesta, o per la paura della morte, nessuno pensava a mangiare, il che era dannoso poiché ai marinai mancavano le forze per governare la nave. Si pentirono allora di non aver seguito il consiglio di Paolo, ma era tardi.
            Paolo, vedendo lo scoraggiamento tra i marinai e i passeggeri, animato dalla fiducia in Dio, li confortò dicendo: «Fratelli, avreste dovuto credere a me e non partire da Creta; così avremmo evitato queste perdite e queste disgrazie. Tuttavia, fatevi coraggio; credetemi, a nome di Dio vi assicuro che nessuno di noi si perderà; solo la nave andrà in pezzi. Questa notte mi è apparso l’angelo del Signore e mi ha detto: “Non temere, Paolo, tu devi comparire davanti a Cesare; ed ecco, Dio ti concede la vita di tutti coloro che navigano con te”. Perciò, fatevi coraggio, fratelli, tutto avverrà come mi è stato detto».
            Intanto erano già trascorsi quattordici giorni da quando soffrivano quella tempesta, e ognuno pensava di essere inghiottito dalle onde da un momento all’altro. Era mezzanotte quando, nel buio delle tenebre, parve ai marinai di avvicinarsi a terra. Per accertarsene gettarono lo scandaglio e trovarono l’acqua profonda venti braccia, poi quindici. Temendo allora di finire contro qualche scoglio, gettarono quattro ancore per fermare la nave, aspettando la luce del giorno che facesse loro vedere dove si trovavano.
            In quel momento ai marinai venne l’idea di fuggire dalla nave e tentare di salvarsi su quella terra che pareva vicina. Paolo, sempre guidato dalla luce divina, si rivolse al centurione e ai soldati dicendo: «Se costoro non rimangono a bordo, voi non potrete essere salvi, perché Dio non vuole essere tentato a fare miracoli». A queste parole tutti tacquero e seguirono il consiglio di Paolo. All’alba, il santo Apostolo diede un’occhiata a quelli che erano sulla nave e, vedendoli tutti spossati dalle fatiche e sfiniti dal digiuno, disse loro: «Fratelli, è il quattordicesimo giorno che, aspettando un miglioramento, non avete mangiato nulla. Ora vi prego di non lasciarvi morire di inedia. Vi ho già assicurato, e vi assicuro ancora, che neppure uno dei vostri capelli perirà. Coraggio dunque». Detto ciò, Paolo prese del pane, rese grazie a Dio, lo spezzò e, alla presenza di tutti, si mise a mangiare. Allora tutti si ripresero e mangiarono insieme a lui; erano in numero di 276 persone.
            Ma, continuando la furia dei venti e delle onde, furono costretti a gettare in mare anche il frumento che avevano serbato per loro uso. Fattosi giorno, parve loro di vedere un’insenatura e si adoperarono per spingere la nave là e cercare salvezza. Ma, sospinta dalla forza dei venti, la nave andò a incagliarsi su una secca, cominciando a rompersi e sfasciarsi. Vedendo l’acqua penetrare da varie fessure, i soldati volevano prendere il crudele partito di uccidere tutti i prigionieri, sia per alleggerire la nave sia perché non fuggissero dopo essersi salvati a nuoto.
            Ma il centurione, che amava Paolo e voleva salvarlo, non approvò tale consiglio, anzi ordinò che quelli che sapevano nuotare si gettassero in mare per raggiungere la terra; agli altri fu detto di aggrapparsi a tavole o a rottami della nave; e così giunsero tutti sani e salvi al lido.

CAPO XXIII. San Paolo nell’isola di Malta — È liberato dal morso di una vipera — È accolto in casa di Publio, di cui guarisce il padre — Anno di Cristo 60

            Né Paolo né i suoi compagni conoscevano la terra su cui erano approdati dopo essere usciti dalle onde. Informatisi dai primi abitanti che incontrarono, seppero che quel luogo si chiamava Melita, oggi Malta, un’isola del Mediterraneo situata tra l’Africa e la Sicilia. Alla notizia di quel gran numero di naufraghi che erano usciti dalle onde come tanti pesci, gli isolani accorsero e, sebbene fossero barbari, si intenerirono nel vederli così stanchi, sfiniti e tremanti per il freddo. Per riscaldarli accesero un grande fuoco.
            Paolo, sempre attento a esercitare opere di carità, andò a raccogliere un fascio di rami secchi. Mentre li metteva sul fuoco, una vipera che era tra essi, intorpidita dal freddo, risvegliata dal calore, saltò fuori e si attaccò alla mano di Paolo. Quei barbari, vedendo il serpente appeso alla sua mano, pensarono male di lui e dicevano l’un l’altro: «Quest’uomo dev’essere un assassino o qualche grande scellerato; è scampato dal mare, ma la vendetta divina lo colpisce sulla terra». Ma quanto dobbiamo guardarci dal giudicare temerariamente il nostro prossimo!
            Paolo, ravvivando la fede in Gesù Cristo, che aveva assicurato ai suoi Apostoli che né serpenti né veleni avrebbero recato loro danno, scosse la mano, gettò la vipera nel fuoco e non subì alcun male. Quella buona gente aspettava che, entrato il veleno nel sangue di Paolo, egli dovesse gonfiarsi e cadere morto dopo pochi istanti, come accadeva a chiunque avesse la sventura di essere morso da quei animali. Aspettarono a lungo e, vedendo che nulla gli accadeva, cambiarono giudizio e dicevano che Paolo era un grande dio disceso dal cielo. Forse credevano che fosse Ercole, ritenuto dio e protettore di Malta. Secondo le leggende, Ercole, essendo ancora bambino, avrebbe ucciso un serpente, perciò detto ofiotoco, cioè uccisore di serpenti.
            Dio confermò questo primo prodigio con un altro ancora più strepitoso e permanente: infatti, fu tolta ogni forza velenosa ai serpenti di quell’isola, sicché da quell’epoca in poi non si ebbe più a temere il morso delle vipere. Che più? Si vuole che la terra stessa dell’isola di Malta, portata altrove, sia rimedio sicuro contro i morsi delle vipere e dei serpenti.
            Il governatore dell’isola, un principe di nome Publio, uomo molto ricco, come seppe del modo miracoloso con cui quei naufraghi erano stati salvati dalle acque e informato, o essendo stato testimone, del miracolo della vipera, mandò a invitare Paolo e i suoi compagni, che erano giunti in numero di 276. Li accolse in casa sua e li onorò per tre giorni, offrendo loro alloggio e vitto a sue spese. Dio non lasciò senza ricompensa la liberalità e cortesia di Publio. Egli aveva suo padre a letto, afflitto da febbre e da grave dissenteria che lo avevano condotto in punto di morte. Paolo andò a vedere l’ammalato e, dopo avergli rivolto parole di carità e di consolazione, si mise a pregare. Alzatasi poi, si avvicinò al letto, impose le mani sull’infermo che immediatamente guarì. Così il buon vecchio, libero da ogni male e pienamente ristabilito, corse ad abbracciare suo figlio, benedicendo Paolo e il Dio che egli predicava. Publio, suo padre e la sua famiglia (così assicura San Giovanni Crisostomo), pieni di gratitudine verso il grande Apostolo, si fecero istruire nella fede e ricevettero per mano di Paolo il battesimo.
            Sparsa la notizia della guarigione miracolosa del padre di Publio, tutti coloro che erano ammalati o avevano infermi di qualsiasi malattia andavano o si facevano portare ai piedi di Paolo, ed egli, benedicendoli in nome di Gesù Cristo, li rimandava tutti guariti, benedicendo Dio e credendo al Vangelo. In breve tempo tutta quell’isola ricevette il battesimo e, abbattuti i templi degli idoli, ne innalzarono altri consacrati al culto del vero Dio.

CAPO XXIV. Viaggio di San Paolo da Malta a Siracusa — Predica a Reggio — Suo arrivo a Roma — Anno di Cristo 60

            I Maltesi erano pieni di entusiasmo per Paolo e per la dottrina da lui predicata, tanto che, oltre ad abbracciare in massa la fede, gareggiavano nel somministrare a lui e ai suoi compagni quanto occorreva per il tempo che dimorarono a Malta e per il viaggio fino a Roma. Paolo rimase a Malta tre mesi, a motivo dell’inverno in cui il mare non è navigabile. Si crede comunemente che in quello spazio di tempo egli abbia guidato Publio nella perfezione cristiana e che, prima di partire, lo abbia ordinato vescovo di quell’isola; il che certamente fu di grande consolazione per quei fedeli.
            Venuta la primavera e decisa la partenza per Roma, il centurione Giulio si accordò con una nave che da Alessandria andava verso l’Italia e che per insegna aveva due dèi chiamati Castore e Polluce, che gli idolatri credevano protettori della navigazione. Con grande rincrescimento dei Maltesi, s’imbarcarono verso la Sicilia, un’isola molto vicina all’Italia, e favoriti dal vento giunsero in breve a Siracusa, città principale di quest’isola. Qui il Vangelo era già stato predicato da San Pietro, il quale vi aveva ordinato vescovo San Marciano. Questo degno pastore volle ospitare in casa sua il santo Apostolo e gli fece celebrare i santi misteri in una grotta, con grande gioia sua e di quei fedeli. Un’antichissima chiesa, che sussiste ancora oggi in quella città, è dedicata al nostro santo Apostolo, e si crede che sia stata edificata sopra la grotta stessa dove San Paolo aveva predicato la parola di Dio e celebrato i divini misteri.
            Partendo da Siracusa, costeggiarono l’isola della Sicilia, passarono il porto di Messina e giunsero con i suoi compagni a Reggio, città e porto della Calabria, vicinissimo alla Sicilia. Qui si fermarono un giorno.
            Accreditati storici di quel paese raccontano molte cose meravigliose operate da San Paolo in quella breve sosta; tra queste scegliamo il seguente fatto. I Reggini, che erano idolatri, avendo udito che nel loro porto era approdata una nave con l’insegna di Castore e Polluce, da loro molto onorati, accorsero in massa a vederla. Paolo volle approfittare di quel concorso per predicare Gesù Cristo, ma essi non volevano ascoltarlo. Allora egli, mosso dalla fede in quel Gesù che per sua mano aveva operato tante meraviglie, trasse fuori un mozzicone di candela e disse: «Vi prego di lasciarmi parlare almeno per il tempo che questo pezzetto di candela impiegherà a consumarsi». Accettarono la condizione con risate e si acquietarono.
            Paolo pose quel cerino sopra una colonna di pietra posta sul lido. Immediatamente tutta la colonna prese fuoco e apparve una grande fiamma, che gli servì da torcia ardente. Ebbe tempo abbondante per ammaestrarli, poiché quei barbari, sbalorditi da tale miracolo, stettero ad ascoltare Paolo mansuetamente quanto egli volle parlare; e nessuno osò disturbarlo. La fede fu accolta, e sul luogo del miracolo fu eretta una magnifica chiesa al vero Dio. Sull’altare maggiore fu collocata quella colonna e, per conservare la memoria di quel prodigio, fu stabilita una solennità con ufficio proprio. Nella messa si legge una preghiera che si traduce così: «O Dio, che alla predicazione dell’Apostolo Paolo, facendo risplendere miracolosamente una colonna di pietra, vi siete degnato di istruire i popoli di Reggio col lume della fede, concedeteci, ve ne preghiamo, di meritare di avere in cielo come intercessore colui che abbiamo avuto come predicatore del Vangelo in terra» (Cesari, Atti degli Apostoli, vol. 2).
            Dopo quel giorno, invitati da un tempo favorevole, Paolo e i suoi compagni s’imbarcarono per Pozzuoli, città della Campania distante nove miglia da Napoli. Qui fu grandemente consolato dall’incontro con parecchi che avevano già abbracciato la fede, loro predicata da San Pietro alcuni anni prima.
            Quei buoni cristiani provarono anch’essi grande consolazione e pregarono Paolo di rimanere con loro sette giorni. Paolo, ottenuta licenza dal centurione, si trattenne quel tempo e, in giorno festivo, parlò alla numerosa assemblea di quei fedeli.
            Le notizie dell’arrivo del grande Apostolo in Italia erano già giunte a Roma, e i fedeli di quella città, desiderosi di conoscere di persona l’autore della famosa lettera da Corinto, vennero a incontrarlo al Foro di Appio, oggi chiamato Fossa Nuova, che è una città distante circa 50 miglia da Roma. Continuando il cammino, giunsero alle Tre Taverne, luogo distante circa 30 miglia da Roma, dove trovò molti altri che erano venuti fin là per fargli una festosa accoglienza.
            Accompagnato da quel gran numero di fedeli, che non si saziavano di ammirare quel grande ministro di Gesù Cristo, egli giunse a Roma come condotto in trionfo. Qui la fede cristiana, come si è detto, era già stata predicata da San Pietro, il quale da diciotto anni vi teneva la sede pontificia.

CAPO XXV. Paolo parla agli Ebrei e predica loro Gesù Cristo — Progresso del Vangelo a Roma — Anno di Cristo 61

            Giunto a Roma, Paolo fu consegnato al prefetto del pretorio, cioè al generale delle guardie pretoriane, così chiamate perché avevano la speciale cura di custodire la persona dell’imperatore. Il nome di quell’illustre romano era Afranio Burro, di cui la storia fa menzione molto onorevole.
            Il centurione Giulio si premurò di raccomandare Paolo a quel prefetto, che lo trattò con singolarissima benignità. Le lettere dei governatori Felice e Festo, che certamente dovevano aver fatto conoscere l’innocenza di Paolo, e la buona testimonianza resa dal centurione Giulio, lo misero in buona luce e riverenza presso Burro, il quale gli diede piena libertà di vivere da solo dovunque gli piacesse, a condizione che fosse sorvegliato da un soldato quando usciva di casa. Paolo però aveva sempre al braccio una catena quando era in casa; se usciva, la catena che gli legava il braccio passava dietro per tenerlo collegato con il soldato che lo accompagnava, in modo che quel soldato era sempre attaccato a Paolo attraverso la stessa catena. Il santo Apostolo affittò una casa, nella quale prese alloggio con i suoi compagni, tra cui sono specialmente nominati Luca, Aristarco e Timoteo, quel fedele suo discepolo di Listra.
            Tre giorni dopo il suo arrivo, egli mandò a invitare i principali Ebrei che dimoravano a Roma, pregandoli di venire da lui nel suo alloggio. Raccoltisi in buon numero, egli parlò loro così: «Non vorrei che lo stato in cui mi vedete e le catene da cui sono legato vi mettessero in cattiva opinione di me. Dio sa che non ho fatto nulla contro il mio popolo, né contro le usanze e le leggi della mia patria. Fui incatenato a Gerusalemme e poi consegnato ai Romani. Costoro mi esaminarono e, non avendo trovato in me nulla che meritasse castigo, volevano rimandarmi libero; ma opponendosi fortemente gli Ebrei, fui costretto ad appellarmi a Cesare.
            «Questa è la sola ragione per cui sono stato condotto a Roma. Non voglio qui accusare i miei fratelli, ma desidero farvi sapere il motivo della mia venuta e, nello stesso tempo, parlarvi del Messia e della risurrezione, che è appunto il motivo di queste catene. Su questo argomento desidero molto potervi aprire il mio animo».
            A tali parole, i Giudei risposero: «Veramente a noi non sono arrivate lettere dalla Giudea, né alcuno è venuto a riferirci qualcosa contro di te. Siamo anche noi nel vivo desiderio di conoscere i tuoi sentimenti, poiché sappiamo che la setta dei cristiani è contrastata in tutto il mondo».
            Paolo accettò volentieri l’invito e, assegnando loro un giorno, si raccolse un gran numero di Giudei nella sua casa. Egli allora prese a esporre la dottrina di Gesù Cristo, la divinità della sua persona, la necessità della fede in lui, confermando ogni cosa con le parole dei Profeti e di Mosè. Tale era il desiderio di ascoltare e tale l’ansia di predicare, che il discorso di Paolo si prolungò dalla mattina fino alla sera. Tra gli Ebrei che lo ascoltavano, molti credettero e abbracciarono la fede, ma parecchi gli si opposero fortemente.
            Il santo Apostolo, vedendo tanta ostinazione da parte di coloro che avrebbero dovuto essere i primi a credere, disse loro queste dure parole: «Di questa inflessibile ostinazione che scorgo qui tra voi a Roma, come pure ho trovato in tutte le parti del mondo, la colpa è vostra. Questa vostra durezza fu già predetta dal profeta Isaia, quando disse: “Va’ da questo popolo e dirai: Udrete con le orecchie, ma non intenderete; vedrete con gli occhi, ma non comprenderete nulla; perché il cuore di questo popolo si è indurito, hanno tappato le orecchie e chiuso gli occhi”.
            «State pur certi», proseguiva Paolo, «che la salvezza che voi non volete, Dio non ve la darà; anzi, la porterà ai Gentili, che l’accoglieranno».
            Le parole di Paolo furono quasi inutili per gli Ebrei. Essi partirono da lui continuando le dispute e le vane discussioni su quanto udito, senza aprire il cuore alla grazia che veniva loro offerta. Perciò, profondamente addolorato, Paolo si rivolse ai Gentili, che con umiltà di cuore andavano ad ascoltarlo e in gran numero abbracciavano la fede.
            Il santo Apostolo esprime egli stesso la grande consolazione per il progresso che faceva il Vangelo durante la sua prigionia, scrivendo ai fedeli di Filippi: «Quando voi, o fratelli, avete saputo che ero tenuto prigioniero a Roma, ne avete provato pena, non tanto per la mia persona, quanto per la predicazione del Vangelo. Sappiate dunque che è ben altrimenti. Le mie catene sono tornate a onore di Gesù Cristo e sono servite a farlo meglio conoscere non solamente a quelli della città che venivano da me per farsi istruire nella fede, ma anche nella corte e nel palazzo dello stesso imperatore. Di questo dovete rallegrarvi con me e ringraziare Dio».

CAPO XXVI. San Luca — I Filippesi mandano aiuti a San Paolo — Malattia e guarigione di Epafrodito — Lettera ai Filippesi — Conversione di Onesimo — Anno di Gesù Cristo 61

            Quanto abbiamo finora detto delle azioni di San Paolo fu quasi letteralmente ricavato dal libro degli Atti degli Apostoli, scritto da San Luca. Questo predicatore del Vangelo continuò ad essere fedele compagno di San Paolo; egli predicò il Vangelo in Italia, in Dalmazia, in Macedonia e terminò la vita col martirio a Patrasso, città dell’Acaia. Era medico, pittore e scultore. Ci sono molte statue e pitture della Beata Vergine venerate in diversi paesi che si attribuiscono a San Luca. Ritorniamo a San Paolo.
            Due fatti sono specialmente memorabili nella vita di questo santo Apostolo mentre era imprigionato a Roma: uno riguarda i fedeli di Filippi, l’altro la conversione di Onesimo.
            Tra i molti popoli a cui il santo Apostolo predicò il Vangelo, nessuno gli diede maggiori segni di affetto quanto i Filippesi. Essi gli avevano già somministrato copiose elemosine quando predicava nella loro città, a Tessalonica e a Corinto.
            Come poi intesero che Paolo era tenuto prigioniero a Roma, immaginarono che fosse nel bisogno; perciò fecero una considerevole colletta e, affinché riuscisse più cara e onorevole, la inviarono per mano di San Epafrodito, loro vescovo.
            Questo santo prelato, giunto a Roma, trovò Paolo che non solo aveva bisogno di aiuti pecuniari, ma anche di assistenza personale, poiché era afflitto da grave infermità causata dalla prigionia. Epafrodito si diede a servirlo con tanta sollecitudine, carità e fervore, che, divenuto egli stesso ammalato, si trovava in punto di morte. Ma Dio volle ricompensare la carità del santo e fare in modo che non si aggiungesse afflizione su afflizione al cuore di Paolo, e gli restituì la salute.
            I Filippesi, come seppero che Epafrodito era mortalmente ammalato, furono immersi nella più profonda costernazione. Perciò Paolo stimò bene di rimandarlo a Filippi con una lettera, nella quale spiega il motivo che lo ha indotto a rimandare loro Epafrodito, che chiama suo fratello, cooperatore, collega e loro apostolo. Li esorta quindi a riceverlo con tutta gioia e a onorare ogni persona di simile merito, che, a imitazione di lui, sia pronta a dare la propria vita per il servizio di Cristo. Dice anche ai Filippesi che avrebbe quanto prima mandato Timoteo, affinché gli portasse notizie precise di quella comunità; afferma inoltre che sperava di essere posto in libertà e di poterli ancora una volta vedere.
            Epafrodito fu accolto dai Filippesi come un angelo mandato dal Signore, e la lettera di Paolo riempì il cuore di quei fedeli della più grande consolazione.
            L’altro fatto che rende celebre la prigionia di San Paolo fu la conversione di Onesimo, servo di Filemone, ricco cittadino di Colosse, città della Frigia. Questo Filemone era stato guadagnato alla fede da San Paolo e corrispose così bene alla grazia del Signore che era considerato come modello dei cristiani, e la sua casa era chiamata chiesa perché era sempre aperta per le pratiche di pietà e per l’esercizio della carità verso i poveri. Aveva molti schiavi che lo servivano, e tra essi uno di nome Onesimo. Questi, essendosi dato sventuratamente ai vizi, aspettò l’occasione per fuggire, e rubando una grossa somma di denaro al padrone, scappò a Roma. Lì, dandosi alla crapula e ad altri stravizi, consumò il denaro rubato e in breve si trovò nella più grande miseria. Per caso udì parlare di San Paolo, che forse aveva visto e servito in casa del suo padrone. La carità e benignità del santo Apostolo gli ispirarono fiducia, e decise di presentarsi a lui. Andò e si gettò in ginocchio ai suoi piedi, gli manifestò il suo errore e lo stato infelice della sua anima, e si affidò completamente a lui. Paolo riconobbe in quello schiavo un vero figliuol prodigo. Lo accolse con bontà, come faceva con tutti, e dopo avergli fatto conoscere la gravità del suo fallo e l’infelice stato della sua anima, si dedicò a istruirlo nella fede. Quando vide in lui le disposizioni necessarie per diventare un buon cristiano, lo battezzò nel medesimo carcere. Il buon Onesimo, dopo aver ricevuto la grazia del battesimo, rimase pieno di gratitudine e affetto verso suo padre e maestro, e cominciò a dargliene prova servendolo lealmente nelle necessità della sua prigionia. Paolo desiderava tenerlo presso di sé, ma non voleva farlo senza il permesso di Filemone. Pensò pertanto di mandare Onesimo stesso dal suo padrone. E poiché egli non osava presentarsi a lui, Paolo volle accompagnarlo con una lettera, dicendogli: «Prendi questa lettera e va’ dal tuo padrone, e sta’ sicuro che otterrai più di quanto desideri».

CAPO XXVII. Lettera di San Paolo a Filemone — Anno di Gesù Cristo 62

            La lettera di San Paolo a Filemone è la più facile e breve delle sue lettere, e poiché per la bellezza dei sentimenti può servire da modello a qualsiasi cristiano, la offriamo intera al benevolo lettore. È del seguente tenore:
            «Paolo, prigioniero per la fede di Gesù Cristo, e il fratello Timoteo al nostro caro Filemone, nostro collaboratore, ad Appia nostra sorella carissima, ad Archippo compagno delle nostre fatiche e a tutti i fedeli che si radunano nella tua casa. Dio Padre e Gesù Cristo nostro Signore vi concedano grazia e pace.
            «Ricordandomi continuamente di te nelle mie preghiere, o Filemone, rendo grazie al mio Dio sentendo parlare della tua fede e della tua grande carità verso tutti i fedeli. Ringrazio pure Dio nel sentire la liberalità proveniente dalla tua fede, così manifesta agli occhi di tutti, per le opere buone che si praticano nella tua casa per amore di Gesù Cristo. Noi, o fratello carissimo, siamo stati ricolmi di gioia e di consolazione sapendo che i fedeli hanno trovato tanto sollievo dalla tua bontà. Quindi, sebbene io possa prendermi in Cristo una piena libertà di ordinarti una cosa che è tuo dovere, pure, in nome dell’amore che ti porto, voglio piuttosto supplicarti, anche se io sono quale sono nei tuoi riguardi, vale a dire, anche se sono Paolo già vecchio e attualmente prigioniero per la fede di Gesù Cristo.
            «La preghiera che ti faccio è per Onesimo, mio figlio, che ho generato nelle mie catene, il quale un tempo ti fu inutile, ma che ora sarà utilissimo sia a te sia a me. Te lo rimando e ti prego di accoglierlo come le mie viscere. Avrei voluto trattenerlo presso di me, affinché mi prestasse servizio in tua vece, trovandomi nelle catene che porto per amore del Vangelo; ma non ho voluto fare nulla senza il tuo consenso, perché desidero che il bene che ti propongo sia pienamente volontario, non forzato. Forse egli è stato separato da te per qualche tempo, affinché tu lo riacquisti per sempre, non più come schiavo, ma come qualcuno che da schiavo è divenuto uno dei nostri amati fratelli. Se dunque egli è caro a me, quanto più lo sarà a te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.
            «Se dunque mi consideri come unito a te, accoglilo come accoglieresti me stesso. Se ti ha causato qualche danno o ti deve qualcosa, addebitalo a me. Io, Paolo, lo scrivo di mio pugno: io ti restituirò tutto, per non dirti che tu mi sei debitore di te stesso. Sì, o fratello, mi aspetto di ricevere da te questa gioia nel Signore. Dammi questa consolazione in Cristo! Ti scrivo confidando nella tua obbedienza, sapendo che farai anche più di quanto ti chiedo. Ti prego inoltre di prepararmi un alloggio, perché spero che, grazie alle vostre preghiere, Dio mi concederà di tornare da voi.
            «Epafra, che è prigioniero con me per Cristo Gesù, ti saluta insieme con Marco, Aristarco, Dema e Luca, miei collaboratori. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito. Amen».
            Epafra, di cui parla qui San Paolo, era stato da lui convertito alla fede quando predicava in Frigia. Divenuto poi apostolo della sua patria, fu creato vescovo di Colosse. Andò a Roma per visitare San Paolo e fu imprigionato con lui. Essendo poi stato liberato, tornò a governare la sua Chiesa di Colosse, dove concluse la vita con la corona del martirio.
            Marco, di cui si parla qui, è Giovanni Marco, che dopo aver faticato molto con San Barnaba nella predicazione del Vangelo, si era poi unito a San Paolo, riparando così lungamente la debolezza dimostrata quando abbandonò San Paolo e San Barnaba per tornare a casa.
            Giunto Onesimo a Colosse, si presentò con la lettera al suo padrone, che lo accolse con la massima amorevolezza, contento di riavere non uno schiavo, ma un cristiano. Gli diede pieno perdono e, poiché dalla lettera del santo Apostolo aveva capito che Onesimo avrebbe potuto rendere qualche servizio, lo rimandò a lui con mille saluti e benedizioni.
            Questo servo si mostrò veramente fedele alla vocazione di cristiano. San Paolo, vedendolo adorno delle virtù e della scienza necessaria per essere un predicatore del Vangelo, lo ordinò sacerdote e più tardi lo consacrò vescovo di Efeso. Egli riportò la corona del martirio, e la Chiesa cattolica ne fa memoria il 16 febbraio.

CAPO XXVIII. San Paolo scrive ai Colossesi, agli Efesini e agli Ebrei — Anno di Cristo 62

            Lo zelo del nostro Apostolo era instancabile e, poiché le sue catene lo tenevano a Roma, si ingegnava di mandare i suoi discepoli o di scrivere lettere ovunque ne avesse conosciuto il bisogno. Tra le altre cose, gli fu riferito che a Colosse, dove abitava Filemone, erano sorte questioni a motivo di alcuni falsi predicatori che volevano obbligare alla circoncisione e alle cerimonie legali tutti i Gentili che venivano alla fede. Inoltre, erano giunti a introdurre un culto superstizioso degli angeli. Paolo, come Apostolo dei Gentili, informato di queste pericolose novità, scrisse una lettera che bisognerebbe leggere integralmente per gustarne la bellezza e la sublimità dei sentimenti. Meritano però di essere notate le parole che riguardano la tradizione: «Le cose», egli dice, «che mi stanno maggiormente a cuore, vi saranno dette verbalmente da Tichico e da Onesimo, che per tal fine sono a voi inviati». Queste parole dimostrano come l’Apostolo avesse cose di grande importanza non scritte, ma che mandava a comunicare verbalmente in forma di tradizione.
            Una cosa che causò non lieve inquietudine al nostro Apostolo furono le notizie da Efeso. Quando si trovava a Mileto e convocò i principali pastori, aveva detto loro che, a causa dei mali che doveva sopportare, credeva che non avrebbero più visto il suo volto. Questo lasciò quegli affezionati fedeli nella massima costernazione. Il santo Apostolo, reso consapevole della tristezza che travagliava gli Efesini, scrisse una lettera per consolarli.
            Tra le altre cose, raccomanda di considerare Gesù Cristo capo della Chiesa e di tenersi uniti a lui nella persona dei suoi Apostoli. Raccomanda caldamente di stare lontani da certi peccati che non si devono nemmeno nominare tra i cristiani: «La fornicazione», egli dice, «l’impurità e l’avarizia non siano neppure nominate tra voi» (capitolo 5, versetto 5).
            Rivolgendosi poi ai giovani, dice queste affettuose parole: «Figli, ve lo raccomando nel Signore, siate obbedienti ai vostri genitori, perché è cosa giusta. Onora tuo padre e tua madre, dice il Signore. Se osserverai questo comandamento, sarai felice e vivrai a lungo sulla terra».
            Poi parla così ai genitori: «E voi, padri, non irritate i vostri figli, ma allevateli nella disciplina e nell’istruzione del Signore. Voi, servi, obbedite ai vostri padroni come a Cristo, non per essere visti dagli uomini, ma come servi di Cristo, facendo la volontà di Dio di cuore. Voi, padroni, fate lo stesso verso di loro, mettendo da parte le minacce, sapendo che il Signore loro e vostro è nei cieli, e che presso di lui non c’è preferenza di persone».
            Questa lettera fu portata a Efeso da Tichico, quel fedele discepolo che, con Onesimo, aveva portato la lettera scritta ai Colossesi.
            Da Roma scrisse anche la sua lettera agli Ebrei, cioè ai Giudei della Palestina convertiti alla fede. Il suo scopo era di consolarli e premunirli contro le seduzioni di alcuni altri Giudei. Dimostra come i sacrifici, le profezie e la legge antica si siano realizzati in Gesù Cristo e che a lui solo si deve rendere onore e gloria per tutti i secoli. Insiste affinché rimangano costantemente uniti al Salvatore con la fede, senza la quale nessuno può piacere a Dio; ma sottolinea che questa fede non giustifica senza le opere.

CAPO XXIX. San Paolo è liberato — Martirio di San Giacomo il Minore — Anno di Cristo 63

            Erano già trascorsi quattro anni da quando il santo Apostolo era tenuto prigioniero: due li aveva passati a Cesarea e due a Roma. Nerone lo aveva fatto comparire davanti al suo tribunale e aveva riconosciuto la sua innocenza; ma, fosse per odio verso la religione cristiana o per la noncuranza di quel crudele imperatore, aveva continuato a rimandare Paolo in prigione. Finalmente si risolse a concedergli piena libertà. Si attribuisce comunemente questa decisione ai grandi rimorsi che quel tiranno provava per le nefandezze commesse. Era giunto perfino a far assassinare sua madre. Dopo tali misfatti, provava i più acuti rimorsi, poiché gli uomini, per quanto scellerati, non possono fare a meno di sentire in sé i tormenti della coscienza.
            Nerone, dunque, per placare in qualche modo il suo animo, pensò di compiere alcune opere buone e, tra le altre, di donare la libertà a Paolo. Fatto così padrone di sé stesso, il grande Apostolo si servì della libertà per portare con maggior ardore la luce del Vangelo ad altre nazioni più remote.
            Forse qualcuno si chiederà cosa abbiano fatto gli Ebrei di Gerusalemme quando videro Paolo sottratto alle loro mani. Lo dirò in breve. Essi rivolsero tutto il loro furore contro San Giacomo, detto il Minore, vescovo di quella città. Era morto il governatore Festo; il suo successore non era ancora entrato in carica. I Giudei approfittarono di quell’occasione per presentarsi in massa al sommo sacerdote, chiamato Anano, figlio di quell’Anna e cognato di Caifa, che avevano fatto condannare il Salvatore.
            Decisi a farlo condannare, temevano grandemente il popolo che lo amava come un tenero padre e si rispecchiava nelle sue virtù; era da tutti chiamato il Giusto. La storia ci dice che pregava con tale assiduità che la pelle dei suoi ginocchi era divenuta come quella del cammello. Non beveva né vino né altri liquori inebrianti; era rigidissimo nel digiunare, parco nel mangiare, nel bere e nel vestirsi. Ogni cosa superflua la donava ai poveri.
            Malgrado queste belle qualità, quegli ostinati trovarono modo di dare alla sentenza almeno un’apparenza di giustizia con un’astuzia degna di loro. D’accordo con il sommo sacerdote, i Sadducei, i Farisei e gli Scribi organizzarono un tumulto e corsero da Giacomo, dicendo tra mille schiamazzi: «Devi immediatamente togliere dall’errore questo innumerevole popolo, che crede che Gesù sia il Messia promesso. Poiché tu sei chiamato il Giusto, tutti credono in te; perciò sali sulla sommità di questo tempio, affinché ognuno possa vederti e udirti, e rendi testimonianza alla verità».
            Lo condussero dunque su un’alta loggia all’esterno del tempio e, quando lo videro lassù, esclamarono fingendo: «O uomo giusto, dicci cosa si deve credere di Gesù crocifisso». Il luogo non poteva essere più solenne. O rinnegare la fede, o, pronunciando una parola a favore di Gesù Cristo, essere subito messo a morte. Ma lo zelo del santo Apostolo seppe trarre tutto il vantaggio da quella occasione.
            «E perché mai», esclamò ad alta voce, «perché mi interrogate su Gesù, Figlio dell’uomo e insieme Figlio di Dio? Invano fingete di mettere in dubbio la mia fede in questo vero Redentore. Io dichiaro davanti a voi che egli sta in cielo, assiso alla destra di Dio Onnipotente, da dove verrà a giudicare tutto il mondo». Molti credettero in Gesù Cristo e, nella semplicità del loro animo, cominciarono a esclamare: «Gloria al Figlio di Davide».
            I Giudei, delusi nelle loro aspettative, si misero furiosamente a gridare: «Ha bestemmiato! Sia immediatamente precipitato e tolto di vita». Corsero su subito e lo spinsero giù sulla lastra della piazza.
            Non morì all’istante e, riuscendo a rialzarsi, si mise in ginocchio e, a esempio del Salvatore, invocava la divina misericordia sui suoi nemici, dicendo: «Perdonali, Signore, perché non sanno quello che fanno».
            Allora i furibondi nemici, istigati dal pontefice, gli lanciarono addosso una pioggia di sassi finché uno, datogli un colpo di mazza sul capo, lo stese morto. Molti fedeli furono trucidati insieme a questo Apostolo, sempre per la medesima causa, cioè in odio al cristianesimo (cfr. Eusebio, Storia Ecclesiastica).

CAPO XXX. Altri viaggi di San Paolo — Scrive a Timoteo e a Tito — Suo ritorno a Roma — Anno di Cristo 68

            Liberato dalle catene della prigione, San Paolo si diresse verso quei luoghi dove aveva intenzione di andare. Si recò dunque in Giudea a visitare gli Ebrei, ma vi si fermò poco, perché quegli ostinati stavano già riaccendendo la primitiva persecuzione. Andò a Colosse, secondo la promessa fatta a Filemone. Si recò a Creta, dove predicò il Vangelo e dove ordinò Tito vescovo di quell’isola. Ritornò in Asia per visitare le Chiese di Troade, Iconio, Listra, Mileto, Corinto, Nicopoli e Filippi. Da questa città scrisse una lettera al suo Timoteo, che aveva ordinato vescovo di Efeso.
            In questa lettera, l’Apostolo gli dà diverse regole per la consacrazione dei vescovi e dei sacerdoti e per l’esercizio di molte cose riguardanti la disciplina ecclesiastica. Quasi nello stesso tempo scrisse una lettera a Tito, vescovo di Creta, dandogli quasi gli stessi consigli dati a Timoteo e invitandolo a venire presto a vederlo.
            Si crede comunemente che egli sia andato a predicare in Spagna e in molti altri luoghi. Impiegò cinque anni in missioni e fatiche apostoliche. Ma i fatti particolari di questi viaggi, le conversioni operate per sua cura nei vari paesi, non ci sono conosciuti. Diciamo solo con Sant’Anselmo che «il santo Apostolo corse dal Mar Rosso fino all’Oceano, portando ovunque la luce della verità. Egli fu come il sole che illumina tutto il mondo dall’Oriente all’Occidente, sicché fu più il mondo e i popoli a mancare a Paolo, che non Paolo a mancare a qualcuno degli uomini. Questa è la misura del suo zelo e della sua carità».
            Mentre Paolo era occupato nelle fatiche dell’apostolato, seppe che a Roma era scoppiata una feroce persecuzione sotto l’impero di Nerone. Paolo immaginò subito il grave bisogno di sostenere la fede in simili occasioni e prese immediatamente il cammino verso Roma.
            Giunto in Italia, trovò ovunque pubblicati i bandi di Nerone contro i fedeli. Sentiva dei delitti e delle calunnie loro imputate; ovunque vedeva croci, roghi e altri generi di supplizi preparati ai confessori della fede, e ciò raddoppiava in Paolo il desiderio di trovarsi presto tra quei fedeli. Appena arrivato, come colui che offriva a Dio sé stesso, si diede a predicare nelle pubbliche piazze, nelle sinagoghe, tanto ai Gentili quanto agli Ebrei. A questi ultimi, che si erano quasi sempre dimostrati ostinati, predicava l’imminente adempimento delle profezie del Salvatore, che preannunciavano la distruzione della città e del tempio di Gerusalemme con la dispersione di tutta quella nazione. Suggeriva però un mezzo per evitare i divini flagelli: convertirsi di cuore e riconoscere il loro Salvatore in quel Gesù che avevano crocifisso.
            Ai Gentili predicava la bontà e la misericordia di Dio, che li invitava a penitenza; perciò, esortava ad abbandonare il peccato, a mortificare le passioni e ad abbracciare il Vangelo. A tale predicazione, confermata da continui miracoli, gli uditori venivano in folla a chiedere il battesimo. Così la Chiesa, perseguitata con il ferro, il fuoco e mille terrori, appariva più bella e fiorente e accresceva ogni giorno il numero dei suoi eletti.
            Che dire di più? San Paolo spinse tanto oltre il suo zelo e la sua carità che riuscì a guadagnare un certo Proclo, intendente del palazzo imperiale, e la stessa moglie dell’imperatore. Costoro abbracciarono con ardore la fede e morirono martiri.

CAPO XXXI. San Paolo è di nuovo imprigionato — Scrive la seconda lettera a Timoteo — Suo martirio — Anno di Cristo 69-70

            Con San Paolo era venuto a Roma anche San Pietro, che da 25 anni vi teneva la sede della cristianità. Egli era anche andato altrove a predicare la fede e, come fu informato della persecuzione suscitata contro i cristiani, tornò subito a Roma. Lavorarono di comune accordo i due principi degli Apostoli finché Nerone, indispettito per le conversioni che si erano fatte nella sua corte e più ancora per la morte ignominiosa toccata al mago Simone (come raccontato nella vita di San Pietro), ordinò che fossero ricercati con il massimo rigore San Pietro e San Paolo e condotti nel carcere Mamertino, ai piedi del colle Capitolino. Nerone aveva in animo di far condurre i due Apostoli al supplizio immediatamente, ma ne fu distolto da affari politici e da una congiura tramata contro di lui. Inoltre, aveva deliberato di rendere glorioso il suo nome tagliando l’istmo di Corinto, una lingua di terra larga circa nove miglia. Questa impresa non si poté realizzare, ma lasciò un anno di tempo a Paolo per guadagnare ancora anime a Gesù Cristo.
            Egli riuscì a convertire molti prigionieri, alcune guardie e altri ragguardevoli personaggi, che per desiderio di istruirsi o per curiosità andavano ad ascoltarlo, poiché San Paolo durante la sua prigionia poteva essere liberamente visitato e scriveva lettere dove ne avesse conosciuto il bisogno. È dalla prigione di Roma che scrisse la seconda lettera a Timoteo.
            In questa lettera, l’Apostolo annuncia vicina la sua morte, dimostra vivo desiderio che lo stesso Timoteo andasse da lui per assisterlo, essendo quasi da tutti abbandonato. Questa lettera si può chiamare il testamento di San Paolo; e, tra le molte cose, fornisce anche una delle maggiori prove a favore della tradizione. «Quello che hai udito da me», gli dice, «procura di trasmetterlo a uomini fedeli e capaci di insegnarlo ad altri dopo di te». Da queste parole apprendiamo che, oltre alla dottrina scritta, vi sono altre verità non meno utili e certe che devono essere trasmesse oralmente, in forma di tradizione, con una successione ininterrotta per tutti i tempi futuri.
            Dà poi molti utili consigli a Timoteo per la disciplina della Chiesa, per riconoscere varie eresie che si stavano diffondendo tra i cristiani. E, per mitigare la ferita che la notizia della sua imminente morte gli avrebbe causato, lo incoraggia così: «Non ti contristare per me, anzi, se mi vuoi bene, rallegrati nel Signore. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora non mi resta che ricevere la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno, quando, avendo offerto in sacrificio la mia vita, mi presenterò a lui. Tale corona non la renderà solo a me, ma a tutti coloro che, con opere buone, si preparano a riceverla nella sua venuta».
            Paolo ebbe nella sua prigione un conforto da un certo Onesiforo. Costui, essendo venuto a Roma e avendo saputo che Paolo, suo antico maestro e padre in Gesù Cristo, era in carcere, andò a trovarlo e si offrì di servirlo. L’Apostolo provò grande consolazione per una così tenera carità e, scrivendo a Timoteo, gli fa molti elogi e prega Dio per lui.
            «Faccia Dio», gli scrive, «misericordia alla famiglia di Onesiforo, il quale spesso mi ha confortato e non si è vergognato delle mie catene; al contrario, venuto a Roma, mi ha cercato con sollecitudine e mi ha trovato. Il Signore gli conceda di trovare misericordia presso di lui in quel giorno. E tu sai bene quanti servizi mi abbia reso a Efeso».
            Intanto Nerone tornò da Corinto tutto indispettito perché l’impresa dell’istmo non era riuscita. Si mise con rabbia maggiore a perseguitare i cristiani; e il suo primo atto fu di far eseguire la sentenza di morte contro San Paolo. Prima di tutto fu battuto con le verghe, e si mostra ancora a Roma la colonna a cui era legato quando subì quella flagellazione. È vero che con essa perdeva il privilegio di cittadinanza romana, ma acquistava il diritto di cittadino del cielo; perciò provava la più grande gioia nel vedersi rassomigliato al suo divino Maestro. Questa flagellazione era il preludio dell’essere poi decapitato.
            Paolo era condannato a morte perché aveva oltraggiato gli dèi; per questo solo titolo era permesso di tagliare la testa a un cittadino romano. Bella colpa! Essere ritenuto empio perché, invece di adorare pietre e demoni, si vuole adorare il solo vero Dio e suo Figlio Gesù Cristo. Dio gli aveva già rivelato il giorno e l’ora della sua morte; perciò provava una gioia già tutta celeste. Cupio (Desidero), esclamava, cupio dissolvi et esse cum Christo (essere sciolto da questo corpo per essere con Cristo). Infine, da una masnada di sgherri fu tratto di prigione e condotto fuori di Roma per la porta che si chiama Ostiense, facendolo camminare verso una palude lungo il Tevere, giunsero a un luogo chiamato Acque Salvie, circa tre miglia lontano da Roma.
            Raccontano che una matrona, chiamata Plautilla, moglie di un senatore romano, vedendo il santo Apostolo malconcio nel corpo e condotto a morte, si mise a piangere dirottamente. San Paolo la consolò dicendole: «Non piangere, ti lascerò una memoria di me che ti sarà molto cara. Dammi il tuo velo». Ella glielo diede. Con questo velo furono al santo bendati gli occhi prima di essere decapitato. E, per ordine del santo, fu da una pia persona restituito insanguinato a Plautilla, che lo conservò come reliquia.
            Giunto Paolo al luogo del supplizio, piegò le ginocchia e, con il volto rivolto al cielo, raccomandò a Dio l’anima sua e la Chiesa; poi chinò il capo e ricevette il colpo della spada che gli troncò la testa dal busto. La sua anima volò a trovare quel Gesù che da tanto tempo bramava di vedere.
            Gli angeli lo accolsero e lo introdussero tra immenso giubilo a partecipare della felicità del cielo. È certo che il primo a cui egli dovette rendere grazie fu Santo Stefano, al quale, dopo Gesù, era debitore della sua conversione e della sua salvezza.

CAPO XXXII. Sepoltura di San Paolo — Meraviglie operate presso la sua tomba — Basilica a lui dedicata

            Il giorno in cui San Paolo fu messo a morte fuori di Roma, alle Acque Salvie, fu lo stesso in cui San Pietro ottenne la palma del martirio ai piedi del monte Vaticano, il 29 giugno, essendo San Paolo in età di 65 anni. Il Baronio, che è chiamato padre della storia ecclesiastica, racconta come la testa di San Paolo, appena tagliata dal corpo, grondò latte invece di sangue. Due soldati, alla vista di tal miracolo, si convertirono a Gesù Cristo. La sua testa poi, cadendo a terra, fece tre salti, e dove toccò terra zampillarono tre fonti di acqua viva. Per conservare la memoria di questo glorioso avvenimento, fu innalzata una chiesa le cui mura racchiudono queste fontane, che ancora oggi si chiamano Fontane di San Paolo (cfr. F. Baronio, anno 69-70).
            Molti viaggiatori (cfr. Cesari e Tillemont) si recarono sul luogo per essere testimoni di questo fatto e ci assicurano che quelle tre fonti da loro viste e assaggiate hanno un sapore come di latte. In quei primi tempi era grandissima la sollecitudine dei cristiani per raccogliere e seppellire i corpi di coloro che davano la vita per la fede. Due donne, chiamate una Basilissa e l’altra Anastasia, studiarono il modo e il tempo per recuperare il cadavere del santo Apostolo e, di notte, gli diedero sepoltura due miglia lontano dal luogo dove aveva subito il martirio, a distanza di un miglio da Roma. Nerone, tramite le sue spie, venne a sapere dell’opera di quelle pie donne e ciò bastò perché le facesse morire, troncando loro le mani, i piedi e poi la testa.
            Sebbene i Gentili sapessero che il corpo di Paolo era stato seppellito dai fedeli, non poterono mai sapere il luogo esatto. Ciò era noto solo ai cristiani, che lo tenevano segreto come il più caro tesoro e gli rendevano l’onore maggiore possibile. Ma la stima che i fedeli avevano di quelle reliquie giunse a tal punto che alcuni mercanti d’Oriente, venuti a Roma, tentarono di rubarle e portarle nel loro paese. Segretamente lo dissotterrarono nelle catacombe, a due miglia da Roma, aspettando il momento propizio per trasportarlo. Ma nell’atto di compiere il loro disegno, si levò un orribile temporale con lampi e fulmini terribili, sicché furono costretti ad abbandonare l’impresa. Saputasi la cosa, i cristiani di Roma andarono a prendere il corpo di Paolo e lo riportarono al suo primo luogo lungo la via Ostiense.
            Al tempo di Costantino il Grande fu edificata una basilica superba in onore e sopra il sepolcro del nostro Apostolo. In ogni tempo, re e imperatori, dimentichi della loro grandezza, pieni di timore e di venerazione, si recarono a quel sepolcro per baciare la cassa che custodisce le ossa del santo Apostolo.
            Gli stessi Romani Pontefici non si avvicinavano, né si avvicinano, al luogo della sua sepoltura se non pieni di venerazione, e non hanno mai permesso che alcuno prelevasse una particella di quelle ossa venerande. Vari principi e re ne fecero vive richieste, ma nessun Papa giudicò di poterli accontentare. Questa grande riverenza era molto accresciuta dai continui miracoli che si compivano presso quel sepolcro. San Gregorio Magno ne riferisce molti e assicura che nessuno entrava in quel tempio a pregare senza tremare. Quelli che avessero osato profanarlo o tentato di asportarne anche una piccola particella erano da Dio puniti con manifesta vendetta.
            Gregorio XI fu il primo che, in una pubblica calamità, quasi costretto dalle preghiere e dalle istanze del popolo di Roma, prese il capo del Santo, lo sollevò in alto, lo mostrò alla moltitudine che piangeva di tenerezza e devozione e, immediatamente, lo ripose da dove lo aveva prelevato.
            Ora, il capo di questo grande Apostolo è nella chiesa di San Giovanni in Laterano; il resto del corpo fu sempre conservato nella basilica di San Paolo fuori le mura, lungo la via Ostiense, a un miglio da Roma.
            Anche le sue catene furono oggetto di devozione presso i fedeli cristiani. Per contatto di quei ferri gloriosi si operarono molti miracoli, e i più grandi personaggi del mondo ritennero sempre una reliquia preziosa poter avere un po’ di limatura di esse.

CAPO XXXIII. Ritratto di San Paolo — Immagine del suo spirito — Conclusione

            Affinché rimanga meglio impressa la devozione verso questo principe degli Apostoli, è utile dare un’idea del suo aspetto fisico e del suo spirito.
            Paolo non aveva un aspetto molto avvenente, come egli stesso afferma. Era di statura piccola, di costituzione forte e robusta, e ne diede prova con le lunghe e gravi fatiche da lui sostenute nella sua carriera, senza essere mai stato ammalato, eccetto per i mali causati dalle catene e dalla prigionia. Solo verso la fine dei suoi giorni camminava un po’ curvo. Aveva il viso chiaro, la testa piccola e quasi del tutto calva, il che denotava un carattere sanguigno e focoso. Aveva la fronte ampia, sopracciglia nere e basse, naso aquilino, barba lunga e folta. Ma i suoi occhi erano estremamente vivaci e brillanti, con un’aria dolce che temperava l’impeto dei suoi sguardi. Questo è il ritratto del suo aspetto fisico.
            Ma che dire del suo spirito? Lo conosciamo dai suoi stessi scritti. Aveva un ingegno acuto e sublime, animo nobile, cuore generoso. Tale era il suo coraggio e la sua fermezza che traeva forza e vigore dalle stesse difficoltà e dai pericoli. Era molto esperto nella scienza della religione ebraica. Era profondamente erudito nelle Sacre Scritture e tale scienza, aiutata dai lumi dello Spirito Santo e dalla carità di Gesù Cristo, lo rese quel grande Apostolo che fu soprannominato il Dottore dei Gentili. San Giovanni Crisostomo, devotissimo del nostro santo, desiderava grandemente poter vedere San Paolo dal pulpito, perché, diceva, i più grandi oratori dell’antichità sarebbero sembrati languidi e freddi al suo confronto. Non occorre dire altro delle sue virtù, poiché quanto abbiamo finora esposto non è altro che una tessitura delle virtù eroiche che egli fece risplendere in ogni luogo, in ogni tempo e con ogni genere di persone.
            Per concludere quanto detto su questo grande santo, merita di essere notata una virtù che egli fece risplendere sopra ogni altra: la carità verso il prossimo e l’amore verso Dio. Egli sfidava tutte le creature a separarlo dall’amore del suo divino Maestro. «Chi mi separerà», esclamava, «dall’amore di Gesù Cristo? Forse le tribolazioni o le angustie, o la fame, o la nudità, o i pericoli, o le persecuzioni? No, certamente. Io sono persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né potenze, né cose presenti né future, né alcuna creatura potrà separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù nostro Signore». Questo è il carattere del vero cristiano: essere disposto a perdere tutto, a soffrire tutto, piuttosto che dire o fare la minima cosa contraria all’amore di Dio.
            San Paolo passò più di trent’anni della sua vita come nemico di Gesù Cristo; ma appena fu illuminato dalla sua celeste grazia, si diede tutto a lui, né mai più da lui si separò. Impiegò poi oltre trentasei anni nelle più austere penitenze, nelle più dure fatiche, e ciò per glorificare quel Gesù che aveva perseguitato.
            Cristiano lettore, forse tu che leggi e io che scrivo avremo passato una parte della vita nell’offesa del Signore! Ma non perdiamo animo: c’è ancora tempo per noi; la misericordia di Dio ci attende.
            Ma non rimandiamo la conversione, perché se aspettiamo domani per sistemare le cose dell’anima, corriamo il grave rischio di non avere più tempo. San Paolo faticò trentasei anni al servizio del Signore; ora da 1800 anni gode l’immensa gloria del cielo e la godrà per tutti i secoli. La medesima felicità è preparata anche per noi, purché ci diamo a Dio mentre abbiamo tempo e perseveriamo nel santo servizio fino alla fine. È nulla ciò che si soffre in questo mondo, ma è eterno ciò che godremo nell’altro. Così ci assicura lo stesso San Paolo.

Terza edizione
Libreria Salesiana Editrice
1899
Proprietà dell’editore
S. Pier d’Arena, Scuola Tipografica Salesiana
Ospizio S. Vincenzo de’ Paoli
(N. 1267 — M)




Vita di san Giuseppe, sposo di Maria Santissima, padre putativo di Gesù Cristo (3/3)

(continuazione dall’articolo precedente)

Capo XX. Morte di s. Giuseppe. – Sua sepoltura.
Nunc dimittis servum tuum Domine, secundum verbum tuum in pace, quia viderunt oculi mei salutare tuum. (Adesso lascia, o Signore, che se ne vada in pace il tuo servo secondo la tua parola: perché gli occhi miei hanno veduto il Salvatore dato da te. – Lc. 2,29)

            L’ultimo momento era giunto, Giuseppe fece uno sforzo supremo per alzarsi e adorare colui che gli uomini consideravano quale suo figlio, ma che Giuseppe conosceva per suo Signore e Dio. Egli voleva gettarsi ai suoi piedi e domandargli la remissione dei suoi peccati. Ma Gesù non permise che egli s’inginocchiasse, e lo ricevette nelle sue braccia. Così poggiando il venerando capo sul Divin petto di Gesù colle labbra vicino a quel cuore adorabile spirava Giuseppe, dando agli uomini un ultimo esempio di fede e di umiltà. Era il diciannovesimo giorno di marzo, l’anno di Roma 777, il venticinquesimo dalla nascita del Salvatore.
            Gesù e Maria piansero sulla fredda spoglia di Giuseppe, e fecero presso di lui la mesta veglia dei morti. Gesù lavò egli stesso questo corpo verginale, gli chiuse gli occhi e gli incrociò le mani sul petto; poi lo benedisse per preservarlo dalla corruzione della tomba, e pose a sua custodia gli angeli del Paradiso.
            I funerali del povero operaio furono modesti come modesta era stata tutta la sua vita. Ma se parvero tali in faccia alla terra ebbero per altro così grande onore che non vantarono certamente i più gloriosi imperatori del mondo, giacché ebbero presso l’augusta salma il Re e la Regina del Cielo Gesù e Maria. Il corpo di Giuseppe fu deposto nel sepolcro dei suoi padri, nella valle di Giosafatte, tra la montagna di Sion e quella degli Oliveti.

Capo XXI. Potenza di s. Giuseppe nel cielo. Motivi della nostra confidenza.
Ite ad Joseph. (Andate a Giuseppe e fate tutto quello che egli vi dirà. – Gen. 41,55)

            Non sempre la gloria e la potenza dei giusti sopra la terra sono la misura certa del merito della loro santità; ma non è così di quella gloria e di quella potenza di cui essi sono rivestiti nel cielo, ove ognuno è ricompensato secondo le sue opere. Più essi sono stati santi agli occhi di Dio, più sono innalzati ad un grado sublime di potenza e di autorità.
Stabilito una volta questo principio, non dobbiamo noi credere, che fra i beati che sono l’oggetto del nostro culto religioso, s. Giuseppe sia, dopo Maria, il più potente di tutti presso Dio, e colui che merita a più giusto titolo la nostra confidenza ed i nostri omaggi? Di fatto quanti gloriosi privilegi lo distinguono dagli altri santi, e devono inspirarci per lui una profonda e tenera venerazione!
            Il figliuol di Dio che ha scelto Giuseppe per suo padre, per ricompensarne tutti i servigi e dargli in cambio le dimostrazioni del più tenero amore nel tempo della sua vita mortale, non l’ama meno in cielo di quello che lo amasse sopra la terra. Felice di aver l’intiera eternità per compensare il diletto suo padre di tutto quello che egli ha fatto per lui nella vita presente, con uno zelo così ardente, con una fedeltà così inviolabile ed un’umiltà tanto profonda. Ciò fa che il divin Salvatore è sempre disposto ad ascoltar favorevolmente tutte le sue preghiere, ed a soddisfare a tutti i suoi desideri.
            Troviamo nei privilegi e nei favori di cui fu ricolmato l’antico Giuseppe, il quale non era che l’ombra del nostro vero Giuseppe, una figura del credito onnipossente di cui gode nel cielo il santo sposo di Maria.
            Faraone per ricompensare i servigi, che da Giuseppe figliuolo di Giacobbe aveva ricevuto, lo stabilì intendente generale della sua casa, padrone di tutti i suoi beni volendo che ogni cosa si facesse secondo il suo cenno. Dopo averlo stabilito viceré dell’Egitto gli affidò il sigillo della sua autorità reale, e gli donò il pieno potere di concedere tutte le grazie che volesse. Ordinò che fosse chiamato il salvatore del mondo, affinché i suoi sudditi riconoscessero che a lui dovevano la loro salute; insomma mandava a Giuseppe tutti coloro che venivano per qualche favore, affinché li ottenessero dalla sua autorità, e gli dimostrassero la loro riconoscenza: Ite ad Ioseph, et quidquid dixerit vobis, facile – Gen. 41,55; Andate da Giuseppe, fate tutto quello che egli vi dirà, e ricevete da lui quanto egli vorrà donarvi.
            Ma quanto più ancora sono meravigliosi e capaci d’inspirarci un’illimitata confidenza i privilegi del casto sposo di Maria, del padre adottivo del Salvatore! Non è un re della terra come Faraone, ma è Dio onnipotente colui che ha voluto ricolmare dei suoi favori questo nuovo Giuseppe. Comincia per stabilirlo padrone e capo venerabile della Santa Famiglia; vuole che tutto gli obbedisca e gli sia sottomesso, perfino il proprio suo figlio a lui eguale in ogni cosa. Lo fa qual suo viceré, volendo che rappresenti la sua adorabile persona sino a dargli il privilegio di portare il suo nome e di essere chiamato il padre del suo Unigenito. Mette nelle sue mani questo figlio, per farci conoscere che gli dà illimitato potere di far ogni grazia. Osservate come fa pubblicare nel vangelo per tutta la terra ed in tutti i secoli, che s. Giuseppe è il padre del re dei re: Erant pater et mater eius mirantes – Lc. 2,33. Vuole che egli sia chiamato il Salvatore del mondo essendo che egli alimentò e conservò colui che è la salute di tutti gli uomini. Finalmente ci avverte che se desideriamo grazie e favori, a Giuseppe dobbiamo rivolgerci: Ite ad Ioseph, poiché egli è che ha ogni potere presso il re dei re per ottenere tutto ciò che domanda.
            La santa Chiesa riconosce questo potere sovrano di Giuseppe giacché ella domanda por sua intercessione ciò che non potrebbe ottenere da sé stessa: Ut quod possibilitas nostra non obtinet, eius nobis intercessione donetur.
            Certi santi, dice il dottore angelico, hanno ricevuto da Dio il potere di assisterci in certi bisogni particolari; ma il credito di s. Giuseppe non ha limite; si estende a tutte le necessità, e tutti coloro i quali a lui ricorrono con fiducia sono certi d’essere prontamente esauditi. Santa Teresa ci dichiara che ella non ha mai domandato niente a Dio per intercessione di s. Giuseppe che non l’abbia tosto ottenuto: e la testimonianza di questa santa ne vale mille altre, giacché era fondata sulla quotidiana esperienza dei suoi benefizi. Gli altri santi godono, è vero, un credito grande nel cielo; ma essi intercedono supplicando come servi e non comandano come padroni. Giuseppe, il quale ha veduto Gesù e Maria sottomessi a sé, può senza dubbio ottenere tutto quello che vuole dal re suo figlio e dalla regina sua sposa. Egli ha presso l’uno e presso l’altra un credito illimitato, e, come dice Gersone, egli più che supplicare, comanda: Non impetrat, sed imperat. Gesù, dice s. Bernardino da Siena, vuol continuare nel cielo a dare a s. Giuseppe prove del suo rispetto figliale obbedendo a tutti i suoi desideri: Dum pater orat natum, velut imperium reputatur.
            È di fatto che potrebbe negare Gesù Cristo a Giuseppe, il quale niente negò mai a lui nel tempo della sua vita? Mosè non era nella sua vocazione se non il capo ed il conduttore del popolo d’Israele, eppure si portava con Dio con tanta autorità, che quando lo prega in favore di quel popolo ribelle ed incorreggibile, la sua preghiera sembra farsi comando, il quale leghi in certo modo le mani alla divina maestà, e la riduca a non poter quasi castigare i colpevoli, finché egli ne abbia renduto la libertà: Dimitte me, ut irascatur furor meus contro eos et deleam eos. (Es. 32).
            Ma quanto maggior virtù e potenza non avrà la preghiera che Giuseppe volge per noi al sovrano giudice, di cui egli fu guida e padre adottivo? Poiché se egli è vero, come dice s. Bernardo, che Gesù Cristo, il quale è nostro avvocato presso il Padre, gli presenta le sacre sue piaghe ed il sangue adorabile che ha sparso per la nostra salute, se Maria, per parte sua presenta all’unico Figlio il seno che lo portò e nutrì, non possiamo noi aggiungere che s. Giuseppe mostra al Figlio ed alla Madre le mani le quali hanno tanto affaticato per loro ed i sudori che egli ha sparso per guadagnare il loro vitto sopra la terra? E se Dio Padre non può nulla negare al suo Figlio diletto quando lo prega per le sue sacre piaghe, né il Figlio nulla negare alla sua Santissima Madre quando lo scongiura per le viscere che lo hanno portato, non siam noi tenuti a credere che né il Figlio, né la Madre divenuta la dispensatrice delle grazie che Gesù Cristo ha meritato non possono nulla negare a s. Giuseppe quando egli li prega per tutto ciò che ha fatto per essi in trent’anni di sua vita?
            Immaginiamoci che il nostro santo protettore volga per noi a Gesù Cristo, di lui Figlio adottivo, questa commovente preghiera: « O mio divin Figlio, degnatevi di spargere le vostre più abbondanti grazie sopra i miei servi fedeli; io ve lo domando pel dolce nome di padre di cui mi avete tante volte onorato, per queste braccia che vi ricevettero e vi riscaldarono nella vostra nascita, che vi trasportarono in Egitto per salvarvi dal furore di Erode; ve lo chiedo per quegli occhi di cui asciugai le lacrime, per quel prezioso sangue che io raccolsi nella vostra circoncisione; per i travagli e le fatiche che io portai con tanta contentezza per nutrire la vostra infanzia, per allevarvi nella vostra giovinezza…» Gesù così pieno di carità potrebbe egli resistere a tale preghiera? E se è scritto, dice s. Bernardo, che egli fa la volontà di coloro che lo temono, come può negare egli di fare quella di colui che lo servì e nutrì con tanta fedeltà, con tanto amore? Si voluntatem timentium se faciet; quomodo voluntatem nutrientis se non faciet? (Un pio scrittore nei suoi commenti al salmo 144,19).
            Ma ciò che deve raddoppiar la nostra confidenza in s. Giuseppe si è la sua ineffabile carità per noi. Gesù facendosi suo figlio, gli mise nel cuore un amore più tenero di quello del migliore dei padri.
            Non siamo noi diventati suoi figli; mentre Gesù Cristo è nostro fratello e Maria, sua casta sposa, è nostra madre piena di misericordia?
            Rivolgiamoci dunque a s. Giuseppe con una viva e piena confidenza. La sua preghiera unita a quella di Maria e presentata a Dio in nome dell’infanzia adorabile di Gesù Cristo, non può trovar rifiuto, ma senza più deve ottenere tutto ciò che domanda.
            Il potere di s. Giuseppe è illimitato; si estende a tutti i bisogni della nostra anima e del nostro corpo.
            Dopo tre anni di malattia violenta e continua, che non le lasciava né riposo, né speranza di guarigione s. Teresa ebbe ricorso a s. Giuseppe; ed egli tosto l’ottenne sanità.
            Egli è principalmente alla nostra ultima ora, allorché la vita essendo sul punto di lasciarci come un falso amico, l’inferno raddoppierà i suoi sforzi per rapire la nostra anima nel passaggio all’eternità, egli è in quel momento decisivo per la nostra salute che s. Giuseppe ci assisterà in un modo tutto speciale, qualora siamo fedeli a onorarlo ed a pregarlo in vita. Il divin Salvatore per ricompensarlo di averlo sottratto alla morte liberandolo dal furore di Erode, gli diede il privilegio speciale di sottrarre dalle insidie del demonio e dalla morte eterna i moribondi che si sono messi sotto la sua protezione.
            Ecco il motivo per cui lo si invoca con Maria in tutto il mondo cattolico, come patrono della buona morte. Oh! quanto saremmo felici, se potessimo morire come tanti fedeli servi di Dio, pronunziando i nomi onnipossenti di Gesù, Maria, Giuseppe. Il figlio di Dio, dice il venerabile Bernardo da Bustis, avendo le chiavi del paradiso, ne diede una a Maria, l’altra a Giuseppe, affinché essi potessero introdurre tutti i loro servi fedeli nel luogo del refrigerio, della luce e della pace.

Capo XXII. Propagazione del culto ed istituzione della festa del 19 marzo e del Patrocinio di s. Giuseppe.
Qui custos est domini sui glorificabitur. (Chi custodisce il suo padrone sarà onorato. – Pr. 27,18)

            Come la divina Provvidenza dispose che s. Giuseppe morisse prima che Gesù si manifestasse pubblicamente quale Salvatore degli uomini, così fece pure che il culto verso questo santo non si propagasse prima che la fede cattolica si fosse universalmente diffusa nel mondo. Difatti l’esaltare questo santo nei primi tempi del cristianesimo sembrava pericoloso alla fede ancor debole dei popoli. Alla dignità di Gesù Cristo era di somma convenienza che s’inculcasse esser egli nato da una vergine per opera dello Spirito Santo; ora il metter innanzi la memoria di s. Giuseppe sposo di Maria avrebbe fatto ombra a quella dogmatica credenza presso alcune menti deboli, non ancor illuminate intorno ai miracoli della potenza divina. D’altronde importava in quei secoli di battaglia di far principale oggetto di venerazione quei santi eroi che per sostener la fede avevano versato il sangue col martirio.
            Come poi fu consolidata nei popoli la fede e furono sollevati all’onore degli altari molti santi che avevano edificato la Chiesa collo splendor delle loro virtù senza passare pei tormenti, parve tosto di somma convenienza che non si lasciasse sotto silenzio un santo di cui il vangelo stesso faceva sì ampio elogio. Quindi i Greci oltre la festa di tutti gli antenati di Cristo (che furono giusti) la quale celebrano nella domenica che precede il giorno di Natale, consacrarono la domenica che corre in quest’ottava al culto specialmente di s. Giuseppe, sposo di Maria, del santo profeta Davide e di s. Giacomo cugino del Signore.
            Nel calendario dei Cofti sotto il giorno 20 luglio si fa menzione di s. Giuseppe, ed è opinione sostenuta da alcuni che il 4 luglio sia stato il giorno della morte del nostro santo.
            Nella Chiesa latina poi il culto di s. Giuseppe rimonta all’antichità dei primi secoli come appare dagli antichissimi martirologi del monastero di s. Massimino di Treviri e di Eusebio. L’ordine dei frati mendicanti fu il primo a celebrarne l’uffizio proprio come rilevasi dai loro breviari. Il loro esempio fu seguito nel decimoquarto secolo dai Francescani e dai Domenicani per opera di Alberto Magno che fu maestro di s. Tommaso d’Aquino.
            Verso il fine del decimoquinto secolo la chiesa milanese e Toletana lo introdussero pure nella loro liturgia, finché nell’anno 1522 la sede apostolica ne estese il culto a tutto l’orbe cattolico. Pio V, Urbano VIII e Sisto IV ne perfezionarono l’ufficiatura.
            La principessa Isabella Clara Eugenia di Spagna, erede dello spirito di santa Teresa devotissima di s. Giuseppe, recandosi nel Belgio ottenne che vi fosse instituita nella città di Bruselles una festa di precetto addì 19 marzo in onore di questo santo, e divulgatosi il culto nelle provincie vicine veniva proclamato e venerato sotto il titolo di conservator della pace e protettore della Boemia. Questa festa ebbe principio in Boemia l’anno 1655.
            Una parte del manto con cui s. Giuseppe ravvolse il santo bambino Gesù è conservata in Roma nella chiesa di santa Cecilia in Trastevere dove si conserva pure il bastone che questo santo portava viaggiando. L’altra parte si conserva nella chiesa di santa Anastasia nella stessa città.
            Giusta quanto ci tramandarono testimoni di veduta questo manto è di color giallognolo. Una particella di questo fu data in dono dal Cardinale Ginetti ai Padri Carmelitani Scalzi di Anversa, custodita in una magnifica cassetta, sotto tre chiavi e viene esposta ogni anno alla pubblica venerazione nelle feste natalizie.
            Fra i sommi pontefici che concorsero colla loro autorità a promuovere il culto di questo santo si annovera Sisto IV il quale fu il primo ad instituirne la festa verso il fine del secolo XV. S. Pio V ne formulò l’uffizio nel Breviario Romano. Gregorio XV ed Urbano VIII si adoperarono con appositi decreti a riscuotere il fervore verso questo santo che pareva in alcuni popoli affievolito. Finché il Sommo Pontefice Innocenzo X cedendo alle istanze di moltissime chiese della cristianità, bramoso anch’esso di promuovere la gloria del santissimo sposo di Maria e così renderne alla religione più efficace il patrocinio, ne estese a solennità a tutto l’orbe cattolico.
            La festa di s. Giuseppe veniva pertanto fissata al giorno 19 di marzo, giorno che si crede piamente essere stato quello della beatissima sua morte (contro l’opinione di alcuni che vogliono essere questa avvenuta ai 4 del mese di luglio).
            Questa festa cadendo sempre nel tempo Quaresimale non poteva essere celebrata in giorno di Domenica, giacché tutte le Domeniche della Quaresima sono privilegiate: quindi avrebbe dovuto bene spesso passare inosservata se la pietà ingegnosa dei fedeli non avesse trovato modo di supplirvi altrimenti.
            Fin dal 1621 l’Ordine dei Carmelitani scalzi avendo solennemente riconosciuto s. Giuseppe come patrono e padre universale del loro Istituto consacrava una delle Domeniche dopo Pasqua a celebrarne la solennità sotto il titolo di Patrocinio di s. Giuseppe. Dietro fervorosa domanda e dello stesso Ordine e di molte Chiese della Cristianità la sacra Congregazione dei Riti con decreto del 1680 fissava questa solennità alla terza Domenica dopo Pasqua. Molte Chiese dell’orbe cattolico adottarono tosto spontaneamente questa festa. La Compagnia di Gesù, i Redentoristi, i Passionisti e la Società di Maria la celebrano con ottava ed uffizio proprio sotto il rito doppio di prima classe.
            La sacra Congregazione dei Riti finalmente per secondare ed animare sempre più la pietà dei fedeli verso questo gran Santo con un decreto del 10 settembre 1847 dietro istanza dell’Eminentissimo Cardinal Patrizi estendeva questa festa a tutta la Chiesa universale.
            Se mai furono tempi calamitosi per la Chiesa di Gesù Cristo, se mai la fede cattolica volse le sue preghiere al Cielo per implorarne un protettore sono pur troppo i giorni presenti. La nostra s. religione assalita nei suoi più sacrosanti principii vede numerosi figli strapparsi con crudele indifferenza dal suo materno seno per darsi pazzamente in braccio all’incredulità ed alla scostumatezza, e diventando scandalosi apostoli dell’empietà trarre a traviamenti tanti loro fratelli, e dilaniare così il cuore a quella madre amorosa che li ha nutriti. Or bene mentre la divozione a san Giuseppe attirerebbe copiose benedizioni sulle famiglie dei suoi devoti, procurerebbe alla desolata sposa di Gesù Cristo il validissimo patrocinio di un santo, il quale come seppe un giorno serbar illesa la vita di Gesù dalla persecuzione che gli muoveva Erode, saprà bene serbar illesa la fede dei suoi figli dalla persecuzione che le muove l’inferno. Come il primo Giuseppe figliuolo di Giacobbe seppe mantenere l’abbondanza nel popolo d’Egitto durante sette anni di carestia, il vero Giuseppe più felice amministratore dei celesti tesori saprà mantener nel popolo cristiano quella fede santissima per stabilir la quale discese sulla terra quel Dio, di cui fu egli per trent’anni l’aio ed il custode.

Sette allegrezze e sette dolori di S. Giuseppe.

Indulgenza accordata da Pio IX ai fedeli che reciteranno questa corona che può servire di pratica per la novena del Santo.

            Il regnante Pio IX, ampliando le concessioni dei suoi predecessori, specialmente quelle di Gregorio XVI, accordò ai fedeli dell’uno e dell’altro sesso, i quali dopo aver recitali i seguenti ossequi, detti comunemente le sette Allegrezze ed i sette dolori di s. Giuseppe, per sette consecutive domeniche, in qualunque tempo dell’anno, visiteranno, confessati e comunicati, una Chiesa, od Oratorio pubblico, ed ivi pregheranno secondo la sua intenzione: indulgenza Plenaria applicabile ancora alle anime del Purgatorio, in ciascuna di dette domeniche.
            A coloro poi che non sanno leggere, o non potranno portarsi in qualche Chiesa, ove pubblicamente si fanno detti Ossequi, lo stesso Pontefice accordò la medesima Indulgenza Plenaria purché, visitando la detta Chiesa e pregando come sopra, recitino, invece degli Ossequi suddetti, sette Pater, Ave e Gloria in onore del santo Patriarca.

Corona dei sette dolori ed allegrezze di s. Giuseppe.

            1. O sposo purissimo di Maria Santissima, glorioso s. Giuseppe, siccome fu grande il travaglio e l’angustia del vostro cuore nella perplessità di abbandonare la vostra illibatissima sposa: così fu inesplicabile l’allegrezza quando dall’angelo vi fu rivelato il mistero sovrano dell’Incarnazione.
            Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza vi preghiamo di consolar ora e negli estremi dolori l’anima nostra coll’allegrezza di una buona vita e di una santa morte somigliante alla vostra, in mezzo di Gesù e di Maria.
Pater, Ave e Gloria.

            2. O felicissimo Patriarca, glorioso s. Giuseppe, che trascelto foste all’uffizio di Padre putativo dell’umanato Verbo, che dolore doveste sentire nel vedere nascere con tanta povertà il bambino Gesù! Ma questo si cambiò subito in giubilo celeste nell’udire l’armonia angelica e nell’udir le glorie di quella fortunatissima notte.
            Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza vi supplichiamo d’impetrarci, che dopo il cammino di questa vita, ce ne passiamo ad udire le lodi angeliche, ed a godere gli splendori della celeste gloria.
Pater, Ave e Gloria.

            3. O esecutore delle divine leggi, glorioso s. Giuseppe, il sangue preziosissimo che sparse nella circoncisione il Bambino Redentore vi trafisse il cuore, ma il nome di Gesù ve lo ravvivò, riempiendolo di contento.
            Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza, otteneteci, che, tolto da noi ogni vizio in vita, col nome santissimo di Gesù nel cuore e nella bocca, giubilando spiriamo.
Pater, Ave e Gloria.

            4. O fedelissimo Santo, che a parte foste dei Misteri della nostra Redenzione, glorioso s. Giuseppe, se la profezia fatta da Simeone di ciò che Gesù e Maria erano per patire, vi cagionò spasimo di morte, vi ricolmò ancora di un beato godimento per la salute e gloriosa risurrezione, che insieme predisse dover seguirne, d’innumerabili anime.
            Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza, impetrateci che noi siamo nel numero di quelli, che, per i meriti di Gesù e ad intercessione della Vergine sua Madre, hanno gloriosamente da risorgere.
Pater, Ave e Gloria.

            5. O vigilantissimo custode, famigliare intrinseco dell’Incarnato Figliuolo di Dio, glorioso s. Giuseppe, quanto penaste in sostenere e servire il Figlio dell’Altissimo particolarmente nella fuga che doveste fare in Egitto; ma quanto ancora molto gioiste avendo sempre con voi l’istesso Dio, e vedendo cadere a terra gli idoli egiziani.
            Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza, impetrateci, che tenendo da noi lontano il tiranno infernale, specialmente colla fuga delle occasioni pericolose, cada dal nostro cuore ogni idolo di affetto terreno; e tutti impiegati nella servitù di Gesù e di Maria, per loro solamente da noi si viva, e felicemente si muoia.
Pater, Ave e Gloria.

            6. O Angelo della terra, glorioso san Giuseppe, che ai vostri cenni ammiraste soggetto il Re del Cielo, so che la consolazione vostra nel ricondurlo dall’Egitto si turbò col timore di Archelao; ma so pure che assicurato dall’Angelo, lieto con Gesù e Maria, dimoraste in Nazareth.
            Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza, impetrateci che da timori nocivi sgombrato il nostro cuore godiamo pace di coscienza e sicuri viviamo con Gesù e Maria e fra loro ancora moriamo.
Pater, Ave e Gloria.

            7. O esemplare d’ogni Santità, glorioso s. Giuseppe, smarrito che aveste senza vostra colpa il fanciullo Gesù, per maggior dolore tre giorni lo cercaste, finché con sommo giubilo godeste della vostra Vita ritrovata nel tempio fra i dottori.
            Per questo dolore e per questa vostra allegrezza vi supplichiamo, col cuore sulle labbra, ad interporvi, onde non ci avvenga mai di perdere con colpa grave Gesù. Che se per somma disgrazia lo perdessimo, fate, che con tale indefesso dolore lo ricerchiamo, finché favorevole lo ritroviamo, particolarmente nella nostra morte, per passare a goderlo in Cielo, ed ivi con voi in eterno cantare le sue divine misericordie.
Pater, Ave e Gloria.

            Antifona. Gesù stava per compiere trent’anni, e si riteneva essere figlio di Giuseppe.
            V. Prega per noi san Giuseppe.
            R. E saremo degni delle promesse di Cristo.

Oremus.

            O Dio, che con ineffabile provvidenza ti sei degnato di scegliere il Beato Giuseppe come sposo della tua santissima Madre, concedi a noi che lo veneriamo come protettore sulla terra di meritare di averlo come intercessore nel Cielo. Per Cristo nostro Signore
            R. Amen.

Altra orazione a s. Giuseppe.
            Dio vi salvi, o Giuseppe, pieno di grazia; Gesù e Maria sono con voi; voi siete benedetto fra gli uomini, e benedetto è il frutto del seno della vostra sposa Maria. S. Giuseppe, padre putativo di Gesù, vergine sposo di Maria, pregate per noi peccatori adesso e nell’ora della morte nostra. Così sia.

Raccolta dai più accreditati Autori, colla novena in preparazione alla festa del Santo.
Tipografia dell’Oratorio di s. Francesco di Sales, Torino 1867.
Sac. BOSCO GIOVANNI

Con permissione Ecclesiastica.

***

Oggi, la Chiesa concede indulgenza (Enchiridion Indulgentiarum n.19) per le preghiere in onore di san Giuseppe:
“Si concede l’indulgenza parziale al fedele che invoca san Giuseppe, Sposo della Beata Vergine Maria, con una preghiera legittimamente approvata (per esempio, A te, o beato Giuseppe).

A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione ricorriamo, e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio, insieme con quello della tua santissima Sposa. Deh! per quel sacro vincolo di carità che ti strinse all’immacolata Vergine Madre di Dio, e per l’amore paterno che portasti al fanciullo Gesù, riguarda, te ne preghiamo, con occhio benigno la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue, e col tuo potere ed aiuto soccorri ai nostri bisogni. Proteggi, o provvido custode della divina Famiglia, l’eletta prole di Gesù Cristo; allontana da noi, o padre amantissimo, la peste di errori e di vizi che ammorba il mondo; assistici propizio dal cielo in questa lotta col potere delle tenebre, o nostro fortissimo protettore; e come un tempo salvasti dalla morte la minacciata vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità, e copri ciascuno di noi con il tuo continuo patrocinio, affinché con il tuo esempio e con il tuo soccorso possiamo virtuosamente vivere, piamente morire e conseguire l’eterna beatitudine in cielo. Amen.

Papa Leone XIII, Orazione a San Giuseppe, enciclica Quamquam pluries




Vita di san Giuseppe, sposo di Maria Santissima, padre putativo di Gesù Cristo (2/3)

(continuazione dall’articolo precedente)

Capo IX. La Circoncisione.
Et vocavit nomen eius Iesum. (E gli pose nome Gesù. – Mt. 1,25)

            L’ottavo giorno dopo la nascita si dovevano circoncidere i figliuoli d’Israele per espresso comando da Dio fatto ad Abramo, affinché vi fosse un segno che ricordasse al popolo l’alleanza da Dio giurata con lui.
            Maria e Giuseppe intendevano molto bene che tal segno non era per nulla necessario a Gesù. Questa dolorosa funzione era una pena che conveniva ai peccatori, ed aveva per scopo di cancellare il peccato originale. Ora Gesù essendo il santo per eccellenza, il fonte d’ogni santità non portava con sé alcun peccato che abbisognasse remissione. D’altronde egli era venuto al mondo per miracoloso concepimento, e non aveva da sottostare a veruna delle leggi che riguardavano gli uomini. Tuttavia Maria e Giuseppe ben sapendo che Gesù non era venuto a sciogliere la legge, ma ad adempierla; che veniva per recare agli uomini l’esempio della perfetta obbedienza, disposto a soffrire tutto ciò che la gloria del Padre Celeste e la salute degli uomini gli avrebbe imposto, non ristettero dal compiere sul Divino fanciullo la penosa cerimonia.
            Giuseppe il santo Patriarca è il ministro ed il sacerdote di quel sacro rito. Eccolo che cogli occhi molli di pianto dice a Maria: «Maria, ora è tempo che ci accingiamo a compiere in questo benedetto tuo figliuolo il segnacolo di nostro padre Abramo. Io mi sento perdere il cuore nel pensarvi. Io metter il ferro in queste carni immacolate! Io trarre il primo sangue di questo agnello di Dio; oh se tu aprissi la bocca, o bambino mio, e mi dicessi che non vuoi la ferita, oh come lancerei lontano da me questo coltello, e godrei che tu non la volessi! Ma io vedo che tu mi domandi questo sacrificio; che vuoi patire. Sì, o bambino dolcissimo, noi patiremo: tu nella tua carne mondissima; Maria ed io nei nostri cuori.»
            Giuseppe intanto aveva compiuto il doloroso uffizio offrendo a Dio quel primo sangue in espiazione dei peccati degli uomini. Poi con Maria lacrimosa e piena d’affanno pel patimento del suo Figliuolo aveva ripetuto: «Gesù è il suo nome, perché Egli deve salvare il suo popolo dai suoi peccati: vocabis nomen eius Iesum; ipse enim salvum faciet populum suum a peccatis eorum. – Mt. 1,25» O nome santissimo! o nome sopra ogni nome! quanto convenientemente in questo momento tu sei per la prima volta pronunciato! Dio volle che il bambino venisse chiamato Gesù allora quando incomincerebbe a sparger sangue, perché se egli era e sarebbe Salvatore, ciò era appunto in virtù e per effetto del suo sangue, per cui entrò nel santo dei santi una volta sola e col sacrificio di tutto sé stesso consumava la Redenzione d’Israele e di tutto il mondo.
            Giuseppe fu quel grande e nobile ministro della Circoncisione per cui si diede al Figliuol di Dio il suo proprio nome. Giuseppe ne ricevé la relazione dall’angelo, Giuseppe lo pronuncio il primo fra gli uomini, e al pronunziarlo fece che gli angeli tutti s’incurvassero, e che i demoni sorpresi da straordinario spavento, anche senza intendere il perché, cadessero adorando e si nascondessero nel più profondo dell’inferno. Gran dignità di Giuseppe! Grande obbligazione di ossequio che noi gli abbiamo per aver egli il primo chiamato Redentore il Figliuolo di Dio, ed egli il primo aver cooperato col santo ministerio della circoncisione a farcelo Redentore.

Capo X. Gesù adorato dai Magi. La Purificazione.
Reges Tharsis et insulae munera offerent, Reges Arabum et Saba dona adducent. (I re di Tarsis e le isole a lui faranno le loro offerte, i re degli arabi e di Saba porteranno i loro doni. – Ps. 71,10)

            Quel Dio che era disceso sulla terra per far della casa d’Israele e delle genti disperse una sola famiglia voleva intorno alla sua culla i rappresentanti dell’uno e dell’altro popolo. I semplici e gli umili avevano avuto la preferenza nel trovarsi attorno a Gesù: i grandi peraltro ed i sapienti della terra non dovevano esserne esclusi. Dopo i pastori vicini, Gesù dal silenzio della sua grotta di Betlemme moveva una stella del Cielo a ricondurvi adoratori lontani.
            Una tradizione popolarissima in tutto l’Oriente e registrata nella Bibbia, annunziava che un fanciullo nascerebbe in Occidente, il quale cangerebbe la faccia del mondo, e che un nuovo astro doveva in pari tempo comparire e segnare questo avvenimento. Or bene all’epoca della nascita del Salvatore vi erano all’estremità dell’Oriente alcuni principi detti comunemente i tre Re Magi, dotati di una scienza straordinaria.
            Profondamente versati nelle scienze astronomiche, questi tre magi aspettavano con ansietà l’apparizione della nuova stella che doveva loro annunziare la nascita del meraviglioso fanciullo.
            Una notte mentre questi osservavano il cielo attentamente, un astro d’insolita grandezza pareva distaccarsi dalla volta celeste, come se avesse voluto discendere sopra la terra.
            Riconoscendo a questo segnale che il momento era giunto, frettolosamente se ne partirono, e guidati sempre dalla stella giunsero a Gerusalemme. La fama del loro arrivo e sopra tutto la causa, che li conduceva, turbò il cuore dell’invidioso Erode. Questo principe crudele fece venire a sé i Magi e disse loro: «Pigliate esatte informazioni di questo fanciullo, ed appena l’avrete trovato, ritornate ad avvertirmene affinché io pure vada ad adorarlo.» I dottori della legge avendo indicato che il Cristo doveva nascere in Betlemme; i Magi uscirono da Gerusalemme preceduti sempre dalla misteriosa stella. Non tardarono ad arrivare a Betlemme; la stella si arrestò al disopra della grotta dove stava il Messia. I Magi vi entrarono, si prostrarono ai piedi del fanciullo e l’adorarono.
            Aprendo allora i cofanetti di legni preziosi che con sé avevano portato, gli offrirono dell’oro come per riconoscerlo re, dell’incenso come Dio e della mirra come uomo mortale.
            Avvisati poscia da un angelo dei veri disegni di Erode, senza passare per Gerusalemme, ritornarono direttamente ai loro paesi.
            Si avvicinava il quarantesimo giorno dalla nascita del Santo Bambino: la legge di Mosè prescriveva che ogni primogenito venisse portato al tempio per essere offerto a Dio e quindi consacrato, e per essere purificata la madre. Giuseppe in compagnia di Gesù e di Maria moveva verso Gerusalemme per compiere la prescritta cerimonia. Offri due tortorelle in sacrificio e pagò cinque sicli d’argento. Poscia avendo fatto inscrivere il figlio sopra le tavole del censo e pagato il tributo, i santi sposi se ne ritornarono in Galilea, a Nazareth loro città.

Capo XI. Il tristo annunzio. – La strage degli innocenti. – La sacra famiglia parte per l’Egitto.
Surge, accipe puerum et matrem eius et fuge in Aegyptum et esto ibi usque dum dicam tibi. (L’angelo del Signore disse a Giuseppe: Levati, prendi il bambino e sua madre e fuggi in Egitto e fermati colà fino che io t’avvisi. – Mt. 2,13)

Vox in excelso audita est lamentationis, luctus, et fletus Rachel plorantis filios suos, et nolentis consolari super eis quia non sunt. (Si è sentito nell’alto voce di querela, di lutto e di gemito di Rachele che piange i suoi figli; e riguardo ad essi non ammette consolazione perché ei più non sono. – Ger. 31,15)

            La tranquillità della santa famiglia non doveva essere di lunga durata. Appena Giuseppe era rientrato nella povera casa ai Nazareth, un angelo del Signore gli apparve in sogno e gli disse: «Alzati, togli teco il fanciullo e sua madre e fuggi in Egitto, e rimani colà finché io non ti dica di ritornare. Imperocché Erode cercherà il fanciullo per farlo morire.»
            E ciò non era che troppo vero. Il crudele Erode ingannato dai Magi e furioso di vedersi sfuggire una si bella occasione, per disfarsi di colui che egli considerava come un competitore al trono, aveva concepito l’infernale disegno di far massacrare tutti i bambini maschi di età inferiore a due anni. Quest’ ordine abbominevole fu eseguito.
            Un largo fiume di sangue scorse la Galilea. Allora si avverò quello che aveva predetto Geremia: «Una voce si è fatta intendere in Rama, voce mista di lacrime e di lamenti. È Rachele che piange i suoi figli e non vuol essere consolata; perché essi non sono più.» Questi poveri innocenti, si crudelmente scannati, furono i primi martiri della divinità di Gesù Cristo.
            Giuseppe aveva riconosciuto la voce dell’Angelo; né si permise alcuna riflessione sulla precipitata partenza, a cui dovevano risolversi; sulle difficoltà d’un viaggio così lungo e così pericoloso. E sì che gli doveva rincrescere di abbandonare la sua povera casa, per andare attraverso ai deserti a cercare un asilo in un paese che egli non conosceva. Senza nemmeno aspettare il domani, nel momento che l’angelo disparve egli si alzò e corse a svegliare Maria. Maria preparò frettolosamente piccola provigione di panni e di viveri che dovevano portare con sé. Giuseppe intanto preparò la giumenta, e partirono senza rammarico dalla loro città per obbedire al comando di Dio. Ecco dunque un povero vecchio, che rende vane le orribili trame del tiranno di Galilea; è a lui che Iddio affida la custodia di Gesù e di Maria.

Capo XII. Viaggio disastroso – Una tradizione.
Si persequentur vos in civitate ista, fugite in aliam. (Quando vi perseguiteranno in questa città fuggite ad un’altra. – Mt. 10,23.)

            Due strade si presentavano al viaggiatore, che per la via di terra volesse recarsi in Egitto. L’una attraversava deserti popolati da bestie feroci, ed i sentieri ne erano malagevoli, lunghi e poco frequentati. L’altra si dirigeva attraverso a un paese poco frequentato, ma gli abitanti della contrada erano ostilissimi agli Ebrei. Giuseppe, che aveva soprattutto a temere gli uomini in questa fuga precipitosa, scelse la prima di queste due strade siccome la più nascosta.
            Partiti da Nazaret nel più fitto della notte, i cauti viaggiatori, il cui itinerario obbligava a passare vicino a Gerusalemme, batterono per qualche tempo i sentieri più tristi e tortuosi. Quando si doveva attraversare qualche grande strada, Giuseppe lasciando al riparo d’una roccia Gesù e sua Madre, andava in perlustrazione pel cammino, per accertarsi se l’uscita non ne fosse guardata dai soldati di Erode. Rassicurato da questa precauzione, ritornava a prendere il suo prezioso tesoro, e la santa famiglia continuava il suo viaggio, tra i burroni ed i colli. Di tratto in tratto si faceva una breve sosta sull’orlo d’un limpido ruscello, e dopo una frugale refezione si prendeva un po’ di riposo dalle fatiche del viaggio. Giunta la sera, era mestieri rassegnarsi a dormire a cielo scoperto. Giuseppe spogliandosi del suo mantello, ne copriva Gesù e Maria per preservarli dall’umidità della notte. Poi il domani sul far del giorno si ricominciava il faticoso viaggio. I santi viaggiatori, avendo oltrepassata la piccola città di Anata, si diressero dalla parte di Ramla per discendere nelle pianure della Siria, dove essi dovevano ormai esser liberi dalle insidie dei loro feroci persecutori. Contro alla loro abitudine avevano continuato a camminare malgrado fosse di già fatta la notte per essere più presto in salvo. Giuseppe andava quasi tastando il terreno avanti agli altri. Maria tutta tremante per questa corsa notturna spostava i suoi sguardi irrequieti nella profondità dei valloni, e nelle sinuosità delle rocce. D’un tratto in uno svolto, una frotta d’uomini armati si presentò ad intercettare loro il cammino. Era una banda di scellerati, i quali devastavano la contrada, la cui fama spaventevole si estendeva molto lontano. Giuseppe aveva arrestato la cavalcatura di Maria, e pregava il Signore in silenzio; perché era impossibile qualunque resistenza. Tutto al più si poteva sperare di ottener salva la vita. Il capo dei briganti si staccò dai suoi compagni e si avanzò verso Giuseppe per osservare con chi avesse egli da trattare. La vista di questo vecchio senza armi, di questo bambinello che dormiva sopra il seno di sua madre, toccò il cuore sanguinario del bandito. Ben lungi dal voler far loro alcun male, stese la mano a Giuseppe, offrendo ospitalità a lui ed alla sua famiglia. Questo capo si chiamava Disma. La tradizione ci dice, che trent’anni dopo egli fu preso dai soldati, e condannato ad essere crocifisso. Fu messo in croce sul Calvario al fianco di Gesù, ed è lo stesso che noi conosciamo sotto il nome del buon ladrone.

Capo XIII. Arrivo in Egitto – Prodigi avvenuti al loro ingresso in questa terra – Villaggio di Matari – Abitazione della sacra Famiglia.
Ecce ascendet Dominus super nubem levem et commovebuntur simulacra Aegypti. (Ecco che il Signore salirà sopra una nuvola leggera ed entrerà in Egitto e alla presenza di lui si conturberanno i simulacri d’Egitto. – Is. 19,1)

             Comparso appena il giorno, i fuggitivi, ringraziando i briganti diventati ospiti, ripresero il loro cammino pieno di pericoli. Si dice che Maria sul partire abbia detto queste parole al capo di quei banditi: «Ciò che tu hai fatto per questo bambino, ti sarà un giorno largamente ricompensato.» Dopo di avere attraversato Betlemme e Gaza, Giuseppe e Maria discesero nella Siria e avendo incontrato una carovana che partiva per l’Egitto si unirono ad essa. Da questo istante sino al termine del loro viaggio non videro più davanti a sé, che un immenso deserto di sabbia, la cui aridità non era interrotta che a ben rari intervalli da qualche oasi, ossia da alcuni tratti di terreno fertile e verdeggiante. Le loro fatiche si raddoppiarono durante questa corsa attraverso a queste pianure infuocate da ardente sole. I viveri erano poco abbondanti, e l’acqua ben sovente mancava. Quante notti Giuseppe, che era vecchio e povero, si vide risospinto, quando tentava di avvicinarsi alla fonte, cui la carovana si era arrestata per dissetarsi!
            Finalmente dopo due mesi di penosissimo cammino i viaggiatori entrarono in Egitto. Al dire di Sozomeno, dal momento che la santa Famiglia ebbe toccato questa terra antica, gli alberi abbassarono i loro rami per adorare il Figlio di Dio; le bestie feroci vi accorsero dimenticando il loro istinto; e gli uccelli cantarono in coro le lodi del Messia. Anzi se crediamo a quanto ci narrano autori degni di fede, tutti gli idoli della provincia, riconoscendo il vincitore del Paganesimo, caddero frantumati in mille pezzi. Così ebbero letterale compimento le parole del profeta Isaia quando disse; «Ecco che il Signore salirà sopra una nuvola leggerà ed entrerà in Egitto, e alla presenza di lui si conturberanno i simulacri d’Egitto.»
            Giuseppe e Maria, desiderosi d’arrivar presto al termine del loro viaggio, non fecero che attraversare Eliopoli, consacrata al culto del sole, per recarsi a Matari dove intendevano di riposarsi delle loro fatiche.
            Matari è un bel villaggio ombreggiato da sicomori, a due leghe circa dal Cairo, capitale dell’Egitto. Colà Giuseppe aveva intenzione di stabilire dimora. Ma non era ancora questo il termine delle sue pene. Gli era mestieri di cercarsi un alloggio. Gli Egiziani non erano per nulla ospitali; così la santa famiglia fu costretta a ripararsi per alcuni giorni nel tronco d’un antico e grosso albero. Alfine dopo lunghe ricerche Giuseppe trovò una modesta e piccola camera, in cui collocò alla meglio Gesù e Maria.
            Questa casa, che si fa vedere ancora in Egitto, era una specie di grotta, di venti piedi di lunghezza sopra quindici di larghezza. Non vi erano nemmeno finestre; la luce vi doveva penetrare per la porta. Le mura erano d’una specie d’argilla nera e schifosa, la cui vecchiezza portava l’impronta della miseria. A destra era una piccola cisterna, dalla quale Giuseppe attingeva l’acqua pel servizio della famiglia.

Capo XIV. Dolori. – Consolazione e termine dell’esilio.
Cum ipso sum in tribulatione. (Con lui son io nella tribolazione. – Ps. 90,15)

            Entrato appena in questa nuova abitazione ripigliò Giuseppe il suo lavoro ordinario. Cominciò a mobiliare la sua casa; un tavolino, qualche sedia, una panca, tutto quanto opera delle sue mani. Poscia andò di porta in porta in cerca di lavoro per guadagnar il sostentamento alla piccola famiglia. Egli senza dubbio ebbe a provare ben molti rifiuti, e a tollerare ben molti umilianti disprezzi! Egli era povero, e sconosciuto; e ciò bastava perché venisse rifiutata l’opera sua. A sua volta Maria, mentre aveva mille cure pel Figlio, si diede coraggiosamente al lavoro, occupando in esso una parte della notte per supplire ai guadagni piccoli ed insufficienti del suo sposo. Tuttavia in mezzo alle sue pene quante consolazioni per Giuseppe! Era per Gesù che lavorava, e il pane che il divino fanciullo mangiava era egli che l’aveva acquistato col sudore della sua fronte. E poi quando rientrava in sulla sera affaticato e oppresso dal caldo, Gesù sorrideva al suo arrivo, e lo accarezzava colle sue piccole mani. Ben sovente col prezzo di privazioni, che s’imponeva, Giuseppe riusciva ad ottenere qualche risparmio qual gioia provava allora nel poterlo impiegare nell’addolcire la condizione del divino fanciullo! Ora erano alcuni datteri, ora alcuni giocattoli adatti alla sua età, che il pio falegname recava al Salvatore degli uomini. Oh quanto erano dolci allora le emozioni del buon vecchio nel contemplare il viso raggiante di Gesù! Quando arrivava il Sabato, giorno di riposo e consacrato al Signore, Giuseppe prendendo per le mani il fanciullo, ne guidava i primi passi con una sollecitudine veramente paterna.
            Frattanto il tiranno che regnava sopra Israele moriva. Iddio, il cui braccio onnipotente punisce sempre il colpevole, gli aveva mandato una malattia crudele, che lo condusse rapidamente al sepolcro. Tradito dal suo proprio figlio, roso vivo dai vermi, Erode era morto, portando con sé l’odio dei giudei, e la maledizione dei posteri.

Capo XV. Il nuovo annunzio. – Ritorno in Giudea. – Una tradizione riferita da s. Bonaventura.
Ex Aegypto vocavi filium meum. (Dall’Egitto richiamai il mio figliuolo. – Os. 11,1)

            Da sette anni stava Giuseppe in Egitto, quando l’Angelo del Signore, messaggero ordinario dei voleri del Cielo gli apparve di nuovo durante il sonno e gli disse: «Alzati, togli teco il fanciullo e sua madre, e ritorna al paese d’Israele, perché coloro che cercavano il fanciullo per farlo morire, non esistono più.» Sempre pronto alla voce di Dio, Giuseppe vendette la sua casa ed i suoi mobili, ed ordinò il tutto per la partenza. Invano gli Egiziani rapiti dalla bontà di Giuseppe e dalla dolcezza di Maria fecero le più vive istanze per ritenerlo. Invano gli promisero l’abbondanza d’ogni cosa necessaria per la vita, Giuseppe fu irremovibile. I ricordi della sua infanzia, gli amici, che egli aveva nella Giudea, la pura atmosfera della sua patria, assai più parlavano al suo cuore, che non la bellezza dell’Egitto. D’altronde Iddio aveva parlato, e null’altro abbisognava per decidere Giuseppe a far ritorno alla terra dei suoi antenati.
            Alcuni storici sono d’opinione che la Santa Famiglia abbia fatto per mare una parte del viaggio, perché vi s’impiegava minor tempo, ed aveva un desiderio grandissimo di rivedere presto la sua patria. Appena sbarcati ad Ascalonia, Giuseppe intese che Archelao era succeduto nel trono a suo padre Erode. Indi per Giuseppe era una nuova sorgente di inquietudini. L’angelo non gli aveva detto in quale parte della Giudea dovesse egli stabilirsi. Doveva ciò fare a Gerusalemme, o nella Galilea, o nella Samaria? Giuseppe pieno d’ansietà pregò il Signore che gli mandasse durante la notte il suo celeste messaggero. L’angelo gli ordinò di fuggire Archelao e di ritirarsi in Galilea. Giuseppe allora più non ebbe a temere, e prese tranquillamente la strada di Nazareth, che aveva sette anni prima abbandonata.
            Non dispiaccia ai nostri devoti lettori di sentir sopra questo punto di storia il serafico dottor s. Bonaventura: «Erano in atto di partirsi: e Giuseppe andò innanzi cogli uomini, e la madre veniva da lungi colle donne (venuti queste e quelli come amici della santa famiglia ad accompagnarli un tratto). E quando furono fuori della porta, Giuseppe rattiene gli uomini e non si lascia più accompagnare. Allora alcuno di quelli buoni uomini, avendo compassione della povertà di costoro, chiamò il fanciullo e gli diede alcuni denari per le spese. Si vergogno il Fanciullo di riceverli; ma, per amore della povertà, apparecchiò la mano e ricevé la pecunia vergognosamente e lo ringrazio. E così fecero più persone. Lo chiamarono ancora quelle onorabili matrone e fecero lo stesso; non si vergognava meno la madre che il fanciullo, ma tuttavia umilmente li ringraziò.»
            Preso dunque commiato da quella cordiale compagnia rinnovati i ringraziamenti ed i saluti, la santa famiglia rivolse i suoi passi verso la Giudea.

Capo XVI. Arrivo di Giuseppe in Nazareth. – Vita domestica con Gesù e Maria.
Constituit eum dominum domus suae. (Lo costituì padrone della sua casa. – Ps. 104,20)

            Erano finalmente terminati i giorni dell’esilio. Giuseppe poteva di nuovo rivedere la sospirata terra nativa, che gli richiamava alla mente le più care memorie. Bisognerebbe amare il proprio paese come lo amavano allora gli ebrei, per comprendere le dolci impressioni che riempivano l’anima di Giuseppe allorquando apparve da lontano la vista di Nazareth. L’umile patriarca accelerò il passo della cavalcatura di Maria, e ben presto arrivarono nelle strette vie della loro cara città.
            I Nazareni, i quali ignoravano la causa della partenza del pio operaio, videro con gioia il suo ritorno. I capi di famiglia vennero a dare il benvenuto a Giuseppe, e a stringere la mano del vecchio, la cui testa era incanutita lungi dalla sua patria. Le figlie salutarono l’umile Vergine, la cui grazia era ancora aumentata dalle cure, delle quali ella circondava il suo divino fanciullo. Gesù, il prediletto Gesù vide accorrere presso di sé i ragazzi della sua età, e, per la prima volta, intese il linguaggio dei suoi antenati invece di quello amaro dell’esilio.
            Ma il tempo e l’abbandono avevano ridotto la povera abitazione di Giuseppe in pessimo stato. L’erba selvaggia era cresciuta sopra le mura, e la tignola si era impossessata dei vecchi mobili della santa famiglia.
            Alcune terre che circondavano la casa furono vendute, e col loro prezzo furono comperate le masserizie più necessarie. Le meschine risorse dei due sposi furono impiegate negli acquisti più indispensabili. Non restavano adunque più a Giuseppe che il suo laboratorio e le sue braccia. Ma la stima che ciascuno sentiva pel santo uomo, la confidenza che si aveva nella sua buona fede come nella sua abilità, fecero sì che a poco a poco gli ritornassero e il lavoro e gli avventori; e il coraggioso falegname ebbe ben presto ripreso il suo consueto lavoro. Era invecchiato nelle fatiche, ma il suo braccio era pur sempre robusto, ed il suo ardore si era ancora accresciuto dopo che si trovava egli incaricato di nutrire il Salvatore degli uomini.
            Gesù cresceva in età e sapienza. Nella stessa guisa che Giuseppe aveva guidato i suoi primi passi, quando piccino ancora incominciava a camminare, diede pure a Gesù le prime nozioni di lavoro. Egli teneva la sua piccola mano e la dirigeva nell’insegnargli a tracciare le linee, e a maneggiare la pialla. Egli insegnava a Gesù le difficoltà e la pratica del mestiere. E il Creatore del mondo si lasciava guidare dal suo fedele servitore, che egli si era scelto per padre!
            Giuseppe, che era assiduo agli uffizi nel sacro tempio, come era diligente dei doveri del suo lavoro, osservava rigorosamente la legge di Mosè e la religione dei suoi antenati. Così giammai si sarebbe visto lavorare in giorno festivo, egli aveva compreso come non sia di troppo un giorno per settimana onde pregare il Signore e ringraziarlo dei suoi favori. Ogni anno alle tre grandi solennità giudaiche, alle feste di Pasqua, della Pentecoste e dei Tabernacoli, egli si recava al tempio di Gerusalemme in compagnia di Maria. Ordinariamente egli lasciava a Nazareth Gesù, che si sarebbe soverchiamente stancato dal lungo cammino; e soleva sempre pregare qualche suo vicino perché s’incaricasse della custodia del fanciullo nell’assenza dei suoi genitori.

Capo XVII. Gesù va con Maria sua madre e s. Giuseppe a celebrare la Pasqua in Gerusalemme. – È smarrito e ritrovato dopo tre giorni.
Fili, quid fecisti nobis sic? Ecce pater tuus et ego dolentes quaerebamus te. Quid est quod me quaerebatis? Nesciebatis quia in his quae Patris mei sunt oportet me esse? (Figlio, perché ci hai tu fatto questo? Ecco che tuo padre ed io addolorati andavamo di te in cerca; [ed egli disse loro]: Perché mi cercavate voi? Non sapevate che nelle cose spettanti al Padre mio debbo occuparmi? – Lc. 2,48-49)

            Quando Gesù ebbe raggiunta l’età di dodici anni, ed approssimandosi le feste di Pasqua, Giuseppe e Maria lo giudicarono abbastanza forte per sopportare il viaggio, e lo condussero con loro in Gerusalemme. Essi rimasero circa sette giorni nella città santa per celebrare la Pasqua e compiere i sacrifici comandati dalla legge.
            Terminate le feste pasquali ripresero la strada di Nazareth in mezzo ai loro congiunti ed amici. La carovana era assai numerosa. Nella semplicità dei loro costumi le famiglie di una stessa città o di uno stesso villaggio se ne ritornavano alle case loro riunite in allegre brigate, in cui i vecchi discorrevano gravemente coi vecchi, le donne colle donne, mentre i ragazzi correvano e giuocavano insieme nel loro cammino. Così Giuseppe non vedendo Gesù presso di sé lo credette, come era naturale, presso la madre sua o coi ragazzi di sua età. Maria camminava ella pure in mezzo alle compagne persuasa egualmente che il fanciullo seguisse gli altri. Giunta poi la sera la carovana si arrestò nella piccola città di Machmas per passarvi la notte. Giuseppe venne a ritrovare Maria; ma quale non fu la loro sorpresa ed il loro dolore quando si domandarono reciprocamente dove era Gesù? Né l’uno, né l’altro l’aveva veduto dopo l’uscita dal tempio; i ragazzi dal canto loro non potevano darne alcuna notizia. Egli non era con essi.
            Subito Giuseppe e Maria malgrado la loro stanchezza si rimisero in viaggio per Gerusalemme. Rifecero pallidi ed inquieti la strada che avevano di già percorsa lo stesso giorno. Echeggiarono i dintorni delle loro grida di cordoglio; Giuseppe chiamava Gesù, ma Gesù non rispondeva. All’alba del giorno arrivarono a Gerusalemme, dove, dice il vangelo, essi passarono tre giorni intieri in cerca dell’amatissimo figlio. Quanti dolori pel cuore di Giuseppe! E quanto dovette egli rimproverarsi un istante di distrazione! Finalmente verso la fine del terzo giorno questi desolati genitori entrarono nel tempio, piuttosto per invocare i lumi dall’alto, che colla speranza di trovarvi Gesù. Ma quale non fu la loro sorpresa e la loro ammirazione nel vedere il divino fanciullo in mezzo ai dottori meravigliati della saggezza dei suoi discorsi, delle dimande e delle risposte che loro faceva! Maria piena di gioia, perché aveva ritrovato il figlio, non poté tuttavia trattenersi dal manifestargli l’inquietudine che l’aveva afflitta: «Mio figlio, gli disse, perché hai tu fatto così con noi? sono tre giorni da che immersi nel dolore andiamo in cerca di te.» – Gesù rispose: «Perché mi cercavate voi così? Non sapevate che mi è mestieri di occuparmi delle cose che riguardano mio padre?» Il vangelo soggiunge che Giuseppe e Maria non compresero immediatamente questa risposta. Fortunati di aver ritrovato Gesù se ne ritornarono tranquillamente alla loro piccola casa di Nazareth.

Capo XVIII. Seguita della vita domestica della santa famiglia.
Et erat subditus illis. (E Gesù era ad ossi ubbidiente. – Lc. 2,51)

            Il santo Vangelo dopo aver raccontato i principali tratti della vita di Gesù fino all’età di dodici anni, giunto a questo punto conchiude tutta la vita privata di Gesù fino a trent’anni in queste brevi parole: «Gesù era obbediente a Maria ed a Giuseppe, et erat subditus illis.» Queste parole, mentre nascondono ai nostri sguardi la gloria di Gesù, rivelano in magnifico aspetto la grandezza di Giuseppe. Se l’educatore d’un principe occupa una dignità onorifica nello stato, quale deve essere la dignità di Giuseppe, mentre fu incaricato della educazione del Figlio di Dio! Gesù cui le forze erano cresciute cogli anni diventò l’allievo di Giuseppe. Egli lo seguiva nelle sue giornate di lavoro, e sotto la sua direzione apprese il mestiere del falegname. S. Cipriano, vescovo di Cartagine, scriveva circa l’anno 250 dell’era cristiana, che si conservavano ancora con venerazione aratri fatti dalla mano del Salvatore. Era senza dubbio Giuseppe che ne aveva dato il modello e che aveva diretto nella sua bottega la mano del Creatore di ogni cosa.
            Gesù voleva dare agli uomini l’esempio dell’obbedienza anche nelle più piccole circostanze della vita. Così si fa vedere ancora presso di Nazareth un pozzo, cui Giuseppe mandava il divino fanciullo ad attingere l’acqua pei bisogni della famiglia.
            Ci mancano i particolari circa questi anni laboriosi che Giuseppe passò a Nazareth con Gesù e Maria. Ciò che possiamo dire senza timore di ingannarci è che Giuseppe lavorava senza tregua per guadagnar il pane. La sola distrazione che si permetteva era di conversare bene spesso col Salvatore, le cui parole rimanevano profondamente scolpite nel suo cuore.
            Agli occhi degli uomini Gesù passava per figlio di Giuseppe. E questi, la cui umiltà era tanto grande quanto l’obbedienza, serbava entro sé stesso il mistero che era incaricato di proteggere colla sua presenza. «Giuseppe, dice Bossuet, vedeva Gesù e taceva; egli lo gustava e non ne parlava; si contentava di Dio solo senza dividere cogli uomini la sua gloria. Compieva la sua vocazione, perché come gli apostoli erano ministri di Gesù Cristo conosciuto, Giuseppe era il ministro ed il compagno della sua vita nascosta.»

Capo XIX. Ultimi giorni di s. Giuseppe. Sua preziosa agonia.
O nimis felix, nimis o beatus Cuius extremam vigiles ad horam Christus et Virgo simul astiterunt Ore sereno! (O beata o felice anima pia, che del tuo esilio nell’estremo istante, godesti al lato di Gesù e Maria il bel sembiante. – La s. Chiesa nell’uffizio di s. Giuseppe).

            Giuseppe toccava i suoi ottant’anni, e Gesù non doveva tardare ad abbandonare la sua dimora per ricevere il battesimo da Giovanni Battista, quando Iddio chiamò a sé il suo fedele servitore. Le fatiche ed i travagli d’ogni sorta avevano logorato la tempra robusta di Giuseppe, e sentiva egli stesso che la sua fine era ben prossima. D’altronde la sua missione sulla terra era terminata; ed era giusto che egli ricevesse finalmente la ricompensa che meritavano le sue virtù.
            Per un favore affatto speciale un angelo venne ad avvisarlo della sua prossima morte. Egli era pronto a comparire innanzi a Dio. Tutta la sua vita non era stata che una serie di atti d’obbedienza alla volontà divina e poco gl’importava della vita, poiché si trattava d’ubbidire a Dio che lo chiamava alla vita beata. Secondo le testimonianze unanimi della tradizione Giuseppe non morì tra le sofferenze acute della malattia. Si spense dolcemente come una fiamma cui venga meno l’alimento.
            Steso sul letto di morte, avendo ai suoi fianchi Gesù e Maria, Giuseppe fu rapito in estasi per ventiquattro ore. I suoi occhi videro allora chiaramente le verità che la sua fede aveva credute sin allora senza comprendere. Egli penetrò il mistero di Dio fatto uomo e la grandezza della missione che Iddio aveva confidato a lui povero mortale. Assistette in spirito ai dolori della passione del Salvatore. Quando si risvegliò, il suo viso era illuminato e come trasfigurato da una beltà tutta celeste. Un profumo delizioso riempì la camera in cui egli giaceva e si sparse anche al di fuori, annunziando così ai vicini del santo uomo che la sua anima si pura e si bella stava per passare in un mondo migliore.
            In una famiglia di anime povere e semplici che si amano di quell’amor puro e cordiale che difficilmente si trova in seno alla grandezza ed all’abbondanza, quando queste persone si godettero in santa unione gli anni del pellegrinaggio, e che come ebbero comuni le domestiche gioie, così si divisero i dolori santificati dal conforto religioso, se avvenga che questa bella pace debba offuscarsi per la separazione di un caro membro, oh come si sente allora angoscioso il cuore nel dividersi!
            Gesù aveva come Dio un padre in cielo che comunicandogli da tutta l’eternità la sua divina sostanza e natura rendeva perenne alla sua persona sulla terra la celeste gloria (quantunque velata da spoglie mortali); Maria aveva in terra Gesù che le riempiva di paradiso il cuore. Chi tuttavia vorrà negarci che Gesù e Maria trovandosi ora presso al moribondo Patriarca e lasciando anche la tenerezza del loro cuore in balìa della natura non abbiano sofferto nel doversi temporaneamente separare dal compagno fedele del loro pellegrinaggio in terra? Maria non poteva dimenticare i sacrifici, le pene, i disagi, che per essa aveva dovuto soffrire Giuseppe nei penosi viaggi di Betlemme e di Egitto. È vero che Giuseppe trovandosi continuamente in compagnia di Lei veniva compensato di quanto soffriva, ma se questo era un argomento di conforto per l’uno, non era cagione che dispensasse il cuore tenerissimo dell’altra dal sentimento di gratitudine. Giuseppe l’aveva servita non solo con tutto l’affetto d’uno sposo, ma eziandio con tutta la fedeltà d’un servo e l’umiltà d’un discepolo, venerando in Lei la Regina del cielo, la Madre di Dio. Ora a Maria non erano certo sfuggiti dalla mente tanti segni di venerazione, di obbedienza e di stima, e non poteva non sentirne per Giuseppe profonda e verissima riconoscenza.
            E Gesù che in fatto di amore non doveva starsi certamente inferiore né all’uno né all’altra, dal momento che aveva disposto nei decreti della sua divina Provvidenza che Giuseppe fosse il suo custode e protettore in terra, dal momento che questa protezione aveva pur dovuto costare a Giuseppe tanti patimenti e tante fatiche, anche Gesù doveva sentir in quel suo cuore amantissimo i più dolci sensi di grata rimembranza. Nel contemplare quelle scarne braccia disposte in croce sull’affannoso petto egli ricordava che quelle si erano tante volte aperte per stringerlo al seno quando vagiva in Betlemme, che si erano stancate a portarlo in Egitto, che si erano logorate sul lavoro per mantenergli il pane della vita. Quante volte quelle care labbra si erano appressate riverenti a stampargli amorosi baci o a scaldargli nell’inverno le intirizzite membra; e quegli occhi, che allora stavano per chiudersi alla luce del giorno, quante volte si erano aperti al pianto, onorando le sofferenze di Lui e di Maria, quando doveva contemplarlo fuggiasco in Egitto, ma specialmente quando per tre giorni lo pianse smarrito in Gerusalemme. Queste prove di amore sviscerato non erano certamente da Gesù dimenticate in quegli estremi istanti di Giuseppe. Quindi mi immagino che Maria e Gesù nello sparger di paradiso quelle ultime ore di vita di Giuseppe avranno eziandio come sulla tomba dell’amico Lazzaro onorato collo sfogo delle più pure lagrime quello estremo solenne saluto. Oh sì che Giuseppe aveva il paradiso innanzi agli occhi! Egli volgeva lo sguardo da un lato e vedeva l’aspetto di Maria, e ne stringeva nelle sue le mani santissime, e ne riceveva le ultime cure, e ne sentiva le parole di consolazione. Volgeva gli occhi dall’altra parte ed incontrava lo sguardo maestoso ed onnipotente di Gesù, e sentiva le sue mani divine sostenergli il capo, e tergere i sudori, e raccoglieva dal suo labbro i conforti, i ringraziamenti, le benedizioni e le promesse. E mi pare che dicesse Maria: «Giuseppe, tu ci abbandoni; tu hai finito la peregrinazione dell’esilio, tu mi precederai nella tua pace, discendendo il primo nel seno di nostro padre Abramo; oh Giuseppe, come ti son grata della soave compagnia, che mi facesti, dei buoni esempi che mi hai dato, della cura che avesti di me e delle cose mie e delle pene gravissime che soffristi per cagione mia! oh tu mi abbandoni, ma vivrai pur sempre nella mia memoria e nel mio cuore. Sta di buon animo, o Giuseppe, quoniam appropinquat redemptio nostra.» E mi pare dicesse Gesù: «Giuseppe mio, tu muori, ma anch’io morrò, e se muoio io tu devi stimare la morte ed amarla come mercede. Breve, o Giuseppe, ha da essere il tempo delle tenebre e dell’aspettazione. Vanne da Abramo e da Isacco i quali bramarono di vedermi e non furono degni; vanne a loro che da molti anni aspettano la mia venuta in quelle tenebre e loro annunzia la prossima liberazione; dillo a Noè, a Giuseppe, a Davide, a Giuditta, a Geremia, ad Ezechiele, di a tutti quei Padri che ancor tre anni dovranno aspettare e poi sarà consumata l’Ostia ed il Sacrificio e scancellata l’iniquità del mondo. Tu intanto dopo questo breve tempo sarai ravvivato e glorioso e bellissimo, e con me più glorioso più bello sorgerai nell’ebbrezza del trionfo. Vanne lieto, caro custode della mia vita, tu fosti buono e generoso per me, ma vincermi di gratitudine non può nessuno.» La santa Chiesa esprime le amorose ultime assistenze di Gesù e di Maria verso s. Giuseppe con queste parole: «Cuius extremas vigiles ad horas Christus et Mater simul astiterunt ore sereno.» Nelle ore estreme di s. Giuseppe con volto sereno assistevano colla più amorevole vigilanza Gesù e Maria.

(continua)




Vita di san Giuseppe, sposo di Maria Santissima, padre putativo di Gesù Cristo (1/3)

San Giuseppe è patrono della Chiesa e anche compatrono della Congregazione Salesiana. Già dagli inizi, don Bosco lo ha voluto associare come protettore della nascente opera a favore dei giovani. Certo della sua potente intercessione ha voluto diffondere il suo culto e ha scritto a questo scopo una vita, più per istruire che per meditare, che vogliamo presentare a continuazione.

Prefazione

            In un’epoca in cui pare spiegarsi così universale la divozione verso il glorioso padre putativo di Gesù, san Giuseppe, crediamo non tornare discaro ai nostri lettori che venga oggi alla luce un fascicolo intorno alla vita di questo santo.
            Né le difficoltà che s’incontrano di trovare negli antichi scritti i fatti particolari della vita di questo santo deve minimamente diminuire verso di lui la nostra stima e venerazione; anzi nello stesso sacro silenzio di cui è circondata la sua vita noi troviamo qualche cosa di misterioso e di grande. S. Giuseppe aveva ricevuto da Dio una missione tutta opposta a quella degli apostoli (Bossuet). Questi avevano per incarico di far conoscere Gesù; Giuseppe doveva tenerlo celato; quelli dovevano essere fiaccole che lo mostrassero al mondo, questi un velo che lo coprisse. Quindi Giuseppe non era per sé, ma per Gesù Cristo.
            Era adunque nell’economia della Divina Provvidenza che s. Giuseppe si mantenesse oscuro mostrandosi solamente quanto era necessario per autenticare la legittimità del matrimonio con Maria, e sgombrare ogni sospetto sopra quella di Gesù. Ma quantunque non possiamo penetrare nel Santuario del Cuor di Giuseppe ed ammirare le meraviglie che Iddio ha in esso operato, tuttavia noi argomentiamo che per la gloria del suo Divin pupillo, per la gloria della sua sposa celeste, doveva Giuseppe riunire in sé stesso un cumulo di grazie e di doni celesti.
            Siccome la vera perfezione cristiana consiste nel comparire tanto grandi davanti a Dio quanto più piccoli avanti agli uomini, s. Giuseppe, che passò la sua vita nella più umile oscurità, si trova in grado di fornire il modello di quelle virtù che sono come il fiore della santità, la santità interiore, cosicché si può dire benissimo di s. Giuseppe ciò che Davide scriveva della sacra sposa: Omnis gloria eius filia Regis ab intus (Ps. 44).
            S. Giuseppe è riconosciuto universalmente ed invocato come protettore dei moribondi, e ciò per tre ragioni: 1° per l’impero amoroso che egli ha acquistato sopra il Cuor di Gesù, giudice dei vivi e dei morti e suo figliuolo putativo; 2° per la potenza straordinaria di cui Gesù Cristo lo ha insignito di vincere i demoni che assalgono i moribondi, e ciò in ricompensa d’averlo il santo salvato un tempo dalle insidie di Erode; 3° pel sublime onore di cui godette Giuseppe d’ essere stato assistito in punto di morte da Gesù e da Maria. Qual nuovo importante motivo per infervorarci nella sua divozione?
            Bramosi pertanto di porgere ai nostri lettori i principali tratti della vita di s. Giuseppe abbiamo cercato fra le opere già pubblicate qualcheduna che servisse allo scopo. Molte infatti da alcuni anni videro la luce, ma o per essere troppo voluminose o troppo aliene per la loro sublimità dallo stile popolare, oppure scarse di dati storici perché scritte collo scopo di servir di meditazione più che d’istruzione, non tornavano a nostro proposito. Noi qui adunque abbiamo raccolto dal Vangelo e da alcuni de’ più accreditati autori le principali notizie intorno alla vita di questo santo, con qualche opportuno riflesso dei santi Padri.
            La veracità del racconto, la semplicità dello stile, l’autenticità delle notizie renderanno, speriamo, gradita questa tenue fatica. Se la lettura di questo libretto servirà a procurare al casto sposo di Maria anche un solo devoto di più noi ci terremo già abbondantemente appagati.

Capo I. Nascita di s. Giuseppe. Suo luogo nativo.
Ioseph, autem, cum esset iustus. (S. Giuseppe era un uomo giusto. – Mt. 1,19)

            A due leghe [9,7 km] circa da Gerusalemme sulla vetta d’un colle, il cui terreno rossastro è cosparso di oliveti, sorge una piccola città celebre per sempre a cagione della nascita del bambinello Gesù, la città di Betlemme, da cui la famiglia di Davide traeva la sua origine. In questa piccola città circa l’anno del mondo 3950 nasceva colui che negli alti disegni di Dio doveva diventare il custode della verginità di Maria, ed il padre putativo del Salvatore degli uomini.
            I genitori gli diedero il nome di Giuseppe che significa aumento, quasi per farci intendere, che egli fu accresciuto dei doni di Dio e a dovizia ricolmato di tutte le virtù sin dalla nascita.
            Due Evangelisti ci tramandarono la genealogia di Giuseppe. Suo padre aveva nome Giacobbe al dire di s. Matteo (Mt. 1,16), e secondo s. Luca si chiamava Eli (Lc. 3,23); ma la più comune e la più antica opinione si è quella che ci fu tramandata da Giulio Africano che scrisse sullo scorcio del secondo secolo dell’era cristiana. Giusta quanto gli era stato riferito dai parenti stessi del Salvatore, egli ci dice che Giacobbe ed Eli erano fratelli e che Eli essendo morto senza figli, Giacobbe ne aveva sposata la vedova siccome era prescritto dalla legge di Mosè, e da questo matrimonio nacque Giuseppe.
            Della stirpe reale di Davide, discendenti da Zorobabele che ricondusse il popolo di Dio dalla cattività di Babilonia, i genitori di Giuseppe erano assai decaduti dall’antico splendore dei loro antenati in quanto all’agiatezza temporale. Secondo la tradizione, suo padre era un povero operaio che si guadagnava il quotidiano sostentamento col sudore della sua fronte. Ma Iddio che rimira non la gloria che si gode in faccia agli uomini, ma il merito della virtù agli occhi suoi, lo scelse per custode del Verbo disceso sopra la terra. D’altronde la professione di artigiano, che in sé ha nulla di abbietto, era in grande onore presso il popolo d’Israele. Anzi, ciascun israelita era artigiano, perché ogni padre di famiglia, qualunque fosse la sua fortuna e l’altezza del suo grado, era obbligato a far imparare un mestiere al figliuolo a meno che, diceva la legge, ne avesse voluto fare un ladro.
            Ben poche cose noi sappiamo circa l’infanzia e la gioventù di Giuseppe. Nella stessa guisa che l’indiano per trovare l’oro, che deve formare la sua fortuna, è obbligato a lavare la sabbia del fiume onde estrarne il prezioso metallo che non s’incontra se non in piccolissime particelle, così siamo noi costretti a cercare nel Vangelo quelle poche parole che qua e là ci lasciò sparse lo Spirito Santo intorno a Giuseppe. Ma come l’indiano lavando il suo oro gli dà tutto il suo splendore, così riflettendo sulle parole del Vangelo noi troviamo appropriato a s. Giuseppe il più bello elogio che possa essere fatto di una creatura. Il santo libro si contenta di dirci che era un uomo giusto. Oh ammirabile parola che esprime da sé sola ben più che intieri discorsi! Giuseppe era un uomo giusto, ed in grazia di questa giustizia egli doveva esser giudicato degno del sublime ministero di padre putativo di Gesù.
            I suoi pii genitori ebbero cura di educarlo alla pratica austera dei doveri della religione Giudaica. Conoscendo quanto la primitiva educazione influisca sull’avvenire dei figliuoli, si adoperarono di fargli amare e praticare la virtù appena la sua giovane intelligenza fu capace di apprezzarla. Del resto se è vero che la beltà morale si rifletta sull’esteriore, bastava dar uno sguardo alla cara persona di Giuseppe per leggere sui suoi lineamenti il candore dell’anima sua. Secondo ciò che ne tramandarono scrittori autorevoli il suo viso, la sua fronte, i suoi occhi, l’insieme tutto del suo corpo spiravano la più dolce purità e lo facevano rassomigliare ad un angelo disceso sopra la terra.

(«Era in Giuseppe un esimio pudore, una modestia, una prudenza somma, era eccellente nella pietà verso Dio e splendeva d’una meravigliosa bellezza di corpo.» Eusebio di Cesarea, lib. 7 De praep. Evang. apud Engelgr. in Serm. s. Joseph.)

Capo II. Gioventù di Giuseppe – Si trasferisce a Gerusalemme – Voto di castità.
Bonum est viro cum portaverit iugum ab adolescentia sua. (Buona cosa è per l’uomo l’aver portato il giogo fin dalla sua adolescenza. – Lam. 3,27)

            Appena le forze glielo permisero, Giuseppe aiutò suo padre nei suoi lavori. Egli apprese il mestiere di legnaiolo, il quale, secondo la tradizione, era altresì il mestiere del padre. Quanta applicazione, quanta docilità dovette egli usare in tutte le lezioni che riceveva dal padre!
            Il suo tirocinio finiva appunto allora quando Iddio permise che gli venissero tolti dalla morte i genitori. Egli pianse coloro i quali avevano avuto cura della sua infanzia; ma sopportò questa dura prova colla rassegnazione d’un uomo il quale sa che tutto non termina con questa vita mortale e che i giusti sono ricompensati in un mondo migliore. Ormai da nulla essendo egli ritenuto a Betlemme, vendette le sue piccole proprietà, e andò a stabilirsi in Gerusalemme. Sperava di trovarvi maggior lavoro che nella città natia. D’altronde si avvicinava al tempio ove la sua pietà continuamente lo attirava.
            Colà passò Giuseppe i più begli anni di sua vita tra il lavoro e la preghiera. Dotato d’una probità perfetta, non cercava di guadagnare più di quello che meritasse l’opera sua, ne fissava il prezzo egli stesso con una ammirabile buona fede, e giammai i suoi avventori erano tentati di fargli qualche diminuzione, perché conoscevano la sua onestà. Sebbene fosse tutto intento al lavoro, egli non mai permetteva al suo pensiero di allontanarsi da Dio. Ah! se si sapesse imparare da Giuseppe quest’arte così preziosa di lavorare e di pregare ad un tempo, si farebbe senza fallo un doppio guadagno; si verrebbe così ad assicurare la vita eterna guadagnandosi il pane quotidiano con assai maggior soddisfazione e profitto!
            Secondo le più rispettabili tradizioni Giuseppe apparteneva alla setta degli Esseni, setta religiosa, la quale esisteva nella Giudea all’epoca della conquista che ne fecero i romani. Gli Esseni professavano una austerità maggiore degli altri Giudei. Le loro principali occupazioni erano lo studio della legge divina e la pratica del lavoro e della carità, e in generale si facevano ammirare per la santità della loro vita. Giuseppe, la cui anima pura aveva in orrore la più leggiera immondezza, si era aggregato ad una classe del popolo, le cui regole sì bene corrispondevano alle aspirazioni del suo cuore; aveva anzi, come dice il venerabile Beda, fatto un voto formale di perpetua castità. E ciò che ci conferma in codesta credenza si è l’asserzione di s. Girolamo, il quale ci dice che Giuseppe non si era mai curato del matrimonio prima di diventare lo sposo di Maria.
            Per questa via oscura e nascosta Giuseppe si preparava, a sua insaputa, alla sublime missione che Dio gli aveva riserbato. Senz’altra ambizione che quella di compiere fedelmente la volontà divina, viveva lontano dai rumori del mondo, dividendo il suo tempo tra il lavoro e la preghiera. Tale era stata la sua gioventù, tale altresì, a suo credere, desiderava trascorrere la sua vecchiaia. Ma Iddio, che ama gli umili, altre cure serbava pel suo fedele servo.

Capo III. Matrimonio di s. Giuseppe.
Faciamus ei adiutorium simile sibi. (Facciamo all’uomo un aiuto che a lui rassomigli. – Gen. 2,18)

            Giuseppe entrava nel suo cinquantesimo anno, allorché Dio lo tolse alla pacifica esistenza che egli menava a Gerusalemme. Era nel tempio una giovane Vergine dai suoi genitori consacrata al Signore sin dalla sua infanzia.
            Della stirpe di Davide essa era figlia dei due santi vecchi Gioachino ed Anna, e si chiamava Maria. Suo padre e sua madre erano morti da parecchi anni, ed il carico della sua educazione era rimasto tutto intiero ai sacerdoti d’Israele. Quando essa ebbe raggiunta l’età di quattordici anni, età fissata dalla legge pel matrimonio delle giovani donzelle, il gran Pontefice si occupò di procurare a Maria uno sposo degno della sua nascita e della sua alta virtù. Ma un ostacolo si presentava; Maria aveva fatto voto al Signore della sua verginità.
            Ella rispose rispettosamente alle fatte proposizioni che avendo ella emesso il voto di verginità, non poteva rompere le sue promesse per maritarsi. Questa risposta sconcertò di molto le idee del gran Sacerdote.
            Non sapendo in qual maniera conciliare il rispetto dovuto ai voti fatti a Dio coll’usanza mosaica che imponeva il matrimonio a tutte le donzelle d’Israele, radunò gli anziani e consultò il Signore ai piedi del tabernacolo dell’alleanza. Ricevute le inspirazioni dal Cielo e convinto che si nascondeva in quella questione qualche cosa di straordinario, il gran Sacerdote risolse di convocare i numerosi congiunti di Maria, onde scegliere tra di loro colui che doveva essere lo sposo fortunato della Vergine benedetta.
            Tutti i celibi adunque della famiglia di Davide furono chiamati al tempio. Giuseppe, sebbene più vecchio, si trovava con essi. Il Sommo Sacerdote avendo annunziato loro che si trattava di gettar le sorti per dare uno sposo a Maria, e che la scelta sarebbe fatta dal Signore, ordinò che tutti si trovassero al sacro tempio il giorno seguente con una verga di mandorlo. La verga si sarebbe deposta sull’altare, e quegli la cui verga fosse fiorita, sarebbe stato il favorito dall’Altissimo ad essere il consorte della Vergine.
            Un numeroso stuolo di giovani si trovo il giorno seguente al tempio col suo ramoscello di mandorlo, e Giuseppe con essi; ma sia per spirito di umiltà, sia pel voto che aveva fatto di verginità, invece di presentare il suo ramo se lo nascose sotto il manto. Furono posti tutti gli altri rami sulla mensa, uscirono i giovani col cuore pieno di speranza, e Giuseppe tacito e raccolto con loro. Si chiuse il tempio ed il Sommo Sacerdote rimandò l’adunanza al domani. Era appena spuntato il nuovo sole, che già la gioventù era impaziente di sapere il proprio destino.
            Giunto il momento stabilito si aprono le sacre porte e si presenta il Pontefice. Tutti si affollano per vedere l’esito della cosa. Nessuna verga era fiorita.
            Il Sommo Sacerdote prostratosi colla faccia a terra davanti al Signore, lo interrogo della sua volontà, e se per sua poca fede, ovvero per non aver compreso la sua voce, non era apparso nei rami il segno promesso. E Dio rispose non essere avvenuto il segno promesso perché tra quelle tenere verghe mancava il ramoscello di quel solo che si voleva dal Cielo; cercasse e vedrebbe avverato il segno. Tosto si fece ricerca di chi avesse sottratto il ramo.
            Il silenzio, il casto rossore che imporporò le guance di Giuseppe, tradì tosto il suo segreto. Condotto davanti al santo Pontefice, confessò la verità: ma il Sacerdote intravide il mistero e tratto Giuseppe in disparte, lo interrogò perché avesse così disobbedito.
            Giuseppe umilmente rispose, aver avuto in animo di tener da sé lontano quel pericolo; avere da lungo tempo fisso in cuor suo di non unirsi in matrimonio con veruna donzella, e parergli che Dio medesimo al santo proposito l’abbia confortato, riconoscere d’altronde sé stesso troppo indegno d’una così santa fanciulla, come sapeva essere Maria; perciò ad altro più santo è più ricco si concedesse.
            Cominciò allora il sacerdote ad ammirare il santo consiglio di Dio, ed a Giuseppe senza più soggiunse: Sta di buon animo, o figliuolo: deponi pur come gli altri il tuo ramoscello ed aspetta il divino giudizio. Certo se egli ti elegge, ritroverai in Maria cotanto di santità e di perfezione sopra tutte le altre donzelle che non dovrai usar preghiere a persuaderla del tuo proposito. Anzi Ella stessa ti pregherà di quel medesimo che tu vuoi, e ti chiamerà fratello, custode, testimonio, sposo, ma non mai marito.
            Giuseppe rassicurato della volontà del Signore dalle parole del sommo Pontefice depose il suo ramo cogli altri e si ritirò in santo raccoglimento a pregare.
            L’indomani era di nuovo congregata la radunanza intorno al Sommo Sacerdote, ed ecco sul ramo di Giuseppe sbucciati fiori candidi e spessi colle foglie tenere e molli.
            Il Sacerdote mostrò ogni cosa agli accorsi giovani, ed annunciò loro che Dio aveva eletto per sposo di Maria, figliuola di Gioachino, Giuseppe figliuolo di Giacobbe ambedue della casa e della famiglia di Davide. Nel tempo stesso si intese una voce che diceva: «O mio fedele servitore Giuseppe! a te è riservato l’onore di sposare Maria, la più pura di tutte le creature; conformati a tutto ciò che Ella ti dirà.»
            Giuseppe e Maria riconoscendo la voce dello Spirito Santo accettarono questa decisione ed acconsentirono ad un matrimonio, che non doveva portar nocumento alla loro verginità.
            Al dire di s. Girolamo gli sponsali si celebrarono lo stesso giorno colla più grande semplicità.

Una tradizione della Storia del Carmelo ci racconta che fra la gioventù radunata per quella occasione si trovava un bel giovane nobile e vivace che aspirava ardentemente alla mano di Maria. Quando vide fiorito il ramo di Giuseppe e svanite le sue speranze rimase attonito e senza sentimento. Ma in quel tramestio d’affetti lo Spirito Santo scese dentro di lui e gli cambio d’un tratto il cuore. Alza il volto, scuote l’inutile ramo e con insolito fuoco: «Io, disse, non era per Lei. Ella non era per me. Ed io non sarò d’altra giammai. Sarò di Dio.» Spezzò il ramo e lo caccio da sé dicendo: Vada con te ogni pensiero di nozze. Al Carmelo, al Carmelo coi figli di Elia. Quivi avrò la pace che ormai mi sarebbe nella città impossibile. Ciò detto andò al Carmelo e domandò di essere anche accettato tra i figli dei Profeti. Venne accettato, vi fece rapidi progressi in spirito ed in virtù e divenne profeta. Egli è quel Agabo che a s. Paolo apostolo predisse i vincoli e la prigione. Egli prima di tutti fondò sul Carmelo un santuario a Maria. La chiesa santa ne celebra la memoria nei suoi fasti, e i figli del Carmelo l’hanno per fratello.

            Giuseppe, tenendo per mano l’umile Vergine, si presentò davanti ai sacerdoti accompagnato da alcuni testimoni. Il modesto artigiano offerse a Maria un anello d’oro, ornato d’una pietra d’amatista, simbolo di verginale fedeltà, e nel tempo stesso le diresse le parole sacramentali: «Se tu acconsenti a divenire la mia sposa, accetta questo pegno.» Maria accettandolo fu solennemente legata a Giuseppe ancorché le cerimonie pel matrimonio non fossero ancora state celebrate.
            Questo anello offerto da Giuseppe a Maria si conserva ancora in Italia nella città di Perugia, alla quale, dopo molte vicissitudini e controversie fu definitivamente accordato da Papa Innocenzo VIII nel 1486.

Capo IV. Giuseppe ritorna in Nazaret colla sua sposa.
Erant cor unum et anima una. (Erano un sol cuore ed un’anima sola. – At. 4,32)

            Celebrati gli sponsali, Maria ritornò a Nazareth sua patria con sette vergini che il gran Sacerdote le aveva accordato per compagne.
            Ella doveva attendere nella preghiera la cerimonia del matrimonio, e formare il suo modesto corredo di nozze. S. Giuseppe rimase a Gerusalemme per preparare la sua abitazione e disporre ogni cosa per la celebrazione del matrimonio.
            Dopo qualche mese secondo le usanze della nazione giudaica vennero celebrate le cerimonie che dovevano succedere agli sponsali. Benché poveri entrambi, Giuseppe e Maria diedero a questa festa tutta quella maggior pompa che loro permisero i pochi mezzi di cui potevano disporre, Maria allora abbandonò la propria abitazione di Nazareth e venne ad abitare collo sposo a Gerusalemme, dove si dovevano celebrare le nozze.
            Un’antica tradizione ci dice che Maria arrivò a Gerusalemme in una fredda sera d’inverno e che la luna spandeva luminosi sopra la città i suoi raggi d’argento.
            Giuseppe si fece all’incontro della sua giovane compagna sino alle porte della città santa seguito da una lunga processione di congiunti, aventi ciascuno una torchia in mano. Il corteggio nuziale condusse i due sposi fino alla casa di Giuseppe, dove da lui era stato preparato il festino di nozze.
            Entrando nella sala del banchetto e mentre i convitati prendevano il posto loro assegnato a tavola, il patriarca avvicinandosi alla santa Vergine, «Tu sarai come mia madre, le disse, ed io ti rispetterò come l’altare stesso di Dio vivente.» D’ allora in poi, dice un dotto scrittore, essi non furono più agli occhi della legge religiosa che fratello e sorella nel matrimonio, benché la loro unione fosse integralmente conservata. Giuseppe non si trattenne lungamente a Gerusalemme dopo le cerimonie nuziali; i due santi sposi lasciarono la città santa per recarsi a Nazareth nella modesta casa che Maria aveva avuto in eredità dai suoi genitori.
            Nazareth, il cui nome ebraico significa fiore dei campi, è una bella e piccola città, pittorescamente assisa sul pendio d’una collina alla estremità della valle di Esdrelon. È dunque in questa ridente città che Giuseppe e Maria vennero a stabilire la loro dimora.
            La casa della Vergine si componeva di due camere principali, di cui l’una serviva di laboratorio per Giuseppe, e l’altra era per Maria. La bottega, dove lavorava Giuseppe, consisteva in una camera bassa di dieci o dodici piedi di larghezza sopra altrettanti di lunghezza. Vi si vedevano distribuiti con ordine gli strumenti necessari alla sua professione. Quanto al legname di cui egli aveva bisogno, una parte rimaneva nel laboratorio e l’altra fuori, permettendo il clima al santo operaio di lavorare all’aperto una gran parte dell’anno.
            Sul davanti della casa si trovava, giusta l’uso d’oriente, una panca in pietra ombreggiata da stuoie di palma, dove il viaggiatore poteva riposare le sue stanche membra e ripararsi dai raggi cocenti del sole.
            Era assai semplice la vita che menavano codesti sposi privilegiati. Maria curava la pulitezza della sua povera dimora, lavorava colle proprie mani le sue vesti e racconciava quelle del suo sposo. Quanto a Giuseppe ora formava un tavolo per i bisogni di casa, o dei carri, o dei gioghi per i vicini da cui ne aveva ricevuto l’incarico; ora col suo braccio tuttora vigoroso si recava sulla montagna ad abbattere gli alti sicomori ed i neri terebinti che dovevano servire alla costruzione delle capanne, che egli elevava nella vallata.
            Sempre assiduo al lavoro bene spesso il sole era di già da lunga pezza tramontato quando egli rientrava in casa pel piccolo pasto della sera, che la sua giovane e virtuosa compagna non gli faceva al certo aspettare, anzi ella stessa gli rasciugava la fronte molle di sudore, gli presentava l’acqua tiepida che ella aveva fatto riscaldare per lavargli i piedi, e gli serviva la cena frugale che doveva ristorare le sue forze. Questa si componeva per lo più di piccoli pani d’orzo, di latticini, di frutti e di alcuni legumi. Poscia, fatta la notte, un parco sonno preparava il nostro santo Patriarca a riprendere il domani le sue giornaliere occupazioni. Questa vita laboriosa e dolce ad un tempo, durava da circa due mesi, quando giunse l’ora segnata dalla Provvidenza per l’incarnazione del Verbo divino.

Capo V. L’Annunciazione di Maria SS.
Ecce ancilla Domini; fiat mihi secundum verbum tuum. (Ecco l’ancella del Signore; si faccia di me secondo la tua parola. – Lc. 1,38)

            Un giorno Giuseppe si era recato a lavorare in un paese vicino. Maria era sola in casa e secondo la sua abitudine pregava stando occupata a filare del lino. All’improvviso un angelo del Signore, l’arcangelo Gabriele, discese in questa povera casa tutto risplendente dei raggi della gloria celeste, e salutò l’umile Vergine dicendole: «Io ti saluto, o piena di grazie; il Signore è con te, tu sei benedetta tra tutte le donne.» Questi elogi tanto inaspettati produssero nell’anima di Maria una profonda turbazione. L’Angelo per rassicurarla, le disse: «Non temere, o Maria; poiché hai trovato grazia agli occhi di Dio. Ecco che concepirai e darai alla luce un figlio che si chiamerà Gesù. Egli sarà grande e sarà detto Figlio dell’Altissimo. Il Signore gli darà il trono di Davide suo padre; egli regnerà eternamente nella casa di Giacobbe, ed il suo regno non avrà fine.» «Come ciò sarà possibile, domandò l’umile Vergine, mentre io non conosco uomo?»
            Ella non sapeva conciliare la sua promessa di verginità col titolo di madre di Dio. Ma l’Angelo le rispose: «Lo Spirito Santo discenderà in te, e la virtù dell’Altissimo ti coprirà colla sua ombra; il santo frutto che nascerà da te, sarà chiamato il figlio di Dio.» E per darle una prova della onnipotenza di Dio, l’arcangelo Gabriele soggiunse: «Ecco che Elisabetta tua cugina ha concepito un figlio nella sua vecchiaia, e quella che era sterile è di già al sesto mese della sua gravidanza. Perché nulla è impossibile a Dio.»
            A queste divine parole l’umile Maria non trovò più che ridire: «Ecco l’ancella del Signore, rispose all’Angelo, sia fatto di me secondo la tua parola.» L’Angelo disparve; il mistero dei misteri era compiuto. Il Verbo di Dio si era incarnato per la salute degli uomini.
            Verso la sera, allorché Giuseppe all’ora solita rientrò, terminato il suo lavoro, Maria nulla gli disse del miracolo di cui ella era stata l’oggetto.
            Si contentò di annunziargli la gravidanza di sua cugina Elisabetta: e siccome ella desiderava di andarla a visitare, da sposa sottomessa domandò a Giuseppe il permesso di intraprendere quel viaggio che a dir vero era lungo e faticoso. Questi nulla aveva a rifiutarle ed ella parti in compagnia di alcuni congiunti. È da credere che Giuseppe non potesse accompagnarla presso sua cugina, perché lo ritenevano a Nazaret le sue occupazioni.

Capo VI. Inquietudine di Giuseppe – È rassicurato da un Angelo.
Ioseph, fili David, noli timere accipere Mariam coniugem tuam, quod enim in ea natum est, de Spiritu Sancto est. (Giuseppe, figliuolo di Davide, non temere di ricevere Maria tua consorte: perché ciò che in essa è stato concepito è per opera dello Spirito Santo. – Mt. 1,20)

            S. Elisabetta abitava nelle montagne della Giudea, in una piccola città chiamata Ebron, posta a settanta miglia [113 km] da Nazareth. Noi non terremo dietro a Maria nel suo viaggio, ci basti il sapere che Maria restò tre mesi circa colla sua cugina.
            Ma il ritorno di Maria preparava a Giuseppe una prova che doveva essere il preludio di molte altre. Egli non tardò ad accorgersi che Maria era in uno stato interessante e quindi veniva tormentato da mortali inquietudini. La legge lo autorizzava ad accusare la sua sposa davanti ai sacerdoti e a coprirla di un eterno disonore; ma un simile passo ripugnava alla bontà del suo cuore, e all’alta stima che fino allora aveva avuto per Maria. In questa incertezza risolse di abbandonarla e di espatriare per rigettare unicamente sopra di sé tutta l’odiosità di una tale separazione. Anzi, aveva fatto già i suoi preparativi per la partenza, quando un angelo discese dal Cielo per rassicurarlo:
            «Giuseppe, figliuolo di Davide, gli disse il celeste messaggero, non temere di ricevere Maria per tua consorte, perché ciò che in essa è stato concepito è per opera dello Spirito Santo. Ella partorirà un figliuolo cui tu porrai nome Gesù, perché lui libererà il suo popolo dai suoi peccati.
            D’allora in poi Giuseppe rassicurato completamente concepì la più alta venerazione per la sua casta sposa; egli vide in essa il tabernacolo vivente dell’Altissimo, e le sue cure non furono che più tenere e più rispettose.

Capo VII. Editto di Cesare Augusto. – Il censo. – Viaggio di Maria e di Giuseppe verso Betlemme.
Tamquam aurum in fornace probavit electos Dominus. (Dio ha provato gli eletti come l’oro nella fornace. – Sap. 3,6.)

            Si avvicinava il momento in cui il Messia promesso alle genti doveva finalmente comparire nel mondo. L’impero Romano era allora arrivato all’apice della sua grandezza.
            Cesare Augusto impadronendosi del supremo potere, realizzava quella unità che secondo i disegni della Provvidenza doveva servire alla propagazione del Vangelo. Sotto il suo regno avevano cessato tutte le guerre, e il tempio di Giano era chiuso (era uso in Roma a quei tempi di tener aperto il tempio di Giano durante la guerra e di chiuderlo in tempo di pace). Nel suo orgoglio, il romano imperatore volle conoscere il numero dei suoi sudditi, e a questo scopo ordinò un censimento generale in tutto l’impero.
            Ciascun cittadino doveva far inscrivere nella sua città nativa sé stesso e tutta la sua famiglia. Dovette adunque Giuseppe abbandonare la sua povera casa per obbedire agli ordini dell’imperatore; e siccome egli era della stirpe di Davide e questa illustre famiglia era originaria di Betlemme, colà doveva andare per farsi inscrivere.
            Era una mattina trista e nebbiosa del mese di dicembre, l’anno 752 di Roma, Giuseppe e Maria lasciavano la loro povera abitazione di Nazareth per recarsi a Betlemme, dove li chiamava l’obbedienza dovuta agli ordini del sovrano. Non furono lunghi i loro preparativi per la partenza. Giuseppe mise dentro ad un sacco alcuni vestimenti, preparò la tranquilla e mansueta cavalcatura, che doveva portare Maria che era già nel nono mese di sua gravidanza, e si avviluppò nel suo largo mantello. Poscia i due santi viaggiatori uscirono da Nazareth accompagnati dalle felicitazioni de loro congiunti ed amici. Il santo patriarca, avendo da una mano il suo bastone da viaggio, teneva coll’altra la briglia del giumento su cui stava assisa la sua consorte.
            Dopo quattro o cinque giorni di cammino scorsero da lontano Betlemme. Il giorno cominciava a venir meno quando entrarono nella città. La cavalcatura di Maria era stanca; Maria d’altronde aveva un grande bisogno di riposo: perciò Giuseppe si mise sollecitamente in cerca di alloggio. Egli percorse tutte le osterie di Betlemme, ma furono inutili i suoi passi. Il censimento generale vi aveva attirata una folla straordinaria; e tutti gli alberghi riboccavano di forestieri. Invano Giuseppe andò a battere di porta in porta domandando ricovero per la sua sposa estenuata dalla fatica, che le porte rimasero chiuse.

Capo VIII. Maria e Giuseppe si rifugiano in una povera grotta. – Nascita del Salvator del mondo. – Gesù adorato dai pastori.
Et Verbum caro factum est. (Ed il Verbo si è fatto carne. – Gv. 1,14.)

            Un po’ scoraggiati dalla mancanza di ogni ospitalità, Giuseppe e Maria se ne uscirono da Betlemme speranzosi di trovare nella campagna quell’asilo che la città loro aveva rifiutato. Arrivarono essi presso ad una grotta abbandonata, la quale offriva un rifugio ai pastori ed ai loro armenti di notte e nei giorni di cattivo tempo. Giaceva in terra un po’ di paglia, ed una incavatura praticata nella roccia serviva egualmente di panca per riposarsi, e di mangiatoia per gli animali. I due viaggiatori entrarono nella grotta onde prendere riposo dalle fatiche del viaggio, e per riscaldare le loro membra intirizzite dal freddo dell’inverno. In questo miserabile riparo, lungi dagli sguardi degli uomini, Maria dava al mondo il Messia ai nostri primi padri promesso. Era la mezzanotte, Giuseppe adorando il divino fanciullo lo inviluppò con pannicelli, e lo pose entro alla mangiatoia. Egli era il primo degli uomini cui toccasse l’incomparabile onore di offrire i propri omaggi a Dio disceso sopra la terra per riscattare i peccati dell’umanità.
            Alcuni pastori guardavano le loro greggi nella vicina campagna. Un angelo del Signore comparve e loro annunziò la buona novella della nascita del Salvatore. Nel tempo stesso si udirono dei cori celesti a ripetere: «e Gloria a Dio nel più alto dei Cieli e pace sulla terra agli uomini di buona volontà.» Questi uomini semplici non esitarono a seguire la voce dell’angelo, «Andiamo, si dissero, sino a Betlemme e vediamo ciò che è accaduto.» E senza fare maggiori indugi entrarono nella grotta ed adorarono il divino fanciullo.

(continua)




Le profezie di don Bosco e i re d’Italia

“La famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione”.

            È morto pochi giorni fa il pretendente al trono d’Italia, Vittorio Emanuele di Savoia (n. 12.02.1937 – † 03.02.2024), il quinto discendente del primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II di Savoia. È stata concessa la sepoltura nella cripta della Basilica di Superga, Torino, dove si trovano altre decine di resti mortali della Casa di Savoia. Questo evento ci fa ricordare altri sogni di don Bosco che si sono avverati pienamente.

            Nel novembre 1854, si stava preparando una legge sulla confisca dei beni ecclesiastici e sulla soppressione dei conventi. Per la validità, doveva essere sancita dal Re d’Italia, Vittorio Emanuele II di Savoia. Alla fine di questo mese di novembre, don Bosco ebbe due sogni che erano delle vere profezie riguardanti il re e la sua famiglia. Ricordiamo con don Lemoyne i fatti.

            Don Bosco adunque anelava a dissipare una minacciosa nube che andava sempre più oscurandosi sulla Real Casa.
            Egli in una notte verso il fine del mese di novembre, aveva fatto un sogno. Gli era parso di trovarsi ove è il portico centrale dell’Oratorio, costrutto allora solo per metà, presso alla pompa idraulica fissa al muro della casetta Pinardi. Era circondato da preti e da chierici: ad un tratto vide avanzarsi in mezzo al cortile un valletto di Corte, col suo rosso uniforme, il quale, con passo affrettato venuto alla sua presenza, gli parve che gridasse:
            – Grande notizia!
             – E quale? gli chiese D. Bosco.
             – Annunzia: gran funerale in Corte! gran funerale in Corte!
            Don Bosco a questa improvvisa comparsa, a questo grido, restò come di sasso, e il valletto ripetè: – Gran funerale in Corte! – Don Bosco allora voleva domandargli spiegazione di questo suo ferale annunzio, ma quegli erasi dileguato. D. Bosco, risvegliatosi, era come fuori di sè e, inteso il mistero di quell’apparizione, prese la penna e preparò subito una lettera per Vittorio Emanuele, palesando quanto gli era stato annunziato, e raccontando semplicemente il sogno.
[…]
…era di conoscere ciò che Don Bosco aveva scritto al Re, tanto più che sapevano cosa egli pensasse intorno all’usurpazione dei beni ecclesiastici. Don Bosco non li tenne in indugio e loro palesò quanto aveva scritto pel Re, perché non permettesse la presentazione dell’infausta legge. Quindi narrò il sogno, concludendo: Questo sogno mi ha fatto star male e mi ha affaticato, molto. – Egli era sopra pensiero ed esclamava a quando, a quando: – Chi sa?… chi sa?… preghiamo!
            Sorpresi i chierici presero allora a discorrere, interrogandosi a vicenda se avessero sentito a dire che nel palazzo reale vi fosse qualche nobile signore infermo; ma tutti conchiusero, non constare in nessun modo questo. Don Bosco intanto, chiamato presso di sè il Ch. Angelo Savio, gli consegnò la lettera: – Copia, gli disse, ed annunzia al Re: Grande funerale in Corte! – E il Ch. Savio scrisse. Ma il Re, come Don Bosco venne a sapere dai suoi confidenti impiegati a palazzo, lesse con indifferenza quel foglio e non ne tenne conto.
            Erano passati cinque giorni da questo sogno, e Don Bosco, dormendo, nella notte, sognò di bel nuovo. Gli pareva di essere in sua camera a tavolino, scrivendo; quando udì lo scalpitare di un cavallo in cortile. Ad un tratto vede spalancarsi la porta ed apparire il valletto nella sua rossa livrea, che entrato fino a metà della camera gridò:
            Annunzia: non grande funerale in Corte, ma grandi funerali in Corte! -E ripetè queste parole due volte. Quindi ritirossi con passo rapido e chiuse la porta dietro di sè. Don Bosco voleva sapere, voleva interrogarlo, voleva chiedergli, spiegazione; quindi si alzò da, tavolino, corse sul balcone e vide il: valletto nel cortile che saliva a cavallo. Lo, chiamò, chiese perchè fosse venuto a ripetergli quell’annunzio; ma il valletto gridando: – Grandi funerali in Corte! – si dileguò. Venuta l’alba, Don Bosco stesso indirizzò al Re un’altra lettera, nella quale raccontavagli il secondo sogno e concludeva dicendo a sua Maestà “che pensasse a regolarsi in modo da schivare i minacciati castighi, mentre la pregava di impedire a qualunque costo quella legge”.
Alla sera dopo cena Don Bosco esclamò in mezzo a’ suoi chierici: – Sapete che ho da dirvi una cosa ancor più strana, che quella dell’altro giorno? – E raccontò ciò che aveva visto nella notte. Allora i chierici, più stupiti di prima, si domandavano che cosa indicassero questi annunzi di morte; e si può immaginare quale fosse la loro ansietà nell’attendere come si sarebbero verificate queste predizioni.
            Al chierico Cagliero e ad alcuni altri svelava intanto apertamente essere, quelle, minacce di castighi che il Signore faceva sentire a chi più danni e mali già aveva arrecati alla Chiesa ed altri stava preparandone. In quei giorni egli era addoloratissimo e ripeteva frequentemente: – Questa legge attirerà sulla casa del Sovrano gravi disgrazie. – Tali cose diceva a’ suoi alunni per impegnarli a pregare per il Re, e per intercedere dalla misericordia del Signore che impedisse la dispersione eli tanti religiosi e la perdita di tante vocazioni.
            Intanto il Re aveva confidate quelle lettere al Marchese Fassati, che avendole lette, venne all’Oratorio e diceva a D. Bosco: – Oh! le pare la maniera questa di mettere sossopra tutta la Corte? Il Re ne è rimasto più che impressionato e turbato!… Anzi montò sulle furie.
            E Don Bosco gli rispose – Ma se ciò che fu scritto è verità? Mi rincresce di aver cagionato questi disturbi al mio Sovrano; ma insomma, si tratta del suo bene e di quello della Chiesa.
            Gli avvisi di Don Bosco non furono ascoltati. Il 28 novembre 1854 il Ministro guardasigilli Urbano Rattazzi presenta va ai deputati un disegno di legge per la soppressione dei conventi. Il Conte Camillo di Cavour, Ministro delle finanze, era risoluto di farlo approvare a qualunque costo. Questi signori stabilivano come principio incontrastato e incontrastabile, che fuori del gran corpo civile, non v’ha e non può darsi società a lui superiore e da lui indipendente; che lo Stato è tutto, e che perciò nessun ente morale, e neppure la Chiesa Cattolica può sussistere giuridicamente senza il consenso e riconoscimento dell’autorità civile. Perciò tale autorità non riconoscendo nella Chiesa universale il dominio dei beni ecclesiastici, e attribuendo questo dominio a ciascun ente delle corporazioni religiose, sostenevano essere queste creazione della sovranità, civile e la loro esistenza modificarsi od estinguersi per volontà della sovranità medesima, e lo Stato, erede d’ogni personalità civile che non abbia successioni, divenire solo ed assoluto proprietario di tutti i loro beni quando fossero soppresse. Errore grossolano perchè tali patrimonii, per qualsivoglia causa una Congregazione Religiosa cessasse d’esistere, non rimanevano senza padroni, dovendo essere devoluti alla Chiesa di G. C., rappresentata dal Sommo Pontefice, per quanto gli statolatri perfidiassero a negarlo (MB V, 176-180).

            Che fossero ammonimenti che venivano dal Cielo, lo conferma anche la lettera scritta quattro anni prima, il 9 aprile 1850, che la madre de Re, Regina Madre Maria Teresa, vedova di Carlo Alberto, aveva indirizzato a suo figlio, il Re Vittorio Emanuele II di Savoia.

Iddio te ne compenserà, ti benedirà, ed invece chi sa quanti castighi, quanti flagelli di Dio ci attirerà per te, la famiglia ed il paese se la sanzioni [la legge Siccardi sull’abolizione del foro ecclesiastico]. Pensa qual sarebbe il tuo dolore se il Signore facesse ammalare gravemente od anche se si prendesse la tua cara Adele che tu con santa ragione tanto ami, o la tua Chichina (Clotilde’) oil tuo Betto (Umberto); e se potessi vedere dentro il mio cuore, quanto sono addolorata, angustiata, spaventata dal timore che tu sanzioni subito questa legge per le tante disgrazie, che son certa che ci porterà se sarà fatta senza il consentimento del Santo Padre, forse il tuo cuore che è proprio buono e sensibile, e che ha sempre tanto amato la sua povera Mammina si lascerebbe intenerire. (Antonio Monti, Nuova Antologia, 1° gennaio 1936, pag. 65; MB XVII, 898).

            Però il re non fece caso a questi avvertimenti e le conseguenze non tardarono. Le trattative per l’approvazione continuarono e anche le profezie si compirono:
            – il 12 gennaio 1855 morì Maria Teresa, Regina madre, a 53 anni;
            – il 20 gennaio 1855 morì la Regina Maria Adelaide, a 33 anni;
            – l’11 febbraio 1855 morì il Principe Ferdinando, fratello del Re, a 32 anni;
            – il 17 maggio 1855 morì il figlio del re, il principe Vittorio Emanuele Leopoldo Maria Eugenio, di appena 4 mesi.

            Don Bosco continuo ad avvertire, pubblicando la carta di fondazione di Altacomba (Hautecombe) con l’esposizione di tutte le maledizioni comminate a chi osasse distruggere od usurpare i beni dell’Abbazia d’Altacomba, inserite in quel documento proprio dagli antichi Duchi di Savoia per proteggere quel luogo, dove sono inumate decine di illustri antenati della casa Savoia.
E continuò anche pubblicando nel mese di aprile 1855, nelle «Letture Cattoliche» un opuscolo scritto dal Barone Nilinse intitolato: I beni della chiesa, come si rubino e quali siano le conseguenze; con breve appendice sulle vicende del Piemonte. Sul frontispizio stava scritto: Come! Per nessun diritto si può violare la casa di un privato, e tu hai ardimento di mettere la mano sopra la casa del Signore! S. Ambrogio. In quello scritto si dimostrava che non solo gli spogliatori della Chiesa e degli Ordini Religiosi, ma eziandio le loro famiglie ne andarono colpite quasi sempre, avverandosi il terribile detto: La famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione! (MB V, 233-234).

            Il 29 maggio Vittorio Emanuele II firmò lui stesso la legge Rattazzi, con la quale si confiscavano i beni ecclesiastici e si sopprimevano le corporazioni religiose, senza tener conto di quanto predetto da don Bosco e dei lutti che avevano colpito la sua famiglia dal mese di gennaio… non sapendo che così firmava anche il destino della famiglia reale.

            Infatti, anche qui la profezia si avverò, come vediamo.
            – il re Vittorio Emanuele II di Savoia (n. 14.03.1820 – † 09.01.1878), regnante dal 17.03.1861 al 09.01.1878, morì a soli 58 anni di età;
            – il re Umberto I (n. 14.03.1844 – † 29.07.1900), figlio del re Vittorio Emanuele II di Savoia, regnante dal 10.01.1878 al 29.07.1900, fu ucciso a Monza a 56 anni;
            – il re Vittorio Emanuele III (n. 11.11.1869 – † 28.12.1947), nipote del re Vittorio Emanuele II di Savoia, regnante dal 30.07.1900 al 09.05.1946, fu costretto ad abdicare il 9 maggio 1946 e morì un anno dopo.
            – il re Umberto II (n. 15.09.1904 – † 18.03.1983) ultimo Re d’Italia, regnante dal 10.05.1946 al 18.06.1946, pronipote di Vittorio Emanuele II (la quarta generazione), dovette abdicare dopo soli 35 giorni di regno, a seguito del Referendum istituzionale del 2 giugno dello stesso anno. Morì il 18 marzo 1983 a Ginevra e fu sepolto nell’Abbazia di Altacomba…

            Alcuni interpretano questi avvenimenti come semplici coincidenze, perché non possono negare i fatti, ma chi conosce l’agire di Dio, sa che nella sua misericordia avverte sempre in un modo o in un altro delle gravi conseguenze che possono avere certe decisioni di grande importanza, che influiscono sul destino del mondo e della Chiesa.
            Ricordiamo solo il fine della vita del più saggio uomo della terra, il re Salomone.

Quando Salomone fu vecchio, le sue donne l’attirarono verso dei stranieri e il suo cuore non restò più tutto con il Signore suo Dio come il cuore di Davide suo padre.
Salomone seguì Astàrte, dea di quelli di Sidòne, e Milcom, obbrobrio degli Ammoniti.
Salomone commise quanto è male agli occhi del Signore e non fu fedele al Signore come lo era stato Davide suo padre.
Salomone costruì un’altura in onore di Camos, obbrobrio dei Moabiti, sul monte che è di fronte a Gerusalemme, e anche in onore di Milcom, obbrobrio degli Ammoniti.
Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere, che offrivano incenso e sacrifici ai loro dei.
Il Signore, perciò, si sdegnò con Salomone, perché aveva distolto il cuore dal Signore Dio d’Israele, che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non seguire altri dei, ma Salomone non osservò quanto gli aveva comandato il Signore.
Allora disse a Salomone: “Poiché ti sei comportato così e non hai osservato la mia alleanza né i decreti che ti avevo impartiti, ti strapperò via il regno e lo consegnerò a un tuo suddito. (1Re 11,4-11).

            Basta leggere con attenzione la storia, sia sacra che profana…




Santa Famiglia di Nazaret

Celebriamo ogni anno la Santa Famiglia di Nazaret nell’ultima domenica dell’anno. Ma ci dimentichiamo spesso che celebriamo con fasto gli eventi più poveri e delicati di questa Famiglia. Obbligati a dar alla luce in una grotta, perseguitati subito, dovendo emigrare tra tanti pericoli in un paese straniero per sopravvivere, e questo con un neonato e senza sostanze. Ma tutto fu evento di grazia, permesso da Dio Padre, e annunciato nelle Scritture.
Leggiamo il bel racconto che don Bosco stesso faceva ai suoi ragazzi del suo tempo.

Il tristo annunzio. – La strage degli innocenti. – La sacra famiglia parte per l’Egitto.
L’angelo del Signore disse a Giuseppe: Levati, prendi il bambino e sua madre e fuggi in Egitto e fermati colà fintantoché io t’avvisi. Matth. II, 13.
Si è sentito nell’alto voce di querela, di lutto e di gemito di Rachele che piange i suoi figli; e riguardo ad essi non ammette consolazione perché ei più non sono. Gerem. c. XXXI, v. 15.

            La tranquillità della santa famiglia [dopo la nascita di Gesù] non doveva essere di lunga durata. Appena Giuseppe era rientrato nella povera casa ai Nazareth, un angelo del Signore gli apparve in sogno e gli disse: “Alzati, togli teco il fanciullo e sua madre e fuggi in Egitto, e rimani colà finché io non ti dica di ritornare. Imperciocché Erode cercherà il fanciullo per farlo morire.”
            E ciò non era che troppo vero. Il crudele Erode ingannato dai Magi e furioso di vedersi sfuggire una si bella occasione, per disfarsi di colui che egli considerava come un competitore al trono, aveva concepito l’infernale disegno di far massacrare tutti i bambini maschi di età inferiore a due anni. Quest’ ordine abbominevole fu eseguito.
            Un largo fiume di sangue scorse la Galilea. Allora si avverò quello che aveva predetto Geremia: “Una voce si è fatta intendere in Rama, voce mista di lacrime e di lamenti. È Rachele che piange i suoi figli e non vuol essere consolata; imperciocché essi non sono più.” Questi poveri innocenti, si crudelmente scannati, furono i primi martiri della divinità di Gesù Cristo.
            Giuseppe aveva riconosciuto la voce dell’Angelo; né si permise alcuna riflessione sulla precipitata partenza, a cui dovevano risolversi; sulle difficoltà d’un viaggio così lungo e così pericoloso. E sì che gli doveva rincrescere di abbandonare la sua povera casa, per andare attraverso ai deserti a cercare un asilo in un paese che egli non conosceva. Senza nemmeno aspettare il domani, nel momento che l’angelo disparve egli si alzò e corse a svegliare Maria. Maria preparò frettolosamente piccola provigione di panni e di viveri che dovevano portare con sé. Giuseppe intanto preparò la giumenta, e partirono senza rammarico dalla loro città per obbedire al comando di Dio. Ecco dunque un povero vecchio, che rende vane le orribili trame del tiranno di Galilea; è a lui che Iddio affida la custodia di Gesù e di Maria.

Viaggio disastroso – Una tradizione.
Allorquando vi perseguiteranno in questa città fuggite ad un’altra. Matth. X, 23.

            Due strade si presentavano al viaggiatore, che per la via di terra volesse recarsi in Egitto. L’una attraversava deserti popolati da bestie feroci, ed i sentieri ne erano malagevoli, lunghi e poco frequentati. L’altra si dirigeva attraverso a un paese poco frequentato, ma gli abitanti della contrada erano ostilissimi agli Ebrei. Giuseppe, che aveva soprattutto a temere gli uomini in questa fuga precipitosa, scelse la prima di queste due strade siccome la più nascosta.
            Partiti da Nazareth nel più fitto della notte, i cauti viaggiatori, il cui itinerario obbligava a passare dappresso Gerusalemme, batterono per qualche tempo i sentieri più tristi e tortuosi. Quando si doveva attraversare qualche grande strada, Giuseppe lasciando al riparo d’una roccia Gesù e sua Madre, andava in perlustrazione pel cammino, per accertarsi se l’uscita non ne fosse guardata dai soldati di Erode. Rassicurato da questa precauzione, ritornava a prendere il suo prezioso tesoro, e la santa famiglia continuava il suo viaggio, tra i burroni ed i colli. Di tratto in tratto si faceva una breve sosta sull’orlo d’un limpido ruscello, e dopo una frugale refezione si prendeva un po’ di riposo dalle fatiche del viaggio. Giunta la sera, era mestieri rassegnarsi a dormire a cielo scoperto. Giuseppe spogliandosi del suo mantello, ne copriva Gesù e Maria per preservarli dall’umidità della notte. Poi il domani sul far del giorno si ricominciava il faticoso viaggio. I santi viaggiatori, avendo oltrepassata la piccola città di Anata, si diressero dalla parte di Ramla per discendere nelle pianure della Siria, dove essi dovevano ormai esser liberi dalle insidie dei loro feroci persecutori. Contro alla loro abitudine avevano continuato a camminare malgrado fosse di già fatta la notte per essere più presto in salvo. Giuseppe andava quasi tastando il terreno avanti agli altri. Maria tutta tremante per questa corsa notturna figgeva i suoi sguardi irrequieti nella profondità dei valloni, e nelle sinuosità delle rocce. D’un tratto in uno svolto, una frotta d’uomini armati si presentò ad intercettare loro il cammino. Era una banda di scellerati, i quali devastavano la contrada, la cui fama spaventevole si estendeva molto lontano. Giuseppe aveva arrestato la cavalcatura di Maria, e pregava il Signore in silenzio; imperciocché era impossibile qualunque resistenza. Tutto al più si poteva sperare di ottener salva la vita. Il capo dei briganti si staccò da’ suoi compagni e si avanzò verso Giuseppe per osservare con chi avesse egli da trattare. La vista di questo vecchio senza armi, di questo bambinello che dormiva sopra il seno di sua madre, toccò il cuore sanguinario del bandito. Ben lungi dal voler far loro alcun male, stese la mano a Giuseppe, offrendo ospitalità a lui ed alla sua famiglia. Questo capo si chiamava Disma. La tradizione ci dice, che trent’ anni dopo egli fu preso dai soldati, e condannato ad essere crocifisso. Fu messo in croce sul Calvario al fianco di Gesù, ed è lo stesso che noi conosciamo sotto il nome del buon ladrone.

Arrivo in Egitto – Prodigi avvenuti al loro ingresso in questa terra – Villaggio di Matarie – Abitazione della sacra Famiglia.
Ecco che il Signore salirà sopra una nuvola leggera ed entrerà in Egitto e alla presenza di lui si conturberanno i simulacri d’ Egitto. Is. XIX, 1.

            Comparso appena il giorno, i fuggitivi, ringraziando i briganti diventati ospiti, ripresero il loro cammino pieno di pericoli. Si dice che Maria sul partire abbia detto queste parole al capo di quei banditi: “Ciò che tu hai fatto per questo bambino, ti sarà un giorno largamente ricompensato.” Dopo di avere attraversato Betlemme e Gaza, Giuseppe e Maria discesero nella Siria e avendo incontrato una carovana che partiva per l’Egitto si unirono ad essa. Da questo istante sino al termine del loro viaggio non videro più davanti a sé, che un immenso deserto di sabbia, la cui aridità non era interrotta che a ben rari intervalli da qualche oasi, ossia da alcuni tratti di terreno fertile e verdeggiante. Le loro fatiche si raddoppiarono durante questa corsa attraverso a queste pianure infuocate da ardente sole. I viveri erano poco abbondanti, e l’acqua ben sovente mancava. Quante notti Giuseppe, che era vecchio e povero, si vide risospinto, quando tentava di avvicinarsi alla fonte, cui la carovana si era arrestata per dissetarsi!
            Finalmente dopo due mesi di penosissimo cammino i viaggiatori entrarono in Egitto. Al dire di Sozomeno, dal momento che la santa Famiglia ebbe toccato questa terra antica, gli alberi abbassarono i loro rami per adorare il Figlio di Dio; le bestie feroci vi accorsero dimenticando il loro istinto; e gli uccelli cantarono in coro le lodi del Messia. Anzi se crediamo a quanto ci narrano autori degni di fede, tutti gli idoli della provincia, riconoscendo il vincitore del Paganesimo, caddero frantumati in mille pezzi. Così ebbero letterale compimento le parole del profeta Isaia quando disse; “Ecco che il Signore salirà sopra una nuvola leggerà ed entrerà in Egitto, e alla presenza di lui si conturberanno i simulacri d’Egitto.”
            Giuseppe e Maria, desiderosi d’arrivar presto al termine del loro viaggio, non fecero che attraversare Eliopoli, consacrata al culto del sole, per recarsi a Matari dove intendevano di riposarsi delle loro fatiche.
            Matari è un bel villaggio ombreggiato da sicomori, a due leghe circa dal Cairo, capitale dell’Egitto. Colà Giuseppe aveva intenzione di stabilire dimora. Ma non era ancora questo il termine delle sue pene. Gli era mestieri di cercarsi un alloggio. Gli Egiziani non erano per nulla ospitali; così la santa famiglia fu costretta a ripararsi per alcuni giorni nel tronco d’un antico e grosso albero. Alfine dopo lunghe ricerche Giuseppe trovò una modesta cameraccia, in cui collocò alla meglio Gesù e Maria.
            Questa casa, che si fa vedere ancora in Egitto, era una specie di grotta, di venti piedi di lunghezza sopra quindici di larghezza. Non vi erano nemmeno finestre; la luce vi doveva penetrare per la porta. Le mura erano d’una specie d’argilla nera e schifosa, la cui vecchiezza portava l’impronta della miseria. A destra era una piccola cisterna, dalla quale Giuseppe attingeva l’acqua pel servizio della famiglia.

Dolori. – Consolazione e termine dell’esilio.
Con lui son io nella tribolazione. Psal. XC. 15.

            Entrato appena in questa nuova abitazione ripigliò Giuseppe il suo lavoro ordinario. Cominciò a mobiliare la sua casa; un tavolino, qualche sedia, una panca, tutto quanto opera delle sue mani. Poscia andò di porta in porta in cerca di lavoro per guadagnar il sostentamento alla piccola famiglia. Egli senza dubbio ebbe a provare ben molti rifiuti, e a tollerare ben molti umilianti disprezzi! Egli era povero, e sconosciuto; e ciò bastava perché venisse rifiutata l’opera sua. A sua volta Maria, mentre aveva mille cure pel Figlio, si diede coraggiosamente al lavoro, occupando in esso una parte della notte per supplire ai guadagni piccoli ed insufficienti del suo sposo. Tuttavia in mezzo alle sue pene quante consolazioni per Giuseppe! Era per Gesù che lavorava, e il pane che il divino fanciullo mangiava era egli che l’aveva acquistato col sudore della sua fronte. E poi quando rientrava in sulla sera affaticato e oppresso dal caldo, Gesù sorrideva al suo arrivo, e lo accarezzava colle sue piccole mani. Ben sovente col prezzo di privazioni, che s’imponeva, Giuseppe riusciva ad ottenere qualche risparmio qual gioia provava allora nel poterlo impiegare nell’ addolcire la condizione del divino fanciullo! Ora erano alcuni datteri, ora alcuni giocattoli adatti alla sua età, che il pio falegname recava al Salvatore degli uomini. Oh quanto erano dolci allora le emozioni del buon vecchio nel contemplare il viso raggiante di Gesù! Quando arrivava il Sabato, giorno di riposo e consacrato al Signore, Giuseppe prendendo per le mani il fanciullo, ne guidava i primi passi con una sollecitudine veramente paterna.
            Frattanto il tiranno che regnava sopra Israele moriva. Iddio, il cui braccio onnipossente punisce sempre il colpevole, gli aveva mandato una malattia crudele, che lo condusse rapidamente al sepolcro. Tradito dal suo proprio figlio, roso vivo dai vermi, Erode era morto, portando con se l’odio de’ Giudei, e la maledizione de’ posteri.

Il nuovo annunzio. – Ritorno in Giudea. – Una tradizione riferita da s. Bonaventura.
Dall’Egitto richiamai il mio figliuolo. Oseae XI, 1.

            Da sette anni stava Giuseppe in Egitto, quando l’Angelo del Signore, messaggero ordinario dei voleri del Cielo gli apparve di nuovo durante il sonno e gli disse: “Alzati, togli teco il fanciullo e sua madre, e ritorna al paese d’Israele, imperciocché coloro che cercavano il fanciullo per farlo morire, non esistono più.” Sempre pronto alla voce di Dio, Giuseppe vendette la sua casa ed i suoi mobili, ed ordinò il tutto per la partenza. Invano gli Egiziani rapiti dalla bontà di Giuseppe e dalla dolcezza di Maria fecero le più vive istanze per ritenerlo. Invano gli promisero l’abbondanza d’ogni cosa necessaria per la vita, Giuseppe fu irremovibile. I ricordi della sua infanzia, gli amici, che egli aveva nella Giudea, la pura atmosfera della sua patria, assai più parlavano al suo cuore, che non la bellezza dell’Egitto. D’altronde Iddio aveva parlato, e null’altro abbisognava per decidere Giuseppe a far ritorno alla terra de’ suoi antenati.
            Alcuni storici sono d’opinione che la santa famiglia abbia fatto per mare una parte del viaggio, perché vi s’impiegava minor tempo, ed aveva un desiderio grandissimo di rivedere presto la sua patria. Appena sbarcati ad Ascalonia, Giuseppe intese che Archelao era succeduto nel trono a suo padre Erode. Indi per Giuseppe era una nuova sorgente di inquietudini. L’angelo non gli aveva detto in quale parte della Giudea dovesse egli stabilirsi. Doveva ciò fare a Gerusalemme, o nella Galilea, o nella Samaria? Giuseppe pieno d’ansietà pregò il Signore che gli mandasse durante la notte il suo celeste messaggero. L’angelo gli ordinò di fuggire Archelao e di ritirarsi in Galilea. Giuseppe allora più non ebbe a temere, e prese tranquillamente la strada di Nazareth, che aveva sette anni prima abbandonata.
            Non dispiaccia ai nostri devoti lettori di sentir sopra questo punto di storia il serafico dottor s. Bonaventura: “Erano in atto di partirsi: e Giuseppe andò innanzi cogli uomini, e la madre veniva da lungi colle donne (venuti queste e quelli come amici della santa famiglia ad accompagnarli un tratto). E quando furono fuor della porta, Giuseppe rattiene gli uomini e non si lascia più accompagnare. Allora alcuno di quelli buoni uomini, avendo compassione della povertà di costoro, chiamò il fanciullo e gli dettero alquanti denari per le spese. Si vergogno il Fanciullo di riceverli; ma, per amore della povertà, apparecchiò la mano e ricevé la pecunia vergognosamente e lo ringrazio. E così fecero più persone. Lo chiamarono ancora quelle onorabili matrone e fecero lo stesso; non si vergognava meno la madre che il fanciullo, ma tuttavia umilmente li ringraziò.”
            Preso dunque commiato da quella cordiale compagnia rinnovati i ringraziamenti ed i saluti, la santa famiglia rivolse i suoi passi verso la Giudea.




L’orario dei treni

Io conoscevo un uomo che sapeva a memoria l’orario ferroviario, perché l’unica cosa che gli dava gioia erano le ferrovie, ed egli passava tutto il suo tempo alla stazione, guardava come i treni arrivavano e come ripartivano. Egli osservava con meraviglia i vagoni, la forza delle locomotive, la grandezza delle ruote, osservava meravigliato i controllori che saltavano in carrozza e il capostazione.
Conosceva ogni treno, sapeva da dove veniva, dove andava, quando sarebbe arrivato in un certo posto e quali treni ripartivano da quel posto e quando sarebbero arrivati.
Sapeva i numeri dei treni, sapeva in che giorno viaggiano, se hanno il vagone ristorante, se aspettano o no delle coincidenze. Sapeva quali treni hanno il vagone postale e quanto costa un biglietto per Frauenfeld, per Olten, per Niederbipp o per un qualche posto.
Non andava al bar, non andava al cinema, non andava a spasso, non aveva né la bicicletta, né la radio, né il televisore, non leggeva giornali né libri, e se avesse ricevuto delle lettere, non avrebbe letto neanche queste. Per fare queste cose gli mancava il tempo, perché egli passava le sue giornate alla stazione, e solo quando l’orario ferroviario cambiava, a maggio e a ottobre, non lo si vedeva più per qualche settimana.
Allora se ne stava a casa seduto al suo tavolo e imparava tutto a memoria, leggeva l’orario nuovo dalla prima all’ultima pagina, faceva attenzione ai cambiamenti ed era contento quando non c’erano. Capitò anche che qualcuno gli chiese l’orario di partenza di un treno. Allora divenne raggiante in volto e volle sapere con esattezza qual era la meta del viaggio, e chi gli aveva chiesto l’informazione perse di sicuro il treno, perché egli non lo lasciò andare, non si accontentò di citare l’ora, citò anche il numero del treno, il numero dei vagoni, le possibili coincidenze, tutti gli orari di partenza; spiegò che con quel treno si poteva andare a Parigi, dove bisognava scendere e a che ora si arrivava, e non capiva che tutto ciò alla gente non interessava. Se però qualcuno lo piantava lì e se ne andava prima che gli avesse elencato tutte le sue conoscenze, si arrabbiava, lo insultava e gli gridava dietro:
– Lei non ha la minima idea delle ferrovie!
Lui personalmente, non salì mai su un treno.
Ciò non avrebbe avuto senso, diceva, perché egli sapeva già prima a che ora il treno arrivava (Peter Bichsel).

Molte persone (tra cui molti studiosi insigni) sanno tutto della Bibbia, anche l’esegesi dei versetti più piccoli e nascosti, anche il significato delle parole più difficili e perfino quello che lo scrittore sacro voleva veramente dire, anche se sembra il contrario.
Ma non trasformano in vita personale niente di quello che è scritto nella Bibbia.