Le lotterie: autentiche imprese

Don Bosco non fu soltanto un instancabile educatore e pastore di anime, ma anche un uomo di straordinaria intraprendenza, capace di inventare soluzioni nuove e coraggiose per sostenere le sue opere. Le necessità economiche dell’Oratorio di Valdocco, in continua espansione, lo spinsero a cercare mezzi sempre più efficaci per garantire vitto, alloggio, scuola e lavoro a migliaia di ragazzi. Tra questi, le lotterie rappresentarono una delle intuizioni più ingegnose: vere imprese collettive, che coinvolgevano nobili, sacerdoti, benefattori e semplici cittadini.Non era semplice, poiché la legislazione piemontese regolava con rigore le lotterie, consentendone l’organizzazione ai privati solo in casi ben definiti. E non si trattava soltanto di raccogliere fondi, ma di creare una rete di solidarietà che univa la società torinese intorno al progetto educativo e spirituale dell’Oratorio. La prima, nel 1851, fu un’avventura memorabile, ricca di imprevisti e successi.

            Il tanto denaro che è giunto nelle mani di don Bosco vi è rimasto per poco, perché subito impiegato nel dare vitto, alloggio, scuola e lavoro a decine di migliaia di ragazzi o nel costruire collegi, orfanotrofi e chiese o nel sostenere le missioni sudamericane. I suoi conti, si sa, erano sempre in rosso; i debiti lo hanno accompagnato tutta la vita.
            Ora fra i mezzi intelligentemente adottati da don Bosco per finanziare le sue opere si possono di certo collocare le lotterie: una quindicina quelle da lui organizzate, fra piccole e grandi. La prima, modesta, fu quella di Torino nel 1851 a favore della chiesa di san Francesco di Sales in Valdocco e l’ultima, grandiosa, a metà degli anni ottanta, fu quella per sopperire alle immense spese della chiesa e dell’ospizio del S. Cuore presso la stazione Termini di Roma.
            Una vera storia di tali lotterie non è ancora stata scritta, benché al riguardo non manchino le fonti. Solo in riferimento alla prima, quella del 1851, ne abbiamo recuperato noi stessi una dozzina di inedite. Con esse ne ricostruiamo la tormentata storia in due puntate.

Domanda di autorizzazione
            A norma di legge del 24 febbraio 1820 – modificata da Regie Patenti del gennaio 1835 e da Istruzioni dell’Azienda Generale delle Regie Finanze in data 24 agosto 1835 e successivamente da Regie Patenti del 17 luglio 1845 – per qualunque lotteria nazionale (Regno di Sardegna) si richiedeva la preventiva autorizzazione governativa.
            Per don Bosco si trattò anzitutto di avere la morale certezza di riuscire nel progetto. La ebbe dall’appoggio economico e morale dei primissimi benefattori: le nobili famiglie Callori e Fassati ed il canonico Anglesio del Cottolengo. Si lanciò dunque in quella che sarebbe risultata un’autentica impresa. In tempi brevi riuscì a costituire una Commissione organizzatrice, composta inizialmente da sedici note personalità, poi accresciuta fino a venti. Fra loro numerose autorità civili ufficialmente riconosciute, come un senatore (nominato tesoriere), due vicesindaci, tre consiglieri comunali; poi sacerdoti di prestigio come i teologi Pietro Baricco, vicesindaco e segretario della Commissione, Giovanni Borel cappellano di corte, Giuseppe Ortalda, direttore di Opera Pia di Propaganda Fide, Roberto Murialdo, cofondatore del collegio degli Artigianelli e dell’Associazione di carità; infine uomini esperti come un ingegnere, un orefice stimatore, un negoziante all’ingrosso ecc. Tutte persone, per lo più possidenti, conosciute da don Bosco e “vicine” all’opera di Valdocco.
            Completata la Commissione, ad inizio dicembre 1851 don Bosco inoltrò la domanda formale all’Intendente generale di Finanza, cavalier Alessandro Pernati di Momo (futuro senatore e ministro dell’Interno del Regno) nonché “amico” dell’opera di Valdocco.

L’appello per i doni
            Alla richiesta di autorizzazione allegò un’interessantissima circolare, in cui, dopo aver tracciato una commovente storia dell’Oratorio – apprezzato dalla famiglia reale, dalle autorità di governo, dalle autorità municipali – indicava che le continue necessità di ampiamento dell’Opera di Valdocco per accogliere sempre più giovani consumavano le risorse economiche della beneficenza privata. Perciò al fine di pagare le spese del completamento della nuova cappella in costruzione, si era presa la decisione di far appello alla pubblica carità mediante una lotteria di doni da offrire spontaneamente: “Consiste questo mezzo in una lotteria d’oggetti, che i sottoscritti vennero in pensiero d’intraprendere per sopperire alle spese di ultimazione della nuova cappella, ed a cui la signoria vostra vorrà, non vi ha dubbio, prestare il suo concorso, riflettendo all’eccellenza dell’opera cui è diretta. Qualunque oggetto piaccia alla signoria vostra offrire o di seta, o di lana, o di metallo, o di legno, ossia lavoro di riputato artista, o di modesto operaio, o di laborioso artigiano, o di caritatevole gentildonna, tutto sarà accettato con gratitudine, perché in fatto di beneficenza ogni piccolo aiuto è gran cosa, e perché le offerte anche tenui di molti insieme riunite possono bastare a compir l’opera desiderata”.
            Nella circolare indicò pure i nomi dei promotori e promotrici, cui si potevano consegnare i doni e delle persone di fiducia che li avrebbero poi raccolti e custoditi. Fra i 46 promotori figuravano varie categorie di persone: professionisti, professori, impresari, studenti, chierici, negozianti, mercanti, sacerdoti; diversamente fra la novantina di promotrici sembra prevalessero le nobildonne (baronessa, marchesa, contessa e relative damigelle).
            Non mancò di allegare alla domanda pure il “piano della lotteria” in tutti i suoi molteplici aspetti formali: raccolta degli oggetti, ricevuta di consegna degli stessi, loro valutazione, biglietti autenticati da smerciare in numero proporzionato al numero e valore degli oggetti, loro esposizione al pubblico, estrazione dei vincitori, pubblicazione dei numeri estratti, tempi di ritiro dei premi ecc. Una serie di impegnativi adempimenti cui don Bosco non si sottrasse. Per i suoi giovani non bastava più la cappella Pinardi: ci voleva una chiesa più grande, quella, progettata, di san Francesco di Sales (una dozzina di anni dopo ce ne sarebbe voluta un’altra ancora più grande, quella di Maria Ausiliatrice!).

Risposta positiva
            Vista la serietà dell’iniziativa e l’alta “qualità” dei membri della Commissione proponente, la risposta dell’Intendenza non poté che essere positiva ed immediata. Il 17 dicembre il suddetto vicesindaco Pietro Baricco trasmise a don Bosco il relativo decreto, con l’invito a trasmettere sempre in copia i futuri atti formali della lotteria all’Amministrazione comunale, responsabile delle regolarità di tutti gli adempimenti di legge. A questo punto prima di Natale don Bosco mandò alle stampe la suddetta circolare, la diffuse ed incominciò a raccogliere doni.
            Gli erano stati concessi due mesi di tempo al riguardo, in quanto durante l’anno avevano luogo anche altre lotterie. I doni arrivavano però lentamente, per cui a metà gennaio don Bosco si vide costretto a ristampare la predetta circolare e chiese la collaborazione a tutti i giovani di Valdocco ed agli amici per scrivere indirizzi, fare visita a benefattori conosciuti, propagandare l’iniziativa, raccogliere i doni.
            Ma “il bello” doveva ancora venire.

Il salone espositivo
            Valdocco non aveva spazi per l’esposizione dei doni, per cui don Bosco domandò al vicesindaco Baricco, tesoriere della commissione per la lotteria, di chiedere al Ministero della guerra, tre stanze di quella parte del Convento di san Domenico che era a disposizione dell’esercito. I padri domenicani erano d’accordo. Il ministro Alfonso Lamarmora in data 16 gennaio le concesse. Ma ben presto don Bosco si rese conto che non sarebbero state sufficientemente ampie, per cui fece chiedere al re, tramite l’elemosiniere, abate Stanislao Gazzelli, un locale più grande. Dal sovraintendente reale Pamparà gli venne risposto che il re non disponeva di locale adatto e proponeva di affittare a sue spese il locale del gioco del Trincotto (o pallacorda: una sorta di tennis a mano ante litteram). Questo locale però sarebbe stato disponibile per il solo mese di marzo e a certe condizioni. Don Bosco rifiutò la proposta ma accettò le 200 lire offerte dal re per il fitto del locale. Messosi allora alla ricerca di altro salone, ne trovò uno adatto su indicazione del municipio cittadino, dietro la chiesa di S. Domenico, a poche centinaia di metri da Valdocco.

Arrivo dei doni
            Nel frattempo don Bosco aveva chiesto al ministro delle Finanze, il famoso conte Camillo Cavour, una riduzione o l’esenzione delle spese di spedizione delle lettere circolari, dei biglietti e degli stessi doni. Tramite il fratello del conte, il religiosissimo marchese Gustavo di Cavour, ricevette il consenso per varie riduzioni postali.
            Si trattava ora di trovare un perito per la valutazione dell’ammontare dei doni e il conseguente numero dei biglietti da smerciare. Don Bosco lo chiese all’Intendente suggerendone anche il nome: un orefice membro della Commissione. L’Intendente, invece, tramite il sindaco gli rispose chiedendogli una doppia copia descrittiva dei doni arrivati onde nominare un proprio perito. Don Bosco eseguì subito la richiesta e così il 19 febbraio il perito valutò in 4124,20 lire i 700 oggetti raccolti. Dopo tre mesi si arrivò a 1000 doni, dopo quattro a 2000, sino alla conclusione di 3251 doni, grazie al continuo “questuare di don Bosco” presso singoli, sacerdoti e vescovi e alle sue ripetute richieste formali al Comune di proroga del tempo per l’estrazione. Don Bosco non mancò neppure di criticare la stima fatta dal perito comunale dei doni che continuamente arrivavano, a suo dire, inferiore all’effettivo loro valore; ed in effetti vennero aggiunti altri estimatori, soprattutto un pittore per le opere d’arte.
            La cifra finale fu tale che don Bosco fu autorizzato ad emettere 99 999 biglietti al prezzo di 50 centesimi l’uno. Al catalogo già stampato con i doni numerati con nome del donatore e dei promotori e promotrici si aggiunse un supplemento con gli ultimi doni arrivati. Fra loro quelli del papa, del re, della regina madre, della regina consorte, deputati, senatori, autorità municipali ma anche tantissime persone umili, soprattutto donne che offrirono oggetti e suppellettili per la casa, anche di poco valore (bicchiere, calamaio, candela, caraffa, cavatappi, cuffia, ditale, forbici, lampada, metro, pipa, portachiavi, saponetta, temperino, zuccheriera). Il dono più offerto furono i libri, ben 629 e i quadri-quadretti, 265. Pure i ragazzi di Valdocco andarono a gara ad offrire il loro piccolo dono, magari un libretto regalato loro da don Bosco stesso.

Un lavoro immane fino all’estrazione dei numeri
            A questo punto bisognava stampare i biglietti in serie progressiva in duplice forma (piccola matrice e biglietto), farli firmare entrambi da due membri della commissione, spedire il biglietto tenendone nota, documentare il denaro incassato… A molti benefattori si inviavano decine di biglietti, con l’invito a tenerli o a smerciarli presso amici e conoscenti.
            La data dell’estrazione, inizialmente fissata per il 30 aprile, fu rinviata al 31 maggio e quindi al 30 giugno, per effettuarlo poi a metà luglio. Quest’ultima proroga fu dovuta allo scoppio della polveriera di Borgo Dora che devastò l’area di Valdocco.
            Per due pomeriggi, 12-13 luglio 1852, sul balcone del palazzo municipale si procedette all’estrazione dei biglietti. Quattro urne a ruota di diverso colore contenevano 10 pallottole (da 0 a 9) identiche e dello stesso colore della ruota. Inserite ad una ad una dal vicesindaco nelle urne, e fatte girare, otto giovani dell’Oratorio compivano l’operazione ed il numero estratto veniva proclamato ad alta voce e poi pubblicato sulla stampa. Molti doni furono lasciati all’Oratorio, dove furono successivamente riutilizzati.

Valeva la pena?
            Per i circa 74 mila biglietti venduti, tolte le spese, a don Bosco restarono circa 26.000 lire, che poi provvide a suddividere equamente con l’attigua opera Cottolengo. Un piccolo capitale certo (la metà del prezzo di acquisto della casetta Pinardi l’anno precedente), ma il risultato più grande del lavoro massacrante cui si sottopose per effettuare la lotteria – documentata da decine di lettere spesso inedite – è stato il diretto e sentito coinvolgimento di migliaia di persone di ogni classe sociale nel suo “incipiente progetto Valdocco”: nel farlo conoscere, apprezzare e poi sostenere economicamente, socialmente, politicamente.
            Don Bosco ricorrerà molte volte alle lotterie e sempre con il duplice scopo: raccogliere fondi per le sue opere per i ragazzi poveri, per le missioni e offrire modalità a credenti (e non credenti) di praticare la carità, il mezzo più efficace, come ripeteva continuamente, per “ottenere il perdono dei peccati e assicurarsi la vita eterna”.

«Ho sempre avuto bisogno di tutti» Don Bosco

Al senatore Giuseppe Cotta

Giuseppe Cotta, banchiere, fu grande benefattore di don Bosco. In archivio si conserva la seguente dichiarazione su carta da bollo in data 5 Febbraio 1849: “I sottoscritti sacerdoti T. Borrelli Gioanni di Torino e D. Bosco Gio’ di Castelnuovo d’Asti si dichiarano debitori di franchi tre mila verso l’ill.mo Cavaliere Cotta che ne fece imprestito ai medesimi per un’opera pia. Questa somma dovrà essere dai medesimi sottoscritti restituita fra un anno cogli interessi legali”. Firmato Sacerdote Giovanni Borel, D. Bosco Gio.

In calce allo stesso foglio e nella stessa data p. Cafasso Giuseppe scrive: “Il sottoscritto rende distinte grazie all’Ill. mo Sig. Cav. Cotta per quanto sopra e nello stesso tempo si rende fideiussore verso il medesimo della somma nominata”. A fondo pagina il Cotta sottoscrive di aver ricevuto lire 2.000 il 10 aprile 1849, altre 500 lire il 21 luglio 1849 e il saldo il 4 gennaio 1851.




Don José-Luis Carreño, missionario salesiano

Don José Luis Carreño (1905-1986) è stato descritto dallo storico Joseph Thekkedath come “il salesiano più amato dell’India del Sud” nella prima parte del ventesimo secolo. In ogni luogo in cui ha vissuto – sia in India britannica, nella colonia portoghese di Goa, nelle Filippine o in Spagna – troviamo salesiani che custodiscono con affetto la sua memoria. Stranamente, però, non disponiamo ancora di una biografia adeguata di questo grande salesiano, eccetto la corposa lettera mortuaria redatta da don José Antonio Rico: “José Luis Carreño Etxeandía, obrero de Dios”. Speriamo che presto si possa colmare questa lacuna. Don Carreño è stato uno degli artefici della regione dell’Asia Sud, e non possiamo permetterci di dimenticarlo.

            José-Luis Carreño Etxeandía nacque a Bilbao, in Spagna, il 23 ottobre 1905. Rimasto orfano di madre alla tenera età di otto anni, fu accolto nella casa salesiana di Santander. Nel 1917, all’età di dodici anni, entrò nell’aspirantato di Campello. Ricorda che a quei tempi “non si parlava molto di Don Bosco… Ma per noi un Don Binelli era un Don Bosco, per non parlare di Don Rinaldi, allora Prefetto Generale, le cui visite ci lasciavano una sensazione soprannaturale, come quando i messaggeri di Yahweh visitarono la tenda di Abramo”.
            Dopo il noviziato e postnoviziato, svolse il tirocinio come assistente dei novizi. Doveva essere un chierico brillante, perché di lui scrive don Pedro Escursell al Rettor Maggiore: “Sto parlando proprio in questo momento con uno dei chierici modello di questa casa. È un assistente nella formazione del personale di questa Ispettoria; mi dice che da tempo chiede di essere mandato nelle missioni e dice che ha rinunciato a chiederlo perché non riceve risposta. È un giovane di grande valore intellettuale e morale.”
            Alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale, nel 1932, il giovane José-Luis scrisse direttamente al Rettor Maggiore, offrendosi per le missioni. L’offerta fu accettata, e fu inviato in India, dove sbarcò a Mumbai nel 1933. Appena un anno dopo, quando fu eretta l’Ispettoria dell’India del Sud, fu nominato maestro dei novizi a Tirupattur: aveva appena 28 anni. Con le sue straordinarie qualità di mente e di cuore, divenne rapidamente l’anima della casa e lasciò una profonda impressione nei suoi novizi. “Ci conquistò con il suo cuore paterno”, scrive uno di loro, l’arcivescovo Hubert D’Rosario di Shillong.
            Don Joseph Vaz, un altro novizio, raccontava spesso come Carreño si fosse accorto che lui tremava di freddo durante una conferenza. “Aspetta un momento, hombre,” disse il maestro dei novizi, e uscì. Poco dopo rientrò con un maglione blu che consegnò a Joe. Joe notò che il maglione era stranamente caldo. Poi si ricordò che sotto la talare il suo maestro indossava qualcosa di blu… che adesso non c’era più. Carreño gli aveva dato il suo stesso maglione.
            Nel 1942, quando il governo britannico in India internò tutti gli stranieri provenienti da paesi in guerra con la Gran Bretagna, Carreño, essendo cittadino di un paese neutrale, non fu disturbato. Nel 1943 ricevette un messaggio tramite la Radio Vaticana: doveva prendere il posto di don Eligio Cinato, ispettore dell’ispettoria dell’India del Sud, anche egli internato. Nello stesso periodo, arcivescovo salesiano Louis Mathias di Madras-Mylapore lo invitò a essere suo vicario generale.
            Nel 1945 fu ufficialmente nominato ispettore, incarico che ricoprì dal 1945 al 1951. Uno dei suoi primissimi atti fu consacrare l’Ispettoria al Sacro Cuore di Gesù. Molti salesiani erano convinti che la straordinaria crescita dell’Ispettoria del Sud fosse dovuta proprio a questo gesto. Sotto la guida di don Carreño, le opere salesiane raddoppiarono. Uno dei suoi atti più lungimiranti fu l’avvio di un college universitario nel remoto e povero villaggio di Tirupattur. Il Sacred Heart College avrebbe finito per trasformare l’intero distretto.
            Fu anche Carreño l’artefice principale della “indianizzazione” del volto salesiano in India, cercando fin da subito vocazioni locali, invece di fare affidamento esclusivo sui missionari stranieri. Una scelta che si rivelò provvidenziale: prima, perché il flusso di missionari stranieri cessò, si interruppe durante la Guerra; poi, perché l’India indipendente decise di non concedere più visti a nuovi missionari stranieri. “Se oggi i salesiani in India sono più di duemila, il merito di questa crescita va attribuito alle politiche avviate da don Carreño,” scrive don Thekkedath nella sua storia dei salesiani in India.
            Don Carreño, come abbiamo detto, non era solo ispettore, ma anche vicario di mons. Mathias. Questi due grandi uomini, che si stimavano profondamente, erano però molto diversi per temperamento. L’arcivescovo era fautore di misure disciplinari severe nei confronti dei confratelli in difficoltà, mentre don Carreño preferiva procedimenti più miti. Il visitatore straordinario, don Albino Fedrigotti, sembra aver dato ragione all’arcivescovo, definendo don Carreño “un eccellente religioso, un uomo dal cuore grande”, ma anche “un po’ troppo poeta”.
            Non mancò neppure l’accusa di essere un cattivo amministratore, ma è significativo che una figura come don Aurelio Maschio, grande procuratore e architetto delle opere salesiane di Mumbai, abbia respinto con decisione tale accusa. In realtà, don Carreño era un innovatore e un visionario. Alcune delle sue idee – come quella di coinvolgere volontari non salesiani per un servizio di qualche anno – erano, all’epoca, guardate con sospetto, ma oggi sono largamente accettate e attivamente promosse.
            Nel 1951, al termine del suo mandato ufficiale come ispettore, a Carreño fu chiesto di rientrare in Spagna per occuparsi dei Salesiani Cooperatori. Non era questo il vero motivo della sua partenza, dopo diciotto anni in India, ma Carreno accettò con serenità, anche se non senza dolore.
            Nel 1952 gli fu invece chiesto di andare a Goa, dove rimase fino al 1960. “Goa fu amore a prima vista,” scrisse in Urdimbre en el telar. Goa, da parte sua, lo accolse nel cuore. Proseguì la tradizione dei salesiani che prestavano servizio come direttori spirituali e confessori del clero diocesano, e fu persino patrono dell’associazione degli scrittori in lingua konkani. Soprattutto, governò la comunità di Don Bosco Panjim con amore, si prese cura con straordinaria paternità dei tanti ragazzi poveri e, ancora una volta, si dedicò attivamente alla ricerca di vocazioni alla vita salesiana. I primi salesiani di Goa – persone come Thomas Fernandes, Elias Diaz e Romulo Noronha – raccontavano con le lacrime agli occhi come Carreño e altri passassero dal Goa Medical College, proprio accanto alla casa salesiana, per donare il sangue e così ottenere qualche rupia con cui comprare viveri e altri beni per i ragazzi.
            Nel 1961 ebbero luogo l’azione militare indiana e l’annessione di Goa. In quel momento don Carreño si trovava in Spagna e non poté più fare ritorno all’amata terra. Nel 1962 fu inviato nelle Filippine come maestro dei novizi. Accompagnò solo tre gruppi di novizi, perché nel 1965 chiese di rientrare in Spagna. All’origine della sua decisione vi era una seria divergenza di visione tra lui e i missionari salesiani provenienti dalla Cina, e specialmente con don Carlo Braga, superiore della visitatoria. Carreño si oppose con forza alla politica di inviare i giovani Salesiani filippini appena professi a Hong Kong per gli studi di filosofia. Come accadde, alla fine i superiori accettarono la proposta di trattenere i giovani salesiani nelle Filippine, ma a quel punto la richiesta di Carreño di rientrare in patria era già stata accolta.

            Don Carreño trascorse solo quattro anni nelle Filippine, ma anche qui, come in India, lasciò un’impronta indelebile, “un contributo incommensurabile e cruciale alla presenza salesiana nelle Filippine”, secondo le parole dello storico salesiano Nestor Impelido.
            Rientrato in Spagna, ha collaborato con le Procure Missionarie di Madrid e di New Rochelle, e all’animazione delle ispettorie iberiche. Molti in Spagna ricordano ancora il vecchio missionario che visitava le case salesiane, contagiando i giovani con il suo entusiasmo missionario, le sue canzoni e la sua musica.
            Ma nella sua fantasia creativa stava prendendo forma un nuovo progetto. Carreño si dedicò con tutto il cuore al sogno di fondare un Pueblo Misionero con due obiettivi: preparare giovani missionari – per lo più provenienti dall’Europa dell’Est – per l’America Latina; e offrire un rifugio per missionari “pensionati” come lui, i quali avrebbero potuto servire anche come formatori. Dopo una lunga e sofferta corrispondenza con i superiori, il progetto prese finalmente forma nell’Hogar del Misionero ad Alzuza, a pochi chilometri da Pamplona. La componente vocazionale missionaria non decollò mai, e furono pochissimi i missionari anziani che si unirono effettivamente a Carreño. Il suo principale apostolato in questi ultimi anni rimase quello della penna. Lasciò più di trenta libri, tra i quali cinque dedicati alla Santa Sindone, alla quale era particolarmente devoto.
            Don José-Luis Carreño morì nel 1986 a Pamplona, all’età di 81 anni. Nonostante gli alti e bassi della sua vita, questo grande amante del Sacro Cuore di Gesù poté affermare, nel giubileo d’oro della sua ordinazione sacerdotale: “Se cinquant’anni fa il mio motto da giovane prete era ‘Cristo è tutto’, oggi, vecchio e sopraffatto dal suo amore, lo scriverei in lettere d’oro, perché in realtà CRISTO È TUTTO”.

don Ivo COELHO, sdb




Beatificazione di Camille Costa de Beauregard. E dopo…?

            La diocesi di Savoia e la città di Chambéry hanno vissuto tre giornate storiche, il 16, 17 e 18 maggio 2025. Un resoconto dei fatti e delle prospettive future.

            Le reliquie di Camille Costa de Beauregard sono state trasferite dal Bocage alla chiesa di Notre-Dame (luogo del battesimo di Camille), venerdì 16 maggio. Un magnifico corteo ha quindi percorso le vie della città a partire dalle ore venti. Dopo i corni delle Alpi, le cornamuse hanno preso il testimone per aprire la marcia, seguite da una carrozza fiorita che trasportava un ritratto gigante del “padre degli orfani”. Seguivano poi le reliquie, su una barella portata da giovani studenti del liceo del Bocage, vestiti con magnifiche felpe rosse su cui si poteva leggere questa frase di Camille: “Più la montagna è alta, meglio vediamo lontano“. Diverse centinaia di persone di tutte le età sfilavano poi, in un’atmosfera “bon enfant”. Lungo il percorso, i curiosi, rispettosi, si fermavano, sbalorditi, a vedere passare questo corteo insolito.
            All’arrivo alla chiesa di Notre-Dame, un sacerdote era lì per animare una veglia di preghiera sostenuta dai canti di un bel coro di giovani. La cerimonia si svolgeva quindi in un clima rilassato, ma raccolto. Tutti sfilavano, alla fine della veglia, per venerare le reliquie e affidare a Camille un’intenzione personale. Un momento molto bello!
            Sabato 17 maggio. Gran giorno! Da Pauline Marie Jaricot (beatificata nel maggio del 2022), la Francia non aveva conosciuto un nuovo “Beato”. Così tutta la Regione Apostolica si trovava rappresentata dai suoi vescovi: Lione, Annecy, Saint-Étienne, Valence ecc… A questi si erano aggiunti due ex arcivescovi di Chambéry: monsignor Laurent Ulrich, attualmente arcivescovo di Parigi e monsignor Philippe Ballot, vescovo di Metz. Due vescovi del Burkina Faso avevano fatto il viaggio per partecipare a questa festa. Numerosi sacerdoti diocesani erano venuti a concelebrare, così come diversi religiosi tra cui sette Salesiani di Don Bosco. Il nunzio apostolico in Francia, monsignor Celestino Migliore, aveva la missione di rappresentare il cardinale Semeraro (Prefetto del Dicastero per le cause dei santi) trattenuto a Roma per l’intronizzazione di papa Leone XIV. Inutile dire che la cattedrale era gremita, così come i capitelli e il sagrato e il Bocage: più di tremila persone in tutto.
            Che emozione, quando dopo la lettura del decreto pontificio (firmato solo il giorno prima da papa Leone XIV) letto da don Pierluigi Cameroni, postulatore della causa, il ritratto di Camille è stato svelato nella cattedrale! Che fervore in questo grande vascello! Che solennità sostenuta dai canti di un magnifico coro interdiocesano e dal grande organo meravigliosamente servito dal maestro Thibaut Duré! Insomma, una cerimonia grandiosa per questo umile sacerdote che diede tutta la sua vita al servizio dei più piccoli!
            Un reportage è stato assicurato da RCF Savoie (una stazione radio regionale francese che fa parte del network RCF, Radios Chrétiennes Francophones) con interviste a diverse personalità coinvolte nella difesa della causa di Camille, e d’altra parte, dal canale KTO (il canale televisivo cattolico di lingua francese) che trasmetteva in diretta questa magnifica celebrazione.
            Una terza giornata, Domenica 18 maggio, veniva a coronare questa festa. Si svolgeva al Bocage, sotto un grande tendone; era una messa di ringraziamento presieduta da monsignor Thibault Verny, arcivescovo di Chambéry, circondato dai due vescovi africani, il Provinciale dei Salesiani e alcuni sacerdoti, tra cui padre Jean François Chiron, (presidente, da tredici anni, del Comitato Camille creato da monsignor Philippe Ballot) che pronunciava un’omelia notevole. Una folla considerevole era venuta a partecipare e pregare. Alla fine della messa, una rosa “Camille Costa de Beauregard fondatore del Bocage” è stata benedetta da padre Daniel Féderspiel, Ispettore dei Salesiani della Francia (questa rosa, scelta dagli ex allievi, offerta alle personalità presenti, è in vendita nelle serre del Bocage).
            Dopo la cerimonia, i corni delle Alpi hanno dato un concerto fino al momento in cui papa Leone, durante il suo discorso, al momento del Regina Coeli, ha dichiarato di essere molto gioioso della prima beatificazione del suo pontificato, il sacerdote di Chambéry Camille Costa de Beauregard. Tuono di applausi sotto il tendone!
            Nel pomeriggio, diversi gruppi di giovani del Bocage, liceo e casa dei bambini, o scout, si sono succeduti sul podio per animare un momento ricreativo. Sì! Che festa!

            E adesso? Tutto è finito? O c’è un dopo, un seguito?
            La beatificazione di Camille è solo una tappa nel processo di canonizzazione. Il lavoro continua e siete chiamati a contribuire. Cosa resta da fare? Far conoscere sempre meglio la figura del nuovo beato intorno a noi, con molteplici mezzi, perché è necessario che molti lo preghino affinché la sua intercessione ci ottenga una nuova guarigione inspiegabile dalla scienza, il che permetterebbe di considerare un nuovo processo e una rapida canonizzazione. La santità di Camille sarebbe allora presentata al mondo intero. È possibile, bisogna crederci! Non fermiamoci a metà strada!

            Disponiamo di diversi mezzi, come:
            – il libro Il beato Camille Costa de Beauregard La nobiltà del cuore, di Françoise Bouchard, Edizioni Salvator;
            – il libro Pregare quindici giorni con Camille Costa de Beauregard, di padre Paul Ripaud, Edizioni Nouvelle Cité;
            – un fumetto: Beato Camille Costa de Beauregard, di Gaëtan Evrard, Edizioni Triomphe;
            – i video da scoprire sul sito di “Amis de Costa“, e quello della beatificazione;
            – le visite ai luoghi della memoria, al Bocage a Chambéry; sono possibili contattando sia l’accoglienza del Bocage, sia direttamente il signor Gabriel Tardy, direttore de la Maison des Enfants.

            A tutti, grazie per sostenere la causa del beato Camille, se lo merita!

don Paul Ripaud, sdb




Il titolo di Basilica al tempio del Sacro Cuore di Roma

Nel centenario della morte di don Paolo Albera si è messo in luce come il secondo successore di don Bosco abbia realizzato quello che si potrebbe definire un sogno di don Bosco. Difatti trentaquattro anni dopo la consacrazione del tempio del S. Cuore di Roma, avvenuta presente l’ormai esausto don Bosco (maggio 1887), papa Benedetto XVI – il papa della famosa ed inascoltata definizione della prima guerra mondiale come “inutile strage” – conferì alla chiesa il titolo di Basilica Minore (11 febbraio 1921). Per la sua costruzione don Bosco aveva “dato l’anima” (e anche il corpo!) negli ultimi sette anni di vita. Aveva per altro fatto lo stesso un ventennio precedente (1865-1868) con la costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice a Torino-Valdocco, prima chiesa salesiana elevata alla dignità di basilica minore il 28 giugno 1911, presente il neo rettor Maggiore don Paolo Albera.

Il ritrovamento della supplica
Ma come si è arrivati a questo risultato? Chi ne è stato all’origine? Ora lo sappiamo con certezza grazie al recente ritrovamento della minuta dattiloscritta della richiesta di tale titolo da parte del Rettor Maggiore don Paolo Albera. È inserita in un fascicoletto commemorativo del 25° del Sacro Cuore curato nel 1905 dall’allora direttore don Francesco Tomasetti (1868-1953). Il dattiloscritto, datato 17 gennaio 1921, ha minime correzioni del Rettor Maggiore ma, ciò che è importante, porta la sua firma autografa.
Dopo aver descritto l’operato di don Bosco e l’attività incessante della parrocchia, desunte probabilmente dal vecchio fascicolo, don Albera si rivolge al Papa in questi termini:

Mentre la divozione al Sacro Cuore di Gesù va ognor più crescendo ed estendendosi in tutto il mondo, e sempre nuovi Templi vanno dedicandosi al Divin Cuore, anche per nobile iniziativa dei Salesiani, come a S. Paolo nel Brasile, a La Plata nell’Argentina, a Londra, a Barcellona e altrove, pare che il primario Tempio-Santuario dedicato al S. Cuore di Gesù in Roma, ove così importante divozione ha un’affermazione tanto degna dell’Eterna Città, meriti una speciale distinzione. Il sottoscritto pertanto, udito il parere del Consiglio Superiore della Pia Società Salesiana, supplica umilmente la Santità Vostra a volersi degnare di accordare al Tempio Santuario del Sacro Cuore di Gesù al Castro Pretorio in Roma il Titolo e i Privilegi di Basilica Minore, ripromettendosi da tale onorifica elevazione accrescimento di devozione, di pietà e di ogni attività cattolicamente benefica”.

La supplica, in bella copia, a firma di don Albera, venne inviata con ogni probabilità dal procuratore don Francesco Tomasetti alla Sacra Congregazione dei Brevi, che la accolse con favore. Stese in tempi rapidi la minuta del Breve Apostolico da conservare negli Archivi vaticani, la fece trascrivere dagli esperti calligrafi su ricca pergamena e la passò alla Segreteria di Stato per la firma del titolare del momento, cardinal Pietro Gasparri.
Oggi i fedeli possono ammirare ben incorniciato nella sacrestia della Basilica tale originale della concessione del titolo richiesto (v. foto).
Non si può che essere riconoscenti alla dott.ssa Patrizia Buccino, cultrice di archeologia e storia, e allo storico salesiano don Giorgio Rossi, che ne hanno divulgato la notizia. A loro il compito di portare a termine l’indagine avviata ricercando negli Archivi Vaticani l’intero carteggio, da far conoscere anche al mondo scientifico attraverso la nota rivista di storia salesiana “Ricerche Storiche Salesiane”.

Sacro Cuore: una basilica nazionale a raggio internazionale
Ventisei anni prima, il 16 luglio 1885, su richiesta di don Bosco e con il consenso esplicito di papa Leone XIII, monsignor Gaetano Alimonda, arcivescovo di Torino, aveva calorosamente sollecitato gli Italiani a partecipare alla riuscita della “nobile e santa proposta [del nuovo tempio] chiamandola voto nazionale degli Italiani”.
Ebbene, don Albera nella sua richiesta al pontefice, dopo aver ricordato il pressante appello del cardinal Alimonda, ricordava che a tutte le nazioni del mondo era stato chiesto di contribuire economicamente alla costruzione, decorazione del tempio e opere annesse (compreso l’immancabile oratorio salesiano con tanto di ospizio!) cosicché il Tempio-Santuario, oltreché voto nazionale, era divenuto “manifestazione mondiale o internazionale della devozione al S. Cuore”.
Al proposito, in uno scritto storico-ascetico edito in occasione del 1° Centenario della Consacrazione della Basilica (1987) lo studioso Armando Pedrini lo definiva: “Tempio dunque internazionale per la cattolicità e universalità del suo messaggio a tutte le genti”, anche in considerazione della “posizione di primissimo piano” della Basilica attigua alla riconosciuta internazionalità della stazione ferroviaria.
Roma-Termini non è dunque solo una grande stazione ferroviaria con problemi di ordine pubblico e un territorio difficile da gestire, di cui sovente si parla sui giornali e come per altro le stazioni ferroviarie di moltissime capitali europee. Ma è anche la sede della Basilica del Sacro Cuore di Gesù. E se alla sera e alla notte la zona non trasmette sicurezza ai turisti, di giorno la Basilica distribuisce pace e serenità ai fedeli che vi entrano, vi sostano in preghiera, vi ricevono i sacramenti.
Se lo ricorderanno i pellegrini che passeranno dallo scalo ferroviario di Termini nell’ormai non lontano anno santo (2025)? Basta che attraversino una strada… e il Sacro Cuore di Gesù li aspetta.

PS. In Roma esiste una seconda basilica parrocchiale salesiana, più grande e artisticamente più ricca di quella del Sacro Cuore: è quella di San Giovanni Bosco al Tuscolano, diventata tale nel 1965, a pochi anni della sua inaugurazione (1959). Dove si trova? “Ovviamente” nel Quartiere Don Bosco (a due passi dai celebri studi di Cinecittà). Se la statua sul campanile della basilica del Sacro Cuore domina la piazza della stazione Termini, la cupola della basilica di don Bosco, di poco inferiore a quella di San Pietro, la guarda però frontalmente, sia pure da due punti estremi della capitale. E siccome non c’è il due senza il tre, a Roma vi una terza splendida basilica parrocchiale salesiana: quella di Santa Maria Ausiliatrice, al quartiere Appio-Tuscolano, accanto al grande Istituto Pio XI.

Lettera apostolica intitolata Pia Societas, datata 11 febbraio 2021, con la quale, Sua Santità Benedetto XV ha elevato la chiesa del Sacro Cuore di Gesù al rango di Basilica.

Ecclesia parochialis SS.mi Cordis Iesu ad Castrum Praetorium in urbe titulo et privilegiis Basilicae Minoris decoratur.
Benedictus pp. XV

            Ad perpetuam rei memoriam.
            Pia Societas sancti Francisci Salesii, a venerabili Servo Dei Ioanne Bosco iam Augustae Taurinorum condita atque hodie per dissitas quoque orbis regiones diffusa, omnibus plane cognitum est quanta sibi merita comparaverit non modo incumbendo actuose sollerterque in puerorum, orbitate laborantium, religiosam honestamque institutionem, verum etiam in rei catholicae profectum tum apud christianum populum, tum apud infideles in longinquis et asperrimis Missionibus. Eiusdem Societatis sodalibus est quoque in hac Alma Urbe Nostra ecclesia paroecialis Sacratissimo Cordi Iesu dicata, in qua, etsi non abhinc multos annos condita, eximii praesertim Praedecessoris Nostri Leonis PP. XIII iussu atque auspiciis, christifideles urbani, eorumdem Sodalium opera, adeo ad Dei cultum et virtutum laudem exercentur, ut ea vel cum antiquioribus paroeciis in honoris ac meritorum contentionem veniat. Ipsemet Salesianorum Sodalium fundator, venerabilis Ioannes Bosco, in nova Urbis regione, aere saluberrimo populoque confertissima, quae ad Gastrum Praetorium exstat, exaedificationem inchoavit istius templi, et, quasi illud erigeret ex gentis italicae voto et pietatis testimonio erga Sacratissimum Cor Iesu, stipem praecipue ex Italiae christifidelibus studiose conlegit; verumtamen pii homines ex ceteris nationibus non defuerunt, qui, in exstruendum perficiendumque templum istud, erga Ssmum Cor Iesu amore incensi, largam pecuniae vim contulerint. Anno autem MDCCCLXXXVII sacra ipsa aedes, secundum speciosam formam a Virginio Vespignani architecto delineatam, tandem perfecta ac sollemniter consecrata dedicataque est. Eamdem vero postea, magna cum sollertia, Sodales Salesianos non modo variis altaribus, imaginibus affabre depictis et statuis, omnique sacro cultui necessaria supellectili exornasse, verum etiam continentibus aedificiis iuventuti, ut tempora nostra postulant, rite instituendae ditasse, iure ac merito Praedecessores Nostri sunt” laetati, et Nos haud minore animi voluptate probamus. Quapropter cum dilectus filius Paulus Albera, hodiernus Piae Societatis sancti Francisci Salesii rector maior, nomine proprio ac religiosorum virorum quibus praeest, quo memorati templi Ssmi Cordi Iesu dicati maxime augeatur decus, eiusdem urbanae paroeciae fidelium fides et pietas foveatur, Nos supplex rogaverit, ut eidem templo dignitatem, titulum et privilegia Basilicae Minoris pro Nostra benignitate impertiri dignemur; Nos, ut magis magisque stimulos fidelibus ipsius paroeciae atque Urbis totius Nostrae ad Sacratissimum Cor Iesu impensius colendum atque adamandum addamus, nec non benevolentiam, qua Sodales Salesianos ob merita sua prosequimur, publice significemus, votis hisce piis annuendum ultro libenterque censemus. Quam ob rem, conlatis consiliis cum VV. FF. NN. S. R. E. Cardinalibus Congregationi Ss. Rituum praepositis, Motu proprio ac de certa scientia et matura deliberatione Nostris, deque apostolicae potestatis plenitudine, praesentium Litterarum tenore perpetuumque in modum, enunciatum templum Sacratissimo Cordi Iesu dicatum, in hac alma Urbe Nostra atque ad Castrum Praetorium situm, dignitate ac titulo Basilicae Minoris honestamus, cum omnibus et singulis honoribus, praerogativis, privilegiis, indultis quae aliis Minoribus Almae huius Urbis Basilicis de iure competunt. Decernentes praesentes Litteras firmas, validas atque efficaces semper exstare ac permanere, suosque integros effectus sortiri iugiter et obtinere, illisque ad quos pertinent nunc et in posterum plenissime suffragari; sicque rite iudicandum esse ac definiendum, irritumque ex nunc et inane fieri, si quidquam secus super his, a quovis, auctoritate qualibet, scienter sive ignoranter attentari contigerit. Non obstantibus contrariis quibuslibet.

            Datum Romae apud sanctum Petrum sub annulo Piscatoris, die XI februarii MCMXXI, Pontificatus Nostri anno septimo.
P. CARD. GASPARRI, a Secretis Status.

***

La chiesa parrocchiale del Santissimo Cuore di Gesù a Castro Pretorio in città è insignita del titolo e dei privilegi di Basilica Minore.
Benedetto PP. XV

A perpetua memoria.
La Pia Società di San Francesco di Sales, già fondata a Torino dal venerabile Servo di Dio Giovanni Bosco e oggi diffusa anche in regioni lontane del mondo, ha acquisito meriti notevoli non solo dedicandosi attivamente e diligentemente all’educazione religiosa e onesta dei fanciulli orfani, ma anche al progresso della causa cattolica sia tra il popolo cristiano, sia tra gli infedeli nelle Missioni lontane e difficilissime. I membri della stessa Società hanno anche in questa Nostra Alma Urbe una chiesa parrocchiale dedicata al Sacratissimo Cuore di Gesù, nella quale, sebbene fondata non molti anni fa, per ordine e sotto gli auspici soprattutto del Nostro esimio Predecessore Leone PP. XIII, i fedeli urbani, con l’opera degli stessi Salesiani, sono così esercitati al culto di Dio e alla lode delle virtù, che essa gareggia in onore e meriti anche con le parrocchie più antiche. Lo stesso fondatore dei Salesiani, il venerabile Giovanni Bosco, in una nuova regione dell’Urbe, con aria saluberrima e popolosissima, che si trova a Castro Pretorio, iniziò la costruzione di quel tempio, e, quasi volesse erigerlo per voto della nazione italiana e testimonianza di pietà verso il Sacratissimo Cuore di Gesù, raccolse con zelo elemosine soprattutto dai fedeli d’Italia; tuttavia non mancarono uomini pii di altre nazioni che, spinti dall’amore verso il Sacratissimo Cuore di Gesù, contribuirono con ingenti somme di denaro alla costruzione e al completamento di quel tempio. Nell’anno 1887, la stessa sacra costruzione, secondo la splendida forma disegnata dall’architetto Virginio Vespignani, fu finalmente completata e solennemente consacrata e dedicata. I Salesiani, con grande diligenza, non solo l’hanno poi adornata con vari altari, immagini finemente dipinte e statue, e con tutti gli arredi necessari al sacro culto, ma l’hanno anche arricchita con edifici contigui per l’istruzione della gioventù, come richiedono i nostri tempi, e a buon diritto i Nostri Predecessori si sono rallegrati, e Noi non con minore piacere approviamo. Perciò, poiché il diletto figlio Paolo Albera, attuale rettore maggiore della Pia Società di San Francesco di Sales, a nome proprio e dei religiosi che presiede, affinché sia massimamente accresciuto il decoro del menzionato tempio dedicato al Santissimo Cuore di Gesù, e sia favorita la fede e la pietà dei fedeli di quella parrocchia urbana, Ci ha supplicato di degnarci di impartire a quel tempio la dignità, il titolo e i privilegi di Basilica Minore per Nostra benignità; Noi, per aggiungere sempre più stimoli ai fedeli di quella parrocchia e di tutta la Nostra Urbe a coltivare e amare più intensamente il Sacratissimo Cuore di Gesù, e per manifestare pubblicamente la benevolenza con cui seguiamo i Salesiani per i loro meriti, riteniamo di dover accogliere volentieri e spontaneamente questi pii voti. Per tale motivo, consultati i Venerabili Fratelli Nostri Cardinali di Santa Romana Chiesa preposti alla Congregazione dei Sacri Riti, di Nostro Motu proprio e con certa scienza e matura deliberazione Nostra, e dalla pienezza della potestà apostolica, con il tenore delle presenti Lettere e in perpetuo, onoriamo il suddetto tempio dedicato al Sacratissimo Cuore di Gesù, situato in questa Nostra Alma Urbe e a Castro Pretorio, con la dignità e il titolo di Basilica Minore, con tutti e singoli gli onori, le prerogative, i privilegi, gli indulti che spettano di diritto alle altre Basiliche Minori di questa Alma Urbe. Decretando che le presenti Lettere siano e rimangano sempre ferme, valide ed efficaci, e che ottengano e conservino sempre i loro pieni effetti, e che siano pienamente a favore di coloro a cui si riferiscono ora e in futuro; e che così si debba giustamente giudicare e definire, e che sia nullo e invalido fin d’ora, se qualcosa di diverso su queste cose, da chiunque, con qualsiasi autorità, scientemente o ignorantemente, dovesse essere tentato. Nonostante qualsiasi cosa contraria.

Dato a Roma presso San Pietro sotto l’anello del Pescatore, l’11 febbraio 1921, settimo anno del Nostro Pontificato.
P. CARD. GASPARRI, Segretario di Stato.




Salesiani in Ukraina (video)

La Visitatoria salesiana di Maria Ausiliatrice di rito bizantino (UKR) ha rimodellato la propria missione educativo‑pastorale dall’inizio dell’invasione russa del 2022. Tra sirene antiaeree, rifugi improvvisati e scuole nei sotterranei, i salesiani si sono fatti prossimità concreta: ospitano sfollati, distribuiscono aiuti, accompagnano spiritualmente militari e civili, trasformano una casa in centro di accoglienza e animano il campus modulare “Mariapolis”, dove ogni giorno servono mille pasti e organizzano oratorio e sport, persino la prima squadra ucraina di Calcio Amputati. La testimonianza personale di un confratello rivela ferite, speranze e preghiere di chi ha perso tutto, ma continua a credere che, dopo questa lunga Via Crucis nazionale, per l’Ucraina sorgerà la Pasqua della pace.

La pastorale della Visitatoria di Maria Ausiliatrice di rito bizantino (UKR) durante la guerra
La nostra pastorale ha dovuto modificarsi quando iniziata la guerra. Le nostre attività educativo-pastorali hanno dovuto adattarsi a una realtà completamente diversa, segnata spesso da un suono incessante delle sirene che annunciano il pericolo di attacchi missilistici e bombardamenti. Ogni volta che scatta l’allarme, siamo costretti a interrompere le attività e a scendere con i ragazzi nei rifugi sotterranei o nei bunker. In alcune scuole, le lezioni si svolgono direttamente nei sotterranei, per garantire maggiore sicurezza agli allievi.

Sin dall’inizio ci siamo messi senza indugio ad aiutare e soccorrere la popolazione sofferente. Abbiamo aperto le nostre case per accogliere gli sfollati, abbiamo organizzato la raccolta e distribuzione degli aiuti umanitari: prepariamo con i nostri ragazzi e i giovani migliaia di pacchi con i viveri e vestiario e con tutto l’occorrente per mandare alla gente bisognosa nei territori vicini ai combattimenti o nelle zone dei combattimenti. Inoltre, alcuni nostri confratelli salesiani operano come cappellani nelle zone dei combattimenti. Dove danno un sostegno spirituale ai giovani militari, ma anche portando aiuto umanitario alle persone che sono rimaste nei paesi sotto continui bombardamenti, aiutando ad alcuni di loro a trasferirsi in un luogo più sicuro. Un confratello diacono che è stato nelle trincee si ha logorato la salute e ha perso la caviglia. Quando alcuni anni fa leggevo nel Bollettino salesiano in lingua italiana un articolo dove parlava dei salesiani in trincea, nella prima o seconda guerra mondiale non pensavo che questo si sarebbe avverato in quest’epoca moderna nel mio paese.  Mi hanno colpito una volta, le parole di un giovanissimo soldato ucraino, che citando uno storico e eminente ufficiale difensore e combattente per l’indipendenza del nostro popolo diceva: “Noi lottiamo difendendo la nostra indipendenza non perché odiamo chi ci sta davanti, ma perché amiamo chi ci sta dietro di noi.”

In questo periodo abbiamo trasformato anche una nostra Casa Salesiana in un centro di accoglienza per gli sfollati.

Per sostenere la riabilitazione fisica, mentale, psicologica e sociale dei giovani che hanno perso gli arti in guerra, abbiamo creato una squadra di Calcio Amputati, la prima squadra di questo tipo in Ucraina.
Sin dall’inizio dell’invasione nel 2022, abbiamo messo a disposizione del municipio di Leopoli un nostro terreno, destinato alla costruzione di una scuola salesiana, per realizzare un campus modulare per sfollati interni: “Mariapolis” dove noi salesiani operiamo in collaborazione con il Centro del Dipartimento Sociale del Municipio. Diamo un sostegno assistenziale e un accompagnamento spirituale rendendo l’ambiente più accogliente. Sostenuti dall’aiuto della nostra Congregazione, delle varie organizzazioni tra cui VIS e Missioni Don Bosco, le varie procure e altre fondazioni di beneficienza, agenzie anche statali di altri paesi, abbiamo potuto organizzare la cucina del campus con il rispettivo personale che ci permette a offrire il pranzo ogni giorno per circa 1000 persone. Inoltre, grazie al loro aiuto possiamo organizzare varie attività nello stile salesiano per 240 ragazzi e giovani che sono presenti nel campus.

Una piccola esperienza e una povera testimonianza personale
Vorrei condividere qui la mia piccola esperienza e testimonianza…Io davvero ringrazio il Signore che, tramite il mio Ispettore, mi ha chiamato a questo servizio particolare. Da tre anni lavoro nel campus che ospita circa 1.000 sfollati interni. Fin dall’inizio, sto accanto a persone che hanno perso in un momento tutto, tranne la dignità. Le loro case sono distrutte e saccheggiate, i risparmi e i beni accumulati con fatica lungo gli anni della vita sono svaniti. Molti hanno perso molto di più e di più prezioso: i loro cari, uccisi davanti ai loro occhi da missili o mine. Alcuni delle persone che sono nel campus hanno dovuto vivere per mesi nei sotterranei di palazzi crollati, nutrendosi di quel poco che trovano, anche se scaduto. Bevevano l’acqua dei termosifoni e bollivano le bucce di patate per sfamarsi. Poi, alla prima possibilità sono scappati o evacuati senza sapere dove andare, senza certezze su cosa li aspettava. Inoltre, alcuni hanno visto i loro paesi, come Mariupol, rasi al suolo. Infatti, in onore di questa bellissima città di Maria noi salesiani abbiamo chiamato il campus per gli sfollati con il nome “Mariapolis” affidando questo luogo e gli abitanti del campus alla Vergine Maria. E Lei come la mamma sta accanto ad ogni uno in questi momenti di prova. Nel campus, ho allestito una cappella dedicata a Lei, dove c’è un’icona disegnata da una signora del campus proveniente dalla martoriata città di Kharkiv. La cappella è diventata per tutti residenti indipendentemente a che confessione di fede cristiana loro appartengono, luogo di incontro con Dio e con sé stessi.

Stare con loro, voler loro bene, accoglierli, ascoltarli, consolarli, incoraggiarli, pregare per loro e con loro e sostenerli in quello che posso, sono i momenti che fanno parte del mio servizio che ormai è diventata la mia vita in questo periodo. È una vera scuola di vita, di spiritualità, dove imparo moltissimo stando accanto alla loro sofferenza. Quasi tutti loro sperano che la guerra finisca presto e arrivi la pace, per poter tornare a casa. Ma per molti, quel sogno è ormai irrealizzabile: le loro case non esistono più. Cosi come posso cerco di offrire loro qualche appiglio di speranza, aiutandoli a incontrare Colui che non abbandona nessuno, che è vicino nelle sofferenze e nelle difficoltà della vita.

A volte mi chiedono di prepararli alla Riconciliazione: con Dio, con sé stessi, con la dura realtà che sono costretti a vivere. Altre volte, li aiuto nei bisogni più concreti: medicine, vestiti, pannoloni, visite in ospedale. Faccio anche il lavoro di amministratore insieme ai mie tre colleghi laici.  Ogni giorno, alle 17:00, preghiamo per la pace, e un piccolo gruppo ha imparato a recitare il Rosario, pregandolo quotidianamente.

Come salesiano cerco di essere attento ai bisogni dei ragazzi: sin dall’inizio io con aiuto degli animatori abbiamo creato oratorio all’interno del campus. Inoltre attività, gite, campeggi in montagna durante l’estate. Inoltre, uno degli impegni che porto avanti è seguire la mensa, per assicurare che nessuno delle persone residenti al campus rimanga senza un pasto caldo.

Tra gli abitanti del campus c’è il piccolo Maksym, che si sveglia nel cuore della notte, terrorizzato da ogni rumore forte. Maria, una madre che ha perso tutto anche il marito e ogni giorno sorride ai figli per non far pesare loro il dolore. Poi c’è Petro, 25 anni, che con la sua ragazza era in casa quando un drone russo ha lanciato una bomba. L’esplosione gli ha amputato le due gambe, mentre la sua ragazza è morta poco dopo. Petro è rimasto tutta la notte in fin di vita, finché i soldati lo hanno trovato al mattino e lo hanno portato in salvo. L’ambulanza non poteva avvicinarsi a causa dei combattimenti.
In mezzo a tanta sofferenza, continuo il mio apostolato con l’aiuto del Signore e il sostegno dei miei confratelli.

Noi salesiani di rito bizantino, insieme ai nostri 13 confratelli di rito latino presenti in Ucraina – in gran parte di origine polacca e appartenenti all’Ispettoria salesiana di Cracovia (PLS) – condividiamo profondamente il dolore e le sofferenze del popolo ucraino. Come figli di Don Bosco, continuiamo con fede e speranza la nostra missione educativo-pastorale, adattandoci ogni giorno alle difficili condizioni imposte dalla guerra.

Siamo accanto ai giovani, alle famiglie, e a tutti coloro che soffrono e hanno bisogno di aiuto. Desideriamo essere segni visibili dell’amore di Dio, affinché la vita, la speranza e la gioia dei giovani non siano mai soffocate dalla violenza e dal dolore.

In questa testimonianza comune, riaffermiamo la vitalità del nostro carisma salesiano, che sa rispondere anche alle sfide più drammatiche della storia. Le nostre due peculiarità, quella di rito bizantino e quella di rito latino, rendono visibile quell’unità inscindibile del Carisma Salesiano quanto affermano le Costituzioni Salesiane all’art. 100: “Il carisma del Fondatore è principio di unità della Congregazione e, per la sua fecondità, è all’origine dei modi diversi di vivere l’unica vocazione salesiana.

Crediamo che il dolore, la sofferenza non hanno l’ultima parola: e che nella fede, ogni Croce contiene già il seme della Risurrezione. Dopo questa lunga Settimana Santa, giungerà inevitabilmente la Risurrezione per Ucraina: verrà la vera e giusta PACE.

Alcune informazioni
Alcuni confratelli capitolari chiedevano delle informazioni sulla guerra in Ucraina. Permettetemi di dire qualche cosa in modo di un Flash. Una precisazione cha guerra in Ucraina non può essere interpretata come un conflitto etnico o una disputa territoriale tra due popoli con rivendicazioni contrapposte o diritti su un determinato territorio. Non si tratta di una lite tra due parti in lotta per un pezzo di terra. E dunque non è una battaglia tra pari. Quella in Ucraina è un’invasione, un’aggressione unilaterale. Qui si tratta di un popolo che ha aggradito impropriamente un all’altro. Una nazione, che fabbricò delle motivazioni infondate, inventandosi un presunto diritto, violando l’ordine e le leggi internazionali, decise di attaccare un altro Stato, violandone la sovranità e l’integrità territoriale, il diritto di decidere la propria sorte e direzione del proprio sviluppo, occupandone e annettendone dei territori. Distruggendo città e paesi, molti dei quali rasi al suolo, togliendo la vita a migliaia di civili. Qui c’è un aggressore e un aggredito: è proprio questa la peculiarità e l’orrore di questa guerra.
Ed è partendo da questo presupposto che dovrebbe essere concepita anche la pace che attendiamo. Una pace che ha il sapore della giustizia e essere basata sulla verità, non temporanea, non opportunistica, non una pace fondata sulle convenienze nascoste e commerciali, evitando di creare precedenti per regimi autocratici nel mondo che potrebbero un giorno decidere ad invadere altri Paesi, occupare o annettere una parte di un paese vicino o lontano, semplicemente perché lo desiderano o perché li piace così, o perché sono più potenti.
Un’altra assurdità di questa guerra non provocata e non dichiarata che l’aggressore vieta alla vittima il diritto di difendersi, cerca intimidire e minacciare tutti quelli in questo caso altri paesi che si schierano dalla parte di chi è indifeso e si mettono ad aiutare a difendersi e a resistere la vittima aggredita ingiustamente.

Alcune tristi statistiche
Dall’inizio dell’invasione del 2022 fino ad oggi (08.04.2025), l’ONU ha registrato e confermato i dati relativi a 12.654 morti e 29.392 feriti tra I CIVILI in Ucraina.

Secondo le ultime notizie disponibili verificate dell’UNICEF almeno 2.406 BAMBINI sono stati uccisi o feriti dall’escalation della guerra in Ucraina dal 2022. Le vittime infantili comprendono 659 BAMBINI UCCISI e 1.747 FERITI – ovvero almeno 16 bambini uccisi o feriti ogni settimana. Milioni di bambini continuano ad avere vite sconvolte a causa degli attacchi in corso o nel dover scappare ed evacuarsi in altri posti e paesi. I bambini del Donbas soffrono dalla guerra già da 11 anni.
La Russia ha avviato insieme al piano di un’invasione dell’Ucraina anche un programma di deportazioni forzate dei bambini ucraini. Ultimi dati dicono 20 000 bambini prelevati dalle case, detenuti per mesi e sottoposti a una forzata russificazione attraverso un’intensa propaganda prima dell’adozione forzata.

don Andrii Platosh, sdb






Venerabile Francesco Convertini, pastore secondo il Cuore di Gesu

Il venerabile don Francesco Convertini, salesiano missionario in India, emerge come un pastore secondo il Cuore di Gesù, forgiato dallo Spirito e totalmente fedele al progetto divino sulla sua vita. Attraverso le testimonianze di quanti l’hanno incontrato, si delineano la sua umiltà profonda, la dedizione incondizionata all’annuncio del Vangelo e il fervido amore per Dio e per il prossimo. Visse con gioiosa semplicità evangelica, affrontando fatiche e sacrifici con coraggio e generosità, sempre attento a chiunque incontrasse sul suo cammino.

1. Contadino nella vigna del Signore
            Presentare il profilo virtuoso di padre Francesco Convertini, missionario salesiano in India, un uomo che si è lasciato plasmare dallo Spirito e ha saputo realizzare la sua fisionomia spirituale secondo il disegno di Dio su di lui, è qualcosa di bello e di serio nello stesso tempo, perché richiama il senso vero della vita, come risposta a una chiamata, a una promessa, a un progetto di grazia.
            Molto originale è la sintesi tratteggiata su di lui da un sacerdote suo conterraneo, don Quirico Vasta, che conobbe padre Francesco nelle rare visite nella sua amata terra di Puglia. Questo testimone ci offre una sintesi del profilo virtuoso del grande missionario, introducendoci in modo autorevole e avvincente a scoprire qualcosa della statura umana e religiosa di questo uomo di Dio. «La “maniera” per misurare la statura spirituale di questo sant’uomo, di don Francesco Convertini, non è quella, analitica, di comparare la sua vita ai molteplici “parametri di condotta” religiosi (don Francesco, in quanto salesiano, accettò anche gli impegni propri di un religioso: la povertà, l’obbedienza, la castità e vi rimase fedele per tutta la vita). Al contrario, don Francesco Convertini appare, in sintesi, come fu realmente fin dall’inizio: un giovane contadino che, dopo – e forse a causa delle brutture della guerra –, si apre alla luce dello Spirito e, lasciando tutto, si pone al seguito del Signore. Da un lato sa quello che lascia; e lo lascia non solo con il vigore proprio del contadino meridionale, povero ma tenace; ma anche gioiosamente e con quella forza d’animo tutta personale che la guerra ha rinvigorito: quella di chi intende perseguire a testa bassa, ancorché silenziosamente e nel profondo dell’anima, ciò su cui ha concentrato l’attenzione. Dall’altro lato, sempre come un contadino, che ha colto in qualcosa o in qualcuno le “certezze” del futuro e la fondatezza delle proprie speranze e sa “di chi si sta fidando”; lascia che la luce di chi gli ha parlato lo ponga in condizioni di chiarezza operativa. E ne adopera fin da subito le strategie per conseguire lo scopo: la preghiera e la disponibilità senza misura, a qualunque costo. Non a caso, le virtù chiave di questo sant’uomo sono: l’azione silenziosa e senza clamori (cf. S. Paolo: “È quando sono debole che io sono forte”) e un rispettosissimo senso dell’altro (cf. Atti: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”).
Colto in tal modo, don Francesco Convertini risulta per davvero un uomo: schivo, incline a nascondere doti e meriti, alieno dal vantarsi, dolce con gli altri e forte con sé stesso, misurato, equilibrato, prudente e fedele; un uomo di fede, di speranza ed in abituale comunione con Dio; un religioso esemplare, nell’obbedienza, nella povertà, nella castità».

2. Tratti distintivi: “Sprigionava da lui un fascino, che ti sanava”
            Ripercorrendo le tappe della sua infanzia e giovinezza, della preparazione al sacerdozio e della vita missionaria, risulta evidente l’amore particolare di Dio per il suo servo e la corrispondenza di lui verso questo buon Padre. In particolare risaltano come tratti distintivi della sua fisionomia spirituale:

            – Illimitata fede-fiducia in Dio, incarnata nell’abbandono filiale alla divina volontà.
            Viveva una grandissima fiducia nella infinita bontà e misericordia di Dio e nei grandi meriti della passione e morte di Gesù Cristo, a cui tutto confidava e dal quale tutto si aspettava. Sulla salda roccia di tale fede si sobbarcò tutte le fatiche apostoliche. Freddo o caldo, pioggia tropicale o sole scottante, difficoltà o fatica, niente gli impedì di procedere sempre con fiducia, quando si trattava della gloria di Dio e della salvezza delle anime.

            – Incondizionato amore a Gesù Cristo Salvatore, a cui tutto offriva in sacrificio, cominciando dalla sua vita, consegnata alla causa del Regno.
            Padre Convertini si rallegrava della promessa del Salvatore e gioiva nella venuta di Gesù, come Salvatore universale e unico mediatore tra Dio e gli uomini: «Gesù ci diede tutto sé stesso morendo sulla croce e noi non saremo capaci di dare noi stessi a Lui completamente?».

            – Salvezza integrale del prossimo, perseguita con un’appassionata evangelizzazione.
            Gli abbondanti frutti della sua opera missionaria erano dovuti alla sua incessante preghiera e ai sacrifici senza risparmio fatti per il prossimo. Sono uomini e missionari di tale tempra che lasciano un solco indelebile nella storia delle missioni, del carisma salesiano e del ministero sacerdotale.
            Anche nel contatto con gli Indù, con i Musulmani, se da una parte era sollecitato da un vero desiderio di annuncio del Vangelo, che spesso portava alla fede cristiana, dall’altro si sentiva come obbligato a valorizzare quelle verità di fondo facilmente percepibili anche dai non cristiani, quali l’infinita bontà di Dio, l’amore del prossimo come via della salvezza e la preghiera come mezzo per ottenere grazie.

            – Incessante unione con Dio attraverso la preghiera, i sacramenti, l’affidamento a Maria Madre di Dio e nostra, l’amore alla Chiesa e al Papa, la devozione ai santi.
            Si sentiva figlio della Chiesa e la serviva con cuore di autentico discepolo di Gesù e missionario del Vangelo, affidato al Cuore Immacolato di Maria e nella compagnia dei santi sentiti come intercessori e amici.

            – Ascesi evangelica semplice e umile nella sequela della croce, incarnata in una vita straordinariamente ordinaria.
            Traspariva da tutta la sua persona la profonda umiltà, la povertà evangelica (portava con sé l’indispensabile), il volto angelico. Penitenza volontaria, controllo di sé: poco o quasi niente riposo, pasti irregolari. Si privava di tutto per donare ai poveri, anche i vestiti, le scarpe, il letto e il cibo. Dormiva sempre per terra. Digiunava a lungo. Con il passare degli anni contrasse parecchie malattie che minarono la sua salute: soffriva di asma, bronchiti, enfisema, mal di cuore… parecchie volte lo attaccavano in modo tale da costringerlo a stare a letto. Meravigliava come potesse sopportare tutto senza lamentarsi. Era proprio questo che gli attirava la venerazione degli indù, per cui egli era il “sanyasi”, colui che sapeva rinunciare a tutto per amor di Dio e per loro.

            La sua vita appare come una lineare ascesa verso le vette della santità nell’adempimento fedele della volontà di Dio e nella donazione di sé stesso ai fratelli, attraverso il ministero sacerdotale vissuto in fedeltà. Laici, religiosi ed ecclesiastici in modo concorde parlano del suo modo straordinario di vivere il quotidiano.

3. Missionario del Vangelo della gioia: «Ho annunziato loro Gesù. Gesù Salvatore. Gesù misericordioso»
            Non c’è stato un giorno in cui non sia andato da qualche famiglia per parlare di Gesù e del Vangelo. Padre Francesco aveva tale entusiasmo e zelo, da fargli sperare anche cose che sembravano umanamente impossibili. Padre Francesco divenne famoso come pacificatore tra le famiglie, o tra i villaggi in discordia. «Non è per mezzo delle discussioni che si arriva a capire. Dio e Gesù sono oltre le nostre discussioni. Bisogna soprattutto pregare e Dio ci darà il dono della fede. Per mezzo della fede si troverà il Signore. Non è forse scritto nella Bibbia che Dio è amore? Per la via dell’amore si giunge a Dio».

            Era un uomo pacificato interiormente e portava la pace. Voleva che tra la gente, nelle case o nei villaggi, non ci fossero alterchi, o risse, o divisioni. «Nel nostro villaggio eravamo cattolici, protestanti, indù e musulmani. Perché la pace regnasse tra di noi, di tanto in tanto il padre ci radunava tutti insieme e ci diceva come si poteva e si doveva vivere in pace tra di noi. Poi ascoltava coloro che volevano dire qualche cosa e alla fine, dopo aver pregato, dava la benedizione: un modo meraviglioso per conservare la pace tra di noi». Aveva una tranquillità d’animo veramente sorprendente; era la forza che gli veniva dalla certezza che aveva di fare la volontà di Dio, ricercata con fatica, ma poi abbracciata con amore una volta trovata.
            Un uomo che visse con semplicità evangelica, trasparenza di bambino, disponibilità ad ogni sacrificio, sapendo entrare in sintonia con ogni persona che incontrava sul suo cammino, viaggiando a cavallo, o in bicicletta, o più spesso camminando intere giornate a piedi con lo zaino sulle spalle. Appartenne a tutti senza distinzione di religione, di casta, di condizione sociale. Da tutti fu amato, perché a tutti portava “l’acqua di Gesù che salva”.

4. Un uomo dalla fede contagiosa: labbra in preghiera, rosario nelle mani, occhi al cielo
            «Noi sappiamo da lui che egli mai tralasciò la preghiera, sia quando si trovava con gli altri, sia quando era da solo, anche da soldato. Questo lo aiutò a fare tutto per Dio, specialmente quando faceva la prima evangelizzazione tra noi. Per lui non c’era tempo fisso: mattina o sera, sole o pioggia; caldo o freddo non erano un impedimento per lui, quando si trattava di parlare di Gesù o di fare del bene. Quando andava nei villaggi si sobbarcava a camminare anche di notte e senza prendere cibo pur di arrivare in qualche casa o in qualche villaggio per predicare il Vangelo. Anche quando fu messo come confessore a Krishnagar, veniva da noi per le confessioni durante il caldo soffocante del dopo pranzo. Gli dissi una volta: “Perché viene a quest’ora?”. Ed egli: “Nella passione, Gesù non scelse il suo tempo conveniente quando era condotto da Anna o Caifa o Pilato. Dovette farlo anche contro la sua volontà, per fare la volontà del Padre”.
            Evangelizzava non per proselitismo, ma per attrazione. Era il suo comportamento che attirava le persone. La sua dedizione e l’amore facevano dire alla gente che padre Francesco era la vera immagine del Gesù che predicava. L’amore di Dio lo portava a cercare l’intima unione con lui, a raccogliersi in preghiera, a evitare ciò che poteva dispiacere a Dio. Egli sapeva che si conosce Dio solo attraverso la carità. Soleva dire: “Ama Dio, non darGli dispiacere”».

            «Se c’era un sacramento in cui padre Francesco eccelleva in modo eroico, era l’amministrazione del sacramento della Riconciliazione. Per qualsiasi persona della nostra diocesi di Krishnagar dire padre Francesco è dire l’uomo di Dio che mostrava la paternità del Padre nel perdonare specialmente al confessionale. I suoi ultimi 40 anni di vita li spese più in confessionale che in ogni altro ministero: ore e ore, specialmente in preparazione alle feste e alle solennità. Così tutta la notte di Natale e di Pasqua o delle feste patronali. Era sempre puntualmente presente nel confessionale ogni giorno, ma specialmente nelle domeniche prima delle Messe o alla vigilia vespertina delle feste e al sabato. Poi si avviava verso altri luoghi dove lui era confessore abituale. Era un compito questo molto caro a lui e molto atteso da tutti i religiosi della diocesi, dai quali appunto si recava settimanalmente. Il suo confessionale era sempre il più affollato e il più desiderato. I sacerdoti, i religiosi, la gente comune: sembrava che padre Francesco conoscesse ciascuno personalmente, tanto era pertinente nei suoi consigli e nei suoi ammonimenti. Io stesso mi meravigliavo per la saggezza dei suoi ammonimenti quando mi confessavo da lui. Infatti il servo di Dio fu il mio confessore per tutta la sua vita, da quando era missionario nei villaggi, fino al termine dei suoi giorni. Dicevo tra me: “È proprio quello che volevo sentire da lui…”. Il vescovo Mons. Morrow, che si confessava da lui regolarmente, lo considerava la sua guida spirituale, dicendo che padre Francesco era guidato dallo Spirito Santo nei suoi consigli e che la sua santità personale suppliva alla mancanza di doni naturali».

            La fiducia nella misericordia di Dio era un tema quasi assillante nelle sue conversazioni, e lo utilizzò bene come confessore. Il suo ministero del confessionale era ministero di speranza per sé e per coloro che si confessavano da lui. Le sue parole ispiravano speranza in tutti coloro che andavano a lui. «Al confessionale il servo di Dio era il sacerdote modello, famosissimo nell’amministrare questo sacramento. Il servo di Dio ammaestrava sempre cercando di condurre tutti alla salvezza eterna… Al servo di Dio piaceva indirizzare le sue preghiere al Padre che è nei cieli, e così pure insegnava alla gente di vedere in Dio il Padre buono. Specialmente a chi si trovava in difficoltà, anche spirituali e ai peccatori pentiti, ricordava che Dio è misericordioso e che si deve sempre confidare in lui. Il servo di Dio aumentava le sue preghiere e mortificazioni per scontare le sue infedeltà, come egli diceva, e per i peccati del mondo».

            Eloquenti le parole di don Rosario Stroscio, superiore religioso, che così concluse l’annuncio del decesso di padre Francesco: «Quelli che hanno conosciuto don Francesco ricorderanno sempre con amore i piccoli avvisi e le esortazioni che egli soleva dare in confessione. Con la sua vocina così debole, eppure così piena di ardore: “Amiamo le anime, lavoriamo solo per le anime… Avviciniamo il popolo… Trattiamo con esso in modo che il popolo capisca che l’amiamo…”. Tutta la sua vita fu una magnifica testimonianza della tecnica più fruttuosa del ministero sacerdotale e del lavoro missionario. Possiamo sintetizzarla nella semplice espressione: “Per vincere anime a Cristo non c’è mezzo più potente della bontà e dell’amore!”».

5. Amava Dio e amava il prossimo per amor di Dio: Metti amore! Metti amore!
            A Ciccilluzzo, nome famigliare, che aiutava nei campi guardando i tacchini e facendo altri lavori adatti alla sua giovane età, la mamma Caterina soleva ripetere: «Metti amore! Metti amore!».
            «Padre Francesco diede a Dio tutto, perché era convinto che essendosi consacrato tutto a Lui come religioso e sacerdote missionario, Iddio aveva su di lui pieno diritto. Quando gli chiedevamo perché non andasse a casa (in Italia), ci rispondeva che ormai si era dato tutto a Dio e a noi». Il suo essere sacerdote era tutto per gli altri: «Io sono prete per il bene del prossimo. Questo è il mio primo dovere». Si sentiva debitore di Dio in tutto, anzi, tutto apparteneva a Dio e al prossimo, mentre lui si era donato totalmente, non riservandosi nulla: padre Francesco ringraziava continuamente il Signore per averlo scelto ad essere sacerdote missionario. Mostrava questo senso di gratitudine verso chiunque avesse fatto qualche cosa per lui, fosse anche il più povero.
            Diede esempi di fortezza in modo straordinario adattandosi alle condizioni di vita del lavoro missionario a lui assegnato: una lingua nuova e difficile, che cercò di imparare abbastanza bene, perché questo era il modo per comunicare con il suo popolo; un clima durissimo, quello del Bengala, tomba di tanti missionari, che imparò a sopportare per amore di Dio e delle anime; viaggi apostolici a piedi attraverso zone sconosciute, con il rischio di incontrare animali selvatici.

            Fu un missionario e un evangelizzatore instancabile in una zona difficilissima come quella di Krishnagar – che voleva trasformare in Crist-nagar, città di Cristo –, dove erano difficili le conversioni, senza dimenticare l’opposizione dei protestanti e dei membri di altre religioni. Per l’amministrazione dei sacramenti affrontò tutti i pericoli possibili: pioggia, fame, malattie, belve selvatiche, persone malevoli. «Ho sentito spesso l’episodio di padre Francesco, che una notte, portando il SS. Sacramento ad un ammalato, s’imbatté in una tigre che stava accovacciata sul sentiero dove lui e i suoi compagni dovevano passare… Mentre gli accompagnatori cercavano di fuggire, il servo di Dio ordinò alla tigre: “Lascia passare il tuo Signore!”; e la tigre si scostò. Ma ho sentito altri simili esempi sul servo di Dio, che moltissime volte viaggiava a piedi di notte. Una volta un gruppo di briganti lo assaltò, credendo di avere qualche cosa da lui. Ma quando lo videro così privo di ogni cosa eccetto ciò che portava addosso, si scusarono e lo accompagnarono fino al prossimo villaggio».
            La sua vita di missionario è stata un continuo viaggiare: in bicicletta, a cavallo e il più delle volte a piedi. Questo suo camminare a piedi è forse l’atteggiamento che meglio ritrae l’instancabile missionario e il segno dell’autentico evangelizzatore: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza» (Is 52,7).

6. Occhi limpidi e rivolti al cielo
            «Osservando il viso sorridente del servo di Dio e guardando ai suoi occhi limpidi e rivolti al cielo, si pensava che egli non fosse di quaggiù, ma del cielo». Nel vederlo, fin dalla prima volta molti riportavano un’impressione indimenticabile di lui: i suoi occhi splendenti che mostravano un volto pieno di semplicità e innocenza e la barba lunga e venerabile richiamavano l’immagine di una persona piena di bontà e compassione. Un testimone afferma: «Padre Francesco era un santo. Non saprei dare un giudizio, ma penso che persone simili non si trovino. Noi eravamo piccoli, ma egli parlava con noi, non disprezzava mai nessuno. Non faceva differenza tra musulmani e cristiani. Il padre andava da tutti allo stesso modo e quando ci trovavamo insieme ci trattava tutti nella stessa maniera. A noi piccoli dava consigli: “Obbedite ai genitori, fate bene i vostri compiti, amatevi tutti come fratelli”. Ci dava poi piccoli dolci: nelle sue tasche c’era sempre qualche cosa per noi».
            Padre Francesco manifestò il suo amore per Dio soprattutto con la preghiera, che sembrava essere senza interruzioni. Si poteva vederlo sempre muovendo le labbra in preghiera. Anche quando parlava con le persone, teneva gli occhi sempre sollevati come se stesse vedendo qualcuno a cui stava parlando. Ciò che maggiormente e spesso colpiva la gente era la capacità di padre Convertini di essere totalmente concentrato su Dio e, allo stesso tempo, sulla persona che stava di fronte a lui, guardando con occhi sinceri il fratello che incontrava sul suo cammino: «Aveva, senza alcun dubbio, i suoi occhi fissi sul volto di Dio. Questo era un tratto indelebile della sua anima, una concentrazione spirituale di impressionante livello. Ti seguiva attentamente e ti rispondeva con estrema precisione quando tu parlavi con lui. Eppure, tu avvertivi che egli era “altrove”, in un’altra dimensione, in dialogo con l’Altro».

            Alla conquista della santità incoraggiava altri, come nel caso del cugino Lino Palmisano che si preparava al sacerdozio: «Sono molto contento sapendoti già al tirocinio; anche questo passerà presto, se saprai approfittare delle grazie del Signore che ogni giorno ti darà, per trasformarti in un santo cristiano di buon senso. Ti attendono gli studi più soddisfacenti della teologia che nutrirà la tua anima di Spirito di Dio, il quale ha chiamato ad aiutare Gesù nel Suo apostolato. Non pensare ad altri, ma a te solo, del come diventare un santo sacerdote come Don Bosco. Anche a suo tempo Don Bosco diceva: i tempi sono difficili, ma noi faremo puf, puf, andremo avanti anche contro corrente. Era la mamma celeste che gli diceva: infirma mundi elegitDeus. Niente paura, io ti aiuterò. Caro fratello, il cuore, l’anima di un sacerdote santo agli occhi del Signore vale più di tutti i tesserati, il giorno del tuo sacrificio assieme a quello di Gesù sull’altare è vicino, preparati. Non ti pentirai mai di essere stato generoso verso Gesù e verso i Superiori. Confidenza in loro, essi ti aiuteranno a vincere le piccole difficoltà del giorno che la tua bell’anima potrà incontrare. Ti ricorderò nella S. Messa di ogni giorno, perché tu pure possa un giorno offrirti tutto al Buon Dio».

Conclusione
            Come all’inizio, così anche al termine di questo breve excursus sul profilo virtuoso di padre Convertini, ecco una testimonianza che sintetizza quanto presentato.
            «Una delle figure di pionieri che mi colpì profondamente fu quella del Venerando don Francesco Convertini, zelante apostolo dell’amore cristiano, che riuscì a portare la notizia della Redenzione nelle chiese, nelle zone parrocchiali, nei vicoletti e capanne dei rifugiati e con chiunque incontrava, consolando, consigliando, aiutando con la sua squisita carità: un vero testimone delle opere di misericordia corporali e spirituali, sulle quali saremo giudicati: sempre pronto e zelante nel ministero del sacramento del perdono. Cristiani di ogni confessione, musulmani e indù, accettavano con gioia e prontezza colui che chiamavano l’uomo di Dio. Egli sapeva portare a ciascuno il vero messaggio dell’amore, che Gesù predicò e portò in questa terra: con l’evangelico contatto diretto e personale, per piccoli e grandi, bambini e bambine, poveri e ricchi, autorità e paria (fuori casta), cioè l’ultimo e il più disprezzato gradino dei rifiuti (sub)umani. Per me e per molti altri, è stata un’esperienza sconvolgente che mi ha aiutato a capire e vivere il messaggio di Gesù: “Amatevi come io vi ho amati”».

            L’ultima parola è a padre Francesco, come un’eredità che consegna a ciascuno di noi. Il 24 settembre 1973, scrivendo ai parenti da Krishnagar, il missionario vuole coinvolgerli nel lavoro per i non cristiani che sta facendo con fatica dopo la sua ultima malattia, ma sempre con zelo: «Dopo sei mesi di ospedale la mia salute è un po’ debole, mi sembra di essere una pignatta rotta e rattoppata. Tuttavia il misericordioso Gesù mi aiuta miracolosamente nel Suo lavoro delle anime. Mi faccio portare in città e poi ritorno a piedi, dopo aver fatto conoscere Gesù e la nostra santa religione. Finite le confessioni a casa, vado tra i pagani, molto più buoni di certi cristiani. Aff.mo nel Cuore di Gesù, sacerdote Francesco».




Don Bosco International

Don Bosco International (DBI) è un’organizzazione non governativa con sede a Bruxelles, rappresenta i Salesiani di Don Bosco presso le istituzioni dell’Unione Europea, con focus su difesa dei diritti dei minori, sviluppo dei giovani e istruzione. Fondata nel 2014, DBI collabora con vari partner europei per favorire politiche sociali e educative inclusive, prestando attenzione ai soggetti vulnerabili. L’organizzazione promuove la partecipazione giovanile nella definizione delle politiche, valorizzando l’importanza dell’educazione informale. Attraverso attività di networking e advocacy, DBI mira a creare sinergie con le istituzioni europee, le organizzazioni della società civile e le reti salesiane a livello globale. I valori guida sono la solidarietà, la formazione integrale dei giovani e il dialogo interculturale. DBI organizza seminari, conferenze e progetti europei volti a garantire una maggiore presenza dei giovani nei processi decisionali, favorendo un contesto inclusivo che li sostenga nel percorso di crescita, autonomia e sviluppo spirituale, attraverso scambi culturali e formativi. La segretaria esecutiva, Sara Sechi, ci spiega l’attività di questa istituzione.

L’advocacy come atto di responsabilità per e con i nostri giovani
            Il Don Bosco International (DBI) è l’organizzazione che cura la rappresentanza istituzionale dei Salesiani di Don Bosco presso le istituzioni europee e le organizzazioni della società civile che ruotano intorno ad esse. La missione del DBI è incentrata sull’advocacy, traducibile in “incidenza politica”, quindi tutte quelle azioni mirate ad influenzare un processo decisionale-legislativo, nel nostro caso quello europeo. L’ufficio del DBI è basato a Bruxelles e viene ospitato dalla comunità salesiana di Woluwe-Saint-Lambert (Ispettoria FRB). Il lavoro nella capitale europea è dinamico e stimolante, ma la vicinanza della comunità ci permette di mantenere vivo il carisma salesiano nella nostra missione, evitando di restare intrappolati nella così detta “bolla europea”, quel mondo di relazioni e dinamiche ‘privilegiate’ spesso distanti dalle nostre realtà.
            L’azione del DBI segue due direzioni: da un lato, avvicinare la missione educativa-pastorale Salesiana alle istituzioni attraverso la condivisione di buone pratiche, istanze dei giovani, progetti e relativi risultati, creando degli spazi di dialogo e partecipazione per coloro che tradizionalmente non li avrebbero; dall’altro, portare la dimensione europea all’interno della Congregazione tramite il monitoraggio e l’informazione sui processi in atto e le nuove iniziative, la facilitazione di nuovi contatti con rappresentati istituzionali, ONG ed organizzazioni confessionali che possano dar vita a nuove collaborazioni.
            Una domanda che nasce spesso spontanea è come il DBI riesca a creare concretamente un’incidenza politica. Nelle azioni di advocacy è fondamentale il lavoro in rete con altre organizzazioni o entità che condividano principi, valori ed obiettivi. A tal proposito, il DBI garantisce una presenza attiva in alleanze, formali e informali, di ONG o attori confessionali che lavorano insieme su tematiche care alla missione di Don Bosco: la lotta alla povertà e l’inclusione sociale, la difesa dei diritti dei giovani, soprattutto quelli in situazione di vulnerabilità, e lo sviluppo umano integrale. Tutte le volte che una delegazione salesiana visita Bruxelles, facilitiamo per loro gli incontri con i Membri del Parlamento Europeo, i funzionari della Commissione, i corpi diplomatici, inclusa la Nunziatura Apostolica presso l’Unione Europea, ed altri attori di interesse. Spesso riusciamo ad incontrare i gruppi di giovani e studenti delle scuole salesiane che visitano la città, organizzando per loro un momento di dialogo con altre organizzazioni giovanili.
            Il DBI è un servizio che la Congregazione offre per dare visibilità alle proprie opere e portare nei fori istituzionali la voce di chi, altrimenti, non verrebbe ascoltato. La Congregazione Salesiana ha un potenziale di advocacy non totalmente espresso. La presenza in 137 Paesi a tutela dei giovani a rischio di povertà ed esclusione sociale rappresenta una rete educativa e sociale sulla quale poche organizzazioni possono contare; tuttavia, si fatica ancora a presentare strategicamente i buoni risultati ai tavoli decisionali, dove si delineano politiche e investimenti, soprattutto a livello internazionale. Per tale ragione, garantire un costante dialogo con le istituzioni, rappresenta allo stesso tempo un’opportunità ed un atto di responsabilità. Un’opportunità perché nel lungo periodo la visibilità facilita contatti, nuovi partenariati, finanziamenti per i progetti e la sostenibilità delle opere. Una responsabilità perché, non potendo restare in silenzio davanti alla difficoltà affrontate dai nostri ragazzi e ragazze nel mondo di oggi, l’incidenza politica è la testimonianza attiva di quell’impegno civico che spesso cerchiamo di generare nei giovani.
            Garantendo diritti e dignità per i ragazzi, Don Bosco è stato il primo attore di incidenza politica della Congregazione, per esempio attraverso la firma del primo contratto di apprendistato italiano. L’Advocacy rappresenta un elemento intrinseco della missione salesiana. Ai Salesiani non mancano l’esperienza, né le storie di successo, né le alternative concrete e innovative per affrontare le sfide attuali, ma spesso una coesione che permetta un lavoro in rete coordinato ed una comunicazione chiara e condivisa. Dando voce alle testimonianze autentiche dei giovani possiamo trasformare le sfide in opportunità, creando un impatto duraturo nella società che dia speranza per il futuro.

Sara Sechi
Don Bosco International – DBI, Bruxelles

Sara Sechi, Segretaria Esecutiva del DBI è presente a Bruxelles da due anni e mezzo. È figlia della generazione Erasmus+, che insieme ad altri programmi europei gli hanno garantito esperienze di vita e formazione altrimenti negate. È molto grata a Don Bosco e la Congregazione Salesiana, dove ha trovato meritocrazia, crescita ed una seconda famiglia. E noi gli auguriamo un buon e proficuo lavoro per la causa dei giovani.




Beato Luigi Variara: 150° della nascita

Quest’anno ricorre il 150° anniversario della nascita del Beato Luigi Variara, figura straordinaria di sacerdote e missionario salesiano. Nato il 15 gennaio 1875 a Viarigi, in provincia di Asti, Luigi crebbe in un ambiente ricco di fede, cultura e amore fraterno, che forgiò il suo carattere e lo preparò alla straordinaria missione che lo avrebbe portato a servire i più bisognosi in Colombia.
Dalla sua infanzia trascorsa nel Monferrato, in una famiglia segnata dall’influenza spirituale di Don Bosco, alla sua vocazione missionaria maturata a Valdocco, la vita del Beato Variara rappresenta un esempio luminoso di dedizione al prossimo e fedeltà a Dio. Ripercorriamo i momenti salienti della sua infanzia e formazione, offrendo uno sguardo sulla straordinaria eredità spirituale e umana che ci ha lasciato.

Da Viarigi ad Agua de Dios
            Luigi Variara nasce a Viarigi in provincia di Asti il 15 gennaio 1875, 150 anni or sono, da una famiglia profondamente cristiana. Il padre Pietro aveva ascoltato don Bosco nel 1856, quando era giunto in paese per predicare una missione. Quando nasce Luigi il papà Pietro aveva quarantadue anni ed era sposato in seconde nozze con Livia Bussa. Pietro aveva conseguito il diploma di maestro, amava la musica e il canto ed animava le funzioni parrocchiali come organista e come direttore del coro da lui stesso fondato. Era una presenza molto stimata e apprezzata nel paese di Viarigi. Quando Luigi nacque si era nel corso di un rigido inverno e per le circostanze della nascita, la levatrice giudicò prudente battezzare il neonato. Due giorni dopo vennero completati i riti battesimali.
            La fanciullezza di Luigi è contrassegnata dalle tradizioni locali e dalla vita di casa, un insieme culturale e spirituale che contribuì a modellare il carattere e a trasmettere validi contenuti alla crescita del ragazzetto e segnarne la futura vocazione missionaria in Colombia.
            Significativo è il rapporto di Luigi con papà Pietro, suo formatore e maestro, che gli trasmise il senso cristiano della vita, i primi rudimenti della scuola e l’amore per la musica e il canto: aspetti che, come sappiamo, segneranno la vita e la missione di Luigi Variara. Il fratello minore Celso così ricorda: “Pur non rivelando alcunché di eccezionale, Luigi era tutto bontà e amore nelle manifestazioni della sua vita, sia con i genitori, e in particolare con la mamma; sia con noi… Non ricordo che mio fratello abbia mai usato modi meno cortesi e meno fraterni con noi, fratelli più piccoli. Fedele e devoto frequentatore della chiesa e delle funzioni, passava il resto del tempo non già a divertirsi per strada, ma in casa, leggendo e studiando i suoi libri di scuola e tenendo compagnia alla mamma”.
            È bello ricordare anche il rapporto del piccolo Luigi con la sorella maggiore Giovanna, figlia del primo matrimonio e madrina al suo battesimo. Anche se si sposò giovane, Giovanna mantenne sempre un legame speciale con il piccolo Luigi contribuendo a rafforzare i lineamenti della sua personalità, la sua inclinazione alla pietà e allo studio. Dei figli di Giovanna uno, Ulisse, diventerà sacerdote, ed Ernestina, Figlia di Maria Ausiliatrice. Inoltre, Giovanna, che morirà novantenne nel 1947, mantenne i legami epistolari tra Luigi e la mamma Livia durante la vita missionaria del fratello.
            Un altro aspetto che influenzerà la crescita del piccolo Luigi è che la casa dei Variara era quasi sempre piena di fanciulli. Papà Pietro, al termine delle lezioni, portava con sé gli scolari più bisognosi e dopo aver fatto un po’ di ripetizione li affidava alle cure di mamma Livia. E così facevano le altre famiglie. Racconta una testimone: “La signora Livia era la mamma di tutto il vicinato; il suo cortile era sempre pieno di ragazzi e ragazze; essa ci insegnava a cucire, giocava con noi, si mostrava sempre di buon umore”. Luigi crebbe in questo clima “oratoriano”, dove ci si sentiva a casa, ci si sentiva amati e la presenza paterna di papà Pietro e quella materna di mamma Livia erano risorse educative e affettive di prima qualità non solo per i loro figli, ma per tanti altri bambini e ragazzi, soprattutto i più poveri e disagiati.
            In questi anni Luigi conosce e si dedica ad un compagno handicappato, Andrea Ferrari, prendendosi cura di lui e facendolo sentire a suo agio. In ciò si può scorgere un seme di quella sollecitudine e vicinanza che poi segnerà la vita e la missione di Luigi Variara a servizio dei malati di lebbra ad Agua de Dios in Colombia.
            Davvero Luigi Vararia da bambino e da fanciullo sperimentò, con i suoi fratelli e con i ragazzi del vicinato, l’amore sincero dei propri genitori e attraverso il loro esempio conobbe il vero volto di Dio Padre, sorgente dell’amore autentico.

Passando da Valdocco
           
Don Bosco era molto conosciuto nel Monferrato: lo aveva percorso in tutte le direzioni con le ben note passeggiate autunnali insieme ai suoi ragazzi che con i loro schiamazzi e l’allegria rumorosa e contagiosa portavano festa ovunque arrivavano. I ragazzi del posto si univano felici alla truppa allegra e chiassosa e in seguito non pochi se ne partivano per ritrovarsi con quel prete, affascinanti per farsi educare da lui nell’oratorio di Torino.
            A Viarigi era rimasto un ricordo molto sentito la visita di don Bosco avvenuta nel febbraio 1856. Don Bosco aveva accettato l’invito del parroco, don Giovanni Battista Melino, a predicare una missione, dato che il paese era profondamente turbato e diviso per gli scandali di un ex sacerdote, un certo Grignaschi, che radunava attorno a sé una vera e propria setta e riscuoteva grande popolarità. Don Bosco riuscì a guadagnare un uditorio molto numeroso e invitò la popolazione alla conversione; fu così che Viarigi ritrovò il suo equilibrio religioso e la pace spirituale. Il legame spirituale che si era creato tra questo paese astigiano e il Santo dei giovani si prolungò nel tempo e proprio il piccolo Luigi alla prima comunione fu preparato dal parroco don Giovanni Battista Melino, lo stesso che aveva invitato don Bosco a predicare la missione popolare.
            Nella famiglia Variara, secondo i desideri di papà Pietro, Luigi doveva orientarsi al sacerdozio, ma lui al termine delle elementari non aveva desideri o particolari inquietudini vocazionali. In ogni caso avrebbe dovuto continuare gli studi e a questo punto entra in gioco Don Bosco: il ricordo da lui lasciato a Viarigi, la sua fama di uomo di Dio, l’amicizia con il parroco, i sogni di papà Pietro, la fama dell’oratorio di Torino fecero sì che Luigi il 1° ottobre 1887 entrasse a Valdocco iscritto alla prima classe ginnasiale, con il desiderio del papà che voleva il figlio avviato al sacerdozio. Tuttavia, il giovane Luigi in tutta semplicità ma con fermezza non aveva esitato dichiarare che non sentiva vocazione, ma il papà ribatte: “Se non ce l’hai, Maria Ausiliatrice te la darà. Sii buono e studia!”. Don Bosco morirà quattro mesi dopo l’arrivo del giovane Variara all’oratorio di Valdocco, ma l’incontro che Luigi ne fece fu sufficiente a segnarlo per tutta la vita. Egli stesso così ricorda l’evento: «Eravamo nella stagione invernale e un pomeriggio stavamo giocando nell’ampio cortile dell’oratorio, quando all’improvviso s’intese gridare da una parte all’altra: “Don Bosco, Don Bosco!”. Istintivamente ci slanciammo tutti verso il punto dove appariva il nostro buon Padre, che facevano uscire per una passeggiata nella sua carrozza. Lo seguimmo fino al posto dove doveva salire sul veicolo; subito si vide Don Bosco circondato dall’amata turba infantile. Io cercavo affannosamente il modo per mettermi in un posto da dove potessi vederlo a mio piacere, poiché desideravo ardentemente di conoscerlo. Mi avvicinai più che potei e, nel momento in cui lo aiutavano a salire sulla carrozza, mi rivolse un dolce sguardo, e i suoi occhi si posarono attentamente su di me. Non so ciò che provai in quel momento… fu qualcosa che non so esprimere! Quel giorno fu uno dei più felici per me; ero sicuro d’aver conosciuto un Santo, e che quel Santo aveva letto nella mia anima qualcosa che solo Dio e lui potevano sapere».




Comunità della Missione di don Bosco, una storia di “famiglia” e di “profezia”

La Famiglia Salesiana, nata dall’intuizione di Don Bosco, ha continuato nel tempo a crescere e ad assumere forme diverse, pur conservando le stesse radici. Tra queste realtà rientra la Comunità della Missione di Don Bosco (CMB), un’associazione privata di fedeli con un carisma missionario, che dal 2010 fa ufficialmente parte della Famiglia Salesiana.


Le origini della CMB
            Tutto ebbe inizio nel 1983 a Roma, presso l’Istituto Gerini, durante un incontro di giovani Salesiani Cooperatori. Durante la Messa conclusiva, un segno chiaro e indelebile rimase impresso nel cuore e nella mente di alcuni partecipanti: la tua vita e la tua fede devono prendere una luce missionaria… in ogni posto dove sarai. Da questa intuizione prese vita la Comunità della Missione di Don Bosco, sorta come iniziativa dello Spirito e fondata all’Istituto Salesiano di Bologna.
            Abbiamo chiesto al diacono Guido Pedroni, fondatore e custode generale della CMB, di raccontare la storia di questa realtà. La CMB, composta da laici, è oggi presente in diverse parti del mondo. È una comunità missionaria nello stile e nelle scelte, profondamente radicata nello spirito salesiano e nella vita dei suoi fondatori. Accanto a Guido Pedroni, altri quattro laici hanno condiviso sin dall’inizio l’ideale della CMB: Paola Terenziani (scomparsa da alcuni anni e per la quale è stato avviato il processo per la causa di beatificazione), Rita Terenziani, Andrea Bongiovanni e Giacomo Borghi. A queste figure, riunite nella cosiddetta “Tenda Madre”, si è aggiunto di recente Daniele Landi, già presente alle origini della Comunità.

Una comunità mariana e missionaria
            È rilevante notare che la CMB è l’unico gruppo della Famiglia Salesiana fondato da un laico e nato da un’idea condivisa: un sogno missionario e comunitario. È profondamente mariana, poiché il gesto definitivo di appartenenza alla Comunità, l’Atto di Dedizione, è ispirato alla vita di Maria, tutta dedicata a Gesù. Come racconta Guido Pedroni, la CMB è nata da “da un’intuizione, l’Atto di Dedizione, che per noi è una vera e propria consacrazione a Dio e alla Comunità sull’esempio di Maria e di don Bosco”.

Lo stile e la spiritualità
            Lo stile della CMB si concretizza nel modo di vivere la fede, nell’aprire nuove presenze missionarie, nel realizzare progetti, nel porsi in relazione educativa e nello sperimentare la vita comunitaria. È uno stile segnato da intraprendenza, da qualcuno definita persino “temerarietà”, e si fonda su quattro pilastri: suscitare, coinvolgere, creare e credere. Suscitare motivazioni, coinvolgere le persone nell’azione, creare relazioni autentiche, credere nella Provvidenza dello Spirito che precede e custodisce ogni scelta.
            Per la CMB, vivere in uno “Stato di Missione” permanente significa testimoniare il Vangelo in ogni momento della giornata e in ogni luogo, sia esso l’Africa, l’America, l’Italia, un campo nomadi o un’aula scolastica. L’essenziale è sentirsi parte della missione della Chiesa, incarnata nello stile di Don Bosco a favore dei giovani.
            Tre sono i cardini della spiritualità della CMB:
            – Unità, costruita nel dialogo fraterno;
            – Carità, verso giovani e poveri, vissuta nella comunione;
            – Essenzialità, incarnata nella condivisione semplice e familiare tipica dello spirito salesiano.            Altri elementi distintivi sono il conferimento di un mandato specifico e la consapevolezza dello “Stato di Missione”. L’identità carismatica si radica nella spiritualità salesiana, arricchita da alcuni tratti propri della CMB, in particolare una spiritualità della ricerca e un atteggiamento di familiarità, che pongono le basi dell’unità tra i membri della Comunità e dell’Associazione.

Missioni e diffusione nel mondo
            Inizialmente la CMB era impegnata in attività missionarie a favore dell’Etiopia. Tuttavia, col tempo, l’impegno si è spostato dal solo tempo libero alla vita quotidiana, orientando le scelte fondamentali dell’esistenza. Il clima di profonda amicizia, la vita spirituale intensa scandita dalla Parola di Dio e il lavoro concreto per i poveri e per i giovani hanno portato alla Dedizione. Si è così compreso che la tensione missionaria non riguardava solo l’Etiopia, ma ogni luogo dove ci fosse bisogno.
            Nel 1988 venne redatta la prima Regola di Vita, mentre nel 1994 la CMB divenne un’Associazione con una propria struttura giuridica, per proseguire l’impegno missionario e le attività di animazione sul territorio bolognese.
            Tutte le presenze missionarie della CMB sono sorte da una chiamata e da un segno. Attualmente la Comunità è presente in Europa, Africa, America Meridionale e Centrale. La prima spedizione missionaria ebbe luogo nel 1998 in Madagascar; da allora si è diffusa in nove paesi: Italia, Madagascar, Burundi, Haiti, Ghana, Cile, Argentina, Ucraina e Mozambico. Le due più recenti “avventure” riguardano proprio il Mozambico e l’Ucraina.
            Nei prossimi mesi verrà aperta una nuova presenza in Mozambico. Nel settembre scorso, nella Basilica di Maria Ausiliatrice a Torino-Valdocco, è stato consegnato il crocifisso missionario ad Angelica e, idealmente, ad altri tre giovani di Madagascar e Burundi, assenti per motivi burocratici, che insieme a lei formeranno la prima comunità in quel Paese.
            In Ucraina, invece, diversi membri della CMB si sono recati più volte per portare aiuti a causa della guerra e ora, in dialogo con i Salesiani, stanno cercando di capire quale nuova sfida lo Spirito stia indicando.

Una vocazione di fiducia e servizio
            È evidente che la vocazione della CMB è missionaria e mariana, all’interno del carisma salesiano, ma possiede anche una sua identità peculiare, forgiata dalla storia e dai segni della presenza del Signore emersi nelle vicende della Comunità. È una storia intrecciata alla vita di Don Bosco e a quella delle persone che ne fanno parte. Non è mai stato facile restare fedeli alle chiamate dello Spirito, poiché esse invitano sempre ad allargare l’orizzonte, a fidarsi anche “al buio”.
            La missione della CMB è testimonianza e servizio, condivisione e fiducia in Dio. Testimonianza con la propria vita, servizio come azione educativa, condivisione frutto del discernimento comunitario e assunzione di responsabilità a tutto tondo, fiducia in Dio sull’esempio di Don Bosco, imparando gradualmente come i progetti possano acquisire luce e forma.

            Per saperne di più: www.associazionecmb.it

Marco Fulgaro




San Francesco di Sales, accompagnatore personale

            «Il mio spirito accompagna sempre il vostro», scriveva un giorno Francesco di Sales a Giovanna di Chantal, in un periodo in cui questa si sentiva assalita da tenebre e tentazioni. E aggiungeva: «Camminate dunque, cara Figlia, e avanzate nel cattivo tempo e durante la notte. Siate coraggiosa, mia cara Figlia; con l’aiuto di Dio, faremo molto». Accompagnamento, direzione spirituale, guida delle anime, direzione di coscienza, assistenza spirituale: sono altrettante formule pressappoco sinonime, in quanto designano questa forma particolare di educazione e formazione esercitata nell’ambito spirituale della coscienza individuale.

Formazione di un futuro accompagnatore
            La formazione ricevuta da giovane aveva preparato Francesco di Sales a diventare, a sua volta, direttore spirituale. Come studente presso i gesuiti di Parigi molto probabilmente ebbe un padre spirituale di cui ignoriamo il nome. A Padova era stato suo direttore Antonio Possevino; con questo famoso gesuita Francesco si feliciterà in seguito di esserne stato uno dei «figli spirituali». In occasione del suo tormentato cammino verso lo stato clericale, fu suo confidente e sostegno Amé Bouvard, un prete amico di famiglia, il quale lo preparò poi alle ordinazioni.
            All’inizio del suo episcopato affidò la cura della sua vita spirituale al padre Fourier, rettore dei gesuiti di Chambéry, «grande, erudito e devoto religioso», col quale stabilì «una particolarissima amicizia» e che gli fu molto vicino «col suo consiglio e avvertimenti». Durante parecchi anni si confessò regolarmente dal penitenziere della cattedrale, che chiamava «signor confratello carissimo e perfetto amico».
            Il soggiorno a Parigi del 1602 influì profondamente sullo sviluppo dei suoi doni di direttore d’anime. Inviato dal vescovo a trattare a corte alcuni affari della diocesi, ebbe poco successo sul piano diplomatico, ma questa prolungata visita nella capitale francese gli consentì di allacciare contatti con l’élite spirituale che si riuniva presso la dama Acarie, una donna eccezionale, mistica e padrona di casa allo stesso tempo. Divenuto suo confessore, ne osservava le estasi e l’ascoltava senza farle domande. «Oh! che sbaglio ho fatto – dirà più tardi –, per non aver approfittato abbastanza della sua santissima compagnia! Ella infatti mi aprì liberamente il suo animo; ma l’estremo rispetto che avevo per lei faceva sì che non osassi informarmi di una minima cosa».

Un’attività assillante «che rasserena e rincuora»
            Aiutare ogni singolo individuo, accompagnarlo personalmente, consigliarlo, correggerne eventualmente gli errori, incoraggiarlo, tutto ciò esige tempo, pazienza e un costante sforzo di discernimento. L’autore della Filotea parla per esperienza quando afferma nella prefazione:

È una fatica, lo confesso, guidare anime singole, ma una fatica che fa sentir leggeri, come quella dei mietitori e dei vendemmiatori, i quali non sono mai tanto contenti come quando hanno molto lavoro e molto da portare. È un lavoro che rasserena e rincuora, per la soavità che arreca a chi lo intraprende.

            Conosciamo questo settore importante della sua azione formativa specialmente dalla sua corrispondenza, ma va precisato che si fa direzione spirituale non soltanto per iscritto. Incontri personali e confessioni individuali ne fanno parte, anche se occorre distinguerli adeguatamente. Nel 1603, incontrò il duca di Bellegarde, grande personaggio del regno e grande peccatore, il quale, alcuni anni più tardi gli chiederà di guidarlo sul cammino della conversione. Il quaresimale che predicò a Digione l’anno seguente costituì una svolta nella sua «carriera» di direttore spirituale, perché incontrò Jeanne Frémyot, vedova del barone di Chantal.
            A partire dal 1605, la visita sistematica della sua vasta diocesi lo metterà in contatto con un numero infinito di persone di tutte le condizioni, soprattutto contadini e montanari, perlopiù analfabeti, i quali non ci hanno lasciato della corrispondenza. Predicando il quaresimale ad Annecy nel 1607, trovò nelle sue «sacre reti» una signora di ventun anni, «ma tutta d’oro», di nome Louise Du Chastel, la quale aveva sposato il cugino del vescovo, Henri de Charmoisy. Le lettere di direzione spirituale che Francesco invierà alla signora di Charmoisy serviranno come materiale di base per la redazione della sua futura opera, la Filotea.
            La predicazione di Grenoble del 1616, 1617 e 1618 gli procurò un considerevole numero di figlie e figli spirituali che, avendolo ascoltato sulla cattedra, cercheranno di contattarlo da vicino. Nuove Filotee lo seguiranno durante il suo ultimo viaggio a Parigi nel 1618-1619, dove faceva parte della delegazione di Savoia che stava negoziando il matrimonio del principe del Piemonte Vittorio Amedeo, con Cristina di Francia, sorella di Luigi XIII. Concluso il principesco matrimonio, Cristina lo sceglierà come suo confessore e «grande cappellano».

Il direttore è padre, fratello, amico
            Quando si rivolge alle persone da lui dirette, Francesco di Sales fa un uso abbondante, per non dire eccessivo, secondo il costume dell’epoca, di titoli e di appellativi tratti dalla vita familiare e sociale, come padre, madre, fratello, sorella, figlio, figlia, zio, zia, nipote, padrino, madrina, o servitore. Il titolo di padre significava autorità e allo stesso tempo amore e confidenza. Il padre «assiste» mediante consigli il figlio e la figlia usando saggezza, prudenza e carità. In quanto padre spirituale, il direttore è colui che in certi casi dice: Lo voglio! Francesco di Sales sapeva usare tale linguaggio, ma solo in circostanze del tutto speciali, come quando ordina alla baronessa di non evitare l’incontro con l’assassino del marito:

Mi avete chiesto come volevo che vi comportaste nell’incontro con colui che uccise il vostro signor marito. Rispondo per ordine. Non è necessario che ne cerchiate voi stessa la data e l’occasione. Però, se questa si presenta, voglio che l’accogliate con un cuore dolce, gentile e compassionevole.

            Una volta scrisse a una donna angosciata: «Ve lo ordino a nome di Dio», ma era per toglierle gli scrupoli. La sua autorità resta sempre umile, buona, anche tenera; il suo ruolo nei confronti delle persone da lui dirette, precisava nella prefazione della Filotea, consisteva in una particolare «assistenza», termine che appare due volte in tale contesto. L’intimità che si stabilirà tra lui e il duca di Bellegarde sarà tale da consentire a Francesco di Sales di rispondere alla richiesta del duca, usando non senza esitazione gli appellativi di «figlio mio» o di «monsignore figlio mio», ben sapendo che il duca era più vecchio di lui. Il risvolto pedagogico della direzione spirituale è sottolineato da un’altra immagine significativa. Dopo aver ricordato la veloce corsa della tigre per salvare il suo piccolo, mossa dalla forza dell’amore naturale, continua dicendo:

E quanto più volentieri un cuore paterno s’occuperà di un’anima che avrà trovato piena di desiderio della santa perfezione, portandola sul suo seno, come una madre il suo bambino, senza sentire il peso del caro fardello.

            Nei riguardi delle persone da lui dirette, donne e uomini, Francesco di Sales si comporta anche come un fratello, ed è in tale veste che sovente si presenta alle persone che ricorrono a lui. Antoine Favre è chiamato costantemente «mio fratello». In un primo momento si rivolge alla baronessa di Chantal usando l’appellativo «signora» (madame), successivamente passa a quello di «sorella», «questo nome, che è quello con cui gli apostoli e i primi cristiani usavano esprimere il loro amore vicendevole». Un fratello non comanda, dà consigli e pratica la correzione fraterna.
            Ma ciò che caratterizza meglio lo stile salesiano, è il clima amichevole e reciproco che unisce il direttore e la persona diretta. Come dice bene André Ravier, «non c’è, per lui, vera direzione spirituale se non c’è amicizia, cioè scambio, comunicazione, influsso reciproco». Non stupisce che Francesco di Sales ami i suoi referenti di un amore che testimonia loro in mille modi; meraviglia invece che desideri di essere da loro parimenti amato. Con Giovanna di Chantal, la reciprocità divenne tanto intensa da trasformare talvolta il «mio» e il «tuo» in un «nostro»: «Non mi è possibile distinguere il mio e il tuo in quello che ci riguarda, è nostro».

Obbedienza al direttore, ma in un clima di confidenza e di libertà
            L’obbedienza al direttore spirituale è una garanzia contro gli eccessi, le illusioni e i passi falsi compiuti il più delle volte per amor proprio; essa mantiene in un atteggiamento prudente e saggio. L’autore della Filotea la considera necessaria e benefica, senza ricalcarla; «l’umile obbedienza, tanto raccomandata e tanto praticata da tutti gli antichi devoti», fa parte di una tradizione. Francesco di Sales la raccomanda alla baronessa di Chantal nei confronti del suo primo direttore, ma indicandone il modo di viverla:

Lodo moltissimo il rispetto religioso che sentite per il vostro direttore, e vi esorto a conservarlo con molta cura; ma bisogna pure che vi dica ancora una parola. Questo rispetto vi deve indurre senza dubbio a perseverare nella santa condotta alla quale vi siete adattata così felicemente, ma non deve assolutamente impedire o soffocare la giusta libertà che lo Spirito di Dio dà a chiunque egli possiede.

            Ad ogni modo, è necessario che il direttore possegga tre qualità indispensabili: «Occorre che sia pieno di carità, di scienza e di prudenza: se una di queste tre gli manca, c’è del pericolo» (I I 4). Non pare proprio questo il caso del primo direttore della signora di Chantal. A detta del suo biografo, la madre de Chaugy, costui «la vincolò alla sua direzione» intimandole di non pensare mai a cambiarlo; erano «legami inopportuni che ne tenevano l’anima in trappola, coartata e senza libertà». Quando, dopo aver incontrato Francesco di Sales, volle cambiare di direttore, piombò in un mare di scrupoli. Questi, per rasserenarla le indicò un’altra via:

Eccovi qui la regola generale della nostra obbedienza, scritta in lettere molto grosse: OCCORRE FAR TUTTO PER AMORE, E NULLA PER FORZA; OCCORRE AMARE L’OBBEDIENZA PIÙ DI QUANTO SI TEME LA DISOBBEDIENZA. Vi lascio lo spirito di libertà: non quello che esclude l’obbedienza, ché, allora, si dovrebbe parlare della libertà della carne, ma quello che esclude la costrizione, lo scrupolo e la fretta.

            La modalità salesiana è fondata sul rispetto e sull’obbedienza dovuta al direttore, senza alcun dubbio, ma soprattutto sulla confidenza: «Abbiate in lui la massima confidenza, unita a una sacra riverenza, in modo che la riverenza non diminuisca la confidenza e la confidenza non impedisca la riverenza; fidatevi di lui con il rispetto di una figlia verso il proprio padre, rispettatelo con la confidenza di una figlia con la propria madre». La confidenza ispira semplicità e libertà, le quali favoriscono la comunicazione fra due persone, specialmente quando quella diretta è una giovane novizia timorosa:

Vi dirò, in primo luogo, che non dovete usare, nei miei riguardi, parole di cerimonia o di scusa, poiché, per volontà di Dio, sento per voi tutto l’affetto che potreste desiderare, e non saprei proibirmi di sentirlo. Amo il vostro spirito profondamente, perché penso che Dio lo vuole, e lo amo teneramente, perché vi vedo ancora debole e troppo giovane. Scrivetemi, dunque, con tutta confidenza e libertà, e chiedete tutto quello che vi parrà utile per il vostro bene. E questo sia detto una volta per sempre.

            Come si deve scrivere al vescovo di Ginevra? «Scrivetemi liberamente, sinceramente, semplicemente – diceva a una delle anime da lui dirette –. Su questo punto, non ho altro da dire, se non che non dovete mettere sulla lettera Monsignore né solo né accompagnato da altre parole: basta che mettiate Signore, e sapete perché. Io sono un uomo senza cerimonie, e vi amo e vi onoro con tutto il cuore». Questo ritornello ritorna di frequente all’inizio di una nuova relazione epistolare. L’affetto, quando è sincero e soprattutto quando ha la fortuna di essere corrisposto, autorizza la libertà e la massima franchezza. «Scrivetemi ogni volta che ne avete voglia – diceva a un’altra donna –, con piena confidenza e senza cerimonie; perché così occorre comportarsi in questa specie di amicizia». A un suo corrispondente chiedeva: «Non chiedetemi di scusarvi per il fatto che scrivete bene o male, perché non mi dovete altra cerimonia se non quella di amarmi». Questo vuol dire parlare «cuore a cuore». L’amore di Dio come l’amore del prossimo ci fa andare avanti «alla buona, senza tante moine» perché, così si esprimeva, «il vero amore non ha bisogno di un metodo». La chiave di tutto ciò è l’amore, per il fatto che «l’amore rende uguali gli amanti», l’amore cioè opera una trasformazione nelle persone che si amano, rendendole uguali, simili e allo stesso livello.

«Ogni fiore richiede una cura particolare»
            Mentre il fine della direzione spirituale è uguale per tutti, e cioè la perfezione della vita cristiana, le persone invece non sono tutte uguali, e appartiene all’arte del direttore saper indicare il cammino appropriato a ciascuno per raggiungere il comune scopo. Uomo del suo tempo, consapevole che le stratificazioni sociali erano una realtà, Francesco di Sales conosceva bene la differenza che c’era tra il gentiluomo, l’artigiano, il valletto, il principe, la vedova, la ragazza e la donna sposata. Ciascuno, infatti, dovrà produrre frutti «secondo la sua qualifica e professione». Ma il senso di appartenenza a un determinato gruppo sociale si coniugava bene, in lui, con la considerazione delle peculiarità del singolo individuo: occorre «adattare la pratica della devozione alle forze, attività e doveri di ognuno in particolare». Riteneva d’altronde che «i mezzi per raggiungere la perfezione sono diversi secondo la diversità delle vocazioni».
            La diversità dei temperamenti è un dato di fatto, di cui occorre tener conto. È rilevabile in Francesco di Sales un «fiuto psicologico» anteriore alle scoperte moderne. La percezione delle caratteristiche uniche di ogni persona è assai accentuata in lui ed è il motivo per cui ogni soggetto merita un’attenzione particolare da parte del padre spirituale: «In un giardino, ogni erba e ogni fiore richiede una cura particolare». Come un padre o una madre con i propri figli, egli si adatta all’individualità, al temperamento, alle situazioni particolari di ogni individuo. A questa persona, impaziente con sé stessa, delusa perché non progredisce come vorrebbe, raccomanda di amare sé stessa; a quest’altra, attirata dalla vita religiosa ma dotata di una forte individualità, consiglia uno stile di vita che tiene conto di queste due tendenze; a una terza che oscilla tra l’esaltazione e la depressione, suggerisce la pace del cuore tramite la lotta contro immaginazioni angoscianti. A una donna disperata a causa del carattere «spendaccione e frivolo» del marito, il direttore dovrà consigliare «il giusto mezzo e la moderazione» e i mezzi per superare la propria insofferenza. Un’altra, donna con la testa sul collo, con un carattere tutto d’un pezzo, piena di affanni e di processi, avrà bisogno di «santa dolcezza e tranquillità». Un’altra ancora è angustiata dal pensiero della morte e sovente depressa: il suo direttore le ispira coraggio. Ci sono anime che hanno mille desideri di perfezione; occorre calmarne l’impazienza, frutto del loro amor proprio. La famosa Angélique Arnauld, badessa di Port-Royal, vuol riformare il proprio monastero con la rigidità: occorre raccomandarle flessibilità e umiltà.
            Quanto al duca de Bellegarde, che si era immischiato in tutti gli intrighi politici e amorosi della corte, il vescovo lo incoraggia ad acquisire «una devozione maschia, coraggiosa, valorosa, invariabile per servire da specchio a molti, esaltando la verità dell’amore celeste, degna riparazione delle colpe passate». Nel 1613 stenderà per lui un Promemoria per far bene la confessione, contenente otto «avvisi» generali, una descrizione dettagliata «dei peccati contro i dieci comandamenti», un «esame riguardante i peccati capitali», i «peccati che si commettono contro i precetti della Chiesa», un «mezzo per discernere il peccato mortale da quello veniale», e infine «i mezzi per distogliere i grandi dal peccato della carne».

Metodo «regressivo»
            L’arte della direzione di coscienza richiede assai sovente al direttore di fare un passo indietro e di lasciare l’iniziativa al destinatario, o a Dio, soprattutto quando si tratta di fare delle scelte che esigono una decisione impegnativa. «Non prendete le mie parole troppo alla lettera – scrisse alla baronessa di Chantal –; non voglio che esse siano per voi un’imposizione, ma che conserviate la libertà di fare quello che stimate meglio». Scriverà ad esempio a una donna molto attaccata alle «vanità»:

Quando partiste, mi venne in mente di dirvi che dovevate rinunziare al muschio e ai profumi, ma mi contenni, per seguire il mio sistema, che è soave e cerca di attendere quei movimenti che, a poco a poco, gli esercizi di pietà sogliono suscitare nelle anime che si consacrano interamente alla divina Bontà. Il mio spirito, infatti, è estremamente amico della semplicità; e la roncola con la quale si usa tagliare i polloni inutili, la lascio abitualmente in mano a Dio.

            Il direttore non è un despota, ma uno che «guida le nostre azioni con i suoi avvisi e consigli», come dice all’inizio della Filotea. Si astiene dal comandare quando scrive alla signora di Chantal: «Sono consigli buoni e indicati per voi, ma non comandi». Costei d’altronde dirà, al processo di canonizzazione, che si rammaricava a volte perché non era guidata abbastanza con comandi. In effetti, il ruolo del direttore è definito dalla seguente risposta di Socrate a un discepolo: «Io avrò dunque cura di restituirti a te stesso migliore rispetto a ciò che sei». Come dichiarava sempre alla signora di Chantal, Francesco si era «votato», messo al «servizio» della «santissima libertà cristiana». Egli combatte per la libertà:

Vedrete che dico la verità e che combatto per una buona causa quando difendo la santa e amabile libertà dello spirito che, come sapete, onoro in modo tutto particolare, a condizione che sia vera e libera dalla dissipazione e dal libertinaggio, che non sono altro che una maschera di libertà.

            Nel 1616, durante un ritiro spirituale, Francesco di Sales fece fare alla stessa madre di Chantal un esercizio di «spogliazione», per ridurla «all’amabile e santa purezza e nudità dei bimbi». Era giunto il momento di farle fare il passo verso l’«autonomia» della persona diretta. Egli la invita, tra l’altro, a non «prendere nessuna nutrice» e a non continuare a dirgli – precisava – «che sarò sempre io a farle da nutrice», e, insomma, a essere disposta a rinunciare alla direzione spirituale di Francesco. Dio solo basta: «Non abbiate altre braccia che vi portano se non quelle di Dio, né altri seni su cui riposare se non il suo e la Provvidenza. […] Non pensate più all’amicizia né all’unità che Dio ha stabilito fra noi». Per la signora di Chantal la lezione è dura: «Dio mio! mio vero Padre, che avete inciso profondamente col vostro rasoio! potrò io rimanere a lungo in questo stato d’animo»? Ella si vede ormai «spogliata e nuda di tutto ciò che le era più prezioso». Francesco confessa pure lui: «E sì, anch’io mi trovo nudo, grazie a Colui che è morto nudo per insegnarci a vivere nudi». La direzione spirituale raggiunge qui il suo apice. Dopo una tale esperienza, le lettere spirituali diventeranno più rare e l’affetto sarà più contenuto a vantaggio di un’unità tutta spirituale.