14 Dic 2025, Dom

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Un viaggio può cambiare il modo di vedere le cose, soprattutto quando attraversa realtà ferite ma ancora vibranti. L’esperienza vissuta da Milena, giovane dell’animazione missionaria dell’Italia centrale, nelle opere salesiane di Bogotá, Cúcuta e Medellín ne è una prova concreta: la speranza nasce proprio nelle periferie più vulnerabili. In quartieri segnati da violenza, migrazioni forzate e povertà estrema, il carisma di Don Bosco continua a generare spazi di accoglienza, educazione e rinascita. Attraverso incontri, storie e piccoli gesti quotidiani, Milena scopre una luce capace di trasformare dolore e solitudine in futuro condiviso. Un racconto che invita a credere nel bene che cresce silenziosamente.

In Colombia, tra quartieri segnati da violenza, spaccio, migrazione forzata e precarietà sociale, le opere salesiane sono punti di luce che cambiano la vita di centinaia di ragazzi e famiglie. Il carisma di Don Bosco diventa qui accoglienza, educazione e futuro.
La prima tappa del viaggio è stata Bogotá, la capitale. Qui la presenza salesiana è radicata soprattutto nelle zone più fragili, tra cui il quartiere popolare di Ciudad Bolívar, dove sorge il centro Don Bosco Obrero. Una casa viva, che lavora ogni giorno con i ragazzi e, nei fine settimana, raggiunge anche le realtà più periferiche; una di queste è il “Rinconcito de Arabia”, un insediamento fatto di abitazioni abusive, costruite in lamiera e spesso immerse nel fango, senza strade, luce, acqua o servizi igienici.
Proprio qui ho vissuto una delle giornate più belle del mio viaggio. Il sabato, infatti, Don Bosco Obrero “visita el territorio”: un gruppo di animatori parte per incontrare i bambini dei quartieri più poveri portando giochi, canti e momenti di svago. Si cerca uno spazio libero e sicuro nelle vicinanze e lì nasce un piccolo oratorio a cielo aperto. Queste semplici visite diventano così un tempo di amicizia, distrazione, fraternità e spiritualità: un modo per far sentire quei bambini visti e amati; come a dire “Non importa quanto siete lontani o la zona in cui abitate, noi veniamo comunque per giocare con voi!”.
Prima dei giochi mi hanno invitata in una piccola casa fatta di lamiera: alcune signore (le mamás del Rinconcito) avevano preparato del caffè e delle sedioline per fare due chiacchiere. Ci tenevano a raccontarmi quanto i Salesiani avessero cambiato le loro vite: “Abbiamo imparato la fraternità, il sostegno reciproco, la forza di camminare insieme.” Una di loro ha parlato con orgoglio della “olla comunitaria”, il pentolone cucinato in strada ogni sabato: ognuno porta quel poco che ha in casa e si cucina tutto insieme, in modo che diventi un pasto sufficiente per tutti. Un gesto semplice ma potente, segno di una vera comunità.
Quel giorno hanno preparato la “olla” anche per me: abbiamo mangiato tutti insieme. Dopo i giochi e la preghiera sono rimasta a parlare con alcuni dei più giovani che abitano nel Rinconcito. Molti di loro mi hanno colpito per la voglia di studiare: una giovane mi ha detto che proprio grazie all’opera di Don Bosco Obrero ha potuto finalmente dedicarsi allo studio e ora sente che può inseguire i suoi sogni.
La casa di Don Bosco Obrero è molto più di un centro educativo: è un rifugio e un laboratorio di futuro. Durante il giorno si alternano corsi di alfabetizzazione e aiuto compiti, poi dalle 17:00 i cortili si animano con basket, calcio, attività circensi e laboratori di danza. I corsi, pensati per fasce di età diverse, permettono ai ragazzi di coltivare talenti e passioni, anche venendo da situazioni di estrema povertà.
La struttura ospita anche un internato: alcuni bambini e bambine vivono lì durante la settimana perché le loro famiglie non possono garantire un ambiente sicuro o perché affrontano situazioni di violenza o dipendenze. Le camerette, semplici ma ordinate, con letti a castello e piccoli armadietti, sono uno spazio di protezione e serenità. Gli educatori si alternano di notte, garantendo una presenza costante e affettuosa. Molti bambini hanno solo sette o otto anni: alcuni tornano a casa nel weekend, altri addirittura non vengono più cercati dai genitori. Qui però la loro infanzia viene custodita e salvata, e per loro la scuola, lo sport e l’arte diventano strumenti per sognare e costruire un futuro diverso.

Successivamente sono stata qualche giorno a Cúcuta, città al confine con il Venezuela. Qui la sfida quotidiana è accogliere famiglie e giovani che arrivano dopo lunghi e dolorosi viaggi, spesso con nulla se non il desiderio di ricominciare. La maggior parte dei ragazzi accolti dai Salesiani sono giovani venezuelani che vivono in strada, costantemente esposti a violenza, droga e prostituzione.
Nell’oratorio salesiano trovano un’alternativa concreta: un luogo dove giocare, imparare e crescere in un ambiente protetto. Molti di questi bambini e adolescenti non sono mai stati scolarizzati: alcuni sono analfabeti, altri hanno interrotto presto gli studi per scappare dal loro paese. L’opera si occupa di gestire corsi di alfabetizzazione, ma fa molto di più: non si tratta solo di istruzione, tanti ragazzi non hanno mai ricevuto una vera educazione comportamentale. La violenza è spesso la loro prima risposta perché è l’unica che hanno conosciuto. Nell’oratorio imparano che esistono regole, rispetto e relazioni sane. È un lavoro lento e costante ma fondamentale per le loro vite.
Qui ho visto prendere vita il messaggio evangelico dell’accoglienza: nessuno viene mai allontanato. Anche chi porta sulle spalle storie di droga, prostituzione o violenza estrema trova un posto, un sorriso, una possibilità. La massima accettazione, senza giudizio, è la base su cui i Salesiani di Cúcuta stanno ricostruendo speranza per questi giovani di frontiera.
Un’altra tappa molto significativa in questo viaggio è stata Medellín, dove sorge una delle opere salesiane più conosciute: Ciudad Don Bosco. È una grande casa che accoglie giovani provenienti da contesti molto complessi: ex membri della guerriglia, ragazzi tolti alle famiglie e affidati allo Stato per problemi di droga, violenza o prostituzione. I Salesiani credono che nessuna storia sia perduta.
Prima di ripartire ho avuto modo di raccogliere le parole di Esmeralda, una giovane volontaria che ha vissuto per alcuni mesi a Ciudad Don Bosco. Ricordo le nostre lunghe condivisioni e le sue bellissime riflessioni: «Quando sono arrivata ho sentito subito che quel luogo aveva un bagliore diverso. Non veniva dagli edifici né dalle persone che ci lavorano, ma dai giovani stessi. In ognuno di loro ho visto una piccola luce che, messa insieme alle altre, illumina tutta la casa».
Nel suo servizio Esmeralda ha imparato che dietro ogni gesto c’è una storia di dolore e di speranza: «Ho ascoltato racconti durissimi — diceva — ma anche visto sorrisi che nascono nonostante tutto. Ho capito che dove abbonda il dolore può nascere una gratitudine più profonda, quella che ti insegna ad apprezzare dettagli che altri non notano».
Poi ha usato un’immagine che porto ancora con me: “Ho riconosciuto ognuno di quei ragazzi nella loro forma più autentica, come diamanti o, come diciamo in Colombia, ‘un diamante en bruto’ (un diamante grezzo). Per me è stato un dono riconoscere in loro questa purezza nascosta.”
Esmeralda concludeva il suo racconto con parole che racchiudono l’essenza dello spirito salesiano: «In tre mesi a Ciudad Don Bosco ho imparato che un legame vero non dipende dal tempo trascorso insieme, ma dalla disponibilità ad aprire il cuore. I ragazzi mi hanno insegnato la forza dell’amore che non giudica, che accoglie e che educa. E ho capito che davvero si può “vincere il male con l’amore”.»
Infine, un giorno durante un semplice pranzo comunitario c’è stato un momento che ha racchiuso il senso del viaggio: un salesiano ha nominato due chiese di una zona che non ricordo, ma disse “Paz ed Esperanza” (Pace e Speranza); parlava del fatto che un’opera salesiana si trova tra questi due punti. Sembrava un dettaglio geografico, ma per me è diventato una sintesi perfetta: i Salesiani lavorano con la speranza per costruire la pace.
È stato emozionante scoprire che, dall’altra parte del mondo, dopo più di duecento anni, il carisma di Don Bosco è vissuto al cento per cento, esattamente come lui lo aveva immaginato: semplice, gioioso e concreto.

Milena D’Acunzo

Editor BSOL

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