25 Set 2025, Gio

Intervista al Rettor Maggiore, don Fabio Attard

⏱️ Tempo per lettura: 14 min.

image_pdfimage_print

Abbiamo preso un’intervista in esclusiva al Rettor Maggiore dei Salesiani, don Fabio Attard, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua vocazione e del suo percorso umano e spirituale. La sua vocazione è nata nell’oratorio e si è consolidata attraverso un percorso formativo ricco che lo ha portato dall’Irlanda alla Tunisia, da Malta a Roma. Dal 2008 al 2020 è stato Consigliere Generale per la Pastorale Giovanile, ruolo che ha svolto con una visione multiculturale acquisita attraverso esperienze in diversi contesti. Il suo messaggio centrale è la santità come fondamento dell’azione educativa salesiana: “Vorrei vedere una Congregazione più santa”, afferma, sottolineando che l’efficienza professionale deve radicarsi nell’identità consacrata.


Qual è la tua storia della vocazione?

Sono nato a Gozo, Malta, il 23 marzo 1959, quinto di sette figli. Al tempo della mia nascita, mio padre aveva il compito di farmacista in ospedale, mentre mia madre aveva avviato un piccolo negozio di tessuti e sartoria, che con il tempo è cresciuto fino a diventare una piccola catena di cinque negozi. Era una donna molto laboriosa, ma l’attività restava sempre a conduzione familiare.

Ho frequentato le scuole primarie e secondarie locali. Un elemento molto bello e particolare della mia infanzia è che mio padre era catechista laico presso l’oratorio, che fino al 1965 era stato diretto dai salesiani. Lui, da giovane, aveva frequentato quell’oratorio e vi era poi rimasto come unico catechista laico. Quando io iniziai a frequentarlo, a sei anni, i salesiani avevano appena lasciato l’opera. Subentrò un giovane sacerdote (che è ancora in vita) che proseguì le attività dell’oratorio nello stesso spirito salesiano, avendovi lui stesso vissuto da seminarista.
Si continuava con il catechismo, la benedizione eucaristica quotidiana, il calcio, il teatro, il coro, le gite, le feste… tutto quello che normalmente si vive in un oratorio. C’erano tanti bambini e ragazzi, ed io sono cresciuto in quell’ambiente. In pratica, la mia vita si svolgeva tra la famiglia e l’oratorio. Ero anche chierichetto nella mia parrocchia. Così, finita la scuola superiore, mi sono orientato verso il sacerdozio, perché fin da bambino avevo questo desiderio nel cuore.

Oggi mi rendo conto di quanto fossi stato influenzato da quel giovane sacerdote, che guardavo con ammirazione: era sempre presente con noi nel cortile, nelle attività dell’oratorio. Tuttavia, in quel tempo i salesiani non erano più presenti lì. Sono così entrato in seminario, dove all’epoca si facevano due anni di propedeutica come interni. Durante il terzo anno – che corrispondeva al primo anno di filosofia – conobbi un amico di famiglia di circa 35 anni, una vocazione adulta, che era entrato come salesiano aspirante (oggi è ancora in vita, ed è coadiutore). Quando fece questo passo, dentro di me si accese un fuoco. E con l’aiuto del mio direttore spirituale iniziai un discernimento vocazionale.
Fu un cammino importante ma anche impegnativo: avevo 19 anni, ma quella guida spirituale mi aiutò a cercare la volontà di Dio, e non semplicemente la mia. Così, l’ultimo anno – il quarto di filosofia – invece di seguirlo in seminario, lo vissi come aspirante salesiano, completando i due anni di filosofia richiesti.

In famiglia, l’ambiente era fortemente segnato dalla fede. Partecipavamo ogni giorno alla Messa, recitavamo il Rosario in casa, eravamo molto uniti. Anche oggi, benché i nostri genitori siano in Paradiso, manteniamo quella stessa unità tra fratelli e sorelle.

Un’altra esperienza familiare mi ha segnato profondamente, anche se me ne sono accorto solo col tempo. Mio fratello, il secondo della famiglia, è morto a 25 anni per insufficienza renale. Oggi, con i progressi della medicina, sarebbe ancora vivo grazie alla dialisi e ai trapianti, ma allora non c’erano tante possibilità. Gli sono stato accanto negli ultimi tre anni della sua vita: condividevamo la stessa stanza e spesso lo aiutavo di notte. Lui era un giovane sereno, allegro, che ha vissuto la sua fragilità con una gioia straordinaria.
Avevo 16 anni quando è morto. Sono passati cinquant’anni, ma quando ripenso a quel tempo a quell’esperienza quotidiana di vicinanza, fatta di piccoli gesti, riconosco quanto abbia segnato la mia vita.

Sono nato in una famiglia dove c’era fede, senso del lavoro, responsabilità condivisa. I miei genitori sono per me due esempi straordinari: hanno vissuto con grande fede e serenità la croce, senza mai far pesare nulla su nessuno, e al tempo stesso hanno saputo trasmettere la gioia della vita familiare. Posso dire di aver vissuto un’infanzia molto bella. Non eravamo ricchi, né poveri, ma sempre sobri, discreti. Ci hanno insegnato a lavorare, a gestire bene le risorse, a non sprecare, a vivere con dignità, con eleganza e, soprattutto, con attenzione verso i poveri e gli ammalati.


Come ha reagito la tua famiglia quando hai preso la decisione di seguire la vocazione consacrata?

Era arrivato il momento in cui, insieme al mio direttore spirituale, avevamo chiarito che la mia strada era quella dei salesiani. Dovevo anche comunicarlo ai miei genitori. Ricordo che era una sera tranquilla, stavamo mangiando insieme, solo noi tre. A un certo punto dissi: “Voglio dirvi qualcosa: ho fatto il mio discernimento e ho deciso di entrare tra i salesiani.”
Mio padre fu felicissimo. Mi rispose subito: “Che il Signore ti benedica.”. Mia madre invece iniziò a piangere, un po’ come fanno tutte le mamme. Mi chiese: “Allora ti allontani?” Ma mio padre intervenne con dolcezza e fermezza: “Che si allontani o no, questa è la sua strada.”
Mi benedirono e mi incoraggiarono. Sono momenti che restano impressi per sempre.

Ricordo in particolare quello che accadde verso la fine della vita dei miei genitori. Mio padre morì nel 1997, e sei mesi dopo a mia madre hanno scoperto un tumore inguaribile.
In quel periodo, i superiori mi avevano chiesto di andare come docente all’Università Pontificia Salesiana (UPS), ma non sapevo che decisione prendere. Mia madre non stava bene, era ormai prossima alla morte. Parlando con i miei fratelli, mi dissero: “Tu fai quello che ti chiedono i superiori.”
Mi trovavo a casa e ne parlai con lei: “Mamma, i superiori mi chiedono di andare a Roma.”
Lei, con la lucidità di una vera madre, mi rispose: “Senti figlio mio, se dipendesse da me, ti chiederei di restare qui, perché non ho nessun altro e non vorrei pesare sui tuoi fratelli. Ma…” – e qui disse una frase che mi porto nel cuore – “Tu non sei mio, tu appartieni a Dio. Fai quello che ti dicono i superiori.”
Quella frase, pronunciata un anno prima della sua morte, per me è un tesoro, un’eredità preziosa. Mia madre era una donna intelligente, sapiente, perspicace: sapeva che la malattia l’avrebbe portata alla fine, ma in quel momento seppe essere libera interiormente. Libera di dire parole che confermavano ancora una volta il dono che lei stessa aveva fatto a Dio: offrire un figlio alla vita consacrata.

La reazione della mia famiglia, all’inizio e fino alla fine, è stata sempre segnata da un profondo rispetto e da un grande sostegno. E anche oggi, i miei fratelli e sorelle continuano a portare avanti questo spirito.


Qual è stato il tuo percorso formativo dal noviziato fino ad oggi?

È stato un percorso molto ricco e variegato. Ho iniziato il prenoviziato a Malta, poi ho fatto il noviziato a Dublino, in Irlanda. Un’esperienza davvero bella.

Dopo il noviziato, i miei compagni si sono trasferiti a Maynooth per studiare filosofia all’università, ma io l’avevo già completata in precedenza. Per questo i superiori mi hanno chiesto di rimanere ancora al noviziato per un anno, dove ho insegnato italiano e latino. In seguito, sono tornato a Malta per svolgere due anni di tirocinio, che sono stati molto belli e arricchenti.

Successivamente, sono stato inviato a Roma per studiare teologia all’Università Pontificia Salesiana, dove ho trascorso tre anni straordinari. Quegli anni mi hanno dato una grande apertura mentale. Vivevamo nello studentato con quaranta confratelli provenienti da venti nazioni diverse: Asia, Europa, America Latina… anche il corpo docente era internazionale. Era la metà degli anni ’80, circa vent’anni dopo il Concilio Vaticano II, e si respirava ancora molto entusiasmo: c’erano vivaci confronti teologici, la teologia della liberazione, l’interesse per il metodo e la prassi. Quegli studi mi hanno insegnato a leggere la fede non solo come contenuto intellettuale, ma come una scelta di vita.

Dopo quei tre anni, ho proseguito con altri due di specializzazione in teologia morale presso l’Accademia Alfonsiana, con i padri redentoristi. Anche lì ho incontrato figure significative, come il celebre Bernhard Häring, con cui ho stretto un’amicizia personale e andavo regolarmente ogni mese a dialogare con lui. Sono stati cinque anni complessivi – tra baccalaureato e licenza – che mi hanno formato profondamente dal punto di vista teologico.

In seguito, mi sono offerto per le missioni, e i superiori mi hanno inviato in Tunisia, insieme a un altro salesiano, per ristabilire la presenza salesiana nel paese. Abbiamo rilevato una scuola gestita da una congregazione femminile che, non avendo più vocazioni, stava per chiudere. Era una scuola con 700 studenti, per cui abbiamo dovuto imparare il francese e anche l’arabo. Per prepararci, abbiamo trascorso alcuni mesi a Lione, in Francia, e poi ci siamo dedicati allo studio dell’arabo.
Sono rimasto lì tre anni. È stata un’altra grande esperienza, perché ci siamo trovati a vivere la fede e il carisma salesiano in un contesto dove non si poteva parlare esplicitamente di Gesù. Tuttavia, era possibile costruire percorsi educativi fondati sui valori umani: rispetto, disponibilità, verità. La nostra testimonianza era silenziosa ma eloquente. In quell’ambiente ho imparato a conoscere e ad amare il mondo musulmano. Tutti – studenti, docenti e famiglie – erano musulmani, e ci hanno accolti con grande calore. Ci hanno fatto sentire parte della loro famiglia. Sono tornato più volte in Tunisia e ho sempre riscontrato lo stesso rispetto e apprezzamento, al di là della nostra appartenenza religiosa.

Dopo quell’esperienza, sono rientrato a Malta e ho lavorato per cinque anni nel campo sociale. In particolare, in una casa salesiana che accoglie ragazzi bisognosi di un accompagnamento educativo più attento, anche in forma residenziale.

Dopo questi otto anni complessivi di pastorale (tra Tunisia e Malta), mi è stata offerta la possibilità di completare il dottorato. Ho scelto di tornare in Irlanda, perché il tema era legato alla coscienza secondo il pensiero del cardinale John Henry Newman, oggi santo. Completato il dottorato, il Rettor Maggiore dell’epoca, don Juan Edmundo Vecchi – di grata memoria – mi chiese di entrare come docente di teologia morale all’Università Pontificia Salesiana.

Guardando a tutto il mio cammino, dall’aspirantato fino al dottorato, posso dire che è stato un insieme di esperienze non solo di contenuti, ma anche di contesti culturali molto diversi. Ringrazio il Signore e la Congregazione, perché mi hanno offerto la possibilità di vivere una formazione così varia e ricca.


Allora conosci il maltese perché è la tua lingua madre, l’inglese perché è la seconda idioma a Malta, il latino perché lo hai insegnato, l’italiano perché hai studiato in Italia, il francese e l’arabo perché sei stato a Manouba, in Tunisia… Quante lingue conosci?

Cinque, sei lingue, più o meno. Però, quando mi chiedono delle lingue, io dico sempre che sono un po’ coincidenze storiche.
A Malta cresciamo già con due idiomi: il maltese e l’inglese, e a scuola si studia una terza lingua. Ai miei tempi si insegnava anche l’italiano. Poi, io ero naturalmente portato per le lingue, e scelsi anche il latino. In seguito, andando in Tunisia, è stato necessario imparare il francese e anche l’arabo.
A Roma, vivendo con tanti studenti di lingua spagnola, l’orecchio si abitua, e quando sono stato eletto come Consigliere per la Pastorale Giovanile, ho approfondito un po’ anche lo spagnolo, che è una lingua molto bella.

Tutte le lingue sono belle. Certo, impararle richiede impegno, studio, esercizio. C’è chi è più portato, chi meno: fa parte della disposizione personale. Ma non è un merito, né una colpa. È semplicemente un dono, una predisposizione naturale.


Dal 2008- al 2020 sei stato per due mandati Consigliere Generale della Pastorale Giovanile. Come ti ha aiutato la tua esperienza in questa missione?

Quando il Signore ci affida una missione, portiamo con noi tutto il bagaglio di esperienze che abbiamo accumulato nel tempo.
Avendo vissuto in contesti culturali diversi, non correvo il rischio di vedere tutto attraverso il filtro di una sola cultura. Sono europeo, vengo dal Mediterraneo, da un paese che è stato colonia inglese, ma ho avuto la grazia di vivere in comunità internazionali, multiculturali.

Mi hanno aiutato molto anche gli anni di studio all’UPS. Avevamo professori che non si limitavano a trasmettere contenuti, ma ci educavano a fare sintesi, a costruire un metodo. Per esempio, se si studiava storia della Chiesa, si capiva quanto fosse essenziale per comprendere la patristica. Se si affrontava la teologia biblica, si imparava a collegarla con la teologia sacramentale, con la morale, con la storia della spiritualità. Insomma, ci insegnavano a pensare in modo organico.
Questa capacità di sintesi, questa architettura del pensiero, diventa poi parte della tua formazione personale. Quando fai teologia, impari a individuare punti fermi e a collegarli. E lo stesso vale per una proposta pastorale, pedagogica o filosofica. Quando incontri persone con grande spessore, assorbi non solo quello che dicono, ma anche come lo dicono, e questo forma il tuo stile.

Un altro elemento importante è che, al momento della mia elezione, avevo già vissuto esperienze in ambienti missionari, dove la religione cattolica era praticamente assente, e avevo lavorato con persone emarginate e vulnerabili. Avevo anche maturato una certa esperienza nel mondo universitario, e, parallelamente, mi ero molto dedicato all’accompagnamento spirituale.

Inoltre, tra il 2005 e il 2008 – proprio dopo l’esperienza all’UPS – l’Arcidiocesi di Malta mi aveva chiesto di fondare un Istituto di Formazione Pastorale, a seguito di un Sinodo diocesano che ne aveva riconosciuto la necessità. L’arcivescovo mi affidò il compito di avviarlo da zero. La prima cosa che feci fu costruire un’équipe con sacerdoti, religiosi, laici – uomini e donne. Abbiamo dato vita a un nuovo metodo formativo, che viene ancora utilizzato oggi. L’istituto continua a funzionare molto bene, e in qualche modo quell’esperienza ha rappresentato una preparazione preziosa per il lavoro che ho svolto successivamente nella pastorale giovanile.
Fin dall’inizio ho sempre creduto nel lavoro di équipe e nella collaborazione con i laici. La mia prima esperienza come direttore fu proprio in questo stile: un’équipe educativa stabile, oggi diremmo una CEP (Comunità Educativo-Pastorale), con incontri sistematici, non occasionali. Ci vedevamo ogni settimana con gli educatori e i professionisti. E questo approccio, che nel tempo è diventato un metodo, è rimasto per me un riferimento.

A tutto questo si aggiunge anche l’esperienza accademica: sei anni come docente all’Università Pontificia Salesiana, dove arrivavano studenti da oltre cento nazioni, e poi come esaminatore e direttore di tesi di dottorato all’Accademia Alfonsiana.

Credo che tutto ciò mi abbia preparato a vivere quella responsabilità con lucidità e visione.

Così, quando la Congregazione, durante il Capitolo Generale del 2008, mi ha chiesto di assumere questo incarico, portavo già con me una visione ampia, multiculturale. E questo mi ha aiutato, perché mettere insieme diversità non mi risultava faticoso: era parte della normalità. Certo, non si trattava semplicemente di fare una “macedonia” di esperienze: bisognava trovare i fili portanti, dare coerenza e unità.

Quello che ho potuto vivere come Consigliere Generale non è stato un merito personale. Credo che qualsiasi salesiano, se avesse avuto le stesse opportunità e il sostegno della Congregazione, avrebbe potuto vivere esperienze analoghe e dare il proprio contributo con generosità.


C’è una preghiera, una buonanotte salesiana, un’abitudine che non manchi mai da fare?

La devozione a Maria. In casa siamo cresciuti con il Rosario quotidiano, recitato in famiglia. Non era un obbligo, era qualcosa di naturale: lo facevamo prima di mangiare, perché mangiavamo sempre insieme. Allora era possibile. Oggi forse lo è meno, ma allora si viveva così: la famiglia riunita, la preghiera condivisa, la mensa comune.

All’inizio forse non mi rendevo conto di quanto fosse profonda quella devozione mariana. Ma col passare degli anni, quando si comincia a distinguere ciò che è essenziale da ciò che è secondario, ho capito quanto quella presenza materna abbia accompagnato la mia vita.
La devozione a Maria si esprime in forme diverse: il Rosario quotidiano, quando possibile; un momento di sosta davanti a un’immagine o a una statua della Madonna; una preghiera semplice, ma fatta con il cuore. Sono gesti che accompagnano il cammino di fede.

Naturalmente ci sono alcuni punti fermi: l’Eucaristia quotidiana e la meditazione quotidiana. Sono pilastri che non si discutono, si vivono. Non solo perché siamo consacrati, ma perché siamo credenti. E la fede la si vive solo nutrendola.
Quando la nutriamo, cresce in noi. E solo se cresce in noi, possiamo aiutare perché cresca anche negli altri. Per noi, che siamo educatori, è evidente: se la nostra fede non si traduce in vita concreta, tutto il resto diventa facciata.

Queste pratiche – la preghiera, la meditazione, la devozione – non sono riservate ai santi. Sono espressione di onestà. Se ho fatto una scelta di fede, ho anche la responsabilità di coltivarla. Altrimenti, tutto si riduce a qualcosa di esteriore, di apparente. E questo, nel tempo, non regge.


Se potessi tornare indietro, faresti le stesse scelte?

Assolutamente sì. Nella mia vita ci sono stati momenti molto difficili, come succede a tutti. Non voglio passare per la “vittima di turno”. Credo che ogni persona, per crescere, debba attraversare fasi di oscurità, momenti di desolazione, di solitudine, di sentirsi tradita o accusata ingiustamente. E io questi momenti li ho vissuti. Ma ho avuto la grazia di avere accanto un direttore spirituale.

Quando si vivono certe fatiche accompagnati da qualcuno, si riesce a intuire che tutto ciò che Dio permette ha un senso, ha uno scopo. E quando si esce da quel “tunnel”, si scopre di essere una persona diversa, più matura. È come se, attraverso quella prova, siamo trasformati.

Se fossi rimasto solo, avrei rischiato di prendere decisioni sbagliate, senza visione, accecato dalla fatica del momento. Quando si è arrabbiati, quando ci si sente soli, non è il momento di decidere. È il momento di camminare, di chiedere aiuto, di farsi accompagnare.

Vivere certi passaggi con l’aiuto di qualcuno è come essere una pasta messa nel forno: il fuoco la cuoce, la rende matura. Perciò, alla domanda se cambierei qualcosa, la mia risposta è: no. Perché anche i momenti più difficili, anche quelli che non capivo, mi hanno aiutato a diventare la persona che sono oggi.

Mi sento una persona perfetta? No. Ma sento di essere in cammino, ogni giorno, cercando di vivere davanti alla misericordia e alla bontà di Dio.

E oggi, mentre rilascio questa intervista, posso dire con sincerità che mi sento felice. Forse non ho ancora compreso pienamente cosa significhi essere Rettor Maggiore – ci vuole del tempo – ma so che è una missione, non una passeggiata. Porta con sé le sue difficoltà. Tuttavia, mi sento amato, stimato dai miei collaboratori e da tutta la Congregazione.

E tutto quello che sono oggi, lo sono grazie a ciò che ho vissuto, anche nei passaggi più faticosi. Non li cambierei. Mi hanno reso ciò che sono.


Hai qualche progetto che ti sta particolarmente a cuore?

Sì. Se chiudo gli occhi e immagino qualcosa che davvero desidero, vorrei vedere una Congregazione più santa. Più santa. Più santa.

Mi ha ispirato profondamente la prima lettera di don Pascual Chávez del 2002, intitolata “Siate santi”. Quella lettera mi ha toccato dentro, mi ha lasciato un segno.
I progetti sono molti, e tutti validi, ben strutturati, con visioni ampie e profonde. Ma che valore hanno, se vengono portati avanti da persone che non sono sante? Possiamo fare un lavoro eccellente, possiamo anche essere apprezzati – e questo, di per sé, non è negativo –, ma noi non lavoriamo per ottenere successo. Il nostro punto di partenza è un’identità: siamo persone consacrate.

Ciò che proponiamo ha senso solo se nasce da lì. È chiaro che desideriamo che i nostri progetti abbiano successo, ma ancora di più desideriamo che portino grazia, che tocchino le persone nel profondo. Non basta essere efficienti. Dobbiamo essere efficaci, nel senso più profondo: efficaci nella testimonianza, nell’identità, nella fede.
L’efficienza può esistere anche senza alcun riferimento religioso. Possiamo essere ottimi professionisti, ma non basta. La nostra consacrazione non è un dettaglio: è il fondamento. Se diventa marginale, se la mettiamo da parte per fare spazio all’efficienza, allora perdiamo la nostra identità.

E la gente ci osserva. Nelle scuole salesiane, si riconosce che i risultati sono buoni – ed è un bene. Ma ci riconoscono anche come uomini di Dio? Questa è la domanda.
Se ci vedono solo come bravi professionisti, allora siamo solo efficienti. Ma la nostra vita deve nutrirsi di Lui – Via, Verità e Vita – non di ciò che “io penso” o che “io voglio” o di “quello che mi sembra”.

Quindi, più che parlare di un progetto mio personale, preferisco parlare di un desiderio profondo: diventare santi. E parlarne in modo concreto, non idealizzato.
Quando don Bosco parlava ai suoi ragazzi di studio, sanità e santità, non si riferiva a una santità fatta solo di preghiera in cappella. Pensava a una santità vissuta nella relazione con Dio e alimentata dalla relazione con Dio. La santità cristiana è il riflesso di questa relazione viva e quotidiana.


Che consigli daresti a un giovane che si interroga sulla vocazione?

Gli direi di scoprire, passo dopo passo, qual è il progetto di Dio per lui.
Il cammino vocazionale non è una domanda che si fa, aspettando poi una risposta pronta da parte della Chiesa. È un pellegrinaggio. Quando un ragazzo mi dice: “Non so se farmi salesiano o no”, cerco di allontanarlo da quella formulazione. Perché non si tratta semplicemente di decidere: “Mi faccio salesiano”. La vocazione non è un’opzione in relazione a ina “cosa”.

Anche nella mia propria esperienza, quando dissi al mio direttore spirituale: “Voglio diventare salesiano, devo esserlo”, lui, con molta calma, mi fece riflettere: “È davvero la volontà di Dio? Oppure è solo un tuo desiderio?”

Ed è giusto che un giovane cerchi ciò che desidera, è una cosa sana. Ma chi accompagna ha il compito di educare quella ricerca, di trasformarla da entusiasmo iniziale in cammino di maturazione interiore.
“Vuoi fare del bene? Bene. Allora conosci te stesso, riconosci di essere amato da Dio.”
È solo a partire da quella relazione profonda con Dio che può emergere la vera domanda: “Qual è il progetto di Dio per me?”
Perché ciò che oggi desidero, domani potrebbe non bastarmi più. Se la vocazione si riduce a ciò che “mi piace”, allora sarà qualcosa di fragile. La vocazione è invece una voce interiore che interpella, che chiede di entrare in dialogo con Dio, e di rispondere.

Quando un giovane arriva a questo punto, quando viene accompagnato a scoprire quello spazio interiore dove abita Dio, allora inizia davvero a camminare.
E per questo, chi accompagna deve essere molto attento, profondo, paziente. Mai superficiale.

Il Vangelo di Emmaus è un’immagine perfetta: Gesù si avvicina ai due discepoli, li ascolta anche se sa che stanno parlando con confusione. Poi, dopo averli ascoltati, comincia a parlare. E loro, alla fine, lo invitano: “Resta con noi, perché si fa sera.”
E lo riconoscono nel gesto di spezzare il pane. Poi si dicono: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli parlava lungo la via?”

Oggi molti giovani sono in ricerca. Il nostro compito, come educatori, è non essere frettolosi. Ma aiutarli, con calma e gradualità, a scoprire la grandezza che è già nel loro cuore. Perché lì, in quella profondità, incontrano Cristo. Come dice sant’Agostino: “Tu eri dentro di me, e io fuori. E lì ti cercavo.”


Avresti un messaggio da trasmettere oggi alla Famiglia Salesiana?


È lo stesso messaggio che ho condiviso anche in questi giorni, durante l’incontro della Consulta della Famiglia Salesiana: La fede. Radicarci sempre di più nella persona di Cristo.

È da questo radicamento che nasce una conoscenza autentica di don Bosco. I primi salesiani, quando vollero scrivere un libro sul vero don Bosco, non lo intitolarono “Don Bosco apostolo dei giovani”, ma “Don Bosco con Dio” – un testo scritto da don Eugenio Ceria nel 1929.
E questo ci fa riflettere. Perché loro, che lo avevano visto in azione ogni giorno, non scelsero di sottolineare il don Bosco instancabile, organizzatore, educatore. No, vollero raccontare il don Bosco profondamente unito a Dio.
Chi lo ha conosciuto bene non si è fermato alle apparenze, ma è andato alla radice: don Bosco era un uomo immerso in Dio.

Alla Famiglia Salesiana dico: abbiamo ricevuto un tesoro. Un dono immenso. Ma ogni dono comporta una responsabilità.
Nel mio discorso finale ho detto: “Non basta amare don Bosco, bisogna conoscerlo.”
E possiamo conoscerlo davvero solo se siamo persone di fede.

Dobbiamo guardarlo con lo sguardo della fede. Solo così possiamo incontrare il credente che fu don Bosco, in cui lo Spirito Santo ha agito con forza: con dýnamis, con cháris, con carisma, con grazia.
Non possiamo limitarci a ripetere certe sue massime o a raccontare i suoi miracoli. Perché corriamo il rischio di fermarci sulle storielle di Don Bosco, invece di fermarci sulla storia di Don Bosco, perché Don Bosco è più grande di Don Bosco.
Questo significa studio, riflessione, profondità. Significa evitare ogni superficialità.

E allora potremo dire con verità: “Questa è la mia fede, questo è il mio carisma: radicati in Cristo, sui passi di Don Bosco.”

Da Editor BSOL

Editore del sito