I Cardinali Protettori della Società Salesiana di San Giovanni Bosco

Sin dagli inizi, la Società Salesiana ha avuto, come molti altri ordini religiosi, un cardinale protettore. Nel tempo, fino al Concilio Vaticano II, si sono succeduti nove cardinali protettori, un ruolo di grande importanza per la crescita della Società Salesiana.

L’istituzione dei cardinali protettori per le congregazioni religiose è una tradizione antica che risale ai primi secoli della Chiesa, quando il Papa nominava difensori e rappresentanti della fede. Con il passare del tempo, questa pratica si estese agli ordini religiosi, ai quali veniva assegnato un cardinale con il compito di proteggerne i diritti e le prerogative presso la Santa Sede. Anche la Società Salesiana di San Giovanni Bosco godette di tale favore, avendo diversi cardinali che la rappresentavano e proteggevano nelle sedi ecclesiali.

Origine del ruolo di Cardinale Protettore
L’usanza di avere un protettore risale ai primi secoli dell’Impero Romano, quando Romolo, fondatore di Roma, creò due ordini sociali: patrizi e plebei. Ogni plebeo poteva eleggere un patrizio come protettore, stabilendo un sistema di reciproco beneficio tra le due classi sociali. Questa pratica venne in seguito adottata anche dalla Chiesa. Uno dei primi esempi di protettore ecclesiastico è quello di San Sebastiano, nominato da Papa Caio nel 283 d.C. come difensore della Chiesa di Roma.

Nel XIII secolo, l’assegnazione di cardinali protettori agli ordini religiosi divenne una prassi consolidata. San Francesco d’Assisi fu uno dei primi a richiedere un cardinale protettore per il suo ordine. A seguito di una visione in cui i suoi frati venivano attaccati da rapaci, Francesco chiese al Papa di assegnare un cardinale come loro difensore. Innocenzo III acconsentì e nominò il cardinale Ugolino Conti, nipote del Papa. Da allora, gli ordini religiosi seguirono questa tradizione per ottenere protezione e supporto nei loro rapporti con la Chiesa.

Questa pratica si diffuse quasi come una necessità, poiché i nuovi ordini mendicanti e itineranti avevano uno stile di vita diverso da quello dei monaci con dimora fissa, ben conosciuti dai vescovi locali. Le distanze geografiche, i diversi sistemi politici dei luoghi in cui operavano i nuovi ordini religiosi e le difficoltà nelle comunicazioni dell’epoca richiedevano una figura autorevole che conoscesse a fondo le loro problematiche ed esigenze. Questa figura poteva rappresentarli presso la Curia Romana, difendere i loro diritti e interessi e intercedere presso la Santa Sede in caso di necessità. Il cardinale protettore non aveva giurisdizione ordinaria sugli ordini religiosi; il suo ruolo era quello di un protettore benevolo, anche se in particolari circostanze poteva ricevere poteri delegati.

Questa pratica si estese anche agli altri ordini religiosi e, nel caso della Società Salesiana, i cardinali protettori hanno svolto un ruolo cruciale nel garantire il riconoscimento e la protezione della giovane congregazione, soprattutto nei suoi primi anni di vita, quando essa cercava di consolidarsi all’interno della struttura della Chiesa Cattolica.

La scelta del Cardinale Protettore
Il rapporto tra don Bosco e la gerarchia ecclesiastica fu complesso, soprattutto nei primi anni della fondazione della congregazione. Non tutti i cardinali e vescovi vedevano con favore il modello educativo e pastorale proposto da don Bosco, in parte a causa del suo approccio innovativo e in parte per la sua insistenza nel rivolgersi alle classi più povere e svantaggiate.

La scelta del cardinale protettore non era casuale, ma avveniva con grande attenzione. Solitamente, si cercava un cardinale che avesse familiarità con l’ordine o che avesse dimostrato interesse per il tipo di lavoro svolto dalla congregazione. Nel caso dei salesiani, questo significava cercare cardinali che avessero una particolare attenzione per i giovani, per l’educazione o per le missioni, dato che queste erano le aree principali di attività della Società. Ovviamente, la nomina definitiva dipendeva dal Papa e dalla Segreteria di Stato.

Il ruolo del Cardinale Protettore per i Salesiani
Per la Società Salesiana, il cardinale protettore rappresentava una figura chiave nella sua interazione con la Santa Sede, aiutando a mediare eventuali controversie, garantire la corretta interpretazione delle regole canoniche e assicurare che le necessità dell’ordine fossero comprese e rispettate. A differenza di alcune congregazioni più antiche, che avevano già consolidato un forte rapporto con le autorità ecclesiastiche, i salesiani, nati in un’epoca di rapidi cambiamenti sociali e religiosi, necessitavano di un sostegno significativo per affrontare le sfide iniziali, sia a livello interno che esterno.

Uno degli aspetti più importanti del ruolo del cardinale protettore era la sua capacità di sostenere i salesiani nei rapporti con il Papa e la Curia. Questo ruolo di mediatore e protettore forniva alla congregazione un canale diretto con le alte sfere della Chiesa, permettendo loro di esprimere preoccupazioni e richieste che altrimenti avrebbero potuto essere ignorate o rimandate. Il cardinale protettore aveva anche il compito di vigilare affinché la Società Salesiana rispettasse le direttive del Papa e della Chiesa, assicurando che la loro missione rimanesse in linea con l’insegnamento cattolico.

In una sua visita a Roma, nel febbraio del 1875, don Bosco chiese al Santo Padre Pio IX la grazia di avere un cardinale protettore:

Nella stessa udienza egli domandò al Papa, se dovesse, come le altre Congregazioni religiose, chiedere un Cardinale Protettore. Il Papa testualmente gli rispose: – Finché sarò io in vita sarò sempre vostro Protettore, e della vostra Congregazione” (MB XI, 113).

Tuttavia, accorgendosi della necessità di una persona di riferimento che avesse l’autorità per portare avanti varie pratiche per la Società Salesiana, nel 1876 don Bosco tornò a chiedere al Papa un cardinale protettore:

Avendo poi io domandato che per sbrogliare i nostri negozi ecclesiastici a Roma, assegnasse a noi un Cardinale Protettore che perorasse le nostre cause presso la Santa Sede, come hanno tutti gli altri Ordini e Congregazioni, sorridente mi disse: – Ma quanti protettori volete? Non ne avete abbastanza di uno? – Facendomi intendere: voglio essere io il vostro Cardinale protettore; ne volete ancora altri? Sentendo parole di tanta bontà, lo ringraziai di tutto cuore e gli dissi: – Padre Santo, quando voi dite questo, io non cerco più altro difensore.” (MB XII, 221-222).

Dopo questa risposta appagante, don Bosco ottenne comunque un cardinale protettore nello stesso anno, 1876:

3° Ho fatta dimanda di un Cardinale protettore pel cui mezzo comunicare con S. S. Dapprima pareva che desiderasse egli stesso essere nostro Protettore, ma quando gli feci notare che il Cardinale Protettore era appunto un referendario delle cose Salesiane a S. S., che tali cose noi non potevamo trattare nelle Sacre Congregazioni perché lontani, S. Santità sarebbe appunto stato il nostro Protettore di fatto, il Cardinale avrebbe maneggiato le nostre cose nei vari dicasteri per riferirle poscia a S. S. – In questo senso va bene, egli aggiunse, e comunicherò ogni cosa alla Cong. dei VV. e RR. – Il Card. è l’Em.mo Oreglia che sarà protettore delle nostre Missioni, dei Cooperatori Salesiani, dell’Opera di Maria A.; dell’Arciconfraternita dei divoti di M. A. e di tutta la Congregazione Salesiana per gli affari che dovranno trattarsi in Roma presso alla S. Sede.” (MB XIII, 496-497)

Di questo cardinale fece cenno don Bosco nel suo scritto “Il più bel fiore del collegio apostolico ossia l’elezione di Leone XIII” (pp. 193-194):

XXVIII. Il Card. Luigi Oreglia
Luigi Oreglia dei Baroni di S. Stefano onora il Piemonte come il cardinale Bilio, essendo egli nato in Benevagienna nella diocesi di Mondovì il 9 luglio 1828. Fece i suoi studi teologici in Torino sotto il magistero de’ nostri valenti professori, che ne ammiravano la mente perspicace e l’amore indefesso al lavoro. Passò quindi a Roma nell’Accademia ecclesiastica, dove compì lodevolmente la sua educazione religiosa, ed attese allo studio delle lingue, principalmente della tedesca, in cui è valentissimo. Entrato nella prelatura, fu il 15 aprile 1858 nominato referendario di Segnatura, quindi mandato internunzio all’Aia in Olanda, donde poi passò in Portogallo, dopo essere stato preconizzato Arcivescovo di Damiata, succedendo in quell’importante ufficio diplomatico all’eminentissimo cardinale Perrieri. Trovò in Portogallo vive ancora certe tradizioni di Pombal, che con somma intelligenza e coraggio combatté. Per la qual cosa non riuscì troppo gradito a coloro che allora comandavano. Ed egli tornossene a Roma ed il Santo Padre, per dimostrare che se egli cessava di rappresentare la Santa Sede in Portogallo non era per nessun demerito, lo creò e pubblicò Cardinale nel Concistoro del 22 dicembre 1873, dandogli il titolo di Santa Anastasia e nominandolo prefetto della Sacra Congregazione delle Indulgenze e Sacre Reliquie. Il Cardinale Oreglia alle nobili maniere del gentiluomo aggiunge le virtù del sacerdote esemplare. Pio Nono l’ebbe sempre carissimo ed amava la sua conversazione piena di riserbo e di grazia. Egli va adagio ad impegnarsi in qualche affare, ma quando spende una parola non bada più a fatiche e disturbi purché riesca bene. È molto limosiniero. Il novello Pontefice lo tiene in grande considerazione e lo confermò nella carica di prefetto della Sacra Congregazione delle Indulgenze e Sacre Reliquie.”

Il cardinale Luigi Oreglia rimase protettore dei salesiani dal 1876 al 1878, anche se aveva già svolto questo compito in modo informale prima del 1876.

Tuttavia, ufficialmente, il primo cardinale protettore dei salesiani fu Lorenzo Nina, che svolse questo incarico dal 1879 al 1885. Leone XIII acconsentì alla richiesta di don Bosco di avere un cardinale protettore per la Società, e la notifica ufficiale avvenne dopo l’udienza del 29 marzo 1879:

Sei giorni dopo questa udienza, con biglietto della Segreteria di Stato recante la firma di monsignor Serafino Cretoni, si notificava ufficialmente a Don Bosco la nomina del Protettore, in questi onorifici termini: ‘La Santità di Nostro Signore, volendo che la Congregazione Salesiana, la quale va acquistando ogni giorno nuovi titoli alla speciale benevolenza della S. Sede per le opere di carità e di fede impiantate nelle varie parti del mondo, abbia uno speciale Protettore, si è benignamente degnata di conferire quest’officio al Sig. Cardinal Lorenzo Nina, Suo Segretario di Stato’. Al tempo di Pio IX faceva da Protettore il cardinale Oreglia, ma solo a titolo officioso, avendo quel Pontefice riserbato a sé la protezione della Società, bisognosa di particolare e paterna assistenza nei suoi primordi; ora invece si aveva il Protettore vero e proprio al pari delle altre Congregazioni religiose. Né la scelta poteva cadere su Prelato più benevolo; che, avendo conosciuto Don Bosco prima del cardinalato, nutriva per lui altissima stima e gli portava sincera affezione. Pregato da Don Bosco a voler essere il Protettore dei Salesiani, vi si era mostrato dispostissimo, dicendogli: – Non potrei offrirmi per questo al Santo Padre; ma se il Santo Padre me lo dice, accetto subito. – Diede prova eloquente del suo buon volere quando il Beato gli propose che, avendo Sua Eminenza tanto da fare, gli assegnasse una persona con cui trattare la faccenda delle Missioni. Rispose il Cardinale: – No, no; voglio che la trattiamo noi direttamente; passi domani alle quattro e mezzo, e ci parleremo meglio. È un miracolo il vedere una Congregazione venir su in questi tempi sulle rovine altrui, dove tutto si vorrebbe distruggere. – Il Beato sperimentò sovente quanto gli fosse giovevole una sì affettuosa protezione. Ritornato a Torino e comunicata al Capitolo Superiore la designazione pontificia del Protettore, inviò al Cardinale, in nome di tutta la Congregazione, una lettera di ringraziamento perché egli si fosse degnato di accettare quell’ufficio, di cordialissimo omaggio e di preghiera per le Missioni e forse anche per i privilegi; tanto ci è dato argomentare dalla seguente risposta di Sua Eminenza.” (MB XIV, 78-79)

Da questo momento in poi, la Congregazione Salesiana avrà sempre un cardinale protettore con grande influenza nella Curia Romana.

Oltre a questa figura ufficiale, vi sono sempre stati altri cardinali e alti prelati che, comprendendo l’importanza dell’educazione, hanno sostenuto i salesiani. Fra questi ricordiamo i cardinali Alessandro Barnabò (1801-1874), Giuseppe Berardi (1810-1878), Gaetano Alimonda (1818-1891), Luigi Maria Bilio (1826-1884), Luigi Galimberti (1836-1896), Augusto Silj (1846-1926) e molti altri.

Elenco dei Protettori della Società Salesiana di San Giovanni Bosco:

  Cardinale protettore SDB Periodo Nomina
  Beato Papa Pio IX    
1 Luigi OREGLIA 1876-1878  
2 Lorenzo NINA 1879-1885 29.03.1879 (MB XIV,78-79)
3 Lucido Maria PAROCCHI 1886-1903 12.04.1886 (ASV, Segr. Stato, 1886, prot. 66457; ASC D544, cardinali protettori, Parocchi)
4 Mariano RAMPOLLA DEL TINDARO 1903-1913 31.03.1093 (carta del cardinal Rampolla a don Rua)
5 Pietro GASPARRI 1914-1934 09.10.1914 (AAS 1914-006, p. 22)
6 Eugenio PACELLI (Pio XII) 1935-1939 02.01.1935 (AAS 1935-027, p.116)
7 Vincenzo LA PUMA 1939-1943 24.05.1939 (AAS 1939-031, p. 281)
8 Carlo SALOTTI 1943-1947 29.12.1943 (AAS 1943-036, p. 61)
9 Benedetto Aloisi MASELLA 1948-1970 10.02.1948 (AAS 1948-040, p.165)

L’ultimo protettore dei salesiani è stato il cardinale Benedetto Aloisi Masella, poiché il ruolo dei protettori fu annullato dalla Segreteria di Stato al tempo del Concilio Vaticano II, nel 1964. I protettori in carica rimasero fino alla loro morte, e con loro si spense anche l’ufficio ricevuto.

Questo è avvenuto perché, nel contesto contemporaneo, il ruolo del cardinale protettore ha perso parte della sua rilevanza formale. La Chiesa Cattolica ha subito numerose riforme nel corso del XX secolo, e molte delle funzioni che un tempo erano delegate ai cardinali protettori sono state incorporate nelle strutture ufficiali della Curia romana o sono state rese obsolete da cambiamenti nella governance ecclesiastica. Tuttavia, anche se la figura del cardinale protettore non esiste più con le stesse prerogative del passato, il concetto di protezione ecclesiastica rimane importante.

Oggi, i Salesiani, come molte altre congregazioni, mantengono un rapporto stretto con la Santa Sede attraverso diversi dicasteri e uffici curiali, in particolare il Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. Inoltre, molti cardinali continuano a sostenere personalmente la missione dei Salesiani, anche senza il titolo formale di protettore. Questa vicinanza e sostegno rimangono fondamentali per garantire che la missione salesiana continui a rispondere alle sfide del mondo contemporaneo, in particolare nell’educazione giovanile e nelle missioni.

L’istituzione dei cardinali protettori per la Società Salesiana fu un elemento cruciale per la sua crescita e il suo consolidamento. Grazie alla protezione offerta da queste eminenti figure ecclesiastiche, don Bosco e i suoi successori poterono portare avanti la missione salesiana con maggiore serenità e sicurezza, sapendo di poter contare sul supporto della Santa Sede. L’opera dei cardinali protettori si rivelò essenziale non solo per la difesa dei diritti della congregazione, ma anche per favorire la sua espansione in tutto il mondo, contribuendo a diffondere il carisma di don Bosco e il suo sistema educativo.




La vita secondo lo Spirito in Mamma Margherita (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

4. Esodo verso il sacerdozio del figlio
            Dal sogno dei nove anni, quando è la sola ad intuire la vocazione del figlio, «chissà che non abbia a diventare prete», è la più convinta e tenace sostenitrice della vocazione del figlio, affrontando per questo umiliazioni e sacrifici: «Sua madre allora, che voleva secondarlo a costo di qualunque sacrifizio, non esitò a prendere la risoluzione di fargli frequentare le scuole pubbliche di Chieri nell’anno seguente. Quindi si diede premura di trovar persone veramente cristiane presso le quali potesse collocarlo in pensione». Margherita segue con discrezione il cammino vocazionale e formativo di Giovanni, tra gravi strettezze economiche.
            Lo lascia sempre libero nelle sue scelte e non condiziona per nulla il suo cammino verso il sacerdozio, ma quando il parroco cerca di convincere Margherita perché Giovanni non intraprenda una scelta di vita religiosa, così da garantirle una sicurezza economica e un aiuto, subito raggiunge il figlio e pronuncia delle parole che resteranno scolpite tutta la vita nel cuore di Don Bosco: «Io voglio solamente che tu esamini attentamente il passo che vuoi fare, e che poi seguiti la tua vocazione senza guardar ad alcuno. Il parroco voleva che io ti dissuadessi da questa decisione, in vista del bisogno che potrei avere in avvenire del tuo aiuto. Ma io dico: in queste cose non c’entro, perché Dio è prima di tutto. Non prenderti fastidio per me. Io da te non voglio niente; niente aspetto da te. Ritieni bene: sono nata in povertà, sono vissuta in povertà, voglio morire in povertà. Anzi te lo protesto. Se tu ti risolvessi allo stato di prete secolare e per sventura diventassi ricco, io non verrò a farti neppure una sola visita, anzi non porrò mai più piede in casa tua. Ricordalo bene!».
            Ma in questo cammino vocazionale non manca di essere forte nei confronti del figlio, ricordandogli, in occasione della partenza per il seminario di Chieri, le esigenze legate alla vita sacerdotale: «Giovanni mio, tu hai vestito l’abito sacerdotale; io ne provo tutta la consolazione che una madre può provare per la fortuna di suo figlio. Ma ricordati che non è l’abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Se mai tu venissi a dubitare di tua vocazione, ah per carità! non disonorare quest’abito! Deponilo tosto. Amo meglio avere un povero contadino, che un figlio prete trascurato nei suoi doveri». Don Bosco non dimenticherà mai queste parole di sua madre, espressione sia della coscienza della dignità sacerdotale, che frutto di una vita profondamente retta e santa.
            Il giorno della Prima Messa di Don Bosco ancora una volta Margherita si rende presente con parole ispirate dallo Spirito, sia esprimendo il valore autentico del ministero sacerdotale, che la consegna totale del figlio alla sua missione senza alcuna pretesa o richiesta: «Sei prete; dici la Messa; da qui avanti sei adunque più vicino a Gesù Cristo. Ricordati però che incominciare a dir Messa vuol dire cominciar a patire. Non te ne accorgerai subito, ma a poco a poco vedrai che tua madre ti ha detto la verità. Sono sicura che tutti i giorni pregherai per me, sia ancora io viva, o sia già morta; ciò mi basta. Tu da qui innanzi pensa solamente alla salute delle anime e non prenderti nessun pensiero di me». Lei rinuncia completamente al figlio per offrirlo al servizio della Chiesa. Ma perdendolo lo ritrova, condividendo la sua missione educativa e pastorale tra i giovani.

5. Esodo dai Becchi a Valdocco
            Don Bosco aveva apprezzato e riconosciuto i grandi valori che aveva attinti nella sua famiglia: la sapienza contadina, la sana furbizia, il senso del lavoro, l’essenzialità delle cose, l’industriosità nel darsi da fare, l’ottimismo a tutta prova, la resistenza nei momenti di sfortuna, la capacità di ripresa dopo le batoste, l’allegria sempre e comunque, lo spirito di solidarietà, la fede viva, la verità e l’intensità degli affetti, il gusto per l’accoglienza e l’ospitalità; tutti beni che aveva trovato a casa sua e che lo avevano costruito in quel modo. È talmente segnato da questa esperienza che, quando pensa a un’istituzione educativa per i suoi ragazzi non vuole altro nome che quello di “casa” e definisce lo spirito che avrebbe dovuto improntarla con l’espressione “spirito di famiglia”. E per dare l’impronta giusta chiede a Mamma Margherita, ormai anziana e stanca, di lasciare la tranquillità della sua casetta in collina, per scendere in città e prendersi cura di quei ragazzi raccolti dalla strada, quelli che le daranno non poche preoccupazioni e dispiaceri. Ma lei va ad aiutare Don Bosco e a fare da mamma a chi non ha più famiglia e affetti. Se Giovanni Bosco impara alla scuola di Mamma Margherita l’arte di amare in modo concreto, generoso, disinteressato e verso tutti, la mamma condividerà fino in fondo e fino alla fine la scelta del figlio di dedicare la vita per la salvezza dei giovani. Questa comunione di spirito e di azione tra figlio e madre segna l’inizio dell’opera salesiana, coinvolgendo tante persone in questa divina avventura. Dopo aver raggiunto una situazione di tranquillità, accetta, non più giovane, di abbandonare la quieta vita e la sicurezza dei Becchi, per recarsi a Torino in una zona periferica e in una casa spoglia di tutto. È una vera ripartenza nella sua vita!

            Don Bosco dunque, dopo aver pensato e ripensato come uscire dalle difficoltà, andò a parlarne col proprio Parroco di Castelnuovo, esponendogli la sua necessità e i suoi timori.
                – Hai tua madre! Rispose il Parroco senza esitare un istante: falla venire con te a Torino.
Don Bosco, che aveva preveduto questa risposta, volle fare alcune riflessioni, ma Don Cinzano gli replicò:
                – Piglia con te tua madre. Non troverai nessuna persona più adatta di lei all’opera. Sta tranquillo; avrai un angelo al fianco! Don Bosco ritornò a casa convinto dalle ragioni postegli sott’occhio dal Prevosto. Tuttavia lo trattenevano ancora due motivi. Il primo era la vita di privazioni e di mutate abitudini, alle quali la madre avrebbe naturalmente dovuto andare soggetta in quella nuova posizione. La seconda proveniva dalla ripugnanza che egli provava nel proporre alla madre un ufficio che l’avrebbe resa in certo qual modo dipendente da lui. Per Don Bosco sua mamma era tutto, e col fratello Giuseppe, era abituato a tenere per legge indiscutibile ogni suo desiderio. Tuttavia dopo aver pensato e pregato, vedendo che non rimaneva altra scelta, concluse:
                – Mia madre è una santa e quindi posso farle la proposta!
Un giorno dunque la prese in disparte e così le parlò:
                – Io ho deciso, o madre, di far ritorno a Torino fra i miei cari giovanetti. D’ora innanzi non stando più al Rifugio avrei bisogno di una persona di servizio; ma il luogo dove mi toccherà abitare in Valdocco, per causa di certe persone che vi dimorano vicino, è molto rischioso, e non mi lascia tranquillo. Ho dunque bisogno di avere al mio fianco una salvaguardia per levar via ai malevoli ogni motivo di sospetto e di chiacchiere. Voi sola mi potreste togliere da ogni timore; non verreste volentieri a stare con me? A questa uscita non attesa la pia donna rimase alquanto pensosa, e poi rispose:
                – Mio caro figlio, tu puoi immaginare quanto costi al mio cuore l’abbandonare questa casa, tuo fratello e gli altri cari; ma se ti pare che tal cosa possa piacere al Signore io sono pronta a seguirti. Don Bosco l’assicurò, e ringraziatala, concluse:
                – Disponiamo dunque le cose, e dopo la festa dei Santi partiremo. Margherita si recava ad abitare col figlio, non già per condurre una vita più comoda e dilettevole, ma per dividere con lui stenti e pene a sollievo di più centinaia di ragazzi poveri ed abbandonati; vi si recava, non già attirata da cupidigia di guadagno, ma dall’amor di Dio e delle anime, perché sapeva che la parte di sacro ministero, presa ad esercitare da Don Bosco, lungi dal porgergli risorsa o lucro di sorta, lo obbligava a spendere i propri beni, e inoltre a cercare elemosina. Ella non si arrestò; anzi, ammirando il coraggio e lo zelo del figlio, si sentì maggiormente stimolata a farsene compagna ed imitatrice, sino alla morte.

            Margherita vive all’oratorio portando quel calore materno e la saggezza di una donna profondamente cristiana, la dedizione eroica al figlio in tempi difficili per la sua salute e la sua incolumità fisica, esercitando in tal modo un’autentica maternità spirituale e materiale verso il figlio sacerdote. Infatti si stabilisce a Valdocco non solo per cooperare all’opera iniziata dal figlio, ma anche per fugare ogni occasione di maldicenza che potesse sorgere dalla vicinanza di locali equivoci.
            Lascia la tranquilla sicurezza della casa di Giuseppe per avventurarsi con il figlio in una missione non facile e rischiosa. Vive il suo tempo in una dedizione senza riserve per i giovanetti «di cui erasi costituita madre». Ama i ragazzi dell’oratorio come suoi figli e si adopera per il loro benessere, la loro educazione e la vita spirituale, dando all’oratorio quel clima famigliare che fin dalle origini sarà una caratteristica delle case salesiane. «Se esiste la santità delle estasi e delle visioni, esiste anche quella delle pentole da pulire e delle calze da rammendare. Mamma Margherita fu una santa così».
            Nei rapporti con i ragazzi ebbe un comportamento esemplare, distinguendosi per la sua finezza di carità e la sua umiltà nel servire, riservandosi le occupazioni più umili. Il suo intuito di madre e di donna spirituale risulta nel riconoscere in Domenico Savio un’opera straordinaria della grazia.
            Anche all’oratorio tuttavia non mancano situazioni di prova e quando ci fu un momento di tentennamento per la durezza dell’esperienza, dovuta a una vita molto esigente, lo sguardo al Crocifisso additato dal figlio basta a infonderle energie nuove: «Da quell’istante più non isfuggì dal suo labbro una parola di lamento. Parve anzi d’allora in poi insensibile a quelle miserie».
            Bene riassume don Rua la testimonianza di Mamma Margherita all’oratorio, con la quale visse quattro anni: «Donna veramente cristiana, pia, di cuore generoso e coraggiosa, prudente, che tutta si consacrò alla buona educazione dei suoi figli e della sua famiglia adottiva».

6. Esodo verso la casa del Padre
            Era nata povera. Visse povera. Morì povera con indosso l’unico abito che usava; in tasca 12 lire destinate a comprarne uno nuovo, che mai acquistò.
            Anche nell’ora della morte è rivolta al figlio amato e lo lascia con parole degne della donna saggia: «Abbi grande confidenza con quelli che lavorano con te nella vigna del Signore… Sta’ attento che molti invece della gloria di Dio cercano l’utilità propria… Non cercare né eleganza né splendore nelle opere. Cerca la gloria di Dio, abbi per base la povertà di fatto. Molti amano la povertà negli altri, ma non in sé stessi. L’insegnamento più efficace è fare noi per i primi quello che comandiamo agli altri».
            Margherita, che aveva consacrato Giovanni alla Vergine Santissima, a Lei lo aveva affidato agli inizi degli studi, raccomandandogli la devozione e la propagazione dell’amore a Maria, ora lo rassicura: «La Madonna non mancherà di guidare le cose tue».
            Tutta la sua vita fu un dono totale di sé. Sul letto di morte può dire: «Ho fatto tutta la mia parte». Muore a 68 anni nell’oratorio di Valdocco il 25 novembre 1856. Al cimitero l’accompagnano i ragazzi dell’oratorio piangendola come “Mamma”.
            Don Bosco addolorato dice a Pietro Enria: «Abbiamo perduto la madre, ma sono certo che essa ci aiuterà dal Paradiso. Era una santa!». E lo stesso Enria aggiunge: «Don Bosco non esagerò a chiamarla santa, perché essa si sacrificò per noi e fu per tutti una vera madre».

Concludendo
            Mamma Margherita fu una donna ricca di vita interiore e dalla fede granitica, sensibile e docile alla voce dello Spirito, pronta a cogliere e realizzare la volontà di Dio, attenta ai problemi del prossimo, disponibile nel provvedere ai bisogni dei più poveri e soprattutto dei giovani abbandonati. Don Bosco ricorderà sempre gli insegnamenti e ciò che aveva appreso alla scuola della mamma e tale tradizione segnerà il suo sistema educativo e la sua spiritualità. Don Bosco aveva sperimentato che la formazione della sua personalità era vitalmente radicata nello straordinario clima di dedizione e di bontà della sua famiglia; per questo ha voluto riprodurne le qualità più significative nella sua opera. Margherita intrecciò la sua vita con quella del figlio e con gli inizi dell’opera salesiana: fu la prima “cooperatrice” di Don Bosco; con bontà fattiva divenne l’elemento materno del Sistema Preventivo. Alla scuola di Don Bosco e di Mamma Margherita ciò significa curare la formazione delle coscienze, educare alla fortezza della vita virtuosa nella lotta, senza sconti e compromessi, contro il peccato, con l’aiuto dei sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione, crescendo nella docilità personale, famigliare e comunitaria alle ispirazioni e mozioni dello Spirito Santo per rafforzare le ragioni del bene e testimoniare la bellezza della fede.
            Per tutta la Famiglia Salesiana questa testimonianza è un ulteriore invito ad assumere un’attenzione privilegiata alla famiglia nella pastorale giovanile, formando e coinvolgendo i genitori nell’azione educativa e evangelizzatrice dei figli, valorizzandone l’apporto negli itinerari di educazione affettiva e favorendo nuove forme di evangelizzazione e di catechesi delle famiglie e attraverso le famiglie. Mamma Margherita oggi è un modello straordinario per le famiglie. La sua è una santità di famiglia: di donna, di moglie, di madre, di vedova, di educatrice. La sua vita racchiude un messaggio di grande attualità, soprattutto nella riscoperta della santità del matrimonio.
            Ma occorre sottolineare un altro aspetto: uno dei motivi fondamentali per cui Don Bosco vuole sua madre accanto a sé a Torino è per trovare in lei una custodia al proprio sacerdozio. «Piglia con te tua madre», gli aveva suggerito il vecchio parroco. Don Bosco prende Mamma Margherita nella sua vita di prete e di educatore. Da bambino, orfano, era stata la mamma a prenderlo per mano, da giovane prete è lui che la prende per mano per condividere una missione speciale. Non si capisce la santità sacerdotale di Don Bosco senza la santità di Mamma Margherita, modello non solo di santità famigliare, ma anche di maternità spirituale verso i sacerdoti.




La vita secondo lo Spirito in Mamma Margherita (1/2)

            Don Lemoyne nella prefazione alla vita di Mamma Margherita ci lascia un ritratto davvero singolare: «Non descriveremo fatti straordinari ed eroici, ma ritrarremo una vita semplice, costante nella pratica del bene, vigilante nell’educazione dei figli, rassegnata e previdente nelle angustie della vita, risoluta in tutto ciò che il dovere le imponeva. Non ricca, ma con un cuore da regina; non istruita in scienze profane, ma educata nel santo timore di Dio; priva ben presto di chi doveva essere il suo sostegno, ma sicura con l’energia della sua volontà appoggiata all’aiuto celeste, seppe condurre a termine felicemente la missione che Dio le aveva affidata».
            Con queste parole ci vengono offerti i tasselli di un mosaico e un canovaccio su cui possiamo costruire l’avventura dello Spirito che il Signore ha fatto vivere a questa donna che, docile allo Spirito, si è rimboccata le mani affrontando la vita con fede operosa e carità materna. Percorreremo le tappe di questa avventura con la categoria biblica dell’“esodo”, espressione di autentico cammino nell’obbedienza della fede. Anche Mamma Margherita ha vissuto le sue “uscite”, anche lei ha camminato verso “una terra promessa”, attraversando il deserto e superando prove. Questo cammino lo cogliamo in modo riflesso nella luce del suo rapporto con il figlio e secondo due dinamiche tipiche della vita nello Spirito: una meno visibile, costituita dal dinamismo interiore del cambiamento di sé, condizione previa e indispensabile per aiutare gli altri; l’altra più immediata e documentabile: la capacità di rimboccarsi le maniche per amare il prossimo in carne e ossa, venendo in soccorso di chi avesse bisogno.

1. Esodo da Capriglio alla cascina Biglione
            Margherita fu educata nella fede, visse e morì nella fede. «Dio era in cima a tutti i suoi pensieri». Sentiva di vivere alla presenza di Dio ed esprimeva questa persuasione con l’affermazione a lei abituale: «Dio ti vede». Tutto le parlava della paternità di Dio e grande era in lei la fiducia nella Provvidenza, dimostrando gratitudine a Dio per i doni ricevuti e riconoscenza a tutti coloro che erano strumenti della Provvidenza. Margherita trascorre la sua vita in continua e incessante ricerca della volontà di Dio, unico criterio operativo delle sue scelte e delle sue azioni.
            A 23 anni sposa Francesco Bosco, rimasto vedovo a 27 anni, con il figlio Antonio e con la madre semiparalizzata. Margherita non diventa solo moglie, ma mamma adottiva e aiuto per la suocera. Questo passo è per i due sposi il più importante perché sanno bene che l’aver ricevuto santamente il sacramento del matrimonio è per loro fonte di molte benedizioni: per la serenità e la pace in famiglia, per i futuri figli, per il lavoro e per superare i momenti difficili della vita. Margherita vive con fedeltà e fecondità il suo sposalizio con Francesco Bosco. I loro anelli saranno segno di una fecondità che si allargherà alla famiglia fondata dal figlio Giovanni. Tutto ciò susciterà in Don Bosco e nei suoi ragazzi un grande senso di riconoscenza e di amore verso questa coppia di santi coniugi e genitori.

2. Esodo dalla cascina Biglione ai Becchi
            Solo dopo cinque anni di matrimonio, nel 1817, il marito Francesco muore. Don Bosco ricorderà che, uscendo dalla stanza la mamma in lacrime «mi prese per mano», e lo portò fuori. Ecco l’icona spirituale ed educativa di questa madre. Prende per mano il figlio e lo conduce fuori. Già da questo momento c’è quel «prendere per mano», che accomunerà madre e figlio sia nel cammino vocazionale che nella missione educativa.
            Margherita si trova in una situazione molto difficile dal punto di vista affettivo ed economico, compresa una pretestuosa vertenza mossale dalla famiglia Biglione. Ci sono debiti da pagare, il duro lavoro nei campi e una terribile carestia da affrontare, ma lei vive tutte queste prove con grande fede e incondizionata fiducia nella Provvidenza.
            La vedovanza le apre una nuova vocazione di educatrice attenta e premurosa verso i propri figli. Ella si dedica con tenacia e coraggio alla sua famiglia, rifiutando una vantaggiosa proposta matrimoniale. «Dio mi ha dato un marito e me lo ha tolto; morendo egli mi affidò tre figli, ed io sarei madre crudele, se li abbandonassi nel momento in cui hanno più bisogno di me… Il tutore… è un amico, io sono la madre dei miei figli; non li abbandonerò mai, quando anche mi si volesse dare tutto l’oro del mondo».
            Educa saggiamente i figli, anticipando l’ispirazione pedagogica del Sistema Preventivo. È una donna che ha fatto la scelta di Dio e sa trasmettere ai suoi figli, nella vita di tutti i giorni, il senso della sua presenza. Lo fa in modo semplice, spontaneo, incisivo, cogliendo tutte le piccole occasioni per educarli a vivere nella luce della fede. Lo fa anticipando quel metodo «della parola all’orecchio» che Don Bosco userà poi con i ragazzi per richiamarli alla vita di grazia, alla presenza di Dio. Lo fa aiutando a riconoscere nelle creature l’opera del Creatore, che è Padre provvidente e buono. Lo fa raccontando i fatti del Vangelo e la vita dei santi.
Educazione cristiana. Prepara i figli a ricevere i sacramenti, trasmettendo loro un vivissimo senso della grandezza dei misteri di Dio. Giovannino Bosco riceve la prima Comunione il giorno di Pasqua del 1826: «O caro figlio, fu questo per te un gran giorno. Sono persuasa che Dio ha veramente preso possesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare quanto puoi per conservarti buono fino alla fine della tua vita». Queste parole di Mamma Margherita fanno di lei una vera madre spirituale dei suoi figli, in particolare di Giovannino, che si dimostrerà subito sensibile a questi insegnamenti, che hanno il sapore di una vera iniziazione, espressione della capacità di introdurre al mistero della grazia in una donna illetterata, ma ricca della sapienza dei piccoli.
            La fede in Dio si riflette nell’esigenza di rettitudine morale che pratica con sé stessa e inculca nei figli. «Contro il peccato aveva dichiarato una guerra perpetua. Non solo abborriva essa ciò che era male, ma si studiava di tenere lontano l’offesa del Signore anche da coloro che non le appartenevano. Quindi era sempre all’erta contro lo scandalo, prudente, ma risoluta e a costo di qualunque sacrificio».
            Il cuore che anima la vita di Mamma Margherita è un immenso amore e devozione verso la santissima Eucaristia. Ne sperimenta il valore salvifico e redentore nella partecipazione al santo sacrificio e nell’accettare le prove della vita. A questa fede e a questo amore educa i suoi figli fin dalla più tenera età, trasmettendo quella convinzione spirituale ed educativa che troverà in Don Bosco un prete innamorato dell’Eucaristia e che farà dell’Eucaristia una colonna del suo sistema educativo.
            La fede trova espressione nella vita di preghiera e in particolare la preghiera in comune in famiglia. Mamma Margherita trova la forza della buona educazione in un’intensa e curata vita cristiana. Precede con l’esempio e orienta con la parola. Alla sua scuola Giovannino apprende così in forma vitale la forza preventiva della grazia di Dio. «L’istruzione religiosa, che imparte una madre con la parola, con l’esempio, col confrontare la condotta del figlio, coi precetti particolari del catechismo, fa sì che la pratica della Religione diventi normale e il peccato si rifiuti per istinto, come per istinto si ama il bene. L’esser buono diventa un’abitudine, e la virtù non costa grande sforzo. Un fanciullo così educato deve fare una violenza a sé stesso per divenir malvagio. Margherita conosceva la forza di simile educazione cristiana e come la legge di Dio, insegnata col catechismo tutte le sere e ricordata di frequente anche lungo il giorno, fosse il mezzo sicuro per rendere i figli obbedienti ai precetti materni. Essa quindi ripeteva le domande e le risposte tante volte, quanto era necessario perché i figli le imparassero a memoria».

Testimone di carità. Nella sua povertà, pratica con gioia l’ospitalità, senza fare distinzioni, né esclusioni; aiuta i poveri, visita i malati e i figli apprendono da lei ad amare smisuratamente gli ultimi. «Era di carattere sensibilissimo, ma questa sensibilità era talmente trasnaturata in carità, che a buon diritto poteva esser chiamata la mamma di coloro che si trovavano in necessità». Questa carità si manifesta in una spiccata capacità di comprendere le situazioni, di trattare con le persone, di fare scelte giuste al momento giusto, di evitare eccessi e di mantenere in tutto un grande equilibrio: «Una donna di molto senno» (Don Giacinto Ballesio). La ragionevolezza dei suoi insegnamenti, la coerenza personale e la fermezza senza ira, toccano l’animo dei ragazzi. I proverbi e i detti fioriscono con facilità sulle sue labbra e in essi condensa precetti di vita: «Una cattiva lavandaia non trova mai una buona pietra»; «Chi a vent’anni non sa, a trenta non fa e sciocco morrà»; «La coscienza è come il solletico, chi lo sente e chi non lo sente».
            In particolare va sottolineato come Giovannino Bosco sarà un grande educatore dei ragazzi, «perché aveva avuto una mamma che aveva educato la sua affettività. Una mamma buona, carina, forte. Con tanto amore educò il suo cuore. Non si può capire Don Bosco senza Mamma Margherita. Non lo si può capire». Mamma Margherita ha contribuito con la sua mediazione materna all’opera dello Spirito nella plasmazione e formazione del cuore del figlio. Don Bosco imparò ad amare, come egli stesso dichiara, in seno alla Chiesa, grazie a Mamma Margherita e con l’intervento soprannaturale di Maria, che gli fu data da Gesù come “Madre e Maestra”.

3. Esodo dai Becchi alla cascina Moglia
            Un momento di grande prova per Margherita sono le difficili relazioni tra i figli. «I tre figlioletti di Margherita, Antonio, Giuseppe e Giovanni, erano diversi per indole e per inclinazioni. Antonio era rozzo di modi, di poca o nessuna delicatezza di sentimenti, esageratore manesco, vero ritratto del Me ne infischio io! Viveva di prepotenze. Spesse volte si lasciava andare a battere i fratellini e Mamma Margherita doveva correre per levarglieli di mano. Essa però non usò mai della forza per difenderli e fedele alla sua massima, non torse mai ad Antonio neppure un capello. Si può immaginare qual padronanza avesse Margherita sovra di sé per comprimere la voce del sangue e dell’amore che portava sviscerato a Giuseppe e a Giovanni. Antonio era stato messo a scuola e avea imparato a leggere e a scrivere, ma vantavasi di non aver mai studiato e di non essere andato a scuola. Non avea attitudine agli studi, si occupava dei lavori nella campagna».
            D’altra parte Antonio era in situazione di particolare disagio: maggiore di età, era ferito nella sua duplice condizione di orfano di padre e di madre. Egli nonostante le sue intemperanze è in genere remissivo, grazie all’atteggiamento di Mamma Margherita che riesce a dominarlo con bontà ragionante. Col tempo purtroppo la sua insofferenza nei confronti soprattutto di Giovannino, che non si lasciava facilmente sottomettere, andrà crescendo e anche le sue reazioni nei confronti di Mamma Margherita saranno più dure e a volte pesanti. In particolare Antonio non accetta che Giovannino si dedichi agli studi e le tensioni arriveranno a un punto culminante: «Voglio finirla con questa grammatica. Io sono venuto grande e grosso, non ho mai veduto questi libri». Antonio è figlio del suo tempo e della sua condizione contadina e non riesce né a comprendere, né ad accettare che il fratello possa dedicarsi allo studio. Tutti sono turbati, ma chi soffre più di tutti è Mamma Margherita, che era coinvolta in prima persona e aveva giorno dopo giorno la guerra in casa: «Mia madre era afflittissima, io piangeva, il cappellano addolorato».
            Di fronte alla gelosia e all’ostilità di Antonio, Margherita cerca la soluzione ai conflitti famigliari, inviando per circa due anni Giovannino alla cascina Moglia e successivamente provvede in modo irremovibile, di fronte alle resistenze di Antonio, alla divisione dei beni, al fine di permettere a Giovanni di studiare. Certamente è solo il dodicenne Giovannino che se ne va da casa, ma anche la Madre vive questo profondo distacco. Non dimentichiamo che Don Bosco nelle Memorie dell’oratorio non parla di questo periodo. Tale silenzio fa pensare ad un vissuto difficile da elaborare, essendo in quel tempo un ragazzino di dodici anni, costretto ad andarsene da casa per l’impossibilità di convivenza con il fratello. Giovanni soffre in silenzio, attende l’ora della Provvidenza e con lui Mamma Margherita, che non vuole chiudere il cammino del figlio, ma aprirlo attraverso vie speciali, affidandolo ad una buona famiglia. La soluzione presa dalla mamma e accettata dal figlio era una scelta temporanea in vista di una soluzione definitiva. Era fiducia e abbandono in Dio. Madre e figlio vivono una stagione di attesa.

(continua)




Gran santo, gran manager

            Non è facile scegliere fra le centinaia di lettere inedite di don Bosco che abbiamo recuperato in questi ultimi decenni quelle che più meritano di essere presentate e commentate. Questa volta ne prendiamo una molto semplice, ma che in poche righe sintetizza tutto un progetto di opera educativa salesiana e ci offre tante altre interessanti notizie. Si tratta di quella scritta il 7 maggio 1877 ad un personaggio trentino, un certo Daniele Garbari, che a nome di due fratelli gli aveva più volte richiesto come poteva fondare un istituto educativo nella sua terra, come quelli che don Bosco stava fondando in tutta Italia, Francia e Argentina.

Pregiatissimo sig. Garbari,

La mia assenza da Torino fu cagione del ritardo a riscontrare alle sue lettere, che ho regolarmente ricevuto. Godo assai che questa nostra istituzione sia ben accolta in questi suoi paesi. Più sarà conosciuta e più sarà ben voluta dagli stessi governi; perciocché si voglia o non si voglia, ma i fatti ci assicurano che i giovanetti pericolanti bisogna aiutarli per farne buoni cittadini o mantenerli nel disonore entro le carceri.
Riguardo poi ad impiantare un istituto simile a questo nella città o nei paesi di Trento non occorre gran cosa per cominciare:
1° Un locale capace di ricoverare un certo numero di fanciulli, ma che abbiano nell’interno i rispettivi opifici o laboratori.
2° Qualche cosa che possa somministrare un po’ di pane al direttore ed alle altre persone che lo coadiuvano nell’assistenza e direzione.
I ragazzi sono sostenuti:
1° da quel poco di pensione mensile che taluni di essi possono pagare, oppure pagano i parenti o altre persone che li raccomandano.
2° Dal po’ di guadagno che dà il lavoro.
3° Dai sussidi dei municipi, dal governo, congregazioni di carità, e dalle oblazioni dei privati. In questa guisa si reggono tutte le nostre case di artigianelli, e coll’aiuto di Dio siamo andati avanti bene. Bisogna però ritenere per base che noi siamo sempre stati e saremo sempre per l’avvenire estranei ad ogni cosa che si riferisca alla politica.
Nostro scopo dominante è di raccogliere fanciulli pericolanti per farne dei buoni cristiani ed onesti cittadini. Questa sia la prima cosa da far bene comprendere alle autorità civili e governative.
Come prete poi io debbo essere in pieno accordo coll’autorità ecclesiastica; perciò quando si trattasse di concretare la cosa, io scriverei direttamente all’Arcivescovo di Trento, il quale per certo non opporrà difficoltà.
Eccole il mio pensiero preliminare. Continuando la pratica ed occorrendo altro lo scriverò. La prego di ringraziare da parte mia tutte quelle persone che mostransi a me benevole.
Ho voluto scrivere io stesso colla mia brutta calligrafia, altra volta cederò la penna al mio segretario, affinché più facilmente si possa leggere lo scritto.

Mi creda colla massima stima e gratitudine con cui ho l’onore di professarmi Di V. S. Stimabil.mo

Umile servitore Sac. Gio. Bosco Torino, 7 maggio 1877

Immagine positiva dell’opera salesiana
            Anzitutto la lettera ci informa come don Bosco, dopo l’approvazione pontificia della congregazione salesiana (1874), l’apertura della prima casa salesiana in Francia (1875) e la prima spedizione missionaria in America Latina (1875), era sempre occupatissimo nel visitare e sostenere le sue opere già esistenti e nell’accettare o meno le moltissime che gli venivano proposte in quegli anni da ogni parte. All’epoca della lettera aveva il pensiero di aprire le prime case delle Figlie di Maria Ausiliatrice oltre quella di Mornese – ben sei nel biennio 1876-1877 – e soprattutto gli interessava stabilirsi a Roma, dove da oltre 10 anni tentava inutilmente di avere una sede. Niente da fare. Un altro piemontese doc come don Bosco, un “prete del movimento” come lui, non era gradito in riva al Tevere, nella Roma Capitale già zeppa di invisi piemontesi, da certe autorità pontificie e da certo clero romano. Per tre anni dovette “accontentarsi” della “periferia” romana, vale a dire dei Castelli Romani e di Magliano Sabino.

            Paradossalmente capitava il contrario presso le amministrazioni cittadine e le stesse autorità di governo del Regno d’Italia, dove don Bosco contava, se non amici – avevano idee troppo distanti – almeno grandi estimatori. E per un motivo molto semplice, cui ogni governo era interessato: gestire il neonato paese Italia con cittadini onesti, operosi, rispettosi della legge, anziché popolare le carceri di “criminali” vagabondi, incapaci di mantenere sé e la propria famiglia con un proprio dignitoso lavoro. A distanza di tre decenni, nel 1900, il celebre antropologo e criminologo ebreo Cesare Lombroso avrebbe dato pienamente ragione a don Bosco quando scriveva: “Gli istituti salesiani rappresentano uno sforzo colossale e genialmente organizzati per prevenire il delitto, l’unico anzi che si sia fatto in Italia”. Come ben dice la lettera in questione, l’immagine delle opere salesiane in cui, senza schierarsi con i vari partiti politici, si educavano i ragazzi a diventare “buoni cristiani e onesti cittadini” era positiva, e ciò anche nell’impero austro-ungarico, cui all’epoca appartenevano il Trentino e la Venezia Giulia.

Tipologia di una casa salesiana
            Nel prosieguo della lettera don Bosco passava a presentare la struttura di una casa di educazione: ambienti dove poter ospitare i ragazzi (e sottintendeva almeno 5 cose: cortile per giocare, aule per studiare, refettorio per mangiare, camerata per dormire, chiesa per pregare) e “opifici o laboratori” dove insegnare un mestiere con cui i giovani potevano vivere ed avere un futuro una volta lasciato l’istituto. Quanto alle risorse economiche indicava tre cespiti: le minime pensioni mensili che i genitori-parenti dei ragazzi potevano pagare, il piccolo guadagno dei laboratori artigianali, i sussidi della beneficienza pubblica (governo, municipi) e soprattutto privata. Era esattamente l’esperienza di Valdocco. Ma don Bosco qui taceva una cosa importante: la totale consacrazione alla missione educativa del direttore e dei suoi stretti collaboratori, preti e laici, i quali al prezzo di un tozzo di pane e di un letto spendevano le 24 ore del giorno in lavoro, preghiera, insegnamento e assistenza. Così almeno si faceva nelle case salesiane dell’epoca, apprezzatissime tanto dalle autorità civili, quanto da quelle religiose, i vescovi anzitutto, senza il cui assenso evidentemente non si poteva fondare una casa “che educava evangelizzando e evangelizzava educando” come quella salesiana.

Risultato
            Non sappiamo se ci fu un seguito di questa lettera. Di certo il progetto di fondazione salesiana del sig. Garbari non andò in porto. E così decine di altre proposte di fondazioni. Ma è storicamente accertato che tanti altri istitutori, sacerdoti e laici, in tutta Italia si ispirarono all’esperienza di don Bosco fondando opere similari, ispirate al suo modello educativo e al suo sistema preventivo.
            Il Garbari dovette ritenersi comunque soddisfatto: don Bosco gli aveva suggerito una strategia che a Torino e altrove funzionava… e poi aveva nelle proprie mani un suo autografo, che per quanto di difficile “decifrazione”, era sempre quello di un santo. Tant’è che lo ha conservato gelosamente e oggi è custodito nell’Archivio Salesiano Centrale di Roma.




Un beato a Chambéry. Camille Costa de Beauregar, Fondatore di “Bocage”

Camille Costa de Beauregard(1841-1910), sacerdote savoiardo nato a Chambéry, avrebbe potuto trarre vantaggio dal suo alto status sociale. Invece, ha donato la sua vita ai più svantaggiati, dedicandosi agli orfani e ai più poveri tra i poveri, ai giovani e alla loro istruzione. Fondò un orfanotrofio per ragazzi a Le Bocage (Chambéry). Sarà beatificato nel 17 maggio del 2025.

Camille Costa de Beauregard nacque il 17 febbraio 1841. Una targa in marmo sulla facciata principale di un edificio in rue Jean-Pierre Veyrat (allora rue Royale) a Chambéry ricorda l’evento.
Era la residenza invernale della sua famiglia, che viveva il resto dell’anno nel castello di La Motte-Servolex.

Suo padre, il marchese Pantaléon Costa de Beauregard, era un alto deputato di Torino, un uomo di lettere, arte e scienza (era stato nominato per tre volte presidente dell’Accademia di Savoia); era anche un fervente cristiano che non aveva mai compromesso la sua fede. Pur essendo molto vicino al re Carlo Alberto, quando la Savoia fu annessa alla Francia (1860) non esitò a schierarsi con Napoleone III, per il suo regime, più favorevole alla Chiesa rispetto a quello di Cavour.
La rinuncia alla brillante carriera torinese fu compensata dalla nomina a Presidente del Consiglio Generale di Savoia e dall’assegnazione della Legione di Onore. La sua fede, che lo portò a rifiutare ogni compromesso, si nutrì di una pratica religiosa regolare e si concretizzò in numerose azioni caritatevoli.

La madre di Camille, Marthe de Saint Georges de Verac, era stata segnata dalla morte sul patibolo di tre delle sue nonne. Aveva conservato un forte senso della brevità della vita e della natura effimera delle cose terrene. Uno livello spirituale che si riflette nel modo in cui alleva i suoi figli: sei maschi e tre femmine (altri due sono morti in tenera età). Li educò secondo il loro rango, ma con un rigore piuttosto vincolante e un disinteresse per qualsiasi benessere o piacere che non considerasse essenziale. Con il passare del tempo e con il progredire della maternità, divenne più dolce e comprensiva.
Come il marito, la marchesa era molto attenta alle miserie umane. Aveva abituato i suoi figli a dare una moneta a un povero che incontravano o a condividere la merenda con i malati nel piccolo ospedale costruito dal marchese nella tenuta.

Dopo tre anni di studi con i Fratelli delle Scuole Cristiane al Collegio de la Motte-Servolex, il giovane Camille, quinto figlio di una famiglia di fratelli, continuò la sua educazione nelle scuole dei gesuiti in Francia e in Belgio fino alla fine della scuola secondaria. All’età di sedici anni fu colpito dal tifo, aggravato da gravi complicazioni polmonari. I genitori lo richiamarono al castello per continuare gli studi sotto la guida di un precettore, l’abate Chenal, dal settembre 1857.

Insegnante rinomato del collegio di Rumilly, l’abate Chenal si adattò ai ritmi del suo allievo, perché era in grado di discernere la gravità della crisi che il suo allievo stava attraversando a livello fisico, morale e spirituale. Aspettò che avesse superato la sua estrema debolezza (tre mesi a letto), poi lo accompagnò alle cure termali a Aix-les-Bains, a Biarritz…
Camille trascorreva così due o tre anni, alternando il lavoro, la lettura, i viaggi in treno, le sedute di pianoforte o di pittura, le passeggiate sulle colline circostanti e, più tardi, un lungo trekking intorno al Monte Bianco… e persino partecipando alle feste dei giovani nobili e borghesi di Chambéry, dove brillava per la sua cortesia, il suo umorismo, il fascino della sua conversazione e la sua eleganza nel vestire… che gli valsero il soprannome di: “Bel cavaliere”.

In quel periodo, un lassismo religioso lo portò a perdere la fede al punto di non mettere più piede in chiesa. Tuttavia, su consiglio dell’abate Chenal, rimase fedele alla recita quotidiana di una preghiera a Maria, la “Ricordati o piissima Vergine Maria”.

E poi arrivò il giorno in cui tutto cambiò, perché il Signore da cui era fuggito per tanto tempo non aveva mai smesso di aspettarlo. Lo aspettava, infatti, nella cattedrale di Chambéry, dove si sentiva attratto ad entrare suo malgrado. Ed era l’illuminazione della sua anima. Dietro il pilastro contro il quale si era nascosto, improvvisamente riscoprì la fede della sua infanzia e sentì la chiamata al sacerdozio, alla quale decise di rispondere.

“Vedo ancora il pilastro della cattedrale dietro il quale mi inginocchiai… e dove piansi dolci lacrime, perché quello fu il giorno in cui tornai a Dio… In quel giorno, la mia anima prese possesso del mio Dio per sempre, e credo che quella fu l’origine della mia vocazione al sacerdozio”.

Nel settembre del 1863, Camille entra nel seminario francese di Roma, accompagnato dall’abate Chenal. I suoi anni in seminario rimarranno, dirà in seguito, i migliori della sua vita.
Fu ordinato sacerdote nella Basilica di San Giovanni in Laterano il 26 maggio 1866.
Rifiutando l’alta carica ecclesiastica a lui riservata, tornò a Chambéry nel giugno 1867.
Il suo vescovo, monsignor Billiet, gli offrì una posizione onoraria, che egli rifiutò.
Su sua richiesta, gli fu affidato il posto di vicario quattro della cattedrale di Chambéry, senza alloggio né retribuzione. Questo gli permise di occuparsi degli operai che stavano lavorando duramente alla costruzione della cattedrale, che guadagnavano poco e non avevano alcuna copertura sociale.
Per loro istituì una cassa di mutuo soccorso con il nome di “Saint François de Sales”. Mons. Billiet aggiunse al suo ministero le funzioni di confessore e predicatore.

1867 IL COLERA
Nell’agosto del 1867, il colera colpì la città, facendo 135 vittime fino all’autunno. L’abate Costa ebbe pietà di tutti gli orfani che si trovavano senza genitori, senza un tetto sulla testa, senza soldi. Ne accolse una mezza dozzina nel bilocale che aveva affittato in strada Saint-Réal. Ma il loro numero crebbe presto ed egli ebbe bisogno di una casa per ospitarli. A questo scopo, il conte di Boigne, grande benefattore della città di Chambéry, gli concesse l’ex edificio della dogana su un ettaro di terreno: questo era Le Bocage.

L’Abate Camille cercava un assistente che lo aiutasse a far partire la sua opera. L’Abate Chenal, suo ex precettore, rispose favorevolmente alla sua richiesta.
È così che nel marzo 1868 nasce l’Orfanotrofio di Bocage.
Grazie ai propri fondi, a un sostanzioso contributo del conte di Boigne e ai versamenti regolari della sua famiglia (in particolare della madre), dei Padri Certosini e di altri donatori, Camille poté ristrutturare i locali, ampliarli e costruire una cappella… Il numero di alunni salì a 135.

Gli abati Costa e Chenal dovettero circondarsi di persone che si prendessero cura di loro: dopo i Fratelli delle Scuole Cristiane per i primi anni, fecero appello alle Figlie della Carità che svolsero i molteplici ruoli di insegnante, supervisore, infermiere, cuoche e madri sostitutive, soprattutto per i bambini più piccoli…
Dall’età di tredici anni, i ragazzi impararono il mestiere di giardiniere nelle serre costruite su terreni acquistati di anno in anno. Per i più grandi, l’Abate Costa acquistò la tenuta La Villette a La Ravoire nel 1875 (grazie ai fondi donati dalla madre e dalla sorella Félicie), dove si esercitarono a coltivare ortaggi, alberi da frutto, a lavorare nell’orto e anche l’allevamento di pesci. Camille si trasferì con loro a La Villette e affidò la gestione di Le Bocage all’abate Chenal.
Questo esperimento si concluse dieci anni dopo, alla morte dell’abate Chenal. L’Abate Costa tornò a Le Bocage con i suoi apprendisti più anziani, per i quali costruì una nuova ala parallela alla prima.
Nel corso degli anni, fu assistito da un gruppo di sacerdoti formati nello spirito del Bocage, tra cui il nipote Ernest Costa de Beauregard.

Ma cos’è questo spirito del Bocage?
È un’educazione basata su quella di San Francesco di Sales, simile a quella di Don Bosco, che l’abate Costa incontrò a Torino nel 1879. Si trattava di un’educazione preventiva, opposta a quella dei sistemi educativi dell’epoca, fatti di obblighi e divieti, con una forte dose di punizioni per chi trasgredisce le norme.
Un’educazione basata sulla fiducia e sull’affetto, su un profondo spirito familiare, sulla valorizzazione dello sforzo, sull’appello alla ragione e sull’ascolto. Il tutto in un clima di fede che viene trasmesso e vissuto ogni giorno.
Per rendere più efficiente l’orario di lavoro, Camille Costa de Beauregard diede ampio spazio alle attività di svago: passeggiate, teatro, musica (canto, banda di ottoni), nuoto, pasti festivi in occasione delle feste liturgiche, dove gli anziani erano invitati a riunirsi con le loro famiglie.

Appena terminato l’apprendistato, l’abate Costa trovò loro un lavoro come giardinieri e si tenne in stretto contatto con ciascuno di loro. In questo modo, Camille raggiunse il suo obiettivo di formare “buoni cristiani, buoni lavoratori e buoni padri”.
Nonostante la salute cagionevole per tutta la vita, l’abate Costa continuò a guidare Le Bocage fino alla sua morte, avvenuta il 25 marzo 1910. Era il Venerdì Santo, che quell’anno coincideva con la festa dell’Annunciazione.
Fu sepolto nel cimitero di Paradis; un anno dopo, nel 1911, il suo corpo fu riportato a Le Bocage. Si dice che gli anziani e i giovani dell’orfanotrofio disarcionarono i cavalli e tirarono loro stessi il carro funebre fino a Le Bocage, dove il corpo fu deposto in una tomba appositamente preparata.

La prossima generazione è assicurata
Per volontà del Fondatore, il nipote Ernest Costa de Beauregard gli è succeduto alla guida dell’associazione. È il figlio di suo fratello Josselin. Dopo essere diventato sacerdote qualche anno fa, ha raggiunto lo zio nel Bocage ed è diventato uno dei suoi più stretti collaboratori.
Per 44 anni, assistito in particolare dall’abate François Blanchard, anch’egli uno degli orfani accolti da Camille, ha portato avanti l’opera dello zio, facendo in modo che lo spirito del fondatore vivesse e perpetuandone la memoria.

Prima della sua morte, nel 1954, l’abate Ernest consegnò l’opera ai Padri Salesiani di Don Bosco, che rimasero fino al 2016, mantenendola nello stesso spirito. Essi continuano a supervisionare i due stabilimenti che sono ancora oggi molto vivi:
– la Casa dei bambini
– il Liceo Professionale Orticolo (professioni agricole, assistenza alla persona).

2012-2024 – Verso la beatificazione
Non appena il fondatore morì, la sua fama di santità si diffuse a Chambéry.
Nel 1913, Ernest Costa de Beauregard pubblicò la prima biografia dello zio, intitolata “Une âme de saint – Le Serviteur de Dieu, Camille Costa de Beauregard”, che fu ristampata più volte.

Nel 1925, una petizione dei sacerdoti della diocesi fu inviata a Mons. Castellan, vescovo di Chambéry, chiedendogli di prendere provvedimenti per la sua beatificazione. Il primo processo diocesano si tenne nel 1926-1927; nel 1956 fu pubblicata la “Positio Super Introductione Causae”; nel gennaio 1961 Papa Giovanni XXIII emanò il “Decreto di introduzione della Causa”; nel 1965 seguì il processo apostolico, durante il quale fu esumato il corpo del fondatore; la “Positio Super Virtutibus” fu pubblicata nel 1982.

Nel 1991, Camille Costa de Beauregard è stato proclamato Venerabile da Papa Giovanni Paolo II, che ha così riconosciuto l’eroicità delle sue virtù (decreto del 22 gennaio 1991).

Nel 1997, padre Robert FRITSCH, salesiano della comunità di Bocage, ha pubblicato “Camille Costa De Beauregard. Fondateur de L’Œuvre des Jeunes du Bocage à Chambéry, 1841-1910, Chronique d’une Œuvre Sociale et éducative dans la Savoie du XIXeme Siecle”, una cronaca storica di 371 pagine, (La Fontaine de Siloé).

Fu allora che Mons. Ulrich, Arcivescovo di Chambéry, volle rilanciare il processo di beatificazione del fondatore di Le Bocage. Chiese a Françoise Bouchard di scrivere una biografia, che fu pubblicata nel 2010 da Salvator con il titolo “Camille Costa de Beauregard – La Noblesse du Cœur”.

Da allora, il Comitato Costa de Beauregard, istituito nel 2012 da Mons. Ballot, e l’Associazione degli Amici di Camille Costa de Beauregard, creata nel 2017 per sostenere il Comitato, lavorano attivamente per portare avanti la Causa di Beatificazione.
In particolare, l’obiettivo è quello di documentare e promuovere il riconoscimento di un presunto miracolo dovuto all’ intercessione di Camille: la guarigione nel 1910 del giovane René Jacquemond guarisce da una grave ferita all’occhio. Viene compilato un dossier che viene inviato al Dicastero per le Cause dei Santi a Roma tramite don Pierluigi Cameroni, postulatore della Causa.

Cinque rapporti – redatti tra il 2015 e il 2018 nella regione della Savoia e in Francia da oftalmologi riconosciuti – hanno dichiarato che l’affezione che soffriva il giovane “non poteva che progredire verso la non guarigione o addirittura la perdita dell’occhio”, e che la repentinità della guarigione era inspiegabile.

Il culmine di un lungo processo

Alla fine di ottobre 2021, il vescovo Ballot ha convocato un tribunale diocesano presso il santuario di Myans per concludere l’indagine sul presunto miracolo. Un caso dettagliato sarà inviato a Roma.

Il 30 marzo 2023, gli esperti convocati a Roma dal Dicastero per le Cause dei Santi hanno riconosciuto all’unanimità il carattere scientificamente inspiegabile di una guarigione attribuita all’intercessione di Camille. Ci sono ancora diverse tappe da percorrere, ma questo riconoscimento apre la strada alla beatificazione.

Il 19 ottobre 2023, il collegio dei teologi ha emesso un verdetto positivo sulla causa di beatificazione di Camille Costa de Beauregard. La prossima tappa, nel 2024, sarà il parere dato al Papa da un collegio cardinalizio…

Il 27 febbraio 2024, il Dicastero (cardinali e vescovi) si è pronunciato all’unanimità a favore dell’inspiegabilità del miracolo attribuito all’intercessione di Camille Costa de Beauregard.

Il 14 marzo 2024, Papa Francesco ha autorizzato la pubblicazione del decreto che riconosce il miracolo attribuito all’intercessione di Camille Costa de Beauregard, aprendo la strada alla sua beatificazione.

Il rito di beatificazione si svolgerà a Chambéry, nella diocesi che ha promosso la causa del nuovo beato, il 17 maggio 2025.

Il miracolo attribuito à all’intercessione di Camille Costa de Beauregard
Ecco alcune spiegazioni di questo miracolo, avvenuto nel 1910, pochi mesi dopo la morte del fondatore:

“Il 5 novembre 1910, l’oculista Amédée Dénarié, che aveva visitato e curato il bambino, disse: Non esito a dichiarare che la guarigione è avvenuta al di fuori delle leggi della natura e in modo straordinario.”

Il piccolo René, di 10 anni, ospite dell’orfanotrofio, era stato gravemente ferito all’occhio da una palla di bardana lanciatagli contro durante una passeggiata. All’inizio i bambini dissero che si trattava di un sasso lanciato da un’auto di passaggio, ma poco dopo ammisero che stavano giocando a lanciarsi le bardane (si tratta di piante ben note che si trovano lungo i bordi delle strade e che molti bambini usano come proiettili). René ne ha ricevuto uno nell’occhio, lanciato con forza. Per il dolore, cercò di rimuoverla, lacerando la cornea… La ferita peggiorava di giorno in giorno, tanto che dopo alcune settimane si perse ogni speranza di guarigione. Ma l’occhio del bambino guarì in una notte, senza alcun farmaco, dopo che la suora infermiera applicò un panno appartenuto a Camille Costa de Beauregard l’ultimo giorno di novena con il bambino.

Il dossier delle testimonianze raccolte all’epoca è stato conservato con cura negli archivi, anche se per molti anni è stato un po’ dimenticato. Solo quando è stato riscoperto nel 2011 si è deciso, con questi nuovi elementi, di rilanciare la causa di beatificazione del fondatore di Le Bocage.

Beatificazione: con l’atto di beatificazione, il Papa decide che una persona – laica o religiosa – può essere venerata pubblicamente ed è quindi designata dalla Chiesa come “Beata”. Esistono due forme di beatificazione: il martirio o le virtù eroiche.

I due atti di beatificazione e canonizzazione si differenziano per il grado di estensione del culto pubblico. Il culto del beato è limitato a un’area designata dalla Santa Sede. Quello del santo è autorizzato, o addirittura prescritto, ovunque nella Chiesa universale.

Camille in sintesi

Nascita
Nascita: 17 febbraio 1841
Battezzato il giorno seguente nella chiesa di Notre Dame

Giovane sacerdote
Ordinazione: 26 maggio 1866
Ritorno a Chambéry: 1867, vicario della cattedrale

L’opera del Bocage
Creazione dell’Orfanotrofio di Bocage: maggio 1868
La sua morte, avvenuta il 25.03.1910

Servo di Dio
Apertura del processo diocesano: 1926

Venerabile
Processo apostolico: 1965 -1966
Decreto di venerabilità: 22.01.1991

Beato
Riconoscimento del miracolo: 14.03.2024

La celebrazione della beatificazione è programmata per il sabato 17 maggio del 2025.
Un esempio di vita dedicata e luminosa da conoscere e imitare.

Françoise Bouchard




La svolta nella vita di san Francesco di Sales (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

Inizi di una nuova tappa
            A partire da questo momento tutto correrà veloce. Francesco diventava un nuovo uomo: «Lui, prima perplesso, inquieto, malinconico – così A. Ravier –, ora prende delle decisioni senza indugio, non tira più per le lunghe le sue imprese, vi si butta a capofitto».
            Subito, il 10 maggio, veste l’abito ecclesiastico. Il giorno dopo si presenta al vicario della diocesi. Il 12 maggio prende possesso del suo incarico nella cattedrale d’Annecy e fa visita al vescovo, mons. Claude de Granier. Il 13 maggio presiede per la prima volta la recita dell’ufficio divino in cattedrale. Poi sistema i propri affari temporali: abbandona il titolo di signore di Villaroget e i diritti di primogenito; rinuncia alla magistratura cui il padre l’aveva destinato. Dal 18 maggio al 7 giugno, si ritira col suo amico e confessore, Amé Bouvard, al castello di Sales per prepararsi agli ordini. Per un’ultima volta è assalito da dubbi e tentazioni; ne esce vittorioso, convinto che Dio gli si era manifestato «molto misericordioso» durante tali esercizi spirituali. Prepara quindi l’esame canonico in vista dell’ammissione agli ordini.
            Invitato per la prima volta dal vescovo a predicare il giorno di Pentecoste, che quell’anno cadeva il 6 giugno, preparò molto accuratamente la sua prima predica per una festa nella quale «non soltanto gli anziani ma anche i giovani dovrebbero predicare»; ma l’imprevisto arrivo di un altro predicatore gli impedì di pronunciarla. Il 9 giugno, mons. de Granier gli conferisce i quattro ordini minori e due giorni dopo lo promuove a suddiacono.
            Incomincia quindi per lui un’intensa attività pastorale. Il 24 giugno, festa di san Giovanni Battista, predicò per la prima volta in pubblico con grande coraggio, ma non senza aver provato prima una certa tremarella, che lo costrinse a stendersi per qualche istante sul suo letto, prima di salire sul pulpito. Da quel momento in poi, le prediche andranno moltiplicandosi.
            Un’iniziativa ardita per un suddiacono fu la fondazione ad Annecy di un’associazione destinata a riunire non solamente degli ecclesiastici, ma soprattutto dei laici, uomini e donne, sotto il titolo di «Confraternita dei penitenti della Santa Croce». Egli stesso ne redasse gli statuti, che il vescovo confermò e approvò. Costituita il 1° settembre 1593, iniziò le sue attività il giorno 14 dello stesso mese. Gli appartenenti furono, fin dall’inizio, numerosi e, tra i primi iscritti, Francesco ebbe la gioia di annoverare suo padre e qualche tempo dopo il fratello Louis. Gli statuti prevedevano non soltanto celebrazioni, preghiere e processioni, ma anche visite ai malati e ai prigionieri. All’inizio non mancò qualche malcontento specialmente tra i religiosi, ma ci si rese ben presto conto che la testimonianza degli associati era convincente.
Francesco venne ordinato diacono il 18 settembre e prete tre mesi più tardi, il 18 dicembre 1593. Al termine di tre giorni di preparazione spirituale, celebrò la sua prima messa il 21 dicembre e predicò a Natale. Qualche tempo dopo ebbe la gioia di battezzare la sorellina Jeanne, ultima nata della signora di Boisy. Il suo insediamento ufficiale nella cattedrale avvenne sul finire del mese di dicembre.
            Ebbe un grande risalto la sua «arringa» in latino, che impressionò il vescovo e gli altri membri del capitolo, tanto più profondamente in quanto il tema affrontato era scottante: ricuperare l’antica sede della diocesi, che era Ginevra. Tutti si trovarono d’accordo: occorreva riconquistare Ginevra, la città di Calvino che aveva messo fuori legge il cattolicesimo. Si! Ma come? Con quali armi? E prima di tutto qual era la causa di tale deplorevole situazione? La risposta del prevosto non dovette piacere a tutti: «Sono gli esempi dei preti perversi, le azioni, le parole, in sostanza, l’iniquità di tutti, ma in particolare degli ecclesiastici». Seguendo l’esempio dei profeti, Francesco di Sales non analizzava le cause politiche, sociali o ideologiche della riforma protestante; non predicava più la guerra contro gli eretici, ma la conversione di tutti. La fine dell’esilio non si otterrà se non con la penitenza e la preghiera, in una parola, con la carità:

È per mezzo della carità che dobbiamo smantellare le mura di Ginevra, per mezzo della carità invaderla, per mezzo della carità recuperarla. […] Non vi propongo né il ferro, né quella polvere, il cui odore e sapore ricordano la fornace infernale […]. È con la fame e con la sete patite da noi e non dai nostri avversari che dobbiamo sconfiggere il nemico.

            Charles-Auguste afferma che, al termine di questo discorso, Francesco «discese dal suo ambone tra gli applausi di tutta l’assemblea», ma si può supporre che certi canonici rimasero irritati dall’arringa di questo giovane prevosto.
            Questi avrebbe potuto contentarsi di «far regnare la disciplina dei canonici e l’esatta osservanza degli statuti», ed invece si lanciò in un lavoro pastorale sempre più intenso: confessioni, predicazioni ad Annecy e nei paesi, visite ai malati e ai prigionieri. In caso di bisogno, impiegava le sue conoscenze giuridiche a beneficio degli altri, appianava contese e discuteva con gli ugonotti. Dal gennaio 1594 fino all’inizio della sua missione nel Chiablese nel mese di settembre, la sua attività di predicatore dovette conoscere un inizio promettente. Come lo dimostrano le numerose citazioni, le sue fonti sono la Bibbia, i Padri e i teologi, ed anche autori pagani quali Aristotele, Plinio e Virgilio, di cui non temeva di citare il celebre Jovis omnia plena. Suo padre non era abituato a uno zelo cosi travolgente e a predicazioni tanto frequenti. Un giorno – racconterà Francesco all’amico Jean-Pierre Camus – mi prese in disparte e mi disse:

Prevosto, tu predichi troppo spesso. Odo persino nei giorni feriali suonare la campana per la predica e mi dicono: È il prevosto! il prevosto! Ai miei tempi non era così, le prediche erano assai più rare; però, che prediche! Dio la sa, erano dotte, ben studiate; erano ricche di racconti meravigliosi, una sola predica conteneva più citazioni in latino e in greco di dieci delle tue: tutti restavano contenti ed edificati, si correva in massa ad ascoltarle; avreste sentito dire che si andava a raccogliere la manna. Ora tu rendi questa pratica così comune, che non gli facciamo più caso e non si ha più tanta stima di te.

            Francesco non era di questo avviso: per lui, «biasimare un lavoratore o un vignaiolo perché coltiva troppo bene la sua terra, voleva dire fargli dei veri elogi».

Gli inizi dell’amicizia con Antoine Favre
            Gli umanisti avevano il gusto dell’amicizia, spazio propizio per lo scambio epistolare nel quale uno poteva manifestare il proprio affetto con espressioni appropriate, attinte all’antichità classica. Francesco di Sales aveva sicuramente letto il De amicitia di Cicerone. L’espressione con cui Orazio chiamava Virgilio «la metà della mia anima» (Et serves animae dimidium meae) gli ritornava alla memoria.
            Forse ricordava anche l’amicizia che univa Montaigne e Étienne de La Boétie: «Noi eravamo in tutto la metà l’uno dell’altro», scriveva l’autore dei Saggi, «essendo un’anima sola in due corpi, secondo la felice definizione di Aristotele»; «se mi si chiede di spiegare perché l’amavo, mi accorgo che ciò non lo si può esprimere se non rispondendo: Perché era lui e perché ero io». Un vero amico è un tesoro, afferma il proverbio, e Francesco di Sales ha potuto sperimentare che esso rispondeva a verità nel momento in cui la sua vita prendeva un orientamento definitivo, grazie all’amicizia con Antoine Favre.
            Possediamo la prima lettera che il senatore Favre gli indirizzò il 30 luglio 1593 da Chambéry. Con allusioni al «divino Platone» e in un latino elegante e ricercato, gli manifestava il suo desiderio: quello, scriveva, «non solamente di amarvi e di onorarvi, ma anche di contrarre un legame vincolante per sempre». Favre aveva allora trentacinque anni, era senatore da cinque anni, e Francesco aveva dieci anni di meno. Si conoscevano già per sentito dire, e Francesco aveva anche tentato di entrare in contatto con lui. Ricevuta detta lettera, il giovane prevosto di Sales esultò di gioia:

Ho ricevuto, uomo illustrissimo e Senatore integerrimo, la vostra lettera, pegno preziosissimo della vostra benevolenza verso di me, la quale, anche perché non era attesa, m’ha colmato di tanta gioia e ammirazione, che non riesco a esprimere i miei sentimenti.

            Al di là della palese retorica, favorita dall’uso del latino, ciò costituì l’inizio di un’amicizia che durò fino alla morte. Alla «provocazione» dell’«illustrissimo e integerrimo senatore» che assomigliava a una sfida a duello, Francesco rispose con espressioni adatte al caso: se l’amico è sceso per primo nella pacifica arena dell’amicizia, si vedrà chi vi resterà per ultimo, perché io – diceva Francesco – sono «un combattente che, per indole, è ardentissimo in questo genere di lotte». Questo primo scambio epistolare farà nascere tra i due il desiderio di incontrarsi: in effetti, scrive, «che l’ammirazione susciti il desiderio di conoscere, è una massima che s’apprende fin dalle prime pagine della filosofia». Le lettere si susseguiranno rapidamente.
            Alla fine di ottobre del 1593 Francesco gli risponde per ringraziarlo di avergli procurato un’altra amicizia, quella di François Girard. Ha letto e riletto le lettere di Favre «più di dieci volte». Il 30 novembre seguente, Favre insiste perché accetti la dignità di senatore, ma su questo terreno non sarà seguito. All’inizio di dicembre Francesco gli annuncia che la sua «carissima madre» ha dato alla luce la sua tredicesima creatura. Verso la fine di dicembre lo rende partecipe della sua prossima ordinazione sacerdotale, «insigne onore e bene eccellente», che farà di lui un altro uomo, nonostante i sentimenti di timore che prova dentro di sé. La vigilia di Natale del 1593 ebbe luogo un incontro ad Annecy, dove qualche giorno dopo Favre assistette probabilmente all’insediamento del giovane prevosto. All’inizio del 1594, la febbre ha costretto Francesco a mettersi a letto, e l’amico l’ha confortato a tal punto da fargli dire che la tua febbre è divenuta la «nostra» febbre. Nel marzo del 1594 inizia a chiamarlo «fratello», mentre la sposa di Favre sarà per Francesco la «mia dolcissima sorella».
            Tale amicizia si rivela feconda e fruttuosa, perché il 29 maggio 1594 Favre costituì, a sua volta, la confraternita della Santa Croce a Chambéry; e il martedì di Pentecoste i due amici organizzarono un grande pellegrinaggio comune a Aix. Nel mese di giugno Favre con la sua sposa, chiamata da Francesco «mia dolcissima sorella, vostra sposa illustrissima e amatissima», e con i loro «nobili figli» era atteso con impazienza ad Annecy. Antoine Favre aveva allora cinque figli e una figlia. In agosto scriverà una lettera ai figli di Favre per ringraziarli del loro scritto, per incoraggiarli a seguire gli esempi del loro padre e per pregarli di trasmettere alla loro madre i suoi sentimenti di «pietà filiale». Il 2 settembre 1594, in un biglietto scritto in fretta, Favre gli annunciava una prossima visita «il più presto possibile» e terminava con ripetuti saluti non soltanto all’«amato fratello», ma anche «a quelli di Sales e a tutti i salesiani».
            C’è stato chi non si è trattenuto dal criticare queste lettere piuttosto magniloquenti, piene di complimenti esagerati e di periodi latini troppo ricercati. Come il suo corrispondente, il prevosto di Sales, inanellando il suo latino con riferimenti alla Bibbia e ai Padri della Chiesa, si impegnava soprattutto a citare autori dell’antichità classica. Il modello ciceroniano e l’arte epistolare non gli sfuggono mai, e, d’altronde l’amico Favre qualifica le lettere di Francesco non soltanto come «ciceroniane», bensì come «ateniesi». Non stupisce che in una delle proprie lettere a Antoine Favre si trovi la celebre citazione di Terenzio: «Nulla di ciò che è umano ci è estraneo», un adagio divenuto una professione di fede presso gli umanisti.
            In conclusione, Francesco ha considerato questa amicizia come un dono del cielo, descrivendola come un’«amicizia fraterna che la divina Bontà, forgiatrice della natura, ha intessuto in maniera così viva e perfetta tra lui e me, nonostante fossimo diversi per nascita e vocazione, e diseguali quanto a doni e a grazie che io possedevo solo in lui». Durante gli anni difficili che stavano per sopraggiungere, Antoine Favre sarà sempre il suo confidente e il suo migliore sostegno.

Una missione pericolosa
            Nel 1594, il duca di Savoia, Carlo Emanuele I (1580-1630), aveva appena recuperato il Chiablese, regione vicina a Ginevra, situata a sud del lago Lemano, da tempo contesa tra i vicini. La storia politico-religiosa del Chiablese era complicata, come dimostra una lettera scritta in un italiano approssimativo nel febbraio del 1596 e destinata al nunzio di Torino:

Fu occupata dai Bernesi una parte di questa diocesi di Geneva, fa sessant’anni, [e] rimase eretica; la quale essendo ridotta in pieno potere di Sua Altezza Serenissima questi anni passati, per la guerra, [e riunita al] suo antico patrimonio, molti degli [abitanti,] mossi piuttosto dal rimbombo degli archibugi che dalle prediche che ivi si facevano per ordine di Monsignor Vescovo, si ridussero alla fede nel seno della santa madre Chiesa. Ma poi, essendo infestate quelle contrade dalle incursioni dei ginevrini e francesi, ritornarono nel fango.

            Il duca, intenzionato a ricondurre al cattolicesimo quella popolazione di circa venticinquemila anime, si rivolse al vescovo perché facesse quanto era necessario fare. Già nel 1589 questi aveva inviato cinquanta parroci a riprendere possesso delle parrocchie, ma furono tosto cacciati indietro dai calvinisti. Questa volta occorreva procedere in maniera diversa e, precisamente, inviare colà due o tre missionari molto colti e in grado di far fronte alla tempesta che non sarebbe mancata dall’abbattersi sui «papisti». Nel corso di un’assemblea del clero, il vescovo espose il progetto e fece appello a dei volontari. Nessuno fiatava. Allorché egli volse gli occhi verso il prevosto di Sales, questi gli disse: «Monsignore, se crede che sia capace e se me lo comanda, sono pronto a obbedire e vi andrò volentieri».
            Sapeva bene ciò che l’attendeva e che sarebbe stato accolto con «ingiurie sulle labbra o pietre in mano». Per Francesco, l’opposizione di suo padre a tale missione (dannosa per la vita e ancor più per l’onore della famiglia) non appariva più un ostacolo, perché riconosceva nell’ordine del vescovo una volontà superiore. Alle obiezioni paterne riguardanti i pericoli assai reali della missione, rispose con fierezza:

Dio, mio Padre, provvederà: è lui che aiuta i forti; occorre solo avere coraggio. […] E che ne sarebbe se ci inviassero in India o in Inghilterra? Non ci si dovrebbe andare? […] È vero, è un’impresa laboriosa, e nessuno oserebbe negarlo; ma perché portiamo queste vesti se rifuggiamo dal portarne il peso?

            Si preparò alla missione al castello di Sales all’inizio del mese di settembre 1594, in un clima pesante: «Suo padre non volle vederlo, perché era totalmente contrario all’impegno apostolico del figlio e l’aveva ostacolato con tutti gli sforzi immaginabili, senza essere stato in grado di scalfirne la generosa decisione. L’ultima sera, disse addio in segreto alla sua virtuosa madre».
            Il 14 settembre 1594 giungeva nel Chiablese in compagnia del cugino Louis de Sales. Quattro giorni dopo suo padre gli inviò un servitore per comunicargli di ritornare, «ma il santo giovane [in risposta] rimandò indietro il suo valletto Georges Rolland e il proprio cavallo, e persuase anche il cugino a rientrare per tranquillizzare la famiglia. Il cugino gli obbedì, anche se successivamente ritornò a trovarlo. E il nostro santo ha raccontato […] che in tutta la sua vita non aveva mai provato una così grande consolazione interiore, né tanto coraggio nel servizio di Dio e delle anime come quel 18 settembre 1594, giorno in cui si trovò senza compagno, senza valletto, senza equipaggio e costretto a girare qua e là, da solo, povero e a piedi, impegnato a predicare il Regno di Dio».
            Per dissuaderlo dal compiere tale rischiosa missione, suo padre gli tagliò i viveri. Secondo Pierre Magnin, «il signor padre di Francesco, come ebbi modo di apprenderlo dalle labbra del santo uomo, non voleva assisterlo con quella abbondanza che sarebbe stata necessaria, desideroso di distoglierlo dal tale impresa iniziata dal figlio contro il suo parere, ben consapevole del palese pericolo cui esponeva la vita. E una volta lo lasciò partire da Sales per ritornare a Thonon con un solo scudo, sicché [Francesco] fu costretto […] a fare la strada a piedi, sovente mal calzato e mal vestito, esposto a un rigido freddo, al vento, alla pioggia e alla neve insopportabile in questo paese».
            Dopo un’aggressione di cui fu vittima con Georges Rolland, il signore di Boisy tentò di nuovo di distoglierlo dall’impresa, ma anche questa volta senza successo. Francesco tentò di far vibrare le corde dell’orgoglio paterno scrivendogli con encomiabile coraggio queste righe:

Se Rolland fosse vostro figlio, mentre non è che un vostro valletto, non avrebbe avuto così poco coraggio da indietreggiare per uno scontro modesto come quello che gli è toccato, e non ne parlerebbe come d’una grande battaglia. Nessuno può dubitare della cattiva volontà dei nostri avversari; ma voi ci fate un torto quando dubitate del nostro coraggio. […] Vi scongiuro quindi, Padre mio, di non attribuire la mia perseveranza alla disobbedienza e di considerarmi sempre come il vostro figlio rispettosissimo.

            Un illuminante rilievo tramandatoci da Albert de Genève aiuta a comprendere meglio ciò che alla fine convinse il padre a cessare di opporsi al figlio. Il nonno di questo testimone al processo di beatificazione, amico del signor di Boisy, aveva detto un giorno al padre di Francesco che doveva sentirsi «assai fortunato di avere un figlio così caro a Dio, e che lo riteneva troppo saggio e timorato di Dio per opporsi alla santa volontà [del figlio], tesa a realizzare un disegno in cui il santo nome di Dio sarebbe stato molto glorificato, la Chiesa esaltata e il casato di Sales ne avrebbe ricevuto una gloria maggiore di tutti gli altri titoli, per quanto illustri fossero».

Il tempo delle responsabilità
            Prevosto della cattedrale nel 1593 all’età di soli venticinque anni, capo della missione nel Chiablese l’anno successivo, Francesco di Sales poteva contare su una formazione eccezionalmente ricca e armoniosa: educazione familiare curata, formazione morale e religiosa di qualità, studi letterari, filosofici, teologici, scientifici e giuridici di alto livello. È vero, aveva beneficiato di possibilità interdette alla maggioranza dei suoi contemporanei, ma in lui erano fuori dall’ordinario lo sforzo personale, la generosa risposta agli appelli avuti e la tenacia di cui diede prova nel perseguire la sua vocazione, senza parlare della spiccata spiritualità che ispirava il suo comportamento.
            Ormai diventerà un uomo pubblico, con incarichi di responsabilità sempre più ampi, che gli consentiranno di mettere a profitto degli altri i propri doni di natura e di grazia. Preconizzato a divenire vescovo coadiutore di Ginevra già nel 1596, nominato vescovo nel 1599, diventerà vescovo di Ginevra alla morte del predecessore nel 1602. Uomo di Chiesa prima di tutto, ma assai immerso nella vita della società, lo vedremo preoccuparsi non solo dell’amministrazione della diocesi, ma anche della formazione del popolo affidato al suo ministero pastorale.




La svolta nella vita di san Francesco di Sales (1/2)

 

            Dopo dieci anni di studi a Parigi e tre anni all’Università di Padova, Francesco di Sales ritornò in Savoia poco prima dell’inizio della primavera del 1592. Al cugino Louis confidò che era «sempre più deciso di abbracciare lo stato ecclesiastico, nonostante la resistenza dei suoi signori genitori». Tuttavia, accettò di andare a Chambéry per iscriversi al foro del Senato di Savoia.
            In verità, era in gioco l’intero orientamento della sua vita. Da una parte, infatti, c’era l’autorità del padre che gli comandava, essendo Francesco il figlio maggiore, di prendere in considerazione una carriera nel mondo; dall’altra, c’erano le sue inclinazioni e la crescente consapevolezza di dover seguire una vocazione particolare: «essere di Chiesa». Se è vero che «i padri fanno tutto per il bene dei loro figli», è altrettanto vero che le vedute degli uni e degli altri non sempre coincidono. Suo padre, il signor de Boisy sognava per Francesco una magnifica carriera: senatore del ducato e (perché no?) presidente del sovrano Senato di Savoia. Francesco di Sales scriverà un giorno che i padri «non sono mai soddisfatti e non sanno mai smettere di parlare ai loro figli dei mezzi che li possono rendere più grandi».
            Ora, per lui l’ubbidienza era un imperativo fondamentale e ciò che più tardi dirà a Filotea era una regola di vita che certamente seguiva fin dall’infanzia: «Dovete umilmente obbedire ai vostri superiori ecclesiastici, come il papa e il vescovo, il parroco e i loro rappresentanti; dovete poi obbedire ai vostri superiori politici, cioè il vostro principe e i magistrati da lui istituiti nel vostro paese; dovete infine obbedire ai superiori di casa vostra, cioè vostro padre, vostra madre». Il problema nasceva dall’impossibilità di conciliare le differenti obbedienze. Tra la volontà di suo padre e la propria (che percepiva sempre più essere quella di Dio) l’opposizione diventerà inevitabile. Seguiamo le tappe della maturazione vocazionale di un «dolce ribelle».

Sguardo retrospettivo
            Per comprendere il dramma vissuto da Francesco occorre rivisitare il passato, perché tale dramma segnò l’intera sua giovinezza per giungere a soluzione nel 1593. Dall’età di circa dieci anni, Francesco coltivava in sé un proprio progetto di vita. Ne fanno fede non pochi avvenimenti da lui vissuti o provocati. A undici anni, prima di partire per Parigi, aveva chiesto a suo padre il permesso di ricevere la tonsura. Detta cerimonia, durante la quale il vescovo collocava il candidato sul primo gradino della carriera ecclesiastica, ebbe effettivamente luogo il 20 settembre 1578 Clermont-en-Genevois. Suo padre, che in un primo momento si era opposto, alla fine cedette, perché riteneva si trattasse unicamente di un capriccio infantile. Nel corso dell’esame preliminare, stupito per l’esattezza delle risposte e la modestia del candidato, il vescovo gli avrebbe detto: «Ragazzo mio, coraggio, sarai un buon servitore di Dio». Al momento di sacrificare i suoi biondi capelli, Francesco confessò di aver provato un certo dispiacere. Tuttavia l’impegno preso gli resterà sempre fisso nella memoria. Confiderà, infatti, un giorno a madre Angélique Arnauld: «Da dodici anni in poi, sono stato talmente risoluto di essere di Chiesa, che neppure per un regno avrei cambiato la mia intenzione».
            Quando suo padre, che non era insensibile, decise di inviarlo a Parigi per compiervi gli studi, dovette provare nell’animo sentimenti contradditori, descritti nel Teotimo: «Un padre quando manda il figlio a corte o agli studi – scriveva –, non per questo non piange salutandolo, dimostrando che, benché lo voglia secondo la parte superiore, per il bene del figlio, tuttavia, quella partenza causa dispiacere alla parte inferiore, per cui non vorrebbe lasciarlo partire». Si richiamino alla memoria anche la scelta del collegio dei gesuiti a Parigi, preferito a quello di Navarre, il comportamento di Francesco durante la sua formazione, l’influsso della direzione spirituale del padre Possevino a Padova e tutti gli altri fattori che hanno potuto giocare a favore del consolidarsi della vocazione ecclesiastica.
            Ma davanti a lui si ergeva un roccioso ostacolo: la volontà paterna, cui doveva non soltanto umile sottomissione, secondo il costume dell’epoca, ma anche qualcosa di più e di meglio, perché «l’amore e il rispetto che un figlio porta al padre gli fanno decidere non soltanto di vivere secondo i suoi comandi, ma anche secondo i desideri e le preferenze che esprime». A Parigi, verso la fine del suo soggiorno, fu profondamente impressionato dalla decisione del duca di Joyeuse, antico favorito di Enrico III, che si era fatto cappuccino in seguito alla morte della moglie. Secondo il suo amico Jean Pasquelet, «se non avesse avuto paura di turbare l’animo del signor de Boisy, suo padre, essendone il primogenito, si sarebbe fatto senza fallo cappuccino».
            Studiò per ubbidienza, ma anche per rendersi utile al prossimo. «Ed è ancora vero –ha testimoniato il padre de Quoex – quello che mi ha detto mentre era a Parigi e a Padova, che cioè era interessato non tanto a ciò che stava studiando, ma piuttosto a pensare se un giorno avrebbe potuto servire degnamente Dio e aiutare il prossimo mediante gli studi che stava facendo». Nel 1620 confidò a François de Ronis: «Mentre ero a Padova, studiai il diritto per piacere a mio padre, e per piacere a me stesso studiai teologia». Parimenti, François Bochut dichiarò che «allorché venne inviato a Padova a studiare legge per far cosa grata ai genitori, la sua inclinazione lo portava ad abbracciare lo stato ecclesiastico», e che colà «compì la maggior parte dei suoi studi teologici, dedicandovi la maggior parte del suo tempo». Quest’ultima affermazione pare chiaramente esagerata: Francesco di Sales dovette certamente consacrare la parte più importante del suo tempo e delle sue forze agli studi giuridici che rientravano nel suo «dovere di stato». Quanto a suo padre, Jean-Pierre Camus riferisce questa confidenza significativa: «Avevo – mi diceva – il migliore padre del mondo; ma era un brav’uomo che aveva trascorso gran parte dei suoi anni a corte e in guerra, per cui ne conosceva le massime meglio di quelle della teologia».
            Fu probabilmente il padre Possevino colui che divenne il suo miglior sostegno nell’orientarne la vita. Secondo il suo nipote Charles-Auguste, Possevino gli avrebbe detto: «Continui a pensare alle cose divine e a studiare teologia», aggiungendo delicatamente: «Mi creda, il suo spirito non è adatto agli affanni del foro e i suoi occhi non sono fatti per sopportarne il polverone; la strada del secolo è troppo scivolosa, c’è il pericolo di perdersi. Non c’è forse più gloria nell’annunciare la parola del nostro buon Dio a migliaia di esseri umani, dalle cattedre delle chiese, che a scaldarsi le mani battendo i pugni sui banchi dei procuratori per risolverne le controversie»? Fu indubbiamente l’attrattiva per questo ideale a consentirgli di resistere a certe manovre e a farse di cattivo gusto di alcuni compagni che non erano certo modelli di virtù.

Un discernimento e una scelta molto difficili
            Nel viaggio di ritorno da Padova, Francesco di Sales portava con sé una lettera del suo antico professore Panciroli diretta al padre, in cui lo si consigliava di inviare il figlio al Senato. Il signor de Boisy non desiderava altro, e a tale scopo aveva preparato per Francesco una ricca biblioteca di diritto, gli procurò una terra e un titolo, destinandolo ad essere il signore di Villaroget. Infine, gli chiese di incontrare Françoise Suchet, una adolescente di quattordici anni, «figlia unica e molto bella», precisa Charles-Auguste, per avviare «accordi preliminari di matrimonio». Francesco aveva venticinque anni, un’età da maggiorenne nella mentalità dell’epoca e adatta per convolare a nozze. La sua scelta era ormai fatta da lungo tempo, ma non volle creare rotture, preferendo preparare il padre in attesa del momento favorevole.
            Incontrerà a più riprese la signorina, alla quale faceva però comprendere di avere altre intenzioni. «Per compiacere suo padre – dichiarò François Favre al processo di beatificazione – fece visita alla citata signorina, di cui ammirava le virtù», ma «non poté essere convinto ad accettare tale matrimonio, nonostante tutti gli sforzi compiuti al riguardo da suo padre». Francesco rivelò parimenti a Amé Bouvard, suo confidente: «Per obbedire a mio padre vidi la signorina alla quale intendeva di cuore destinarmi, ne ammirai la virtù», aggiungendo, schietto e convinto: «Credimi, ti dico la verità: l’unico mio volere è sempre stato quello di abbracciare la vita ecclesiastica». Claude de Blonay affermava di aver udito dalle stesse labbra di Francesco «che aveva rifiutato tale bella alleanza, non già per disprezzo del matrimonio, del quale aveva grande rispetto in quanto sacramento, quanto piuttosto per un certo ardore, intimo e spirituale, che lo inclinava a porsi totalmente al servizio della Chiesa e a essere tutto di Dio, con un cuore indiviso».
            Nel frattempo, il 24 novembre 1592, nel corso di una seduta in cui diede lodevole prova delle sue capacità, era stato accolto come avvocato nel foro di Chambéry. Di ritorno da Chambéry, scorse un segno celeste in un incidente riferito da Michel Favre: «Il cavallo si accasciò sotto di lui e la spada uscita dal fodero si venne a trovare per terra con la punta rivolta contro di lui, [sicché] da ciò trasse un’ulteriore prova convincente che Dio lo voleva al suo servizio, assieme alla speranza che gliene avrebbe fornito i mezzi». Secondo Charles-Auguste, la spada «uscita dalla guaina aveva tracciato una specie di croce». Ciò che pare sicuro è che la prospettiva di una professione da avvocato non doveva entusiasmarlo, se si presta fede a quanto scriverà successivamente:

[Secondo alcuni,] quando il camaleonte si gonfia, cambia di colore; ciò avviene per la paura e l’apprensione, dicono altri. Democrito afferma che la lingua strappatagli, lui vivente, ha fatto vincere i processi a chi l’aveva in bocca; ciò si applica bene alla lingua degli avvocati, che sono dei veri camaleonti.

            Alcune settimane più tardi gli venne fatta giungere da Torino la patente di senatore. Era un onore straordinario per la sua età, perché se «gli avvocati discutono nel foro con molte parole sui fatti e sui diritti delle parti», «il Parlamento o Senato risolve con un decreto dall’alto tutte le difficoltà». Francesco non volle accettare tale alto incarico, che poteva sconvolgere nuovamente tutti i dati del problema. Nonostante lo stupore scandalizzato del padre e le pressioni dei migliori amici, mantenne rigorosamente il suo rifiuto. E anche quando gli si dimostrò che il cumulo di incarichi civili ed ecclesiastici era ammesso, rispose che «non bisognava mescolare le cose sacre con quelle profane».
            Venne infine il giorno in cui, per un felice concorso di circostanze, gli fu possibile sbrogliare una situazione complicata, la quale poteva degenerare in una dolorosa rottura con la famiglia. Dopo qualche mese, e precisamente dopo la morte del prevosto della cattedrale nell’ottobre del 1592, alcuni confidenti avevano presentato a Roma, a sua insaputa, una domanda per ottenergli tale incarico, che faceva del suo titolare il primo personaggio della diocesi dopo il vescovo. Il 7 maggio 1593 arrivò la nomina romana. Due giorni dopo ebbe luogo l’incontro che stava per segnare la svolta della sua vita. Con l’appoggio della madre, Francesco rivolse al suo vecchio padre la richiesta che non aveva mai osato formulargli: «Abbiate la cortesia, padre mio, […] di permettermi di essere di Chiesa».
            Durissimo fu il colpo per il signor de Boisy, che vedeva d’un tratto crollare i suoi piani. Rimase «sconvolto» perché non si attendeva tale richiesta. Charles-Auguste aggiunge che «la sua signora non lo fu meno», essendo stata presente alla scena. Per il padre, il desiderio del figlio di essere prete era un «umore» che qualcuno gli aveva messo in testa o che gli aveva «consigliato».

Speravo, gli disse, che saresti stato il bastone della mia vecchiaia, ed invece ti allontani prima del tempo da me. Stai attento a ciò che farai. Forse hai ancora bisogno di maturare la decisione. Hai la testa fatta per una berretta più maestosa. Hai dedicato tanti anni allo studio della legge: la giurisprudenza non ti servirà a niente sotto una sottana da prete. Hai dei fratelli ai quali devi fare da padre quando mancherò loro.

            Per Francesco era un’esigenza interiore, una «vocazione» che impegnava tutta la sua persona e l’intera sua vita. Il padre aveva rispetto per il sacerdozio, ma lo reputava ancora una semplice funzione, un mestiere. Ora la riforma cattolica mirava a conferire al sacerdozio una rinnovata configurazione, più alta e più esigente, a considerarlo cioè una chiamata di Dio sancita dalla Chiesa. Al dovere di rispondere a tale appello divino corrispondeva forse anche un nuovo diritto della persona umana, che Francesco difese di fronte alla decisione «unilaterale» del padre. Questi, dopo aver esposto tutte le sue buone ragioni contrarie a tale progetto, sapendo che il figlio avrebbe occupato un posto molto onorevole, finì per cedere: «Per Dio, fai ciò che credi».
            In un’opera apparsa nel 1669, Nicolas de Hauteville commenterà questo episodio paragonando il dramma del signor de Boisy a quello di Abramo, al quale Dio aveva comandato di sacrificargli il figlio. Ma con questa differenza, che era stato Francesco a imporre al padre il sacrificio. In effetti, scriveva l’antico cronista, «l’intera adolescenza e giovinezza [di Francesco] fu un tempo di gioia, di speranza e di consolazione assai gratificante per il suo buon padre, ma alla fin fine occorre confessare che questo [nuovo] Isacco fu per lui un ragazzo causa di preoccupazioni, di amarezze e di dolore». E aggiungeva che «la lotta che si scatenò dentro di lui, lo fece ammalare gravemente, trovando duro consentire a questo amato figlio di sposare un breviario al posto di una signorina avvenente e ricca ereditiera di un nobilissimo e antichissimo casato della Savoia».

(continua)




Tra ammirazione e dolore

Oggi vi saluto per l’ultima volta da questa pagina del Bollettino Salesiano. Il 16 agosto, nel giorno in cui si commemora la nascita di Don Bosco, termina il mio servizio come Rettor Maggiore dei Salesiani di Don Bosco.
È sempre un motivo per ringraziare, sempre Grazie! Innanzitutto a Dio, alla Congregazione e alla Famiglia Salesiana, a tante persone care e amiche, a tanti amici del carisma di Don Bosco, i molti benefattori.

            Anche in questa occasione il mio saluto trasmette qualcosa che ho vissuto recentemente. Di qui il titolo di questo saluto: Tra ammirazione e dolore. Vi racconto la gioia che ha riempito il mio cuore a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, ferita da una guerra interminabile, e alla gioia e alla testimonianza che ho ricevuto ieri.
            Tre settimane fa quando, dopo aver visitato l’Uganda (nel campo profughi di Palabek che, grazie all’aiuto e al lavoro salesiano di questi anni, non è più un campo per rifugiati sudanesi ma un luogo dove decine di migliaia di persone si sono insediate e hanno trovato una nuova vita), ho attraversato il Ruanda e sono arrivato al confine nella regione di Goma, una terra meravigliosa, bella e ricca di natura (e proprio per questo così desiderata e desiderabile). Ebbene, a causa dei conflitti armati, in quella regione ci sono più di un milione di sfollati che hanno dovuto lasciare le loro case e la loro terra. Anche noi abbiamo dovuto lasciare la presenza salesiana a Sha-Sha che è stata occupata militarmente.
            Questo milione di sfollati è arrivato nella città di Goma. A Gangi, uno dei quartieri, c’è l’opera salesiana “Don Bosco”. Sono stato immensamente felice di vedere il bene che là viene fatto. Centinaia di ragazzi e ragazze hanno una casa. Decine di adolescenti sono stati tolti dalla strada e vivono nella casa di Don Bosco. Proprio lì, a causa della guerra, hanno trovato casa 82 bambini neonati e ragazzini e ragazzine che hanno perso i genitori o sono stati lasciati indietro (“abbandonati”) perché i genitori non potevano occuparsene.
            E lì, in quella nuova Valdocco, una delle tante Valdocco del mondo, una comunità di tre suore di San Salvador, insieme a un gruppo di signore, tutte sostenute dalla casa salesiana con aiuti che arrivano grazie alla generosità dei benefattori e della Provvidenza, si prendono cura di questi bambini e bambine. Quando sono andato a trovarli, le suore avevano vestito tutti a festa, anche i bambini che dormivano nelle loro culle. Come non sentire il cuore pieno di gioia per questa realtà di bontà, nonostante il dolore causato dall’abbandono e dalla guerra!
            Ma il mio cuore è stato toccato quando ho incontrato alcune centinaia di persone che sono venute a salutarmi in occasione della mia visita. Sono tra i 32.000 sfollati che hanno lasciato le loro case e la loro terra a causa delle bombe e sono venuti a cercare rifugio. Lo hanno trovato nei campi da gioco e nei terreni della casa Don Bosco di Gangi. Non hanno nulla, vivono in baracche di pochi metri quadrati. Questa è la loro realtà. Insieme cerchiamo ogni giorno un modo per trovare da mangiare. Ma sapete cosa mi ha colpito di più? La cosa che mi ha colpito di più è che quando ero con queste centinaia di persone, per lo più anziani e madri con bambini, non avevano perso la loro dignità e non avevano perso la loro gioia o il loro sorriso. Sono rimasto stupito e il mio cuore si è rattristato per tanta sofferenza e povertà, anche se stiamo facendo la nostra parte nel nome del Signore.

Un concerto straordinario
            Un’altra grande gioia ho provato quando ho ricevuto una testimonianza di vita che mi ha fatto pensare agli adolescenti e ai giovani delle nostre presenze, e a tanti figli di genitori che forse mi leggono e che sentono che i loro figli sono demotivati, annoiati dalla vita, o che non hanno passione per quasi nulla. Tra gli ospiti della nostra casa, in questi giorni, c’era una straordinaria pianista che ha girato il mondo dando concerti e che ha fatto parte di grandi orchestre filarmoniche. È un’ex allieva dei Salesiani e ha avuto un salesiano, ora scomparso, come grande riferimento e modello. Ha voluto offrirci questo concerto nell’atrio del tempio del Sacro Cuore come omaggio a Maria Ausiliatrice, che tanto ama, e come ringraziamento per tutto ciò che è stata la sua vita finora.
            E dico quest’ultimo perché la nostra cara amica ci ha regalato un concerto meraviglioso, con una qualità eccezionale a 81 anni. Era accompagnata dalla figlia. E a quell’età, forse quando alcuni dei nostri anziani in famiglia hanno già detto da tempo che non hanno più voglia di fare nulla, né di fare nulla che richieda uno sforzo, la nostra cara amica, che si esercita ogni giorno al pianoforte, muoveva le mani con un’agilità meravigliosa ed era immersa nella bellezza della musica e della sua esecuzione. La buona musica, un sorriso generoso alla fine della sua esibizione e la consegna delle orchidee alla Vergine Ausiliatrice erano tutto ciò di cui avevamo bisogno in quella meravigliosa mattinata. E il mio cuore salesiano non ha potuto fare a meno di pensare a quei ragazzi, ragazze e giovani che forse non hanno avuto o non hanno più nulla che li motivi nella loro vita. Lei, la nostra amica concertista, a 81 anni vive con grande serenità e, come mi ha detto, continua a offrire il dono che Dio le ha fatto e ogni giorno trova sempre più motivi per farlo.
            Un’altra lezione di vita e un’altra testimonianza che non lascia il cuore indifferente.

            Grazie, amici miei, grazie dal profondo del cuore per tutto il bene che stiamo facendo insieme. Per quanto piccolo possa essere, contribuisce a rendere il nostro mondo un po’ più umano e più bello. Che il buon Dio vi benedica.




Quando un educatore tocca il cuore dei suoi figli

L’arte di essere come don Bosco: «Ricordatevi che l’educazione è cosa di cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne dà in mano le chiavi». (MB XVI, 447)

Cari amici, lettori del Bollettino Salesiano e amici del carisma di Don Bosco. Vi scrivo questo saluto, direi quasi in diretta, prima che questo numero vada in stampa.
Dico questo perché la scena che sto per raccontarvi è accaduta solo quattro ore fa.
Sono arrivato da poco a Lubumbashi. Da dieci giorni sto visitando presenze salesiane molto significative, come gli sfollati e i rifugiati di Palabek – oggi in condizioni molto più umane di quando sono arrivati da noi, grazie a Dio – e dall’Uganda sono passato nella Repubblica Democratica del Congo, nella torturata e crocifissa regione di Goma.
Le presenze salesiane lì sono piene di vita. Più volte ho detto che il mio cuore era “toccato” (touché), cioè commosso nel vedere il bene che si fa, nel vedere che c’è una presenza di Dio anche nella più grande povertà. Ma il mio cuore è stato toccato dal dolore e dalla tristezza quando ho incontrato alcune delle 32.000 persone (per lo più anziani, donne e bambini) che sono ospitate nei terreni della presenza salesiana di Don Bosco-Gangi.
Ma di questo vi parlerò la prossima volta, perché ho bisogno di lasciarlo riposare nel mio cuore.

Il “papà” degli scugnizzi di Goma
Ora voglio solo accennare a una bellissima scena a cui ho assistito sul volo che ci ha portato a Lubumbashi.
Era un volo extra commerciale con un aereo di medie dimensioni. Ma il comandante era una persona familiare, non a me, ma ai salesiani locali. Quando ho salutato il comandante sull’aereo, mi ha detto che aveva studiato formazione professionale nella nostra scuola qui a Goma. Mi ha detto che quelli erano stati anni che avevano cambiato la sua vita, ma ha aggiunto un’altra cosa, dicendomi e dicendoci: ed ecco colui che è stato un “papà” per noi.
Nella cultura africana, quando si dice che qualcuno è un papà, si dice una cosa estrema. E non di rado il papà non è la persona che ha generato quel figlio o quella figlia, ma colui che lo ha realmente accudito, sostenuto e accompagnato.
A chi si riferiva il comandante, un uomo di circa 45 anni, con il figlio pilota ormai giovane che lo accompagnava in volo? Si riferiva al nostro fratello salesiano coadiutore (cioè non sacerdote ma laico consacrato, un capolavoro del carisma salesiano).
Questo salesiano, Fratel Onorato, missionario spagnolo, è missionario nella regione di Goma da più di 40 anni. Ha fatto di tutto per rendere possibile questa scuola professionale e molte altre cose, certamente insieme ad altri salesiani. Ha conosciuto il comandante e alcuni suoi amici quando erano solo ragazzi sperduti del quartiere (cioè tra centinaia e centinaia di ragazzi). Anzi, il comandante mi ha raccontato che quattro dei suoi compagni, che in quegli anni erano praticamente per strada, sono riusciti a studiare meccanica nella casa di Don Bosco e oggi sono ingegneri e si occupano della manutenzione meccanica e tecnica dei piccoli aerei della loro compagnia.

Il «sacramento» salesiano
Ebbene, quando ho sentito il comandante, ex allievo salesiano, dire che Onorato era stato suo padre, il padre di tutti loro, mi sono commosso profondamente e ho subito pensato a don Bosco, che i suoi ragazzi sentivano e consideravano come loro padre.
Nelle lettere di don Rua e Monsignor Cagliero, don Bosco è sempre chiamato “papà”. La sera del 7 dicembre 1887, quando la salute di don Bosco peggiorò, don Rua telegrafò semplicemente a Monsignor Cagliero: «Papà è in stato allarmante». Un antico canto terminava: «Viva don Bosco nostro papà!»
E ho pensato quanto sia vero che l’educazione è una questione di cuore. E ho confermato tra le mie convinzioni che la presenza tra i ragazzi, le ragazze e i giovani è per noi quasi un “sacramento” attraverso il quale anche noi arriviamo a Dio. È per questo che negli anni ho parlato con tanta passione e convinzione ai miei fratelli e sorelle salesiani e alla famiglia salesiana del “sacramento” salesiano della presenza.
E so che nel mondo salesiano, nella nostra famiglia in tutto il mondo, tra i nostri fratelli e sorelle ci sono tanti “papà” e tante “mamme” che, con la loro presenza e il loro affetto, con la loro conoscenza dell’educazione, raggiungono il cuore dei giovani, che oggi hanno tanto bisogno, direi sempre di più, di queste presenze che possono cambiare in meglio una vita.

Un saluto dall’Africa e tutte le benedizioni del Signore agli amici del carisma salesiano.
Dio vi benedica tutti.




Canillitas. Minorenni lavoratori nella Repubblica Dominicana (video)

Il lavoro minorile non è una realtà del passato, purtroppo. Nel mondo ci sono ancora circa 160 milioni di ragazzi che lavorano, e quasi la metà di loro sono impiegati in varie forme di lavoro a rischio; alcuni di loro iniziano a lavorare a 5 anni! Questo fatto li allontana dall’istruzione e ha gravi conseguenze negative sullo sviluppo cognitivo, volitivo, emotivo e sociale, incidendo sulla salute e sulla qualità della loro vita.

Prima di parlare del lavoro minorile, bisogna riconoscere che non tutti i lavori svolti dai minori si possono classificare come tali. La partecipazione dei ragazzi a certe attività familiari, scolastiche o sociali che non ostacolano la loro scolarizzazione, non solo non danneggia la loro salute e il loro sviluppo, ma risulta proficua. Tali attività fanno parte dell’educazione integrale, aiutano i ragazzi ad apprendere delle abilità molto utili nella loro vita e li preparano alle responsabilità.

La definizione di lavoro minorile fatta dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro è l’attività lavorativa che priva i bambini della loro infanzia, del loro potenziale e della loro dignità e che è dannosa per il loro sviluppo fisico e psicologico. Si tratta di lavori in strada, nelle fabbriche, nelle miniere, con lunghe ore di lavoro che tante volte privano anche del riposo necessario. Sono lavori che fisicamente, mentalmente, socialmente o moralmente sono rischiosi o dannosi per i ragazzi, e che interferiscono con la loro scolarizzazione privandoli dell’opportunità di andare a scuola, costringendoli ad abbandonare la scuola prima del tempo o obbligandoli a cercare di conciliare la frequenza scolastica con lunghe ore di duro lavoro.
È una definizione di lavoro minorile non condivisa da tutti i paesi. Però ci sono dei parametri che la possono definire: l’età, la difficoltà o pericolosità del lavoro, il numero di ore lavorate, le condizioni in cui viene svolto il lavoro e anche il livello di sviluppo del paese. Quanto all’età, è comunemente accettato che non si deve lavorare sotto i 12 anni: le norme internazionali parlano di età minima per l’ammissione al lavoro, cioè non inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo.

Le statistiche recenti parlano di circa 160 milioni di ragazzi che lavorano, e questa cifra nella realtà può essere sensibilmente più alta, dato che è difficile calcolare la situazione reale. Concretamente, un ragazzo su 10 nel mondo è vittima del lavoro minorile. E bisogna tener presente che questa statistica comprende anche lavori degradanti – se si possono chiamare lavori – come il reclutamento forzato nei conflitti armati, la schiavitù o lo sfruttamento sessuale. Ed è preoccupante il fatto che le statistiche indichino che oggi ci sono 8 milioni i ragazzi in più che lavorano rispetto al 2016, e che questo aumento si riscontri soprattutto nei ragazzi tra i 5 e gli 11 anni. Le organizzazioni internazionali avvertono che se la tendenza continuerà così, il numero di bambini impiegati nel lavoro minorile potrebbe aumentare di 46 milioni nei prossimi anni, se non verranno adottate adeguate misure di protezione sociale.

La causa del lavoro minorile è soprattutto la povertà, ma lo sono anche il mancato accesso all’istruzione e la vulnerabilità nel caso dei ragazzi orfani o abbandonati.
Questi lavori nella stragrande maggioranza dei casi comportano anche delle conseguenze fisiche (malattie e patologie croniche, mutilazioni), psicologiche (da abusati, i ragazzi diventano abusatori, dopo aver vissuto in ambienti ostili e violenti diventano a loro volta ostili e violenti, sviluppano bassa autostima e mancanza di speranza per il futuro) e sociali (corruzione dei costumi, alcool, droga, prostituzione, infrazioni).

Non è un fenomeno nuovo, è accaduto anche ai tempi di don Bosco quando tanti ragazzi, spinti dalla povertà, cercavano nelle grandi città espedienti per la sopravvivenza. La risposta del santo è stata quella di accoglierli, assicurare loro vito e alloggio, alfabetizzare, istruire, trovare un lavoro degno e fare sentire a quei ragazzi abbandonati che erano parte di una famiglia.
Anche oggi questi ragazzi mostrano grande insicurezza e sfiducia, sono malnutriti e con gravi carenze emotive. Anche oggi bisogna cercarli, incontrarli, offrendo loro gradualmente ciò che amano per dare loro finalmente ciò di cui hanno bisogno: una casa, un’istruzione, un ambiente familiare e in prospettiva nel futuro un degno lavoro.
Si cerca di conoscere la situazione particolare di ognuno di loro, si va alla ricerca dei famigliari per reinserire i ragazzi in famiglia quando possibile, si propone di abbandonare il lavoro minorile, di socializzare, di frequentare la scuola, accompagnandoli in modo che possano realizzare il loro sogno e il progetto di vita grazie all’istruzione, e di diventare testimoni per altri ragazzi che si trovano nella loro stessa situazione.

In 70 paesi del mondo i salesiani sono attivi nel campo del lavoro minorile. Presentiamo uno di loro, quello della Repubblica Dominicana.

Canillitas erano denominati i ragazzi venditori ambulanti di giornali, che per la povertà avevano pantaloni rimasti corti, lasciando scoperte le loro “canillas”, ossia le gambe. Simili a questi, i ragazzi di oggi devono muovere le gambe per strada ogni giorno per guadagnarsi da vivere, perciò il progetto a loro favore si è chiamato Canillitas con Don Bosco.
Si tratta di un progetto nato come progetto salesiano oratoriano, che poi è arrivato a essere un’attività permanente: il Centro Canillitas con Don Bosco di Santo Domingo.

Il progetto è partito nell’8 dicembre 1985 con tre giovani dell’ambiente salesiano che si sono dedicati a tempo pieno, rinunciando alle loro occupazioni. Avevano chiare le quattro tappe del percorso da seguire: Ricerca, Accoglienza, Socializzazione e Accompagnamento. Hanno iniziato a cercare ragazzi sulle strade e nei parchi di Santo Domingo, a contattarli, a conquistare la loro fiducia e a stabilire legami di amicizia. Dopo due mesi li hanno invitati a passare una domenica insieme e sono stati sorpresi quando più di 300 minori si presentarono all’incontro. Fu un pomeriggio di festa con giochi, musica e merende che ha spinto i ragazzi a chiedere spontaneamente quando potevano tornare. La risposta non poteva essere altra che: “domenica prossima”.
Il loro numero crebbe costantemente, dopo aver capito che l’accoglienza, gli spazi e le attività erano a misura loro. Al campo organizzato nell’estate hanno partecipato un centinaio dei più fedeli. Qui i ragazzi hanno ricevuto una tessera di canillitas nel campo, per dare un’identità e un senso di appartenenza, anche perché tanti di loro non conoscevano neanche la loro data di nascita.
Con la crescita dei numeri dei ragazzi è arrivata anche la crescita delle spese. Questo ha condotto a dover ricercare dei finanziamenti e implicitamente a far conoscere il progetto con questi ragazzi.

Il 2 maggio 1986, la comunità salesiana ha presentato il progetto ai superiori salesiani dell’Ispettoria Salesiana delle Antille, progetto che ottenne un sostegno unanime. Così, il programma Canillitas con Don Bosco fu ufficialmente lanciato e continua anche oggi dopo quasi 38 anni di esistenza. E non solo continua ma è cresciuto e si è ampliato, essendo un modello per altre iniziative. È così che è nato anche il programma Canillitas con Laura Vicuña, sviluppato dalle Figlie di Maria Ausiliatrice per le ragazze lavoratrici, i programmi Chiriperos con Don Bosco, per aiutare i giovani che – per guadagnarsi da vivere – facevano qualsiasi “lavoretto” (come portare l’acqua, buttare la spazzatura, fare commissioni…), e il programma Apprendisti con Don Bosco che si occupa dei minori che lavoravano nelle numerose officine meccaniche, sfruttati da certi imprenditori. Per questi ultimi, i salesiani hanno costruito un’officina con l’aiuto di alcuni bravi industriali e della Prima Donna della Repubblica, in modo da essere liberi di imparare un mestiere e non essere in balia delle ingiustizie.
In seguito a questo successo, tutte queste iniziative e altre sono confluite nella Rete dei Ragazzi e delle Ragazze con Don Bosco, attualmente composta da 11 centri con programmi adeguati alle fasce d’età dei ragazzi, diventati un esempio nella lotta al lavoro minorile nel paese caraibico. Di questa rete fanno parte: Canillitas con Don Bosco, Chiriperos con Don Bosco, Aprendices con Don Bosco, Hogar Escuela de Niñas Doña Chucha, Hogar de Niñas Nuestra Señora de la Altagracia, Hogar Escuela Santo Domingo Savio, Quédate con Nosotros, Don Bosco Amigo, Amigos y Amigas de Domingo Savio, Mano a Mano con Don Bosco e Sur Joven.
La rete ha svolto programmi incentrati sullo sviluppo di abilità nei ragazzi e nei giovani, favorendo la loro formazione e crescita integrale. Ha accompagnato direttamente circa 93.000 ragazzi, adolescenti e giovani, ha raggiunto più di 70.000 famiglie e, indirettamente, ha avuto più di 150.000 beneficiari, lavorando ogni anno con una media di oltre 2500 beneficiari. Tutto ciò è stato realizzato avendo come base il Sistema Preventivo di Don Bosco che ha portato i ragazzi e i giovani a recuperare la propria autostima, a essere protagonisti della propria vita per diventare “onesti cittadini e buoni cristiani”.

Questo lavoro ha avuto anche un impatto socio-politico. Ha contribuito alla crescita della sensibilità sociale verso questi poveri ragazzi che facevano quello che potevano per sopravvivere. L’eco del programma salesiano nei mass-media della Repubblica Dominicana ha dato la possibilità a un gruppo di Canillitas di partecipare a una sessione del Congresso Nazionale del paese e alla redazione del Codice del Sistema di Protezione e dei Diritti Fondamentali dei Ragazzi e degli Adolescenti della Repubblica Dominicana (Legge 136-03), promulgato il 7 agosto 2003.
In seguito, sono stati firmati diversi accordi con l’Istituto di Formazione Tecnico Professionale, con il Consiglio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza e con la Scuola della Magistratura.
Grazie al sostegno di molti imprenditori e della società civile sono state avviate collaborazioni e interrelazioni con l’UNICEF, con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, con il governo nazionale, con la Coalizione delle ONG per l’infanzia della Repubblica Dominicana e si è perfino arrivati a partecipare alla Conferenza delle Americhe alla Casa Bianca nel 2007, con il ricevimento del presidente George Bush e del Segretario di Stato Condoleezza Rice.

Il lavoro salesiano ha contribuito alla riduzione del lavoro minorile e all’aumento del tasso di istruzione nel paese. Il salesiano missionario promotore, don Juan Linares, è stato nominato Uomo dell’Anno della Repubblica Dominicana nel 2011, e per 10 anni è stato membro del consiglio di amministrazione del Consiglio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, l’organo di governo del Sistema Nazionale per la Protezione dei Diritti dei Ragazzi e degli Adolescenti.

Recentemente è stato realizzato un documentario, “Canillitas”, che vuole informare, denunciare e sensibilizzare l’opinione pubblica sul lavoro minorile. Il breve documentario riflette la vita quotidiana di sei ragazzi lavoratori nella Repubblica Dominicana, nonché il lavoro dei missionari salesiani per cambiare questa realtà, grazie all’istruzione.

Presentiamo la scheda del film.

Titolo: Canillitas
Anno di produzione: 2022
Durata: 21 minuti
Genere: Documentario
Pubblico adatto: Tutti
Paese: Spagna
Regia: Raúl de la Fuente, Premio Goya 2014 per “Minerita” e nel 2019 per “Un día más con vida”
Produzione: Kanaki Films
Versioni e sottotitoli: spagnolo, inglese, francese, italiano, portoghese, tedesco e polacco

Versione online:



(Articolo realizzato con il materiale inviato da Missiones Salesianas di Madrid, Spagna.)